La Rivoluzione della Volta

di Diana LaFenice
(/viewuser.php?uid=1005073)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Premessa 2.0 ***
Capitolo 3: *** Libro primo: Un giro attorno al Sole ***
Capitolo 4: *** Una rosa bianca ***
Capitolo 5: *** Come rovinarsi la vacanza in una semplice mossa ***
Capitolo 6: *** Senza Cosmo, eppure... ***
Capitolo 7: *** Stendendo tappeti di rose sulla Bocca dell'Ade ***
Capitolo 8: *** Miracolo nella disperazione ***
Capitolo 9: *** Maschere, sogni e cimiteri ***
Capitolo 10: *** La canzone del fantasma ***
Capitolo 11: *** Frecce nel cielo, coraggio di servi ***
Capitolo 12: *** La sottile luce dell'aurora ***
Capitolo 13: *** Un'infinità di scale (Km 1) ***
Capitolo 14: *** Ancella del Grande Tempio ***
Capitolo 15: *** Annidato nelle Ombre ***
Capitolo 16: *** Libro secondo: Le preghiere della Luna ***
Capitolo 17: *** Il Tempio della Giustizia, il Tempio della Vendetta ***
Capitolo 18: *** Chrysos Synaigen ***
Capitolo 19: *** Una macchia mediterranea di smeraldi ***
Capitolo 20: *** Scorpioni, Serpenti e Armature ***
Capitolo 21: *** Il Karma delle Sacre Vestigia ***
Capitolo 22: *** La libertà delle farfalle ***
Capitolo 23: *** Il lato oscuro di un guerriero ***
Capitolo 24: *** I campi della Dea ***
Capitolo 25: *** Quia Averno Tributes ***
Capitolo 26: *** Rafting all'Inferno ***
Capitolo 27: *** Le tre Porte ***
Capitolo 28: *** Il Cacciatore di Serpenti ***
Capitolo 29: *** Libro Terzo: La Voce delle Stelle ***
Capitolo 30: *** Ci sono anch'io ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


E, quand'anche il dodicesimo morirà,
il tredicesimo, tutti in vita li riporterà...


«Sapevi che esistono ben più di ottantotto costellazioni, nella volta celeste? Alcune sono scomparse, altre esistono già, alcune sono visibili a occhio nudo e altre ancora devono ancora nascere. Invece, alcune sono talmente lontane che non possono essere viste neanche col telescopio più potente del mondo. Io le conosco tutte, io le vedo e le sento tutte. Eccole, sono proprio qui davanti a me, le sento sulla punta delle dita».

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Premessa 2.0 ***


Premessa 2.0

Astrid
«La mia storia è la tua stessa storia, solo un capitolo indietro». O almeno è ciò che vorrei dire a uno qualsiasi dei miei compagni di classe, che ha avuto una carriera negli ambiti che si erano scelti. Gesù, ancora ricordo la faccia del mio prof di filosofia quando sparai che volevo fare la scrittrice. Mi guardò come a dire: “Tu non sai mica scrivere”. E, infatti, scrittrice non ci sono diventata, ma solo perché tra me e l’obiettivo s’è frapposto qualcosa di più grande: un Tempio, con Santuari e abitanti annessi e connessi e con i suoi problemi, che tocca sempre a me a risolvere. Sono diventata un’ancella del Grande Tempio dei Cavalieri della Dea Atena. Che poi, alla realtà dei fatti, non sarei niente di meno e niente di più di una colf.
E, qui snocciolo tanti di quei porconi da tirare giù tutto il Parlamento italiano. Sì, sono italiana e sì, piuttosto che prendermela con le divinità, preferisco scagliarmi con il sistema governativo del mio Paese d’origine, nonostante io mi trovi in Grecia. Sì, perché è colpa loro se io mi trovo qui. Se quei monarchi non dichiarati facessero il proprio lavoro come Dio comanda, io non mi ritroverei in un altro Paese, con una situazione politica altrettanto drammatica e, a fare da corvee a un’organizzazione votata a una divinità. Scusate, adesso mi calmo, dovete sapere che ho un carattere tendente alla rabbia.
Dicevo... La mia assunzione non fu esattamente una delle più canoniche.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Libro primo: Un giro attorno al Sole ***


Libro primo: Un giro attorno al Sole


I due mi guardarono allibiti neanche avessi detto che sapevo parlare marziano. Poi, lo svedese si sciolse in un sorriso e mi domandò: «Ti piacciono le rose, ragazzina?»

***

Quegli esseri emanavano brucianti ondate di calore, roventi come le fiamme. "Atena, dammi la forza" pregasti.
Le scheletriche mani delle creature erano sempre più vicine.

***

«L'uccellino non canta».
«Allora la faremo cantare.»

***

A pochi metri dinanzi a te c'era una macchia di pini alti quasi venti metri. I raggi del sole filtravano tra i rami altissimi, immergendo il luogo in un'atmosfera quasi magica. E, davanti a te, una ragazza vestita di bianco. Lei si accorse di te e ti guardò da sopra una spalla.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Una rosa bianca ***


Una rosa bianca


Astrid
In quel periodo succedevano molte cose strane. Gli astronomi avevano rilevato la presenza di una serie di buchi neri che stavano comparendo ai lati della nostra galassia. Ma, al momento, non era nulla di preoccupante. Mio padre e mio nonno erano i primi a chiamarmi per parlare dell’argomento. Forse non avrei neanche dovuto sorprendermi più di tanto, in fondo erano rispettivamente un astronomo e un astrofisico e, io, essendo cresciuta con loro, li capivo meglio di chiunque altro. E forse avrei anche sentito i loro discorsi... se solo mi fossi presa la briga di rispondere al telefono. Non avevo voglia di parlare con loro. Avevo ben altro cui pensare. Tipo la mia vita. Allora lavoravo per un locale molto grande e famoso nella riviera laziale, il Kazablanc. Non era, come penso si sia già capito, il mio sogno. Non ero neanche una barista, figuratevi un po’, ero la guardarobiera, e non era che fosse chissà quanto remunerativo. Era stato mio nonno a trovarmi questo lavoro perché, secondo lui, non stava bene che dessi ripetizioni d’ italiano e matematica a dei ragazzini. «Non la nipote di uno dei più grandi astronomi del pianeta, no; non sia mai». E, qui, vatti a fidare dei parenti... Per ora restavo lì perché mi servivano altri soldi, ma col cavolo che sarei rimasta inchiodata a quella città e a quel locale per il resto dei miei giorni. A volte gettavo un’occhiata nel mondo grazie ai nostri potenti quanto efficienti e manipolabili mass media, e, a parte strane nuove sulla marea, che si era improvvisamente abbassata, una strage nel bel mezzo del Congo, un nuovo cataclisma in Siberia e le solite rassicuranti notizie sullo scoppio di un possibile conflitto mondiale, non ci fu niente che reputai interessante.

Era il tramonto quando mi preparai per andare al lavoro. La mia divisa era una camicia nera lunga fino alle ginocchia, con una cinta a cingermi la vita e pantaloni e scarpe dello stesso colore che mi facevano apparire un fantasma per contrasto con la mia carnagione pallida. Mi spazzolai i capelli biondi lunghi fino all’ombelico, di quel biondo talmente chiaro che d’estate, schiarendo, avrebbe potuto passare per bianco e mi guardai. «Coraggio, ce la puoi fare». Dissi a me stessa incrociando gli occhi gialli contornati d’oro e screziati con venature ocra e macchioline argentee del mio riflesso. Molti in passato mi avevano fatto i complimenti per gli occhi ma era da un pezzo che non li sentivo più. E, quelli sul posto di lavoro, mentre ero in servizio, purtroppo, non valevano. Non da ubriaconi quasi attempati che potevano essere i miei nonni o da ragazzetti imberbi e acnosi, o single di varia età e sesso che non tocca una donna dal Pleistocene. Ma gli estremi sopraccitati sono rari, ormai questo posto era passato di moda, ed era frequentato solo da quarantenni. Non sapete quante volte piansi di nascosto per questo e per essere qui, legata a quel contratto, che, purtroppo, mi permetteva di vivere. Ormai neanche mi vestivo bene o truccavo più per evitare attenzioni indesiderate. E, voi direte, ma una vita sociale questa povera crista non l’ha? No, non più da quando avevo lasciato l’università per inseguire quel sogno che poi si era arenato. E, allora, tutti i rapporti e i legami che avevo costruito si erano sfilacciati e altri erano caduti come cavi elettrici tranciati dalla pinza di un elettricista impazzito. C’ero rimasta male, ma alla solitudine c’ero abituata. Era la mia compagna di giochi e la mia peggior nemica di sempre.
Figurarsi che mi veniva da parlare con qualcuno che non esisteva e non sarebbe mai potuto esistere. Forse con quei personaggi ormai così sfocati sul fondale della mia mente da sembrare nebbia, che desideravano essere messi su carta. Ma che le parole rifiutavano di seguire il tracciato di delineazione per farli nascere davvero. Perché per quanto ci provassi, nessuno mi ascoltava o leggevo quello scrivevo e, non perché non ci provassi, ma perché le case editrici mi scartavano a priori.
E, allora mi ritrovavo a parlare con questa sorta di amico immaginario, o di lettore, come se fossi il personaggio di un libro di seconda categoria e stessi cercando di sfondare la quarta parete. «La ragazza cerca una via di fuga da una realtà insoddisfacente». Direbbe uno psicologo e, nella mia pre adolescenza, uno psicologo lo frequentai davvero, dopo che i miei mi ritrovarono coperta di ferite e priva di sensi sotto un ciliegio del parco dell’ampia villa di famiglia della mia tata. Adesso quelle ferite non ci sono più ma ripensarci fa ancora male.
I primi tempi cercai di raccontare la mia versione allo psicologo, ma questi non mi credette e decretò che la mia vita era talmente piatta che avevo cercato una via di fuga nella fantasia. Finendo, però, per rimetterci la pelle. Forse un principio di schizofrenia? Chi può dirlo, dal momento che mi bastò rientrare sui binari della normalità, convincermi che avessero ragione con tutta la forza e la convinzione di una bambina che non vuole perdere l’affetto dei propri genitori per innescare la rimozione. E, questo è tutto quello che so, perché queste fantasie nemmeno le ricordo più. In compenso, se ci pensavo, sentivo una vuoto doloroso, dai contorni dello strappo di una ferita aperta e pulsante all’altezza del cuore. Una ferita emanante una tristezza che, aleggiando, risaliva la mia persona fino ad annidarsi e condensarsi agli angoli dei miei occhi e colare giù, sulle mie guance, ad ogni singulto che mi scuoteva il petto.
Un gioco che ha superato i contorni del passatempo per trasformarsi in una fuga da una realtà che non mi piaceva, una fuga che per poco, non mi avrebbe sottratto al mondo alla tenera età di dieci anni. Così disse lo psicologo.
Io preferivo vederla come una sorta di suicidio ma senza suicidarsi davvero.
La serata si annunciava noiosa come al solito. Magari può essere interessante lavorare in una discoteca, direte voi. Invece no, non è così. Non se ci lavoravi da anni, non se stavi al guardaroba e non se la tua famiglia aveva l’assurda abitudine di conoscersi in discoteche e metterci a lavorare almeno uno dei suoi membri. E, il Kazablanc esisteva da tanto tempo, che, almeno buona parte della mia famiglia, si era formata lì. E, pare quasi che i miei si aspettassero che onorassi la tacita tradizione di famiglia. Anche per questo rifiutavo complimenti, numeri di telefono e simili; non mi andava di onorare a mia volta questa tradizione. Da una parte mi dispiaceva, ma dall’altra proprio no; volevo essere libera di decidere io con chi stare. Fortuna che, almeno, mi lasciavano vivere da sola.
Raccolsi le mie cose e mi avviai al lavoro facendo il triste bilancio della mia vita sulle note di una canzone della mia playlist. Non so quale, non ci feci molto caso, in quel momento. Non stavo molto lontano e si apriva verso le nove, perciò ne approfittai per fermarmi in un bar per consumare un aperitivo e continuare per la mia strada, cioè fino alla libreria affacciata sulla strada per guardare le novità. Forse avrei dovuto smettere di farlo, mi ricordava troppo quello che mi ero lasciata alle spalle e i miei genitori, che mi ridevano dietro per le mie scelte. Contrassi il viso in una smorfia di fastidio e dolore e, voltai definitivamente la schiena alla vetrina.
Mi recai finalmente al lavoro, raggiungendolo in una ventina di minuti. Una volta entrata salutai tutti. Alcuni si avvicinarono e risposero cordialmente e altri, che conoscevo da più tempo, mi scoccarono due lievi baci sulle guance: «Ciao, Astrid», e «Ciao, com’è andata la settimana?» per poi dileguarsi subito alle loro postazioni. A nessun trentacinquenne o quarantenne interessava davvero la settimana di una ventenne.
Sospirai rassegnata.
Il lato positivo era che, almeno, il guardaroba era piuttosto esterno rispetto al resto della sala.
Il Kazablanc era stato ricavato da un vecchio capannone ed era strutturato così: c’erano due sale, una davanti all’altra, una più grande dell’altra. Disadorne, se escludevamo qualche colonna di sostegno.
I miei colleghi al bancone nelle sale adiacenti lavoravano praticamente su tavoli di compensato e il dj su un palco nell’altra sala.
La musica si sentiva grazie all’impianto stereo che era collegato a tutte le sale.
Di sicuro Sharon, la cassiera, era messa peggio di me, lei era quasi sull’entrata e d’inverno, non era una bella cosa, se eri freddoloso come lei.
Raggiunsi il bancone e ne approfittai per scambiare qualche vuota chiacchiera con Denise, una delle veterane. Passò mezz’ora e, il locale aprì i battenti e dovetti dirigermi alla mia postazione, vicina, troppo, all’ingresso della prima sala. Il che significava che, a causa dei rimbombi e del volume spropositato, sarei stata costretta a urlare per farmi udire.
“Che un’altra serata di merda abbia inizio”. Pensai facendo un respiro profondo.
Allo scoccare delle dieci e mezzo entrarono i primi clienti e mi calcai sulla faccia la mia maschera di cordialità migliore. Spesso Giovanni, il principale, ponderò di affibbiarmi un aiutante, ma non ce ne fu mai realmente bisogno. Lo capivo da come guardava me e il guardaroba, alle volte. Poi, alle undici, con l’arrivo del dj, la serata iniziò davvero. I clienti facevano avanti indietro per alternare una cicca, un parcheggio, un drink o una birra a una canzone. Mai droghe, Giovanni aveva una politica molto ferrea sulle droghe. Infatti nessun drogato e nessuno spacciatore osava avventurarsi nei pressi del locale o entrarci.
Tornai a concentrarmi sul via vai del clienti per rifuggire alla noia. Alcuni erano i soliti habitué, che ormai chiamavo per nome e altri erano nuovi. Cosa rara, per questo posto, ormai. La novità vera arrivò quando di fronte a me si presentarono due tizi della mia età. «Carne fresca!», come avrebbe detto Denise. Salutai entrambi con un sorriso e un «Buonasera».
Il primo era uno svedese dai capelli lunghi e mossi di un improbabile verde mare che doveva essere per forza tinto, ma che faceva pendant con gli occhi dello stesso colore. Il viso sembrava quello di una ragazza, con tanto di neo sotto l’occhio (beauty mark, avevo sentito dire) e anche le movenze lo erano. Se non fosse per qualche piccolo dettaglio, tipo la voce profonda, la camicia e i pantaloni che evidenziavano le linee semplici del suo corpo, avrei giurato che fosse davvero una donna. «Sei sicuro che sia questo il posto?» E, quando parlò, mi tornò in mente un mio amico del liceo che aveva fatto il cosplay di Lady Oscar. Anche se la domanda che pose trapelava disgusto, con un’inflessione che non avevo mai udito prima. Se non mi offesi, fu perché ero d’accordo con lui. «Sì, o almeno, l’ultima volta che ci venni mi divertii molto». Rispose l’altro guardandosi intorno, un po’ spaesato, come se non riconoscesse il posto o cercasse di ricordare dettagli che mi sfuggivano. Mi domandai in che anni ci fosse venuto, perché non rammentavo di averlo mai visto. Ma io non rammentavo un mucchio di persone, perciò... Quest’ultimo aveva i capelli scuri, più corti che sembravano passati per il tunnel del vento, invece che col phon, per l’assurda piega che avevano. Un pizzetto che lo invecchiava e gli occhi di un azzurro spettrale che risaltavano sull’incarnato più scuro rispetto al compagno. A differenza dell’altro indossava una canottiera nera e pantaloni rossi con stivali e il suo dopobarba era l’alcol, a giudicare dalla zaffata che m’investì; bourbon rye whisky, per essere precisi. Sensazione ancor più accentuata quando mi porsero le giacche. Dico giacche perché era aprile e, le persone cominciavano a smettere i cappotti pesanti. Prima di metterle via gli spiegai (con la sgraziata voce che mi ritrovavo, quando strillavo) come funzionava per ritirare le giacche e mi pagarono e si presero il loro numerino. Lui, si accorse che lo stavo annusando, e si ritrasse infastidito guardandomi malissimo. L’amico (o forse dovrei dire il suo ragazzo) si avvicinò e domandò cosa fosse successo facendomi diventare scarlatta per la vergogna. E, stavolta, fui investita da un altro profumo, se possibile, ancora più intenso, di rose e l’entusiasmo s’impossessò di me. «Scusi, lei fa il fioraio?» Gli domandai sorridente. Quest’ultimo mi guardò sorpreso e rispose: «No, perché me lo chiede?»
«Perché si sente che questo profumo è naturale e non artificiale. Io le so riconoscere, sa? Le rose, intendo».
«Davvero?» Domandò incuriosito e interessato, ma gli occhi gli brillavano come se avesse trovato qualcuno che lo capisse. L’amico cercò di trascinarlo via: «Dai, andiamo o la serata finirà!» L’altro s’impuntò e nel suo sguardo trovai una esortazione a continuare: «Certo, ognuna di esse ha un profumo diverso, a seconda della specie e del colore. Per esempio, addosso alla sua giacca ho sentito...». Richiamai alla memoria quell’odore «Rose bianche, rose rosse e... anche un altro che non riconosco».
Adesso i due mi guardarono allibiti neanche avessi detto che sapevo parlare marziano. Poi, lo svedese si sciolse in un sorriso e mi domandò: «Ti piacciono le rose, ragazzina?» Passando direttamente al tu, mentre l’altro scoppiò a ridere di gusto.
«Sì». Ammisi. Lui sorrise e fece comparire dal nulla una rosa bianca e senza spine, in virtù di chissà quale gioco di prestigio e me la porse. Il compagno cambiò completamente espressione e chiese, allarmato: «Aphrodite! Cosa stai facendo?» intanto che io accettavo e ringraziavo. La annusai e sul mio volto sbocciò un sorriso. Era da tantissimo tempo che non ne sentivo il profumo. «Non ti preoccupare, Death Mask», rispose l’altro senza staccarmi gli occhi di dosso, «questa è normale, non le succederà niente». L’altro (Death Mask?) si rilassò e si mise le mani in tasca. Lo guardai intimorita staccando il naso dal bocciolo. “Perché dice così? Ah, ho capito, forse teme che io abbia una reazione allergica” oppure finora aveva incontrato solo questa tipologia di persone. Poverino, che sfortuna.
Dopodiché lo svedese cambiò ancora espressione, quando incontrò il mio sguardo: «Oh, che occhi! Perché non li ho notati prima? Death Mask, hai visto? Sono luminosi come il sole, di un giallo profondo e ferino contornato da un disco d’oro e con screziature di ambra e tempestati di pagliuzze argentee. Non credevo esistessero occhi così! Sono veramente splendidi». Arrossii imbarazzata.
«Sì, certo che li ho visti». Fece lui un po’ scocciato ma inevitabilmente incuriosito. «Bè, adesso è davvero tardi, entriamo, o ci perderemo la musica migliore». Decretò allo svedese, il quale parve scoccargli un’occhiataccia, prima di rivolgersi a me e promettere: «Torneremo più tardi a riprendere le giacche, ciao ciao». Mi salutò avviandosi con l’altro nella sala. Sorrisi e li salutai augurandogli una buona serata. Vorrei dire che il gesto scatenò una ridda di fantasticherie nella mia testa, ma non lo chiarirò per due motivi, il primo, a forza di stare laggiù mi lasciavo scivolare addosso di tutto, il secondo era che si erano accorti anche i muri che il fioraio era palesemente gay. Il suo amico poi doveva essere geloso, perché gli domandò, neanche a voce troppo bassa, perché l’avesse fatto. L’altro scrollò le spalle e rispose: «Perché è una bella ragazza e tu sai che adoro le cose belle. E, quella lì sembra che abbia catturato parte del cosmo nei suoi occhi, spero tanto di poterle fare una foto per ricordo».
Ok... Terzo motivo: perché avevo la sensazione che mi avrebbe chiesto di fare a cambio, come spesso mi succedeva quando andavo ancora a scuola?
A parte questa piccola parentesi, la serata fu noiosa come il solito e si svolse come il solito. E, poi, per un’assurda legge comunale, quando chiudemmo i battenti, ci ritrovammo a pulire il piazzale e la strada di fronte al locale. E, pulite voi un piazzale dopo che è passata un’orda barbarica di settecento persone alle tre e mezzo del mattino. Questo quando le serate andavano bene. Ma anche trentasette persone potevano essere alquanto caotiche se si mettevano d’impegno. Davamo tutti una mano, più per abitudine che per gli straordinari, perciò mi armai di pazienza, di scopa e pattumiera e mi misi all’opera anch’io, prima che arrivassero i netturbini. Non soffrivo il sonno. Ero talmente abituata a lavorare di notte, che ormai non ci facevo neanche più caso. E, vi dirò di più, lo trovavo anche riposante, soprattutto in mesi come aprile e maggio. Se guardavo in terra ed ero fortunata, potevo anche raccogliere una banconota da cinquanta euro e qualche spicciolo. Se, invece, alzavo il naso per aria, potevo scorgere le stelle e le costellazioni sopra la mia testa, anche se ne potevo scorgere tre o quattro in croce e, la quinta, a volte era un elicottero o un aereo. A volte stare sotto quel cielo era come essere al supermercato durante i saldi, quando rimanevano pochissimi articoli da comprare. Alzare il viso di notte durante quelle serate era quasi la stessa cosa, la differenza era che le stelle non si potevano comprare e che era colpa dell’inquinamento luminoso se non potevamo vederle.
“Se non altro”, pensavo per consolarmi, “posso godermi l’aroma delle sere primaverili”, che era il mio profumo preferito in assoluto. Ancor più delle rose.
Mentre pulivo, mi sentii salutare. Mi volsi in direzione del richiamo e vidi il fioraio che agitava una mano nella mia direzione e il suo amico, che sbuffava divertito m’indirizzò un cenno del capo. Ricambiai entrambi e i due se ne andarono chiacchierano, le giacche in spalla e riprendo a pulire. Una volta finito, intascai la mia paga, salutai tutti e mi diressi a casa canticchiando tra me e me.

Appena rientrata la prima cosa che feci fu riempire un bicchiere d’acqua e metterci la rosa, poi mi diressi in camera e mi gettai a letto così com’ero. Appena la mia testa toccò il cuscino piombai all’istante in un sonno profondo e senza sogni.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Come rovinarsi la vacanza in una semplice mossa ***


Come rovinarsi la vacanza in una semplice mossa


Aiolia
Le parole del Portavoce di Atena in Terra sono legge. E, tu lo sapevi.
Come durante la tua adolescenza, che accettavi gli incarichi più ingrati solo per allontanarti dall’aria mefitica che si respirava al Santuario, adesso ti allontanavi come per un bizzarro ripetersi della Storia. La nota scrittrice senza fantasia per quanto riguardava la politica, ma piena di inventiva in altri ambiti quasi minori, ma a loro volta pregni d’importanza. Come l’arte, la musica, la cucina, la moda, la psiche umana, le scienze. Come se il rapporto tra Stati avesse annoiato da tempo anche lei e non vedesse l’ora di passare ad altro. Ma, solo questo sapevi. Non ti saresti mai arroccato il titolo di sapiente. La tua sapienza era limitata rispetto agli studiosi veri e propri. Ma da quando eri rinato non avevi mai pensato ad ampliarla, perché lo studio non era nelle tue corde. Tu eri uomo d’azione. Tutto qui.
Rieccoci qui, a preparare le valige per una nuova destinazione ma con il solito denominatore comune: partivi per assolvere ai tuoi doveri di Saint. Era solo il tuo cuore ad essere cambiato. Certe ferite non facevano più male. Certe ferite erano solo un ricordo, non è forse vero, che il tempo è un grande medico, se glielo lasci fare? E, tu l’avevi fatto. Dopo averlo combattuto in tutti i sensi possibili e immaginabili, ti eri lasciato curare e le tue vecchie ferite erano scomparse. Per far spazio a nuove ferite, nuove cicatrici da portare con orgoglio. Perché non fa poi così male se te le procuri cercando di proteggere gli innocenti.
Il pensiero ti corse all’Aiolos dell’altra dimensione. L’Antipapa che avevi cercato di uccidere prima che Shura fermasse la tua mano e decidesse di accollarsi anche questa responsabilità per salvare te. Forse intenerito dal tuo aspetto di dodicenne ai tempi dei Senza Volto. Forse aveva rivisto nel tuo aspetto fisico di allora, un modo per riscattarsi. Aveva tolto un fratello maggiore a un bambino per ordine del Santuario e, lo avrebbe rifatto di nuovo, se significava impedire al suddetto bambino di macchiarsi le mani con il sangue del proprio fratello maggiore.
Perché, secondo lui, era questo che faceva. Questo era il giuramento che lo legava a te. Vegliava su di te come un’ombra, si prendeva cura di te come avrebbe fatto Aiolos, di nascosto ma con la discrezione propria delle ombre. Sempre un passo dietro di te, mai a soffocarti e intervenendo solo in momenti disperati. Lo avevi scoperto tardi ma lo consideravi un amico. Che purtroppo non sarebbe potuto venire con te perché stava poco bene. La missione era stata affidata a voi due ma Shura aveva cominciato a stare male già una settimana prima. E, tu, te ne eri accorto, nella luminosa e abbellita con splendidi tendaggi rossi, Sala del Trono, quando i colpi di tosse del corvino si erano fatti troppo insistenti e aveva iniziato a vacillare anche da inginocchiato.
Il Gran Sacerdote aveva dovuto interrompersi almeno quattro volte, per domandargli: «Sicuro di stare bene, Capricorn?» Non vi chiamava mai con i vostri nomi di battesimo. O Cavalieri o con il nome delle vostre costellazioni, come a rimarcare la sua non appartenenza alle vostre schiere. «Sì, sua Santità». Aveva risposto Capricorn con voce arrochita e molto provata. Ma il Patriarca aveva solo fatto finta di crederci. Infatti, alla quarta volta che si era interrotto lo aveva congedato dicendogli che era sollevato da ogni incarico. Non c’era stato bisogno di dire altro.
Shura non aveva detto niente. Lui era persino più ligio di te ai suoi doveri e agli ordini del Papa. Quel samurai a livello inconscio era troppo orgoglioso per ammettere di stare male. E, farglielo notare, forse avrebbe peggiorato il suo umore dal momento che il Santuario e Atena erano la vostra vita e la malattia un ostacolo. Perciò si era rialzato lentamente per non cadere e si era avviato verso l’uscita, il viso chinato, come se avesse sperato che le ombre potessero celare quegli occhi pieni di sofferenza e debolezza.
Non avevate commentato la sua uscita e i motivi che lo avevano spinto al silenzio. «Più tardi manderò il dottore a visitarlo». La voce dell’altro ruppe la cappa di silenzio che era caduta su di voi. L’aveva detto per rassicurarti, forse intuendo almeno quel briciolo di preoccupazione che provavi. Quella, infatti, non sembrava un banale raffreddore.
Ficcasti nello zaino alcune maglie. Quando si trattava di questo genere di missioni era sempre meglio portarsi dietro un cambio, perché potevano durare anche dei giorni. Il pensiero di sbolognare il compito a qualcun altro non ti era neanche passato per la testa. Non tanto per Shura, quanto piuttosto per orgoglio personale. Non avresti mai perso l’occasione di compiere il tuo dovere.
Chiudesti le fibbie dello zaino e lo portasti via come se fosse una comunissima borsa della palestra. Sulle tue spalle lo scrigno d’oro della tua Armatura.
Salutasti Lythos e Galan e poi scendesti le scale dei Tredici Templi con il vento che ti scompigliava i capelli quasi che fosse venuto anche lui a salutarti invece di Shura. Sperasti di riuscire a portarti dietro un souvenir dalla tua missione. Non ti fidavi molto della promessa che avevi strappato a Death Mask e Aphrodite prima della loro partenza.
E, qualcosa ti diceva che avevi ragione.

Death Mask
Ignorasti l’elegante e garbato lamento di Aphrodite mentre giravate per il negozio. L’ennesimo di quella mattinata. Figurarsi se un cultore della bellezza come lui si abbassava a lamentele vere e proprie, no. «Perché non mi hai fatto scattare quella foto?»
«Non so se te ne sei accorto, ma era tardi, era stanca e stava lavorando, non mi sembrava il caso». Rispondesti neanche troppo assonnato. C’eri quasi abituato a fare le ore piccole, anche se stavolta era colpa dell’entusiasmo di Aphrodite, che lo faceva somigliare a una macchinetta caricata a molla. Cosa inusuale per uno come lui.
Se ripensavi alla serata appena trascorsa la verità veniva a galla da sola. La verità era che non avevi voglia di restare in quel posto un secondo di più. Dovevi immaginarlo che dall’ultima volta che eravate morti, molte cose sarebbero cambiate.
In ogni caso avresti dovuto ringraziare quella ragazza, se non fosse stato per lei Aphrodite ti avrebbe ammorbato con tutti i suoi fastidiosi pareri estetici sul posto. E, ne sarebbe stato capacissimo. Invece ti eri dovuto sorbire lui che smaniava per tornare a fotografare gli occhi di quella guardarobiera. Neanche fargli notare che non era un bell’atteggiamento serviva a qualcosa. Per lui doveva rappresentare una specie di raggio di sole in mezzo a quella pacchianità. A prescindere dalla magnificenza di quelle iridi splendide e uniche, ma non gliel’avevi mica detto in faccia, non ne avevi avuto il coraggio. Poi ti eri soffermato anche sul resto e sì, ti eri accorto che, della sua bellezza sottile e quasi eterea che faceva da cornice a quegli occhi, il vero fulcro del suo essere. Come quella di un’elfa, come quella di un vostro vecchio compagno d’arme. Certo che ve ne eravate accorti entrambi e che entrambi vi eravate posti un paio di domande. Ma era bastato quel discorso sul profumo delle rose per cancellare quell’impressione. Anche tu avevi ammesso che quelle iridi erano splendide e uniche, ma non gliel’avevi mica detto in faccia, non ne avevi avuto il coraggio. Non eri tipo da complimenti e salamelecchi, tu.
«Ma dai, ma se la serata era finita». Commentò lui mentre giravate per i negozi di souvenir alla ricerca di cartoline e un ricordo per Aiolia, che aveva cercato di venire con voi, ma non aveva potuto per ordine del Gran Sacerdote, il quale lo aveva mandato in missione investigativa.
Ricordasti quello che ti aveva riferito Aphrodite che non aveva perso il vizio di intrufolarsi nella SAla del Trono durante le udienze private.
«Sempre a proposito di quegli avvistamenti?» Aveva domandato il poveretto prima di obbedire. Ultimamente stavano succedendo molte cose strane nel mondo e, in alcune aree del Mar Caspio c’erano stati gli avvistamenti di strane... creature? Non si sapeva come descriverle. Stando ai testimoni oculari erano come fantasmi neri avvolti in una cappa dagli orli sbrindellati e dalle mani grigie lunghe e le dita culminanti in punte affilate come aghi. Nessuno riusciva a vederli in faccia, ma non si sapeva se era perché proprio non ne avevano o questi non sopravvivevano per raccontarlo. Nessuno ci riusciva.
«Sì».
Quando il fratello di Aiolos aveva saputo la vostra mèta, aveva protestato («Perché a loro concedete una vacanza e a me no? Non è giusto!») e aveva cercato di convincere il Gran Sacerdote a farlo venire con voi. Tuttavia lui fu irremovibile e Aiolia si arrese. Allora vi aveva supplicato quasi in ginocchio di portargli un ricordo. «Va bene, ma uno solo, non possiamo portarti tutta la città». Avevate ceduto e il Cavaliere del Leone vi aveva ammorbato di ringraziamenti. Anche da adulto restava lo stesso ragazzino amante-maniaco dei souvenir che affrontò i Titani.
Ti riscuotesti nell’udire la voce stizzita dell’amico che lo chiamava. «Mh?»
«Ti sei incantato, forse?» Chiese quieto, ma in realtà molto infastidito per non essere stato calcolato. «Sì, mi ero incantato». Rispondesti distogliendo gli occhi dalle guide turistiche sulle scansie. Cacciasti le mani in tasca. Poi aggiungesti: «Dicevi?»
«Ho detto che non ritroverò mai più degli occhi di una così rara bellezza, ed è tutta colpa tua, non è stato un bel gesto». E, occhi diventava la parola chiave per qualcosa di molto di più di una semplice foto da aggiungere a un pacchiano album delle vacanze. Bensì uno strumento per impressionare metà delle Dodici Case e stupire mezzo Santuario intero. Come se Aphrodite fosse diventato un prestigiatore e stesse cercando di convincere te, la valletta (pardon, valletto) reticente, a prestarti a un nuovo, mortale gioco di prestigio.
Lo guardasti senza capire. Anche se vi conoscevate da anni, c’erano delle volte in cui proprio non lo capivi. E, questa era una di quelle: «Mia?»
«Se tu non mi avessi trascinato via, ora le avrei già scattato quella foto!»
«Mi hai seguito tu». Ribattesti svogliato.
«Perché io non conosco questo posto e avrei rischiato di perdermi». Protestò piazzandosi una mano sul fianco. Tutte scene, figurarsi se Aphrodite che parlava con le piante si sarebbe mai perso. E, glielo facesti notare. «Non ti saresti mai perso. Non ti è successo ad Asgard figurati se ti perdi qui». “A malapena lo riconosco io”. Pensasti rimpiangendo di non aver bevuto a sufficienza la sera prima. Almeno la sbornia sarebbe stata una buona scusa per restare a letto. «Non ci pensare, abbiamo due settimane di vacanze per divertirci e, vedrai che troverai meraviglie più degne della tua attenzione».
«Hai ragione». Ribatté il tuo amico sorridendo e materializzando dal niente una delle sue rose. Qualcosa ti diceva che l’ultimo giorno saresti stato costretto a seguirlo di nuovo al Kazablanc per la foto. Aphrodite era un osso duro e, in nome della bellezza, non si sarebbe mai lasciato sfuggire una simile preda.
«Intanto andiamo a fare colazione, mi hai trascinato in città senza mangiare». Proponesti. Se la memoria non t’ingannava, doveva esserci ancora un bar sul lungomare della riviera. Ai tuoi tempi era il migliore della città.
«Ti seguo».

Astrid
Il giorno dopo mi svegliai alle nove e sbadigliai rumorosamente. Non mettevo mai la sveglia durante il fine settimana, benché meno la domenica mattina. Anche perché dovevano ancora smettere di fischiarmi le orecchie. Come sempre quando la mattina dopo il lavoro.
Mi feci una rapida doccia e, una volta asciutta indossai una maglietta bianca sbracciata, un paio di jeans e stivali e mi recai al mio bar preferito a fare colazione. Ora che la stagione estiva si stava avvicinando, era bello tornare a vedere il mare di prima mattina. Bè, prima, si fa per dire. Prima di uscire impugnai il mio mazzo di carte da tarocchi, lo ficcai in borsa assieme alle chiavi, inserii l’allarme e andai.
Arrivai e salutai il barista indaffarato dietro il bancone. Ormai ci conoscevamo da anni, perciò non faceva caso alle mie stranezze. Sì, perché non ve l’ho detto, ma io ero una chiromante. Ah… devo smetterla di parlare a qualcuno che non c’è. Maledetta solitudine e maledetto Prezzo. Dicevo, non faceva più caso alle mie stranezze. Avevo cominciato a leggere la mano e le carte proprio nel suo bar. Sulle prime non gli era piaciuta molto la cosa ma era bastato comportarsi da cliente modello, scambiare quattro chiacchiere con lui, intavolare discorsi più terra terra che esulavano dal mio ambito d’occupazione, perché si staccasse dagli stereotipi e cominciasse a vedermi come una ragazza normale con una passione un po’particolare che le permetteva di vivere e accumulare soldi per realizzare il suo vero sogno. «Perché, cosa vorresti fare da grande?» Mi chiese, appoggiando i gomiti sul bancone. Come se a diciott’anni si fosse piccoli. «La scrittrice». Gli avevo risposto.
Lui mi aveva sorriso.
Inoltre, in un certo senso, da quando io esercitavo lì la mia non proprio legale professione, la clientela era aumentata. Come se venissero apposta lì per vedermi. Facendomi guadagnare altri punti agli occhi di Corrado.
In Italia è vietato esercitare questo mestiere, credo che abbia a che fare con il fatto che la credulità delle persone possa far loro fare qualche stronzata. E, per salvarsi la pellaccia, fanno scarica barile su noi poveracci.
Comunque, se per parte di padre la mia famiglia era ricca di astronomi e astrofisici, l’altra parte era ricca di astrologhi e chiromanti. Mia madre e mia nonna leggevano la mano e le carte e mi avevano insegnato l’Arte, quando, nel mio periodo di ribellione adolescenziale, mi allontanai dall’astronomia. Era anche grazie a questo secondo lavoro che arrotondavo la mia paga. Mio padre e mio nonno, ovviamente, non furono d’accordo. Ma non lo furono neanche quando, in quinta liceo, mi misi a dare ripetizioni di matematica e fisica ai ragazzini. E, neanche quando, all’università cercai di continuare e piombarono in casa mia come delle furie e mi intimarono di smettere.
Scacciai questi pensieri con un sospiro.
Corrado il barista, un allegro cinquantenne con gli occhi tondi, la pelata e la corporatura del salvadanaio a forma di porcellino, appena mi vide sospirò di sollievo e mi accolse così: «Oh, Astrid! Finalmente! Era ora che arrivassi, quei ragazzini laggiù non fanno altro che chiedermi di te. Non sapevo più che fare per tenerli buoni».
«Davvero?» Domandai sorridendo.
«Te lo giuro, dovessi morire domani». Esclamò, teatrale ma sincero. Poi: «Il solito?»
Annuii. Avrei avuto bisogno di energie per soddisfare i miei clienti.
Lui si mise all’opera mentre aggiungevo: «D’accordo, allora digli di raggiungermi al solito tavolo, che li accontenterò». Non me la presi poiché si era subito girato, perché sapevo che mi aveva ascoltato.
Mi accomodai al mio tavolo preferito, quello alla finestra, che mi regalava una splendida visuale sulla spiaggia lambita dal mare che, quel giorno era di una sfumatura di poco più scura del cielo e, mi feci portare il solito cappuccino con il cacao e un cornetto. Sospirai, lanciando lo sguardo su quella vasta distesa azzurra, striata da correnti più chiare.
Nel corso di questi anni avrò letto la mano e le carte ad almeno un migliaio di persone. Non avevo mai tenuto il conto, non volevo saperlo davvero, mi ricordava troppe volte il Prezzo e peggiorava la mia solitudine. Forse avrei dovuto smettere visto che stavo raggiungendo livelli patologici ma, visto che la mia mente era ancora ben lontana dal punto di non ritorno, continuavo. A volte mi prendevo qualche giorno di riposo per scaricare lo stress accumulato facendo qualcosa di rilassante e poi ricominciavo.
Corrado interruppe il flusso dei miei pensieri col suo: «Ecco qui». E, depose la colazione davanti a me. Lo ringraziai con un sorriso.
Appena se ne andò, la sua figura fu sostituita da quella del nuovo gruppetto di ragazzi nel cuore dell’adolescenza. I quali mi salutarono dicendo, tutti entusiasti ed eccitati: «Sei tu quella che legge la mano?» Annuii mentre mangiavo.
Li invitai ad accomodarsi con un cenno della mano. Ormai ero talmente abituata a sentirmi apostrofare così che neanche ci facevo più caso. Il più chiacchierone di loro, un ragazzo libanese con il cappellino grigio storto sulla testa, continuò: «Quando me ne hanno parlato, non ci credevo, perciò eccomi qui.» sorrise leccandosi le labbra. Gli occhi scuri lucenti di aspettativa come quelli di un cane che aspetta che tu gli lanci il bastone o la palla. «E, ti sei portato anche gli amici, vedo». Scherzai dopo aver inghiottito. I suoi amici ridacchiarono incuriositi. Lui chinò il capo con un sorriso che mise in mostra le perle candide dei suoi denti, come a dire “Beccato”.
Presi la tazza e bevvi il cappuccino.
Mentre i cinque ragazzi mi guardavano come ipnotizzati dai miei gesti e si mettevano d’accordo su chi toccava per primo. Era quasi un gioco di seduzione, farli attendere, tenerli un po’sulle spine. Con gli adolescenti funzionava molto bene ma con clienti un po’più anziani non molto. A seconda di chi avevo davanti mi adeguavo.
Intanto i clienti cominciavano ad affollare il bar. Sperai che i miei fossero abbastanza caciaroni da attirare anche le loro attenzioni, anche se non ci sperai troppo.
«Certo».
«Il vostro amico ve l’ha detto che voglio essere pagata?» Domandai per sicurezza. Non tutti giungevano da me col portafogli alla mano. Altri fraintendevano e mi scambiavano per una prostituta, ingannati da discorsi uditi di striscio per caso o dalla propria stupidità. E, quei giorni erano i peggiori, per me. «Certo». Mi rassicurò l’altro. Per la lettura della mano mi facevo pagare almeno cento euro a seduta. A mano a mano che miglioravo, con gli anni, aumentavo il prezzo delle mie letture. Questi erano sei, bene, con stamani avrei guadagnato seicento euro tondi tondi. Unendolo alla paga della sera prima, avrei toccato i seicentottanta euro, invece per la lettura dei tarocchi centoventi.
Bene.
Sorrisi. E, loro, ricambiarono, confermandomi che il mio aplomb li aveva affascinati quel tanto che bastava da potermela prendere con comodo.
Finii la mia colazione e mi misi al lavoro. «Allora, chi è il primo?»

Alla fine, cioè verso le undici e un quarto, intanto che l’impianto stereo del bar trasmetteva la sempreverde Laura non c’è di Nek, mi salutarono soddisfatti, increduli, alcuni anche un filo spaventati.
Intascai i soldi e aspettai i prossimi. «Ehi, ciao». Mi sentii apostrofare da una voce famigliare sorridente. Mi girai e vidi Death Mask e Aphrodite in piedi accanto al tavolo. Si erano cambiati d’abito anche loro, ma restavano comunque inconfondibili. Non solo per i nomi, così originali che, persino io, me li ricordavo.
Era stato il fioraio a salutarmi: «Buongiorno». Ricambiai con un sorriso cortese, alzandomi in piedi per stringere la mano che mi aveva porto, meravigliandomi della sua morbidezza e della pelle liscia e compatta. In confronto a lui io sembravo una contadina dalle mani rovinate da anni di lavoro. “E, questi quando si sono avvicinati?” Mi domandai. Ah, dovevo essere così presa da non essermene neanche accorta.
Lo svedese continuò: «Pensa un po’quanto è piccolo il mondo, non è vero, Death Mask? Stamani siamo entrati qui per fare colazione e vediamo questo tavolo pieno di ragazzini eccitati come se stessero assistendo a uno spettacolo o una delle tue giocate.» e, i suoi occhi saettarono brevemente verso il compagno per tornare rapidamente su di me. «Ci avviciniamo e chi troviamo? E, tu che non ci volevi neanche credere quando ti dicevo che era lei!» Fece tutto entusiasta rivolgendo il viso divertito all’altro, che roteò gli occhi, annoiato, cacciandosi le mani in tasca. «Eh, già, veramente piccolo il mondo. Ancora grazie per la rosa di ieri sera, appena a casa l’ho subito messa in un bicchiere d’acqua». Gli dissi e mi scusai per non aver avuto un contenitore migliore ove riporla. Poi glissai su un altro argomento: «Non vi ho mai visto qui, prima d’ora, di dove siete?» Domandai e la stretta si sciolse.
«Oh, siamo qui in vacanza.» rispose il mio interlocutore con lo stesso tono con cui si parla di leggerezze. L’altro sbuffò: «Ed era anche l’ora, non ne potevamo più».
«Che cosa stavi facendo?» Mi chiese Aphrodite incuriosito, prima che potessi chiedere altro, notando le carte ancora sul tavolo. Glielo dissi e, se lo svedese mi guardò incuriosito, quello con i capelli scuri sbottò: «Ma è impossibile! Ci dev’essere un trucco!» Non reagii se non con un vago sorriso. Erano anni che mi sentivo dire questa frase e, quante persone, per scommessa o no, avevo fatto ricredere... però, non so perché, ma, quella mattina quella frase m’infastidì al punto da farmelo trapassare con lo sguardo e ribattere, offesa: «Nessun trucco. Se le dicessi che la sua vita è scritta sul palmo della mano e che è possibile leggerla se si sa come fare, lei che direbbe?» Alzai un sopracciglio in modo studiato.
L’altro mi sorrise, sardonico: «Direi che è una stronzata buona solo per il circo».
«Allora, se è così sicuro, perché non prova?» Lo invitai indicando il tavolo con un elegante gesto della mano.
«Scusa?» Domandò battendo le palpebre, ma in quelle sillabe ci mise tutto l’orgoglio di cui era capace. Come se mi stesse dicendo che non si sarebbe mai abbassato a un simile giochetto da fiera di paese, neanche per mille euro in contanti. Ma io preferii interpretarla come se avessi capito male e ripetei il mio invito. Aggiungendo queste parole: «Dopotutto se qui c’è qualcuno che ha tutto da perdere, quel qualcuno sono io, no?» In sostanza l’esca perfetta per far abboccare persone orgogliose come lui. Perché questo non si sarebbe piegato neanche se gliel’avessi offerto gratis. E, qualcosa mi diceva, che valesse anche per il suo amico fioraio. «Vai, Death Mask, prova». Lo incoraggiò quest’ultimo con un sorriso. L’uomo col pizzetto mi guardò indeciso, ma alla fine, su esortazione dell’amico, cedette. Sospirò e si sedette sulla sedia precedentemente occupata, con occhi tra il diffidente, lo scocciato e il curioso. «Però se fallisci io non ti pago.» Mi avvisò. «Pagano tutti.» ribattei invece con un sorrisetto divertito, mentre mi accomodavo di fronte a lui. «Oh, su, su, quante storie. Quanto vuoi?» Domandò Aphrodite, interessato, beccandosi un’occhiataccia dal compagno di vacanza. Quando dissi il prezzo feci quasi prendere un colpo al poveraccio seduto di fronte a me, che esclamò: «Cento?! Scherziamo?! No, io me ne vado...» Fece per alzarsi ma l’altro lo rimise subito seduto, poggiandogli le mani sulle spalle ed esercitando forza opposta alla sua, impedendogli la fuga. «Suvvia, siamo in vacanza e Lady Isabel ci ha messo a disposizione tutti i soldi che ci servono, che vuoi che sia se spendiamo altri cento euro?» Lo rimbeccò. Lady? Sul serio questi due lavoravano per una lady?
Alla fine si lasciò convincere e tornò a guardarmi, o meglio, trapassarmi con lo sguardo: «D’accordo, però dammi del tu, ragazzina, se no mi sento vecchio».
«Perché, quanti anni ha?»
«Ventitré». Solo allora lo accontentai con un sorpreso: «Ah, non te li davo». Mi scoccò un’altra occhiataccia, intanto che l’altro, sempre dietro di lui, commentava neanche troppo sottovoce che era per via del pizzetto, beccandosi un’occhiataccia dall’amico. Poi aggiunse: «Dopo vorrei farti quella foto».
«Quale?» Chiesi senza avere la più pallida idea di che parlasse.
«Agli occhi».
Ah, quella foto. «D’accordo». Acconsentii.
Intanto il ragazzo con i capelli blu sparati, con quello che credo fosse un enorme sforzo di volontà, mi guardò e tese entrambe le mani, i palmi rivolti verso il tavolo. Mi sfuggì un sorrisetto: «Ok, quale mano o tutte e due? E, per favore, non leggere niente del futuro, non ne voglio sapere niente». Disse calcando benissimo l’accento su leggere, come se avesse ancora voluto sbattermi in faccia il suo disprezzo. Gli sorrisi, sicura di avere la vittoria in tasca, dicendo: «Va bene, quella con cui non scrivi, per favore».
Ritrasse la destra e l’altro turista mi chiese se fossi dovuto entrare in uno stato particolare, se avessi avuto bisogno di qualcosa, ma scossi il capo: «Non serve». Suscitando così lo sbuffo dell’orgoglioso Death Mask e il suo sorrisetto di trionfo, sorrisetto che cancellai prontamente avvisandolo che non avevo ancora cominciato. Gli girai la mano come se fosse fatta di sottile vetro di Murano e gli dissi di rilassarla spiegandogli che se no sarebbe risultata una lettura falsata. Lui sorrise ancora, ma obbedì, rilassando i muscoli che cercavo di appianare. La sostenni con la mia sinistra e, con la destra cominciai, sfiorando monti e linee con estrema delicatezza. Carezzavo quella mano dura e rovinata come se fossero le pagine di un libro che solo io potevo leggere. Che poi, leggere, era come tuffarsi nella sua vita come uno spirito di cui lui non aveva la più pallida percezione, ed io vivevo assieme a lui le sue giornate e i ricordi più intensi, i suoi traumi, i suoi segreti e le sue paure arrivando a conoscerlo persino meglio di se stesso. Ovviamente questo variava da persona a persona. A volte sembrava di entrare in una stanza piena di ricordi in tutto e per tutto simili alle schegge di uno specchio rotto fluttuanti, a volte ancora essere in una sala cinematografica e guardare il film della vita del mio sfidante, che si svelava di fronte a me. Altre era come saltare da un flashback all’altro di un sogno. Altre ancora, era come ascoltare una canzone. Ma quelli che preferivo e amavo di più erano quelli intensi. Di quell’intensità che potevano somigliare alle visioni dell’Inferno di Angela, il personaggio femminile della mia pellicola preferita: Constantine. Erano le più rare, ed erano le mie preferite, perché era come essere davvero lì; essere coinvolta con tutti i cinque sensi e oltre ancora. E, di queste letture in particolare ero affamata come una persona del suo piatto preferito. In tutti questi anni l’avrò vissuta almeno cinque volte in croce. E, ormai avevo imparato a capire quando mi trovavo di fronte a una “stella”, così chiamavo queste letture, perché il mio cuore cominciava a battere all’impazzata. Quando mi capitava, lo divoravo come un piranha divora la sua preda. Era la droga perfetta per la mia brama e la sensazione di potere e vita che lasciava. Neanche fossi stata uno zombie ghiotto di materia cerebrale. Non so come si possa definire perché quest’esperienza ancora mi mancava, ma era intensa come credevo fosse fare l’amore. Perché appena raggiungevo l’apice, con l’ultima scena della vita di questa lettura, mi sentivo come se una stella fosse esplosa nelle mie membra, rilasciando una potente scarica di emozioni, luce, felicità e pace che velava il mio sguardo di un lucore bianco che polverizzava i miei pensieri. Neanche fosse una sorta di Nirvana. Ma, a differenza dell’amore, era una sensazione che non si poteva replicare sulla stessa persona. Credo che fosse ai livelli di una scopata senza impegno, perché, quando richiudevo la mano finiva lì e tutto perdeva interesse. Lo so perché al liceo mi capitò di leggere la mano della mia cotta (un tipo alto, atletico, con i capelli biondo cenere lisci e gli occhi marroni come il cioccolato al latte) e, che, quando provai questa sensazione, avevo sì perso interesse, ma anche provato a replicarlo su di lui, scoprendo una piattezza desolante. L’altro mi aveva guardata come se fossi pazza. Forse dovevo sembrarlo davvero.
Di questa sensazione mi restava una luminosità, una specie di stella, nella mia memoria, che davano il nome a queste letture. Solo questo. Anche queste “stelle”, come le chiamavo io, erano diverse le une dalle altre. Proprio come le persone che me le avevano regalate senza saperlo. Ognuno era diverso e fatto a modo suo. Ciò nondimeno se questa “stella” fosse stata un film, allora sarebbe stato un horror che con il mio film preferito non aveva niente da spartire.
Non appena sfiorai il primo monte, le immagini cominciarono a dipanarsi nella mia mente con una rapidità impressionante e mi ci tuffai senza indugio alcuno.
Aprii la bocca e cominciai a elencare quello che vedevo. Poi passai alle linee e allora sì che potei leggere altro. Come gli amori, come quello per quella fioraia che gli morì tra le braccia e lo segnò, le passioni, i pensieri, lo studio (poco) ma molta attività fisica di vario tipo, spesso sconfinanti in vere e proprie risse, botte da orbi e massacri senza tregua e senza distinzione di sesso ed età delle sue vittime.
Vidi le molte sfide, le molte vittorie e le sue sconfitte e il sangue, tanto, troppo sangue e luoghi e persone che non credevo esistessero davvero. Vidi la morte nel pieno del suo lavoro nella sua persona e poi rivoltarsi contro di lui, gli spiriti, la sua casa, divinità greche e non, Armature d’Oro, Argento, Bronzo e gerarchie, cosa gli era costata l’investitura da Cavaliere. Arrivai persino a scoprire che al momento dell’investitura aveva dovuto rinunciare al suo vero nome. Nome che immagazzinai immediatamente nella memoria. E, forza, una forza che non avevo mai trovato da nessuna parte. E... più andavo avanti, più non credevo a quello che vedevo. Non solo per i fatti sanguinari come le guerre, le faide interne, morte sua e non, distruzione, spiriti e chi più ne ha più ne metta. Ma perché risvegliava qualcosa nella mia memoria che non andava affatto svegliato. Qualcosa che, ancor più della consapevolezza del fatto che stavo leggendo la mano di un assassino, il primo di tutta la mia vita, mi terrorizzava.
La linea della vita fu quella che, più di tutte m’illuminò sul suo passato.
Dovetti reprimere un brivido di terrore mentre i suoi segreti, i suoi traumi e le sue paure si spiegavano di fronte a me. Non volevo mostrarmi spaventata e sconcertata e, con un certo sforzo, mi costrinsi a completare la lettura.
Ero raggelata. Chi diavolo era questo qui?
Finii e riemersi dalla sua vita. Richiusi la sua mano con delicatezza, o meglio, cautela e gliela resi. Lui non la mosse più e, quando lo guardai in faccia lo scoprii senza parole e sbiancato; la bocca aperta tremante e gli occhi sgranati. Anche Aphrodite (che a un certo punto si era seduto) mi guardava come se non credesse ai propri occhi.
Di solito le “stelle”mi lasciavano bei ricordi e belle sensazioni ma questa non lo era stata. Sembrava che questa lettura avesse cancellato la bella giornata e le emozioni positive lasciando il posto a un terrore risucchiante da svuotare il cuore e raggelare il sangue. Questa non era una “stella”, questo era un “buco nero”.
Death Mask ritrasse definitivamente la mano e, mormorando quello che credo che fosse uno: «Scusate.» filò al bar con passo tremante, a prendersi qualcosa da bere. Corrado era abituato a vedere alcuni miei clienti ridotti così. Ma quando vide me ridotta in questo stato si accigliò e cominciò a preoccuparsi. Però continuò a fare il suo lavoro e lo servì.
Io e l’altro lo accompagnammo con lo sguardo e poi lo svedese tornò a guardarmi: «Non ho mai visto niente del genere; come hai fatto?» Domandò ancora allibito e un filino spaventato. Ricambiai lo sguardo e misi su un sorrisino di scuse, cercando di mascherare il mio terrore: «Così». Poi non ci dicemmo più niente. Lui non volle provare e neanch’io glielo chiesi. Avevo visto anche lui nei ricordi di Death Mask e, sinceramente, due così uno dietro l’altro, non ero capace di sopportarli nello stesso giorno. «Comunque...» iniziai titubante e l’altro volse gli occhi azzurri su di me «sono cento euro.» completai alla fine. L’altro parve riscuotersi e poi disse, quando capì a cosa mi riferissi: «Oh, sì, sì, certo...». Tirò fuori il portafogli dalla tasca dei pantaloni e mi pagò. Lo ringraziai tirando un sospiro di sollievo mentale: avevo temuto che al posto dei soldi mi ammazzasse. Invece, cercò di stemperare la tensione parlando del più e del meno. Gli riuscì così bene che passò un’ora e mezza prima che il compagno ritornasse al nostro tavolo, ancora ben lungi dal recuperare il suo normale colorito.
Peccato che la sensazione di terrore datami dal “buco nero” non fosse ancora passata.
«Stai bene, Death Mask?» Gli chiese lo svedese preoccupato per lui, accavallando le gambe.
«Certo, mai stato meglio!» Rispose orgoglioso, ma era una bugia.
Proprio allora con la scusa che l’occhio mi cadde sull’orologio del bar raccolsi rapidamente le mie cose, salutai i miei due nuovi conoscenti e Corrado. Il quale, poverino, mi richiamò indietro perché non avevo pagato la colazione e, dovetti fare marcia indietro per lanciargli gli spicci.
«Buon Dio, che cosa ti è successo?» Domandò spaventato, quando mi vide meglio in faccia.
«Niente.» mentii: «Mi sono ricordata che dovevo fare una cosa e sono già in ritardo, ciao.» risposi con urgenza e paura nella voce cercando di abbozzare un sorriso senza successo, terrorizzata com’ero. Lui cercò di fermarmi chiedendo spiegazioni ma non lo ascoltai che corsi via, ignorando i suoi richiami: «Aspetta, torna qui, Astrid! Astrid!»
Non andai neanche al supermercato a fare la spesa, tanto ero spaventata. Macché spaventata, terrorizzata. Piangevo dal terrore e il sangue non si era ancora riscaldato nelle mie vene. Nella corsa urtai contro un tizio, che mi ammonì: «Ehi, stai attenta!»
«Scusi!» Risposi senza smettere di correre, rischiando di travolgere qualcun altro.
Volevo solo rinchiudermi in casa mia e, infatti, fu esattamente quello che feci.
Mi lanciai in casa quasi sfondando la porta e facendo attivare l’allarme. Cascai sul pavimento e sobbalzai al suono della sirena. Mi raddrizzai mettendomi in ginocchio e cominciai a frugare nelle tasche e nella borsa. Dopo tre volte e tre tentativi a vuoto riuscii a tirare fuori il telecomandino e lo spensi.
Poi, cominciai a piangere, incapace di trattenermi oltre.
Qualche vicino si affacciò alla porta che avevo lasciato aperta e mi domandò se stessi bene. Sussultai di nuovo e mi volsi verso il mio interlocutore. Una signora sulla quarantina con gli occhi verdi che abitava vicino a me. Non so neanch’io come feci a tirare fuori quel sorriso convincente che sembrò spaccarmi in due la faccia. Poi, le dissi: «Sì, sono solo caduta». Ancora con urgenza nella voce.
«Si è fatta male?»
«No, no… Mi succede spesso». Avevo detto rialzandomi e spolverandomi le ginocchia, cercando di essere il più convincente possibile. La donna mi lanciò un’occhiata sospettosa. E, dietro di lui vidi comparire anche un uomo, incuriosito. «E’ sicura di stare bene?»
«Sì, sì, certo, non preoccupatevi per me, sono solo inciampata».
A forza di rassicurazioni più enfatiche del previsto riuscii a convincerli e a chiudere la porta. Attesi con l’orecchio premuto sulle assi per verificare che si fossero allontanati. Quando fui certa di essere sola scoppiai di nuovo a piangere. Piansi e piansi finché il terrore non mi svuotò le membra. Mi lasciai scivolare di nuovo in ginocchio, una mano sulla porta.
Lì, al sicuro nelle mie quattro mura domestiche, piansi per l’enorme guaio in cui mi ero cacciata. E, se quello, ora che era stato scoperto, avesse deciso di farmi fuori?
Solo nel pomeriggio ripresi lentamente la calma e, sperai che se ne andassero al più presto. Ma ogni volta che ci ripensavo nuove lacrime inondavano di nuovo il mio viso e nuovi singhiozzi il mio petto.
Mi ci volle una giornata intera per smettere di piangere.

Death Mask
Il barista vi lanciò un’occhiata rabbiosa, forse non accorgendosi che voi eravate più sconvolti di lei. Quella conversazione vi sarebbe rimasta impressa ancora molto a lungo. Perché quando avevate finalmente trovato il coraggio di pagare e andarvene, l’uomo vi aveva sibilato: «Cosa le avete fatto?».
«Noi niente.» vi eravate difesi.
«Niente?» Ribatté invece l’altro, sgranando gli occhi tondi e assumendo un’espressione rabbiosa; «In tanti anni che conosco Astrid lei non ha mai reagito così, non è mai stata così spaventata. Che cosa le avete detto?» Astrid? Era dunque questo il nome della vostra conoscente dagli occhi luminosi come le stelle nel cielo?
«Le assicuro. Buon uomo, che noi non abbiamo fatto niente». Riprovò Aphrodite che, tra voi due, era il più diplomatico.
«Qualcosa dovete averle fatto». S’intestardì l’altro dietro il bancone. Se tu fossi stato nelle tue piene facoltà mentali, probabilmente avresti ordinato una birra e avresti lasciato correre con un’uscita delle tue. Peccato che fossi ancora sotto shock, la tua mano aveva appena smesso di tremare e la tua carnagione era ancora biancastra. Nell’insieme eri ancora catatonico. Nessuno mai, prima di lei, era riuscita ad azzerare completamente il tuo spropositato orgoglio e alla tua superbia, lasciando campo libero alla sorpresa e alla paura più nera. Non solo aveva indovinato tutto, confermando di dire il vero, ma aveva addirittura rinvangato paure e ricordi che avresti preferito dimenticare, smascherando entrambi, tutti voi, tutto il Santuario. Mai nessun civile era riuscito in un’impresa simile.
«Suvvia, buon uomo, non abbiamo fatto niente, se così fosse allora sarebbe soltanto Astrid la sola spaventata. Non vede com’è traumatizzato questo poveretto?» Domandò lo svedese indicandoti; te ne stavi, infatti, accanto al suo fianco come una statua di sale. O una marionetta, se ti muovevi, lo dovevi solo ai neuroni a specchio, che emulavano quasi tutto quello che faceva il Cavaliere dei Pesci. Il cinquantenne ti guardò e la sua espressione minacciosa si ammorbidì sostituita dal dubbio. Anche se fu solo per un istante: «Fa lo stesso, ora sparite e che non vi riveda mai più».
Aphrodite gli augurò buona giornata per entrambi e ti trascinò fuori dal bar, mentre tu eri ancora palesemente altrove. «Che maniere!» Lo sentisti borbottare. «Potremmo rovinargli gli affari soltanto per questo». Anche se sapevi che non l’avrebbe mai fatto, rispondesti: «No, non ne vale la pena».
«Sicuro?» Ti stuzzicò.
Grugnisti un «Naturalmente».
«Astrid» disse poi mentre camminavate senza mèta per la città e, tu, a mano a mano riprendevi il controllo di te stesso. «Che c’è? Ora ti piace anche il nome?» Lo deridesti senza guardarlo. «Ma figuriamoci, stavo riflettendo: hai notato che quella ragazza non emanava un Cosmo? Pensavo che avremmo potuto sentirlo quando ha cominciato a leggerti e, invece, niente. Non ho sentito niente. Sei davvero sicuro di non averla mai incontrata prima?»
«Ma se la prima volta che l’ho vista c’eri anche tu!» Obiettasti trapassandolo con un’occhiata delle tue, intanto che rovistavi nella tasca della giacca alla ricerca delle tue sigarette. La solita sensazione di fastidio che solo lui ti sapeva regalare tornò dentro di te. Sospirasti di sollievo nel sentirti tornare alla normalità, mentre lui continuava: «Com’è possibile che sia sprovvista di Cosmo? Per compiere questo miracolo doveva per forza averne uno».
Soprattutto considerato il suo aspetto. C’era un’altra ragione, infatti, per cui Aphrodite insisteva nel volerla fotografare. E, non era per interesse personale.
«Non ce l’ha, se no ce ne saremmo accorti, non credi? E, smettila di pensarci, lo sai che se no ti vengono le rughe». Aphrodite si sfiorò il viso con la mano e tacque.

Aiolia
Maledicesti il Gran Sacerdote. «Accidenti a lui e le sue missioni, perché non mi ha mandato in Italia?» Eri arrivato in quelle lande da qualche giorno; che poi pianure. Ti eri immaginato una zona paludosa uscita da un film horror e invece... invece non l’avresti mai detto che c’era una zona portuale. Il luogo era presso Aktau, una città del Kazakistan. Avevi già visitato paesi che avevano avuto un passato con l’energia nucleare, e ancora adesso t’ispirava desolazione. Fortunatamente potevi creare una barriera con il tuo Cosmo che ti proteggeva.
La prima cosa che avevi fatto era stata parlare con le autorità, ma a parte le solite informazioni che potevi ricavare in questi casi, non avevi nulla in mano. Pensavi, invece, che si trattasse di Specter.
L’ipotesi non era completamente da escludere. Hades era riuscito a ristabilire il proprio dominio sull’inferno anche grazie a Shun. Ma era possibile che gli fossero sfuggiti alcuni ribelli. A giudicare dal modus operandi sembravano proprio degli Specter. Avevi sentito dire che non tutti i centootto Specter erano infatti ritornati all’ovile ma che comparivano un po’qui e un po’là. Poteva darsi benissimo che queste creature fossero le loro anime che cercavano un corpo da parassitare, proprio come il loro Signore. Però non era neanche assurdo che questi si ribellassero al Re degli Inferi. Era raro, ma non assurdo. Esempio più lampante di Pandora non c’era anche se lei non era esattamente una Specter.
Era anche per questo che non eri voluto rimanere in albergo: quel posto ti ricordava una specie di obitorio. Avevi pensato che passeggiare per i dintorni avrebbe diminuito la sensazione cimiteriale e invece era solo peggiorata.
Alzasti gli occhi al cielo. Le nuvole sopra la zona erano talmente fitte che non passava neanche un raggio di sole. Proprio in quel momento una cospirazione di corvi passò sopra la tua testa lanciando il suo verso gracchiante. Eh, sì, ti sembrava proprio di essere finito in un cimitero. E dire che, qualche volta, la tua tomba eri andato a visitarla, al Santuario. Anche quella faceva impressione, considerando che tu eri di nuovo vivo e che quella fosse vuota. Ti sentivi uno spettro fatto di carne e ossa. Scacciasti questo pensiero dalla tua mente e ti dirigesti verso la spiaggia.
Stavi passeggiando quando incontrasti un pescatore un po’avanti con l’età.
Ti avvicinasti e, con un saluto, cercasti la lingua giusta con cui esprimerti. Grazie ad Atena, la morte non ti aveva privato delle tue conoscenze linguistiche. Alla fine ripiegaste su un più comodo inglese e chiedesti spiegazioni riguardo alle creature. L’anziano signore parve non afferrare subito, ma quando gliele descrivesti, sbiancò. «Lei è uno dei Cavalieri di Atena?» Ti chiese con voce esitante.
«Sì».
«Grazie al Cielo, grazie al Cielo. La sua presenza qui è provvidenziale. Da un paio di settimane stanno succedendo delle cose, cose che nessuno riesce a spiegarsi e che neanche la polizia può risolvere. Abbiamo mandato una richiesta d’aiuto al Santuario, ormai non ci speravamo più». Disse l’uomo con voce piena di speranza prendendoti per le braccia. «Si calmi e mi racconti». Dicesti guardandolo dritto negli occhi nel tentativo di infondergli fiducia e, togliendo delicatamente le sue mani grassocce dai tuoi muscoli.
«Sì, mi scusi. Un paio di settimane fa è cominciato a verificarsi degli incidenti. Sulle prime non abbiamo dato molto peso alla cosa perché gli incidenti sono all’ordine del giorno. Voglio dire, a tutti può capitare di chiudersi la porta sulla mano o scottarsi con la pentola dell’acqua calda. Però le persone che subivano questi incidenti non tornavano». Detta così pareva che parlasse di banalissimi incidenti domestici causati dalla distrazione. Ma se ti avevano mandato lì, non era per distrazione. Non si scomodava un Cavaliere d’Oro per delle quisquilie. Ma, questo discorso, per te non aveva molto senso.
«Non tornavano? Si spieghi meglio».
«Come si dice... non si facevano più vivi. Si sentivano delle urla agghiaccianti e poi il silenzio più assoluto. Questi incidenti capitavano sempre più spesso, a tutte le ore e le persone cominciarono a subirne anche in mezzo alla strada in pieno giorno».
«Aspetti, si fermi, cosa succedeva alle vittime, esattamente?»
«Nessuno ne ha idea, al loro posto, in taluni casi, si trovavano mucchietti di cenere, ma io lo so. Io lo so cosa succede. Ho provato a parlarne con la polizia ma non hanno neanche voluto ascoltarmi. Ho perso mio nipote a causa di quelle cose nere e fluttuanti. Lo so come sono fatte, le ho viste. Guardi questo video, mio nipote quand'era in vacanza me l’ha mandato prima di morire ». Estrasse il telefono dalla tasca e ti mostrò il video con mano tremante.
Quello che vedesti ebbe dell’incredibile.
Il video si apriva con la ripresa di un paesaggio marittimo estero che non riconoscesti. Ma che sicuramente non era questo. Accidenti, allora quello non era l’unico posto dove erano comparse. Le informazioni che ti avevano dato dovevano essere già vecchie. Questa non ci voleva, davvero. Si sentivano le risate del ragazzo e dei suoi amici in sottofondo. A tratti i loro volti comparivano nella telecamera e salutavano felici. «Salutate lo zio!» Fece il giovane girandosi verso i ragazzi che quasi facevano scherzosamente a botte per entrare nell’obiettivo.
«Ciao zio!» Fecero tutti in coro agitando la mano.
E poi, una ragazza del gruppo del giovane regista si staccò da loro ridendo. E, dietro di lei, dal cielo, calò un’ombra. Le risa degli amici mutarono in grida di orrore. Grida che si propagarono per tutta la zona.
La creatura era nera, o meglio, uno spettro buio con un cappuccio e lunghissime dita affilate come artigli. La giovane si volse e il mostro ci passò attraverso, non prima di averla ghermita per le spalle. Al suo tocco quella cominciò a gridare, la sua pelle si annerì e lei non riuscì più a muoversi. La sua carne prese a fumare mentre anneriva e seccava. «Marika!» e, «Scappiamo via!» Tutti quelli presenti nella zona, regista compreso, si dettero alla fuga gridando a squarciagola. E, tu vedesti immagini delle sue scarpe sull'asfalto e la corsa sfocata. Poi il cameraman si girò per controllare che non li seguisse. Ma proprio in quel momento la creatura alzò la testa di scatto, la girò verso di loro e abbandonò il suo pasto per avventarsi contro i ragazzi che corsero via urlando.
Poi la creatura si avventò contro i ragazzi che corsero via urlando.
Il telefono volò a terra e lo schermo divenne nero.
Il video finì lì.
In tanti anni che avevi avuto a che fare con la morte, era la prima volta che vedevi una cosa simile. O una creatura come quella. Non ricordavi neanche di aver mai visto una cosa del genere negli Inferi. E, avesti paura.
Reprimesti i brividi e cercasti di mostrarti coraggioso, come il Cavaliere qual eri.
«Loro furono i primi. Quel giorno morirono almeno un centinaio di persone, così dissero i giornali.» Spiegò l’uomo in tono mesto. Annuisti, anche a te erano arrivate queste notizie. Il tuo informatore improvvisato continuò: «Dopo di lei molti altri sono morti quello stesso giorno. Nei giorni seguenti per mano di quelle creature». Spiegò mesto l’uomo riprendendosi il cellulare mentre tu facevi del tuo meglio per non mostrarti impressionato. «Pochi si sono salvati e le autorità hanno fatto evacuare la città».
Poi avevano insabbiato la notizia mascherandola con un attacco terroristico. Ma questo tu lo sapevi, altrimenti non avrebbero mandato te. In un certo senso era come essere di nuovo nel 1979, assieme al mediatore John Black in quella centrale nucleare.
Gli ponesti una mano sulla spalla e gli dicesti, guardandolo negli occhi, anche se dovesti chinare il capo perché era di parecchi centimetri più basso di te: «Grazie per avermene parlato, signore, adesso torni a casa e lasci fare a me». L’uomo annuì, riprese le sue cose, che aveva posato a terra per parlarti e, se ne andò più rapidamente che poté, per via dell’età. «Faccia attenzione.» Si raccomandò lanciandoti un ultimo sguardo, prima di lasciarti lì. Non “vendichi mio nipote” o “Uccida quella cosa, la prego”. Faccia attenzione.

Decidesti di metterti all’opera quella sera stessa, verso la mezzanotte e dopo la cena. Se ti avevano mandato qui, significava che almeno una di quelle creature era stata avvistata anche in questo posto. Avevi passato al setaccio tutta la città, sia con il tuo Cosmo sia con le tue doti d’investigatore. Doti che ti avevano salvato molte volte in precedenza.
Non fu molto facile individuarle, anche perché, quelle creature non avevano Cosmi, era come cercare di stare dietro a degli sbuffi di fumo. A vederle dal vivo sembravano addirittura impalpabili.
Ma era solo apparenza.
Non dovesti neanche fare molta strada, in realtà. Perché ad aiutarti, seppur involontariamente, ci pensò uno Specter rivoltoso che ingaggiò battaglia con te. Non ricordavi neanche il suo nome, adesso che ci pensavi, né se te l’avesse detto. Fatto sta, che l’esplosione dei vostri Cosmi non passò inosservata e più creature di quante pensavi di trovare vi sciamarono attorno come gli squali giravano in cerchio alla preda. Non potesti però perdere tempo a osservarle che lo Specter, con un grido di battaglia, ti si scagliò di nuovo addosso. «Per il Sacro Leo!» Urlasti attaccandolo con uno dei tuoi colpi migliori. Eravate già accaldati e ammaccati per la battaglia, ma adesso capivi come mai quella ragazzina era bruciata viva: quegli esseri emanavano brucianti ondate di calore, erano roventi come le fiamme. “Atena, dammi la forza” pregasti.
In quello stesso momento anche il tuo avversario, gemendo, si raddrizzò, aggrappandosi al muro semi distrutto. Una mano sulla testa ferita. «Che diavolo sta succedendo?» Gli domandasti, ma quello agitò la testa, istupidito, poi ti guardò e ti chiese: «Cosa...?»
“Questa non ci voleva, il colpo deve averlo rimbecillito”. «Ascoltami bene, non so quale creature abbiate al tuo servizio, ma non saranno di certo questi fantasmi di garze nere fluttuanti a sconfiggermi! Lighting bolt!» Urlasti e gli sferrasti un altro colpo, illuminando quel vicolo abbandonato come se fosse giorno grazie ai tuoi fulmini.
Già lo Specter era conciato male, non riuscì neanche a difendersi. Lo raggiungesti e gli domandasti: «Parla, che cosa sono?» L’avversario cominciò a dimenarsi come una tartaruga ribaltata e piagnucolò: «Io... Non so... Cosa? Cosa sono quelle cose orripilanti?» Domandò fermandosi di botto e sgranando così gli occhi. «Non mentire con me! Non far finta di non saperne niente!» Sbottasti. Stavi per scagliargli il tuo colpo più potente quando sentisti un’ondata di calore rovente sulla nuca.
«Ma cosa... »Voltasti la testa di modo che potessi guardare sopra la tua spalla sinistra e vedesti quelle creature innalzarsi a tre metri sopra di voi, prima di calare in picchiata. Le dita artigliate protese. E, non riuscì a sottrarsi dalla presa delle creature, che, fulminee, lo assalirono. Se tu riuscisti a salvarti, fu solo merito della velocità della luce, perché grazie a essa rotolasti via. Non riuscisti a guardare mentre le urla dello Specter si affievolivano e nell’aria si levava l’odore della carne bruciata. Ma non riuscisti neanche a scappare, il tuo coraggio e il giuramento fatto ad Atena te lo impedivano. Ti rialzasti nello stesso momento in cui si voltavano verso di te: «Sono qui! Il vostro avversario sono io!» Le sfidasti pulendoti un rivolo di sangue dal volto, regalo dello scontro con lo Specter defunto. Quelle non risposero, forse non avevano una voce. Ma ciò non ti impedì di urlar loro qualche domanda («Siete al servizio di Hades?», «Sta di nuovo progettando di annientare l’umanità?», «Da dove venite?», «Chi è il vostro creatore? Vi ha creato lui?» Domandasti indicando il cadavere annerito e rinsecchito. Neanche un alito di Cosmo percepivi da lui. «Oppure Hades?») anche per vedere le loro reazioni, ma quelle restarono silenti, e allora provasti su di loro tutti i tuoi attacchi senza risultato alcuno, a parte quello di farle avanzare verso di te, con la loro solita flemma. «Sì! Brave! Venite qua e avrete pani per i vostri denti! Lighting Plasma!» Urlasti e i fulmini le investirono illuminando a giorno la zona e riempiendola del loro ronzio elettrico.
Ma, con tuo sommo orrore, scopristi che erano immuni a tutti i tuoi attacchi.
«Atena...» Mormorasti sgranando gli occhi, le gocce di sudore provocate dal loro calore si mescolarono col sangue.
Le scheletriche mani delle creature erano sempre più vicine.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Senza Cosmo, eppure... ***


Senza Cosmo, eppure...


Death Mask
Nei giorni seguenti visitaste musei (tu stranamente sveglio e pimpante nonostante la noia e, Aphrodite molto interessato, soprattutto per l’arte moderna) ed esploraste la riviera, costatandone i cambiamenti. Essendo stati lontani dal mondo per tutto questo tempo, era normale che voleste aggiornarvi. Il che comprese anche un salto dal parrucchiere per rifarsi la tinta per Aphrodite. Ora, al posto del celeste che gli conoscevi, sfoggiava un biondo chiaro con meches celesti che gli donavano ancor più di prima. Già una volta, molti anni prima, ma, in effetti, solo due, l’avevi visto travestirsi da donna ed era pure verosimile. Quando il tuo amico ti chiese un parere, ti limitasti a scoccargli un’occhiata e alzare un pollice al suo indirizzo. Occhiata che si trasformò in una di fastidio quando propose anche a te di approfittarne. Anche se pagava Lady Isabel, non significava che dovevate per forza scialacquarle il patrimonio.
I pensieri ti corsero a Shura che non era potuto venire con voi perché ammalato e ad Aiolia. Sempre una sagoma, quel ragazzo, lo vedevate benissimo a fissare con aria sognante (e bramosa al tempo stesso), le bancarelle e le vetrine e fare man bassa del vostro molto ampio budget. Vi eravate meritati quella vacanza col sudore della vostra fronte. Alla fine Lady Isabel era maturata e aveva compreso che anche voi Saint era delle persone, non solo dei soldatini. Perciò aveva deciso di premiarvi con questa vacanza, memore di quella volta che, a mensa, avevi espresso il desiderio di rivedere la tua madrepatria. Chissà chi gli aveva riferito questo desiderio.
E, dopo i fatti dei Senza Volto che si erano svolti appena due anni prima secondo tutti, ma moltissimo tempo addietro per voi Saint, fatti dai quali tutti voi vi eravate miracolosamente salvati, anche se sparpagliati un po’ovunque, era tornata la pace. Anche se avevate la sensazione che non sarebbe durata a lungo. Infatti, quella sera stessa avvertiste un Cosmo in pericolo, quello di Aiolia. Subito ne percepiste un altro e, infine, entrambi scomparvero per ritornare al Grande Tempio.
Lesto, Aphrodite acchiappò il suo cellulare dalla tasca dei pantaloni e, digitò velocemente un messaggio che inviò a Shura tramite i social. Il Cavaliere vi rispose solo quando lo contattaste tramite i tuoi poteri telepatici. Vi disse che non si era accorto dei messaggi che gli avevate inviato e, riferì il fallimento della missione di Aiolia, ma anche del suo salvataggio per opera di Mur, che era stato mandato immediatamente a cercarlo.
Vi rilassaste e domandaste altre spiegazioni, ma il vostro amico rispose che al momento ne sapeva quanto voi, perché i due erano appena tornati e si stavano dirigendo in infermeria. In compenso vi promise che appena avrebbe saputo qualcosa vi avrebbe informati. «E, che cazzo, non si può mai stare tranquilli che subito succede qualcosa». Borbottasti, prima di essere fulminato da un’occhiataccia di Aphrodite. Non aveva mai amato il tuo linguaggio scurrile.

Aiolia
La vicinanza e il calore emanato da quelle cose ti stava annebbiando il cervello e facendo sudare. La cosa peggiore era che cominciavi a sentire la tua stessa energia risucchiata, come se le mani di quelle creature fossero potenti calamite per Cosmi. E, ti eri ritrovato quasi in ginocchio. Così avevi azzerato il Cosmo. Era stata una buona mossa perché era diminuito l’afflusso dell’energia risucchiata. Ma non era servita ad allontanarle.
Improvvisamente eri stato afferrato per le spalle «Andiamo via». Aveva detto la voce di Mur. Ti aveva fatto passare un braccio attorno al suo collo e lo scenario era cambiato. Così, ti eri ritrovato a guardare il cielo blu fulgido di stelle sopra il Grande Tempio. A respirare un’aria fresca, diversa e, in qualche modo più libera, che, ti aveva riaperto i polmoni.
Il Santuario comparve di nuovo nella tua visuale. «Tutto a posto, Aiolia?» Ti chiese Mur girando il viso verso di te. Gli stavi appeso al collo come una borsa stava appesa al braccio di una ragazza.
«Sì». Riuscisti ad ansimare sfregandoti il volto con una mano. «Grazie per l’aiuto». Tu non ringraziavi molto spesso i tuoi compagni, anzi, proprio mai. Neanche da ragazzo c’eri mai riuscito. Sentire uscire quella parola dalla tua bocca era quasi come assistere a un’apparizione Mariana. «Credi di riuscire a camminare?» Ti aveva chiesto il maestro di Kiki e ti eri sentito trapassare il cranio dal suo sguardo color malachite.
«Sì». Avevi detto e ti eri staccato da lui. Il Cavaliere di Aries dell’altra dimensione ti aveva guardato, quasi valutato. Era facile individuare i Cavalieri della dimensione dell’Antipapa: le loro Armature somigliavano alle God Gold Cloth e alle loro spalle svolazzava un mantello nero con il simbolo della sua Casa in rosso. Era solo questa la differenza con gli originali.
«Cosa è successo?» Ti chiese il tuo compagno mentre ti sedevi sui gradini della Prima Casa.
«Quelle cose… mi stavano prosciugando». Dicesti.
Anche se l’intervento di Mur era stato provvidenziale (chissà chi l’aveva mandato da te) non doveva impicciarsi. E, glielo dicesti anche. La missione era tua, era compito tuo fermarle e ricacciarle indietro. Eri pronto a morire per farlo. Non era la prima volta che ti venivano affidati incarichi simili e lo sapevate entrambi. Poi: «Accidenti».
Peccato che Mur fosse troppo intelligente per darti corda e una scusa per sfogare la tua rabbia. Conosceva troppo bene la tua impulsività per confondersi in essa e perdersi. E, stanotte, non ti avrebbe dato spago. «Ti consiglio di riposare, per stanotte, farai rapporto al Papa quando starai meglio».
«E, la mia roba?» Domandasti stancamente, passandoti una mano tra i capelli.
«Prego?»
«E’ rimasta in albergo ad Aktau». Stava per dire che non erano affari suoi, ma cambiò idea: «L’andrò a prendere domani mattina, non preoccuparti». Promise. Poi rientrò nella sua Casa.
Tu restasti seduto su quei gradini un altro po’ a riprendere fiato e cercare di toglierti dalla retina l’immagine di quelle cose. Non che fosse così grave, molte cose, nel corso della tua esistenza ti erano rimaste impresse ma poi le avevi superate. Avresti superato anche questa.
Poi, ti sovvenne un altro problema. “Oh, e ora chi glielo dice al Gran Sacerdote?”

Aphrodite
La Luna crescente aveva assunto i colori giallini dei lampioni che illuminavano la pittoresca via in cui vi eravate fermati per un aperitivo, coccolati dalla musica di sottofondo e dal chiacchiericcio dei passanti in strada.
Osservasti il tuo compagno d’arme seduto al tavolino fuori del bar. Non lo stesso di una settimana prima. Dopo il trattamento di quel plebeo non ci avresti messo piede neanche per un milione di dracme. Se non, forse, per devastarglielo con le tue rose. Avevate ordinato del vino bianco e poi, quando avevate finito, avevi preso un margarita mentre il tuo amico aveva cercato di bere un chinotto. Cercato perché appoggiare le labbra al bicchiere e lasciare che il liquido le bagnasse non era bere. Il contenuto di quel bicchiere non era calato neanche di un millilitro. E, il suo piatto ancora intonso stava diventando la cena delle prime mosche della stagione. Mosche che provvedevi ad allontanare con il contributo delle rose recise nei vasi sui tavolini, che, in cambio del tuo Cosmo, ti davano una mano. Invece, tu avevi spazzolato le tartine, i tramezzini, il farro e quel bel flute di plastica con i gamberetti e le foglie di rucola.
Passi il trascinartelo dietro tutto il giorno alla stregua di uno zombie. Passi le miriadi di foto che vi avevano scattato le ragazzine colpite dalla vostra bellezza e sensualità. Con quella giornata ne avevate così tante a giro per i social che avresti potuto farci il photobook e iscriverti a un’agenzia per modelli solo per vedere se vi avrebbero accettato. Passi che a causa del suo stato catatonico ti eri sorbito meno lamentele e meno imprecazioni, ma adesso stavi cominciando a preoccuparti. “Amico”, ti corresse la voce della tua coscienza. Amico da una vita, per essere precisi. Per essere ancora più pignoli, da quando eravate tornati alla vita a Tokyo. La vostra amicizia era nata lì. Prima, al massimo, potevate considerarvi conoscenti. Tu non ti saresti mai abbassato a parlare con quell’attaccabrighe pallone gonfiato e lui non era tipo da coinvolgerti nei tuoi progetti e, non solo perché non ti interessavano, ma perché lo reputavi un pidocchio fastidioso. Anche se voi tre (se nel gruppo includevi anche Shura, anche se era un caso particolare) eravate quelli che avevano appoggiato Arles (tu lo avevi seguito pur sapendo chi fosse, Death per la gloria e il potere e Shura perché ipnotizzato), non significava che foste amici. Non in automatico.
Poi, dopo i fatti dei Senza Volto le cose erano cambiate. Avevi un rapporto di conoscenza e stima nei confronti di Shura, adesso ce l’avevi anche con Death da quando era cambiato. Il vostro rapporto era nato dalla scocciatura di Asgard. Non ti saresti aspettato, però che il Cavaliere di Cancer restasse sconvolto dalla tua morte apparente.
Da allora era diventato piuttosto facile sconvolgerlo, anche se continuava a mantenere la sua facciata burbera. Sapevi che si era sinceramente preoccupato per te quando l’albero di Andreas ti aveva inglobato.
Osservavi Death domandandoti se stesse male. Il pallore integrale non l’aveva ancora abbandonato e lo faceva somigliare a una mozzarella che camminava.
Portasti alle labbra il tuo calice di vino e bevesti un sorso. Poi gli domandasti, nonostante la consapevolezza che avrebbe preso quelle parole come una possibile offesa di lesa maestà: «Sei sicuro di stare bene?»
«Eh? Certo! Sto benissimo!»
«Ho come l’impressione di aver già udito questa frase». Mormorasti ironico. “Sarà perché forse non fai altro che ripeterla da tutto il giorno?” Pensasti.
L’altro ti trapassò con un’occhiataccia. «Aphrodite, davvero, sto bene».
«Allora non hai fame». Gli dicesti con lo stesso tono di quando arrivavi a formulare una deduzione.
«Cosa?»
Avevi incatenato il tuo sguardo al suo e poi, l’avevi trascinato giù con il tuo per fargli guardare il suo piatto. Altro che il Cosmic marionation di Minosse del Grifone o il Genro Mao Ken di Saga. «E’ un bello spreco, non trovi?» Commentasti poi rialzando gli occhi per guardarlo di nuovo.
Il siciliano cominciò a trangugiare la sua ordinazione, mentre tu, stravaccato sulla sedia, un gomito dietro lo schienale, rigiravi il bicchiere del tuo aperol come se stessi scaldando una coppa di liquore, forse brandy. Come se ci fossi abituato e, in un certo senso era proprio così.
«E’ per Astrid?» Domandasti con molto tatto, quando ebbe finito di dare spettacolo.
«Cosa?»
«Il tuo comportamento».
«Non sono affari che ti riguardano, Aphrodite». Ribatté stancamente. Rivoltato come un calzino, ecco qual era l’espressione giusta. Nessuno mai aveva saputo svelare così tanti segreti nell’arco di una mezzora come lei. «Mi riguardano a seconda di quello che hai intenzione di fare. Adesso lei sa di noi e del Grande Tempio».
«Fosse solo quello il minimo. Con tutto l’elenco che ha tirato fuori rischiamo di essere denunciati e incarcerati solo per la metà dei nostri reati». Disse. Un gomito sul tavolo, il braccio incrociato ad esso e l’altra mano a sorreggere la testa neanche stesse affrontando una complessa operazione matematica. «Tuoi». Lo correggesti. Lui scosse il capo, si districò da quella posa, si frugò in tasca e, poi tirò fuori una sigaretta che si accese. «Nostri, ha visto anche te, tutti noi».
Assottigliasti gli occhi. «Dunque che proponi di fare? Non ucciderla, lo sai che non ti permetterò di alzare un dito sulla sua bellezza».
«Non me ne importa niente della sua beltade, ma non sono così idiota da mettermi contro di te, scoppierebbe una Guerra dei Mille Giorni e, probabilmente finiremmo per ammazzarci a vicenda». Scherzò amaro l’altro, interrompendoti per fare un tiro, imitando la tua posa, anche se più rigida. Evitasti di fargli notare che lo avresti ucciso prima tu e senza che se ne accorgesse. Lo lasciasti continuare. «Per il momento ho deciso di restare a guardare, se un giorno di questi ci arrestano a causa sua, sapremo a chi dare la colpa».
«E, in caso cosa farai?» «Ho pensato a qualche soluzione meno drastica». Lo guardasti stupito. Questo Death Mask insolitamente misericordioso era una novità assoluta. «Ma faccio così solo perché se no incorrerei nelle ire della Dea». Aggiunse prontamente. “Ah, volevo ben dire”. Dopotutto lui era sempre il Cavaliere di Cancer.
«Quella ragazza fa paura, non è vero?» Ti ritrovasti a dire per metterlo alla prova. Volevi vedere quanto era rimasto senza parole e quanto fosse profondo il terrore che nutriva per la giovane chiromante. «Molta». Ammise, colto in un momento di fragilità. E, avesti la tua risposta. «Se la rivedremo cosa farai?»
«A dirla tutta, io spero proprio di non rivederla mai più. Una come quella porta solo guai».
«Ma se accadesse?» Insinuasti accavallando le gambe.
«Se accadesse l’affronterò e vedremo chi l’avrà vinta». Dichiarò.
«Vacci piano, è solo una civile». Gli ricordasti quasi inutilmente.
«Anche Andreas doveva esserlo».
«Pensi che abbia a che fare con qualche altro ordine di Guerrieri?»
«Non lo escludo».
«Staremo a vedere». Dichiarasti. Lui annuì e ti fece eco, spegnendo il mozzicone nel posacenere: «Staremo a vedere».

Astrid
Passò una settimana, prima che riuscissi a ritrovare la completa calma quando leggevo i Tarocchi e la mano ai miei clienti.
Il bar di Corrado non era l’unico posto dove esercitavo quasi abusivamente le mie Arti. Con un locale avevo un vero e proprio contratto di lavoro e la mia fama cresceva sempre di più. Di questo passo avrei finito per oscurare la fama della mamma e della nonna.
Invece, la prima settimana, al lavoro non mi confidai con nessuno, neanche con Denise o il principale. Preferii tenermi tutto dentro e sperare che non tornassero. Gli unici commenti che ricevetti furono sulla mia mise: giacché avevo portato in lavanderia la solita divisa nera (cioè la maglia lunga fino alle ginocchia che mi faceva da vestito), quella sera avevo optato per una camicetta sotto al mio cardigan.
Ma il terrore che mi aveva accompagnata per tutta quella settimana non mi lasciò neanche la seguente. Terrore che, per qualche motivo, mi spinse a rispondere alle telefonate di mio padre e di mio nonno. I quali furono mezzo contenti e mezzo arrabbiati quando risposi. Mezzo contenti perché finalmente rispondevo e avevano temuto il peggio. Mezzo arrabbiati perché: «Accidenti, Astrid! Perché non ci hai risposto per una settimana?»
«Scusami papà».
«Il nonno e io eravamo preoccupati. Possibile che non te ne freghi proprio niente?» Secondo lui vivere da sola mi stava rovinando. Mi sentii felice e in qualche modo rassicurata dalla sua voce anche se mi stava rimproverando. «Si può sapere perché non alzi mai quella cornetta?» Come se il mio cellulare fosse un telefono fisso.
Alla fine si calmò e riuscii a rispondergli. Conversammo per quasi quattro ore prima che attaccasse dicendomi: «Ti voglio bene».
«Anch’io, papà».
«Chiama il nonno, mi raccomando».
«Va bene, ciao papà». E, attaccò, così potei chiamare il nonno.

Purtroppo non ci si può murare vivi in casa e, io avevo mangiato poco o niente per giorni. Alla fine non resistetti più e mi trascinai fuori di casa, facendo molta attenzione e guardandomi sempre intorno, con le orecchie ben tese e ben aperte e, di conseguenza, pronta a saltare in aria a ogni più piccolo rumore.
Mi diressi al bar sotto casa e feci colazione. Poi andai a fare la spesa.
Quando tornai a casa con le buste del supermercato piene ed ebbi messo la spesa al suo posto, mi cucinai qualcosa come le portate di un ristorante. Poi dopo mangiato, misi su un po’di musica per cercare di distendermi i nervi. Lo shuffle scelse alcune canzoni Anni ‘80 che non ascoltavo più da quando avevo cominciato a lavorare al Kazablanc. Ma, per quello che stavo per fare andavano bene anche quelle.
Avrò fatto i tarocchi almeno mille volte per scongiurare la mia morte, quando alcuni clienti non proprio entusiasti delle letture cercavano di farsi restituire i soldi. E, non sempre potevo contare sulla polizia. L’ho detto, leggere la mano e leggere i tarocchi in Italia è illegale.
Però c’era un trucco che quelli come me potevano adoperare. Se il responso che otteniamo con le carte non ci piace possiamo cambiarlo. E, quando avevo domandato alle carte se Death Mask si sarebbe messo sulle mie tracce per uccidermi e, quelle mi avevano risposto di sì, allora avevo cominciato a mescolarle e rimescolarle finché la risposta non era diventata negativa. Forse è solo superstizione, ma c’era qualcosa di magico e rassicurante nel mescolare le carte a quel modo. Era come cambiare il proprio destino con un semplice movimento del polso. Potevo sentire l’aria e l’atmosfera cambiare ogni volta che giravo le carte. Assumere sfumature dorate e mielate come il mio sguardo, creando una sorta di bolla di energia curativa. Una panacea spirituale per il mio animo turbato.
Questa non era follia era un’altra cosa. Una cosa che se il cui nome veniva sussurrato significava infrangere l’atmosfera e gli effetti di tale operato; il cui prodotto era questa sottile energia colorata, talmente delicata e inafferrabile come il fumo dell’incenso, eppure così forte da rivelarsi in grado di smuovere gli eventi come la leva di Archimede o la volontà. Alcuni lo chiamavano libero arbitrio, altri desiderio, altri ancora incantesimo. Per me il suo nome era impronunciabile.
Anche questo faceva parte del tacito patto che avevo contratto per riuscire a utilizzare il vero potere dei tarocchi. Potere che sapeva parlare al cuore di coloro che sapevano ascoltare e che si poteva sperare di gestire solo per metà. Come mia nonna prima di me.
Con le carte non era mai una questione di chiedere e ricevere, ma era uno scambio equo. Loro mangiavano parte della mia energia per fare predizioni e io, in cambio, ricevevo i responsi. Mangiavano di meno soltanto se le risposte erano per me. E, io ci riuscivo e mi ci stavo aggrappando con tutte le mie forze. Lo stesso che molte volte mi aveva cacciato nei guai ma che altrettante mi aveva tirato fuori. Carte più potenti di quelle di cui disponevo io non ce ne erano. Appartenevano alla mia famiglia da generazioni e a mia nonna piaceva dire che solo le carte di una Dea avrebbero potuto superare queste.
Ma questo non significava che non potessi desiderare qualcosa e che non si avverasse. Tramite i tarocchi era come se qualcuno mi ascoltasse e mi esaudisse davvero, come Aibileen di The Help che se scrive le sue preghiere queste si avverano.
«Non m’importa come, che sia per energia per voglia di esplorare, voglia di viaggiare e visitare musei lontani da qui, ma fa che stiano lontani da me per tutta la durata della loro vacanza. Che le nostre strade non si incrocino mai più». Implorai mentre Someone somewhere in summertime dei Simple Minds riempiva l’aria dando sostanza al mio desiderio. E, le carte risposero: “Stai tranquilla”.
Sospirai, quasi rinfrancata.
Mescolai i tarocchi un’ultima volta. Alla domanda: «Li incontrerò di nuovo?»
Ne estrassi una. Il responso risultò negativo.
Se invece fossero saltati fuori di nuovo e avessero cercato di farmi qualcosa, sarei corsa alla polizia, poteri o non poteri che avessero. Il mio forse mi avrebbe salvata anche questa volta.

Quando i miei colleghi mi videro al lavoro, mi chiesero spiegazioni: «Che hai? Sembra che tu abbia visto un fantasma» e, Denise, che, quella sera si era raccolta i capelli in una crocchia: «E’ successo qualcosa?» Domandò porgendomi il cocktail analcolico che le avevo chiesto di prepararmi come scusa per attaccare bottone.
Il mio primo istinto fu quello di negare e tranquillizzarla. Ma poi ci ripensai. Se l’avessi fatto avrei fatto solo il loro gioco e non volevo. «In effetti sì, è successo qualcosa».
Lei smise di affettare la frutta e mi guardò attenta.
«Tu sai che ho una seconda attività, no? Ecco, una settimana fa mi hanno spaventata». Mi ero ben guardata dal confidare a chicchessia i dettagli. Sapevano che avevo un altro lavoro ma non mi avevano mai chiesto niente. Se Giovanni avesse saputo, probabilmente mi avrebbe licenziata. Non tanto per il fatto che esercitassi un altro lavoro, ma perché quel lavoro in particolare faceva sfigurare il locale. Se qualcuno avesse saputo probabilmente non sarebbe più venuto a causa della superstizione. Fortuna che non mi era ancora successo.
«Che vuol dire spaventata? Sei stata molestata?» Domandò lei.
«No, ma ho visto delle cose che mi hanno turbata molto e ora ho paura che questa persona possa tornare a cercarmi».
«Lo hai detto a Giovanni?»
«No, io… non me la sono sentita». Confessai.
«Dirò a Juan di passare a controllare il guardaroba». Dichiarò. Juan era il nostro buttafuori. Un ragazzone della Murcia, detto “Il Medusa” per i boccoli che ornavano la sua testa, che era venuto in Italia quando era ancora piccolo. Anche se aveva diciannove anni era alto un metro e novantacinque e la sua corporatura massiccia metteva chiunque in soggezione. Persino io che, anche se sapevo che era una brava persona non riuscivo a parlarci.
Denise mantenne la sua parola e, qualche volta, durante la serata, “Il Medusa” passò qualche volta a controllare che stessi bene, facendo finta di buttare un’occhiata al guardaroba. Io gli feci un sorrisetto rassicurante e lui, con un cenno del capo che stava a dire “Bene”, passò oltre. Eppure avevo fatto le carte. Questo metodo aveva sempre funzionato, perché avrebbe dovuto Infatti, fu così, Aphrodite e Death Mask non tornarono al Kazablanc, quella sera, ed io potei tirare un gran sospiro di sollievo.
Le carte mi avevano salvata.
Già, ora che ci pensavo, la loro vacanza era finita e se ne erano tornati in Grecia. Dai ricordi del siciliano avevo capito che la loro vacanza era di due settimane. Probabilmente avevano lasciato l’Italia pensando che il terrore mi avrebbe cucito la bocca e fatto mantenere il segreto. Doveva essere per forza così. Avevo scoperto la loro provenienza proprio dal “buco nero”.
E, da quel momento in poi, per quella sera, il pensiero di quei due sembrava non esistere nella mia mente.
Alla fine della serata ero così allegra e spumeggiante che mi presero in giro: «Che ti succede, Astrid? Hai esagerato con la Red bull?», «Dovresti lavorare di più così, Astrid, potresti pulire il piazzale da sola.» e, «Beata gioventù, come vorrei avere ancora il tuo entusiasmo». «Astrid». Mi chiamò la mia collega mentre portava via, aiutata da Sharon, il primo sacco d’immondizia della serata.
Smisi di spazzare e la raggiunsi, tenendo la scopa in mano: «Allora, è andata tutto bene?» Mi domandò mentre buttavano la spazzatura. Poi Sharon si allontanò, era sempre la prima di noi a finire perché non sopportava di dover sprecare un minuto di sonno di più. «Bene, non si è presentato».
«Meglio così». Sorrise lei, rassicurata.
Quando Giovanni ci congedò tutti, dopo averci pagato, Denise mi domandò se volessi un passaggio a casa, ancora un po’preoccupata. «No, non c’è bisogno, stai tranquilla e, poi, io vivo nella zona pedonale». Avevo detto.
«Sei sicura?»
«Sì».
Lei non mi parve molto convinta ma mi lasciò fare. Mi salutò sfiorandomi le guance con due baci e poi mi lasciò andare.
Salutai tutti e me ne tornai a casa, come sempre.

Ero arrivata nei pressi di casa mia quando un’ombra sbucò da un vicolo laterale.
Sobbalzai e il cuore mi andò in gola, che fossero quei due? Anche se non fossero stati loro, mi sarei spaventata lo stesso. Anche se avevo una qual certa confidenza con le strade di notte, non mi era mai capitato di incontrare nessuno a quest’ora.
L’ombra assunse i contorni di un uomo che mi camminò incontro. Per fortuna sembrava non avermi neanche notato.
Mi strinsi la tracolla della borsa con entrambe le mani e continuai ad andare avanti, cercando di ignorarlo, ma pronta a darmela a gambe e strillare. Appena fummo a spalla a spalla, disse: «Sei tu!» Trasalii.
Si volse di scatto e mi afferrò. Prima che riuscissi a capire, mi ritrovai girata e con la schiena inchiodata al muro. Il mio aggressore smise i panni civili in favore di un’armatura di varie sfumature viola e nere con rari intarsi di porpora, con un mantello non dissimile da appariscenti ali e una coda come quella di un diavolo affilati come lame. Aveva un elmo a forma di testa di drago con due corna ricurve e anellate che gli sbucavano ai lati della testa e uno dietro, sulla sommità, donandogli una forma quasi a cuore. Aveva corna anche sulle spalle dell’armatura, e il mantello viola scuro parevano le ali di un drago. Più che la statura imponente e l’armatura, era il volto a mettermi paura. Aveva le sopracciglia verdi limone, quasi biondo inclinate verso il basso e gli occhi dello stesso colore. Nell’insieme pareva un demone dell’Inferno rischiarato dalla luce dei lampioni. «Dove si trovano?» Mi ringhiò rabbioso a qualche spanna dalla faccia.
Il terrore rinacque a nuova vita e prese possesso dei miei polmoni.
Presi a urlare di lasciarmi subito andare e altri comparirono dietro le sue spalle, aumentando il mio orrore. Ogni tentativo che feci per liberarmi fu vano, persino le mie grida. Era come se nessuno mi sentisse, come se mi avessero tagliato le corde vocali, anche se strillavo a pieni polmoni e piangevo terrificata.
«Questa non ci dirà niente. Su, ammazziamola e andiamocene via!» Suggerì subito dopo il secondo, canuto.
«No! Lei li ha visti, sa, dove sono! Non ce ne andremo finché non ce l’avrà detto!» Allora, mi zittì puntandomi la fredda lama di un coltello alla gola, ottenendo tutta la mia attenzione: «Parla, dove sono? Dove sono i Cavalieri d’Oro?» Mi domandò, ringhiando come una fiera. «Cavalieri d’Oro?» Ansimai con la vista annebbiata dalle lacrime. Faticavo a sentirlo per via del panico e del battito del cuore, che pompava furiosamente. Scossi rapidamente il capo in lacrime: «Cavalieri? Che Cavalieri? Di che state parlando?»
«Sta zitta! Tu parlerai solo quando te lo dirò io!» Esclamò il loro capo, ma non lo ascoltai, anzi, continuai a urlare ancora più forte, così tanto che mi fece male la gola. «Che lagna» si lamentò quello dai capelli bianchi come la neve, in contrasto con le vestigia della propria inquietante armatura. Fu il terzo, quello con l’armatura simile a quella di un uccello, i capelli e gli occhi scuri a dire: «Aspetta Rhadamantys, lascia fare a me, sono più persuasivo io».
L’altro lo assecondò con un sorrisetto malefico e si diedero il cambio. «Diccelo, strega, tu li hai visti!» Esclamò, anche se con meno ferocia dell’altro. Ma non ottenne altro che grida e alla fine, il tizio vestito da drago prese a schernirlo: «L’uccellino non canta».
«Allora la faremo cantare.» ribatté il mio aggressore, tenendomi inchiodata al muro mentre lottavo, scalciavo per liberarmi e imploravo e gridavo. Perché non veniva nessuno ad aiutarmi? Poi, mi agguantò per il colletto della camicia e mi lanciò in aria con una facilità estrema urlando: «Ali di Garuda!»
Urlai ancora più forte, mentre salivo a velocità che neanche mi immaginavo. Saltò anche lui e mi colpì allo stomaco con le mani e caddi per finire in braccio a un altro aggressore che mi rigirò come se fossi una bambola e cominciò a elencare i modi in cui poteva farmi fuori, con un sorriso sulle labbra. Di fronte alla mia faccia atterrita e i miei ansiti rise e mi lanciò al terzo, che mi colpì nuovamente e presero a usarmi come se fossi una palla da pallavolo. «Vi prego! Lasciatemi! Aiuto!» Strillavo, ormai, col corpo dolorante e la bocca piena di sangue, mi domandavo perché non perdevo i sensi? Perché non svenivo? Perché mi rifiutavo di svenire? Caddi malamente e la mia caviglia protestò per la scarica di dolore della mia nuova ferita. Uno avanzò verso di me. Mi rannicchiai in posizione fetale implorandolo di non farmi male: «E, allora, dicci, dove sono!»
«Non so di chi parlate!» La risposta non gli piacque e, mi lanciò nuovamente in aria con la punta del piede. Poi saltò anche lui e fece per colpirmi quando un proiettile lo centrò all’elmo e qualcosa mi afferrò dicendo, sorridente: «Presa!» Nello stesso momento una seconda voce esclamò: «Accidenti, l’ho mancato!»
«I Cavalieri d’Oro!»
Oh, no!
«Finalmente!» Esclamò il mio aguzzino con un sorriso malefico.
Death Mask aggiustò la presa su di me e si rialzò in piedi. Io ero andata in iperventilazione, mentre lui era perfettamente tranquillo. Il volto decorato da quel diadema con il rubino romboidale e le sei appendici laterali non dissimili da una corona - mi guardò preoccupato e il suo volto si contrasse in una smorfia di rabbia. A quella vista io, con rinnovata energia ripresi a scalciare e urlare per liberarmi. «Bastardi! Cosa le avete fatto, maledetti?» Urlò guardandoli con astio mentre tutta la sua persona si illuminava di una luce dorata che mi ricordò una specie di aurora boreale. Peccato che a quella vista il terrore raggiungesse picchi talmente elevati che temetti mi scoppiasse il cuore e si lacerassero i polmoni.
«Niente, quella era solo l’esca, granchietto.» Ribatté quello con i capelli candidi in tono divertito.
«Death Mask! Va portata all’ospedale! Occupatene tu, ce la fai?» Urlò Aphrodite fuori del mio campo visivo, riportandolo alla realtà. L’energia dorata scomparve quasi istantaneamente. «Mi occupo io di questi trogloditi!» Aggiunse in tono più basso e vendicativo, suscitando le risa di scherno dei tre. Poi uno di essi rilevò con fare derisorio: «Sicuro? Da quel che mi ricordo, in due non siete neanche stati capaci di tener testa a uno di noi; come pensate di poter competere con tutti e tre i Giganti dell’Inferno?»
«Non credere di avere il coltello dalla parte del manico Eaco, siamo molto cambiati da allora». Ribatté Aphrodite, ma io sentivo a malapena a causa del dolore delle mie stesse grida che non riuscivo a controllare.
Poi, rivolto al collega dal quale non riuscivo a liberarmi: «Cosa aspetti? Vai!»
«Sì!» Ma, prima che potesse muovere un passo, cominciò a tirare un vento talmente gelido che fece accapponare la pelle e, qualcosa di nero, ancora più scuro della notte, volteggiò giù dal cielo con la stessa leggerezza della neve. Erano come veli violacei e neri e fumo al tempo stesso, di forma vagamente umanoide ed evanescente, ma le mani erano munite di quelli che parevano lunghi artigli. Mi aggrappai tremando al collo del Cavaliere d’Oro per la paura. Ma il solo muovere le mani mi procurò un dolore atroce e dovetti desistere. Lui mi strinse meglio a sé di riflesso e prese a guardarsi freneticamente intorno, per monitorare ogni movimento nemico.
Quelle creature d’ombra non emettevano suono alcuno, solo un silenzio che pareva rumoroso quanto il ruggito di un leone nella savana. Anche se non avevano occhi, era come se ce li avessero ed essere scrutati dal nulla più assoluto. E, così dal nulla, l’aria fredda fu spazzata via, sostituita dal loro calore, come se quelle cose emanassero un tepore e un’energia tutta propria. Fiamme nere, ecco cos’erano.
I Cavalieri s’immobilizzarono per un secondo prima di mettersi schiena contro schiena e monitorare la situazione con lo sguardo, agitati, mentre le cose cominciavano a volteggiarci attorno come squali attorno alla propria preda. Erano affascinanti, nella loro inquietante presenza. Persino io, nel mio dolore, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. «Death Mask...» Lo chiamai tremando nella sua stretta, cercando di tenere a freno l’urlo di terrore e dolore che lottava per uscire dalla mia gola assieme ai gemiti provocati dalle sferzate dei colpi subiti.
«Che opera è questa? Un nuovo colpo, Rhadamantys?» Domandò Aphrodite in tono derisorio e una faccia tra il perplesso e il divertito. «Pensavo fosse opera di Cancer!» Li accusò l’altro.
«Che diavolo sono?» Domandò quello che aveva avuto l’idea di usarmi come una palla.
Death Mask mi strinse di più a sé, provocandomi altro dolore.
Uno di essi si staccò dal gruppo e poi ci attaccò, seguito immediatamente dagli altri.
Urlai a squarciagola per le fitte.
I Cavalieri d’Oro e i miei aggressori strillarono di terrore e cercarono di difendersi da quelle cose. Cancer oppose resistenza scagliando il suo Strati di spirito o una roba simile che li bloccò per pochi secondi, prima di dissolversi. Il Cavaliere trasalì ed io pure. Le creature avanzarono verso di noi tendendo gli artigli come a volerci ghermire. In quell’istante riuscii a vedere che effettivamente erano dotati di occhi e bocche, entrambi spalancati, in quel momento. Erano di un viola che si distingueva a malapena dal nero di cui erano fatte.
Aphrodite saltò davanti a noi e lanciò contro le sue rose urlando cose come: «Royal Demon Rose!» O «Piranian Rose!» ma queste ci passarono attraverso come se le creature fossero illusioni. O, come se quelle rose non avessero neanche potuto intaccarli. I nostri avversari, completamente illesi, continuarono ad avanzare verso di noi che fummo costretti a indietreggiare. Anche gli attacchi dei miei aggressori non ebbero alcun effetto. Uno dei mostri afferrò il canuto per le spalle e il compagno, che lo chiamò: «Minos!» Poi urlò il nome del suo attacco per liberarlo, ma riuscì solo a ferire il compagno.
«Non gli fanno niente!» Urlò intanto il ragazzo dai capelli azzurri mentre continuava a lanciare rose di vario colore. «Com’è possibile?»
«Non ci pensare! Arretra!» Urlò il compagno dopo aver alzato un braccio e aver cercato di colpirli con un altro suo attacco, invano. Adesso le Creature erano a un palmo da noi, sempre sospese a pochi centimetri da terra, le mani sempre tese verso di noi. Il calore che ci accarezzava, bruciando la pelle dei due Saint. Io non sentii niente per via del dolore e della paura e dell’adrenalina. «Death Mask!» Chiamò lo svedese girandosi verso di noi, ma riuscii a vedere solo una parte del suo viso che, improvvisamente fummo altrove, lontano dalla battaglia. «Siete ancora interi?» Domandò Cancer e Aphrodite annuì mentre io tremavo e le tenebre dell’incoscienza cominciavano a prendere il sopravvento su di me. Credetti di morire mentre rantolavo a quel modo, la gola stremata e dolorante per tutto quell’urlare. Il corpo ridotto a brandelli. «La tua tecnica di teletrasporto è stata provvidenziale.» disse il suo amico dopo uno sbuffo, dopodiché si guardò attorno, in allerta, prima di dichiarare che non ci avevano seguito. Poi si girò a guardarmi. Un rivolo di sangue gli rigò il volto come una lacrima.
Urlai un’ultima volta per il terrore e persi i sensi.

Aiolia
«Dunque non sei riuscito a portare a termine il tuo compito?»
«No, Signore. Mi dispiace». Dicesti a capo chino.
«Almeno sei ritornato vivo». Sospirò in tono stanco l’uomo seduto sul trono. Con quell’elmo e quella maschera sembrava quasi una mummia egizia in abiti sacerdotali. Considerando poi che la maschera aveva il pizzetto come la maschera funeraria di Tuthankamon e, un collare molto simile a quello del corredo funerario della suddetta mummia. Il paragone era pure più che azzeccato. Faceva quasi sfigurare gli altri gioielli. «Mi dispiace, signore, per non essere riuscito a portare a termine l’incarico».
«Delle tue scuse non so che farmene. Però non ho dubbi che saprai rifarti in futuro. Sei congedato, Cavaliere del Leone».
Così te ne eri andato in arena a sfogarti un po’.

Aphrodite
Tutto ti saresti aspettato fuorché quelle creature. Cosa diavolo erano? Non dovevano essere altrove? Eppure l’ultimo loro avvistamento diceva di averle viste nei luoghi del tuo addestramento, in Groenlandia. Il tuo cuore perse un battito. Anche se avevi odiato quel posto era pur sempre il luogo del tuo addestramento.
E, non potevi controllare che qualcuno stesse bene. Ti ripromettesti di farlo una volta tornati al Santuario.
Ma ora avevate un altro problema più urgente che stava morendo tra le braccia del tuo compagno.

Death Mask
«Astrid! Cosa le è successo?» Domandò Aphrodite che, dopo l’ultimo urlo della ragazza si era voltato verso di voi.
«E’ svenuta per le ferite e il dolore. Quei bastardi le hanno rotto la schiena!» Ribattesti allarmato e preoccupato, oltre che mezzo assordato. Te ne eri accorto perché lei non riusciva a muovere gli arti e, nella tua lunga carriera di assassino del Grande Tempio, anche tu ne avevi rotte di schiene e di ossa. Non c’erano dubbi. Ma chissà quante altre ferite interne aveva riportato nello scontro.
Impedisti al tuo collega di toccarla: «Non toccarla, dobbiamo muoverla il meno possibile. Dobbiamo portarla d’urgenza all’ospedale!» Dichiarasti notando che la sua anima stava per abbandonare il suo corpo. Per ora la stavi trattenendo con il tuo Cosmo ma non ci saresti riuscito ancora per molto. Quando Thanatos vuole qualcuno non lo lascia andare così facilmente e tu lo sapevi.
Tu non potevi fare molto oltre questo. L’unico che forse poteva fare qualcosa era Aiolia, ma lui era al Grande Tempio. “Maledizione!” Imprecasti mentalmente. Possibile che proprio ora vi potesse servire il leoncino dorato?
Forse avreste potuto servirvi dei poteri curativi del Cosmo insito nelle rose demoniache, ma le ferite erano gravi e non potevate restarvene tranquillamente allo scoperto. Non dopo quello che era successo. E, poi, l’azione curativa delle sue rose era troppo lenta per la gravità della situazione e la fretta che avevate. Inoltre, non era neppure sicuro che funzionassero su qualcuno di diverso da Aphrodite.
«Ma non possiamo neanche portarcela così!» Obiettò Aphrodite osservandola esanime. Perciò fece crescere alcuni fusti di rose dal niente e li indirizzò dalla ragazza che giaceva tra le tue braccia. I fusti si avvinghiarono addosso a lei con estrema delicatezza, come se le piante stesse avessero avuto paura di ferirla ulteriormente e, tu non potesti fare altro che cedergliela.
«Pensi che possa funzionare?»
«Non so, su un Cavaliere ci mette poco ma su di lei che non ha Cosmo, non ne ho proprio idea».
Dopo qualche minuto le rose te la restituirono. Ancora svenuta, ancora ferita gravemente però già molto meno di prima. «Ecco, più di così non mi sento di fare, quelle cose potrebbero tornare e anche gli Specter». Disse mentre le rose regredivano fino a scomparire.
«Adesso dobbiamo portarla all’ospedale». Ripetesti.
Aphrodite annuì: «Fai strada».
“Già, fai strada. La fai facile tu.” Non sapevi dov’era perché non c’eri mai stato. Non qui, almeno. E, la cosa peggiore, era che non avevate tempo per tergiversare. Poi ti venne un’idea. Scandagliasti i pensieri di un’ampia area e, colpo di fortuna, trovasti i pensieri dei dottori all’opera in uno degli ospedali più all’avanguardia della Fondazione Grado aperto in Italia e, dicesti al tuo collega, di aggrapparti a te. Lui ti guardò perplesso ma obbedì senza fiatare e, teletrasportasti tutti di fronte all’ ospedale che avevi scelto.
Davanti all’ingresso, le vostre Armature si scomposero da voi e si scagliarono come proiettili dorati nei loro Pandora-box, lasciandovi liberi di entrare.
Vi presentaste urlando al bancone della clinica allarmando tutta la struttura.
«Ehi, voi! Chi vi ha fatto entrare? Questa è una struttura privata!» Esclamò un dottore venendovi incontro. Tu gli ringhiasti: «Scostati se non vuoi finire male, ci manda la signorina Isabel di Thule!» per zittirlo, ma non per scostarlo. Infatti, il medico ignorò completamente Astrid e si concentrò su di voi: «Strano, non abbiamo ricevuto nessuna telefonata...»
«Non importa, fateci passare, è ferita!» Ciò detto Aphrodite ve lo tolse di torno con una spallata che per poco non lo scagliò contro la parete e correste al bancone dal quale stavano già venendovi incontro un’infermiera e un’altra stava già chiamando altri dottori. I quali giunsero dopo pochi secondi con una bombola d’ossigeno e una barella.
«Cosa le è successo?» Chiese la donna mentre adagiavate la vostra conoscente priva di sensi sulla barella, con attenzione. Un medico le pose subito la maschera dalla bombola d'ossigeno sul viso.
«Un pestaggio. L’abbiamo salvata».
Il dottore della spallata tornò alla carica (nonostante il dolore che traspariva dalla sua espressione) ma bastò una tua occhiataccia a rimetterlo in riga e farlo sparire. Anche perché, in quel momento, fu chiamato altrove. Se ne andò, ancora massaggiandosi il punto leso, non senza avervi scoccato una lunga occhiata in tralice.
Gli infermieri si occuparono subito di lei che ebbe precedenza immediata su tutti gli altri pazienti. Voi forniste le generalità (o, almeno, quel poco che sapevate di Astrid), guardati con sospetto nonostante le ferite. «L’abbiamo salvata da un pestaggio. Erano in tre». Spiegò Aphrodite. Il che poteva essere anche plausibile considerato il vostro aspetto stropicciato e ammaccato. Presentavate ustioni di qualche grado, lividi e tagli di cui non vi eravate accorti a causa dell’adrenalina. Agli scontri e a ferite del genere eravate abituati, quasi non li sentivate. Tu invece cercavi di toglierti di torno un’infermiera che cercava di convincerti a farvi medicare. «Potreste aver riportato qualche danno». Spiegava lei. Eppure ogni volta che cercavi di togliertela di torno, non demordeva e tornava alla carica con più foga di prima. A momenti non le lanciasti gli Strati di Spirito davanti a tutti. Alla fine fu richiamata da una collega e vi lasciò in pace.
La donna con il camice bianco che metteva in risalto la carnagione olivastra, le iridi e la chioma scura al bancone si rivolse a voi: «Signori, mi dispiace deludervi ma questa è una clinica privata...» Cominciò, le mani in tasca, come se così facendo avesse potuto esprimere tutta la sua autorità. «Lo sappiamo, l’abbiamo portata qui perché è una delle cliniche della fondazione Grado. Lavoriamo per la signorina Isabel di Thule anche noi, non abbiamo avuto il tempo di avvisarla». La interrompesti.
«Capisco, in questo caso devo avvisarla.» disse sospettosa mentre il tuo amico ti rifilava una gomitata nelle costole, bloccando così ogni tua mossa. Perché ormai avevi raggiunto il limite massimo di sopportazione e volevi, infatti, disintegrarla. Poi ti trascinò su una delle poltrone della sala d’aspetto, dove vi accomodaste. Come a dire che non avevate niente da nascondere. “Siediti e non fare storie”, ti aveva ammonito mentalmente e tu lo avevi sentito.
Quella vi lanciò una lunga occhiata, dopodiché sollevò la cornetta e iniziò il suo lungo giro di telefonate. Di tanto in tanto alzava gli occhi dal telefono per buttarvi qualche occhiata in tralice.
Ti venne quasi da domandarti se non avesse chiamato la polizia invece che la signorina Thule e, non stesse facendo quella scenata apposta per trattenervi fino all’arrivo delle volanti. Intanto, l’infermiera di prima tornò alla carica e, roteando gli occhi, ti arrendesti e lasciaste che vi portasse al pronto soccorso dove vi medicassero le ferite. «Adesso perché anche questo?» Aphrodite ti aveva consigliato di lasciarla fare e anche lui si lasciò medicare. Sopportasti tutto ciò domandandoti perché. In altri tempi avresti spedito quelle nullità nella Bocca dell’Ade seduta stante. Ora non più, da quanto al potere era tornata Atena e voi avevate fatto ritorno al Santuario. Perciò dovevi sopportare.
Che inutilità giacché sarebbero guarite subito grazie ai vostri Cosmi. «Non capisci proprio, vero? Quelle cose potrebbero rintracciarci percependo i Cosmi. Non hai visto come si sono accanite sugli Specter ogni volta che lanciavano i loro attacchi e bruciavano sempre più i loro?»
«Stai dicendo che non è un caso che ci abbiano attaccati?» Chiedesti.
«No. Qualunque cosa fossero non ci hanno seguiti quando ci siamo teletrasportati qui e da quando non usiamo le nostre tecniche. Anche prima abbiamo rischiato grosso».
«Te l’hanno detto le piante?» Tra i vari poteri di cui il fioraio maledetto disponeva, c’era infatti, quello di comunicare con le piante.
«Sì, stavano arrivando».
«Per questo devo restare qui a fare la figura del debole?» Domandasti, beccandoti un’occhiataccia dal Cavaliere dei Pesci. Un’occhiata che diceva chiaramente, con tutta l’eleganza di cui era capace, facendoti quasi sentire un troglodita all’ultimo stadio: “Perché, credi che a me piaccia?” Il quale però, rispose quieto: «Al momento non abbiamo molta scelta». Nonostante le parole era ovvio che considerasse anche questo come uno smacco al suo orgoglio. Per non dire una sconfitta. Come faceva a convincerti sempre, anche quando era insicuro delle proprie idee, per te sarebbe rimasto un mistero. Sarà perché forse eravate amici, ma anche cercando di scandagliare la sua mente, sentivi le rotelle del suo cervello in movimento e i pensieri che partoriva. A te, invece, questa situazione, ricordava troppo quella che avevi vissuto ad Asgard. Sperasti però, questa volta, di essere arrivato in tempo.
Dopo qualche ora, che passaste a rodervi il fegato dalla preoccupazione, le domande e l’attività dei Cosmi che monitoravate, la dottoressa tornò da voi e disse: «Bene, ho buone notizie, la Fondazione Grado ha confermato quanto da voi detto. La direttrice desidera parlare con voi». Disse in tono stizzito. Non sapevate quali fossero i suoi turni, ma qualcosa vi disse che li aveva sforati da un pezzo.
«Lady Isabel». Dicesti tu, che stavi in piedi grazie anche a tre caffè.
«Sì, venga con me, gliela passo subito». Ciò detto ti accompagnò al telefono e tu potesti parlare con la vostra Dea, che, tutto si sarebbe aspettata da voi due, fuorché una telefonata (con tutti i salamelecchi di rito) e ciò che gli narrasti. Inoltre, la mettesti anche a parte delle vostre conclusioni e, di come, le creature vi avessero accerchiati sempre più a ogni suo grido, come vampiri attirati dalle fonti sonore.
«Se è vero ciò che dici allora anche quella ragazza è in pericolo. Anch’io ho sentito il turbamento dei vostri Cosmi e degli Specter di Hades, Cavalieri. Però non ho potuto fare niente per aiutarvi, stavolta». Rifletté Lady Isabel dall’altra parte della cornetta; la voce lievemente impastata di sonno e sensi di colpa. Aveva avuto paura per voi, che di solito accorreva sempre per infondervi coraggio e speranza e, stavolta, non le era stato possibile raggiungervi, come se qualcosa l’avesse bloccata. «Parlerò con Hades il prima possibile.» Decretò.
«Mia Signora! Non avrete mica intenzione di scendere nuovamente nell’Ade, spero». Esclamasti, facendo sgranare gli occhi alla dottoressa che ti guardava e, facendo voltare quei pochi infermieri e inservienti di passaggio verso di te.
«Certo che no, mi avvarrò soltanto dell’aiuto del Cavaliere di Virgo. Nessuno meglio di lui conosce Hades e i suoi piani, anche se, dall’ultima guerra sacra siamo in pace con il Regno dell’Oltretomba e il suo sovrano. Allo stato attuale delle cose non mi rifiuterà un’udienza».
Annuisti, rassicurato anche se lei non poteva vederti. Ti era già bastata una volta prestare servizio presso gli Specter di Hades e, non desideravi affatto ripetere l’esperienza.
Cercasti di reprimere uno sbadiglio: dopotutto erano le sei del mattino, anche se in Giappone, dove si trovava lei, il fuso orario era diverso. «Che cosa suggerite, Milady?»
«Per il momento suggerisco di lasciar fare tutto a noi, ci occuperemo noi di avvisare i suoi parenti».
«Posso suggerire di lasciare che noi facciamo qualche ricerca su di lei, di modo che possiate riempire i moduli ospedalieri e avvisare la famiglia?»
Lei restò un po’sorpresa dalla tua richiesta: «D’accordo, se è questo ciò che desiderate fare».
«E, per quanto riguarda gli Specter?»
«Se si ripresenteranno di nuovo per attaccarla difendetela. Vi autorizzo a prolungare il vostro soggiorno in Italia, se sarà necessario. Vi manderò tutto ciò che vi serve per eseguire ciò». Rispose la Dea. Poi prese un respiro: «In caso che vi accorgiate che i bersagli siete voi, tornate immediatamente al Santuario, fatelo, anche se si dovesse trattare di quelle creature avvistate in Kazakistan». Aggiunse poi, in tono lievemente più concitato.
«E, se le creature dovessero attaccare Astrid?»
«Il vostro compito è difendere gli innocenti e la giustizia di cui sono Signora, cercate di proteggere lei e quante più persone possibile. Se le creature hanno eletto lei come loro bersaglio, non c’è altra scelta che portarla in un luogo sicuro». Rispose lapidaria.
«In questo caso ci penserete voi, Milady a sbrigare tutto il necessario? Non vorrei ritrovarmi la polizia alle calcagna». Tu e la giustizia in quel senso non andavate per niente d’accordo. Non avreste fatto esattamente una buona pubblicità al Santuario se si fosse venuto a sapere di voi. Ovvio che sapevi cosa significava tutto questo dal punto di vista giudiziario. Solo un idiota non ci sarebbe arrivato. Come sapevi anche che la Dea non era felice di ordinarvelo. Infatti, questo, era il piano da attuare in caso estremo.
Inoltre, finire in gattabuia non si addiceva al tuo rango di Cavaliere.
«Sì, Cavaliere, non dovrete preoccuparvi di nulla». Ti garantì lei. Per quanto quella furbacchiona vi sfruttasse, c’era da dire che quando faceva una promessa la manteneva fino in fondo. La salutasti e poi, quando attaccò, restituisti la cornetta alla dottoressa, che aveva visionato tutta la vostra conversazione: «La signorina Thule ha deciso di pagare ogni spesa medica per le cure nostre e di quella ragazza». Annunciasti a titolo informativo, poi la ignorasti completamente.
Tornasti da Aphrodite ficcandoti le mani in tasca, lui si alzò in piedi, pronto ad ascoltarti.
«Usciamo da qui, non ha più senso restare».
«Ma, Astrid?» Domandò voltando la testa indietro, mentre vi avviavate alle porte automatiche che si aprirono per farvi passare.
Gli posasti una mano sulla schiena come a intimargli di continuare a camminare senza neanche provare a pensare di voltarsi indietro. «Al momento sta bene, se succede qualcosa te lo dirò io. Andiamo, questi ospedali puzzano da morire».

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Stendendo tappeti di rose sulla Bocca dell'Ade ***


Stendendo tappeti di rose sulla Bocca dell’Ade


Lady Isabel
Attaccasti e tornasti ai tuoi documenti, sfogliandoli distrattamente. Ben presto li accantonasti per concentrarti sul nuovo problema. Essere una Dea e una miliardaria non faceva per la tua regale persona, soprattutto quando le due cose si accavallavano come in quel momento. Ponesti le mani curate sotto il mento e ti mettesti a riflettere.
In teoria avresti potuto nominare qualche dirigente per l’amministrazione dell’impresa e della Fondazione a dei valenti amministratori delegati, ma la verità era che non te la sentivi. Ormai la maggiore età l’avevi superata da un bel pezzo e, con essi anche gli studi di economia amministrativa, con tanto di laurea e titoli di studi vari conseguiti con successo. Era anche grazie a te e l’aiuto in extremis di consulenti e di legali che l’azienda di famiglia continuava a stare in piedi.
Ormai il povero fedele Mylock aveva quasi superato i sessantacinque anni, sarebbe anche stato giusto che andasse in pensione e delegasse tutto a Jabu. Il quale, tra le altre cose, era anche l’ambasciatore della Dea presso altri delegati esteri e del Santuario stesso quando succedevano situazioni d’emergenza come la minaccia dei Senza Volto. In pratica tu, la Dea che non aveva timore di incarnarsi tra gli umani, la Dea che da secoli salvaguardava la giustizia e la sicurezza sulla Terra, rischiando molte volte la tua stessa vita, avevi delegato all’ex Saint dell’Unicorno il compito di tenere d’occhio il Santuario in vece tua. Cosa che, per dirigere al meglio l’azienda eri stata costretta a fare. Purtroppo, come in campo di battaglia, così in campo amministrativo, ti sentivi più a tuo agio guidare tutto in prima persona. Inoltre il tuo letto di pietra alla Tredicesima Casa era diventato una vera tortura per la tua povera schiena. Ormai neanche tu eri più una giovanetta e te ne rendevi conto, anche se non l’avresti mai ammesso apertamente.
Era la prima volta che i tuoi Cavalieri ti telefonavano. Normalmente t’imploravano ed elevavano preghiere a te e, grazie al Cosmo, raccoglievi le loro suppliche donandogli quella speranza di cui avevano bisogno. Per questo quando eri stata messa in contatto con una delle nuove cliniche aperte, recentemente, non ci avevi creduto subito. Ma adesso, dopo aver riattaccato, sì. Quando il Cavaliere del Cancro, poi, ti aveva informato delle creature, ti eri preoccupata perché il Gran Sacerdote non ti aveva informato e tu non avevi sentito niente; di nuovo. Prima con Aiolia e ora anche con loro, che stessi perdendo colpi?
Scuotesti il capo con veemenza pensando: “No. Impossibile”.
Ti alzasti dalla poltrona ergonomica dietro la scrivania e uscisti dallo studio di Villa Thule per dirigerti nell’ampia sala da pranzo ove ti accomodasti al pianoforte per suonare un po’. Adoravi suonare il pianoforte, una delle poche cose che riusciva davvero a rasserenarti. Poi, quando ritrovasti un po’di serenità, chiamasti col tuo divino Cosmo la tua segretaria e ancella Mii del Delfino, la quale accorse subito. Disegnò una riverenza prima di domandare: «Avete chiamato, mia signora?»
«Preparate subito i miei bagagli e il jet privato, andiamo in Grecia». Non avesti bisogno di specificare la destinazione. Se tu decidevi di mettere piede sul suolo di Grecia c’era un solo posto, dove potevi e dovevi recarti. «In Grecia, Milady? E, perché mai, se posso chiedere?» Domandò la donna, battendo le palpebre, sorpresa.
«Devo conferire con il Cavaliere di Virgo». Rispondesti con fare enigmatico e serio come la Lady qual eri.
«Subito, mia Signora». Disse Mii, obbediente come sempre, piegandosi in un lieve inchino, poi raddrizzò la schiena e ti volse le spalle per uscire in corridoio e organizzare i preparativi. In molti anni di conoscenza non era cambiata quasi di una virgola. Sapevi che avrebbe cominciato a fare domande soltanto quando sarebbero state sul jet diretto ad Atene. Afferrasti il telefono che un domestico ti portò e, mandasti un messaggio tramite i social al tuo ambasciatore, avvisandolo che tra poche ore sareste giunti al Santuario. Il fedele Jabu lesse il messaggio mezz’ora dopo e rispose con il solito ossequioso: sarà fatto, Milady, che conoscevi e ti faceva piacere ascoltare per la gentilezza insita in quelle tre parole.

Il volo durò meno del previsto. Fortunatamente la tecnologia in quei decenni aveva fatto passi da giganti.
Lanciasti il tuo sguardo fuori del finestrino mentre le tue fedeli ancelle (informate sull’accaduto) ti ronzavano dolcemente attorno. In poche ore metteste piede sul suolo di Grecia, e stava già calando il sole. Avevi dormito per qualche ora, perciò non eri così stanca come la valorosa Shoko o la fedele Mii, che erano rimaste sveglie per salvaguardare il tuo riposo.
Una volta fuori dell’abitacolo prendesti un bel respiro profondo mentre la brezza ti scompigliava dolcemente i capelli. Saresti dovuta esserci abituata, dopo tutti quei secoli di vita, eppure ritornare ad Atene, ti faceva sempre palpitare il cuore. «Milady?» Ti riscosse la timida voce preoccupata di Elda e ti accorgesti di essere rimasta immobile a contemplare l’aeroporto.
Le tue ancelle dietro di te che ti guardavano con occhi pieni di apprensione. Non ti avevano mai visto così. Arrossisti e distogliesti il viso poi dicesti: «Muoviamoci, ci stanno aspettando».
«Sì, subito, Lady Isabel».
Prendesti qualche pasticca per gestire gli effetti del jet lag, che ti passò Shoko prendendole direttamente dalla borsetta e, montaste sulla limousine che v’attendeva appena fuori dell’aeroporto. Jabu aveva fatto le cose in grande come il solito. Aveva addirittura avvisato le autorità locali che, vi avevano concesso qualche volante delle forze armate per scorta.
Tutta Atene prima e Rodorio poi, ammirò il corteo della Dea, rappresentato più che altro dalle volanti e le moto della polizia e dalla limousine. Quando foste giunte al confine con Rodorio discendesti dall’auto e mandasti via la macchina e la polizia. Una volta sole oltrepassaste la barriera e faceste il vostro trionfale ingresso alla cittadella che viveva ai piedi del Santuario. E lì, foste accolte dal paese in festa. I Cavalieri di Bronzo si conquistarono l’onore di prendere i vostri bagagli e liberarvi così dall’incombenza delle valigie sotto le grida festanti del popolo, mentre quelli d’Argento e le reclute vi attesero ai piedi delle scalinate dei Tredici Templi (ringraziasti di indossare dei pratici tacchi bassi, se no avresti definitivamente detto addio alle piante dei piedi) e s’inchinarono tutti insieme al vostro passaggio. I Cavalieri d’Oro che erano rimasti al Tempio, invece attesero il vostro arrivo sulla soglia delle loro case, anch’essi s’inchinarono e, poi, si unirono a voi. Il Gran Sacerdote vi attendeva sulla soglia del Tredicesimo Tempio. Quando foste faccia a faccia s’inchinò e vi salutò: «Quale onore avervi qui, Milady, spero che il viaggio sia andato bene».
«E’stato molto piacevole, Gran Sacerdote». Poi, dopo aver dato disposizione ai Cavalieri d’Oro di tornare alle loro Case e a quelli di Bronzo di lasciare le valige nell’androne, che ci avrebbero pensato i servi, ti porse un braccio e ti accompagnò alle tue stanze private: «Immagino che siate qui per la faccenda del Cavaliere di Leo».
«E’così, avrei preferito tornare qui in circostanze meno infauste di queste. Qualche ora fa ho avvertito il turbamento del Cosmo di altri due Cavalieri: Death Mask del Cancro e Aphrodite dei Pesci». Spiegasti con un sospiro rassegnato.
Il Gran Sacerdote annuì: «Anche noi li abbiamo avvertiti, ma prego, adesso riposatevi, avete compiuto un lungo viaggio per giungere da noi, sarete certamente stanca. Ho già dato disposizione ai servi di sistemare le vostre stanze». T’informò mentre ti accompagnava nelle tue stanze, recuperando la formalità nel tono di voce.
«Molto bene. Spero di poter parlare subito delle incombenze che ci affliggono».
«Certamente, ne parleremo con calma a cena, adesso riposate, mia Signora».
«Certamente».

Arrivasti a cena lavata, profumata e agghindata con un chitone bianco e gioielli che rispecchiavano il tuo rango e, un lieve filo di trucco ad abbellirti. Non avresti mai sopportato che i tuoi sottoposti ti guardassero e notassero i segni dell’età farsi troppo evidenti sul tuo viso. Anche se umana non significava che non ti piacesse sentirti bella. Anche se solo per te stessa. Le tue Sacre Ancelle avevano fatto un ottimo lavoro, come sempre e, il Gran Sacerdote, ti fece l’inchino. Poi ti accompagnò al tuo posto alla tavola, galante. «Siete incantevole, Milady». «Grazie, mio Gran Sacerdote». Ti accomodasti e l’uomo raggiunse il suo posto. Solo lì si tolse la maschera e l’elmo rivelando il volto che avevi sperato di rivedere. Molte volte ti chiedevi che diavolo ti fosse preso quando avevi ordinato che i tuoi Gran Sacerdote dovessero vestire quei paramenti. Certi giorni era veramente spiacevole per te, non poter guardare negli occhi colui che, più di tutti, ti serviva con lealtà e fedeltà. Era come se ti fosse sottratto il conforto che ti mancava.
I domestici cominciarono a servire in tavola le portate.
Mentre consumavate la cena, allietati dal suono di una delicata arpa pizzicata dalle abili dita di un’Ancella del Tempio, il Gran Sacerdote ti raccontò tutto l’accaduto, dalla missione in Kazakistan a ora, scusandosi: «Credevamo che fosse una missione come le altre, per questo non vi abbiamo avvisato.» si giustificò.
«Le vostre motivazioni sono nobili e plausibili, non avete niente di cui preoccuparvi. Se l’episodio non si fosse ripetuto io stessa, avrei agito allo stesso modo».
«Vi ringrazio mia signora».
«Tuttavia ciò non toglie che la situazione sia particolarmente grave. I rapporti tra le nazioni sono molto tesi e non vorrei che i miei Cavalieri scatenino un incidente diplomatico». Dopotutto tu eri pur sempre la Regina di Grecia.
«Ne sono consapevole». Ti disse.
«Benissimo, per questo sono qui, devo conferire al più presto con il Cavaliere della Vergine».
«Il Cavaliere della Vergine? Perché, se posso chiedere?»
«Perché resta l’unica persona che può metterci in contatto con il Regno dei Morti ed io devo conferire con il suo Sovrano. Sono certa che il mio Cavaliere non rifiuterà la mia richiesta».
«No, certo che no, solo che non so se ha smesso di lavorare o se è ancora occupato».
«Se non è così, sono sicura che per la sua Dea farà un’eccezione». Anche se un po’ti bruciava ammetterlo, odiavi distogliere i tuoi cavalieri dalle loro mansioni e occupazioni. Non era da te chiedere aiuto, ma era l’unica cosa che potevi fare. «Certo, mando subito un paggio ad avvisarlo». Ciò detto chiamò un ragazzo, che s’inchinò a entrambi e ricevette il messaggio. Dopodiché questi corse via verso la Sesta Casa.

Aiolia
Le prime cicale della primavera allietavano l’aria della notte attorno a voi.
Eri appoggiato con la schiena alla colonna della Quinta Casa che dava sul terrazzo esterno. Da quando eri tornato dalla missione, la tua sorellina ti aveva stropicciato neanche fosse stata tua madre. O, almeno, così avresti voluto che facesse tua madre quando eri piccolo. Se fosse vissuta abbastanza da poterlo fare. Questo doveva essere uno degli inconvenienti di essere rimasto fermo all’età di vent’anni, mentre i tuoi fedeli servi, che consideravi alla stregua di una famiglia, avevano continuato a invecchiare. Ti era dispiaciuto esserti perso gran parte dei momenti della vita di tua sorella. Adesso i ruoli parevano quasi invertiti, lei una donna vicina alla mezza età, e tu, ancora un giovanotto. Però, nonostante tutto, Lythos restava Lythos.
Quando aveva saputo del vostro ritorno dopo i fatti dei Senza Volto, ti era corsa incontro. E, per poco non ti svenne davanti per l’emozione e la commozione, quando fu davanti a te. Restava ancora un po’più bassetta di te, però era inequivocabile il fatto che fosse cresciuta. Eppure, tu la vedevi sempre come la tua adorata sorellina che cercava di compiacerti, con buffi o pericolosi risultati, soprattutto culinari.
«A cosa pensate, padroncino Aiolia?» Chiese la tua sorellina accomodandosi accanto a te sull’altra sedia.
«Al tempo». Rispondesti in tono vago, ignorando l’appellativo troppo rispettoso che ti aveva rivolto. Non avevi voglia di metterla al corrente del possibile nuovo pericolo in cui eri incappato.
«Vi siete ripreso dalla missione?»
«Sì, non preoccuparti per questo, sto bene.» Le sorridesti. Avevi rimpianto spesso di non averle sorriso di più quando eravate giovani. Tu eri troppo impegnato a fare i conti con il fatto di essere fratello di un traditore, l’uomo del cattivo presagio e l’adolescente orgoglioso. A volte ti guardavi indietro e ti pentivi davvero di esserti comportato così con lei. Anche se lei non ti aveva mai fatto pesare tutto ciò.
«Siete sicuro? Non vi vedevo così pensieroso dai tempi della Titanomachia».
«Non è niente, stai tranquilla, Lythos». Saresti rimasto lì a goderti quei ricordi, se tu non avessi avvertito il Cosmo della Dea Atena raggiungere la casa della Vergine. Raddrizzasti la schiena perplesso.
«Nobile Aiolia? Qualcosa non va?» Ti chiese tua sorella accorgendosi del tuo scatto.
«La Dea Atena è alla Sesta Casa, a quest’ora? Che cosa sta succedendo? Lythos va in casa, ti raggiungerò tra poco».
«Ma...»
«Vai!» Ordinasti in tono perentorio. Ti aspettasti di sentirla sbuffare, invece lei mise su una faccia dispiaciuta e si limitò a fare come le avevi detto, proferendo soltanto un semplice e scontento: «D’accordo».
Ti alzasti a tua volta e la richiamasti e lei, ormai quasi sulla soglia del corridoio, si fermò e si girò a guardarti: «Non preoccuparti per me, vado solo a vedere cosa succede e torno. Non ci metterò molto.» le dicesti in tono rassicurante e mettesti su un sorriso. Lei ricambiò: «Va bene, allora vi aspetto». Ciò detto la superasti sorridendole (e, trattenendoti dallo scompigliarle i capelli) e ti avviasti rapidamente.
Azzerasti subito il Cosmo e t’intrufolasti nella Casa della Vergine. Non ci avevi messo quasi più piede da quando Shaka era scomparso. Sfortunatamente Shaka era stato uno dei Cavalieri che non erano tornati subito alla vita dopo i Senza Volto. Il che era un gran peccato, dopotutto, a modo suo, era un tuo amico. Anche se l’Armatura di Virgo aveva scelto un nuovo erede, in un certo senso non era la stessa cosa. Una cosa l’avevi capita, però, te l’aveva spiegata Shaka stesso, cioè di non incolpare agli altri se qualcuno avrebbe occupato il suo posto terreno. Dopotutto era la reincarnazione di Buddha e, in un certo senso non se ne era andato davvero. Inoltre, ti aveva promesso che sarebbe accorso in vostro aiuto come gli altri Cavalieri qualora ne aveste avuto bisogno.
Shun era di una pasta totalmente diversa. A differenza del predecessore, l’ex Bronze, non amava meditare e interrogarsi sui misteri del mondo, anzi, preferiva dare il suo contributo in modo meno spirituale ma molto più materiale. Non che non avesse provato a cercare di meditare, ma non era nella sua indole, per quanto pacifica fosse. Eppure eri sicuro che Shaka non avesse avuto in mente lui come erede della sua Armatura. Ma l’Armatura aveva agito di testa propria.
Li trovasti nel giardino della Sesta. In quegli anni, dopo la Guerra, il giardino si era rigenerato interamente e, Shun, una volta eletto Cavaliere d’Oro l’aveva reso ancora più bello. Adesso lui stesso era lì, assieme alla Dea Atena e al Gran Sacerdote. Solo che non riuscivi a capire cosa si stessero dicendo. Però, dall’irrigidimento che ebbe la schiena dell’ex Cavaliere di Andromeda, non doveva essere niente di buono. Assottigliasti gli occhi. Purtroppo non potevi avvalerti del Cosmo in alcun modo per riuscire a captare i loro discorsi, altrimenti ti avrebbero scoperto.
La Dea mosse un passo avanti verso di lui e gli disse qualcosa, probabilmente bastò per convincerlo perché il ragazzo rilassò le spalle e chinò il capo con fare rassegnato. Poi, anche da lì, lo sentisti espandere il proprio Cosmo dorato, che subito cambiò diventando nero e oscuro come la sua persona. Avresti riconosciuto ovunque quel Cosmo: Hades!
Trasalisti sconvolto mentre migliaia di domande si riversavano nella tua mente. Cosa ci faceva qui? Come aveva fatto a impossessarsi del corpo di Shun? Perché Atena stava conferendo con il Signore degli Inferi? Di nascosto, oltretutto? Perché la Dea doveva agire alle spalle di tutti voi suoi paladini? Cosa aveva in mente? Non temeva di cadere vittima dei subdoli inganni del Dio? Che fare? Restare dietro la colonna o intervenire?
Il portamento di Shun si fece molto più regale e i capelli legati si sciolsero, scossi dalla brezza emanata dal suo stesso Cosmo oscuro. «Parlami, Atena, cosa desideri per conferire con me a quest’ora della notte?» Disse con la voce profonda e vagamente seccata del Dio dell’Oltretomba. E, lì ti accorgesti anche del perché della presenza del Gran Sacerdote. Lui, utilizzando il suo potente Cosmo, aveva creato una barriera contenitiva onde evitare di allarmare il Santuario. Ma chi avrebbe salvato la tua Signora dal Dio dell’Oltretomba?
Digrignasti i denti e cercasti di tenerti a freno dall’uscire dal tuo nascondiglio. Non riuscisti a sentire le parole della tua Dea, in compenso, udisti la risposta del Dio: «I miei giudici Infernali e i miei Specter hanno fatto cosa? Non è possibile, tu menti, Pandora non avrebbe mai ordinato simile senza il mio consenso. In quanto ai miei Giudici essi sanno cosa bisogna fare per mantenere la pace a lungo conquistata. Non ho riportato alla vita le tue schiere, strappandole per quanto ho potuto dall’altra dimensione e dai Senza Volto, per sentirti muovere un’accusa così grave sulle mie». La tua Dea s’inginocchiò e mormorò quelle che immaginasti dovessero essere delle scuse. Scuse che, a quanto sembrava, l’orgoglioso Signore degli Specter parve gradire: «Sempre pronta a gettarti ai miei piedi per chiedere pietà persino in tempo di pace, non è vero, Atena? Accetto le tue scuse ma rialzati; come ho già detto, non ho mai ordinato ai miei Specter né di creare quelle creature, né di attaccarvi, il perché di tali azioni sfuggono anche a me. Mi hai messo una bella pulce nell’orecchio e, adesso, devo sincerarmene». Decretò pensieroso il Dio dell’Oltretomba. «Qualunque cosa stia succedendo posso dirti questo con assoluta certezza: quelle creature non appartengono ai miei domini e non sono anime. Altrimenti sarei stato informato». Ciò detto il Cosmo nero fu riassorbito nel corpo mortale del Dio che crollò a terra sfinito. Adesso ai piedi della Dea, che s’inginocchiò di nuovo per sostenere uno dei suoi fedelissimi, c’era di nuovo Shun. Il quale alzò il viso per guardare la vostra Dea, la quale ordinò al Gran Sacerdote di aiutarlo a rialzarsi.
Poi i tre si avviarono verso le stanze private del Cavaliere.
Ti nascondesti nelle ombre per non essere scoperto. Il cuore ti batteva all’impazzata.
Improvvisamente molte cose sulla scelta dell’erede della cloth di Virgo ti furono più chiare. Una parte di te sentiva l’impulso di andarsene ma l’altra, quella che ti contraddistingueva dai tuoi compagni per ingegno, ti costrinse a restare a spiare.
«Mi dispiace di averti sottoposto a questa prova, Shun», diceva la Dea mentre il Gran Sacerdote, con il braccio del Cavaliere di Virgo attorno al collo entrava assieme a lei, «ma non ho avuto altra scelta, dovevo sapere. Se ci fosse stato un altro modo avrei evitato di sacrificarti per questo inutile dolore».
Dalla tua postazione riuscisti a vedere tutto, persino le loro espressioni: «Non importa Milady, non preoccupatevi per me. Hades sa bene che non deve osare con il mio corpo; è una lezione che ha imparato nell’ultima guerra sacra. Non credo che la dimenticherà tanto facilmente». Cercò di rassicurarla con un timido sorriso stanco. La Dea lo osservò con preoccupazione. «Sto bene, davvero». Affermò di nuovo mentre sua Santità lo aiutava a mettersi seduto e si accomodava a sua volta sul divano che il giovane gli indicò. Anche lui era molto provato dopo l’impresa di pochi minuti fa.
La Dea prese possesso dalla terza poltrona.
Shun si comportò da perfetto padrone di casa e andò in cucina a preparare qualcosa da bere per gli ospiti e per sé. Tornò con delle tazze piene di caffè che distribuì ai suoi ospiti.
«Sei sicuro di stare bene?» Domandò la Dea, apprensiva, girandosi la tazza fumante tra le mani, mentre il Gran Sacerdote, che si era tolto la maschera, attendeva che lei bevesse un sorso. Non si sarebbe mai azzardato a bere prima di lei.
Il padrone di casa confermò: «Sì. Spero vivamente di avervi aiutato, per ora, adesso, appena mi riprendo, cercherò di mettermi in contatto con la Sacerdotessa degli Specter di Hades e manterrò la parola del Dio dell’Oltretomba». Promise con un certo sforzo.
Cosa significava tutto ciò? Ti domandasti.
«Piuttosto, Aiolia, hai intenzione di restare nascosto ancora per molto?» Domandò il ragazzo girandosi verso di te. Tu ti ricacciasti alla velocità della luce dietro la colonna. Come se ne era accorto?
«Aiolia? Qui, sei sicuro?» Domandò il Gran Sacerdote irrigidendosi e prendendo a scrutare la stanza girando la testa da una parte all’altra. «Sì, almeno credo, Hades l’ha percepito chiaramente, però... non sono sicuro, lui può percepire la vita anche in creature distanti mezzo mondo da me, quando lo fa le distanze fisiche quasi non hanno senso e si confondono tra loro».
Il Gran Sacerdote balzò in piedi e quasi gli si scagliò addosso: «Come è possibile? Credevamo di essere soli, avevamo scelto quest’ora apposta per non turbare gli animi di nessuno! Aiolia, esci fuori.» Tuonò ma tu non ti muovesti.
«Sei sicuro di non esserti sbagliato, Shun?» Ponderò invece la Dea.
«Sì, può darsi.» Convenne il Gold Saint con un tono meno deciso. «Sì, può darsi sia così, forse mi sono davvero sbagliato. La presenza di Hades è molto stancante da sostenere per me».
«Domani parlerò con Aiolia di persona e gli spiegherò tutto. Aiolia è un Cavaliere tanto valoroso quanto intelligente, sono certo che comprenderà.» decretò la vostra Dea, risoluta. Tu ne approfittasti per sgattaiolare via da lì, silenzioso e rapido come solo tu sapevi fare.

Aphrodite
Death Mask non aveva voluto dirti per quale recondita ragione aveva preso così a cuore quella ragazza. Né perché adesso stavate girando per la via della sventata aggressione. Non lo avevi mai visto così preso dalla faccenda. Che il suo senso della giustizia si fosse risvegliato o che dai fatti di Asgard fosse cambiato? Non spettava te a dirlo e, francamente, non t’interessava. Se il tuo amico avesse voluto dirtelo, un giorno lo avrebbe fatto. Se eri curioso? Morivi di curiosità. Però non avresti mai cercato di forzare la sua mente tramite il Cosmo per soddisfare la tua curiosità. Né avresti mai chiesto delucidazioni alle piante, che pure sapevano essere chiacchierone come pappagalli colorati. Non era nel tuo stile.
Perfido sì, narcisista pure, ma sicuramente non spione. No. Non era decisamente nel tuo stile.
Non che non t’importasse di Astrid al di là del dovere, la verità era che non vedevi l’utilità del gesto del tuo compagno d’arme.
«Posso sapere cosa stai cercando?» Gli domandasti ben conscio che la tua sublime bellezza aveva attirato non pochi sguardi nei passati. Eri quasi sicuro di essere quasi riuscito a provocare un incidente stradale mentre tornavate sul campo di battaglia.
Però Death Mask, mentre faceva il giro della via per la terza volta, non udì la tua domanda. O, per meglio dire, fece finta di non sentirti. Roteasti gli occhi al cielo. “Sempre il solito zotico” e, distogliesti lo sguardo.
Osservasti la zona.
Questa via a Nord della piazza intitolata a una persona importante del passato, si trovava quasi nel centro storico. Appena fuori quel tanto che bastava per oltrepassare un’altra epoca e un’altra disciplina artistica. Adesso ti sembrava di essere in un film della commedia italiana, quella degli Anni '50 o '70. Infatti, era totalmente diversa di giorno. Ti sembrava quasi di aver fatto un salto temporale negli Anni ‘50 o ‘60. Non avresti mai immaginato che una città sulla riviera come quella, custodisse zone così rustiche, appena fuori i punti segnati sulla mappa. Quello era il termine più fine che ti era venuto. Oh, Somma Dea, ma dove l’aveva trovato quel posto, Death? Te lo stavi ancora chiedendo quando lo vedesti ritornare.
«La borsa di Astrid». Disse quando fu a un passo da te, interrompendo il flusso dei tuoi pensieri. Sulle prime non capisti a cosa si riferisse, poi ricollegasti e sgranasti gli occhi. Per ricomporti subito dopo. Quest’informazione ti sorprese e ti fece distogliere il naso dal bocciolo di rosa nella tua mano: «Perché?» Gli domandasti.
«Ho detto alla somma Atena che ci saremmo occupati noi di fare delle ricerche». Ti schiodasti dalla mattonella del marciapiede e lo affiancasti: «Hai la febbre o non volevi scomodare la Fondazione Grado?»
«Non volevo scomodare la Fondazione Grado». Ti rispose, poi disse «Allora, mi dai una mano o no?»
«Mica me l’avevi mica chiesto! E, poi, io non sono così resistente come te, che carburi con tre caffè, due bottiglie di birra e tre sigarette. Inoltre sono quasi trentasei ore che non dormiamo». Tenevi il conto per il tuo riposino di bellezza. Sapevi bene che la tua beltade ne avrebbe risentito se non avresti chiuso occhio. Se era per Atena, allora la bellezza passava in secondo piano per la vittoria. E, la vittoria era la bellezza suprema. Solo per quella avresti fatto un’eccezione. Ma questa non la capivi e la trovavi superflua. Già quella donna vi sfruttava e cominciavi a domandarti per chissà quale motivo arcano vi avesse concesso quella vacanza. Sapevate bene che la vostra dolce dea ogni tanto faceva il doppio gioco, come durante la guerra sacra. Come voi, del resto.
«Veramente solo una bottiglia».
«Scusa, ma non faremmo prima a chiedere informazioni?»
«Se credi che possa portarti da qualche parte…» Concesse, ma più stanco che sgarbato. «Death; la vedo dura che quella borsa sia ancora qui. Chi ti dice che qualcuno non l’abbia rubata? Non ha senso ribaltare questa via come un calzino per trovare una borsa». Rilevasti saggiamente. «Sì, in effetti, hai ragione.» si arrese lui, «quindi che proponi?»
Sorridesti: «Lascia fare a me». Così ve ne sareste finalmente andati a dormire.
In breve tempo e, chiedendo un po’ in giro, avevate raccolto informazioni su Astrid. Avevate scoperto la sua età, il suo cognome e persino, dove abitava grazie alla sua affittuaria. Che, quel giorno era venuta a riscuotere e non l’aveva trovata. In verità l’avevate trovata per un colpo di fortuna. La signora col viso severo e i capelli scuri raccolti in una coda bassa, vi era passata accanto borbottando qualcosa a proposito di Astrid e l’avevate fermata. Sulle prime la signora («Signorina!»Vi aveva corretto, offesa) non aveva voluto dirvi nulla ma, quando le era passato per la testa che poteste essere amici suoi e, che la sua giovane inquilina potesse aver avuto un incidente, si era preoccupata e vi aveva detto ciò che volevate sapere. Anche se non avevate capito se la sua preoccupazione era legata ai soldi dell’affitto o alla poveretta ricoverata. In quanto ad ambiguità questa tizia era pure peggio di te. Al momento di salutarvi aveva detto: «Per l’affitto non fa niente, riscuoterò quando sarà dimessa dall’ospedale». Purtroppo, però, non seppe dirvi moltissimo a proposito dei suoi parenti: «La signorina av Stjernene non mi ha mai parlato della sua famiglia neanche una volta. Non si è mai lasciata sfuggire una sola parola in merito. Non mi ha lasciato neanche altri recapiti oltre al suo numero telefonico. Fatemi sapere quando si sarà rimessa». «Senz’altro, arrivederci». Avevi salutato. Death Mask ti aveva fatto eco.
Eravate tornati alla clinica per riferire tutto ciò che serviva. Poi vi eravate informati sulle condizioni di salute di Astrid Micheila av Stjernene. I medici vi avevano riferito che la ragazza era ancora sotto i ferri e non ne sarebbe uscita prima di tre giorni. Ma aveva già subito almeno una decina di operazioni per non ricordavi cosa. A quel punto il tuo cervello aveva cominciato a non registrare più le parole del dottore anche a causa della stanchezza e, della curiosità: il cognome di Astrid era veramente molto particolare, infatti, era norvegese. Non l’avresti mai detto che quella ragazza fosse straniera, ma almeno si spiegavano i colori candidi della sua persona. In più, che buffa coincidenza, significava… «Tornerà a camminare?» Domandò Death Mask, risvegliandoti.
Il medico sospirò affondando le mani nelle tasche del camice: «Difficile a dirlo, le sue ferite sono molto gravi, anche adesso non è ancora fuori pericolo». «Come sarebbe? Questa non è una delle cliniche più all’avanguardia d’Italia?»
«Lo è, ma siamo ancora ben lontani dal compiere miracoli, mi dispiace, signori, cercheremo di fare il possibile». A quella notizia trasalisti. Invece, Death Mask strinse i pugni. Temesti il peggio, ma ti rilassasti un poco quando lui li rilasciò e rispose un rassegnato: «Capisco». Avendo ricevuto le risposte che vi servivano tornaste all’albergo. Appena fosti in camera tua, ti buttasti sul letto così com’eri e ti addormentasti come un sasso.
Nei giorni seguenti tornaste alla clinica. Purtroppo avevate interrotto il vostro piacevole soggiorno per difenderla. Quello che tra entrambi ne era risentito era Death: lui viveva per divertirsi e, questo era proprio un inconveniente fatto e finito. Questo per le prime settimane, poi avevate ricominciato a viaggiare fuori città per tornare la sera. A volte andavate in discoteca o vi attardavate in qualche bar la sera, divertendovi esattamente come due ragazzi normali. Era una piacevole finzione e, volevate indugiarci il più a lungo possibile. Ovviamente non senza conseguenze come, per esempio, la sbornia. Certo che non vi eravate scordati i vostri doveri di Cavalieri. Anche se non eravate fisicamente presenti, potevate contare sulla telepatia di Death, il quale, ogni tanto, gettava un’occhiata ad Astrid. Tuttavia non indugiava mai troppo a lungo nell’uso del Cosmo: non volevate essere scoperti.
Quando gli domandavi come stesse, ti rispondeva: «Ancora sotto i ferri, ma viva». Anche lui conveniva tacitamente con te che ci stavano mettendo troppo, sebbene lo nascondesse dietro al suo carattere beffardo e burbero. Per voi che eravate abituati al tocco risanatore della Dea, quest’attesa era snervante.
Un giorno di tre settimane dopo, Atena vi mandò il necessario per prolungare la vacanza, con tanto di biglietto. Eri appena tornato in camera. Death stava guardando la Tv quando lo informasti delle novità e poi gli dicesti: «Come sta Astrid?» Ormai era diventato quasi un rito con cui inauguravate la mattina, il pomeriggio e la sera. «E’ ancora… No, aspetta, l’hanno sistemata in una camera». Lo guardasti speranzoso e sorpreso: «In una camera?» Il tuo amico si era raddrizzato e fissava il muro senza vederlo, o meglio, come se potesse vedere attraverso di esso; «Sì, la vedo. Respira autonomamente».
«Sul serio?»
«Sì».
«Allora andiamo a trovarla». Si alzò dal divano come se tu gliel’avessi ordinato. Le vostre ferite erano guarite in pochissimo tempo, ed eri contento di non specchiarti più e vedere i segni dello scontro con gli Specter e le loro creature.
Quel pomeriggio stesso vi recaste alla clinica e, poteste visitarla due ore dopo. Avevi materializzato un mazzo di rose bianche poco prima di entrare nella sua stanza. Ti fece una gran pena vederla con la schiena dentro un bustino di gesso e le braccia avvolte in fasciature, così come la testa. Non l’avevano ancora operata alla scatola cranica, anche se era ovvio che, alla fine sarebbe successo. L’elettrocardiogramma e l’elettroencefalogramma monitoravano rispettivamente le funzioni cardiache e cerebrali. Un flebo distillava qualche medicinale nelle sue vene, invece, un catetere era appeso vicino alla base del letto.
Deponesti i fiori in un vaso che un’infermiera ti portò sul tavolo sotto la finestra e ti avvicinasti al letto.
Death era già seduto dall’altra parte, su una sedia e la guardava in silenzio. Tu invece guardasti il suo viso con rammarico. Se non fosse stato per voi, avrebbe continuato a fare la sua solita vita. Ciò nondimeno era anche vero il rovescio: se non fosse stato per voi a quest’ora gli Specter l’avrebbero uccisa senza pietà. «Il dottore ha detto che è in coma farmacologico». Ti disse Death, distogliendoti dalle tue riflessioni. «In coma?» Lui annuì con aria grave.
«Ora è meglio che sia così. Temono però per quando giungerà il momento di svegliarla che possa riportare un ritardo mentale di non si sa quale gravità. Forse sarebbe stato meglio se fosse morta subito». Aggiunse poi in tono di lugubre pietà.
«Non dirlo neanche per scherzo!» Esclamasti guardandolo con rabbia e lui distolse le iridi da lei per puntarle su di te. Alzò un sopracciglio. «No?» Domandò.
«No, non dirlo. Non può finire così per lei, magari ha ancora una speranza!» Il tuo amico si accigliò ma non si scompose: «Ma tu dov’eri quando il dottore ci diceva quello che ho riferito?» Le braccia conserte.
«Con te, che domande». Alzò di nuovo il sopracciglio come a dire: “Sicuro?” Tu non ribattesti e non ti scomponesti. Eri sicuro, come non mai in vita tua, che le stelle non avessero deciso questo per lei. Non te lo sapevi spiegare ma sentivi che non potesse davvero finire così. Come avreste voluto avere Aiola al vostro fianco. Lui avrebbe saputo fare qualcosa di utile. Eppure c’era qualcosa che potevate fare anche voi, per lei. Fu allora che ti venne l’idea. Facesti leva sul tuo Cosmo e le rose risposero facendo crescere alcuni fusti fino a che non arrivarono a toccare le ferite al capo di Astrid. Ti avvicinasti ancor di più al capezzale e le togliesti la benda dalla testa per facilitare l’operazione.
«Che cosa fai?» Ti domandò l’altro. Lo zittisti e, prendendole con delicatezza la testa le spostasti i capelli sulle spalle mentre le rose riprendevano da dove si erano interrotte. Poi, con gesti delicati e lenti per evitare di farla soffrire, le pettinasti la chioma con le dita. Il tuo collega osservò tutto il processo domandandosi tra sé e sé se tu fossi uscito di senno. Non avesti bisogno di leggerli nel pensiero, né di ascoltare le parole delle tue rose per capirlo, ce l’aveva scritto in faccia, assieme alla perplessità. Ma lui non poteva capire. Alla fine, quando ti ritenesti soddisfatto del vostro lavoro facesti sparire quei fusti e le rimettesti la fascia, facendo attenzione a non ferirla e a non rovinare la tua opera.
Anche quello, nei giorni seguenti, divenne un rito, come le chiacchierate a quasi senso unico di Death. Forse l’unico modo che aveva per sottrarsi al disagio provocato dal tuo gesto: da che ricordava non ti eri mai abbassato a tanto. Ma cosa ne poteva capire lui di bellezza e dignità? Fatto sta che i tuoi trattamenti contribuirono a risanarla più rapidamente.
Quando tornaste in visita il dottore con cui parlaste, un certo Alberini, parve molto sorpreso di vedervi. Aveva capito da un pezzo che non eravate i suoi genitori e cominciava a porsi qualche domanda. «La vostra amica non ha dei parenti?» Vi aveva chiesto.
«Presumiamo di sì, ma non ce ne ha mai parlato». Rispose Death Mask. Poi: «Come sta?»
«Migliora in fretta». Disse soltanto. Si vede che non era quel tipo di persona che amava riempirsi la bocca di termini a voi poveri mortali incomprensibili. Oppure cominciava a nutrire dei sospetti su voi due. “Death, potresti rintracciare i parenti di Astrid con la tua telepatia?” “Sì, certo, perché?”
“Saranno sicuramente in pena per lei, credo che sia giusto avvisarli”.
Il tuo amico eseguì e, riuscì persino a scoprire il numero di telefono della madre di Astrid leggendolo sulla rubrica del marito. O meglio, ex marito quando questi la chiamò. Ti dettò rapidamente il numero e, con una chiamata anonima, l’avvisaste. Poi, ve ne andaste prima che la signora arrivasse in ospedale. Tanto le rose le potevi manovrare anche a distanza.

Una settimana dopo, verso le dieci di una notte di temporale, quando chiedesti a Death come stesse Astrid, vi agitaste. Avevate percepito, infatti, tre noti Cosmo aggressivi, diretti alla clinica. «I Giganti Infernali!» Esclamaste in coro. Avevano trovato Astrid.
Indossaste rapidamente le Armature e, passando per la finestra, vi dirigeste alla clinica alla velocità della luce.
Avevate appena messo piede dentro la clinica quando foste accolti dall’attacco di Minos del Grifone. «Gigantic Feathers Flap!» Urlò e una raffica di vento potente quanto distruttiva vi sbalzò indietro, facendovi percorrere almeno sette metri in scivolata sulla schiena. Poi uscì dalle porte distrutte a braccia conserte mentre voi, doloranti, vi rialzavate. «Andate da qualche parte?» Domandò ironico.
«Minos!» Esclamò Death.
«Cosa ci fate qui, maledetti?» Domandasti invece, tu. «Non dovremmo essere in pace?»
«E, perché mai dovrei dirvelo?» Rispose mentre tu sfoderavi le tue rose demoniache e un intero tappeto si stendeva sotto i tuoi piedi, illuminando l’oscurità di colori e profumo. «Vai, Death, a questo spaccone ci penso io».
«Sì».
«Dove credi di andare? Ti ho forse autorizzato a proseguire oltre?» Replicò invece lo Specter voltando il viso verso il tuo collega: «Illuso, Gigantic Feathers Flap!» Però Death Mask si rese intangibile, e l’attacco del Gigante gli passò attraverso.
Ti rifugiasti dietro a una barriera di polline di rosa che resistette all’attacco del Grifone e ti rese quasi invisibile. Prima di scomparire dietro la sua schiena Death urlò con voce forte e chiara: «Ah! Grifone, dovresti saperlo che lo stesso attacco non funziona mai su un Cavaliere la seconda volta!» Senza contare che erano troppo lontani dalla barriera di Hades che vi indeboliva.
Allora quella vacanza vi era servita davvero a qualcosa! Non avevi mai visto il tuo amico ragionare così rapidamente e a mente così lucida.
Il Grifone si volse e cercò di attaccarlo con il Cosmic Marionation ma tu fosti più veloce e le tue rose glielo impedirono. «Non così in fretta. Non è bello voltare le spalle al nemico, soprattutto di fronte a tanta bellezza e splendore.» lo rimbeccasti riferendoti sia a te stesso che alle tue care rose.

Death Mask
Raggiungesti il piano della stanza di Astrid e disattivasti l’intangibilità. Sembrava tutto tranquillo e la cosa ti puzzava, visto che sentivi i loro Cosmi oscuri. Eaco e Rhadamantys erano vicini. Percorresti con poche falcate la distanza che ti separava dalla camera di Astrid e, una volta messa la mano sulla maniglia della porta fosti raggiunto da un colpo che ti sbalzò indietro, facendoti sbattere contro le porte di metallo più pesanti della corsia. Il colpo le piegò sotto al tuo peso e svegliò i pazienti che cominciarono ad agitarsi e a uscire più o meno rapidamente dalle loro stanze. «Eaco, pensa tu a zittirli». Disse e il nepalese rilasciò delle scariche elettriche che tramortirono momentaneamente i pazienti.
“Maledetti”, pensasti, anche se dovesti riconoscere che erano delle seccature in meno. Meno vittime. Non vedevi aumentare i fuochi fatui, questo era un buon segno.
Rhadamantys comparve dalle ombre, nella sua Surplice e continuò: «Sei venuto a trovare la mocciosa un’ultima volta?»
Poi, Eaco: «Illusione Galattica!» E, ti ritrovasti circondato da molteplici e mostruosi occhi che si aprirono in contemporanea. “Non li guardare!” Pensasti. Quegli occhi avevano un effetto disorientante. Te ne aveva parlato Kanon tempo prima.
Prima che potesti distogliere lo sguardo, una potente raffica di energia ti colpì la spalla. «Questo era solo un avvertimento» ti disse lo Specter. Ormai conoscevate bene il modus operandi di quei maledetti. Ma se loro erano lì… «Astrid!»
«Oh, che carino, ti preoccupi per lei, ma non eravate asserviti solo alla protezione di Atena?» Ti schernì il Gigante, impietoso. Digrignasti i denti e sentisti in bocca il sapore del sangue. Ne sputasti un po’a terra. «Siamo fedeli a lei e difendiamo la giustizia i deboli e gli innocenti! E, Astrid è un’innocente!» Urlasti offeso. L’altro scoppiò a ridere: «Non farmi ridere!»
Altri colpi andarono a segno su altre parti del tuo corpo, piegandoti in ginocchio. Se riuscivi a sopravvivere era per via del fatto che cominciavi a intuire da dove potessero arrivare. Non per nulla eri dotato anche tu di un buon cervello. E, che la tua Armatura ti proteggesse. «Come avete fatto a trovarla? Eppure credevamo di essere stati discreti!» Dicesti mentre il tuo corpo cominciava a risentire degli effetti dei colpi. Anche quei bastardi erano molto migliorati dalla Guerra Sacra. «Visto che ci tieni a saperlo… Vi hanno traditi le rose». Rispose il Garuda.
Le rose?
Poi ci arrivasti. Stupido Aphrodite!
Ti arrivò un’altra raffica di colpi, che cercasti invano di respingere. Così non andava, dovevi sbrigarti o ci avresti rimesso le penne. Ma non avevi tempo di far evolvere il cloth in Gold God Cloth e conciare per le feste quel pallone gonfiato. Ti venne un’idea. A pensarci bene, c’era una cosa che potevi fare, anche se era rischiosa e folle persino per i tuoi standard. Bruciasti il tuo Cosmo pregando che loro ti sentissero. «Cos’è questo, Cancer? Un disperato tentativo di ribellione al tuo ingrato destino?» Ti schernì lo Specter della Stella del Cielo Intrepido prima di scoppiare in una risata.
“Aspetta a parlare, stronzo; vedrai che tra qualche secondo ti sarà passata tutta la voglia di sfottere”.
Pensasti sperando di aver avuto ragione.
Non successe niente e non avesti altra scelta che cercare di sfuggire alle trappole del Garuda. Però quello era sempre lì, accanto a te.
Non ti saresti arreso. Non avevi mai sentito il cuore pulsare tanto, non ti eri mai sentito così vivo come ora. Non solo per determinazione e dovere. Ma perché, proprio volevi vivere. E, questo, neanche allo Specter sfuggì. Lo capisti da come ti guardò, con quella faccia a disagio e scontenta al tempo stesso, nel vederti rialzare per l’ennesima volta. La giustizia era la forza e tu eri la forza per definizione. Non eri il tipo da discorsi sull’onore e la giustizia eppure ti venne da sfoderarne uno proprio in quel momento. «Sei ancora in piedi?»
«Sì, ora e per sempre, finché ci sarà da combattere per Atena e gli innocenti, io non cadrò. Non lascerò che un innocente finisca nelle vostre mani. Preparati, Eaco di Garuda, stai per assaggiare il forte colpo della giustizia della Costellazione del Cancro di cui sono custode e allora sì che saprai sulla tua pelle cosa sono l’onore, la vendetta e la vera giustizia che servo. Brucia mio Cosmo, fino ai limiti estremi dell’Universo!» Ciò detto, bruciasti il Cosmo con tutta la forza che avevi.
Ciò non fu comunque sufficiente per far evolvere l’Armatura d’Oro. Le energie che ti restavano non erano abbastanza da tentare una simile impresa. Infatti, dopo poco cominciasti a perdere energia, finché la fiamma del tuo Cosmo non fu ridotta a un alone dorato che pervase le tue membra.
Il Garuda scoppiò a ridere divertito. «Sei simpatico, lo sai? Per un attimo ci avevo quasi creduto». E, poi, mentre tutto sembrava precipitare, percepisti il vento freddo. Anche se eri ancora imprigionato, e l’avevi percepito una volta sola, riconoscesti all’istante quel gelo che anticipava il calore. «Cosa? Da dove viene questo vento?»
Per non parlare del fruscio, come se qualcosa fosse cresciuto e si stesse arrampicando sulle pareti e il soffitto tutto attorno a voi.
«Eh.» Sogghignasti e poi scoppiasti a sghignazzare sguaiato mentre il tuo avversario realizzava. L’illusione fu distrutta e tu fosti libero. Crollasti in ginocchio e azzerasti nuovamente il tuo Cosmo, soltanto per vedere Eaco imprigionato in una selva di rose demoniache. Mentre la presenza delle creature si faceva sempre più vicina. “Death Mask, sbrigati!” Ti urlò Aphrodite tramite il Cosmo prima che tu riuscissi a formulare l’embrione del pensiero. “Ci sono le creature! Sbrigati!”
Le rose erano tutte attorno a te, ma si fecero da parte per lasciarti raggiungere la camera. Lì trovasti l’ultimo Specter impegnato in una lotta serrata con delle rose demoniache che cercavano di abbarbicarsi attorno a lui in tutti i modi. Poi sentisti il calore e v’irrigidiste entrambi. Oh, no. Avevano agito più rapidamente del previsto.
Non avesti altra scelta. Prendesti Astrid dal suo letto, strappandole tutti i fili dei macchinari dal corpo e, stringendola a te, saltasti fuori della parete semi distrutta del quarto piano della clinica.
Le creature che fluttuavano minacciose verso i tre Specter.
Aphrodite doveva essersi veramente incazzato se era ricorso a quello che chiamavi: tappeto di rose. Era dallo scontro con i Titani che non glielo avevi più visto usare. Le rose vi raggiunsero e v’inglobarono tra i loro boccioli protettivi ammortizzando la caduta. «Death Mask! Astrid!» Vi chiamò il fioraio del Santuario.
«Siamo vivi!» Lo rassicurasti. Sentivi ancora il cuore della poverina battere rapidamente. E, non solo. Guardandola, ti accorgesti che i suoi occhi erano spalancati, confusi e pieni di terrore, ma coscienti. Impossibile sbagliarsi. Qualcosa l’aveva fatta uscire dal coma prima del tempo. Le sue labbra esangui tremavano e, fissandoti, strillò a pieni polmoni. Un grido a squarciagola talmente potente che vi assordò e, talmente agghiacciante, che vi accapponò la pelle.
Aphrodite per poco non fece un balzo indietro per lo spavento.
Fu lui ad accorgersi per primo che le creature si erano divise e che una loro parte si era tuffata verso di voi, penetrando le coltri di rose. Lo svedese trasalì e cercò di rinforzare le barriere mentre tu cercavi di tappare la bocca di Astrid con la mano, ottenendo un morso che fece più male a lei che a te e altre grida ancora più stridule e potenti di quelle.
Non sapevi davvero cosa fare. Non ti dava neanche il tempo di parlare, di dirle che eravate lì per salvarla. Sapevi soltanto che dovevi aiutare il tuo amico. Il quale cercò di opporre tutti i suoi trucchi migliori ma senza successo. Ma le creature avanzarono inesorabili. Allora urlò il tuo nome e tu capisti. «Strati di Spirito!» Urlasti a tua volta e teletrasportasti tu, Astrid e il tuo amico nella bocca dell’Ade, per poi uscire via anche da lì.

Milo
Era passata un’altra settimana da quando Aiolia aveva fatto ritorno.
Si era gettato a capofitto negli allenamenti e nella ricerca al punto che quasi non vi rivolgeva la parola. Tu, avevi provato a parlargli ma non ti aveva ascoltato. Fortuna che sapevi come tenerti occupato, per esempio, facendo attenzione al tuo successore dello Scorpione. Oppure, parlando con Shoko di Equules. Negli Anni '80 non avevi scambiato molte parole con quella donna ma adesso ti domandavi perché. Non era una compagnia spiacevole, per essere la controparte femminile di Seiya. Anche se lei era fatta di tutta un’altra pasta. Era anche più intelligente, a dirla tutta.
Se fosse stata più giovane ci avresti anche provato ma non te l’eri sentita. All’epoca ti eri dimostrato anche troppo freddo e rigido nei suoi confronti. La prima impressione è quella che conta, dicono. Bè, ai suoi occhi avevi subito una trasformazione quasi radicale. Da salvatore, cioè l’uomo che la salvò dalle grinfie di Eris durante la sua infanzia a Saint senza cuore ligio al proprio dovere durante la sua adolescenza. Ma questo era il mondo dei Saint e il suo cuore non si era ancora indurito. Il tuo si era solo rafforzato, aveva sviluppato un esoscheletro ma dentro era rimasto lo stesso.
Non vi sentivate molto spesso ma non ti spiaceva scambiarci quattro chiacchiere. D’altronde lei era quasi più in confidenza con te che con altri Cavalieri del Santuario. Quasi amici, si poteva dire che foste. Ma per il suo ruolo non l’avresti mai neanche presa in considerazione. E, poi, lei era troppo piccola per i tuoi gusti. Aveva la stessa età della Dea.
E, ora, era più grande di te.
Ti guardasti allo specchio mentre cercavi di domare la tua lunga chioma mossa a colpi di spazzola senza successo. Era inutile, non sarebbero mai stati dentro la coda. Qualche ciocca sarebbe comunque sfuggita.
Posasti la spazzola e andasti in terrazza a goderti il vento della Grecia al tramonto. Oggi le nuvole erano punteggiate di rosso e ti tornò in mente il proverbio legato a quel colore della sera. “Rosso di sera bel tempo si spera”, già. Ma quanto sarebbe durato? La vita del Cavaliere era tutta un’incertezza, ecco cos’era.

Astrid
Quello che sto per dire è solo una piccola parte di quello che mi è accaduto. Anche perché, vi riferisco solo le parti in cui ero relativamente sveglia. Mi era stato, infatti, indotto il coma farmacologico. Però sentivo tutto. Almeno, quando non dormivo. Alla fine avevo davvero finito per perdere conoscenza, però non quando mi sarebbe davvero servito. Adesso mi sembrava di essere diventata prigioniera del mio corpo e della mia mente.
Si dice che a volte le anime di coloro che cadono in coma viaggino. Io, purtroppo, non rientravo in questa categoria. Era come se qualcosa mi tenesse ancorata lì, forse, la paura di vedere Death Mask. Mi ricordavo troppo bene come l’avevo visto giocare con i fuochi fatui e le anime. Non volevo diventare un nuovo pezzo della sua collezione. E, che gran bel pezzo che ero! Uno più malandato di me non poteva proprio sceglierlo. La cosa peggiore di tutte era che non avrei più rivisto mia madre e mio padre. Non erano neanche venuti a trovarmi all’ospedale. Le uniche persone che sentivo erano quei due Cavalieri.
L’unica volta che sentii qualcosa di diverso fu una presenza maschile accanto a me, accomodata su una sedia sulla destra. Almeno credo. Di solito i profumi di Death Mask e Aphrodite riuscivo a riconoscerli, ma questi erano diversi. Questi risvegliavano in me vecchie sensazioni che credevo di aver dimenticato. Sensazioni risalenti alla mia infanzia.
Se ci pensavo era come se quel periodo fosse una grossa pentola da cui fuoriuscivano queste sensazioni come effluvi di vapore.
Poi, sentii una profonda voce maschile che mi fece trasalire, nel limbo oscuro dove mi trovavo, mormorare in tono rassicurante: «Non ti preoccupare, vedrai che starai bene» e, poi percepii il tocco gentile di una mano posarsi con delicatezza sulla mia fronte. “Quella voce, questa mano…!” Esclamai. Riconobbi istantaneamente quel gesto. “Non è possibile!” Mi dissi stupita. Poi “Sei tu! Non è possibile, sei davvero tu!”
Lui, chiunque fosse, cominciò a infondermi energia con un Cosmo curativo. Un Cosmo diverso da quello delle rose demoniache di Aphrodite, ma pur sempre un Cosmo che svegliò qualcosa, un’energia sopita dentro di me e che gli corse incontro, allacciandosi fino a mescolarsi e inglobare quella che filtrava dentro di me. E, riconobbi anche il suo Cosmo. E, appena compresi ciò che avevo appena ricordato, mi sovvenne alla mente che io conoscevo già il Cosmo dei Cavalieri d’Oro. Riconoscevo quest’energia in particolare, ma pensavo che fosse un sogno, solo un gioco. «Vedo che qualcuno è arrivato prima di me, piccola Astrid». Commentò in tono professionale, facendosi quasi rotolare in bocca le sillabe del mio nome prima di pronunciarlo. Quasi che gli fosse caro. “Allora non mi hai dimenticata”, pensai. E, poi, lo sentii dire: «Non male, il Cavaliere dei Pesci non sta facendo un pessimo lavoro».
Improvvisamente il flusso di energia si interruppe e disse: «Ora riposa. Tornerò tra qualche giorno, dormi bene, Astrid». “Cosa? No! Non te ne andare! Non puoi lasciarmi qui! Non andartene!” Protestai quando la sua mano abbandonò la mia fronte. Ma lui non mi udì. Successivamente non percepii più la sua presenza. E, mi si spezzò il cuore un’altra volta. “Non andartene…” Pensai e l’eco dei miei pensieri si spense in una supplica che si perse nei recessi della mia mente. Ma che ebbe l’effetto di farmi versare delle lacrime nonostante le mie condizioni.
Credo che quella fosse la prima volta che avvertii una sofferenza quasi simile alla mia. Una mancanza che non saprei descrivere, che però c’era.
Non si può descrivere la mancanza, però voglio fare un tentativo. La mancanza è percorrere un tratto di strada e avvertire una fitta al cuore, girarsi e sperare di trovare qualcosa che ora non c’è più. Mancanza è non sentire più il palpito del cuore.
Mancanza è scivolare altrove e al tempo stesso essere ancora qui.
Mancanza è cambiamento. Passare da un tempo verbale imperfetto al tempo verbale presente e poi tornare indietro in una sorta di eterno Panta rei. Mancanza è non trovare il coraggio, o morire. Però, mancanza significa anche liberare qualcosa per fare posto a qualcos’altro. Non fu questo il mio caso. Perché io di lui, “Di te”, mi corressi, non mi sarei mai liberata. E, fu così che capii anche che cos’era quel sentimento che mi feriva così tanto, ogni volta che cercavo di scandagliarlo o mi interrogavo su quegli avvenimenti mancanti della mia infanzia. Quello che sentivo era l’eco, uno strascico di qualcos’altro.
Uno strascico che sembrava quasi invitarmi a riscoprire ciò che avevo dimenticato.
E, questo, non fece altro che far sgorgare nuove stille da sotto le mie palpebre chiuse.

Non so come accadde, mi ritrovai a guardare il soffitto con i miei occhi, proprio davanti a me. Dapprima sfocato e nel buio che pensai che non fosse cambiato niente. Poi, a forza di battere le palpebre misi a fuoco il soffitto. Aggrottai le sopracciglia perplessa. Perché stavo guardando il soffitto?
Espansi il torace e gemetti per via del busto ingessato e mi ritrovai collegata a dei tubicini di flebo. Scoprii però, che ogni movimento mi era precluso pena un dolore atroce. Gemetti e tre figure invasero il mio campo visivo. Tre figure che, grazie alla penombra rischiarata dal chiarore della lampada sopra la mia testa, riconobbi istantaneamente.
«Buona, Astrid, non ti agitare». Mi sussurrò suadente il Giudice con l’Armatura (Surplice, mi aveva detto qualcuno, in passato) della Viverna sfiorandomi la guancia con la mano artigliata. La voce maschile del mio sogno tornò a farsi sentire: “Si tratta dei guerrieri fedeli ad Ade dio degli Inferi…”
Una zaffata di scotch mi arrivò prepotente in faccia. I suoi occhi gialli e pericolosi come quelli di un serpente a sonagli erano fissi nei miei: «Adesso tutto finirà». Mi promise con tono rassicurante. Questa promessa non fece che aumentare il mio battito cardiaco che la macchina traditrice evidenziò. Cercai una via di fuga con gli occhi ma trovai solo la sagoma dell’altro Specter fuori della porta e il rumore di qualcuno che viene pestato a sangue. E il grido «Illusione galattica!» E, a destra, verso la finestra, sentivo provenire l’eco di un’altra battaglia. Spalancai ancor di più i miei per la paura e anche l’elettrocardiogramma evidenziò il cambiamento, prendendo a rilevare il mio battito cardiaco accelerato. Mi aspettai di sentirli proferire qualcosa, ma avevano un’aria talmente seria e solenne da somigliare agli angeli della morte. Adesso capivo a cosa si fossero ispirati gli artisti del passato per rappresentare i demoni dell’Inferno. Qualcuno mi pose una mano sul petto, come a tenermi ferma. Poi scomparve per ritornare e sentii il profumo e un roseto intero si propagò per la stanza. Mi girai e vidi le rose demoniache di Aphrodite in un vaso vicino crescere e sviluppare dei fusti spinosi che si lanciarono contro lo Specter. Il quale, dopo un primo momento di divertimento si ritrovò a combattere contro quelle rose di cui riconobbi il profumo. Rose che, ben presto invasero la stanza e cominciarono ad avvicinarsi troppo alla sottoscritta. Intanto che la mia pelle rabbrividiva e capivo a grandi linee che cosa era successo, la prima cosa che feci, fu aprire la bocca e strillare per l’orrore. “No! Non avvicinatevi! Non toccatemi!” Ma le parole non mi uscirono di bocca. Mi sforzai di ritrovarla e riuscii ad aprirla ed emettere un suono. Dapprima mi uscì una specie di rantolo.
Quando lo Specter riuscì a liberarsi e mi piantò di nuovo una mano sul petto dicendo: «Finiamola con questa farsa» trovai la forza che mi serviva per liberare un urlo di terrore a pieni polmoni. Un grido che presto attirò le creature della scorsa volta e mi fece ritrovare la faccia del Cavaliere d’Oro del Cancro e poi tra le sue braccia. Infine il salto giù dal buco che le rose e lo Specter avevano creato al posto della finestra, parecchi piani più in basso dopo un balzo che mi parve avesse staccatomi gli organi interni.
Poi, vidi le creature piombare in picchiata verso di noi.
Udii la voce di Aphrodite e poi più niente.

Credo che sognassi perché, improvvisamente mi ritrovai immersa nel buio.
«Svegliati.» Mi disse una voce maschile, la stessa che mi aveva fatto palpitare il cuore.
Corrugai il volto e mi girai dalla parte opposta sentendo un soffice tappeto d’erba e fiori profumati sotto le mie dita e la mia guancia. Aggrottai la fronte e strinsi le dita attorno a quei fiori,
«Svegliati.» Ripeté la voce, stavolta un po’più forte.
Aprii gli occhi e mi ritrovai a fissare un campo di spighe dorate.
La luce del sole illuminava e scaldava ogni cosa nel suo aureo abbraccio.
Mi misi a sedere e mi guardai attorno.
Riconobbi il luogo in cui mi trovavo. C’ero venuta da piccola assieme ai miei genitori e mi era rimasto impresso.
Avevo sempre visto quel luogo tramite delle foto, prima di quel giorno che i miei decisero di portarmi lì a trascorrerci le vacanze estive. Un pallido tentativo di farmi digerire il loro divorzio. Ad attrarmi, quel giorno, fu il modo in cui la luce indorava le chiome dei pini. Mi ricordava tantissimo una canzone francese che conoscevo e che da piccola cantavo spesso.
Mi alzai in piedi e, a passo sostenuto, mi avviai verso la boscaglia di pini che mi attirava tanto.

Milo
Ti svegliasti di soprassalto nel cuore della notte. Ti guardasti intorno e sospirasti quando i tuoi occhi misero a fuoco i contorni della tua stanza.
Eri sdraiato sul tuo letto eppure eri madido di sudore e il cuore ti batteva forte per via della paura. Avevi percepito il turbamento del Cosmo dei tuoi colleghi in Italia. Che diavolo stavano combinando quei due?
Ti mettesti a sedere e sperasti, mentre ti calmavi, riacquistando il senso della realtà, che andasse tutto bene.
«Camus.» mormorasti sbuffando, spostandoti le ciocche disordinate dagli occhi. «Come vorrei che tu potessi sciogliere il dubbio che attanaglia la mia mente». Se il tuo migliore amico fosse stato lì, ti avrebbe lanciato un’occhiata di sufficienza e ti avrebbe ignorato platealmente. Almeno all’apparenza. In realtà sapevi bene che il tuo migliore amico celava in sé un lato molto caldo e affettuoso. Un lato che lo aveva portato a piangere per Hyoga, durante la scalata alle dodici case e che l’aveva portato a rispettare un giuramento nei confronti di un nemico, ad Asgard. Stavi pensando a cosa avrebbe potuto dirti quando sentisti una nota musicale.
Alzasti la testa di scatto, poi ti tranquillizzasti. Forse era il tuo cellulare. Non sarebbe stata la prima volta che lo lasciavi acceso ma, quando lo prendesti dal comodino, lo scopristi ancora spento. Che te lo fossi immaginato? Poteva anche darsi, a volte la notte e il buio giocavano strani scherzi all’immaginazione dei neo desti.
Restasti immobile per un po’, concentrandoti sul tuo stesso respiro finché non sentisti la gola secca. Con uno sbuffo andasti in cucina a bere un bicchier d’acqua e poi tornasti a letto. Cercasti di riaddormentarti invano. Anche perché, per quanto ri rigirassi nel letto, non c’era niente da fare. Allora facesti l’unica cosa capace di darti un po’di conforto. Ovvero, recarti all’Undicesima e disabitata Casa.
Ti vestisti e andasti.
Normalmente la visitavi di giorno quando la luce del sole, il cinguettio degli uccelli e il frinire delle cicale che raggiungevano anche quell’altitudine, contribuivano a riempirla in qualche modo. Di notte invece, ricordava moltissimo quei palazzi teatro di vecchi telefilm come Belfagor o Zaffiro e Acciaio. Anche se amavi quei telefilm in bianco e nero che, eri riuscito a scaricarti da Internet e riguardarti ti sorprendevi di te stesso. Era come se ti aspettassi di vederteli spuntare dalle ombre dietro le colonne. E, per questo, avevi cominciato a parlare, non solo per conforto, ma anche per esorcizzare eventuali presenze. Anche se a cert’ora della notte era molto difficile trovarcele. A quell’ora poi non ci mettevi quasi mai piede, salvo in momenti come quello. Oltrepassasti la Nona e la Decima.
Alla Decima chiedesti il permesso a Shura, che, quella sera, era intento a leggere per prendere sonno anche lui. Pur essendo ancora convalescente dalla polmonite che si era beccato, non aveva esitato a sedersi in poltrona e ammazzare il tempo con la lettura. Alzò gli occhi scuri dal libro e ti domandò se andasse tutto bene. Tu rispondesti: «Sicuro».
«Sei veramente sicuro?»
«Sì».
«Passa pure». Disse il Capricorno ritornando a infilare il naso tra le pagine del libro. Se voi foste stati un po’più in confidenza gli avresti parlato sicuramente. Purtroppo non riuscivi ad aprirti moltissimo con Shura. Era come se lo spagnolo, a causa della sua discrezione, riuscisse a metterti in imbarazzo. Lo stesso imbarazzo che poteva provare un ignorante al cospetto di Archimede, però. Anche tu avevi studiato, intendiamoci, però non saresti mai riuscito a eguagliare né Capricorn, che, nonostante tutto, continuava ad aggiornarsi e a tenersi al passo con i tempi, né con il tuo defunto miglior amico.
C’era però una specie di gioco, un punto di contatto tra voi due. Ogni volta che lo incrociavi con un libro in mano, tentavi di indovinare che cosa leggesse: «Don Quichote?» Domandasti riferendoti al libro tra le mani del tuo compagno d’arme. «L’atlante geografico». Ti rispose senza staccare gli occhi dal libro. Mormorasti un’imprecazione con uno schiocco di dita che fece curvare le labbra dello spadaccino in un sorrisetto divertito.
Poi uscisti da lì e, dopo aver percorso la rampa di scale, approdasti all’Undicesima. Ti occupavi tu di quella casa quando Hyoga non c’era. Avevi il vago sospetto che l’anatroccolo ti prendesse un po’come una specie di uomo delle pulizie, visto che facevi in modo che la polvere e lo scorrere del tempo non la divorassero. Anche perché Hyoga non amava soggiornare al Grande Tempio. Avevi scoperto che si era trovato due lavori: barista e consulente per la polizia per casi riguardanti il soprannaturale. A volte vi sentivate ma non era la stessa cosa che con Camus, né mai lo sarebbe stato. In un certo senso ti sentivi un po’ suo maestro. Consideravi Hyoga quasi una sua eredità, una sorta di figlioccio e provavi per lui rispetto e stima oltre che amicizia. Anche se il debito che avevi con lui per averti aperto gli occhi era saldato da un bel pezzo.
Ti aggirasti per le stanze della Casa dell’Acquario, aiutandoti con una candela che prendesti dalla cucina e che accendesti con i fiammiferi. Le avevi messo tu, visto che le prime volte che eri giunto lì eri andato a sbattere dappertutto. Inoltre, non era una buona idea sfruttare il proprio Cosmo per illuminare l’ambiente. Quando lo facevi ti sentivi una specie di lucciola, più che uno Scorpione. «Ciao, Camus, amico mio». Salutasti il buio circostante mentre, aiutandoti col lume, ti aggiravi per i meandri della casa. A volte era come se qualcuno ti ascoltasse, per questo raccontavi a quelle mura ciò che ti succedeva e gli esponevi i tuoi dubbi, le tue giornate e le tue riflessioni. Ma anche fatti divertenti o belli che sapevi sarebbero potuti piacere anche a lui, nonostante la faccia impassibile. «Stanno succedendo delle cose che non ci spieghiamo.» dicesti. Prendesti il silenzio come se fosse un’esortazione a continuare: «Qualcosa sta facendo piazza pulita tra gli Specter ma non siamo noi e, Atena ha richiesto un colloquio con Hades in persona. Per fortuna che ci troviamo in pace con il Re degli Inferi.» ovvio che sapevi cosa era successo. Non eri mica stupido, anche tu riuscivi a percepire il Cosmo. Anzi, eri pure più discreto di Aiolia, per certi versi. «Pensa che il leoncino si è fatto beccare, che idiota. Atena in persona, quando ha risalito le scale, mi ha detto di riferirgli che domani lo attende». Ti sedesti sul divano.
«Io invece, sono preoccupato. Aiolia è tornato dalla missione in Kazakistan molto provato e Shura mi sta raccontando che stanno succedendo delle cose strane anche in Italia, ma né Atena né il Gran Sacerdote hanno detto qualcosa al riguardo. Oh, a volte mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, agli anni della dittatura di Arles». Guardasti il soffitto, o almeno ci provasti. «Ti ricordi quanto eravamo ciechi in quegli anni? Non vorrei che accadesse la stessa cosa anche adesso. Ah, ma che vado a pensare, noi dobbiamo fidarci di Atena. Non lo so, a volte i miei pensieri sono talmente veloci che non riesco a stargli dietro. Sai cosa, magari è colpa dell’incubo che mi ha colto di sorpresa stanotte e non sono ancora molto sveglio. Domani farò un salto da Aiolia, così gli scrocco la colazione. Galan sa veramente il fatto suo quando cucina».
Restasti lì finché non fosti completamente dimentico del sogno e il tuo umore non fu ristabilito. Quando te ne andasti, augurasti la buonanotte al tuo migliore amico.
Spegnesti la candela e la lasciasti vicino all’ingresso.

Una volta di nuovo nella tua camera notasti, grazie alla sveglia del comodino illuminata dai raggi della luna, che erano le quattro di notte. Ci avevi messo veramente tanto ma ne era valsa la pena perché il sogno che facesti, fu assai migliore del precedente. Nel tuo sogno c’era molta luce. Era una bellissima giornata.
A pochi metri dinanzi a te c’era una macchia di pini alti quasi venti metri. I raggi del sole filtravano tra i rami altissimi, immergendo il luogo in un’atmosfera quasi magica.
E, davanti a te, una ragazza vestita di bianco. Lei si accorse di te e ti guardò da sopra una spalla. Poi la luce filtrò sotto le tue palpebre e, ti trascinò verso la realtà, riportandoti nella tua stanza all’Ottava Casa.

Death Mask
Eri stato svegliato dalla suoneria del tuo telefono. Ti eri stiracchiato e la tua schiena aveva protestato. Sulle prime non avevi capito da dove ti venisse quella scomodità, poi avevi posato le mani sui braccioli della poltrona e avevi ricordato tutto.
Sgranasti gli occhi e chiamasti Aphrodite.
Ti rispose il suo mugolio e lo vedesti rialzare il busto dal letto di Astrid da dove si era addormentato. Anche lui seduto su una sedia e i capelli spettinati, quasi ritti da una parte. «Il telefono». Mormorò stanco e infastidito, prima di chiudere di nuovo gli occhi e riadagiare di nuovo la testa sul materasso.
Quando trovasti il telefono avevi perso la chiamata. Era una chiamata via social da parte di Shura. Non potevi richiamarlo perché questo genere di chiamate non era affidabile. Dopotutto stiamo parlando del Grande Tempio e della sua pessima connessione wi-fi. Per questo gli mandasti un messaggio. Un messaggio di poche, chiare parole, che lui avrebbe celermente riferito alla Dea dando il via a una staffetta come solo voi Gold potevate fare.
Il messaggio era questo: Dì alla Dea che l’ipotesi peggiore che temeva è accaduta, sbrigati. L’intelligenza del malato avrebbe fatto il resto. Ne eri sicuro, su Shura potevi fare affidamento quasi quanto sulla morte.

Aphrodite
«Dobbiamo dare una parvenza di normalità». Dicesti a Death a cena nel ristorante dell’albergo.
«Dopotutto quello che è successo?» Ti domandò con la sua ritrovata espressione arcigna. Dopo la lettura della mano temevi che quella bambola morta si sarebbe sostituita al tuo conoscente (“Amico” continua ricordarti la tua coscienza). Invece non è stato così.
Quello che non avevate considerato era che avresti finito per barattare una bambola morta con la vita in cambio di un’altra bambola morta. Che adesso giaceva inerte sul tuo letto. E, tu, che avevi dormito di fianco a lei per farle la guardia. Avevi il sonno leggero, ma con lei accanto quel sonno era diventato pesante quanto la tua cloth il primo giorno che l’avevi indossata.
Avevate fatto del vostro meglio per nascondere alla signora delle pulizie la giovane addormentata.
Avevi fatto leva sull’allergia al polline della poverina (gentilmente rivelatati dai fiori nell’ingresso) per tenerla alla larga da camera vostra. Ma era solo questione di tempo che avevano chiamato un’altra donna delle pulizie e avevate dovuto essere più creativi. Perciò vi eravate spostati nella Bocca dell’Ade con Astrid tra le tue braccia, ancora addormentata avvolta nella coperta come un baco nel suo bozzolo. Vi ci aveva mandati Death Mask e, poi, a pulizie finite vi era venuto a riprendere.
E, adesso, a cena, mentre mangiavi il tuo controfiletto, stavi cercando di illustrargli le riflessioni che ti erano sorte dalla permanenza nel suo campogiochi.
«I genitori di Astrid smuoveranno mari e monti per riaverla con sé. Ormai è chiaro che da quando li abbiamo avvertiti si siano recati a trovare la loro unica figlia».
Tu non ne sapevi molto di amore genitoriale, nessuno di voi al Santuario ne sapeva niente o lo conosceva. Forse Aiolos, ma l’ex Gold Saint di Sagitter era sottoterra da decadi. E, difficilmente avrebbe potuto contattarvi per spiegarvelo. Però a Rodorio avevi visto molte famiglie. E, il concetto di famiglia stesso non ti era estraneo. Come non lo era neanche a Death. Anche se faceva finta di no. «Sanno che dietro tutto questo ci siamo noi».
Avevi detto a mezza voce, mentre il chiacchiericcio del ristorante e le grida di qualche bambino piccolo nel seggiolone, che si rifiutava di mangiare la minestrina, impediva a chicchessia di origliare la vostra conversazione.
Non avevi mai amato i luoghi affollati come quella sera e il tavolo nell’angolo più ombroso che vi eravate scelti, abbastanza per nascondere le vostre ferite e i vostri cerotti ma non abbastanza per salvarvi dalle domande della cameriera che aveva (ovviamente) chiesto spiegazioni dopo averti fatto i suoi complimenti per la tua bellezza e per il buon gusto di Death. Ovviamente ti eri anche pettinato prima di scendere, non potevi mica mostrarti impresentabile. E, ovviamente, a Death questa insinuazione non era piaciuta.
Il Saint di Cancer mise giù le posate e replicò, sporgendosi verso di te: «Come fai a dirlo? Siamo stati più che discreti». Certo, se escludevate che il disastro del campo di battaglia era finito sui giornali anche se l’avevano bollato come un incidente nell’impianto di areazione che aveva innescato una serie di piccole esplosioni a catena che avevano distrutto un intero reparto. Reparto di cui, i pazienti erano tutti salvi. Se… Ma chi ci credeva?
Molti, a giudicare dalle voci che raccoglievi grazie al platano dirimpetto la vostra portafinestra terrazzo, i gerani e i fiori dell’aiuola sottostante. Per non parlare della TV e dei giornali. La notizia era già in prima pagina. “Già, a Lady Isabel non farà affatto piacere saperlo”. Avevi pensato serrando le labbra.
Poi avevi esposto la realtà dei fatti al tuo amico (“Contenta, coscienza?”): «Abbiamo parlato con i dottori noi ancor più che la sua famiglia. E, a meno che gli av Stjernene non siano terroristi, è ovvio che le accuse ricadranno su di noi. Poi i medici e gli altri dottori, la dottoressa che ti ha messo in contatto con la nostra Lady. Pensaci, ci conoscono, Death».
«Fammi capire, mi stai dicendo che non possiamo farci vedere in giro?» Aveva domandato alzando un sopracciglio. Di fronte al tuo cenno d’assenso ridacchiò sottovoce, divertito: «Si vede che non conosci la lentezza del sistema giudiziario italiano». Disse poi, di fronte al tuo sguardo perplesso. «Saranno anche lenti, ma non possiamo neanche rassicurare i suoi parenti, non credi? Non possiamo telefonare alla madre di Astrid e dirle: Oh, non si preoccupi, sua figlia è sana e salva e ce l’abbiamo noi, no, chiamerebbe la polizia e allora sì che saremmo nei guai». Avevi detto così perché era l’unico numero dei suoi parenti che avevi memorizzato sul telefono. «E, sarebbe anche il minimo. Se gli Specter non avessero ancora finito, con lei? Riconsegnarla alla sua famiglia sarebbe una pessima mossa, potrebbero rintracciarla e ucciderli tutti».
Death Mask cercò un’altra soluzione, lo vedesti dal suo sguardo, ma non ne trovò. Non ce ne erano. Come al solito, avevi ragione tu. Ma non ci sarebbe stata l’Another dimension di Saga a riportarvi al Grande Tempio. E, neanche quella di Kanon.
Ricominciaste a mangiare mascherando la vostra inquietudine dietro la determinazione che era propria di voi Guerrieri della Dea Atena. Anche questa era una battaglia, in fondo. E, non sarebbe stata una vera battaglia senza quel tocco di inquietudine e incertezza che dava tanto la sensazione di essere sulla lama di un rasoio, no?
Prendesti il tuo calice di vino rosso e lo sorseggiasti con eleganza, neanche volessi dare lezioni di galateo al gibbone siciliano (ok non era così brutto), al troglodita (così va meglio) seduto accanto a te all’angolo del tavolo.
Stavolta dovevate agire con i piedi di piombo. Questa sarebbe stata l’ultima notte che avreste passato in Italia. Poi si sarebbe visto il da farsi.

Aiolia
La staffetta innescata dal messaggino di Death aveva fatto effetto, anche se ti eri dovuto far raccontare tutto nei minimi particolari nella speranza di capirci qualcosa. Se ci ripensavi ti veniva il mal di testa.
Era come sentire l’enunciato di quelle formule di algebra e geometria che ti costringono a imparare a memoria durante il periodo delle scuole medie. Non che a voi fossero servite a qualcosa ma anche la Grecia era stata annessa nell’Unione Europea, perciò tra una missione e l’altra eravate stati chini sui libri di testo. Sì, anche di algebra.
Adesso, con tutta la buona volontà di Cocteau, ti sembrava di avere di nuovo a che fare con quei dannati rompicapo matematici che Camus intendeva così bene.
In pratica Death e Aphrodite erano stati scoperti (come? Mistero), avevano fatto un casino per salvare il loro scopritore (e qui, c’eri). L’avevano portato all’ospedale ma erano stati costretti a rapirlo per salvarlo dagli Specter che erano il motivo per cui lui (o lei) si trovava in clinica. Avevano mandato un messaggio a Shura tramite un’app del telefono che funzionava meglio delle care vecchie chiamate estere e, a causa delle creature, erano stati costretti a prolungare il loro soggiorno per guarire dalle ferite e sarebbero tornati l’indomani ad Atene alla Dea piacendo. «Ho capito bene?» Domandasti guardando la civetta appollaiata sui resti della colonna che ti arrivava alla vita. In realtà però potevi guardarlo (era un maschio) tranquillamente negli occhi perché eri seduto. Le gambe penzoloni nel vuoto.
«Sì». Confermò l’animaletto con i tre topolini sul capo che gli fecero da eco. L’oracolo di Atena.
Tornasti a guardare davanti a te: «Speriamo che vada tutto bene».

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Miracolo nella disperazione ***


Miracolo nella disperazione


Death Mask
Da quando l’avevate salvata, controllavi la sua mente. Sempre facendo attenzione a non svegliarla. Non sapevi com’era stato possibile. Lei, a rigor di logica, doveva essere ancora in coma. Non te ne intendevi tantissimo. Tra tutti voi era stato Camus quello che studiava, anche se lui s’intendeva moltissimo di fisica, non di medicina. Adesso c’era la papera artica che rispondeva al nome di Hyoga, ma non sapevi dire se, in quanto a conoscenze, fosse pari del maestro.
Anche voi avevate riportato la vostra buona dose di ferite, niente che non potesse guarire con un po’di tempo e Cosmo. Peccato solo che non potevate usarlo, perciò (altro smacco) ogni tanto vi facevate controllare. I fondi della Dea erano arrivati con un tempismo perfetto. Anche perché, la sanità, in quella maledetta città costava. L’unico problema erano gli sguardi preoccupati del receptionist. Un giorno s’offrì addirittura di chiamarvi l’ambulanza. Ma voi, l’avevate convinto a non farlo. C’erano volute due ore. Tornasti a concentrarti sui sogni della povera Astrid. I sogni della ragazza erano un misto tra ricordi e incubi. Da un lato era fastidioso e dall’altro era disturbante. Lei si augurava che niente di quello che era stato estrapolato dalla realtà fosse vera. Invece, non era così.
A volte, entravi nella sua mente e cercavi di dialogare con lei mascherandoti da proiezione mentale. Preferivi vederla nei sogni che nella realtà con un busto di gesso e il corpo ancora ferito. A “salvarla” dall’intrusione erano i flash di quelle creature nere. Allora trasaliva e tu venivi come scacciato fuori dalla sua mente. Credevi che fosse per via della sorpresa iniziale. Non sempre, infatti, succedeva che i flash accorressero in suo soccorso. A essere onesti, anche tu temevi quelle creature. Non riuscivi, inoltre, a comprendere, che cosa avessero a che vedere con lei.
Altre si accorgeva di te e riemergeva lentamente dalle dolci tenebre dell’incoscienza. La prima volta successe grazie al rumore del motore della macchina. Avevate chiamato Lady Isabel che vi aveva mandato una delle sue auto per spostarvi. Il difficile era stato, per te, passare dalla finestra, sempre con Astrid in braccio, fare attenzione che non batteste la testa per il contraccolpo del rimbalzo, passarla rapidamente al compagno, avvolta nel mantello della tua Armatura come un bruco nel suo bozzolo. Il quale l’aveva caricata in macchina e poi, tu, ti eri teletrasportato in camera e fatto il resto dei bagagli, scendendo poi come se niente fosse. Nessuno si accorse di nulla. Anche perché avevate agito alla velocità della luce.
«Dobbiamo proprio portarcela dietro?» Domandasti sovrastando la musica dell’autoradio che avevate acceso per far passare il tempo.
«Non c’è scelta, Lady Isabel è stata chiara e ne abbiamo avuto più volte la conferma. Questa ragazza sa, ha visto troppo, ma chi ci dice che non torneranno a prenderla e, a quel punto solo Atena sa cosa non le faranno.» rispose l’altro con voce cupa.
«Potevamo almeno lasciarla in un’altra clinica, non è in grado di affrontare il viaggio, ora come ora». Nonostante tutto il trattamento alle rose le sue condizioni restavano comunque critiche. Non t’intendevi di medicina ma restavi dell’idea che fosse comunque una pessima idea muoverla troppo.
«Non potevamo aspettare, Rhadamantys e gli altri erano lì, se rammenti».
Proprio in quel momento la bionda mugolò per il dolore che, inesorabilmente, pretese e ottenne la sua attenzione e le vostre. Come potevate biasimarla? Ebbene, tu potevi. Mai sentita una creatura più lamentosa di quella, ti venne voglia di mettere fine alle sue sofferenze in modo definitivo. Ma Aphrodite, ti dissuase dal farlo. Gli bastò materializzare una rosa e accostargliela al naso per farla ripiombare nel mondo dei sogni. Non avevi mai pensato che le rose di Aphrodite potessero essere usate in ambito farmaceutico.

Aiolia
Come promesso a Lythos, eri tornato a casa dopo di poco. Lei si trovava seduta al tavolo in cucina e, davanti a lei, stavano una scodella con latte, miele, biscotti e bicchieri di spremuta di arancia. In pratica alcune di quelle poche cose che eri sicuro che non potesse avvelenare con la sua cucina. Appena ti aveva visto si era alzata in piedi aveva tirato un sospiro di sollievo e ti aveva sorriso. Ti eri accomodato al tavolo ricambiando il sorriso o, almeno, sforzandoti di mascherare la tua inquietudine. Per fortuna la vista della tua sorellina era calata un po’, sicché nella penombra come quella, non distingueva tanto bene le espressioni facciali.
Ciò non significava però che non riuscisse a capire certi stati d’animo. Come quello che provavi adesso. Infatti, il suo sorriso si spense e ti domandò: «E’successo qualcosa?»
Anche il tuo sorriso si afflosciò e distogliesti lo sguardo mentre ti sedevi al tavolo: «Ancora non lo so.» A quel punto lei fece il giro del tavolo e ti si avvicinò: «Aiolia» ti pose una mano sulla spalla e tu la guardasti. «Non sono più una bambina, puoi dirmele certe cose, ormai». Tu copristi la sua mano con la tua e curvasti le labbra in un sorriso comprensivo. «Lo so, ma… non voglio che ti capiti qualcosa come in passato. Capisci? Tu non sei un Cavaliere d’Oro e stavolta le conseguenze potrebbero essere inimmaginabili.» rispondesti. Ti aspettasti una reazione come un’espressione indispettita e che poi ti voltasse le spalle e se ne andasse dispiaciuta. Perché era quasi impossibile che provasse rabbia. Invece non lo fece e tu restasti lì a guardarla senza sapere bene cosa fare. Alla fine fu lei a dire una cosa che non ti saresti mai aspettato di sentire. «Aiolia, ho vissuto questi anni senza di te, pregando ogni giorno per te e la tua anima, e cercando di vivere, di crescere e imparare a cavarmela da sola. E, ci sono riuscita, sono cresciuta, non sono più la bambina che accogliesti nella tua casa molti anni fa. Voglio solo dirti che anche se non posso seguirti in battaglia, posso comunque ascoltarti e cercare di consigliarti e venire a riprenderti quando le battaglie saranno concluse, come ho sempre fatto. Questo l’ho sempre fatto e continuerò a farlo perché è questo ciò che è in mio potere. Tu mi hai dato tanto e ora tocca a me dare qualcosa a te. Capisci?» La guardasti con una faccia smarrita. Non perché il discorso fosse troppo difficile da comprendere, bensì perché non te lo aspettavi. «Lo so che è un po’difficile da capire per uno che ha vissuto così per quasi tutta la propria esistenza, ma dovresti provare a fare uno sforzo, non sei più l’uomo del malaugurio». Ti dette un buffetto scherzoso sulla guancia e ti sorrise con fare materno. Tu lasciasti andare la sua mano. Sinceramente non avevi idea di che cosa intendesse, ma mai come allora ti sembrò una madre. E, lei, come se avesse letto qualcosa d’insolito nel tuo viso, ti abbracciò. Solo dopo comprendesti di avere gli occhi pieni di lacrime.
Quando se ne era andata a dormire avevi chiamato Cocteau e ti eri fatto spiegare tutto.

A svegliarti furono i raggi del sole che ti avvolgevano nel suo caldo e luminoso abbraccio. Poi sentisti il profumo della colazione. Ti alzasti, ti lavasti, ti vestisti e raggiungesti i tuoi servi in cucina. Lì trovasti Galan e Lythos, intenti rispettivamente a preparare la colazione e ad apparecchiare.
I due quando ti scorsero sulla porta ti salutarono e Galan, che, a questo punto poteva passare per tuo padre, ti sorrise e ti domandò se avessi dormito bene. «Sì, molto bene e voi?»
«Ho dormito serenamente padroncino Aiolia». Rispose Galan con il solito rispetto che gli conoscevi. Annuisti. «E, voi, padroncino?» Domandò il tuo servo.
«Mi sento riposato come non mi succedeva da anni». Rispondesti.
Ti accomodasti a tavola e Lythos, che aveva finito di apparecchiare, t’imitò. L’ex pretendente al titolo di Cavaliere del Leone servì la colazione e si sedette a sua volta. Mangiaste la colazione in silenzio. Ma era un silenzio disteso e rilassato, un silenzio che ti era mancato. Era in quei momenti che comprendevi perché, a differenza di tutti gli altri Cavalieri, avevi dei servitori. Di solito i Cavalieri erano autosufficienti o proprio non gli interessava avere una servitù fissa. Le ancelle del Tempio si occupavano di ripulire i vostri alloggi quando lo ritenevate necessario. La Dea, infatti, non sopportava che nel suo Tempio mettessero piede degli schiavi. Se non per questioni di necessità. Voi non dovevate fare eccezioni. Nonostante le armature e i templi, eravate prima di tutto persone, come tutti gli altri. Non nobiluomini, non vescovi, non sacerdoti. L’oro delle vostre armature rappresentava soltanto il vostro rango. Peccato che rango non significasse sottomissione. Il colore delle vostre armature era sì sinonimo di potenza, ma soprattutto di speranza agli occhi dei soldati semplici. Eravate i loro comandanti e i loro protettori, soldati a vostra volta, ecco la verità. Solo la Divina Atena si poteva permettere delle ancelle. E, voi eravate Cavalieri, soldati, ancor prima che uomini al servizio di una Dea. Quando la Divina aveva riconquistato il suo posto sul Trono di Grecia, avevi temuto che te li togliesse. Per questo, quando ti aveva convocato al suo cospetto alla Tredicesima, quel giorno ti era sembrato di morire un’altra volta. Invece, la Dea, quando aveva scoperto di Lythos e Galan, si era limitata a chiederti se ti fosse servito qualcos’altro e sorriderti in modo strano per tutto il tempo. Alla fine te ne eri andato sollevato e più confuso di prima.
Il ricordo svanì com’era venuto e tornasti a bearti di quel calore famigliare mentre facevate colazione. A un tratto Galan cominciò a parlare a proposito delle mansioni di quel giorno. Ormai vi organizzavate la giornata così. Erano alcuni dei momenti che gradivi di più. Sperasti che niente potesse interromperli mai.
«Buongiorno a tutti! Si può?» Domandò la voce allegra di Milo, interrompendo la vostra chiacchierata e facendo scoppiare la bolla di calore che vi avvolgeva. Almeno tre volte a settimana scendeva fino alla Quinta per scroccarti la colazione.
Roteasti gli occhi. “Artropode scroccone” pensasti, però senza Cosmo.
«Oh, Cavaliere di Scorpio, buongiorno». Salutarono i tuoi servi, cordiali e, poi tu: «Se proprio devi, ma ti avverto che non so se è rimasto qualcosa anche per te. Non ci aspettavamo una tua visita». Lo avvisasti. A volte capitava che, effettivamente, non ci fosse cibo a sufficienza perché Milo, quando si trattava di te, preferiva non avvisare mai per tempo. Era come se ci godesse a infastidirti. Se non fosse stato che ormai eri abituato a vedertelo girare per casa, l’avresti steso con un pugno. Il desiderio di rifargli i connotati non se ne era andato con il tempo. A volte si manifestava ancora. Il trucco per evitare una Guerra dei Mille Giorni era sfogarti in arena. «Ma, no, padroncino Aiolia, ce ne è anche per il signor Milo.» disse Lythos sorridente. Le lanciasti un’occhiataccia che lei ignorò. Davvero non capivi che fine avesse fatto la ragazzina che quasi si mise contro Milo per difenderti dalle sue frecciate, quando il Santuario te lo appioppò come guardia del corpo.
Il tuo compagno d’arme sorrise, batté le mani una volta e poi si accomodò al tavolo dicendo: «Fantastico».
Lythos gli servì la colazione e lui le sorrise e la ringraziò. Anche il rispetto che Milo mostrava nei confronti di Lythos, lo stesso che si deve a una signora ti pareva stonato.
«Oggi ci alleniamo?» Chiedesti in tono tagliente al custode dell’Ottava, che nel frattempo si era fiondato sulla colazione come un cane sulla ciotola di croccantini. Lui annuì. «Va bene». Tanto l’artropode era abbastanza stupido da non capire che l’avresti massacrato. «Ah, prima che andiamo, la Divina Atena mi ha incaricato di riferirti un messaggio» cominciò con lo stesso tono che avevi usato tu, ma non ci facesti caso. «Ah, davvero?» Domandasti, salvo poi ricordarti di essere stato beccato la sera prima; per poco la colazione non ti andò di traverso. «Sì, puoi immaginare quanto la cosa mi faccia piacere, cioè di riferire proprio a te i messaggi. Comunque, dice che ti vuole vedere il prima possibile, perciò di raggiungerla alla Tredicesima Casa».
«D’accordo, allora finisco di mangiare e vado subito». Tanto avevi quasi finito.
«Sta bene, ti aspetto in arena». Rispose e, ti seguì con lo sguardo mentre ti alzavi e andavi a prepararti per presentarti al cospetto della Divina Atena. E, se quello che ti rivelò a proposito del suo colloquio con Hades ebbe dell’incredibile.
Ti eri inginocchiato al cospetto della tua signora nella sala del trono come da protocollo. «Eccomi, mia Signora». Avevi esordito senza guardarla. Lei ti rispose con la voce soave che le conoscevi: «Ben arrivato Cavaliere del Leone, ti ho convocato perché volevo parlarti di una questione importante».
«Ditemi Milady».
«Abbiamo avvertito il tuo Cosmo ieri sera, nella Sesta Casa. Il Gran Sacerdote insinua che tu stessi spiandoci, ma io ho piena fiducia in te e ti conosco, so che se ti trovavi lì era per via della presenza di Hades in questo luogo sacro».
«Mia signora, io… Io sì, è così, ho temuto che fosse giunto qua per attaccarvi e ho cercato…» Cercasti di giustificarti. La tua Dea si alzò, ti raggiunse e ti pose una mano sulla spalla. Tu sollevasti il viso per guardarla e incontrasti il suo sguardo pieno di compassione e comprensione: «Comprendo il motivo per cui hai agito così, non temere per la mia incolumità, stavolta non abbiamo niente di cui aver paura; Hades non violerà mai un trattato di pace stipulato con tanta fatica e tante perdite». Poi ti volse le spalle e tornò ad accomodarsi sul Trono. «Mia Signora, come potete dire ciò? Come potete garantire per Hades dopo tutto ciò che è accaduto durante la Guerra Sacra? E, per Shun? Non temete forse che Hades possa ucciderlo e tramite lui arrivare a voi?» Per poco non sbottasti nel proferire quelle parole. Lei ti guardò stupita, ma non disse niente, non subito. Temesti di aver fatto una gaffe.
«Comprendo la tua preoccupazione Aiolia, ma i tempi sono cambiati e il Cavaliere di Virgo non è più il ragazzo che conoscevi, io ho piena fiducia in lui e so che non mi tradirà. Ti ho trattenuto anche troppo, torna pure alla tua dimora e stai tranquillo».
Chinasti il capo e obbedisti, facendo un enorme sforzo per morderti la lingua. Fortuna che Milo si era immolato volontariamente per aiutarti a scaricare la tensione accumulata quel giorno. Ovviamente non avevi dimenticato l’aiuto che ti aveva dato all’epoca dei Senza Volto, ma ciò non toglieva che a volte fosse proprio insopportabile e che te le togliesse proprio dalle mani.

Milo
L’allenamento era andato bene.
Fortunatamente la tua capacità di giudizio e il tuo raziocinio non erano scomparsi con la vostra resurrezione. E, non erano state messe a dura prova con i nuovi eventi. Quel giorno avevi chiesto la rivincita ad Aiolia dopo che ti aveva pestato allegramente per il trattamento a colazione, ti eri risentito. Se non era scoppiata una Guerra dei Mille Giorni era solo perché al momento era inutile. E, poi, lo facevi anche per il suo bene, era ovvio che quel ragazzo, a parte farsi tagliare le mele a forma di coniglietto, non avesse hobby.
Lo avevi invitato a Casa tua qualche volta, per passare un po’di tempo insieme, ma ti aveva ignorato. Aveva legato più facilmente con Mur che con te, dopotutto. Non te l’eri presa perché sapevi com’era fatto quello scontroso impulsivo.
Dopo aver bevuto un po’d’acqua ed esserti fatto una doccia e cambiato d’abito, andasti a trovare Shura alla Decima. Lo trovasti in camera sua con il naso infilato nel solito tomo: «E’permesso?» Domandasti bussando le nocche sullo stipite della porta.
«Entra pure». Ti rispose girando la pagina del libro. Non riuscisti a leggere il titolo perché il volume era troppo consulto. Ma come faceva a leggere anche quando era malato? A volte, ti ricordava Camus, la differenza era che non era poi così impassibile e che ti considerava. Occupasti una sedia posta alla scrivania vicina al letto e ti accomodasti. «Come va?» Gli chiedesti.
«Un po’meglio, mi è calata la febbre, tossisco assai di meno e ho preso degli analgesici».
«Mi devi ancora spiegare come hai fatto a prenderti la polmonite».
«Non chiedermi quello che non ti saprei spiegare neanch’io. Qualcosa non va, Milo?» Ti chiese guardandoti, finalmente. Normalmente Shura indossava un paio di occhiali da vista, che toglieva soltanto quando combatteva. Perciò ti faceva una strana impressione vederglieli indosso. Era come vedere Death Mask con gli occhi rossi e i capelli d’argento. Esattamente come appariva quando non usava il Cosmo. Allora sì che appariva persino più truce. Da un pezzo a questa parte aveva deciso di usarlo per mantenere il colore di occhi e capelli come quando indossava l’armatura. «Niente».
«Sei sicuro? Eppure non mi sembri messo molto meglio di me.» effettivamente i lividi non ti erano ancora spariti completamente. Aiolia aveva un Cosmo taumaturgico niente male, il difficile era convincerlo a usarlo dopo che ti aveva pestato. Perché non si abbassava a usarlo con tutti, altrimenti avrebbe finito per diventare la crocerossina del Santuario. A volte il Leone ti sembrava davvero un ingrato. Ammettevi anche tu che sarebbe stato disagevole ritrovarsi a curare ventiquattro ore su ventiquattro i feriti per ogni più piccola quisquilia. Se non altro avrebbe potuto provarci. Invece no, Aiolia non si sapeva prendere cura di qualcuno. Era bravo a salvare la vita delle persone e a proteggere, ma a curare no. Gli mancava quella generosità che lo avrebbe reso… bè, sicuramente non sarebbe stato Aiolia. Un esempio lampante? Shaina, che si sacrificò per permettere a Seiya di sopravvivere al Sacro Leo, quando fu incaricato di recuperare le Sacre Vestigia di Sagitter. Aiolia aveva promesso a Seiya che si sarebbe preso cura di lei, salvo poi sbolognarla a Cassios. Certe promesse non riusciva proprio a mantenerle fino in fondo. Anche con Shura. Fortuna che almeno questa volta ci stava provando. Almeno veniva a controllare lo stato di salute di Capricorn ogni giorno e accelerare un po’la guarigione dell’amico. Questo era il massimo che sentiva di poter fare per lui. Poi per quanto riguardava le medicine, era bene che ci pensaste tu, il dottore, Aphrodite e Death Mask (che erano ancora in Italia) e lo stesso Shura. Per i pasti, invece, ci pensavi tu a cucinarglieli. Grazie al Cielo eravate autosufficienti da quel dì. «Sto bene, non preoccuparti per me. Non è che avresti qualche libro da prestarmi?»
«Belfagor ti ha già stufato?» Ti chiese incuriosito (senza mutare l’espressione ombrosa) riponendo il libro sul comodino, poi si tolse gli occhiali e si rintanò sotto le coperte. Prima di ammalarsi era stato lui a scaricarti tutti gli episodi della serie Tv l’ultima volta che era sceso a Rodorio. «No, è che di solito mi piace guardarlo la sera, non durante il resto della giornata». Rispondesti alzando la voce per farti sentire. Per via dell’atmosfera, poiché era un thriller. Al momento eri a metà del quarto episodio.
«Capisco. I libri li trovi nella libreria in salotto. Posso sapere che cosa cercavi?» Ti chiese emettendo un gemito di sofferenza per via del mal di testa, quando tornasti.
Ti ricordasti di preparare anche delle aspirine. Ormai il povero allettato era più rifornito di una farmacia, con tutte le medicine che gli somministravate. «Niente di particolare, volevo solo sfogliare qualcosa».
«E, l’hai trovato?» Ti chiese lo spagnolo mettendosi seduto. La schiena affondata nel cuscino.
Ti sedesti di nuovo sulla sedia. «No. Vado a prepararti qualcosa da mangiare». Dichiarasti alzandoti di nuovo e dirigendoti in cucina. Dopotutto erano le due del pomeriggio, c’era ancora tempo per mangiare un boccone. Shura sapeva anche questo.
Cuocesti della minestra: «Hai novità su Death Mask e Aphrodite?» Urlasti al malato. Il quale emise un gemito di dolore così lieve da somigliare a un sibilo e, ti pregò con la sua solita discrezione, di non gridare che ti sentiva. Soffocasti un risolino divertito. Avevi dimenticato che Shura era piuttosto sensibile con il mal di testa. Come lo era ogni volta che sapeva di essere nei guai fino al collo.
«No, nessuna. Mi hanno detto che hanno avuto dei problemi con le creature che li hanno assaliti, ma non ho più ricevuto notizie. Ho provato a contattarli e mi hanno risposto che è successo un casino, cito testuali parole». E, con quel linguaggio, era ovvio che si riferisse a Death Mask.
Già, chissà come se la stavano cavando quei due e, perché ci stavano mettendo tanto. Avevano addirittura chiesto altri soldi ad Atena per prolungare la loro vacanza. Le voci dicevano che fosse per via di una ragazza. Una giovane che, a quanto pareva, doveva aver colpito molto profondamente Death (era impossibile che si trattasse di Aphrodite, anche perché quello era un narcisista patentato). Tu conoscevi quei due abbastanza bene da dire che, se la Dea aveva acconsentito, era perché doveva essere accaduto qualcosa di molto grave. Altrimenti non l’avrebbe mai fatto. Le questioni amorose qui c’entravano poco o niente e, poi, anche un idiota sapeva che nella vita ci s’innamorava pochissime volte. Neanche voi Cavalieri facevate eccezioni, nonostante le vostre vite. L’unica persona che eravate tenuti ad amare era Atena e la giustizia che essa rappresentava. Perciò era ovvio, che fosse successo qualcosa in Italia. Qualcosa che aveva a che fare con i Giudici Infernali, a giudicare dai Cosmi Oscuri che avevi percepito spegnersi e quelli dei tre agire. Compreso Hades. Certo che conoscevi il segreto di Shun e, lo aiutavi come potevi, tutti quelli che potevano lo aiutavano. Mai lo avresti rivelato ad Aiolia, avrebbe sollevato un putiferio e, poi avrebbe cercato di ammazzare il poveretto.
Se Atena si rivolgeva a Hades in persona, significava che tempi bui si stavano avvicinando.
Sperasti che i tuoi compagni tornassero sani e salvi.
Ti accorgesti che la minestra era pronta. La scolasti e, poi, dopo averla servita in una ciotola con il cucchiaio, la portasti al malato. «Ecco qua, buon appetito». Gli dicesti passandogli la scodella.

Shun
Appena il Gran Sacerdote e Atena ti lasciarono solo, lavasti le tazze. Avevi recitato bene per non far preoccupare la Dea. La verità era che quegli scambi di persona ti toglievano molte più energie di quelle che volevi. C’eri abituato per forza, con tutti gli integratori che ingerivi quasi tutti i giorni, compreso oggi che eri scivolato lentamente in cucina. Il trucco era non mostrare mai quanto ti tremassero le gambe. Adesso molto più stabili di prima.
All’improvviso, udisti il turbamento dei Cosmi degli Specter.
Alzasti il capo dal tuo lavoro.
Che cosa stava succedendo? Erano in pericolo? Di norma non avresti dovuto sentirli. Ma Hades sì, eccome se li sentiva. E, a volte, quando non stavate attenti, le vostre percezioni si confondevano. Anzi, da quando Atena l’aveva destato dal sonno per conferire con lui, stava facendo fatica a riaddormentarsi dentro di te. Non chiudesti nemmeno l’acqua, e lasciasti correre le stoviglie che gli domandasti: «Hades, che cosa sta succedendo?»
La sua voce seria e indifferente ti rispose nella mente: "I tre Giganti Infernali sono in pericolo, li sento. Implorano il mio aiuto".
Ti asciugasti le mani al canovaccio.
«Allora fa quel che devi». Dicesti risoluto. Così gli lasciasti il controllo del tuo corpo, ritrovandoti incorporato ma non sopraffatto, dalla sua coscienza e dal suo immenso quanto spaventoso potere, sicché lui poté salvare i suoi tre Giudici.

Hades
Usasti il tuo Cosmo per spostare da lì i suoi sottoposti. Di solito te ne fregavi altamente di tutti loro. Però non sopportavi che anche un solo soldato delle sue armate disobbedisse agli ordini. Anche a quelli che non avevi mai dato e, ora che Atena ti aveva messo al corrente, eri deciso a scoprirne di più. Per questo, quando li avesti trasferiti al sicuro, li interrogasti.
Tramite il Cosmo potesti vedere le proiezioni dei tre, in ginocchio al Tuo cospetto.
«Sommo Hades». Dissero i tre quasi all’unisono in tono ossequioso, senza ringraziarti per aver salvato le loro miserevoli vite. Ma agli Inferi la riconoscenza non esisteva e tu non la chiedevi.
«Silenzio!» Esclamasti con tutto il tuo carisma: «Basta con questi colpi di testa, viviamo tempi di pace, una pace che, come voi stessi avete detto, è stata conquistata a fatica. Ed io non ho affidato il mondo nelle mani della Dea della Giustizia e della Guerra per niente. Cosa vi è saltato in mente per attaccare i Cavalieri d’Oro? Pretendo una risposta e subito!»
«Mio Signore, sapete anche voi che gli Specter sono resuscitati in varie parti del mondo», iniziò titubante Rhadamantys della Viverna; il capo chino, inginocchiato sul ginocchio destro e il pugno a terra. «Ebbene, di recente si sono verificate delle sparizioni, degli omicidi tra le nostre file. Normalmente, come dite voi, non ce ne dovrebbe importare. Il problema era che questi Specter sono morti. Gli esseri umani comuni e le anime dei morti non possono avere tale ardire, neanche ne avrebbero il potere ma i Cavalieri d’Oro sì».
«Incapaci, ho appena conferito con Atena e mi ha detto che avete attaccato i suoi sottoposti senza ragione alcuna!» Esclamasti con livore. Ti accomodasti sul letto come se fosse il tuo trono infero.
«Mio Signore, abbiamo ragione di credere che non sia così. Forse i Cavalieri d’Oro ci stanno nascondendo qualcosa, come una nuova arma».
«Un’arma? Atena? Atena detesta le armi, la maggior parte dei suoi guerrieri combatte a mani nude». Rilevasti sprezzante e disgustato da quei vermi. Possibile che quei tre avessero una tale memoria corta? «So che sembra impossibile ma non vediamo altra soluzione. Quelle… creature, non sappiamo da dove provengano, altrimenti».
«Creature? Quali creature?» Chiedesti a questo punto, domandandoti seriamente di cosa stessero parlando. Prima tua nipote, ora loro. Forse la Dea aveva veramente detto tutta la verità sull’apparizione di queste cose. E, da quando Atena, la dolce Atena, (dolce con tutte le sfumature ironiche del caso, ovviamente) aveva al suo servizio delle creature? Rhadamantys alzò il viso per guardarti negli occhi. Anche gli altri due sollevarono di poco i loro per guardarti. Ma bastò una tua occhiata perentoria per farglielo riabbassare subito. «Creature, non sappiamo come definirle. Sembravano spettri incappucciati di mantelli neri sbrindellati e fluttuanti. Le loro mani erano grigie e scheletriche e appuntite come artigli, bruciano tutto quello che toccano e sono immuni ai nostri colpi, tutti. Non hanno paura e non emettono suono alcuno, sommo Hades».
Decidesti di tacere. Quando apristi bocca, li congedasti: «Che non si ripeta mai più un incidente diplomatico tale». «Maestà, ma se le creature dovessero ripresentarsi?»
«Cercate di radunare le truppe al più presto. Dobbiamo evitare di perdere altri Specter e soldati, sono stato chiaro?» «Sì, vostra altezza». Replicarono i tre.
Poi azzerasti il Cosmo.
L’ex Bronze di Andromeda, cercò di strapparti qualche rivelazione. Sentiva che stavi pensando e che gli stavi nascondendo qualcosa. E, questo lo preoccupava. “Hades, Hades, che cosa succede?”
Ma tu non rispondesti.
Non avesti altra scelta che mantenere la tua promessa. Perciò afferrasti il telefono e chiamasti Pandora. Anch’essa era tornata in vita e di nuovo con il suo vecchio ruolo di Sacerdotessa. La differenza era che adesso al posto di rimetterla nel tuo castello, avevi scelto come base la villa in Germania dove viveva. Quella villa piena di quella vita e di quei colori che lei aveva tanto desiderato vedere e vivere. Perciò adesso era legata a te anche dalla gratitudine oltre che dal vincolo affettivo-adorante. La tua sottoposta ti rispose subito: «Mio signore, fratello mio adorato, quale onore ricevere una vostra chiamata a quest’ora della notte». La voce ancora chiara e limpida. Sapevi che probabilmente in quel momento si stava esercitando con la sua arpa.
«Pandora, sono giunte alle mie orecchie voci alquanto spiacevoli sul comportamento delle nostre truppe e desidererei ricevere conferma o disdetta da te.» facesti un respiro profondo prima di continuare: «E’vero o no che alcuni dei nostri soldati sono morti?»
La sacerdotessa che ti venerava e ti amava come una sorella maggiore (serpente!) balbettò un po’ nel rispondere: «Sono desolata mio Signore, non ne sapevo niente. Com’è stato possibile?»
«Questo lo sto chiedendo a te».
«Vedrò di condurre approfondite ricerche, mio Signore». Rispose lei.
«Sta bene, aggiornami al più presto sugli sviluppi, non vorrei che il Tempo fosse giunto».

Shun
Corrugasti la fronte in un’espressione di pura confusione. Ma di cosa stava parlando Hades? Il tempo fosse giunto? A cosa si riferiva? Una nuova guerra sacra, forse? Oppure qualcosa di peggio? Provasti a inviargli un pensiero interrogativo ma quello t’ignorò bellamente: «Sì, mio Signore». Poi attaccò e cominciasti tempestarlo di domande. Mentre ti cambiavi per mettere il pigiama, cercasti di strappargli qualche informazione. Quando alzasti lo sguardo verso lo specchio a figura intera, lo vedesti al posto del tuo riflesso. Bardato nella sua armatura scura, che non contribuiva ad addolcire il bel volto e gli occhi chiari sulla carnagione pallida. Dopo averti trapassato con lo sguardo, ti rispose, aspro: «Umano, dovresti imparare a farti gli affari tuoi e a non mettere il naso nelle faccende delle divinità». Poi scomparve, restituendoti la tua immagine riflessa. Scuotesti il capo, finisti di indossare il pigiama e decidesti di dormire, sperando di non aver allertato nessuno nel Santuario.
Ti coricasti e chiudesti gli occhi.
Salvo poi riaprirli e alzarti per andare a chiudere l’acqua del rubinetto.

Shura
Avevi mandato un messaggio ad Aphrodite per vedere se la staffetta aveva funzionato, ma non ti aveva ancora risposto.
Di solito rispondeva quasi celermente ma se non rispondeva o aveva il cellulare scarico o era successo qualcosa. Tu propendevi per la seconda.
Era da quando sapevi della piega imprevista che aveva preso la loro vacanza che avevi cercato di alzarti dal letto e raggiungerli. Ma, vuoi Cocteau che appena ti vedeva intraprendere un percorso diverso dal letto-bagno-cucina-libreria-letto che si confà a ogni malato, che te l’aveva impedito, vuoi il dottore, si era auto eletto tuo guardiano personale. Perciò, ogni volta che tentavi la fuga, ti aveva afferrato con gli artigli la maglia sulla schiena come se fosse una collottola e ti aveva trascinato indietro battendo le ali con ancora più vigore. "Strano, per essere così minuscolo". Pensavi ironico.
«Oh, lasciami stare, mi rovini la maglietta». Avevi protestato debolmente reclinando la testa indietro, quasi rientrando nella maglietta come una tartaruga nel suo guscio. Se ti fossi lasciato cadere a terra, saresti riuscito a sfilartela o ti avrebbe acchiappato per i capelli e avrebbe ripreso la sua tirata?
«Non farmelo ripetere un’altra volta, Shura, ti ho detto che non ti devi alzare». Rispondeva invece lui, in tono annoiato e i topolini sul suo capino facevano eco all’ultima parola spezzandola in tre sillabe. Avevi cercato di svignartela almeno una decina di volte nell’arco di quelle settimane. All’inizio Cocteau non se ne era accorto, ma era difficile ingannare a lungo uno come lui che ti era subito venuto a prendere e riportarti in camera tua.
«Per favore, non sono un bambino, so badare a me stesso». D’accordo l’amicizia, d’accordo la premura, ma adesso stava cominciando a esagerare. Non sarebbe stata la prima volta che saresti rientrato in servizio con il corpo guarito al settanta per cento. Possibile che dopo tutti questi anni ti sottovalutasse ancora a tal punto? Eppure glielo avevi provato durante lo scontro con Mordred di essere più resistente che mai. Dovevi esserlo, nel nome del tuo giuramento di fedeltà alla Dea e per il tuo maestro Izo. Niente poteva tagliarti. Ma, a quanto pareva, la malattia poteva piegarti. Anche se da un lato avevi timore che l’accumulo di ferite e la parziale guarigione ti avrebbe presentato il conto prima o poi e allora sarebbe stato un problema. Un problema rappresentato nella fattispecie da Ionia di Capricorn, uno dei tuoi predecessori di chissà quale generazione X intermedia.
Chiudesti gli occhi.
Quel maledetto linguacciuto, eri quasi sicuro che c’era il suo zampino nella tua malattia, lui e quella stra maledetta Domination Language con cui aveva sostituito Excalibur. Una tecnica che sfruttava la voce per far eseguire all’avversario tutto ciò che Ionia desiderava. Mai una volta che gli si seccasse la gola o che perdesse la voce quello stronzo.
Ci avevi scambiato un paio di parole quando avevate fatto ritorno al Santuario dopo i fatti dei Senza Volto. E, non solo avevi capito subito di essere stato l’ultimo Gold Saint di Capricorn degno di tale nome, ma che non gli eri andato a genio. Soprattutto quando aveva compreso che non ti saresti lasciato manipolare così facilmente dai suoi bei discorsi. Più che un Cavaliere, quel colosso formato Aldebaran l’avresti visto meglio in politica. Ancora adesso ti chiedevi come mai la Dea non lo stesse impiegando in tal senso, invece che tenerlo a insegnare nella Palaestra del Santuario. Perché non si era suicidato da solo quando si era reso conto di aver tradito anche lui Atena? Perché? Oh, come avresti voluto tagliarlo in due con Excalibur. Non eri violento come Death, o impulsivo come Aiolia. La tua visione della giustizia era rimasta inalterata, nel corso del tempo, ma temevi che quell’uomo se ne sarebbe potuto approfittare e non ti andava giù.
Da quel vostro colloquio il vostro era un rapporto cordiale ma molto teso, dove ogni parola andava misurata e scelta con cura. Onde evitare di scoprire le vostre carte.
Quell’uomo non ti piaceva per niente e, l’avevi capito dal modo in cui aveva detto che amava Atena. Anche se in senso puramente platonico lo avevi capito. Poi, avevi parlato con Koga e gli allievi della Palaestra e avevi ricevuto la conferma ai tuoi sospetti. Un tipo del genere era persino più pericoloso della doppia personalità di Saga.
Cocteau ti richiamò alla realtà: «Stai bene?»
«Relativamente».
«A che pensi?»
«Ai pericoli insiti nel Santuario». Dicesti fermandoti. Lui si avvicinò e si posò sulla tua spalla.
«Ionia?» Indovinò.
Tacesti e lui capì. «Non dovresti pensarci adesso».
«Non posso permettermi di alzare la guardia».
«Ma non puoi neanche tagliare le parole». Ti fece notare con delicatezza. Anche lui conosceva i poteri di questo tizio. Sospirasti. «Sarebbe bello si potesse…»
«Lo so». Ti aveva risposto, ma anche se aveva cinque anni più di te, certe abitudini erano dure a morire. Un po’si considerava il fratello maggiore di tutti i Gold e il tuo amico più caro. «So che vuoi andare ad aiutarli ma fidati di loro, se la stanno cavando benissimo». Bugia. Ma non glielo dicesti.
Poi, fu il mal di testa a costringerti a ripercorrere i tuoi passi a ritroso. Ti infilasti di nuovo sotto le coperte e ti girasti su un fianco. Non gli dicesti nient’altro, preferisti tenere per te i pensieri che gli indirizzasti. Poi chiudesti gli occhi e il sonno ti catturò immediatamente come le fauci del lupo sull’agnellino.

Astrid
Sentii dei fruscii ma non potei volgere la testa per controllare. Il viso di Aphrodite sovrastò il mio dopodiché sentii un profumo intenso invadermi le narici e le palpebre si fecero pesantissime. Mi addormentai, con la voce del mio rapitore che mi augurava qualcosa che non compresi. Non so quando cominciai a sognare. Quello che so è che nel mio sogno vagavo per una landa che somigliava molto alla Valle della Morte che avevo visto nei ricordi del Cavaliere di Cancer. La differenza era che c’erano degli alberi morti, ma erano anneriti e i rami erano contorti e bruciacchiati e, sotto di me, c’erano le creature. Non ne avevo mai viste così tante. Mi bloccai all’istante mentre realizzavo che si muovevano come uno schieramento. Una sorta di esercito di file da tre. Poi alzai gli occhi e li vidi fluttuare anche sopra di me, sempre in fila per tre con la solita silente e inquietante grazia.
Lanciando lo sguardo oltre a loro, vidi la città deserta e carbonizzata, priva di vita, come se tutto fosse perito nel corso di un grande incendio. Peccato che non fosse cenere quella che impregnava l’aria, bensì polvere.
Quando mi svegliai, mi trovai sdraiata nuovamente sul sedile posteriore di una macchina. Qualcosa mi copriva il corpo e alle mie orecchie arrivò la musica di un’emittente radio. Cominciai a gemere per il dolore, che, dopo qualche secondo, mi attanagliò. Dove mi trovavo? Che posto era questo? Come c’ero arrivata? Che mi era successo? Poi ricordai e urlai anche per la paura.
Improvvisamente il volto di Aphrodite invase nuovamente il mio campo visivo e, dopo che una sventagliata di profumo di rose mi assalì le narici, svenni.
La seconda volta che aprii gli occhi, mi trovai a fissare il soffitto di una camera che non somigliava per nulla a quella di un ospedale. Lo capii dal profumo, troppo diverso da quello che avevo respirato fino a quel momento. Non ero in coma. Purtroppo ne ero riemersa davvero solo che mi davano dei sedativi per non farmi soffrire troppo. Ancora non capivo bene che cosa mi era successo, so solo che la prima cosa che vidi, una volta sveglia, furono gli occhi preoccupati di Death Mask. Se c’era qualcosa prima o dopo, non mi è dato saperlo.
Se mi fossi destata in circostanze normali avrei fatto chiamare i miei per dirglielo. Al pensiero dei miei genitori, che mi stavano cercando sicuramente, la mia mente fu assalita da miriadi di domande. So che avevano sollevato un vespaio e preteso di parlare con la Lady quando avevano saputo, figuriamoci adesso che cosa sarebbe successo se avessero scoperto il resto. Lo sapevo con certezza. Cercai di muovere il collo ma non mi riuscì per via del dolore e, allora, mordendomi la lingua, mi guardai attorno con gli occhi. A venire in mio soccorso furono le voci di Aphrodite e Death Mask. «Ho capito, a presto.» disse Aphrodite con voce seria attaccando un telefono, a giudicare dal suono che emise.
«Che cosa hanno detto?» S’informò Death Mask con una certa ansia.
«Hanno detto che dobbiamo aspettare un po’, i Giganti sono ancora in circolazione». Giganti?
«Già, i loro Cosmi li sento ancora.» Fece il Cavaliere d’Oro di Cancer, pensieroso e preoccupato. «Si sono salvati, allora. Probabilmente sarà intervenuto Hades in loro favore. Non ci voleva, a quest’ora saranno sulle nostre tracce».
Cosmi? Mi domandai in un momento di vuoto. Proprio in quel momento ebbi una fitta alla testa e altre cominciarono a tormentare il mio corpo quando mi mossi. Trattenni a malapena un gemito ma quei due non se ne accorsero, presi com’erano dalla conversazione. «E, che mi dici di quelle creature?» L’altro tacque per un po’, prima di rispondere. «Non sento niente, è come se fossero scomparsi dalla faccia della Terra».
Non appena mi mossi, cominciai a sentire ancor di più il dolore provocato dalle ferite dei miei aggressori e gemetti, poggiandomi le mani sull’addome, che era il punto che mi doleva di più, dopo la testa e la caviglia e altre parti del corpo. Mi sarei anche piegata in due se non fosse stato per il busto di gesso. Aphrodite tornò nel mio campo visivo, trasalii e cercai di allontanarmi strisciando: «Non toccatemi, lasciatemi andare, lasciatemi...» Supplicai, con la vista offuscata dalle lacrime, ma dovetti smettere perché anche la bocca mi faceva male. A quel punto, incapace di sopportare tanto dolore, urlai e poi, tutto tornò a essere avvolto dal nero. Stavolta il buio si popolò d’incubi dalle sembianze dei miei aggressori che finivano il lavoro e poi le Creature. Ancora loro, che mi si scagliavano addosso.
A volte succedeva anche che riemergessi dal dormiveglia e, allora, i due, che nel frattempo avevo associato alle peggiori cose, mi facevano bere qualcosa e mangiare. In quei momenti sentivo anche stralci di conversazione tra i due: «Rimpiango di non poterci teletrasportare immediatamente al Santuario» sentii dire da Death Mask.
«Sono tre giorni che non fai altro che ripeterlo.» ribatteva l’altro, sempre troppo vicino a me.
«Se non fosse per quelle...» Poi sprofondavo di nuovo nel sonno. Altre invece, ero io stessa a decidere di non aprire gli occhi, anche se gli effetti del sedativo - perché era chiaro che mi avessero sedato - erano finiti e i dolori si erano attenuati.
Una volta sentii il Cavaliere di Cancer ridere, un po’ a disagio, dopo essere uscito dal bagno: «La pianti di pettinarle i capelli e aggiustarle i vestiti? Non è mica una bambola». E, la risposta arrogante dell’altro, dall’altra parte della stanza, comunque troppo vicino a me: «L’ho fatto una volta sola perché dovevo toglierle il sangue che aveva addosso. E, poi, in ospedale mi sembrava fosse l’unica cosa che potevo fare per lei. Solo perché poi ho pensato di districarle i capelli e cercare di rimediare un po’allo scempio di quei tre pazzi è un crimine? Smettila tu, piuttosto, e passami quegli antidolorifici.» Esclamò e, udii il rumore di una pastiglia che si scioglieva nell’acqua. Mi sentii sollevare e un bicchiere fu poggiato sulle mie labbra. Riconobbi il sapore delle aspirine e mi rilassai un po’, cercando di ignorare il dolore alla mia bocca e il fatto che mi avessero spezzato i denti. Mi venne da piangere. Le lacrime debordarono agli angoli degli occhi. E, qualcuno, forse lo stesso Aphrodite, me le asciugò con un fazzoletto: «Che bastardi, non è vero? Ma non ti preoccupare, gliela faremo pagare anche per te». Mi promise con voce cantilenante e angelica. La voce di un angelo vendicatore. Proprio allora udii il rumore di un paio di valigie che erano chiuse e dei passi che si avvicinarono al letto. Dopo di ciò, qualcuno mi prese in braccio con inaspettata delicatezza: a giudicare dall’odore era lo stesso Aphrodite. Credo che le rose non le sopporterò mai più. «Bene, siamo pronti, adesso che ne dici di teletrasportarci all’aeroporto?» Sentii i passi dell’altro e poi, dopo qualche secondo, in cui le mie narici furono pervase da un odore di morte tale che non mi sarei mai aspettata di sentire, il vento mi carezzò il viso. Sentimmo delle voci e il rumore di un aeroporto. «Bene, eccoci qui».
Salimmo sulla scaletta dell’aereo e ci imbarcammo. Quello che so di quel momento si ferma qui perché i due si accorsero, dallo sfarfallio delle mie ciglia, che mi stavo svegliando e si affrettarono sedarmi di nuovo. Ancora una volta sognai quel paesaggio desolato e le Creature. Il vento mi smosse i capelli e, una di loro si accorse della mia presenza. Volse la testa incappucciata verso di me, si staccò dagli altri e mi raggiunse fluttuando. Poi, una volta vicina, si sollevò in posizione eretta di fronte a me ricambiando il mio sguardo. Improvvisamente qualcuno pose una mano sulla mia spalla e mi tirò indietro, riportandomi sull’aereo, dove non sognai altro, ma il sonno mi sommerse completamente.

A svegliarmi, stavolta fu il rumore di una battaglia. Qualcuno stava combattendo sull’aereo? No, non eravamo più sull’aereo, bensì, a giudicare dal dondolio, su una barca. Come diavolo eravamo finiti su una barca? Sentivo anche il rumore di oggetti infranti e corpi sbattuti contro le pareti con e rumore di pannelli rotti dalla forza d’urto. Compreso il calore di certi colpi e, raggi di luce che brillarono da sotto le palpebre. Sentii un’esplosione e qualcosa, mi piovve addosso, togliendomi il fiato e facendomi aprire gli occhi di colpo. Nello stesso momento sentii Death Mask gridare il mio nome.
«Non ti preoccupare, l’ho protetta io!» Esclamò lo svedese togliendosi di dosso e, in coda alle sue parole, si alzò e si spolverò di dosso le macerie che, una volta, dovevano essere le pareti di una nave. «Cosa...» riuscii solo a dire, mentre, lentamente, i pensieri cominciavano ad affollare la mia mente ancora sonnolenta. E, non solo quella, anche le mie membra erano indolenzite e addormentate per i troppi giorni d’inattività. Delle fitte alle gambe, come se qualcosa me le stesse masticando, mi fece trasalire e sussultare.
In quel momento un altro raggio di luce bucò la parete esattamente dietro di lui, che si chinò per proteggersi. Quando scomparve, seguito dalle urla di Death Mask e degli altri aggressori, il ragazzo con i capelli celesti e l’armatura impolverata mi guardò a occhi sgranati, poi mi prese in braccio con la coperta e tutto, senza che me ne accorgessi. Era davvero così rallentata la mia mente? Oppure erano loro che - ricordai-, si muovevano a velocità per me inconcepibili? «Dobbiamo scappare.» spiegò soltanto, mentre cominciavo a tempestarlo di domande e liberarmi fiaccamente dalla sua stretta. «Che cosa fai? Lasciami andare, lasciami!» Ma lui non mi ascoltò e, in men che non si dica, mi portò in un’altra cabina e mi depose sul letto raccomandandosi di restare qui: «Qui? Che sta succedendo? Che vuole da me quella gente? Che volete da me?» Domandai mettendomi seduta, e scoprii che adesso il dolore era diventato sopportabile, anzi, facilmente ignorabile, nonostante il busto di gesso.
«Torneremo presto». Mi promise, carezzandomi la guancia, forse per rassicurarmi.
«Non toccarmi!» Esclamai invece, cercando di scacciare quella mano, ma l’aveva già ritratta.
«Ali di Garuda!» Poi un’altra serie di colpi e voci, che divennero ovattate. «Sbrigati, non riuscirò a tenerli lontani ancora a lungo! Aphrodite! Arrivano!» A quell’urlo ci zittimmo entrambi, strabuzzando gli occhi.
«Ah, tutto qui, Cancer?» Urlò di rimando la voce piena di scherno di uno dei miei aggressori.
Aphrodite uscì dalla cabina e chiuse la porta, ignorando i miei richiami.
La battaglia infuriò ancora a lungo. Cercai di muovermi, ma dovetti aspettare che le gambe smettessero di farmi male. Poi mi scagliai contro la porta, ma inciampai nella coperta e cascai a terra. Mi rialzai, cercando di ignorare il dolore e mi guardai intorno. Cercai con gli occhi un oblò per capire la situazione, ma non ce ne erano, lì dove mi trovavo. Nel frattempo cercai di rialzarmi, ma la nave era sballottata qui e là, come durante una tempesta, rendeva difficile anche il solo camminare. E, poi, improvvisamente, le grida non furono più di battaglia, ma di terrore e i colpi non andarono più contro la nave. Lo capii dal fatto che non udii nessun rumore di altri oggetti rotti. Anche la nave si stabilizzò improvvisamente e riuscii a raggiungere la porta. Per fortuna non era chiusa a chiave, perciò uscii e mi ritrovai le scale ingombre di macerie di varia natura.
La luce andava e veniva.
Mi tornò in mente quella puntata: Megalodonte, che avevo visto su Internet. Quella dove il bestio sbranava lo scafo di una nave scambiandolo per una balena e rabbrividii.
Mi costrinsi a fare qualcosa.
Mi avvolsi nella coperta come se fosse stata un mantello e scappai. Appena salito l’ultimo gradino della scaletta, avvertii il calore. Le Creature! Cercai di svignarmela, ma, una volta sul ponte di quello che scoprii, essere un yacht immenso, trovai i cinque - con tanto di rinforzi, che, avevo capito, erano Skeleton che diventavano polvere al passaggio delle Creature - impegnati contro di esse per proteggersi. A un certo punto le Creature si lanciarono contro i tre in nero. Cancer eseguì il suo colpo più potente, che distrasse momentaneamente quelle cose e si volse, per trovarmi impalata sullo scalino con tanto d’occhi. Mi prese in braccio senza tante cerimonie e noi e Aphrodite corremmo via. Le Creature ci accerchiarono e si avventarono addosso ai due, che strillarono di dolore. Precipitai dalle braccia di Death Mask sul legno mentre le Creature si avvinghiarono a loro, prendendoli per le spalle, incuranti delle grida, dei colpi, delle lacrime, del dolore e delle minacce dei Cavalieri d’Oro. Poi, i lembi dei loro mantelli si posarono sulle loro carni e l’aria si riempì dell’odore di carne bruciata sfrigolante. Le loro carni e le armature divennero nere, mentre le cose li prosciugavano.
Eppure, quei due, riuscirono comunque a gridarmi di scappare via da lì. Mi alzai e, con le gambe tremanti, eseguii. Feci solo tre passi, che le orecchie si riempirono di nuovo dei loro ululati. Quegli ululati smossero qualcosa dentro di me, perciò mi volsi e tornai indietro.
In quel momento, vidi le stelle delle loro costellazioni - rispettivamente Cancro e Pesci - sospese a pochi centimetri dai loro corpi, affievolirsi sempre più fin quasi a spegnersi. E, più si estinguevano più le loro voci, i loro movimenti diventavano sempre più fiacchi e loro somigliavano sempre più a cadaveri carbonizzati. Lo stesso succedeva dall’altra parte, ne ero quasi sicura, a giudicare dalle urla in decrescendo.
Non so cosa mi prese, però, alzai istintivamente il braccio come se avessi dovuto contare quelle stelle e, appena ne toccai una, questa s’illuminò, tornando a splendere più di prima. Appena spostai il dito, mi accorsi che un sottile filo di luce giallo dorato era rimasto appiccicato alle mie dita, quasi come una ragnatela. Non mi domandai neanche perché, non c’era tempo. Passai immediatamente alla seconda, collegando le stelle e riaccendendo anche quella, con la stessa vitalità della prima. Aphrodite parve schiarire un po’e la sua carne tornò normale, mentre la vita si accendeva di nuovo dentro di lui. Era come se avessi attivato una specie di processo inverso.
La Creatura indietreggiò come se si fosse scottata.
Incoraggiata dal risultato, continuai, anche se il Cavaliere era caduto in ginocchio, costringendo anche me a chinarmi. Continuai così finché la sua costellazione non fu risanata e con nuovi collegamenti. La carne del Cavaliere schiarì mentre la vita e il sangue tornavano a riempire i tessuti e le ossa del suo corpo e i capelli gli ricrebbero, fluenti e variopinti come prima. La sua stessa Armatura tornò a risplendere dorata come immaginavo potessero essere i raggi del sole. La sua carne tornò candida e liscia, come se non gli fosse mai accaduto niente. Boccheggiò, bocconi, portandosi una mano alla gola mentre il processo si completava. Le Creature cominciarono a indietreggiare. Il filo di luce scomparve non appena toccai l’ultima stella. «Ma cosa...?» Domandò con un fil di voce mentre lottava per rialzarsi.
Passai immediatamente a Death Mask, che era stato gettato a terra come un giocattolo rotto. Le sue stelle erano quasi scomparse quando, ripetendo la stessa operazione, stavolta con più sicurezza di prima, ottenni gli stessi risultati. Le sue membra si rinvigorirono, persino i suoi occhi tornarono ad albergare in quelle orbite vuote e impolverate. Ogni suo organo, ogni capello, ogni singola cellula e potere tornarono da lui, rigenerandolo completamente. E, con lui, anche la sua Armatura tornò a splendere, lucida e integra come prima. La prima cosa che fece fu tossire e poi aprire gli occhi. Mi guardò spaventato e confuso, chiedendomi spiegazioni con lo sguardo.
Le Creature si comportarono come se fossero improvvisamente impazzite dalla paura. Appena mi volsi a guardarle sussultarono e arretrarono di un balzo (benché fluttuassero).
Death Mask gemette, rialzandosi a sedere, puntellandosi sulle braccia. Una mano alla testa come se avesse l’emicrania. Aphrodite ci vide e si precipitò ad aiutare l’amico: «Death Mask!» Io mi tolsi immediatamente da lì. Il compagno lo guardò mentre l’altro lo aiutava a rialzarsi passandogli il braccio sulle proprie spalle e sorreggendolo con l’altro. «Cosa è successo? Mi sono sentito come... le creature!» Esclamò guardandosi riprendendosi e vedendole volare via. «Aiutiamole ad andarsene!» Propose il Cavaliere dei Pesci con aria vendicativa e si scagliò contro le medesime con una potenza che non gli conoscevo. Lo stesso accadde anche per il suo amico.
Però, fui solo io ad accorgermi che le Creature, non temevano loro, bensì me. Mi accorsi che arretravano mantenendosi in posizione eretta. Però, a guardarle bene, era come se stessero aspettando me. Mi guardai le mani e poi di nuovo loro. Mi alzai in piedi e la coperta mi scivolò di dosso. Mossi un passo verso di loro e quelle indietreggiarono. Mossi anche le braccia come a scacciarle e quelle si salirono di quota. I Cavalieri d’Oro erano talmente presi dai loro attacchi che non si accorsero di niente. Sorrisi e continuai fino a giungere dall’altra parte della nave. Era come se seguissero i movimenti delle mie braccia.
Alzandole, costrinsi anche loro a librarsi in volo e, poi, alzando le braccia sopra la mia testa, tutte quante si levarono in volo, tutte.
«Facci uscire da qui, Death Mask!» Urlò Aphrodite.
«Con piacere!»
Mossi le mani come a scacciarle e quelle si volsero e si dileguarono. Intanto che l’immagine della nave e della notte andò in frantumi, rivelando invece centinaia di mostruosi occhi, che, con un altro colpo, fecero la stessa fine.
Mi ritrovai seduta su un sedile del jet, a guardare il soffitto dell’abitacolo. Death Mask rivolto verso la coda e Aphrodite contro i finestrini ancora intatti. La luce del giorno che entrava dai medesimi, facendo scintillare le loro corazze. I due si volsero verso di me e ricambiai i loro sguardi. «Ti sei svegliata?» Chiese Aphrodite, sorpreso, battendo le palpebre. Che cosa era successo? Non ci capivo niente.
Mi toccai i denti con la lingua e sibilai di dolore. Erano ancora rotti, forse anche a causa del morso che avevo rifilato alla corazza di Cancer, la sera del rapimento.
Improvvisamente il dolore si fece insopportabile e cascai dal sedile. Gemetti per non dire urlai di dolore e sibilai più e più volte, mentre la schiena mi faceva talmente male che per poco non svenni. Non riuscivo a muovere le gambe, anche spostare le braccia, era una tortura. Eppure prima non soffrivo. Era stata solo un’illusione.
I due mi si avvicinarono cercando di rassicurarmi e stendermi, però notai qualcosa ai loro piedi e scattai indietro. O, almeno, fu quella l’intenzione, per via del male che sentivo, non potei. Aphrodite mi prese in braccio, nonostante le mie proteste. Poi si volsero e videro anche loro i corpi anneriti e le armature distrutte dei loro rivali. Nessuna stella brillava su di loro. «Sono...» mormorò il Cavaliere dei Pesci, spaventato. Intanto che il ragazzo si voltava per coprirmi la visuale con il suo corpo: «Non guardare.» credo che dicesse.
La voce mi morì in gola per via dello shock, ma fu solo per qualche secondo, che ripresi a lamentarmi. Era la prima volta che vedevo un cadavere così mal ridotto dal vivo. Non credevo che puzzassero così, ma di carne bruciata. «Vado a vedere com’è la situazione in cabina di pilotaggio.» dichiarò il Cavaliere del Cancro.
Mi sentii posare due mani sulle spalle e vidi il Cavaliere dei Pesci cercare di dirmi: «Non guardare, vieni via». Annuii meccanicamente e mi lasciai trasportare qualche sedile più lontano e più nascosto, sicché non avessi potuto vedere i cadaveri. Non potevo dire lo stesso della puzza di morte che ormai aveva invaso le mie narici. Mi portò un bicchiere d’acqua con un analgesico e si assicurò che stessi bene. Mi aiutò persino a bere. Poi sistemò gli altri due, prendendo delle coperte da chissà quale scomparto, che buttò sui cadaveri per coprirli. Non ce la feci più. Posai il bicchiere in terra e lo raggiunsi, lasciandomi cadere dai sedili e strisciando sui gomiti. Lui mi vide e corse subito a riprendermi, domandandomi che stessi facendo. Ma non glielo permisi. «Non... ti prego. Lasciami... vederli». Lo implorai tra un soffio e l’altro.
Lui strinse le labbra e cercò di ponderare la questione con voce incerta: «Non sono un bello spettacolo, non dovresti».
«Ti... prego» il ragazzo mi guardò indeciso poi sospirò e mi esaudì. Si chinò un poco, stando attento a non farmi soffrire. Con una mano scostò i teli. Sussultai. Lui non disse niente. Immediatamente vidi la traccia lasciata dalle loro stelle. A differenza dei Cavalieri d’Oro, qui non avvertii neanche una costellazione, solo una stella per ciascuno. Non le avevo mai viste prima, però, tesi un braccio verso di loro. «Che vuoi fare?» Mi domandò chinandosi. Poi, quando toccai il punto dove era la sua stella, questo s’illuminò. Aphrodite per poco non perse la presa su di me, ma fu sufficiente, per me - anche se molto doloroso - per scivolare via da lui e strisciare dagli altri due.
La differenza con quelle dei due Cavalieri d’Oro, fu che queste stelle erano violette o di sfumature molto cupe dello stesso colore, e che non ci fu alcun filo. «Che cosa fai?» Mi domandò, ma non lo ascoltai, mentre il mio aggressore riprendeva vita e la sua armatura si ricomponeva. Tossì e Aphrodite fece un balzo indietro, poi mi riacchiappò immediatamente mentre gli altri due riprendevano vita. Il Cavaliere d’Oro si allontanò sconvolto stringendomi di più a sè, mentre i tre, mugolando per il dolore, si rialzavano chiedendosi spiegazioni l’un l’altro: «Che cosa è successo?»,
«Il sommo Hades ci ha resuscitato?» Il terzo rispose, poggiandosi una mano sul capo, il volto contratto in una smorfia di dolore: «Erano quelle cose e... poi... tu!» Aphrodite scattò in una posizione di difesa. «Non una mossa, Giganti degli Inferi!» Li minacciò materializzando delle rose nere nella sua mano.
Io, intanto, continuavo a soffiare tra i denti e a trasformare le mie urla in gemiti a causa del dolore.
Death Mask comparve sulla porta, facendo un mezzo balzo indietro nel rivederli di nuovo vivi e illesi. «Com’è possibile?» Disse preparandosi ad attaccarli «Voi eravate stecchiti!» Anche i tre scattarono in posizione di attacco, ma nessuno si mosse. «La ragazza. E’stata la ragazza. Non so come, ma è riuscita a riportarci in vita!» Fece quello canuto indicandomi. Aphrodite si spostò davanti a me a coprirmi. «Non osare toccarla.» Minacciò Aphrodite, anche se nessuno si era mosso o avvicinato. Prima che si scatenasse un’altra lotta, riuscii a dire, quasi urlando: «Andate via.» gli occhi di tutti mi si calamitarono addosso. Aphrodite abbandonò la posizione per guardarmi sconvolto come tutti gli altri.
I tre in nero mi trapassarono con uno sguardo carico di disprezzo. «Come osi darci degli ordini? A noi, i Giudici degli Inferi!» Ringhiò quello coi lunghi capelli scuri. A causa delle Surplici entravano a malapena nell’abitacolo.
«Andate via.» ripetei allo stesso modo per via del dolore. Il viso rigato di lacrime.
«Cosa? Come osi rivolgerti in questo modo a me! Ali...» Aphrodite si preparò a farmi da scudo con il corpo e l’amico saltò di fronte a noi pronto per sferrare il suo attacco, ma il capo dei Giudici gli afferrò il polso e lo fermò: «Calmati, Eaco». Lo ammonì.
«Non ti ci mettere anche tu, Rhadamantys!» Ribatté l’altro, trapassandolo con gli occhi, una volta riavutosi dallo stupore, ma l’altro non si lasciò intimorire da quello sguardo assassino: «La ragazza ci ha salvato la vita, adesso vuole che ce ne andiamo, penso che possiamo accontentarla, per oggi». Ribatté invece, continuando a sostenere il suo sguardo. L’altro abbassò il braccio e poi lo scostò malamente con un’imprecazione o una minaccia, non capii bene. Solo allora mi guardò. Io non mi mossi.
Non so come accadde, però mi ascoltarono, visto che non ero riuscita a formulare quelle parole senza neanche una briciola di carisma o convinzione. «Va bene, saremo magnanimi. Per oggi vi lasciamo andare, ma non fateci l’abitudine, Cavalieri, la prossima volta non vi andrà così bene». Dichiarò Rhadamantys prima di dirigersi al portello - gli altri due subito dietro - e aprirlo, scatenando una ventata che costrinse Aphrodite a trattenermi prima che volassi via, come tutte le cose. Poi, lanciò una rosa contro un pulsante e, questa, chiuse il portello. Gli oggetti che fluttuavano tornarono giù con un tonfo in parte sordo o dei fruscii.
Mi accorsi di non percepire niente dalla vita in giù. In compenso, riuscii a sentire il rumore del piede di Aphrodite che calpestava l’acqua. Con la mente ancora annebbiata per il dolore e gli occhi lacrimanti, abbassai lo sguardo e vidi l’acqua del bicchiere sul pavimento. Doveva essersi rovesciato.

Shura
Stavolta neanche Cocteau ti avrebbe impedito di alzarti dal letto. Anzi, se non fosse stato per lui, non ti saresti accorto del pericolo. «Che ti succede?» Avevi detto, notando il suo muso girato verso la finestra: «Death Mask e Aphrodite…» Aveva detto soltanto, sconvolto. Ti eri accigliato ma il tuo cuore aveva cominciato a battere più velocemente, come se avesse capito prima di te quello che stava succedendo. «Sono in pericolo!» Esclamò poi allarmato.
Ti avvolgesti rapidamente nella coperta e corresti via.
Ti svegliasti di soprassalto e ti ritrovasti nel tuo letto. Ti passasti una mano sulla faccia: non era successo niente, era solo un sogno. Un sogno che stava diventando realtà: «Shura!» Ti chiamò Cocteau. Sussultasti e ti girasti verso di lui con un senso di dejà-vu.
E, capisti subito cosa stava succedendo. Anche se con le ultime linee di febbre balzasti giù dal letto e, avvolgendoti nella coperta, corresti giù, lungo le scale delle Dodici Case.

Shun
Erano passate delle settimane intere e non era più accaduto niente.
Finora.
Quella sera dopo cena ci stavi ancora pensando quando sentisti. Corresti fino alla soglia di Casa tua nella speranza di poter vedere l’aereo. Ma anche ammesso che tu avessi letteralmente la vista di un falco, il cielo nero e tempestoso non ti permise di scorgere niente. Ma il Cosmo dei tuoi compagni d’arme era più che sufficiente a sopperire questa mancanza.
“Hades! Che succede!” Esclamasti quando sentisti anche i Cosmi dei tre Giganti Infernali. Ancora una volta però lui non ti rispose. Poi l’estinzione completa dei tre Cosmi. “Che cosa fai? Non li salvi?" Domandasti al Dio Infero ma quello non ti calcolò neanche di striscio. Uscisti dal tuo Tempio correndo e guardasti il cielo plumbeo. Illuminato da qualche sporadico lampo, come se avessi potuto avvistare l’aereo che trasportava i vostri compagni.
Improvvisamente, sentisti anche i Cosmi dei Cavalieri d’Oro tuoi colleghi e compagni estinguersi allo stesso modo. A quel punto molti altri abitanti del Santuario si allertarono. Aiolia ti raggiunse dalla sua Casa, «Che succede?» Ti chiese quando ti raggiunse. Non facesti in tempo a rispondere che la voce di Milo di Scorpio ti chiamò dall’altra parte del corridoio di passaggio della Sesta Casa: «Shun! Shun!»
«Milo!» Urlaste di rimando. Poi gli correste incontro come se steste inseguendo il tuo stesso grido. Sull’uscio, vedeste il vostro collega correre scendere dalla settima seguito a ruota da Shura avvolto in quella che aveva tutta l’aria di essere la sua trapunta.
«Ragazzi!» Per poco non urlasti anche “fratello” per abitudine, ma ti mordesti la lingua in tempo.
«Shura!» Esclamò invece Aiolia sorpreso nel vedere il custode di Capricorn. Fece per redarguirlo ma lo spagnolo lo ghiacciò con un secco: «Non è il momento, Aiolia!»
«Lo sentite anche voi?» Chiedesti in coro con Milo. Quest’ultimo indicando il cielo, gli occhi cerulei spalancati per lo spavento e la confusione. «Sì! Che sta succedendo?» Domandò lo spagnolo spaventato poi si strinse nella sua coperta reprimendo un brivido. Era raro vedere il viso del Cavaliere della Decima mutare espressione e, se ciò accadeva, significava che la situazione era grave. Finora gli unici testimoni di ciò erano stati Saga, Kanon, Aldebaran e Death Mask. Shiryu non valeva. «Li sentiamo ma non potremmo raggiungerli neanche se volassimo! Sono troppo in alto e troppo lontani, non abbiamo tempo per levitare da loro facendo evolvere il cloth e non sappiamo cosa stia succedendo, non vediamo più niente. Non riesco a sentirli!»
Milo non disse niente, ma volse di nuovo il capo. Lo sguardo fisso al cielo plumbeo. Sapevate che stava cercando di analizzare la situazione meglio che poteva. Peccato che non aveste tutto questo tempo a disposizione. «Dovremmo andare! Non possiamo lasciarli al loro destino!» Esclamò Aiolia e voialtri lo guardaste.
«No, Cavaliere del Leone!» Esclamò una voce alle vostre spalle. Vi giraste e vedeste Kiki raggiungervi. Ormai non era più un bambino, ma il fiero Cavaliere d’Oro di Ariete. La sua crescita si era fermata a diciassette anni e non era più cambiato da allora. Nel portamento vi ricordava molto Mu e anche nella flemma, nella saggezza e serietà che emanava. Aveva carisma, meno evidente rispetto al Cavaliere di Leo, ma sempre di carisma si trattava. Rispetto a due anni prima non era per niente cambiato. Tu, invece, da allora non ti eri più fermato, in un certo senso.
«Non potete lasciare il Santuario senza il consenso della Divina Atena». Dichiarò posando il proprio mantello sulle spalle di Shura, che ci si avvolse ulteriormente per via del freddo. Non l’avevi mai visto così umano neanche lui, che era sempre così composto, ma la febbre lo aveva privato momentaneamente del suo decoro.
«Cosa? Kiki, ma che stai dicendo?»
«La verità. Non sentite il Cosmo della Divina Atena?» Vi voltaste verso la Tredicesima Casa e vedeste il bagliore dorato del Cosmo di Lady Isabel risplendere come una stella nella notte. Stava cercando di mettersi in contatto con i vostri compagni d’arme e, a voi, stava ordinando di non muovervi per nessuna ragione. «Assurdo, perché la Dea si comporta così? Non siamo novellini!» Esclamò Aiolia. Se a lui, intuivi, sembrava di essere tornato al tempo in cui il vecchio Dohko gestiva il Santuario ai tempi della battaglia contro Nettuno. A te ricordò la Guerra Sacra contro Hades. “Kiki, tieniti pronto a erigere il Crystal Wall se necessario” Ordinò il Gran Sacerdote attraverso il Cosmo.
«Sì, sua Santità». Mormorò il giovane Cavaliere di Ariete accanto a te.
«Cocteau!» Esclamasti rivolto all’oracolo di Atena che si posò sulla spalla di Shura. L’animaletto si scosse nel tentativo di liberarsi dalla pioggerellina che era cominciata a cadere. Poi ti guardò e tu continuasti, «Non puoi fare niente?»
«No. Non posso raggiungerli così, non mi è concesso». Rispose preoccupato e i topolini sulla sua testolina fecero eco all’ultima parola. In quel momento la scena fu illuminata da un lampo e poi le vostre schiene furono scosse dal fragore del tuono. Subito dopo la pioggerellina si trasformò in uno scroscio vero e proprio. «Cosa diavolo sta succedendo? Cancer! Pisces!» Urlasti mentre cercavi di adottare una strategia per salvarli, ma senza riuscirci. Sentisti Hades scoccarti un’occhiataccia attraverso l’ombra che proiettavi grazie ai bracieri e al chiarore dei tuoni. Un’occhiata che potevi percepire solo tu. Il panico ti sopraffece e le lacrime ti bagnarono le guance. Erano già morti troppe volte, ancora un’altra non l’avresti sopportato, adesso che eri il Cavaliere di Virgo e un medico chirurgo ancora meno. Decidesti che avresti usato la Nebula Chain e le tecniche del Cavaliere della Vergine per trarli in salvo.
Stavi per chiamarle a te quando, improvvisamente i Cosmi di ambo gli schieramenti tornarono a brillare e pulsare pieni di vita e anzi di più. “Cosa?” Solo in quel momento cominciò a piovere a dirotto e vi ritrovaste bagnati fino al midollo.
«Sono ricomparsi». Osservò Milo, come se dirlo avesse potuto farlo sembrare ancora più reale. Si volse verso di voi, concitato: «Non è la mia impressione, vero? Non me lo sto immaginando come temo che possa essere in realtà?» Vi chiese ancora, guardandovi con aria smarrita, confusa e speranzosa.
«No amico mio, non lo stai immaginando, lo sentiamo anche noi.» Rispose Aiolia poggiandogli una mano sulla spalla. «Cosa, Come?» Biasciò ancora il Cavaliere di Scorpio mentre vi rifugiavate sulla soglia della casa della Vergine e vi trascinavate dietro lo stoico Shura. Proprio in quel momento il telefono che avevi nella tasca dei jeans prese a squillare. Tutti gli occhi si catalizzarono su di te mentre rispondevi.
Era Pandora.
Ti scusasti con i tuoi compagni e ti allontanasti per parlare.
La Sacerdotessa ti parlò tutta agitata, senza darti il tempo di effettuare lo scambio di persona. Ti raccontò una storia che aveva dell’inverosimile. A proposito di quello che era successo ai tre Specter che erano andati a chiedere spiegazioni ai Cavalieri d’Oro, a proposito dei soldati scomparsi e delle creature.
Irrigidisti la schiena sgranando gli occhi. «Cosa?» Domandasti incredulo.

Aiolia
Avevi riconosciuto subito la voce della Sacerdotessa degli Specter uscire dal telefono. E, subito i tuoi dubbi erano tornati, sgomitando prepotenti nella tua mente.
Come mai la Sacerdotessa di Hades gli telefonava e lo chiamava “Sommo” e “Fratello”? Hades non possedeva più il corpo di Shun da anni! Qui c’era puzza di bruciato. «Cosa stai facendo?» Avevi detto, quasi sbraitato a Shun. Il quale era stato costretto ad attaccare, con la faccia della lepre di fronte ai fari della macchina.
I tuoi quattro colleghi ti avevano guardato spiazzati. «Perché stavi parlando con la Sacerdotessa di Hades?»
«Non…» Cominciò il fratello minore della Fenice, ma tu lo interrompesti: «Non cosa?»
«Calmati, Aiolia!» Esclamò Milo frapponendosi tra voi due. Cercasti di scostarlo ma il cicladico non si lasciò smuovere di un millimetro. «No che non mi calmo! Prima Atena che giunge qui per conferire con Hades che si manifesta alla Sesta tramite Shun! Poi la Sacerdotessa degli Specter che addirittura gli telefona dopo che è stata sfiorata una disgrazia? No, no, questa storia puzza di bruciato!»
«Adesso stai esagerando».
«No, non sto esagerando! Voglio la verità. Lui non me la racconta giusta, che cosa sta succedendo? Perché prima parlava da solo?»
Proprio in quel momento Shura aveva rischiato di finire disteso per terra ma si era aggrappato a una colonna.
Shun corse da lui a visitarlo e Kiki accorse a sostenerlo, che, aveva cominciato a vacillare un po’. Si teneva premute le dita alla radice del naso e poco più su del sopracciglio mentre cercava di rassicurarvi a mezza voce. Peccato che non lo udiste a causa delle tue urla. Ma se urlavi era solo perché ti sembrava che ti stessero prendendo in giro. «Aiolia, per favore, non urlare». Ti aveva ammonito Kiki con la sua solita voce calma riferendosi al mal di testa del Capricorno. Ma tu non lo avevi ascoltato e avevi continuato, mentre Shun cercava di rassicurare Kiki a proposito di Shura, dicendo che aveva avuto un leggero mancamento ma che non era niente di cui preoccuparsi. «Aiolia…» ti aveva richiamato Milo, cercando di porti una mano sulla spalla. Te la levasti di dosso: «Stanne fuori, Milo. Rispondi Shun, che cosa sta succedendo?»
Il giovane volse il viso verso di te, ancora con quegli occhi purissimi sgranati: «Io, non…»
«Smettila di fare il santarellino. Ho sentito addosso a te il Cosmo di Hades! Pretendo una spiegazione ora!»
«Adesso basta, Aiolia. Non costringermi a usare la Cuspide Scarlatta!» Ti minacciò Scorpio trapassandoti con i suoi occhi azzurri. Si era rapidamente spostato un’altra volta per fronteggiarti nuovamente. A quel punto ti accorgesti di come apparivi agli occhi dei tuoi amici e ti rilassasti. «Scusate, non intendevo aggredire Shun, è che non so più cosa pensare». Ti giustificasti, cercando di controllarti, dopotutto conoscevi quel ragazzo da quando aveva quattordici anni, quegli occhi puri erano sinceri e ora era già tanto se non si erano riempiti di lacrime. Era uno dei fratellastri di Seiya, che motivi avevi per accusarlo così ingiustamente? Il suddetto annuì: «Non preoccuparti». Però anche l’aracnide era davvero esagerato quando ci si metteva. A volte quando faceva così, ti ricordava molto un innamorato. Peccato che fosse solo molto stupido e passionale, non era tipo da essere preso in considerazione per questo e molti altri argomenti. Soprattutto le tue domande e i tuoi sospetti. Preferivi pensare da solo alle tue indagini. Anche se forse, si sarebbero protratte a lungo. Chissà, forse stavi solo prendendo una cantonata colossale.
L’unica cosa che ti dispiaceva era che quei due non ti avrebbero portato nessun souvenir. Ora ne eri parzialmente sicuro.

Avevi appena toccato il letto quando sentisti i passi affrettati rimbombare nel corridoio della Quinta. Alzasti la faccia dal cuscino mentre Lythos e Galan uscivano dalle rispettive stanze e si avvicinavano al nuovo arrivato: «Cavaliere di Virgo!» e «Che sta succedendo?»
“Shun?” Ti domandasti sorpreso. Ti alzasti e corresti incontro a Shun: «Shun!»
«Aiolia! Grazie agli Dèi sei qui!» Esclamò sollevato guardandoti con i suoi grandi occhi azzurri nei quali si riflettevano le fiamme dei bracieri. I capelli di nuovo legati con un laccetto. “E, dove altro dovrei essere?” Pensasti confuso. I due servi si voltarono verso di te con aria preoccupata, ma tu non li considerasti. «Perché, che succede?» Domandasti.
«Death Mask e Aphrodite stanno arrivando!» Ti rispose con urgenza sorpassando Lythos e Galan e raggiungendoti. Ti afferrò per un braccio e cominciò a trascinarti lungo il corridoio. Staccasti il braccio ma continuasti a camminare. Non amavi essere toccato così: «Davvero? Bene, ma perché cerchi me?»
«L’ha ordinato Atena, svelto, non abbiamo molto tempo, stanno arrivando, vieni!» Ciò detto correste verso l’infermeria. Per fortuna che ti eri rimesso la maglietta e i pantaloni. Non sarebbe stato abbastanza decoroso scendere in boxer.
«Spiegami che sta succedendo!»
«Sono stati attaccati dagli Specter e dalle creature!»
«Sì, questo lo so, c’ero anch’io! L’ho percepito. Sono forse rimasti feriti?».
«No, loro no».
«Loro no?»
«La loro protetta sì!»
«Protetta?» Alla faccia del souvenir. E che si erano portati dietro? Un animale?
«Non c’è tempo per spiegare, la vedrai con i tuoi occhi». Esclamò con urgenza nella voce e, tanto ti bastò per concentrarti sulla tua nuova incombenza.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Maschere, sogni e cimiteri ***


Maschere, sogni e cimiteri


Shun
Ti lavasti le mani e scorresti velocemente i fatti di poco fa. Solo poche ore prima avevi percepito Hades attento e ben desto. Come se avesse captato qualcosa che a te sfuggiva.
E ora eccoti qui, in sala operatoria, con Aiolia (infilato nel camice ospedaliero) e la tua paziente; sperasti che tutto andasse per il meglio. Appena la vedesti per poco non ti cadde il bisturi di mano. Non tanto per via delle sue ferite, quanto per il fatto che fosse identica a lui. Anche il tuo compagno d’arme se ne accorse: «Non è possibile!» Mormorò sorpreso avvicinandosi meglio al tavolo operatorio illuminato dalla luce della lampada.
«Ma è…» Disse guardandoti. La voce ovattata dalla mascherina. Intanto gli altri colleghi collegarono Astrid all’elettrocardiogramma e le fecero un’anestesia preventiva.
«Non lo so, ma ora spostati, non c’è tempo». Questo era il tuo regno, tu conoscevi ogni singolo strumento e ogni procedura da fare. Qui (stando a ciò che vedevi e, avevi buon occhio per queste cose) dovevate ricostruire la spina dorsale di questa poveretta, i suoi denti e pregare che non si svegliasse nel bel mezzo dell’operazione. «Aiolia, ho bisogno di te, ho bisogno che tu guarisca le lesioni interne che ha». «Lesioni interne?»
«Sì, nello scontro con gli Specter deve aver riportato anche quelle, usa il tuo Cosmo taumaturgico su di lei».
«Adesso?»
«Sì, adesso».
Sarebbe stata una lunga notte.

Death Mask
Avevate allertato il Santuario nel momento stesso in cui eravate decollati. Come se Lady Isabel, cioè Atena, non l’avesse fatto nel momento stesso in cui Jabu dell’Unicorno e Tatsumi le avevano riferito del vostro problema. Non gli avresti mai fatto l’onore di chiamarlo con il nome all’inglese come il giapponese pretendeva.
Avevi poi dovuto spiegare via radio in cabina di pilotaggio, che cosa fosse successo nei cinque minuti in cui eravate “tecnicamente scomparsi” e, di quello, te ne eri occupato tu, ancora sconvolto per la nuova prodezza della vostra ospite. Prima la lettura della mano e adesso questo, ma cos’era questo, esattamente? Non te lo spiegavi, sapevi solo di esserti sentito polverizzare sotto il tocco delle Creature. Come se il collante che teneva insieme ogni tua cellula fosse inaridita e, le tue membra, prive di quell’adesivo si fossero rapidamente marcite fino a diventare così friabili che sarebbe bastato un nonnulla per sgretolarti. Non avevi mai avuto così tanta paura, neanche quando Rhadamantys vi lanciò nella bocca dell’Ade. Per quanto riguardava l’Ade, ormai potevate dire di avere l’abbonamento per viaggi di andata e ritorno, con tutte le volte che vi avevano resuscitato. Eppure questo, questo era ancora peggio che cadere nell’Averno. Non sapevi spiegartelo, sapevi solo che mai prima d’ora avevi compreso veramente il significato della parola: nulla. Era pure peggiore che sentire i gemiti e le urla di dolore trattenuti a stento dalla ferita nell’altra cabina. Al solo pensiero la tua schiena fu attraversata da un brivido.
Dovesti perfino rassicurare i piloti inventandoti una scusa. Infine, tornasti da Aphrodite e Astrid. Il tuo amico era riuscito a farla riaddormentare e sdraiare, che, nelle condizioni in cui versava, era la cosa migliore. Per fortuna quei sedili erano reclinabili.
«Ancora una ventina di minuti e saremo ad Atene.» annunciasti cercando di non guardarla.
Vi eravate convinti che portarla con voi fosse la cosa migliore, dopotutto i tre Giudici dell’Inferno erano ancora sulle sue tracce. Anche se non capivate per quale motivo. Non eravate in pace con Hades? Allora cosa volevano quei tre da voi? Forse gli bruciava ancora per la sconfitta, ma perché prendersela con lei? Forse l’avevano usata come esca? Gli Specter erano gente strana. Qualunque fosse il motivo adesso avevate ancora venti minuti di viaggio prima di giungere ad Atene e da lì a Rodorio. Appena scesi faceste venire un colpo all’autista di Lady Isabel, ma non fece domande e portaste immediatamente Astrid all’astanteria del Santuario. Fortuna che Shun e gli altri medici erano già pronti per operarla. «Cosa le è successo?» Chiese uno dei dottori e Aphrodite elencò le lesioni da lei riportate nello scontro e delle operazioni parziali che aveva subito. «Non so se avete fatto in tempo, ma faremo il possibile, chiamate Aiolia, il suo aiuto ci sarà indispensabile». Ordinò il medico quando adagiaste la vostra bella addormentata sulla barella che avevano portato. Poi ci ripensò e ordinò anche a te di venire con loro, in caso che le operazioni fossero andate male serviva qualcuno che potesse rianimarla più efficacemente. Annuisti meccanicamente. Te, che di solito te ne infischiavi. Pensavi che saresti entrato in sala operatoria, invece, t’intimarono di restare fuori, dicendoti che ti avrebbero chiamato soltanto se le cose fossero precipitate.
Gli altri Cavalieri, attirati dal trambusto e dallo scontro tra Cosmi, vi vennero incontro e chiesero spiegazioni. Le domande si rincorrevano tra loro come un cane che cerca di mordersi la coda: «Che cosa è successo?», «Abbiamo sentito i vostri Cosmi mentre lottavate e poi più niente». «Chi è quella ragazza?». Persino Aiolia aveva messo da parte la sua brama di souvenir per chiedere spiegazioni. Spiegazioni che non gli elargisti perché un richiamo perentorio del medico lo costrinse a correre in sala operatoria.
Fortunatamente andò tutto per il meglio.
Aiolia ne uscì un po’ pallido, neanche fosse stato lui il paziente da operare, ma nel complesso stava bene. Se gli faceva impressione una sala operatoria, avrebbe dovuto vedere quella del Cavaliere di Loki, Fafnir di Asgard. Quella sì che metteva orrore. Però, vuoi l’ora tarda, vuoi la stanchezza, vuoi che, inevitabilmente eri cambiato, non lo sfottesti neanche. Si accomodò sulla sedia accanto alla tua mentre alcuni infermieri portavano Astrid da qualche parte. «Lo sapete che legalmente parlando sarebbe sequestro di persona?» Ti domandò inarcando un sopracciglio.
“E da quando sei diventato avvocato, tu?” Pensasti. «Dov’è Aphrodite?» Domandasti senza chiedergli come fosse andata la missione. Tanto avevi la sensazione che presto o tardi ne avreste discusso e, tu in quel momento non avevi molta voglia di parlargli.
<< Di solito non si chiedono notizie della paziente?» Rispose invece Aiolia inarcando un sopracciglio con aria di rimprovero. Quanto avresti voluto mandarlo a quel paese... ti limitasti a chiudere gli occhi. Per quanto riguardava lo sfondargli il muso, ci avresti provato in arena, come sempre. «Le avrei chieste se fosse andato tutto male e, forse, neanche in quella situazione». Ribattesti in tono meno strafottente di quello che lui ti ricordava. Ma la differenza era così minima e, l’altro così stanco, che non se ne accorse neanche. Dopotutto, tu eri Death Mask, lo sapevano tutti che potevi comunicare con i defunti eccetera eccetera, quindi l’avresti saputo lo stesso se fosse morta. La morte adesso non era più così divertente da quando Helena era spirata tra le tue braccia. Tuttavia anche se lei non era Helena, era comunque troppo giovane perché meritasse una fine così. «Allora, me lo dici sì o no dov’è Aphrodite?»
«E’ andato a conferire col Gran Sacerdote» rispose il Cavaliere del Leone prima di alzarsi e aggiungere: «Ah, l’intervento è andato bene, si riprenderà presto». Come se tu gliel’avessi chiesto.
«Quanti altri ne deve affrontare?» Chiedesti invece. Il tuo collega alzò le spalle. «Non lo so, dovresti chiederlo ai medici. Diavolo se gli somiglia». Commentò, poi, se ne andò togliendosi quell’assurdo camice lungo la strada e sbolognandolo alle infermiere. Aveva anche ragione ad andarsene, dopotutto erano le sei del mattino.
Scoppiasti in una risata sgualcita che lo raggiunse anche a quella distanza: «Ma non dire assurdità».
E, una dottoressa ti ammonì di fare silenzio. Annuisti e la liquidasti con un cenno della mano.

Dopo un quarto d’ora ti alzasti anche tu e uscisti da lì, avevi sopportato anche troppo l’odore dell’infermeria.
Invece di recarti alla tua Casa per farti una dormita la attraversasti, lasciando che le maschere e il tuo coinquilino dormissero ancora. Attraversasti le prime Tre senza problemi, la tua, la Quinta senza preoccuparti di disturbare Aiolia, tanto quello era già a dormire, lo sentivi russare dal corridoio. La piccola Lythos e Galan dormivano ancora.
La Sesta e la Settima erano deserte, non potesti dire la stessa cosa di Milo invece, chiese assonnate spiegazioni, ma tu lo liquidasti con un: «Domani».
«D’accordo, puoi passare.» concesse l’altro, contrariato, con uno sbadiglio, mentre andava in cucina dove i servi stavano preparando la colazione. La Nona adesso di Seiya quando quest’ultimo si degnava di fare un salto al Santuario. Alla Decima, Shura e il piccolo Cocteau, il gufetto tascabile (“Civetta, ah, è uguale, chi se ne frega.”), si unirono a te nella scalata, ponendo qualche domanda qui e là, nella speranza di farsi un’idea sulla situazione. «Non ho idea neanch’io di quello che sta succedendo», rispondesti.
Attraversaste l’Undicesima e la Dodicesima deserte fino a giungere al Grande Tempio, dove foste annunciati e fatti passare.
Il Gran Sacerdote era già assiso sul suo Trono e stava ascoltando il resoconto di Aphrodite dinanzi a qualche sottorango. Pose anche a te delle domande, sia sul viaggio sia sui presunti poteri di Astrid, dopo che aggiornò Shura. Questa riunione a sorpresa era inaspettata anche per lui, che di solito organizzava le sue riunioni meticolosamente onde evitare confusione.
Tu ti limitasti a infoltire la versione di Aphrodite, aggiungendo però che era riuscita a leggerti la mano come se tu fossi un libro. E, queste parole, contribuirono ad aumentare il timore che già serpeggiava nella sala. «Questo significa che quella ragazza sa tutto di noi! Compresi i nostri punti deboli e le nostre strategie!» Esclamò qualche Bronze. Fu come far esplodere una bomba che tutti presero a parlare. Peccato che all’appello mancasse la maggior parte dei Cavalieri d’Oro, ti sarebbe piaciuto sentire cosa avevano da dire. Kiki impose il silenzio e Mur, seduto accanto a lui, domandò: «Potresti spiegarti meglio?»
«Non so neanch’io come spiegarmi». Rispondesti, ben sapendo che gli occhi di tutti erano fissi su di te: «Non so come ci sia riuscita, ma sono sicuro di non aver avvertito alcun Cosmo provenire da lei neanche quando ci ha salvato la vita. Neanche un briciolo».
«Potresti raccontarci come c’è riuscita?»
«Non lo so».
«Ha fatto leva sui punti di pressione o le seimei ten?» Indagò qualcun altro. Le seimei ten erano i punti vitali della stella. Essendo il santuario, un luogo che raccoglieva gente proveniente da tutto il mondo, era normale per voi conoscere più lingue.
«No, in realtà non ricordo, ma quando mi sono svegliato, non ho sentito niente».
«Io ho visto come ha fatto», s’intromise Aphrodite con voce timorosa e, voi tutti lo guardaste, poche volte aveva esitato nel parlare: «quando ha riportato in vita gli Specter», forse ben conscio che con quell’informazione si sarebbe scatenato il putiferio, cosa che, infatti successe. Mentre volavano grida e accuse sua Santità impose il silenzio e fece continuare il racconto. Alla fine di ciò alcuni di voi sentenziarono che era pericolosa, qualcuno propose addirittura di ucciderla. Invece il Gran Sacerdote scelse un’altra possibilità, cioè di attendere l’arrivo di Atena e lasciar decidere a lei. Mozione che, volente o nolente, fu appoggiata da tutti. La riunione fu sciolta e ognuno fu libero di tornare alle proprie Case.

Ti gettasti sul letto che cominciava ad albeggiare e dormisti fino alle quattro del pomeriggio. Stranamente Lancelot non ti fece alcun tiro mancino dei suoi. Probabilmente quello squilibrato doveva pensare che tu non fossi ancora tornato, o che tu fossi morto. Accidenti alle distorsioni spazio temporale. Possibile quel bastardo Cavaliere del Cancro avesse deciso di restare per ripagare Shura del disturbo durante il torneo degli spadaccini? Peccato che al momento non ci fosse ancora riuscito. La Dea aveva acconsentito alla sua richiesta e ora te lo sorbivi tu perché l’aveva posto sotto la tua tutela finché non avrebbe portato a termine la sua missione. Tuttavia se questo era il volere della Divina Atena, non ci poteva fare niente. Peccato che non avevi potuto rispedirlo dall’altra parte a mo’di pacco postale, avresti rischiato un incidente diplomatico con l’altra dimensione che altro che i fatti dei Senza Volto. Shura ti aveva pure messo in guardia su di lui e i suoi sbalzi d’umore, giacché lo aveva affrontato. Stranamente era bastato minacciarlo di rispedirlo negli Inferi per tenerlo buono. O forse, l’ex Cavaliere della Tavola Rotonda si sentiva ancora in colpa nei confronti di Shura, chi poteva dirlo e a te che interessava? Niente.
Ti alzasti e mangiasti qualcosa, poi ti cambiasti e andasti in arena, dove ti allenasti un po’. Quel giorno al Santuario si respirava una strana aria di tensione. Persino Milo non ti accolse con la sua solita ironia, quando ti propose di allenarvi insieme, in compenso si limitò a domandare se fosse vero quello che gli avevano riferito. Tu annuisti e Milo dichiarò, sfoderando la Cuspide Scarlatta: «Bè, se è pericolosa lo vedremo, in ogni caso non mi troverà impreparato». Poi ti si avventò addosso.

Aphrodite
Tu, Aphrodite Cavaliere dei Pesci, avevi fatto del tuo meglio per alleviarle il dolore del viaggio. “Ho fatto quanto in mio potere per proteggerla e lei ha difeso noi.” Ecco cosa stavi pensando mentre scendevi le scale.
Avevi parlato con Shun quel giorno stesso, sincerandoti delle condizioni della vostra protetta. Non ti era piaciuto granché parlare con lui, dopotutto, era pur sempre l’uomo che ti aveva ucciso. Colui che ti aveva inflitto la sconfitta più abietta, togliendoti la bellezza della vittoria. Anche se eravate compagni, questo non glielo avresti mai perdonato.
Poi, avevi messo una buona parola con lei per Atena. La quale aveva ascoltato senza parole il tuo racconto. Non era tanto lei a preoccuparti, quanto piuttosto il Patriarca: avevi temuto che desse di matto, ma non fu così, si limitò a volgere il viso mascherato verso la Dea e quest’ultima ricambiò lo sguardo, poi aveva decretato che avrebbe giudicato in base agli sviluppi. Adesso non aveva senso discutere di un innocente sul filo del rasoio.
Non restava che attendere che si riprendesse, anche se sarebbe stata una lunghissima attesa. Fortunatamente potevi farle visita. Così le portavi alcune delle tue rose che rendevi inoffensive col tuo Cosmo. Per fortuna non c’era stato bisogno di rasarle la testa per controllare la lesione alla scatola cranica, era bastato il Cosmo curativo di Aiolia.
Avevi conservato l’abitudine sviluppata in Italia, solo che qui non occorreva aiutarla di nascosto passandole l’influsso curativo delle tue rose. A volte le parlavi e altre le pettinavi i capelli con un elegante pettine che ti eri portato dietro apposta.
La cosa strana era che, a differenza della tua immagine riflessa, ti sembrava quasi che ti ascoltasse.
«Mi dispiace». Le dicesti un giorno carezzandole una guancia con delicatezza. «Le nostre strade non si sarebbero mai dovute incrociare». Ma adesso lo erano.
Bella gatta da pelare.
Cercavi di non pensarci, di continuare con la tua solita vita. Ma seduto lì, al suo capezzale, era impossibile non pensarci. Di solito non ti lasciavi andare in monologhi alla Shura. Ma era colpa vostra, tua, che avevi raccolto il suo invito quando avresti dovuto dirle di no. Ma che ne sapevi che lei non stava bluffando? Forse Death, dietro la sua strafottenza lo aveva capito prima di te. Con il senno di poi avresti dovuto ascoltare il tuo compagno. Il problema vero sarebbe giunto al momento del suo risveglio. Quando avrebbe realizzato di non essere più in Italia, che la sua vita era cambiata del tutto. E, quando avrebbe chiesto dei suoi parenti, avrebbe chiesto qualcosa per informarli. Per tornare da loro. Ma come avresti fatto ad aiutarla? Sì, tu, proprio tu. Ti sentivi responsabile per quello che era successo. Per ogni cosa.
In cuor tuo ti domandavi come avreste fatto ad aiutarla, ti rendevi conto anche tu che, presto o tardi, avrebbe voluto informare i suoi cari. Quella ragazza era una combattente ma una notizia simile distruggeva il cuore di chiunque. Soprattutto di una persona come lei, che aveva reagito a quel modo di fronte al passato di Death Mask.

Shura
A riaccompagnarti alla Decima erano stati Milo e Kiki. E, i due, per poco non ti avevano rimesso a letto come se fossi un bambino. Per poco. Ma avevi dimostrato di essere abbastanza in forze da muoverti anche autonomamente e quindi ti eri coricato da solo, dopo aver restituito il mantello a Kiki.
«Ma sei fradicio!» Aveva protestato Milo.
«Anche tu».
«Ma io non ho la polmonite, Shura!» Aveva esclamato alzando la voce di un’ottava. Mancava solo che pestasse un piede a terra e l’avresti assimilato a una vecchia zia bizzosa. Eppure, sarebbe stato in linea con il personaggio, considerando tute le volte in cui aveva punzecchiato Camus. Anche ad Asgard, se non fosse intervenuto Saga a separarli quello scemo avrebbe finito per sforacchiare il proprio miglior amico con la stessa testardaggine di un bambinetto dell’asilo che si vede rubare il giocattolo del cuore. Quella era stata l’ultima volta che avevi percepito il Cosmo di qualcuno. Già… il Cosmo, che nota dolente.
«Va bene…» Dicesti roteando gli occhi. Poi ti alzasti di nuovo e li superasti, uscendo dalla porta dietro le loro spalle. «Dove vai?» Ti chiese Milo.
«A farmi una doccia calda».
«D’accordo». Ed eri entrato in bagno e lasciato scorrere l’acqua per scaldarla. Poi ti eri ricordato di una cosa e ti eri riaffacciato sulla porta: «Ah, potreste…»
«Rifarti il letto? Va bene». Ti disse Kiki, che, tra i due era il più servizievole e intuitivo. «Grazie».
Quando eri riemerso dal bagno avvolto nell’accappatoio e, purtroppo piuttosto sveglio, avevi trovato la Casa deserta e il letto rifatto. Però, ti eri messo a letto lo stesso e avevi dormito tutto il giorno fino alle tre. Quando ti eri svegliato (non ti ricordavi neanche cosa avevi sognato) ti eri ritrovato in accappatoio dentro al letto, con Cocteau che ti chiamava, appollaiato sulla sedia dello scrittoio.
«Buongiorno». Lo salutasti.
«Buongiorno. Come stai?» Ti chiese la civetta.
Sbadigliasti. «Un po’intorpidito ma sto bene».
«La febbre?»
«Sembra sia scesa, ho ancora un po’ di mal di testa.» “Più tardi me la misuro”. Pensasti.
Ti eri quasi preso una ricaduta per andare a verificare che non fossi diventato veggente. O, forse era così. Non potevi più percepire i Cosmi altrui oltre il tuo. Erano anni che non li percepivi. Che tu avessi sviluppato una facoltà nuova. Non saresti stato il primo Cavaliere di Atena con i poteri precognitivi. E, con quel bastardo di Ionia a piede libero per il Santuario, avrebbero fatto molto comodo.
«A che pensi?» Ti domandò Cocteau, appollaiato sulla cassettiera mentre mangiavi la minestra. Ora stavi abbastanza bene per alzarti e cucinarti la cena da solo. Dell’aiuto di Milo, che pure era venuto a trovarti quella mattina non avevi più bisogno.

Milo
Fosti contento di vedere il tuo amico stare già molto meglio. Eri venuto a controllare che non avesse subito ricadute.
Perciò ti limitasti a chiedergli se avesse avuto bisogno di qualcosa e, poi, di fronte al suo diniego, te ne eri andato in arena per il tuo solito allenamento.
Non eri andato in infermeria neanche una volta. Non solo perché ti ci recavi solo per casi gravi tipo un osso che ti era uscito dal corpo. Ma perché le astanterie ti facevano orrore. Quale sano di mente che non è il medico o l’infermiere che ci lavora ci passerebbe spontaneamente il proprio tempo? Nessuno e, tu, non eri da meno. Non avevi più sognato quella ragazza ma a volte ti capitava di ripensare a quel sogno nel tentativo di ripescarne i dettagli. Il risultato era che, invece di fare chiarezza lo facevi sbiadire più rapidamente.
Chissà, forse avresti dovuto fare un salto da Kiki. Con i suoi poteri psichici ti avrebbe aiutato a recuperare un po’della tua memoria. Per non parlare della tua cloth. Dopo l’ultima missione l’avevi portata a riparare. E, avevi preteso una lucidatura che l’avesse fatta risplendere come il Sole. Raki e Kiki ti avevano guardato con un sopracciglio inarcato ma ti avevano accontentato. Forse intuendo quello che ti passava per la testa.
Non eri un tipo vanesio o frivolo ma non accettavi l’idea che la tua cara Sacra Vestigia fosse finita nelle grinfie di un nemico, per la precisione (come ti avevano detto), in quelle di Sonia di Hornet, la figlia maggiore di Mars. La tizia che doveva dominare sulla Sentenza e la Disciplina? Se da un lato trovavi quel titolo ridondante e pomposo, dall’altro ammettevi che non era poi così brutto. Ma col cavolo che l’avresti mai usato. In primo luogo era il titolo di una nemica. Una nemica incapace per essersi fatta fermare da due o tre fiammelle. Almeno tu avresti lottato un po’prima di farti immobilizzare. In secondo luogo era una donna. Non che ci fosse niente di male ma il suo titolo addosso a te faceva ridere i polli e ti faceva rizzare i capelli al solo provare l’accostamento.
Rabbrividisti per il disgusto.
Meglio non pensarci.
Tipi come quelli lì avevano portato soltanto vergogna al Santuario e gettato fango sul nome dei Gold Saint. E, voi, sareste dovuti essere l’élite? Certo, con degli incapaci come successori (successori che poi non vi eravate neanche scelti) non ci credeva nessuno.
Come se non bastasse avevi sentito dire che la sua tecnica ultima, l’Antares Maelstrom, (palese storpiatura e bruttura della tua amata Antares) le era sfuggita di mano e si era ritorta contro di lei. “Ma dico io, si può essere più idioti di così?” Avevi pensato schiacciandoti una mano sulla fronte quando l’avevi saputo. Ma, proprio, ‘sti nuovi Saint erano senza dignità. Ma anche come Martian facevano ridere.
Persino la tua amata Scorpio l’aveva capito, abbandonando Sonia prima che quella si desse il colpo di grazia da sola. Mica era scema la tua Armatura, anzi, eri quasi sicuro che avesse sentito la tua mancanza a giudicare dalla fretta con cui ti aveva raggiunto quando eri risorto a nuova vita. Anche se eri in Giappone ad aiutare Aiolia che cercava di perfezionare una tecnica da usare contro l’Antipapa.
Non potevi neanche dire che fosse una vera Saint perché, sinceramente, non potevi. Non lo era. Né per coraggio, tantomeno per schieramento e giustizia. La giustizia quella non aveva neanche saputo dove stava di casa. Era questa la cosa più triste. Qualcuno avrebbe potuto ribattere che ai tempi della dominazione di Arles anche voi eravate messi nella tua stessa situazione. Ma tu avresti potuto rispondere facendogli notare che, punto primo non eravate emeriti imbecilli e vi eravate accorti della scomparsa di Gemini e Shion. Punto secondo, nutrivate dei dubbi sul Gran Sacerdote e, proprio questi dubbi avevano portato alcuni di voi a salvarsi. Ma, a parte Death Mask, nessuno di voi aveva perduto la propria Armatura. E, poi, eravate fedeli alla legge e alla giustizia non a Mars.
Almeno voi avevate cercato di togliervi i prosciutti dagli occhi.
E, poi, c’era differenza a farsi guidare da un pazzoide fissato con le utopie da un malato che soffriva di doppia personalità.
Per questo pretendevi una lucidatura doc per la tua cloth: non sopportavi l’idea che una persona come quella Sonia l’avesse anche solo toccata.
Anzi, già che c’eri saresti passato prima da Kiki a vedere a che punto era.

Aiolia
Ovvio che non avevi accettato la proposta di Sirrah. Eri una persona per bene e leale, tu. Te la saresti cavata da solo come sempre. Ecco la verità. Checché ne dicessero le persone, alla fine riuscivi sempre a cavartela. Ma quella ragazza… Diavolo se gli somigliava. La cosa che avevi temuto più di ogni altra era che Milo ti facesse domande inopportune in ospedale. Dopotutto era raro che qualcuno riuscisse a strapparti dalla Quinta Casa nel cuore dell’alba per portarti in sala operatoria. Oh, Dea, che ricordo. Al solo pensiero impallidisti di nuovo. Avevi avuto più paura tu di chiunque altro fosse stato presente in quella sala. Onestamente, eri stato l’unico ad avere una paura matta mentre infondevi il tuo Cosmo curativo ad Astrid. Shun, i medici e perfino Death Mask dall’altra parte della porta erano più calmi di te.
Il siciliano poi, avevi avuto l’impressione che avesse ridacchiato di te quando te ne eri uscito trafelato da quella sala. Ma che ci fosse stato lui al suo posto, così magari gli passava la voglia di ridere.
Ti eri allontanato un po’dall’ospedale per prendere una boccata d’aria. Dicevano che gli ospedali fossero un toccasana per i malati di depressione (almeno quella lieve), dopo un giretto tra le corsie chiunque sarebbe uscito di lì facendo i salti di gioia per stare bene. Non avresti mai pensato che appartenevi a questa categoria nonostante tutti i problemi che avevi. «Nobile Aiolia!» Fosti chiamato. Volgesti il viso verso l’ospedale e vedesti una dottoressa: «Sì?»
«Venite, tocca a voi». Già, dovevi donare il tuo Cosmo curativo ad Astrid.

Cocteau
«Dunque le operazioni sono andate bene?» Ti stava chiedendo adesso il Gran Sacerdote assiso sul suo scranno. Ti aveva mandato a chiamare non appena aveva avuto un momento libero. Il Patriarca non era potuto muoversi dalla Tredicesima Casa, salvo per la benedizioni settimanale a Rodorio. Perciò eri qui. Per aggiornarlo. Per cos’altro, se no?
«Sì, la ragazza le ha superate tutte brillantemente». Dicesti per poi darti mentalmente dello stupido. Neanche si fosse trattato di esami scolastici. Continuasti a parlare: «Al momento è ancora in coma ma il Cavaliere del Leone e quello dei Pesci le stanno somministrando i loro Cosmi curativi per facilitare la completa guarigione».
«Molto bene». Poi disse: «Mi è giunta voce che lei sia identica a uno dei Gold Saint della vecchia generazione».
«Sì, sua Santità, anche se lei è bionda, mentre lui aveva i capelli azzurri, credi forse che sia sua figlia?» Eri l’unico che poteva permettersi di dargli del tu anche durante le situazioni ufficiali come quella.
«Non so, se lo fosse sarebbe veramente interessante. La figlia biologica di un Saint non è una cosa che si vede tutti i giorni». A parte lei, l’unico figlio biologico di un Saint presente al Santuario era Ryuho del Dragone.

Astrid
A svegliarmi, stavolta, fu un sogno molto strano. Improvvisamente mi ritrovavo su un aereo e, a un certo punto del volo, quando capii che non potevo scappare, scoppiai in lacrime. Aphrodite mi accompagnò fino al bagno per sciacquarmi il viso. Anzi, fu lui stesso a sciacquarmelo e ripulirmelo con dolcezza.
Era notte quando scendemmo dall’aereo che poi si rivelò, essere un jet privato e di salire in macchina in compagnia dei miei due rapitori. E, poi, di essere portata in una città che pareva più un paesino sormontato da un santuario assiso su delle rocce e illuminato da torce e fiaccole. Poi, fui affidata alle mani di qualcuno ma, a quel punto, a causa della stanchezza e del sonno, ero bell’e addormentata e i miei ricordi cominciarono a mescolarsi con i sogni. Sognai di correre verso una barriera di luce, con le creature che m’inseguivano e, strane maschere come quelle del carnevale di Venezia, che si frapponevano di fronte alla mia corsa, domandandomi come stessi, se soffrissi. A volte, credo di aver aperto gli occhi anche nella realtà, perché, mi parve di vedere una donna dalla chioma castana e gli occhi parimenti scuri. Provavo a domandarle qualcosa, ma i sogni mi reclamavano prontamente a loro e, via ad affrontare un’altra sequela d’incubi. Adesso dovevo scalare questa montagna per raggiungere la barriera. A pochi metri dalla mèta mi gettai alla barriera e aprii gli occhi.
Non riconobbi il posto che stavo guardando. Anche perché di fronte al mio campo visivo c’era un alto soffitto e, sotto, un letto comodo.
Mi toccai istintivamente i denti e li sentii di nuovo intatti. Anche le altre parti del corpo non mi facevano più male. Per un momento mi cullai nella dolce illusione che si fosse trattato di un lunghissimo sogno e che ero a casa mia, al sicuro. Poi sentii l’odore. Era diverso, non saprei come descriverlo. Non era quello cui ero abituata, era più secco e polveroso, come creta essiccata al sole.
Mi misi seduta e non fui assalita da alcun capogiro.
Sembrava di essere in un dormitorio, con i letti con le testiere di legno e le lenzuola pulite.
La luce del tramonto gettava alcune parti della stanza nella penombra.
Mi guardai e vidi che mi era stata messa una camicia da notte bianca. Improvvisamente qualcuno disse: «Ben svegliata, cominciavamo a non sperarci più». Sobbalzai, mi volsi di scatto e la vidi: una delle maschere era uscita dal mio incubo! Per tutta risposta cominciai a strillare con una tale potenza di polmoni che la feci cadere dalla sedia. Balzai via dal letto, ma inciampai nelle lenzuola e cascai a terra, senza forze. Delle mani mi raggiunsero e mi rimisero a letto e, mentre cercava di tenermi ferma, perché avevo ripreso a dimenarmi come un’ossessa, chiamò aiuto. Accorsero delle altre donne mascherate che chiesero qualcosa, ma non capii niente a causa dei miei strilli isterici. So solo che alla fine mi tramortirono con un colpo in testa e tutto tornò nero.
Quando mi svegliai di nuovo, fu uno di quei risvegli involontari. Infatti, il sonno stava già per reclamarmi di nuovo a sé. Anche se la testa che doleva mi costrinse a ritardare questo momento. Sibilai di dolore e mi portai una mano alla ferita, scoprendoci un bernoccolo. Mi guardai attorno e vidi una donna di mezz’età bella ma dagli occhi stanchi e seri, dai capelli lunghi, vestita come una torta. Perché quel vestito di pizzo con i guanti bianchi, in contrasto con la collana rossa, mi ricordava troppo una torta con le ciliegine. La cosa era talmente strana che mi dimenticassi la mia isteria. Avrei voluto urlare, ma ero senza voce: «Dove sono? Che posto è questo? Che cosa volete farmi? Ho paura...» mormorai. Poi, crollai nuovamente addormentata.
Adesso l’oggetto dei miei sogni era cambiato. Correvo, nel buio più assoluto e urlavo «Aiuto, aiutatemi! C’è qualcuno? Aiuto!» Nella speranza che qualcuno mi rispondesse, ma la mia voce a volte rimbalzava e tornava indietro. Altre, si perdeva nel vuoto. «Vi prego, ho paura, rispondetemi!» Implorai piangendo. Ma non c’era nessuno.
A un tratto caddi a terra e mi rialzai sulle ginocchia, scoprendole sbucciate. Gemetti di dolore e piansi domandando: «C’è nessuno?» con un filo di voce. Poi una luce dietro di me m’illuminò. Mi volsi e vidi la donna senza maschera che avevo intravisto poco prima. Solo che indossava un abito bianco come una specie di chitone e dei gioielli che avrei voluto indossare io. Impugnava un lungo bastone e mi sorrideva leggermente. La sua figura risplendeva di un alone dorato che mi avvolse e parve scaldarmi.
«Chi sei?» Le domandai girandomi del tutto, ma restando inginocchiata. Lei continuò a sorridere. Mi venne quasi l’istinto di ricambiare; l’avrei anche fatto se non mi fossi ricordata tutto quello che mi era successo: «Per favore, aiutami. Sono stata rapita, sono ferita, ho paura e non so cosa succede.» la implorai. Invece la donna, mi rispose, con una calma che non seppi dire da dove le venisse: «Benvenuta nella mia casa, piccola Astrid, hai affrontato un lungo e difficile viaggio per giungere fino a me, in terra di Grecia».
«Fino a te? Sono stata rapita, ti supplico, aiutami.» dissi invece io. Lei scosse il capo e si chinò per carezzarmi una guancia. O almeno così credetti, invece, mi cancellò le lacrime dal volto con il tocco della sua mano. Un lieve sfioramento: «Non sei mai stata rapita, Astrid, non ti preoccupare, sei al sicuro, non serve continuare a piangersi addosso e disperarsi. Molte cose ti saranno incomprensibili, ma ricordati sempre che non ti accadrà niente, io sono con te».
«Ma... non so dove sono, è tutto buio, qui». Obiettai, guardandomi intorno.
«Non avere timore del buio, non può farti del male, non finché sei sotto la mia protezione».
Dopo un tempo che mi parve infinito, mi svegliai, senza essere assalita né dal dolore né dall’isteria e dalla paura, quei famosi cinque secondi prima che tutto ciò ti assalga. Ad assalirmi stavolta non fu niente. Mi guardai attorno, girando la testa sul cuscino e scoprii il luogo deserto. Aguzzai l’udito e non sentii niente, nemmeno una vocina dalla porta che dava sul corridoio fuori di questa stanzona-dormitorio. Anche i dolori all’addome e altre parti del corpo erano cessati completamente.
Il mio stomaco rumoreggiò. Mi posi una mano sopra il medesimo e mi guardai attorno. Sul comodino accanto al mio letto c’era un vassoio pieno di piatti coperti. Lo presi, me lo misi sulle ginocchia e li scoprii per essere invasa dal profumo del cibo. Non era cibo ospedaliero, quello faceva schifo, questo era buono, anzi, ottimo, anche se non riconoscevo nessun piatto e neppure un sapore. Divorai tutto senza lasciare niente e lo rimisi al suo posto.
«Sono contenta di vedere che mangi». Disse una voce femminile sorridente, facendomi sobbalzare. Mi volsi e rividi un’altra di quelle donne mascherate, solo che questa era rossa e spettinata. Aveva deposto qualcosa sul bancone vicino alla porta. Si accorse che ero spaventata e alzò le mani protette da dei guanti senza dita, come a dichiarare la propria resa: «Non devi aver paura, sei al sicuro». In quel momento mi accorsi di com’era vestita. Se la donna col vestito-torta alla panna mi era parsa strana, questa lo era di più. Indossava una maglia nera a mezze maniche con una fusciacca bianca, protezioni sul petto e sulla spalla destra, leggins rossi e scaldamuscoli bianchi, come se dovesse andare a girare una specie di revival di quei video sul fitness che andavano tanto di moda negli Anni ’80. Ora che ci pensavo, persino i miei rapitori parevano essere rimasti inchiodati a quel decennio. Se mi fossi concentrata su altro, o meglio, su quello che stava diventando il solito argomento: il mio rapimento e tutto ciò che ne conseguiva, sarei sicuramente morta per infarto. Per questo preferii cercare di concentrarmi su altro, anche se senza successo.
Lei si avvicinò lentamente, temendo che scattassi, come, in effetti, era mia intenzione. Si fermò, sempre con i palmi levati in aria: «Mi chiamo Castalia, lieta di conoscerti, e tu?» Chiese con voce calma e rassicurante, ma non risposi. Con quella maschera inespressiva a fissarmi non mi fidavo. Neanche del sogno mi fidavo, chi mi garantiva che non ero finita nel bel mezzo di una setta? Che cosa avevano intenzione di farmi? «Non devi aver paura», continuò l’altra, ignorando la rigidità dei miei muscoli. L’adrenalina stava tornando in circolo, presto sarei scattata. Cominciai il conto alla rovescia basandomi sui suoi passi: dieci, nove, otto... «Non ti faremo del male, su, dimmi, come ti chiami?» Disse avanzando di un altro passo.
«Astrid.» deglutii.
«E’un bel nome, come ti senti?»
Sette, sei, cinque...
«Sono terrorizzata, dove mi trovo? Come ci sono arrivata?»
«Non devi; nessuno ti farà mai del male qui al Santuario della Dea Atena. Aphrodite e Death Mask ti hanno portato qui per salvarti. Pensa che siano addirittura venuti a trovarti tutti i giorni mentre ti curavano le ferite; persino Lady Isabel è venuta personalmente per conoscerti.» quattro, tre, due... Prese il vassoio e disse: «Vieni, ti ho portato dei vestiti, spero che siano...»
Uno.
Le balzai addosso.
Lei, colta alla sprovvista cadde di lato e il vassoio le sfuggì di mano, e le stoviglie volarono dappertutto. La scavalcai e fuggii. Castalia cominciò a urlare. Credo di essermi scontrata con muri, infermiere e altre persone, nella mia folle corsa senza mèta. Quando uscii dall’edificio, restai accecata dalla luce del sole. Il petto si alzò e abbassò furiosamente e presi a guardarmi intorno mentre strizzavo gli occhi e mi riparavo. Misi a fuoco sassi e terra e rovine e persone. Dove diavolo ero finita? Poi udii le voci dietro di me: «Eccola! Prendetela!» Mi volsi solo per controllare e vidi Castalia e altre persone raggiungermi. Urlai e corsi via, dritto davanti a me, scontrandomi con strani tizi di ogni etnia e in armatura di ogni forma, colore e dimensione. A ogni scontro gridavo più forte di prima. Alcuni mi ammonirono di fare attenzione, altri presero a inseguirmi per la rabbia, o perché si erano accorti della marmaglia che cercava di riacchiapparmi.
Cercai di seminarli. Non so come successe, ma mi ritrovai addirittura a salire una rampa di scale che pareva non finire più. Appena fecero la curva, mi trovai di fronte a un tempio, improvvisamente comparve una figura di fronte a me che fece per bloccarmi. Però inciampai nell’ultimo gradino e vacillai. Recuperai l’equilibrio e ripresi a correre solo per scontrarmi con un ostacolo - una persona - e cascargli addosso. Il poveretto, colto alla sprovvista, cadde all’indietro. Si rialzò a sedere e si accorse di me che gli tremavo e piangevo addosso, con gli occhi sigillati e la fronte sul suo petto: «Aiutami, aiutami, ho paura!» Lo supplicai.
«Ma cosa... una ragazza?» Domandò sorpreso e presto si udirono le voci dei miei inseguitori.
«Maestro!» Esclamò la voce di un ragazzo, che ci corse incontro.
«Che cos’è successo?»
«Niente di preoccupante, Kiki».
«Chi è questa ragazza? Perché ti sta così addosso, Maestro?» Domandò il più giovane dei due. Entrambi lo ignorammo mentre cominciava a tempestarlo di domande.
Lui mi pose una mano sulla testa e mi aiutò a rialzarmi. Non mi staccai da lui, che, mi cinse con le braccia per calmarmi. Ormai la mia supplica era ridotta a un piagnucolio soffocato.
«Sommo Mur!» Esclamò una voce, cui ne fecero eco altre, accompagnate dal rumore dei passi di corsa che si fermarono.
«Castalia.» salutò Kiki. «Tu sai cosa è successo?» prima che potesse dire qualcosa, qualcuno lo anticipò, in tono contrito e timoroso: «Nobile Kiki, Sommo Mur, ci dispiace, non siamo riusciti a fermarla», «Credevamo fosse un’intrusa» e, un’altra rilevò, «E’ scappata dall’infermeria». E, quest’ultima frase generò una specie di battibecco tra i soldati. Solo a udirle mi aggrappai ancor di più al poveretto. A un tratto mi toccò la testa ed io lo guardai. Notai che era molto più alto di me, slanciato, con una lunga chioma liscia e di un insolito lillà con sopracciglia rosse e strane, però mi guardava con aria compassionevole e disse: «Stai calma, smettila di urlare, qui sei al sicuro, non ti faremo niente».
«Ho paura.» mormorai tremando come una foglia.
«Lo so».
«Maestro, che facciamo?»
«Sommo Mur!» Interruppe la voce di Castalia, girai la testa per guardarla e vidi che si erano fermati tutti a due, tre metri da noi. La donna aveva fatto un passo avanti: «E’ quello che ho cercato di dirle ma non vuole crederci. Mi dispiace per l’incidente, è colpa mia, sono desolata. Non so cosa le sia preso ma è fuggita come se la stessero inseguendo». Poi, proprio in quel momento: «Ma, ehi! Non ha la maschera!» Esclamò qualcuno, e gli altri gli andarono dietro. Nascosi nuovamente il viso nella maglia gialla del ragazzo, che non reagì diversamente da prima. «Non guardatela! Tornate ai vostri posti!» Ordinò la donna, anticipando Kiki. Quelli obbedirono dicendo, quasi in tono di scuse e in imbarazzo: «Subito, sacerdotessa!», «Certo, nobile sacerdotessa».
E, quelli se ne andarono rapidamente.
«E’ tutto a posto, adesso puoi rilassarti, se ne sono andati.» disse Mur dopo un po’, carezzandomi la testa come se fossi un gattino spaventato. Quelle parole e quella voce riuscirono a ridarmi un po’di serenità, e lui mi pose le mani sulle spalle in un gesto gentile. Lo guardai di nuovo e mi sorrise: «Va meglio, adesso?» Abbassai lo sguardo, tirai su col naso e annuii. «Adesso ti lascio andare, ma tu sta calma, ok?» Annuii e lui mormorò: «Adesso ti lascio». Così fece, staccandosi lentamente, mentre il cuore riprendeva il suo normale battito. Comunque l’adrenalina, con lo scemare, era come se si fosse portata via il resto delle mie energie. Sarei anche caduta in terra, se non mi avesse sorretto, prendendomi per le braccia. Sentii il rumore di un passo e cercai di girare la tesa oltre la spalla per vedere, ma invano. «Poverina, non ti reggi in piedi.» costatò Mur senza mutare la sua espressione. «Mi rincresce per avervi arrecato tanto disturbo, nobile Mur e nobile Kiki». Ribatté la voce di Castalia ed io trasalii per l’ennesima volta. Lui la guardò e rispose vagamente divertito: «E’ tutto a posto, Castalia, anch’io sarei terrorizzato se mi ritrovassi in un luogo che non conosco e non ho la più pallida idea di come ci sono arrivato». Ebbi l’impressione che non fosse per niente un tipo facilmente impressionabile. Probabilmente quella frase la disse solo a mio beneficio.
Mi rimise dritta, mi girò con dolcezza e mi cinse la vita di lato per tenermi in piedi.
Improvvisamente sentii i piedi bruciarmi e sibilai di dolore. Abbassai gli occhi e li vidi coperti di sangue. Dovevo essermi ferita durante la corsa. Anche l’altro se ne accorse e mi prese in braccio chiedendomi scusa per il gesto. Mi aggrappai a lui, sentendo il viso arrossarsi. «Lasciatela pure a me, Grande Mur, ci penserò io a riportarla in infermeria.» si offrì la donna mascherata, tendendo le braccia. Tuttavia il ragazzo si accorse di cosa gli stessi silenziosamente chiedendo e rispose: «Non fa niente, Castalia, posso accompagnarcela io stesso». Ciò detto s’incamminò. La donna ci seguì. «Siete sicuro?» Domandò preoccupata.
«Certo».
«Ma, e la vostra Casa?»
«Non ci sono né Cosmi ostili all’orizzonte, né nemici; se anche l’abbandono per qualche minuto non penso succederà niente di grave, inoltre, ci sei tu, adesso. Forza, sarà meglio sbrigarci, il sole picchia molto in questo momento della giornata.» Infatti, era mezzogiorno. Poi, dopo un po’, si rivolse a me, sempre con quel tono calmo e gentile: «E, così, tu saresti la ragazza che Death Mask e Aphrodite hanno incontrato nel loro viaggio in Italia? Come ti chiami?» Ma fu la donna mascherata a rispondere per me: «Astrid, signore». Lui però non ci fece caso e ribatté come se avessi risposto io stessa alla sua domanda: «E’un bel nome. So che deve sembrarti tutto molto strano, Astrid, ma non hai nulla da temere, sul serio. Quanti anni hai?»
«Venti.» pigolai con voce tremula per l’imbarazzo: era la prima volta che qualcuno di estraneo alla mia famiglia mi prendeva in braccio. «Oh, sei praticamente mia coetanea» e, a queste parole, sollevai la testa di scatto per guardarlo stupita, avvampando. Lui continuò, perfettamente calmo: «Io sono Mur, il maestro di Kiki dell’Ariete e questo è il Santuario del Grande Tempio di Atena. Mi dispiace che tu ci abbia incontrato in circostanze poco piacevoli, ho sentito di come sei giunta qua assieme ai miei colleghi per sfuggire agli Specter di Hades. Sei stata molto coraggiosa». Si complimentò, ma io riuscivo solo a pensare “Specter? Hades? Atena? Ma che diavolo sta succedendo?” Lo guardai di nuovo e domandai: «Non era un sogno?»
«Come?» Chiese come se non avesse capito.
«Maestro, forse dovreste...» S’intromise Kiki, ma fu sovrastato dalla voce della rossa dietro di noi. «Signore...»
«Non era un sogno?» Ripetei invece tremante, stringendo convulsamente i suoi vestiti sulle spalle. Dovette percepire il mio mai veramente sopito terrore perché si fermò e tacque. Mi guardò e poi tornò a guardare di fronte a sé e riprese a scendere, con voce dolce: «Sì, è un sogno. Puoi chiudere gli occhi, se lo desideri». Non me lo feci ripetere due volte. E, così facendo, mi rilassai. Mi appoggiai alla sua spalla mentre finalmente il terreno si sostituiva alle scale. Più andavamo avanti, più mi sembrava di essere cullata. Se non mi addormentai, fu per il dolore ai piedi «Mur, per favore, aiutami, ho paura». Gli dissi senza aprire gli occhi.
«Di cosa?»
«Di tutto, non lasciarmi sola.» lo implorai piano.
«Certo, resto con te per tutto il tempo che vuoi, va bene?» Annuii e cercai di tranquillizzarmi. Anche se la tranquillità fu presto sostituita con l’imbarazzo quando giungemmo nei pressi dell’infermeria. La quale era una specie di tempio con colonne e muratura - ma tutto qui era una specie di tempio - gremito di persone in fermento che mi cercavano in lungo e in largo. Mi giunsero alle orecchie dei «Trovatela» pieni d’ansia e preoccupazione e poi degli «Eccola» quando fummo abbastanza vicini.
I medici e le infermiere ci corsero incontro chiedendo scusa al mio nuovo conoscente per il disturbo e poi insistendo per affidarmi a loro, affinché si prendessero cura di me. Io però mi aggrappai con così tanta forza al ragazzo, che credo che gli lacerassi i vestiti. Ma, fu soltanto una mia impressione, come ebbi modo di appurare in seguito. Nonostante ciò lui disse: «Non preoccupatevi, ci penso io. Mostratemi la sua stanza». I dottori lo accontentarono, anche se un po’incerti. Prima di entrare una voce che ben conoscevo, piovve dall’alto, facendomi sussultare: «Oh, ecco dov’era finita». Aphrodite. Guardammo nella direzione da cui era piovuta la voce e lo vidi affacciato alla mia finestra, con una faccia sorridente e sollevata. Oddio, avrei dovuto immaginarlo che sarebbe venuto a completare il lavoro.
«Allora ce l’avevi tu, Mur!» Aggiunse scherzoso.
Il collega rispose divertito ma, senza scomporsi: «Sì, Aphrodite». E, il suo allievo: «Questa poverina è venuta a trovarci di sua spontanea volontà con metà Santuario a farle da scorta. Non avevo mai visto una cosa del genere prima d’ora».
«Addirittura?» Domandò il fioraio con una risatina.
Poi entrammo e il biondo ci raggiunse sorridente, ma appena vide il mio volto e i miei piedi cambiò immediatamente espressione. «Che cosa le è accaduto?» Domandò. Fu allora che mi accorsi dei capelli biondi e celesti e mi domandai quando fosse andato dal parrucchiere. E, perché diavolo, indossasse una tunica maschile di foggia greca antica e blu con rifiniture argentee. Io, scusate, ma ero abituata (colpa delle statue e dei film, suppongo) a pensare che tutti i loro abiti fossero bianchi. «Si è ferita durante la corsa, ma non è niente di grave.» lo rassicurò il collega, distogliendomi dai miei interrogativi.
«Bisogna subito fare qualcosa per quei piedi, non sono un bello spettacolo ed io non sopporto di veder deturpata una cosa bella.» ribatté invece il ragazzo con il neo posticcio, inalberandosi. Ma come diavolo ragionava? Poi guardò oltre le nostre spalle e: «Ehi, lei, dottoressa!» Chiamò e si separò da noi, andando incontro a una delle infermiere.
Intanto Mur mi riaccompagnò nella stanza fino al mio letto, riconoscibile per via del mazzo di rose in un vaso. Anche perché era l’unico in condizioni pietose. Fece per riadagiarmi tra le coperte ma mi rifiutai di mollarlo e per poco non me lo trascinai dietro. Lui puntò i piedi e riuscì a mantenersi in equilibrio: «E, ora che c’è?» Mi domandò incuriosito, ma tranquillo voltando il viso di poco verso di me. Certo che Mur era davvero molto calmo, esattamente come nei ricordi di Death Mask, io fossi stata al suo posto, avrei già perso la pazienza da un pezzo.
Per un attimo mi tornarono in mente i ricordi di Death Mask. Mi era davvero difficile credere che fosse stato opera sua quell’attacco diretto alla terra di due anni fa.
Non appena questo pensiero prese forma nella mia mente, ebbi paura. Mio Dio, ma da chi diavolo ero circondata! Nel frattempo erano sopraggiunti anche l’infermiera con il necessario per le medicazioni e il Cavaliere dei Pesci.
«Non lasciarmi, non con quello, mi ucciderà!» Ripetei all’orecchio di Mur, con un fil di voce.
«Ma chi, Aphrodite? Guarda che ti sbagli; viene a trovarti ogni giorno e ti porta mazzi di fiori, ma non sta cercando di ucciderti, stai tranquilla. Diglielo anche tu, maestro che lo vediamo scendere tutti i giorni dalla Dodicesima casa per venirla a trovare.» Rivelò Kiki invece del maestro. Non somigliava quasi per niente al bambino petulante dei ricordi del Cavaliere del Cancro.
Il fratello maggiore di Kiki si girò a guardarmi e annuì con fare rassicurante, mentre il povero ragazzo con gli occhi azzurri mi guardò dispiaciuto, mentre replicavo: «Ma se durante il viaggio ha cercato più volte di uccidermi con il cloroformio! Cosa ne so che non siete trafficanti di esseri umani e non volete ammazzarmi?»
«Quindi è per questo che ci hai scambiati?» Domandò ferito nell’orgoglio mentre la dottoressa cercava di convincere Mur a mettermi giù. Mi sarei divincolata volentieri, ma ero paralizzata dal terrore. «Era così bianca anche prima o è sbiancata ancor di più tutto d’un tratto?» Osservò il giovane Cavaliere dell’Ariete, forse credendo che il mio improvviso pallore fosse dovuto a un gioco di luce. Intanto il mio accompagnatore eseguì l’ordine ricevuto molto lentamente, mettendomi seduta e, la donna cominciò a disinfettarmi e ripulirmi i piedi con alcol denaturato.
«Cosa dovevo pensare? Sono stata aggredita e sono stata rapita; chiunque al posto mio lo penserebbe». Risposi con voce tremula, mentre lo guardavo spaventata dalla sua reazione. L’altro si limitò a sospirare e aggrapparsi a qualcosa nei suoi ricordi, perché alla fine obiettò, ragionevole: «Ma hai letto la mano di Death Mask, se fossimo davvero dei loschi individui lo avresti visto subito. E, poi, quello non era cloroformio: abbiamo dovuto sedarti con le mie rose per non farti soffrire a causa delle numerose fratture che avevi riportato alle ossa e alla colonna vertebrale, in più avevi battuto la testa e riportato una commozione cerebrale e chissà quale altre lesioni interne. È un miracolo che tu sia sopravvissuta fino a che non ti abbiamo portato in clinica e poi qui, dove abbiamo completato le operazioni».
«Dici davvero?» Gli chiesi sbalordita. Poi: «Ma io ricordo una clinica, e…» ebbi un singulto prima di riuscire a continuare, «perché mi avete portato via da lì?»
«Non potevamo lasciarti lì, gli Specter ti avevano trovato nuovamente. Mi dispiace, ma non abbiamo avuto altra scelta che portati con noi. Abbiamo contattato Lady Isabel che ha fatto in modo di coprirci mentre ti portavamo qua. In questi giorni hai avuto le migliori cure disponibili». Ora che ci pensavo, sentivo tutto dalla vita in giù, esattamente come prima. Gli Specter, avevo completamente rimosso tutto questo. Ma, appena li nominò i ricordi tornarono e, con essi le prime informazioni di cui disponevo in precedenza che ero riuscita a recuperare. Erano stati quei tre a strapparmi dal coma. «Quanto dovrò restare qui?» Mormorai, con la vista offuscata di lacrime.
Lui non seppe che rispondermi.
Neanche Kiki, Mur e la dottoressa che stava fasciandomi i piedi dissero alcunché. La donna, addirittura, evitò il mio sguardo.
«Voglio tornare a casa mia.» dissi con le lacrime agli occhi, piantando i miei in quelli del fioraio.
«Ti prego di scusarci. Sono contento di saperti sveglia.» disse invece Aphrodite, poi ci salutò e se ne andò: «Ehi! Aspetta! E, i miei genitori? La mia famiglia? Se dite che non mi avete rapito fatemeli almeno chiamare! Ehi!» Urlai, ma lui non mi ascoltò.
La dottoressa se ne andò dopo poco, raccomandandosi di fare attenzione e aggiungendo che sarebbe tornata per cambiarmi la fasciatura. Mur e Kiki restarono davvero con me tutto il tempo.

Adesso erano le nove passate di sera.
Il sole era da poco tramontato e i grilli e le cicale frinivano fuori della finestra aperta. Giacché ero l’unica persona in quella stanza, che non faceva così freddo e che non ero gravemente malata, potevo tenerla aperta. Anche perché mi trovavo al terzo piano di quest’ospedale, ed io non me la sentivo proprio di rischiare la vita evadendo dalla finestra con una corda di lenzuola come nei film più classici di sempre. Ero sdraiata su un fianco a ripensare a questa giornata.
La signora aveva mantenuto la parola ed era tornata ogni due ore per visitarmi e cambiare le bende. Kiki e Mur (accomodati su due sedie) mi avevano fatto compagnia e avevano risposto alle mie domande con tutta la delicatezza possibile, poiché ero ancora sconvolta.
«Per quanto tempo dovrò restare qui?»
«Finché la guerra non finirà».
«Guerra?»
«Sì». Detta così credetti che fosse scoppiata la terza Guerra Mondiale e non avessi saputo nulla. Mi preoccupai da morire per la mia famiglia. La quale, già doveva essere terrorizzata e aveva sicuramente chiamato l’esercito, per cercarmi. Ma ora, addirittura la guerra? Dio, li avrei mai rivisti? Mi domandai. Però i due si affrettarono a chiarire che non era una Guerra che abbracciava il mondo. Era una Guerra Santa. E, con quelle parole, ebbi la netta impressione di essere finita in un covo di terroristi. Salvo poi ricordarmi del mio viaggio nel passato di Death Mask. Facevo ancora molta fatica a crederci, ma se fosse stato vero? Poi il giovane Cavaliere d’Ariete mi spiegò che cosa intendevano per Guerra Santa. Se ne stava preparando un’altra contro Artemide e i suoi Angeli, e l’avrebbero combattuta loro, Cavalieri d’Oro, contro gli altri, in nome della loro Dea. «E, quanto durerà?» Domandai.
«Non lo so.» ammise contrito Kiki e si alzò per dirigersi alla finestra. «Da quanto sono qui?»
«Tre mesi».
Per questo non sentivo più dolore e potevo muovermi di nuovo? Bè, ovviamente lo sforzo mi aveva fatto male, e ne risentivo ancora adesso, sebbene avessi preso gli antidolorifici. Ma che razza di cure avevano e che operazioni mi avevano fatto? «Tre mesi?» Ripetei incredula. Voleva dire che era già giugno? Per questo faceva così caldo? E, le cose che erano successe e che mi ero persa? Mi rialzai subito dalle coperte e le scostai dicendo: «Devo tornare a casa! I miei saranno preoccupati da morire, devo...» Kiki mi pose una mano sulle spalle e mi rimise giù scuotendo il capo, con aria dispiaciuta. «No, sta giù. Sei ancora debole e ti sei ferita, ricordi?» Lo fulminai con gli occhi e lui tolse la mano, serrando le labbra.
Allora, fu il suo maestro a posarmi una mano sulla spalla e a ripetere. «Prima devi riposare». Sebbene fossero stati tocchi leggeri, mi parvero molto veementi. Però mi opposi lo stesso. «Non posso aspettare. Là fuori c’è la mia famiglia.» ribattei cercando di alzarmi, ma il ragazzo dalle sopracciglia viola me lo impedì tenendo la sua mano sull’altra mia spalla ed esercitando una leggera pressione. «Non puoi tornare da loro adesso, è pericoloso! Diteglielo anche voi, maestro.» Disse di nuovo il più giovane, beccandosi un’altra occhiataccia delle mie, che lo costrinse al silenzio un’altra volta. Però non tolse la mano.
Allora piantai gli occhi in quelli del più anziano, verdi, sostenendo quello sguardo con determinazione. Contrariamente a quello che mi aspettavo, sentii il mio animo e la mia mente sgombrarsi per riempirsi di pace e tranquillità. Rilassai le spalle e l’altro tolse delicatamente le sue dita, senza dire niente.
A quel punto Mur si alzò e mi salutò, imboccando la via della porta: «Ma, maestro...» Cercò di richiamarlo il giovane, però alla fine lo seguì dopo avermi augurato la buona notte con un tono impacciato. E, io restai lì a guardarli andarsene entrambi. In seguito mi domandai spesso che cosa avesse scatenato quella reazione. Poi, conoscendoli, col tempo, compresi che non era stata colpa mia. Avevano semplicemente atteso che la smettessi di piangere.
Mi lasciai ricadere sui cuscini.
All’improvviso sentii un profumo che prima non avevo notato. Seguendone la scia mi girai sul fianco e trovai delle rose bianche sistemate in un vaso di cristallo sul comodino vicino a me. Quelle che Aphrodite aveva portato quella mattina.
Solo a una domanda non avevo ancora trovato risposta: come mai il mio incantesimo non aveva funzionato? Come mai?
Il mio viso si contrasse in una smorfia di dolore e pianto.
Passai il resto della giornata rannicchiata in posizione fetale a piangere finché non mi addormentai. Fui svegliata dalle mani gentili di un’infermiera per la cena e per andare in bagno. Poi passai il resto del tempo a dormire, con nuove bende ai piedi.

Avete presente quei giochi online che dicono: “Se ci fosse una parola chiave nella tua vita, quale sarebbe?” e voi dovete scriverla nei commenti sottostanti? Bene, la mia sarebbe “ricorda”. Infatti, sognai di trovarmi davanti a quella macchia mediterranea che avevo visto.
Nel sogno era una giornata ventosa e il vento, nel suo dolce soffiare, sembrava trasportare una parola: «Ricorda». Sussurrata dalla voce maschile che stava risvegliando la mia memoria.
Ma ricordare che cosa?
Cosa dovevo ricordare?
Non feci in tempo ad aprire bocca per dirlo che fui svegliata. Aprii lentamente le palpebre cispose e mi ritrovai a guardare il viso materno di un’infermiera: «Buongiorno». Mi salutò con un sorriso di scuse. «Ti ho portato la colazione». Spiegò di fronte al mio sguardo ancora assonnato e perplesso. «Ah…» Mormorai. «Che ore sono?» Domandai mettendomi seduta.
«Le otto e mezzo», poi, «scusa l’ora ma abbiamo una tabella di marcia da rispettare e il personale è abbastanza ridotto qui». Si giustificò. «Non fa niente».
Dopo colazione mi aiutò a lavarmi rapidamente e, provvide anche a procurarmi una camicia da notte pulita.
In seguito il dottore mi visitò e, quando i controlli finirono, mi lasciarono sola. E, a me, non restò altro da fare che rimettermi sdraiata e sonnecchiare un po’.
A volte le infermiere di passaggio in corridoio gettavano un’occhiata nella mia stanza ma non vennero a disturbarmi.
Solo a pranzo mi rivolsero qualche parola ma detti loro l’impressione di trovare più interessante il canto degli uccelli. Perché a parte al mio risveglio e durante la visita medica, non avevo più proferito parola.
Credo che agli occhi di tutti sembrassi una bambola. La verità era che non avevo niente da dire. Non sapevo se potevo fidarmi di queste persone, perciò, avevo preferito chiudermi in me stessa, sebbene non mi fosse per niente dispiaciuto sentire le loro voci.

Cocteau
Agitasti le ali e arruffasti le penne per liberarti del torpore.
Ma eri sfinito. Avevi passato la notte in bianco a vegliare su Shura. Finché non avevi avuto la certezza che non avesse avuto una ricaduta, non ti eri tranquillizzato.
Erano passate altre settimane da allora e giugno aveva riscaldato l’aria con il suo calore. Il cielo sembrava di un colore più inteso e al tempo stesso caldo e le rocce del Santuario sembravano risplendere di più, mentre fuori della Decima udivi il cinguettio delle rondini.
Avevate festeggiato il tuo compleanno con una cena tra amici cui aveva partecipato persino il Gran Sacerdote, il quale aveva bevuto e mangiato anche per te, che ti eri dovuto accontentare di quel che passava il convento, cioè il negozio di animali.
A te compiere gli anni aveva solo dato una scusa per riflettere. Anche se dimostravate ancora la freschezza e la potenza della gioventù, la vostra età era ormai negli anta.
Agli altri sembrava non importate neanche più di tanto.

A te giugno metteva solo il caldo. Ma un lato positivo della tua condizione era che non sudavi più.
Certo che avevi udito anche tu il grido femminile. Uno dei lati positivi della tua nuova condizione era che ti eri allenato a percepire eventuali pericoli, tipo gatti o donnole o altri predatori come gli sparvieri. E, purtroppo la tua metamorfosi non ti aveva concesso di comprendere il linguaggio degli animali.
Perché quegli animali mica lo sapevano che le tue sembianze non erano reali. Per loro tu avevi scritto “Cibo” sul muso, con un pennarello rosso e a caratteri cubitali, che si illuminava al buio, oltretutto. E, al di fuori delle Dodici Case, tutti pensavano che fossi l’animale da compagnia di Shura. All’inizio la cosa aveva suscitato scalpore perché non l’avrebbe mai detto nessuno che, allo schivo e ombroso Cavaliere di Capricorn, piacessero gli animali. Ma più che animale da compagnia, “Io direi più che sono la sua balia” pensasti chiudendo gli occhi rassegnato, accovacciato sul divano.
Il tuo amico uscì dalla sua stanza con indosso i vestiti dell’allenamento puliti che qualche collaboratore domestico aveva provveduto a lavare in queste settimane e a metterglielo nella cassapanca.
«Dove vai?» Gli domandasti riaprendo gli occhi.
«Prendo un po’di sole». Ti rispose tranquillo mentre si sistemava una giacca nera sulle spalle. Poi girò il capo verso di te e ti domandò, «Tu hai intenzione di restartene accucciato sul divano tutto il tempo?»
«Le civette dormono la mattina e si svegliano nel tardo pomeriggio». Badare a lui era sfinente e avevi voglia di prenderti un po’di meritato riposo. Peccato che non potessero pagarti per questo. «Ma non eri tu quello che insisteva nel dire che non eri un animale?» Domandò divertito.
«Oggi mi va di fingere di esserlo».
Decretasti chiudendo gli occhi, poi ti addormentasti.

Aiolia
La notizia della tentata fuga di Astrid ti aveva sorpreso. Era la prima volta che sentivi di una persona, che, oltretutto, avevate salvato, che cercava di andarsene, proprio ora che forse una nuova Guerra Sacra era alle porte.
Dopo la tua convocazione al Tredicesimo Tempio, Atena non aveva affatto contribuito a sciogliere i tuoi dubbi, anzi, sembrava averli peggiorati. Avevi passato il resto della mattinata, pranzo compreso, a rimuginarci. Inoltre, quando avevi visto Astrid sul tavolo operatorio, eri rimasto sorpreso. Non per la sua bellezza, ma per il fatto che una ragazza così fragile fosse sopravvissuta fino ad ora e, fosse stata capace di un simile miracolo. E, sì che te di miracoli te ne dovevi intendere. Non avevi avvertito alcun Cosmo provenire da lei. Nonostante che i tuoi compagni d’arme ti avessero giurato che era riuscita a riportare in vita sia loro che i tre Giudici Infernali. Cosa di cui non ti capacitavi. Al di là delle divinità nessun mortale poteva osare tanto. E, Atena il massimo che poteva fare era la Misophetamenos, che aveva concesso all’ex Saint di Libra. Stavi fasciandoti le mani in vista di un nuovo allenamento con Aldebaran (per testare le sue abilità) quando avevate udito l’agghiacciante urlo di terrore. «Cosa è stato?»
«Sembrava una ragazza» commentò Shiryu, sorpreso, che era giunto in quel momento con Paradox e Ryuho al seguito, togliendo le parole di bocca a Milo. «Sei sicuro?» Domandasti accigliandoti. Shiryu era arrivato da poco, in tempo per il Chrysos Synaigen che si sarebbe tenuto tra pochi giorni. Il tempo che i vari Gold dispersi in tutto il mondo potessero raggiungervi. Lui era stato uno dei primi. «Dalla voce sembrerebbe proprio di sì». Garantì mentre la sua allieva lo aiutava a sedersi sugli spalti vicino a voi. Poi il maestro le ordinò di cominciare gli esercizi di riscaldamento e la piccola, (si fa per dire, aveva ventotto anni) roteando gli occhi al cielo, obbedì.
Ormai non ti sorprendevi neanche più dei sensi del Dragone. Da quando aveva perso la vista, tutti gli altri gli si erano potenziati esponenzialmente. A volte, avevi l’impressione che anche da solo, potesse eguagliare i vostri potenziati dal Cosmo. Ma era solo un’impressione.
Ti domandasti come avesti fatto a non accorgertene, quando Shura te lo riportò dopo che affrontò uno dei Senza Volto per proteggere lo spadaccino. Te lo stavi chiedendo quando buona parte della guarnigione scomparsa fece ritorno. Avevate udito anche voialtri in arena il turbamento e i dubbi nei Cosmi degli altri Cavalieri ma non avreste mai immaginato il motivo. Ancor meno ci credesti quando te lo raccontarono alcune reclute: era talmente assurdo che pensasti ti stessero prendendo in giro. Cioè, era la stessa ragazza che avevi guarito col tuo Cosmo fino a sei giorni fa. La stessa che ti era costata giornate intere di riposo per recuperare tutta l’energia perduta e che, appena sveglia, seminava il panico nel Santuario: un record. Se Death Mask si fosse trovato lì con voi avrebbe sghignazzato ma era appena andato in missione con Shura alle Isole Baleari.
L’unico che ce l’aveva apertamente con Death era proprio Lancelot, che avevi slegato quella mattina, mentre scendevi giù. Incominciavi quasi a pentirtene, visto che l’ex Cavaliere della Tavola Rotonda pareva furioso. La convivenza non stava andando così bene come aveva sperato il Patriarca.

Era passato un giorno.
Ti piaceva ancora fingerti un soldato semplice e girovagare tra le reclute. Anche per questo eri molto apprezzato tra le vostre fila e tra le reclute. Lo avevi fatto a lungo nel corso della tua vita, anche per sfuggire all’ostilità che regnava alle Dodici Case. A differenza dei tuoi compagni, che se ne stavano beatamente rintanati ognuno nel suo angolo, che fosse nello Jamir o altrove, tu no. Ti sembrava quasi di fuggire dalle Dodici Case. Molte delle tue conoscenze a Rodorio le avevi strette proprio così, senza l’ausilio delle tue Sacre Vestigia.
Adesso quell’ostilità che ti aveva costretto alla fuga molte volte non c’era più, eppure, certe abitudini erano ancora dure a morire.
Ma, a muovere i tuoi passi, stavolta non era più la tristezza. Quanto, piuttosto la curiosità. Non solo dovuta al massiccio restauro che aveva subito il Santuario. Cosa di cui ringraziavi, ma anche godersi quella passeggiata con il cuore un po’ più leggero. Anche se alla tua meta, la Palaestra, avresti discusso di argomenti affatto lievi. Palaestra. Ai tuoi tempi venivi addestrato da un Saint, non c’erano Palaestrae. Tu ricordavi ancora l’addestramento che ti impose tuo fratello maggiore. E, quello scalmanato di Seiya che cercava di scappare a piè sospinto da Castalia. Allora era facile vedere i giovani Saint allenarsi sotto la supervisione dei loro insegnanti tra le rovine del Santuario ma adesso era più facile il contrario. E, più persone si allenavano per concorrere a un’Armatura d’Oro. Anche tu, infatti, avevi dovuto faticare per stare al passo e dimostrare di essere più degno di Galan, che, all’epoca si stava allenando per diventare il Cavaliere del Leone. Poi fosti facilitato anche dal sacrilegio che compì il tuo servo per curare la madre malata.
E, la gold cloth fu tua.
Ma, se non fosse stato proprio per quel sacrilegio che lo portò a diventare il tuo servo, non saresti mai stato quello che eri. Molti ricordi felici della tua gioventù li dovevi soprattutto a lui, non solo a Seiya. Ritrovare anche lui al Santuario ti aveva commosso fino alle lacrime e, in barba all’orgoglio e la compostezza, ti eri gettato tra le braccia dell’ormai anziano Galan e l’avevi abbracciato come un figlio.
Durante la vostra assenza avevate sentito che la battaglia contro il Dio di Marte aveva avuto teatro dalla Palaestra con il tradimento di Ionia di Capricorn, che, però, era stato resuscitato a distanza di qualche anno per mancanza di personale ed era tornato a gestire l’accademia.
Non avevi mai parlato con costui, però ti eri accorto che la Dea lo guardava con una punta di disprezzo e che Shura, proprio non lo poteva soffrire. A te lui non faceva né caldo né freddo, sembrava solo un uomo qualunque, anche se, più che l’ex Gold di Capricorn, pareva più l’ex Saint di Taurus, a giudicare dalla mole e dall’imponenza.
Invece il tuo successore conosciuto solo per sentito dire e una foto, che avevi guardato con un sopracciglio alzato, ti aveva fatto una strana impressione. Mykene di Leo sembrava, infatti, la caricatura di quei soldati che si vedevano in film americani. Quei rigidi caporali che poi, per un motivo o per un altro si rivelano come antagonisti. Questo aveva lisci capelli verde sbiadito che scoprivano la fronte marchiata da una cicatrice a forma di X. Occhi azzurri, le rughe d’espressione sul volto incorniciato da due ciocche davanti le orecchie legate con un laccetto, sopracciglia che forse avrebbero fatto meglio ad essere inesistenti.
Non solo perché non era lui il vero erede del vero cloth del Leone, ma perché non ti ricordavi neanche di averlo incrociato, durante la tua permanenza al Santuario. Da nessuna parte. Parlandoci, però, avevi capito che era estremamente orgoglioso (un altro) e leale (almeno un lato positivo) e un senso di giustizia tale che, gli permise di riconoscere la nobiltà degli intenti di Mars (eh? Nobiltà dove? Milo, scherzando, si sarebbe anche guardato attorno). In compenso, proprio come un vero Saint di Atena, era disposto a combattere e rischiare la vita per la creazione di un nuovo mondo al posto di quello attuale, corrotto da guerre e sofferenze (a quel punto, forse contagiato dall’ironia di Milo, avevi pensato: “Arles, sei tu?”). Sospetto confermato dal fatto che, raccogliendo altre voci, avevi scoperto che non era contrario al concetto di giustizia in sé. Peccato che volesse rimpiazzare la vostra Dea con una nuova Atena (“Sì, sei proprio tu.”), che avevano già scelto. Ovvero una bambina di nome Aria. Una falsa Dea, ecco la verità.
La vostra Dea, a volte, nella sua magnanimità, rasentava l’incoscienza. Kanon fu un caso a parte, ma chi poteva dirle che questi Cavalieri traditori non le avrebbero voltato le spalle un’altra volta? E, per fortuna Hades non lo aveva ancora riportato in vita.
Ripensasti a quell’astruso gruppo che erano i falsi Gold Saint. No, se c’era un motivo per cui eravate sopravvissuti alla Guerra Sacra contro Atena Chaos, non era per proteggere la Terra, era perché dovevate aiutare la vostra Dea sulla via della Giustizia. Via che aveva perso un po’di vista a causa del dolore per la perdita di Seiya.
In poche falcate giungesti all’accademia e ti fermasti a osservarla per un po’. Non c’eri mai entrato, ma conoscevi alcune degli studenti e degli insegnanti. Avevi sentito dire, infatti che ci lavorasse Geki, uno dei fratellastri di Seiya e l’ex Saint dell’Orsa Maggiore come istruttore. Ma colui con cui dovevi parlare non era lui e, neanche Georges, l’insegnante responsabile delle lezioni sul Cosmo e gli Elementi. Il compagno d’arme di Seiya nel parlartene ti aveva fatto la descrizione di un tizio occhialuto in giacca e cravatta molto severo e complessato per non essere riuscito a conquistare nemmeno il cloth Bronze.
Adesso doveva essere per forza contento di sapere che si era tornati ai santi vecchi e gli Elementi avevano abbandonato le Costellazioni con la sconfitta di Mars e la distruzione delle ClothStone.
Grazie ad Atena non era con lui che avresti parlato.
Ti saresti, infatti, incontrato con Sirrah, ex Gold di Cancer ed ex Saint della Morte e della Genesi? Ma che razza di titoli si davano queste nuove generazioni? Facevano quasi ridere in confronto ai vostri soli nomi. Perché non era il nome a fare grande una persona, era la persona a fare grande il nome. I vostri, senza fronzoli, erano ancora sussurrati con rispetto dalle persone. Anche Kiki si era adeguato a questa moda, ma senza convinzione perché l’aveva abbandonato subito. Ma questi…
Quando le ClothStone erano andate in frantumi, i poteri elementali erano scomparsi e il Santuario era di nuovo scoperto e senza protezioni. Guarda un po’ che coincidenza, eravate tornati in vita voi, i loro predecessori, nonché legittimi proprietari di titoli, armature e Case. E, le vostre Sacre Vestigia che, fino a quel momento erano rimaste inerti nelle Pandora-box alla Tredicesima, erano tornate da voi, pronte per accompagnarvi nella nuova avventura che furono i fatti dei Senza Volto. Peccato solo che vi fecero resuscitare a diversi stadi della vostra vita e con la memoria semi azzerata. Tu, per esempio, ricordavi soltanto che Shura aveva ucciso tuo fratello e che il Santuario ti aveva mandato a Tokyo per fare giustizia poiché aveva tradito. Poi, avevate recuperato tutti i vostri ricordi e la vendetta non era più stata così importante come avevi pensato fino a quel momento. Qualcuno, più poetico, avrebbe detto che avevi smesso di avvelenarti il cuore e, in un certo senso, fu proprio così.
«Nobile Aiolia, vi siete forse incantato?» Ti domandò la voce dell’indiano che comparve silenziosamente al tuo fianco.
«No, Sirrah». Rispondesti tranquillamente. Poi lo guardasti.
Sirrah era alto quanto te, ma aveva mossi capelli di un rosso sbiadito, quasi salmone e gli occhi azzurri che spiccavano sulla carnagione scura. La falda gli ricadeva sull'occhio destro dando molto la sensazione di trovarsi faccia a faccia con Erik, il Fantasma dell'Opera. La differenza era che era addirittura più viscido e stronzo.
Aveva restituito il posto a Death Mask al primissimo incontro.
L’indiano sembrava tanto combattivo, ma era bastato ritrovarsi di fronte a Death Mask, per mettergli addosso una fifa blu. Il vostro compagno lo aveva trafitto con lo sguardo e un glaciale «Togliti immediatamente dalla mia vista e dalla mia Casa, bambolo, o ti disintegro» borbottato in mezzo al fumo della sua sigaretta, per farlo sloggiare lui e i propri effetti personali. Effetti che tra un po’ Death gli tirava dietro. Anche perché Sirrah, ormai ridotto a uno spirito, era sì cresciuto con la convinzione che la vita dipenda dalla morte di un’ altra persona, ma non era mai stato un assassino fino al midollo come Death. Lui era più attaccato alla vita che alla morte, per questo si sarebbe dovuto accontentare di quel titolo feticcio che si era dato (Saint della Morte e della Genesi), invece di portare lustro al nome di Cancer.
Forse, era proprio perché avevi sentito il suo attaccamento alla vita che ti eri avvicinato a questo ex Saint, che, al momento, veniva impiegato come altro Saint. Attualmente si manteneva facendo il becchino.
«Stavo pensando al tempo».
«Al tempo?» Sorridesti guardando di fronte a te.
«Venite, nobile Aiolia, cerchiamo un posto all’ombra, oggi il sole è piuttosto caldo». T’invitò. Approdaste a un’osteria con i tavoli sotto al portico e lì, seduti l’uno davanti all’altro di fronte a una tazza di caffè, «Perché volete parlare con me?» Ti chiese Sirrah che, come ogni spirito che si rispetti, era semitrasparente. Era stato Death a combinare il vostro incontro dal momento che lui non lo aveva voluto nella sua Casa “Di scassamaroni me ne basta e avanza già uno”, aveva detto, riferendosi a Lancelot. Però te lo aveva chiamato e lui aveva risposto al richiamo. «E’ a proposito di quello che si racconta?» Indagò guardingo.
Tu gli rigirasti la domanda dopo un sorso di caffè. «Cosa si racconta?»
«Che siate tornato da una missione quasi in fin di vita, che le stelle stanno scomparendo e che siano comparsi strane creature, fantasmi oscuri immuni al Potere dei Cavalieri d’Oro».
«Te ne sei accorto anche tu?»
«Solo un idiota non se ne accorgerebbe».
«Tu ne sai qualcosa, a proposito di queste creature?»
«No, purtroppo. Quello che so è che non hanno a che fare con l’Altro Mondo e che, per questo, anche gli Specter le temono».
«Ma se non hanno a che vedere con il Regno dei Morti da dove vengono?»
«Questo temo che lo possiate, anzi no, dobbiate scoprire solo voi, Cavaliere. A proposito di altro mondo, ho notato che qualcuno pare sia tornato alla vita e pure sonoramente». Il grido di Astrid l’aveva udito anche lui e, a quanto sembrava, la cosa lo divertiva ancora. Scommettevi che c’era lui dietro l’ondata di pettegolezzi che aveva investito il Grande Tempio. Non ti restava che scoprire quanto si fosse spinto in là questo spirito. «L’ho vista, è veramente uno splendore di ragazza. Piena di vita…» Fece sollevando la propria tazza e bevendo. Anche se era spirito poteva ancora cibarsi come se fosse stato vivo. La morte, per i Cavalieri di Cancer era solo il passaggio da una condizione a un’altra. Ma il loro cuore continuava a battere lo stesso. Questi erano i misteri dei Cavalieri della Quarta Casa. Poi sorrise sulla tazza: «E, anche molto divertente, devo dire. Non ho mai visto nessuno travolgere un Cavaliere d’Oro con la sola forza della disperazione e della paura». Stiracchiasti le labbra in un sorrisetto. «Non sono qui per parlare di lei, ma di quello che potrebbe portare».
«Mi avete preso per la chiromante con la palla di vetro?» Domandò l’altro, accigliandosi per l’offesa e mettendo giù la tazza.
«No, per niente, ma mi serve di sapere se per caso porterà guai. Se c’entra qualcosa in tutta questa storia o se è solo una coincidenza. Dicono che gli spiriti abbiano capacità precognitive, forse tu puoi aiutarmi». Non ti eri mai fidato dei veggenti. Per te il destino te lo costruivi con le tue stesse mani. Ma se ti rivolgevi a lui per queste questioni, cui francamente non credevi, allora non sapevi proprio più che pesci pigliare.
«Siate onesto e dite soltanto che volete lavarvi la coscienza dal fatto che legalmente parlando è sequestro di persona». Ti rimbeccò Sirrah, che aggiunse, sistemandosi il mantello. «Sarò anche cresciuto per strada ma i termini legali li conosco. No, non abbiamo queste capacità, è solo una vecchia leggenda, ma se vi può far piacere, posso provare a farvi da spia».
«Spiare?» Domandasti contrariato.
«Sì, spiare. Cosa c’è di strano? Non mi direte che l’affare vi fa storcere il naso». Sostenesti il suo sguardo prima di aprire bocca e rispondere.

Milo
Avevi fatto un respiro profondo e varcato la soglia del cimitero del Santuario. Qui erano sepolti i Saint di tutte le epoche. Qui, per un breve periodo di tempo, eri stato sepolto anche tu. Qualcuno forse ti avrebbe sepolto accanto a Camus, se il tuo miglior amico non fosse morto prima. Quindi i suoi vicini di tomba erano Death Mask e Shura. Poco più in là era stato sepolto Shion e Saga.
Avevi due mazzi di fiori con te. Il primo era per Shion e il secondo era, ovviamente, per Camus. Avevi portato molti fiori alla sua tomba nel corso degli anni. Chissà, forse nella segreta speranza che un giorno l’avresti trovato ad ammirare la propria lapide, come tu avevi fatto con la tua. Pedine di una Guerra Eterna.
Esercito di fanteria di una Dea che amavate con tutti voi stessi, ma come si può amare una Dea. Una regina, senza aspettarsi che il pericolo si cela dietro l’angolo? Che ogni inchino di fronte al Trono di Atena potrebbe essere l’ultimo?
Voi non eravate più bambini quando non dovevate essere altro. E, da ragazzi non eravate più nemmeno questo, anche se fingevate di esserlo. Morti che camminano. Ecco cos’eravate.
Morituri te salutant, dicevano i Gladiatori degli Antichi Romani.
Poche volte in vita tua ci avevi pensato. Ma non eri mai riuscito a far rotolare questa formula latina sulla tua lingua. Perché in fondo la tua Dea vi amava tutti. Lei per prima, sapevi, che non avrebbe mai desiderato vedervi morti. Che sarebbe sempre accorsa in vostro aiuto qualora ne avreste avuto bisogno.
Una volta, anno fa, il giorno prima del compleanno di Camus eri uscito in paese per svagarti un po’ e, avevi trovato Death Mask che spennava qualcuno in osteria. Ti eri unito alla giocata e ti eri ritrovato a secco subito dopo. Il siciliano però era stato generoso e ti aveva offerto da bere. A un tratto, mentre eravate già al terzo giro, gli avevi chiesto se a volte non soffrisse per quei compagni che non erano tornati tra voi. Lui era scoppiato nella sua risata diabolica e aveva berciato: «Se mi frega qualcosa? No, per niente!» poi si era portato la bottiglia alla bocca e aveva tracannato. Tu avevi pensato con disgusto che non avesse rispetto per nessuno. Neanche per i morti. Ma perché avrebbe dovuto avercelo, dal momento che era il custode della Quarta Casa? E, te ne eri andato. Quello era talmente andato che non si era neanche accorto che eri sparito.
Il giorno dopo, quando ti eri rimesso un po’dalla sbronza ti eri dato una sistemata ed eri andato dal fioraio. Avevi comprato il solito mazzo di gardenie e l’avevi portate a Camus. Tutto ti saresti aspettato al cimitero, fuorché Death Mask. Ti eri fermato per un secondo, prima di ricomporti e fare quello che dovevi fare.
Ma, con la coda dell’occhio, l’avevi guardato che rimirava la lapide del suo maestro. «Sì». Aveva detto d’un tratto. Tu avevi pensato che parlasse con uno spirito che non potevi vedere. Invece: «Sto dicendo a te, Scorpio».
Lo guardasti perplesso: «Sì, cosa?»
«Qualche anno fa, mi hai chiesto se i morti cantino». Lo avevi guardato con un’espressione stranita. Ricordavi a malapena di avergli posto una domanda simile. «La risposta è sì».
«Cosa cantano i morti?» Gli avevi chiesto allora, alzandoti e affiancandolo.
«Cantano alle loro famiglie che stanno bene. Che non sono morti invano e che la vita va avanti. Altre volte, invece, cantano canzoni che non comprendo neanch’io».
«Quelle canzoni risuonano mai nella Quarta Casa?»
«Quando ho voglia di ascoltare qualcosa di diverso». Ti aveva detto, stranamente più malleabile e senza la solita cicca tra le labbra. Poi si era ficcato le mani in tasca e ti aveva lasciato solo senza dirti altro.
Stavolta non avresti trovato nessun Death Mask al cimitero. Stavolta eri solo.
Stringesti i mazzi di fiori al petto un’ultima volta e ti eri avviato alle tombe che t’interessava visitare.
Una volta lì davanti ti immaginasti di vedere Camus, seduto sulla propria lapide volgere lo sguardo e guardarti con espressione interrogativa. Soprattutto quando sostituisti i fiori secchi con quelli nuovi.
“Di solito vieni a trovarmi per il mio compleanno”, ti avrebbe detto. “Come mai sei tornato così presto?”
“Ho bisogno di parlare”. E, poi avrebbe atteso. Tu cominciasti a raccontargli tutto.

Shura
Eri guarito completamente.
Era anche l’ora. A parer tuo eri rimasto inchiodato al letto anche troppo. Anche se avevi apprezzato le premure dei tuoi amici, non eri più un bambino da tempo. Ormai pensavi di essere abbastanza grande per cavartela da solo. Per non parlare del fatto che il tuo addestramento si era svolto sul monte Perdido in Spagna. Cosa pensavano, che tu patissi il freddo? Eppure, se ci ripensavi, ammettevi di esserti sentito un perfetto imbecille per essere stato steso da un po’ d’aria fresca. Facesti alcuni esercizi per recuperare il ritmo. Durante la malattia non avevi potuto allenarti ma ora avevi da recupere il tempo perduto. In realtà non ne avevi molto bisogno. Lo facevi solo perché eri abituato a farlo. E, perché, non potevi più permetterti di sfruttare il tuo corpo solo al settanta per cento. L’altra volta, contro Mordred ti era andata bene. Ma ora?
Ti eri ristabilito completamente. Giusto in tempo per ritrovare Shiryu. Quel ragazzo ti stava davvero simpatico. Era un ottimo compagno di conversazione, che non criticava mai e, ti era piaciuto passare del tempo in sua compagnia, in Giappone. Ti era stato anche molto d’aiuto per comprendere meglio quel Paese e le sue tradizioni, oltre che nello scontro. Non avresti mai dimenticato la potenza da lui sprigionata e l’innegabile passo avanti che aveva compiuto dall’ultima volta che lo avevi visto al Muro del Pianto. Era riuscito a trasformare Excalibur, la Spada Sacra, in una Dragon Slayer e a partecipare di diritto alla Guerra delle Spade Sacre indetto dall’Antipapa. Chissà se un giorno anche lui sarebbe riuscito a forgiare altre copie della spada, come te, o se avrebbe compiuto altri miracoli che sfuggivano alla tua immaginazione. Poi, ti era arrivato l’avviso del Chrysos Synaigen. E, avevi capito che si preparava una tempesta.

Aphrodite
Non eri tipo che se la prendeva per delle accuse, anche se le sue erano piuttosto gravi. Ma che potevi farci? Era sconvolta e non era una guerriera, non sapeva come gestire le proprie emozioni e i traumi, come invece eravate stati addestrati voi. La trovasti già sveglia, mentre si stiracchiava nel letto. Appena ti vide abbassò repentinamente le braccia e si portò le coperte al petto, nonostante la camicia da notte (gentilmente offerta dall’infermeria per i casi gravi) e il fatto che tu avessi bussato. Era stata costretta a letto per molto tempo, se non le erano venute le piaghe da decubito, lo doveva solo alle infermiere, che l’avevano girata - anche se avevano ammesso che, qualche volta, lei stessa si girava da sola - e massaggiato i muscoli. Quel giorno le avevano finalmente tolto il gesso alla schiena. Il collare ortopedico e altre medicazioni le avevano già tolte. Era proprio vero che Shun era veramente bravo nel fare il suo lavoro. Adesso capivi come mai la Dea aveva insistito tanto per farlo trasferire al Santuario.
Tornasti a guardare la tua protetta. Da come quei caldi e grandi occhi ti guardavano, deducesti che aveva pensato che le avresti tenuto il broncio più a lungo. Ti sembrò quasi sollevata nel costatare che si era sbagliata. Ne fosti felice, era bello vedere quegli occhi meno grigi e bui. Lo prendesti come un buon segno, forse stava cominciando a rivalutarvi. Stavolta eri giunto a mani vuote, anche perché le rose che avevi portato il giorno prima, non erano ancora appassite.
Le domandasti come stesse e lei rispose facendo spallucce. Le ripetesti, di nuovo: «Non ti abbiamo rapito». Ti guardò confusa. E, tu continuasti: «Non sei mai stata rapita, ma devi restare qui ancora un po’a riposare; me lo fai questo favore? Bene, ora dormi un po’, sarai sicuramente stanca. Volevo solo dirti questo, ti auguro una buona giornata». Ciò detto te ne andasti.

Death Mask
La Dea Atena era giunta a Rodorio una settimana prima del vostro ritorno in terra di Grecia. L’avevate trovata abbastanza invecchiata, rispetto all’ultima volta che l’avevate vista dal vivo. Ma, anche se adesso era una signora di quarantasette anni, si manteneva bene. Aveva accorciato di qualche centimetro la fluente chioma castana che quando usava il suo Cosmo tornava della lunghezza originaria e viola, esibiva qualche ruga sotto al trucco, ma restava sempre la stessa ragazzina sconsiderata, classista e snob con un dubbio gusto nel vestire, cui eravate legati dal giuramento di eterna fedeltà e che dovevate proteggere a tutti i costi.
Appena messo piede nel Santuario (perché fino a quel momento se ne era rimasta alla Tredicesima) aveva ordinato di vedere immediatamente la paziente. Cosa non da lei, in più l’aveva esaminata col proprio Cosmo. Di solito non ti fregava granché dell’aspetto estetico di chi avevi di fronte, ma in questo caso era impossibile non notarlo.
Infine era stata scortata alla Tredicesima per conferire con tutti voi Cavalieri, era stata indetta una riunione molto particolare: infatti erano radunate tutte le milizie della Dea. E, tutti, avevano percepito il suo richiamo. Seiya e Koga, il futuro Saint di Pegasus e figlio adottivo di Lady Isabel, l’avevano raggiunta il giorno dopo il suo arrivo con le Saintie. Tu, avevi accuratamente cercato di ignorarne una in particolare, una certa Elda di Cassiopea, se la memoria non ti tradiva. Non perché quella ce l’avesse ancora con te per la distruzione dell’Accademia delle Saintie, ma perché proprio non ti fregava niente di lei.
Poi c’era un certo Soma di Lionet che per un po’ era stato allievo di quel galoppino senza speranza di Jabu.
Shiryu della Bilancia con Shunrei, il figlio Ryuho e la piccola Paradox erano arrivati quella sera stessa, seguiti a ruota da quel porta sfortuna ambulante di Hyoga. Per il bene di tutti voi sperasti che l’ex Cavaliere del Cigno portasse un po’meno male e, forse era veramente così dal momento che portò con sé quella discola di Natasha, la figlioletta adottiva. La quale appena ti vide ti riconobbe subito e venne a salutarti saltellando come un grillo e riempiendoti di feste come un cagnolino. Era un po’cresciuta, aveva smesso i codini lunghi e grigi, ma restava la stessa discola petulante che ti ricordavi. Mentre raggiungeva Aiolia, meravigliandosi del cambiamento repentino che aveva subito, ti domandasti come facesse Hyoga a controllare quella piccola peste. La accogliesti col tuo solito modo di fare strafottente e vagamente irascibile che lei, beata ingenuità, non riconobbe e, per questo, non ci restò affatto male. Poi andò a giocare con Paradox, Ryuho e altri bambini del Santuario, intanto che Shiryu salutava Shura (completamente guarito) e intratteneva con lui una conversazione e gli presentava il figlio e l’allieva.
Una volta finiti i saluti, i convenevoli e la serata di ritrovo con gli altri Saint, tornasti a Casa tua per farti un caffè. Quelle riunioni, per quanto piacevoli fossero, duravano un’infinità.
Indossasti la tua Armatura strappandola quasi dalle grinfie di Lancelot, appendendolo al muro come un quadro. Possibile che non imparasse mai quell’idiota? «Ehi, aspettami!» Ti urlò il Lost Saint mentre si dimenava. Sapevi che aveva appuntamento con il Mur della sua dimensione, che viveva con Kiki alla Prima per tenerlo d’occhio, come garanzia di pace tra Atena e Tomoe, la gemella di Yoshino. In quanto Saint estranei alla faccenda non potevano presenziare a queste riunioni. Poi uscisti dando l’ordine a uno dei collaboratori domestici di passaggio di staccarlo da lì tra mezz’ora. L’amico di Aiolos tentò di muovere qualche protesta, però alla fine annuì più per pietà che per rispetto alla tua carica: «Sarà fatto, nobile Death Mask».
Percorresti tutta la scalinata fino ad arrivare al Tempio. Appena entrato ti avviasti da Aphrodite e Shura, che ti aspettavano.
«Ci siamo tutti?» Domandasti.
«No, ne manca ancora qualcuno». Rispose Aphrodite scostandosi i capelli dal collo. Al momento mancavano alcuni Cavalieri ma non avrebbero tardato troppo, come Aldebaran e sua moglie Shaina (quella Shaina che una volta moriva dietro a Seiya) con la loro figlia adottiva Yoshino. Come se gli avessi letto nel pensiero, sogghignasti: «Ah, allora verrà anche lei? Da quanto tempo era che non la vedevamo, Shura?» Chiedesti al tuo amico, che curvò le labbra in un sorriso e rispose: «Due anni, chissà come sta?» «Pensavo vi foste tenuti in contatto». Commentasti sbalordito.
«Pensavo lo avesse fatto Aphrodite».
«No, sapete com’è, il telefono non prende qui». Ribatté ironico il Saint dei Pesci.
«Anche Aiolia sta avendo qualche problema ad interagire con quest’epoca e i suoi cambiamenti. Pensate che adesso è Lythos a riprenderlo sempre, come se fosse lei la sorella maggiore invece che il contrario». Infatti, lei era invecchiata e lui restava sempre il solito ragazzo di vent’anni che tutti ricordavano. Voialtri eravate pressappoco nella stessa situazione. La differenza era che non avevate servitù.
«Aiolia? Cosa c’entra adesso, lui?» Chiese Shura.
«Non era lui ad essere il più vicino a Yoshino?» Insinuò con voce dolce il vostro amico con le meches. Il Saint di Capricorn ti lanciò un’occhiataccia - a te, che non avevi neanche aperto bocca - prima di ribattere: «Apparentemente. Pensavo che Aiolia si fosse già messo in contatto con lei. Dopotutto era con lui che conviveva, non con me». Ribatté con la sua solita calma. Dopotutto lui aveva solo accettato di proteggerla in vece di Aldebaran e consorte.
«Non hai ancora installato i social sul tuo telefono? Eppure sei stato il primo di noi ad adattarti alle nuove tecnologie mentre facevi il turista per caso in Giappone». Indagasti.
Anche se Shura non lasciava trasparire molte emozioni, lo conoscevi bene per sapere che cosa gli passasse per la testa, visto che tra un avversario e l’altro si era documentato su quel Paese e aveva finito per visitarlo veramente e divertirsi. Ma quando mai quell’occhialuto Saint non si documentava su qualcosa? «In realtà sì ma non li uso molto spesso, anche perché qui il wi fi prende malissimo, ogni volta devo scendere fino a Rodorio per una connessione decente. E, poi il primo a tornare in vita è stato Aldebaran, non io». Poi tornaste a parlare di lui. Chi l’avrebbe mai detto che alla fine la Silver Saint dell’Ophiuco avrebbe sposato Aldebaran? Lo stesso Seiya quando l’aveva saputo c’era rimasto di sasso per poi riprendersi quasi subito. In fondo, essere obbligati ad amare qualcuno non significava per forza doverlo sposare, e, quel rintronato raccomandato si era perso parecchie cose dalla battaglia contro Hades.
Atena fece il suo ingresso nella sala del trono. Indossava il solito vestito bianco, sbracciato e leggero che le conoscevate. Molti di voi avevano pensato che avesse soltanto quell’abito quando si presentava nelle vesti della Dea e non con la sua identità umana. Ma, almeno adesso, poteva avere la decenza di indossarne uno che le coprisse le spalle? Non era più una giovanetta! Poi vi sovvenne il pensiero che, ora più che mai sarebbe somigliata all’imperatrice Sofia d’Austria se l’avesse fatto davvero e preferiste non immaginarla neanche. Sorvolaste all’unanimità sul fattore estetico, anche per evitare di ricordarvi di Misty della Lucertola, quando lei si pose dinanzi a voi. Vi zittiste immediatamente, attenti.
«La riunione è cominciata.» annunciò il Gran Sacerdote e la sua voce rimbombò nella sala. Il primo a prendere parola fu Aldebaran, il quale disse: «Mia signora Atena, la situazione è grave, in tutto il mondo si stanno verificando avvistamenti di creature immuni alle forze dei Cavalieri d’Oro e ci è giunta voce che la paziente dell’infermeria sembra sia capace di controllarle e di annullare i loro effetti, corrisponde a verità quanto si dice?»
«Sì, ma non dovete temere, miei Cavalieri; stando ai risultati della Fondazione queste creature non sono che rare e poco numerose, gli avvistamenti sono in realtà molto più sporadici di quanto pensate. Per quanto riguarda la paziente ho scrutato a fondo nel suo cuore e non ho trovato niente che evidenzi un possibile affrancamento alle forze oscure. Ho sentito solo molta paura e disperazione». «Ma non avete trovato neanche una traccia di Cosmo, dico bene?» Domandò Aphrodite.
«Esatto, quella giovane è priva di Cosmo».
Milo parve rilassarsi e tu sogghignasti. Però le sue spalle tornarono ad essere rigide e la sua bocca si aprì nuovamente. «Mia signora, ne è davvero certa? Non è che la giovane abbia azzerato il proprio Cosmo?»
«Questa volta sì, Cavaliere. Ma non è per questa ragione che ho indetto la riunione. Pare, infatti, che mia sorella Artemide voglia attaccarci nuovamente e, stando alle informazioni che mi sono pervenute, le creature appartengono a lei. Indico per cui lo stato di allarme». Poi, dopo aver dato tutte le disposizioni, incaricò te e Aphrodite di monitorare la vostra ospite finché la situazione non sarebbe stata chiarita. Poi aggiunse che, però, tu l’avresti monitorata un’altra volta, perché saresti dovuto andare alle isole Baleari assieme al Cavaliere di Capricorn a sventare la minaccia dei Cavalieri Neri, che stavano mettendo a ferro e fuoco le isole. “I Cavalieri Neri, di nuovo? Ma non li avevano già sconfitti Seiya e il suo gruppo?” Ti domandasti. Evidentemente si erano ripresi e volevano la rivincita.
Che tegola.
Ti inchinasti e obbedisti. La Dea Atena era tanto buona e tanto cara, ma era una tale tegola quando dava ordini come quello. Già una volta avevate ritrovato da ridire sul suo operato ma avevate taciuto. Soprattutto quella volta che si recò nei Campi Elisi e vi sacrificò senza tanti complimenti al Muro del Lamento. Vi commosse e vi infuse speranza, oltre che piacere sapere che, nonostante la sua prigionia pianse per voi e che, poi, vi mandò il suo stesso sangue durante la battaglia contro Loki, eppure, certe volte... Ma quella donna riusciva a pensare a qualcos’altro oltre a Seiya (ringraziava sempre lui) e al prossimo modo per farsi rapire facendovi ammazzare? Quasi quasi preferivi avere a che fare con il tuo coinquilino. In quel periodo era diventato piuttosto impaziente e tu non lo sopportavi più. Non volevi neanche aggiungerlo alla tua collezione di maschere perché eri sicuro che anche così ti avrebbe scassato gli zebedei. E, poi, la Dea Atena non avrebbe gradito per niente.
Alla fine optasti per una camomilla, anche se quel pazzo dai capelli azzurri ce la metteva proprio tutta per farti uscire di senno. Ti domandasti perché Shura non l’avesse tolto di mezzo definitivamente quando si affrontarono: «Poi devo chiederglielo». Sibilasti alla tazza fumante. Dopotutto domani saresti partito per le Baleari. Ti giunse il rumore di qualcosa fracassato, doveva essere Lancelot che era riuscito a liberarsi ed era caduto a terra e ora te ne mandava a iosa con quella sua parlata da squilibrato medievale che rivaleggiava tranquillamente con Saga. Forse le uniche differenze erano che non cambiava colore e personalità e che alla fin fine Saga era una brava persona. Lancelot era soltanto pazzo. Appurato ciò decidesti che la camomilla dovevi servirtela nel boccale da birra grande, non in tazza normale. E, detto da uno che la camomilla e le tisane in generale, non le avrebbe toccate neanche sotto tortura, era tutto dire.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** La canzone del fantasma ***


La canzone del fantasma



Kiki
Avevi appena finito di mangiare e ora stavi riposando.
A lavare i piatti ci avrebbe pensato Raki. Anche se cominciava ad essere indisponente e ribelle, proprio come una ragazzina di tredici anni. Ogni volta che le dicevi di fare qualcosa lei ti fissava con fastidio e, un paio di volte, eri sicuro di aver udito un paio di suggerimenti su dove ficcarti gli strumenti da riparatore.
Neanche tu alla sua età eri stato così. Forse perché a tredici anni eri stato costretto ad abbandonare il Santuario e rifugiarti nello Jamir, dove il venerabile Shion ti aveva trovato e aveva completato il tuo addestramento. Forse era stata proprio la vicinanza di quest’ultimo e l’istintivo rispetto che incuteva a non farti sgarrare. Il vecchio Shion lo aveva sostituito per sopperire alle mancanze del discepolo defunto. E, ti aveva aiutato a conquistare il settimo senso e l’Armatura dell’Ariete.
Una volta compiuto il suo dovere si era ritirato in un monastero buddhista in Giappone e lì trascorreva il resto dei suoi giorni. A volte ti mandava delle cartoline il giorno del tuo compleanno o delle lettere. Tanto, era risorto che il suo corpo dimostrava di nuovo vent’anni, quindi ne sarebbero passati di anni prima che morisse.
Ma con Raki era un'altra storia. Forse lei era troppo piccola per ricordarsi la situazione di pericolo che avevate vissuto. Forse era fatta di tutt’altra pasta. Ma a volte ti domandavi proprio da dov’era che le uscissero certe perle. E, grazie ad Atena tu eri abbastanza calmo. Anche se dentro di te, sapevi, risplendere il fuoco. Lo stesso fuoco del tuo maestro prima di te e che ti permetteva di percepire la vita delle Armature, di udire le loro voci e i loro pensieri.
Ti lavasti i denti e prendesti un libro dalla mensola della tua libreria e ti accomodasti su una poltrona di vimini in terrazzo, mentre la ragazzina lavava i piatti.
Però non riuscisti a immergerti nella storia come tuo solito. Eri ancora turbato dalla riunione con la Dea. E, dai rapporti del tuo sottoposto, Ichi.
L’avevi mandato in ricognizione perché avevi percepito qualcosa di sinistro nell’aria, nei pressi di un monastero nelle regioni a Nord della Grecia. E, lui era tornato dicendoti di essersi imbattuto in una strage che i mass media avevano ricondotto all’operato di una setta satanica. Ti eri recato sul posto anche tu mascherandoti da civile e, effettivamente, era proprio così. Per un attimo avevi pensato che fosse un nemico del Santuario, ma di fronte a quello spettacolo ti eri ricreduto. Non avevi avvertito traccia di Cosmi negativi nell’aria e le menti dei famigli dei monaci si erano aperte a te come margherite ai raggi del sole, mostrandoti tutto ciò che ti serviva di sapere. E, non avevi trovato niente d’importante.
Se il Papa avesse ritenuto opportuno, avrebbe affidato quest’incarico a qualche Bronze o Silver. Sicuramente non era un lavoro per un Gold. Per questo te ne eri tornato alle Dodici Case.
«Disturbo?» Ti domandò il tuo maestro bussando alla porta con due dita. Tu abbassasti il libro che stavi leggendo e gli dicesti di no: «No, maestro, tanto questo libro l’avrò letto almeno un migliaio di volte». Il Lemuriano con i capelli lillà annuì e ti raggiunse. «Volevate parlare di qualcosa, maestro?» Gli domandasti accompagnandolo con lo sguardo mentre si sedeva sulla sedia accanto alla tua. I mobili da esterno li avevi fatti mettere tu al posto delle vecchie stuoie qualche anno prima.
«No, niente di importante». Già, il Grande Mur era un tipo di poche parole a prescindere dalla dimensione cui appartenesse. Forse voleva solo farsi perdonare per aver attaccato la Terra durante i fatti dei Senza Volto. Oppure, voleva solo passare un po’di tempo assieme a te, come facevate quando eri solo un bambino e vivevate ancora in Jamir.
«Tu cosa ne pensi di quest’aria di tensione che si respira?» Ti domandò poi.
«Maestro?»
«Non dirmi che non te ne sei accorto, eppure la tensione è talmente tangibile che si può quasi tagliare con un coltello».
«Vi riferite alla Guerra Sacra in arrivo?» Insinuasti. Poi chiudesti il libro e te lo adagiasti sulle cosce. «Sì, la sento anch’io, costantemente». Quello che ti preoccupava di più, però, era l’incolumità di Raki. La tua apprendista non era minimamente pronta per affrontare una Guerra Sacra. Non a questa età. Non aveva neanche sviluppato il potenziale per acquisire una Silver Cloth. E, l’Armatura dell’Ariete l’avrebbe ereditata solo quando sarebbe stata pronta. Ma lei sembrava non volerne ancora sapere.
Se gli invasori avessero assaltato il Grande Tempio, come sempre, tu l’avresti spostata nel Jamir. Avevi già in mente un Piano B per la tua allieva: in caso di una tua dipartita, si sarebbe occupato di lei il venerabile Shion, come d’accordo. Anche se avresti preferito che se ne occupasse il Grande Mur.
Dopotutto, anche se di un’altra dimensione, era pur sempre il tuo maestro e aveva più chance di te di sopravvivere alla Guerra Sacra, nonché più esperienza. In questo momento ne avvertivi la preoccupazione ed era normale. Eri stato il suo allievo ma certi legami non smettono di esistere solo perché eri cresciuto e lui non aveva più niente da insegnarti. Anche se non era stato il tuo unico maestro. «Qualunque cosa succeda, non ci troverà impreparati». Avevi detto alla fine, alzandoti. «Vado a dormire, domani mi aspetta una lunga giornata. Voi che fate?»
«Io resterò un altro po’a guardare le stelle».
«Buonanotte, maestro».
«Buonanotte, Kiki».
Quella sera sognasti le dodici costellazioni dello zodiaco orbitare attorno al Sole e, poi, dalla luce da essa sprigionate, vedesti emergere una ragazza dai capelli lisci, biondi e gli occhi gialli.

Aldebaran
La luce dei tuoi occhi non aveva mai visto il Santuario prima d’ora. All’inizio non era stata molto felice di lasciare la scuola per questo viaggio, nonostante tutte le rassicurazioni che le avevate fatto. «Potrai sempre seguire le lezioni online», le avevate detto. Ma non era bastato.
Non le avevate minimamente accennato la vostra destinazione, pensavate che avrebbe reagito male. Inoltre, pensavi che qualche nuova minaccia gravasse sulla tua bambina. Lei vi aveva tenuto il broncio per tutta la durata del viaggio, finché non eravate atterrati ad Atene e avevate fatto ritorno al Santuario. Solo allora, quando lei aveva realizzato e, quando avevate ritrovato Shura (che stava andando in missione), Aiolia, Shun, Hyoga con Natasha e gli altri, la tristezza aveva abbandonato il suo volto e lei era corsa ad abbracciarli tutti.
Shaina che aveva indossato la maschera, ti aveva dato una gomitata e ti aveva detto, scherzosa: «E, tu che pensavi che sarebbe stata giù tutto il tempo».
Quel giorno foste chiamati dalla Dea in separata sede. Il messaggero aveva espressamente richiesto la presenza di Yoshino. Così, indossasti la tua Armatura e l’accompagnasti al cospetto di Lady Isabel. «Dove stiamo andando, papà?» Aveva domandato la tua bambina, infilata nel suo vestito più elegante. Dato il posto e visto che avreste incontrato la sovrana di Grecia, aveva pensato di fare una buona impressione. «Andiamo a conferire con la Dea di questo Santuario, piccola mia». Ebbe finalmente modo di conoscere una delle due Atena dell’altra dimensione. Quale era stata la sorpresa di Yoshino nel trovarsi davanti a Lady Isabel. Tu ti eri inginocchiato ma Yoshino era rimasta in piedi e la vostra Dea si era alzata dal trono ed era venuta incontro alla tua bambina con un dolce sorriso materno. «Yoshino Hino», l’aveva salutata, «E’un piacere conoscerti».

Death Mask
Aphrodite andò a trovarla anche per te quella mattina stessa che il vostro volo venne cancellato. Lo sapevi perché avevi sentito i pensieri del tuo commilitone e, curioso, ti eri messo a spiare. Anche perché non avevate niente da fare qui. Eravate in aeroporto e non aveva senso tornare indietro. E, lì, cominciasti a borbottare imprecazioni in coro con gli italiani presenti.
Ormai stavi cominciando a diventare un esperto a riconoscere la nazionalità delle persone in base a piccoli dettagli come imprecazioni, modi di dire, cibi e profumi. Era un gioco che, paradossalmente ti aveva insegnato Shura. Paradossalmente in relatività. Anche perché amava davvero viaggiare e fare il turista. I fatti di Tokyo la dicevano tutta, anche se sembrava la fiera dello stereotipo da parte di Shura. Per te, invece, era una gran rottura. Soprattutto quando si presentavano questi inconvenienti e potevi anche sognarti di fumare una sigaretta. Comunque se facevano questo erano americani, se stavano così erano cinesi, se invece facevano il “Grumo fluido” erano italiani. Che, detta così sembra l’altro nome poco conosciuto della diarrea. Invece, era, banalmente, il modo in cui gli italiani stavano in fila. Sottile arte imparata all’asilo e dimenticata alle elementari. Questa strana e complessa figura geometrica, consisteva nel muoversi tutti in gruppo e adattarsi allo spazio in cui si ci si trovava. e, se avevi la fortuna di conoscere qualcuno all’interno, potevi unirti a loro. Grumo fluido.
Santa Atena, persino i fuochi fatui con cui stavi giocando in questo momento sapevano disporsi in fila meglio di quelli lì! Infatti, a spregio, avevi fatto disporre quei fuochi accanto a loro in una precisa fila indiana e li osservavi sghignazzando neanche avessi nascosto una bomba sotto uno dei sedili di quella sala d’aspetto. Li stessi dove vi trovavate voi. Tu con le braccia incrociate, le gambe accavallate, la stizza dipinta in volto e la gamba che ti ballava su e giù borbottando: «Ma quanto ci vuole?»
Shura era accomodato accanto a te. Le mani infilate nelle tasche della giacca nera e gli occhi chiusi. Il capo quasi reclinato all’indietro. Poverino, cercava di ignorarti come meglio poteva, cioè, ascoltando musica all’mp3 che si era comprato ad Atene e che aveva caricato di canzoni a Rodorio. «Smettila o chiameranno la sicurezza», si era limitato a sibilarti a occhi chiusi.
Gli lanciasti un’occhiataccia: «Ma tu non stai ascoltando della musica? E, allora concentrati su quella!»
«Lo farei, ma c’è un cane rabbioso seduto accanto a me che non fa che grugnire e ringhiare contro l’aeroporto e il disgraziato pilota del nostro volo e io ho l’udito fine». Ribatté con un sospiro rassegnato.
«Stacci tu ventiquattro ore su ventiquattro senza fumarti una sigaretta!» Ringhiasti ben conscio che non ci sarebbe stata nessuna discola a porgerti delle sigarette usate a mo’di ringraziamento per aver salvato la sua vita e quella della papera artica che le faceva da padre.
«Grazie ad Atena che bevo e basta, allora». Ribatté serafico. Se non fosse che di indiano aveva solo il nome avresti giurato che Atena ti avesse affibbiato un redivivo Shaka come partner per la missione.
«Ah, vado a farmi un giro». Decretasti alzandoti.
Lui raddrizzò il capo e ti seguì con lo sguardo: «Dove?» Ti chiese.
«Alla libreria dell’aeroporto, magari trovo qualcosa d’interessante da sfogliare». E, infatti, alla libreria ci andasti. Lì, curiosando nella sezione esoterica della zona, trovasti un mucchio di ciarpame e un manuale di Tarocchi sì, ma degli Angeli. Angeli che vi parlano, angeli in mezzo a noi e bla bla bla. Tu ci avevi combattuto con gli Angeli, tu combattevi per gli Dèi. Ed erano completamente differenti da quelli che i civili pregavano e credevano. Invece, abbondavano manuali di magia pratica e paganesimo. Anche qui facesti un sorrisetto divertito. Se solo avessero saputo…
Non avevi mai messo piede in questa sezione (diciamo scansia, considerando il posto) ma stavi già ridendo. Avevi la bocca piegata nel tuo solito ghigno beffardo. Prendesti uno dei libri e cominciasti a sfogliarlo solo per scoprirci non solo incantesimi, spiegazioni sull’energia eccetera eccetera, ma che la chiromanzia e la cartomanzia erano pratiche magiche divinatorie. Il tuo ghigno si spense del tutto. Magia? Astrid era riuscita a leggerti dentro nonostante le tue difese e il tuo Cosmo perché aveva usato la magia? Se tu fossi stato qualcun altro avresti riso a crepapelle. Il problema era che tu per principio non potevi ridere di questo, né di quello che ti era successo. “Ah, già” e, ti ricordasti di ciò che aveva visto e portato alla luce Astrid.
Magia.
Se così fosse, chi le aveva insegnato? Come funzionava? Perché? Scuotesti il capo e chiudesti il libro per riporlo al suo posto con insolita delicatezza. Delicatezza? Tu ce lo avresti sbattuto senza pensarci due volte! Cos’era questo riguardo? Questa cura? Perché ti sembrava che tutti i libri avessero gli occhi puntati su di te? Un momento, ma da quando in qua i libri hanno gli occhi? Che fosse uno scherzo dei fuochi fatui? Li invitasti a uscire dai loro nascondigli e, scopristi di essere solo. Ma allora chi era che ti stava guardando a questo modo? Abbassasti gli occhi sui libri e, capisti che quello sguardo calmo e pieno di saggezza ma anche ironia, proveniva da loro. Uscisti dalla libreria e tornasti da Shura, il quale, quando ti accomodasti, ti accolse con un: «Già di ritorno?»
«Sta zitto e passami una cuffia, un po’di musica mi rilasserà». Dicesti. Normalmente non gliel’avresti mai chiesto, ma c’era solo lui disponibile a fornirti gratis della musica. «D’accordo». Ciò detto ti passò l’auricolare.

La luna piena illuminava con la sua luce ogni tratto, addolcendo così il buio della notte e dell’aeroporto dove vi trovavate da quasi dodici ore e passa. In realtà non stavi neanche guardando veramente il satellite che orbitava attorno al pianeta.
Anche se era estate e il sole calava più tardi, ti sembrava di averci fatto la muffa, su quelle seggiole. Eravate accomodati sulle poltrone nella zona d’attesa d’Atene. Molti altri passeggeri vi attorniavano con il loro cicaleccio e il lucore dei telefoni cinguettanti. Diciamo che la vitalità non mancava mai in quei posti. Se non fosse stato per le creature e il divieto della Dea di mettere a repentaglio la vostra vita col Cosmo, vi sareste già teletrasportati fino alla méta.
Vi eravate portati dietro pochi bagagli. Il Pandora-Box lo avevate lasciato nelle vostre Case, perché tanto le vostre Armature vi avrebbero raggiunto alla velocità della luce in caso di necessità. Inoltre, cominciava a essere un po’ fastidioso portarsi dietro quegli scrigni, soprattutto adesso con l’invasione delle nuove tecnologie.
A proposito di invasioni, cosa voleva Aphrodite? Apristi la mente e lasciasti che ti passasse questo ricordo. Astrid seduta sul letto con lo sguardo basso che diceva: “Dì a Death Mask che lo saluto anch’io”. Aphrodite curvò la bella bocca in un sorrisetto e aveva annuito. Bene, ora l’aveva fatto. Però ti trasmise anche l’impressione che lei sapesse che potevi udirla, grazie alla telepatia. Anche questo era un buon segno, stando a Shun aveva corso il rischio di un ritardo mentale e la rimozione di alcuni ricordi. Aphrodite però trovava bello, perciò che avesse conservato qualche ricordo della tua lettura. “Che allegria”, pensasti.
“Senz’altro”. Poi la salutò di nuovo sorridendole da sopra una spalla. “Sentito Death?” Pensò come se sapesse che stavi ascoltando. Tu, in aeroporto da una giornata intera, gli rispondesti con uno dei tuoi versi e il tuo solito tono brusco “Sì, sì, va bene, ora non farmi incazzare anche te.” Soffocò una risata divertita poi chiuse le comunicazioni.
«Cos’era quel sospiro?» Ti chiese Shura spaparanzato sulla sua scomoda sedia, le gambe lunghe incrociate così come le braccia.
«Cosa? Quale sospiro?» Domandasti, accigliandoti, per rifilargli un truce sguardo intimidatorio. Lo spagnolo non si lasciò impressionare ma anzi, desiderò approfondire la questione. «Lo sai, quel sospiro, cosa hai sentito?» Ovvio che anche lui era a conoscenza dei tuoi poteri telepatici. Volendo, anche lui sapeva usare la telepatia e la telecinesi, ma non gliene fregava più di tanto. Non era nel suo stile avvalersi di quelle tecniche come te o Mur.
«Niente che ti riguardi, adesso concentrati sulla missione, altrimenti questi Cavalieri Neri non li cattureremo mai».
Il tuo compagno d’arme fece un mezzo sorriso e guardò altrove. Facile a dirsi adesso, che vi trovavate ancora in aeroporto, causa un ritardo del vostro volo per perturbazione, vero, Death?

Aiolia
Il tuo sguardo vagò sull’arena e scorgesti Seiya che stava ancora fissando Shaina con occhi stralunati. Sembrava che stesse cercando di dirle qualcosa, il problema era che non si capiva cosa. Se era per via che erano anni che non si vedevano, o per via del fatto che l’armatura della Saint dell’Ophiuco era molto diversa da quella che il giovane si ricordava, non avresti saputo dirlo. A parte tutti coloro che non si trovavano a stretto contatto con luoghi come il Santuario o Atena stessa, e, che non sapevano come usare il Cosmo per mantenersi giovani e attivi, o che non gli interessava, erano invecchiati. Lo stesso era accaduto a Shaina e anche ad Aldebaran. Kiki invece rappresentava un’eccezione: lui apparteneva a quella categoria di persone che non dimostra la sua vera età nemmeno se le sfiguri. A proposito, chissà dov’era? «Qualcuno gli chiuda la bocca, prima che ci entrino le mosche». Supplicò Aphrodite che aveva continuato a fissarlo con aria preoccupata fino a quel momento. Seiya parve riscuotersi dal suo stato di shock e la richiuse immediatamente. Shaina, Aldebaran e molti altri volsero il viso nella direzione dello sfortunato Saint, il quale arrossì e distolse lo sguardo. Per ordine tassativo di Shun, Seiya non avrebbe combattuto finché non lo avrebbe visitato. Purtroppo Shun si sentiva in colpa nei confronti di Seiya in quanto tramite (?) - o almeno credevi che fosse - del Dio Infero. Anche se la storia non ti convinceva appieno. Quando cercavi di scandagliare il Cosmo del tuo compagno, non trovavi altro che il Cosmo di un Cavaliere d’Oro. Ovviamente Seiya ti aveva raccontato del tormento che erano le premure del fratello, ma non ci avevi fatto granché caso. Se Shun insisteva nel volerlo visitare per controllare che stesse bene, allora ne aveva tutto il diritto.
Tornasti a pensare alla tua situazione sentimentale. Anche tu ti trovavi in una situazione simile a quella di Seiya, solo che sapevi benissimo, a differenza del nuovo Gold di Sagitter, che Lyfia era continuata a invecchiare. Già, non avevi più pensato a lei da quando eri tornato in vita. Pensarci ti ricordava il periodo trascorso ad Asgard e non amavi ricordarlo. Ormai, poi, Lyfia aveva continuato la tua vita. Ricordavi ancora come aveva tentato di dichiararsi, ma la morte, impietosa, ti aveva sottratto alla vita prima che potesse riuscirci. Eri sicuro che avesse pianto. Ma anche tu lo avresti fatto, se fossi stato ancora vivo. Poi, ti eri risvegliato nel tuo letto alla Quinta Casa, vegliato dai visi dei tuoi fedeli servitori.
Ti domandasti come stesse la celebrante di Odino. A volte la sera ti mettevi a osservare l’Orsa Maggiore pensando proprio a lei. Ma non avevi trovato il coraggio di andare a trovarla. Né, tantomeno, di chiedere il permesso al Portavoce di Atena o la Dea stessa.
«Su, Aldebaran, vediamo se ti ricordi ancora come si combatte.» Sorridesti al tuo compagno d’arme che sorrise apertamente. Divertito dal tuo entusiasmo.

Shura
Ti era molto dispiaciuto non poter andare in vacanza con i tuoi amici, ma, dopo i risvolti di aprile, non eri più così tanto propenso a dispiacerti per loro. Quello che era accaduto era molto grave. Ancora più grave del Chrysos Sinagein. Neppure Cocteau aveva saputo darti qualche informazione più esauriente a proposito di Astrid. Non ti eri preoccupato particolarmente di andare a visitarla, anche perché non ti interessava e, poi, ti dicevi, che tanto l’avresti incontrata di lì a poco. Il tuo di lì a poco si era esaurito il giorno della partenza dopo aver salutato Yoshino, la sua famiglia, Aiolia, Milo e i Cavalieri d’Ariete. Poi i Bronze e Shiryu. L’unico che non avevi trovato era stato Aphrodite ed eri andato a cercarlo. Facendo leva sul tuo Cosmo lo individuasti e lo raggiungesti in infermeria. “Che ci fa qui?” Pensasti confuso.
Fu lì che la vedesti per la prima volta. Addormentata e ancora con il gesso alla schiena. Bella, innegabilmente fragile; persino più di Atena e Yoshino ma quasi identica al tuo ex vicino di Casa. Ma, anche tu non potesti fare a meno che, a parte la carnagione e i capelli, fosse la copia sputata del defunto maestro di Hyoga. La differenza era che lei non aveva le sopracciglia biforcute e che era bionda. Ti vennero un paio di dubbi in proposito, ma preferisti tenerli per te. «E, no, non ti sbagli, anche noi l’abbiamo pensato quando l’abbiamo vista la prima volta». Disse il Saint indovinando i tuoi pensieri. «Aspetta che la veda Milo, chissà come reagirà». Aggiunse poi, preoccupato. Però nessuno di voi volle informarlo, per quanto foste tutti legati dalla fratellanza dei Saint, non era compito vostro e temevate di riaprire una ferita.
Stavolta non c’erano dubbi sulla natura prettamente umana della vostra ospite o sequestrata? Dal punto di vista legale era un sequestro di persona bello e buono, ma se era stata la Dea stessa a ordinarlo allora tu dovevi stare zitto e fare il tuo dovere di Gold Saint. Quando Aphrodite ti aveva raccontato più dettagliatamente quello che gli era successo, ti eri accigliato. Non ci avevi creduto granché ma lo conoscevi abbastanza per poterti fidare di lui. Non amava scherzare; non in quelle situazioni.

Eravate arrivati in poco tempo grazie al vostro volo che poi era finalmente decollato. E, meno male, ti si stava scaricando la batteria. Certo che la vostra Dea avrebbe potuto farvi viaggiare con il suo aereo privato. Dopotutto a che serve la velocità della luce se la tua Dea è rinata in una miliardaria con tanto di compagnia aerea che può mettere a disposizione dei suoi sottoposti? Peccato solo che voialtri non faceste parte della sua rosa di fedelissimi che usufruivano di questi vantaggi.

Che strana coincidenza. Tu che avevi sfogliato l’atlante geografico e avevi soggiornato in Giappone abbastanza da documentarti (avevi persino programmato di andarci a vivere), non avresti mai pensato di ritrovarti di nuovo in Spagna, il tuo Paese natio e luogo del tuo addestramento prima della prova finale. Un po’ti era mancato, come ti era mancato non poterti esprimerti in spagnolo. Anche perché al Santuario parlavate tutti greco. Ma quello che ti sorprendeva e un po’ti inquietava anche, era che adesso Death Mask stava... mugolando? La cosa che ti sorprendeva, era che conoscevi a grandi linee quella melodia. La cosa che t’inquietava era che non avresti mai pensato che anche lui la conoscesse, insomma, non credevi neanche un po’che fosse un fan di Enya. Gli desti un colpetto col gomito e lui s’interruppe e ti guardò. «Che c’è?» Sbottò con il suo solito tono incazzato.
«Niente, stavi cantando».
«Io?» Disse stupito, togliendosi dalla faccia la sua espressione accigliata e scazzata. A volte ti ricordava Aiolia quando era adolescente. Con quei capelli tinti e quel piercing che lo rendevano ancora più insopportabile. Se tu fossi stato più impulsivo lo avresti conciato per le feste giusto per dare un senso alla sua espressione. Anche se, dovevi rammentare a te stesso, che era stata colpa tua quella metamorfosi. Se era tornato parzialmente normale era stato merito dei fatti dei Senza Volto e della farsa di torneo organizzata dall’Aiolos dell’altra dimensione. Poi, avevi risanato la sua ferita chiedendogli scusa durante la battaglia contro Loki. Ferita completamente rimarginatasi grazie ad Aiolos stesso.
Eppure qualcosa non andava.
«Shura, so fare tante cose, ma cantare non rientra tra queste». Ti assicurò il siciliano, che prese a frugarsi in tasca e poi estrasse un pacchetto di sigarette. Se ne portò una alle labbra e se l’accese. Poi cominciò a fumare. Aveva dovuto trattenersi per tutta la notte in aeroporto prima e durante il volo poi. Adesso stava recuperando il tempo perduto. Non amavi l’odore delle sigarette ma non gliene facevi un dramma. D’altronde sapevano tutti che tu bevevi ogni tanto. In Giappone, però, non avevi potuto a causa del fatto che dimostravi molti meno anni dei tuoi venti. Peccato. «Infatti, mi stavo domandando dove avessi imparato questa canzone».
«Quale canzone?»
«Non saprei il titolo, ma se ti dico il nome dell’artista rimarresti sorpreso».
«Perché, non rientra nei miei gusti?» Ti chiese.
Scrollasti le spalle: «Francamente non so neanche quali siano i tuoi gusti musicali». Rispondesti mentre vi avviavate al vostro albergo.
Death Mask sciorinò qualche frase in siciliano e, poi ti chiese a che cosa ti stessi riferendo, alzando la voce di qualche ottava. Per tutta risposta cercasti di emulare il suo mugolio. Lui ti guardò turbato. Non tanto per il fatto che tu stessi cantando, quanto invece, per il fatto che sembrava che stessi belando, dando fede al tuo nome. In effetti, adesso ti avrebbe schernito senza pietà con la sua malizia. Peccato che, a causa della vostra amicizia, della somiglianza linguistica di base e lo studio dei vari idiomi del mondo che vi avevano fatto conseguire, l’italiano lo capivi benissimo.
Come previsto, prese a farti il verso, sembrando ancor più scemo e strafottente di quanto già non fosse.

“Strano”. «Cosa?» Ti domandò Death accorgendosi della tua espressione.
«L’isola non dovrebbe essere messa a ferro e fuoco?» Chiedesti osservando il panorama e, non c’era niente che non andasse.
«Allora non me lo sono immaginato. Mi sembrava tutto normale. C’è qualcosa che non torna». Ammise.
«Un’illusione?»
«Non avverto niente di tutto ciò».
«Magari hanno azzerato il Cosmo».
«No, se l’azzerano non possono usarlo per creare illusioni. No, Death, qui non c’è nessun’illusione».
«Siamo sicuri che siano qui?»
«La soffiata diceva così, no? Probabilmente si staranno nascondendo, come sempre». Commentasti.
Poi raggiungeste il vostro albergo. Un piccolo schifoso albergo a due stelle, malandata e che aveva visto tempi migliori, disfaceste le valige e vi separaste per effettuare un giro di perlustrazione dell’isola. Mentre tu eri attento a ogni piccolo dettaglio, ormai in modalità di Cavaliere ligio al proprio dovere, l’altro ti contattò con la mente per farti una domanda che ti restò impressa molto a lungo: “Mi illumini su un argomento?” Questa era nuova, Death Mask che chiede spiegazioni. “Va bene” e lo invitasti a proseguire, curioso tuo malgrado, anche se non lo desti a vedere. “Cosa sai della chiromanzia?” Sgranasti gli occhi e ti ricomponesti: “Scusami? Non credo di aver afferrato...” Il tuo amico balbettò qualcosa che intendessi come: “sono sciocchezze”, però, era veramente curioso di saperlo per questo attendesti che si decidesse a parlare. Alla fine ce la fece a formulare una frase di senso compiuto: “Ma sì, la chiromanzia, tu che sei spagnolo dovresti sapere qualcosa in merito a queste arti”. Stava per dire tecniche, ma si era corretto.
Evitasti di dirgli che quello era uno stereotipo bello e buono perché tu, anche se nativo di qui, non era che ne sapessi moltissimo. “Bè, qualcosa so, ma sono tutte superstizioni, perché me lo chiedi?” “Perché Astrid, quella in infermeria, hai presente? È una chiromante”. Ti ci volle un po’per ricordarti che la vostra nuova custodita si chiamava così. Poi non era che i tuoi amici ne parlassero molto spesso. A malapena eri riuscito a scoprire dove si rifugiava Aphrodite. “Ah, ma non l’aveva detto Atena?”
“Sì, ma non ha usato queste parole”.
“Continuo a non capire dove vuoi andare a parare.” ammettesti e ti fermasti sulla scogliera. Le onde che si infrangevano sugli scogli modulavano una colonna sonora di salsedine che erodeva la terraferma. Il Cavaliere del Cancro sospirò: “Sai che lei mi ha letto la mano, no?”
“Sì, e allora?”
“Allora volevo sapere se questi chiromanti imparano così o c’è un Santuario che tramanda queste tecniche.” ti scappò da ridere. Anche se mentalmente riuscisti a percepire l’occhiataccia fulminante dell’italiano. Il quale cominciò a sbottare che era serio e che dovevi smetterla di prenderlo per i fondelli. “Che c’è da ridere? Guarda che non c’è niente da ridere, sono serissimo. Ah, ma che parlo a fare, sei ancora rintronato dalla febbre, la Dea poteva anche risparmiarsi di mandarti in missione”. Continuasti a camminare, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni scuri che indossavi.
“Sicuro, così chissà come andrà a finire, dai su, Death, non te la prendere, ho capito quello che stai dicendo, ma, secondo me è un tantino esagerato; in vita mia non ho mai sentito parlare di una chiromante capace di tanto. Però posso garantirti che la chiromanzia appartiene a un genere completamente diverso di manipolazione del Cosmo da quello che usiamo noi”.
“Ah, sì?” Approdasti in un bar che si stava preparando per la notte. Era risaputo che quei luoghi vivevano della movida spagnola. Ordinasti un aperitivo e approfittasti anche del buffet, assieme agli altri clienti. Almeno qui potevi bere, non come in Giappone, che, a causa del tuo aspetto di sedicenne non ti era stato concesso neanche il sakè. Grazie al cielo avevi recuperato il tuo vero aspetto di ventenne. Però il sakè in Giappone non avevi potuto assaporarlo lo stesso.
“In un certo senso si somigliano perché vanno a braccetto con la religione, un po’come noi, solo che i chiromanti sono solitari e si occupano solo di divinare il futuro, non formeranno mai un esercito a difesa della giustizia. La Spagna ha una lunga tradizione alle spalle su quest’argomento, proprio a causa dei gitani. Sono loro che hanno importato la lettura della mano e delle carte nel territorio e oltre, poi c’è tutto il ramo dedicato all’astrologia…” Dicesti sorprendendo persino te stesso. E, dire, che non pensavi di saperne veramente così tanto. Il tuo collega ti bloccò: “Ho capito, ho capito, grazie”. Sorridesti sotto ai baffi e finisti il tuo drink. Death, che si trovava dall’altra parte del bar e, aveva l’aria di essere lì da tanto, si scolò la birra e, poi, ti domandò, avvicinandosi: «Ma se invece del futuro, questa donna mi leggesse il passato?»
«Il passato?» Chiedesti incuriosito raddrizzandoti gli occhiali sul naso. Con la coda dell’occhio notasti che buona parte della clientela di ambo i sessi era intenta a fissarvi. Ti sentisti lusingato ma non eri lì per divertirti. Death invece non se li filò neanche di striscio. «Sì, il passato e, ci azzeccasse dall’inizio alla fine?» Avevi capito che si riferiva ad Astrid. «Sì, l’ho vista. Non mi è parsa una minaccia». «Neanche Yoshino lo sembrava».
«Yoshino non era Tomoe». Gli ricordasti. Avevi incontrato anche tu la gemella dell’altra Atena, solo che alla fine Yoshino era rimasta in questa realtà e aveva scelto di continuare a vivere come una ragazza normale. «Questo è… non saprei neanch’io come definirlo». Ammettesti. Il tuo amico si accomodò sul trespolo accanto al tuo e ordinò dell’altra birra. Quella sera sareste andati a stanare i Cavalieri Neri.

Astrid
Mugolavo. A volte stare in quella stanza senza fare niente era veramente noioso. Se cercavo di addormentarmi la mia mente si metteva a vagare per poi tornare al momento del pestaggio e del mio rapimento, procurandomi altri attacchi d’isteria. Mi sentivo fragile come il vetro e danneggiata come... non saprei neanche dire io cosa. Se non fosse stato per le infermiere che, quando finivano i turni, a volte mi facevano compagnia e per le visite di Mur e Kiki, forse sarei completamente impazzita, in balia del trauma che avevo subito.
Alla fine mi ero ricordata che il potere dei tarocchi è molto selettivo. Infatti, io l'avevo usato per non essere ammazzata da Death Mask, ma non avevo considerato un'aggressione da parte degli Specter. Per questo l'incantesimo era stato vanificato, oppure no? Magari non ero proprio riuscita a eseguirlo correttamente. Non lo sapevo, ma non mi piaceva pensarci. 
L’unica cosa che mi dava un po’di conforto, era mugolare. Esisteva una canzone che era raggiungibile persino per le mie corde vocali. Era Boadicea di Enya. Era una canzone molto particolare, essendo composta dal solo humming, però, come ho detto, riusciva a tranquillizzarmi. Avevo sentito dire da qualche parte che i violini fossero un ottimo palliativo per alleviare le emozioni forti. Ma qui non avevamo violini a disposizione e, dubitavo fortemente che qualcuno sarebbe venuto da me a suonarmi qualcosa. Quindi, l’unica cosa che potevo fare, era canticchiare quella canzone. Inoltre, mi era sempre piaciuta la figura di Boadicea e l’ammiravo. Sollevai le mani e le guardai. I raggi del sole colpirono la mia pelle intatta. Ancora non ci credevo che mi avevano guarita completamente. Castalia aveva cercato di spiegarmi come erano riusciti a risanarmi, ma non ci avevo capito granché. Sebbene le informazioni lasciatemi da Death Mask fossero state più che esaurienti. Mossi le braccia a emulare la melodia che mi risuonava nella testa. Non era come una danza, però era quanto di più simile avrei mai potuto fare. Almeno in quelle condizioni. Le abbassai e smisi di mugolare. Ormai la mia mente si era fissata sulla canzone, perciò me la ripropose a ripetizione in una sorta di infinito loop e, così, mi addormentai.
Mi ritrovai in mezzo al sogno senza neanche sapere come c’ero arrivata. Tutto attorno a me era grigio e nebbioso. Mi era già capitato altre volte di alzarmi al mattino con la nebbia. Ma questa era diversa. Anche perché, non mi ricordavo di trovarmi in una palude. L’erba secca ai miei piedi era gialla e il terreno era leggermente bruciacchiato. Sulla mia testa c’era il cielo plumbeo che ricordavo. La differenza con quello della volta scorsa era che era puntellato qui e là di macchie di luce, sufficientemente forti da imbiancare le nubi ma non di trapassarle completamente. Indossavo la camicia da notte e nelle mie narici entrava il profumo della salsedine e della cenere. Lo stesso che avevo sentito quando c’erano le creature.
Poi, vidi anche il fumo. Era diverso da quello che avevo visto nell’altro sogno. Questo era bianco ed era identico a quello emanato dai bastoncini d’incenso. Mi guardai attorno cercandone l’origine, ma non la trovai. In compenso la nebbia si alzò e il fumo assunse i tratti di figure a cavallo. Celti e Iceni, per la precisione, poi, mi accorsi che oltre la fanteria c’erano anche soldati a piedi. Quelli mi oltrepassarono e io li seguii come trasportata dal vento. Anzi, scoprii proprio di poter fluttuare come loro. Come una sorta di dama bianca versione onirica. Tutto attorno a me sentivo ancora rimbombare Boadicea. Salvo poi scoprire che ero io a emettere quel suono simile a un inquietante lamento.
E, fu allora che mi fermai su una rupe tra i pini. Non riconoscevo questo posto. Sapevo e vedevo il mare e la città, ma non avevo mai visto questo luogo. Ma si sa, a volte i sogni giocano strani scherzi.
Poi sentii i rumori di lotta.
Mi volsi nella direzione da cui provenivano e vidi le creature. Dietro di me, invece, mi stava raggiungendo un ragazzo dall’aria truce e l’armatura completamente nera. Sgranai gli occhi e, per lo spavento, mi svegliai nel mio letto in infermeria. Mi ci volle un po’per calmarmi. Mi portai una mano sul cuore, che batteva all’impazzata e poi, sentii un frullo d’ali che mi fece alzare a sedere di scatto. Sussultai e vidi un gufetto volarsene via dal davanzale della finestra. Dovevo averlo spaventato. «Però… è la prima volta che ho un incontro ravvicinato con un gufo». Cercai di sdrammatizzare, prima che fossi assalita dall’ennesima crisi isterica che fece accorrere le infermiere.

Shura
Non sapevi se la colpa era dei drink che avevi bevuto o se era qualcos’altro. Fatto sta, che la canzone mugolata da Death Mask ti era rimasta impressa. Il che era strano, non ti era mai capitata una cosa simile, prima d’ora. Non era la prima volta che un dato avvenimento ti rimaneva impresso nella memoria, ma mai una melodia così a ripetizione. Neanche fosse il nuovo tormentone estivo dell’anno. Non sapevi cosa pensare, prima di formulare un giudizio o un’opinione, aspettavi sempre qualche secondo per non sbagliarti, anche se, ovviamente, non eri immune alle figuracce. Solo che, con la tua discrezione e la tua compostezza, passavano quasi inosservate. Alla fine, eravate riusciti a raccogliere qualche informazione dalla polizia. Dopo il giro di ricognizione e la prima sera trascorsa lì, vi eravate recati in questura. C’era voluto un po’per farvi dare retta, soprattutto perché qualche scettico non credeva alla Storia del Grande Tempio. Ma quando avevate menzionato la Fondazione Grado allora le cose erano cambiate.
A te non faceva né caldo né freddo sfruttare il nome della Fondazione gestita da Atena. Credevi anche, che alcuni di loro fossero a conoscenza del fatto che tu eri un assassino del Grande Tempio, solo che non volevano avere a che fare con te. Altrimenti non avrebbero esitato ad ammanettarti. Ovviamente non l’avresti mai lasciati fare. Ma se si affidavano soprattutto a te (perché Death era stato mandato con te per supportarti, più che per aiutarti, in quanto ancora un po’convalescente), allora dovevano essere veramente nei guai fino al collo. Per fortuna che non avevi clienti né prezzi, altrimenti avresti proprio voluto vederli, questi poveracci, a pagarti. Erano pensieri amari da formulare, ma erano la verità. Poi, ormai c’eri abituato, l’amarezza faceva parte della tua vita da molto tempo.
Quella sera, dopo aver rifiutato qualche numero di telefono e altre avance, vi metteste al lavoro e, usando il vostro Cosmo, vi recaste alla base dei Cavalieri Neri. Richiamaste le vostre sacre vestigia, che subito vi raggiunsero e andaste.
Vi stavate aggirando per le zone quando, a un tratto scorgeste una figura muoversi tra i pini. Death Mask ne avvistò un’altra e vi divideste. Così tu corresti dietro a quello che si rivelò essere la Fenice Nera e cercasti di ostacolarlo in tutti i modi. Non avevate l’ordine di ucciderli però neanche di lasciarli scappare.
Usasti il Jumping Stone per bloccarlo, ma il Cavaliere Nero, un po’per l’attacco e un po’per la paura, inciampò e cadde a terra. Così vi ritrovaste a rimbalzare sull’erba e il sottobosco della pineta. Tu non ti lasciasti distrarre dalla caduta e cominciasti a torchiarlo, ma quando gli ordinasti di portarlo dagli altri, quello ti rispose con una frase che ti spiazzò: «Lo stavo già facendo!» Ma il tuo prigioniero non poté vedere la tua espressione interrogativa e confusa a causa dell’oscurità. Era lui quello immerso nella macchia di luce che filtrava tra le fronde, non tu. Ora che lo guardavi bene, ti accorgesti che non stava mentendo. Anzi, era davvero spaventato, ma non avresti saputo dire se per l’attacco che gli avevi sferrato o se era serio. «Cosa? Vuoi dire che non esiste nessuna rivolta? E, perché non ce l’avete detto prima, invece che farci fare tutta questa fatica?»
Ti allontanasti di qualche passo, sempre restando accovacciato, per metterlo alla prova, ma quello, si limitò a raddrizzarsi, in ginocchio e massaggiarsi il collo. «Non ci avreste mai creduto.» spiegò con voce sofferente.
Ti rialzasti dall’erba e lo guardasti senza capire. «Non ci avremmo mai creduto?» Ripetesti mentre nella tua testa cominciavi a mettere insieme i pezzi.
«Noi siamo i Black Saint, quelli dell’Isola della Regina Nera, coloro che seguivano Ikki di Phoenix per la conquista del mondo». Rispose il tuo interlocutore mentre si rialzava a sua volta. Concordasti con lui e ciò acuì i tuoi sospetti. Che razza di piano avevano architettato? «Venite con me, Cavaliere, vi spiegheremo ogni cosa, ma a una condizione».
«E, sarebbe?»
«Portateci in salvo».

Death Mask
Raggiungesti a tua volta il covo dei Cavalieri Neri. Lì trovasti Shura assieme al Capo dei medesimi.
Impossibile non riconoscere quell’Armatura d’oro in mezzo a tutte quelle corazze nere. «Shura! Ecco dove ti eri cacciato. Mi spieghi che cazzo sta succedendo?» Il tizio che avevi massacrato fino a poco fa ti aveva raccontato una storia strana, anzi no, una frottola in piena regola. Salvo poi indirizzarti qui e svenire subito dopo. Tu l’avevi lasciato lì ma avevi fatto come diceva quando avevi percepito il Cosmo del tuo amico proprio alla tua mèta. Il tuo interlocutore ti guardò mentre il capo banda mandava due sottoposti a recuperare il malcapitato: «Tranquilli, è ancora vivo, non l’ho spedito nella Bocca dell’Ade». Dicesti, poi raggiungesti il tuo collega e ascoltasti la storia che ti riferirono. «E così, sareste scappati dalla vostra isola per colpa di strane creature? Ah, questa è buona.» dicesti alla fine. Salvo poi sbiancare e ammutolire quando l’uomo (ancora pallido al ricordo) te le descrisse.
Shura si accorse del tuo cambiamento e chiese spiegazioni. «Le hai già incontrate?» Domandò.
«Sì». Un brivido di puro terrore ti scosse la schiena e la mente ti restituì il ricordo di quelle creature nere e fluttuanti. L’ultimo ricordo prima che Astrid vi salvasse, ma stavolta, nessuna Astrid vi avrebbe riportati alla vita.
Un refolo di vento freddo ti carezzò la nuca e tu balzasti in piedi scattando come una molla.
«Death Mask?» Ti chiamò Shura, che non ci capiva molto ma intuiva il pericolo incombente se, persino tu, lo strafottente Death Mask, il Custode della Quarta Casa e Cavaliere del Cancro, reagivi così. «Sono ancora qui, dobbiamo sbrigarci». Intervenne allora il capo in seconda dei Black Saint, balzando a sua volta in piedi, che aveva continuato ad assolvere la sua funzione, in quanto sopravvissuto assieme ai pochi altri. «Dobbiamo sbrigarci, subito, svelti, non c’è tempo di raccogliere le vostre cose! Dai l’ordine di recarvi al più presto all’aeroporto! Svelto, non c’è un minuto da perdere!» Ordinasti perentorio, con urgenza nella voce.
«Death…»
«Stanno arrivando, non lo capisci?». Urlasti a Shura mentre i Black Saint, eseguivano gli ordini con la fretta dettata dal panico. Lo stesso che attanagliava le tue viscere. «Percepiscono il Cosmo, ne vengono attirate come il sangue attira gli squali! Si nutrono di quello, dobbiamo sbrigarci ad andare via!» Ciò detto cominciasti a correre anche tu. Shura dall’altra parte della fila ti imitava.
Mentre correvate accadde una cosa che non ti saresti mai riuscito a spiegare per molto tempo. Ti parve di vedere dei cavalieri a cavallo e a piedi, vestiti come i barbari di illustrazioni di libri di storia, fatti di fumo d’incenso correre assieme a voi. Ma solo per pochi istanti che tutto si dissolse. Non facesti in tempo a formulare un pensiero che dovesti girare per evitare il tronco di un albero. Per un attimo ti era parso di scorgere Astrid, i capelli smossi delicatamente dalla brezza della notte, camminare assieme ai fantasmi. Proprio allora ti tornò in mente la canzone che le avevi sentito cantare.

Aiolia
Una strana atmosfera aleggiava sul Grande Tempio da quando Death Mask e Shura erano tornati con tutti i Black Saint raccontando la storia più astrusa che avesti mai udito. «Dunque era davvero tutta una farsa?» Avevi domandato a Shura che aveva annuito, prima di bere un sorso d’acqua. Ti eri trattenuto a cena da lui quella sera per saperne un po’di più e tutto ti saresti aspettato fuorché questo.«Che sia un’altra trappola?» Avevi chiesto dopo aver inghiottito il boccone. «Non sono così astuti». Aveva ribattuto lo spagnolo. «Io non mi farei troppe illusioni, non ho visto tracce di menzogna né nelle loro azioni, né nelle loro parole».
«Quindi tu credi che stessero davvero scappando?»
«Sì».
«Il problema con le creature sta peggiorando». Mormorasti.
«Così sembrerebbe anche se io non le ho ancora incontrate, come sono?»
«E’difficile da spiegare, sembrano dei fantasmi neri, di quelli che vedresti bene in un horror, ma non hanno una faccia e di loro si vedono solo le mani scheletriche e affilate».
«Sembrano pericolose». Commentò.
«Lo sono. Pensa a degli squali, loro si comportano quasi alla stessa maniera. La differenza è che bramano il Cosmo».
«Già, tu stavi facendo delle ricerche su di loro, a che punto sei?»
«Ancora in alto mare. Non capisco che cosa vogliano, perché siano comparse adesso e non prima e cosa stia succedendo». Il tuo interlocutore mangiò finì il cibo nel suo piatto prima di alzare gli occhi su di te e domandarti: «E, il fatto che le stelle stiano scomparendo non ti preoccupa?»
«Al momento mi preoccupano di più le persone che scompaiono per mano di quegli esseri». Rispondesti. “E Atena”, pensasti. Ormai la notizia delle creature si era sparsa per tutto il Santuario. Ovvio che te ne eri accorto, anzi, eri stato uno dei primi ad accorgertene. Anche se eri un uomo d’azione, non significava che non percepivi il turbamento dei Cosmi attorno a te e l’aria di tensione che si respirava.

La situazione non era certo migliorata dal fatto che Lythos non si trovasse da tutta la mattina. Chissà dove si era andata a cacciare? Sperasti che non le fosse successo niente di male, e, scacciasti il ricordo del suo rapimento per opera dei Titani. Non poteva succedere di nuovo, non l’avresti mai permesso.
Già pioveva a dirotto, ma per fortuna, quelli erano solo acquazzoni estivi, per cui duravano poco e non c’erano problemi di alcun tipo. «Ciao, Aiolia, cosa ci fai sotto la pioggia?» Ti domandò la voce sorridente dell’ex Bronze di Pegasus. Mettesti a fuoco il paesaggio e ti accorgesti che i tuoi passi ti avevano portato sulla soglia della Nona.
Seiya dal canto suo, era seduto sulla soglia e ti osservava preoccupato. «Ah, dovevo essere soprappensiero, non mi ero neanche accorto di essere giunto fin qui». Rispondesti.
«Va tutto bene? Sta succedendo qualcosa?» Ti chiese apprensivo mettendo da parte lo strumento. Poi ti seguì con lo sguardo mentre tu ti rifugiavi sotto l’architrave, al riparo dalle gocce. Ti sfuggì uno starnuto, poi rispondesti. «Non lo so, sto cercando di capirlo. Tu, piuttosto, non hai niente da dirmi?» Era nella tua indole comportarti da fratello maggiore con lui e con Lythos. Per il Saint di Pegasus, poi, era risaputo che avevi una predilezione, rispetto a tutte le altre reclute. In un certo senso la sua caparbietà e testardaggine ti facevano tenerezza. Ti accomodasti accanto a lui. «Io? A proposito di che?» Chiese riprendendo la chitarra e sfiorandone le corde con le dita. Non sapevi che sapesse suonare fino a cinque secondi fa. Avevi recepito appena le parole della canzone, abbastanza per riconoscerne la lingua. Il giapponese lo capivi abbastanza bene, ma, non riuscivi a esprimerti altrettanto correttamente. «Cosa stavi suonando?» Domandasti per cambiare discorso. «Un brano di Okinawa». Ti rispose e poi aggiunse: «Non ho mai avuto modo di suonare molto spesso durante l’addestramento e, quando ho voglia di rilassarmi, suono, anche se non sono molto bravo, faccio del mio meglio». A te non era mai importato granché della musica, a dirla tutta, non avevi neanche mai preso in mano uno strumento musicale in tutta la tua vita. Stavi per tornare al discorso principale quando Lythos sbucò dalla porta della Nona e domandò perché avesse smesso, prima di scorgerti. La guardasti sorpreso. Forse con la stessa espressione di quando avevi scoperto che era una ragazza e non un ragazzo. Lei dal canto suo disse: «Padroncino Aiolia, non vi avevo sentito arrivare».
«Vedo, cosa ci fai qui, Lythos?»
«Seiya mi aveva chiesto aiuto con le pulizie visto che Koga è stato requisito dalla Sacerdotessa d’Ophiucus per gli allenamenti, ma si è scoperto un po’negato per le faccende domestiche e, così ha lasciato fare tutto a me. Per alleviarmi un po’la fatica ha deciso di suonarmi qualcosa». Spiegò diligentemente la tua serva chiacchierona. In effetti, ora che ci facevi caso, aveva anche una ramazza in mano. «Spero che non vi dispiaccia.» s’affrettò ad aggiungere.
«Non preoccuparti, se te l’ha chiesto Seiya non c’è alcun problema, ma la prossima volta gradirei essere avvertito per tempo. Ti ho cercata per tutta Rodorio.» L’ammonisti con un’occhiata severa. Seiya cercò di prendere le difese della tua sorellina ma quest’ultima lo bloccò con un sorriso: «Va bene, ma anch’io non vi trovavo, per questo sono venuta direttamente qui». Non amavi mettere molto spesso piede in questo posto, per quanto amassi tuo fratello. Le parole di Lythos ti riportarono alla realtà e la guardasti battendo le palpebre, sorpreso: «Cosa? Anche tu mi hai cercato?»
«Bè, certo.» Disse la serva. Chiudesti la bocca che non ti eri accorto di aver aperto. «Venite dentro ad asciugarvi o prenderete un malanno». «Lythos, siamo in estate». Le facesti notare con delicatezza. “E, poi, prima ho starnutito per la polvere, non per la doccia improvvisata”. Pensasti.
«E’uguale». Ribatté in tono fermo, scoccandoti un’occhiataccia. Seiya ridacchiò e tu lo fulminasti con gli occhi prima di scoppiare ridere a tua volta per l’assurdità della situazione. Non riuscivi proprio ad avercela con lui. «Vuoi che ti suoni qualcosa?» Ti chiese il preferito della Dea sorridendo.
Alzasti una spalla: «Perché no?» Magari un po’di musica ti avrebbe disteso un po’i nervi.

Aldebaran
Lancelot e Mur erano venuti a trovarti alla Seconda e avevate discusso dei termini di protezione di Yoshino, approfittando di un momento in cui tua figlia era uscita con sua madre a fare la spesa dopo gli allenamenti di Koga. Decisamente più felice del giorno prima.
Non le avevate però riferito il vero motivo di questo viaggio. Normalmente sareste dovuti andare solo tu e Shaina ma non ve l’eravate sentita di lasciare la vostra piccolina, per questo l’avevate portata con voi.
Ma la richiesta d’asilo dei Black Saint ti aveva turbato ancor più della notizia della comparsa delle creature oscure.
«Non preoccuparti, Cavaliere, con noi Miss Yoshino sarà al sicuro». Aveva garantito il Lost Saint.
«Nostro dovere è proteggere Atena». Aveva ribadito Mur con la solita flemma che andava a smorzare il carattere irruento di Lancelot. «Bene, signori, allora posso contare su di voi?»
«Certo, amico mio». Aveva ribadito il maestro di Kiki. Non sapevi se potevi contare su Shura e gli altri, dopotutto sareste stati tutti schierati in campo. In più eri preoccupato per questa nuova minaccia delle creature. Non eravate mai stati così accerchiati come eravate adesso.

Kiki
Eri presente nella sala del Trono quando il capo dei Black Saint, un ragazzino che vestiva il black cloth del Dragone, aveva chiesto udienza. Il Gran Sacerdote li aveva ricevuti e aveva ascoltato la loro storia. Poi ti aveva incaricato di occupartene tu e li avevi sistemati in una palazzina a Rodorio vicino al Santuario. Non era un granché come sistemazione ma per il momento poteva andare, poi, avevi incaricato dei servi di portar loro da mangiare e medicare le loro ferite, sotto la supervisione di alcuni soldati. Un chiaro messaggio di non sgarrare. Tu, a dispetto della tua faccia e del tuo atteggiamento, sapevi essere davvero crudele se necessario. Ed era bene che questi Saint se ne ricordassero.
Dopodiché eri tornato a investigare. Anche se il Gran Sacerdote non aveva detto niente in proposito, c’era qualcosa che non ti tornava nei ricordi di quelle persone e nei pensieri che avevi ascoltato. Era come se ci fosse una specie di ombra. Non era qualcuno che cercava di bloccarti, piuttosto era come quando ti accorgi che ti sta sfuggendo qualcosa, un piccolo dettaglio ma non sai cos’è.
Chiamasti il tuo sottoposto con la telepatia: “Ichi”.
“Mi avete chiamato, nobile Kiki?” Rispose.
“Sì, ascolta, dovresti fare una cosa per me”.
“Vi ascolto”.
“Torna al monastero e supervisiona le indagini della polizia, fammi rapporto costantemente di qualsiasi cosa che accada e non lasciarti sfuggire niente”.
Il Saint dell’Hydra non fece domande ma si limitò a rispondere: “Sarà fatto”, poi eseguì.
Avevi un brutto presentimento.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Frecce nel cielo, coraggio di servi ***


Frecce nel cielo, coraggio di servi



Death Mask
La Guerra cominciò senza preavviso una soleggiata mattina a cavallo tra luglio e agosto.
Avevi appena fatto colazione e ti stavi preparando per uscire. Di solito trovavi sempre qualcosa da fare, in paese ma oggi non avevi voglia di fare niente. Soprattutto alle porte di una Guerra Sacra, pensavi che fosse il caso di andarci freschi e riposati come una rosa. Giacché non sapevi che fare scendesti fino al panificio, dove comprasti delle brioches e le portasti ad Astrid. Poiché con i fiori ci pensava già Aphrodite e tu non sapevi se lei avesse allergie o meno, avevi ripiegato su qualcos’altro. Poi se fosse stata allergica a qualche ingrediente nelle brioches, poco male, le avresti spazzolate tu.
Perciò eri andato a trovare Astrid in astanteria.
La ragazza era sveglia da un po’ ed era seduta sul materasso. La coperta che le abbracciava le ginocchia. I capelli pettinati e puliti luccicavano al sole e teneva le ginocchia strette al petto con un braccio mentre l’altro gomito era teso oltre le rotule e ricadeva sugli stinchi. Aveva il viso rivolto fuori della finestra e non si era neanche accorta della tua presenza. «Buongiorno». La salutasti e lei quasi saltò in aria come se le avessi messo un petardo sotto il letto. «Death Mask!» Esclamò. Tu scoppiasti a ridere, sguaiato. «Dovresti vedere la tua faccia!» Shignazzasti.
«Non è divertente.» Protestò acida, incrociando le braccia e aprendo le ginocchia di modo che fossero incrociate. Tanto la coperta le copriva le gambe e la camicia da notte bianca era sufficientemente lunga da farle da vestito. E, questa reazione infantile ti fece ridere ancora di più. «Su con la vita, capisco che hai avuto tutta una serie di brutte giornate però dovresti sorridere di più, altrimenti le tue ferite peggioreranno e non guarirai mai completamente. Dai che ti ho portato la colazione, non sei contenta?» Domandasti beffardo tendendole il sacchetto di carta mentre ti accomodavi sul letto vuoto accanto al suo. Lei guardò la busta un po’sconcertata e perplessa. Ti guardò diffidente mentre la apriva e tirava fuori una brioche con tanto di salvietta di carta. «Non è che l’hai avvelenate?» Ti domandò diffidente. «Perché, dovevo?» Le domandasti scherzoso e lei si tranquillizzò. Poi cominciò a mangiare, o meglio, a ingozzarsi come se non mangiasse da una settimana con una voracità che ti lasciò senza parole. Tutto ti saresti aspettato da quell’essere delicato fuorché la grazia del camionista. In meno di cinque minuti, infatti, si spazzolò tutte le brioche che avevi comprato e ti restituì il sacchetto tendendolo verso di te. Tu lo prendesti con la punta delle dita, un po’ sconvolto. «Grazie, erano davvero deliziose, qui in ospedale non mi fanno mai mangiare niente di dolce, neanche lo zucchero fosse cianuro, per me». Ti ringraziò una volta che ebbe inghiottito. E, tutto senza strozzarsi neanche una volta. Certi uomini amano vedere le donne mangiare, perché si dice che sia una sorta di antipasto a quello che possono darti sotto le lenzuola. Tu non rientravi nella categoria, eppure, per un momento pensasti così. Se fossi stato uno di quegli uomini, allora il caso di Astrid ti avrebbe suscitato solo lo sconcerto e l’impressione di avere a che fare con una mantide religiosa travestita da persona. Grazie ad Atena, non dovevi (e non volevi) portartela a letto.
Adesso non ti sembrava più così difficile credere alle voci che volevano avesse aggredito Castalia. Anzi, ti sembravano piuttosto plausibili. «Sì». Mormorasti appoggiando il sacchetto sul letto. Che a forza di stare qui stesse trasformandosi in un animale sotto ai vostri occhi? Lei si pulì la bocca con il dorso della mano e poi le palme alla coperta e ti guardò. «Che c’è?» Domandò inarcando un sopracciglio. Tu ti ricomponesti e riassumesti la tua espressione arcigna. «Niente di che. Ascolta, è noioso, qui, vero?»
«Da morire».
«Che ne dici se ci andiamo a fare un giro?» Proponesti. Magari stare a contatto con altre persone avrebbe arrestato questa metamorfosi. «Ma si può?»
«Non lo diremo a nessuno, dopotutto non sei malata, no?» Le dicesti facendole l’occhiolino. E, dopo qualche secondo sul suo volto sbocciò un sorriso felice.

“Guarda tu cosa mi tocca fare”, pensasti tra l’imbarazzato (neanche chi ti vedeva) e lo scocciato. Pensiero che si ripeté quando ti ritrovasti a portarla in braccio fino al giardino dell’astanteria. Avevate scoperto, che era ancora debole non riusciva a camminare molto bene. Quella sortita che l’aveva resa famosa, doveva essere stata dettata dalla botta di adrenalina, proprio come pensavi. Perché in condizioni normali era già tanto se riusciva a fare tre passi senza zoppicare. Per questo l’avevi presa in braccio e portata fino al giardino, aiutato dai fuochi fatui che ti fecero da guida. Altrimenti neanche lo sapevi che l’astanteria ne aveva uno.
Il giardino si rivelò essere un piccolo spiazzo erboso con i cipressi vicino al muretto che faceva da balaustra, che dava sulla strada di Rodorio. «Uao!» Esclamò Astrid meravigliata, più dal giardinetto che dalla vista del Santuario in sé dietro le verdi sbarre dei cipressi; un braccio allacciato al tuo collo e tu non sapevi per grazia di quale miracolo non l’avessi ancora fatta cadere per il semplice gusto di zittirla. Eri abituato ai suoi attacchi d’ansia ma alla sua felicità no. Non eri sicuro ma la felicità che la animava sembrava la stessa dei bambini. Una felicità che tu avevi potuto conoscere solo di striscio, quando il tuo maestro DeathToll ti mandava a fare delle commissioni o ti lasciava giocare. Perciò era strano rivederla adesso sul volto di una ragazza che aveva tre, anzi no, sette anni meno di te. Dopotutto, tu avevi compiuto ventisette anni da poco meno di una settimana.
La deponesti sul muretto e ti accendesti una sigaretta. Almeno qui non ti avrebbero scassato troppo per fumare e lei si sarebbe goduta un po’di sole. Proprio in quel momento un paio di rondini volarono di fronte a lei. Quasi come se lo avessero provocato loro, una dolce brezza estiva smosse le fronde degli alberi, i capelli di Astrid e spazzò l’erba.
«Non immaginavo che il Santuario fosse così bello.» Mormorò la giovane senza staccare gli occhi dalle Dodici Case che s’inerpicavano sul monte sullo sfondo. Tu non dicesti niente, non eri tipo da perderti nei panorami e nelle poesie.
Improvvisamente i fuochi fatui presero ad agitarsi. Ti girasti a guardarli e li vedesti svolazzare di qua e di là come mosche rinchiuse in una stanza che cercando disperatamente una via di fuga. Aggrottasti la fronte e buttasti fuori il fumo. “Ma che diavolo...?”
Una nuvola oscurò il sole e Astrid ti afferrò un braccio dicendo, con voce tremula: «Death Mask?» Seguisti il suo sguardo e vedesti le frecce. «Attenta!» Gridasti e la traesti a te per scappare via. L’attacco era cominciato.
Rientraste immediatamente in ospedale. Eppure era strano, sembrava quasi di essere in un sogno perché tutti continuavano la loro mansione come se non fosse successo niente. Soprattutto i soldati semplici.
Uscisti dall’astanteria e, proprio allora di fronte ai corpi trafitti e le persone urlanti che chiedevano aiuto ai soldati che passeggiavano tranquillamente nonostante le ferite, ti riscuotesti. Facesti per lasciare il portico ma ti accorgesti di reggere ancora la ventenne tra le braccia: «E, tu che ci fai qui?» Sbottasti sorpreso e infastidito. Non ricordavi che ti fosse rimasta appiccicata.
«Come sarebbe a dire che ci faccio qui? Sono due minuti che ti chiamo e che ti dico di mettermi giù!» Esclamò lei rossa come un peperone abbassando le mani.
«Ma se non hai detto niente finora!»
«E, secondo te, sono così rossa perché mi piace stare qui, nel bel mezzo di un attacco? Stiamo scherzando?! Quelle erano frecce! Quelli sono cadaveri! Io ho rischiato di diventare un cadavere! E, ce ne sono altre!» Sbottò a sua volta indicandoti il caotico paesaggio circostante con un dito. «Che sta succedendo?» Domandasti nuovamente.
«Non lo so! Piantala di domandarmelo!»
«Ehi, tu!» Urlasti a una donna, la quale, vi raggiunse cercando di coprirsi la testa con le braccia come se ciò fosse stato sufficiente a proteggerla dai dardi. «Prendi questa ragazza!» Le ordinasti ficcandogliela in braccio e corresti alla tua Casa. Chiamasti immediatamente la gold cloth che ti rivestì, pronta a combattere con te ancora una volta. Come una specie di rinnovamento di un giuramento.
Era ovvio che questo scherzetto non fosse che dei nemici «Siete già qui». Mormorasti, poi, aiutandoti con i tuoi poteri telepatici potesti vedere chiaramente lo schieramento.
Assottigliasti gli occhi e mentre contavi le lunari nelle loro Armature, sospese nel cielo. In mezzo a loro vedesti persino La Scoumune, una dei generali della Dea Artemide. Ne avevi sentito parlare di fama. Quello che non potevano immaginare era che potevi colpire i nemici anche a lunghe distanze. «Ci vuole sempre un po’di moto dopo colazione». Mormorasti tra te e te prima di scoppiare a ridere, divertito dalla tua stessa battuta.
Poi, lanciasti il tuo colpo d'avvertimento, che fece piovere la prima linea su Rodorio.
Le ninfe di Artemide cominciarono a raggrupparsi attente. La loro reazione un po’ti spiazzò. Tu eri abituato a sentire le donne urlare per lo spavento o per la rabbia quando ti presentavi. E, questo, si poteva dire che fosse il tuo biglietto da visita, anche se non lo utilizzavi più da un pezzo. E, le ninfe colpite caddero sul muro di cristallo come mosche su un parabrezza, producendo lo stesso rumore di un corpo che infrange una vetrata e scivolando giù.
Normalmente le civili urlavano a squarciagola, ma le donne guerriere, come le Saintie, non lo facevano. Pensavi anche che un attacco a sorpresa come questo avrebbe provocato una reazione spontanea di scoramento. Ma queste restarono impassibili come dei robottini e si limitarono a rispondere agli ordini di La Scoumune: iniziò ad abbaiare ordini che le truppe eseguirono, come se la morte delle loro compagne non fosse mai avvenuta.
Donne di ghiaccio, senza cuore e governate da un computer, ecco cosa ti sembrarono. Ma, una volta accantonata questa impressione, il che successe piuttosto rapidamente, te ne tornasti alla tua Casa, dove trovasti Lancelot in assetto da guerra, con tanto di Armatura indosso. Le braccia incrociate e la schiena mollemente appoggiata a una delle colonne.
Il tuo Cosmo stava già provvedendo all’arredamento della tua Casa. Dal pavimento cominciò a sollevarsi una nebbiolina da palude infestata e le teste si moltiplicarono andando a coprire ogni cosa e, quel poco di muratura che lasciasti vedere divenne un po’più diroccato. Le bocche delle teste si aprirono e cominciarono a riempire l’aria di un lugubre mormorio che, al tuo comando, sarebbero divenute grida assordanti, le stesse che avevano disorientato persino quel gigante mitologico che entrò a far parte della tua collezione.
«Carino». Disse Lancelot scostandosi quando le facce cominciarono a emergere da dietro la sua schiena. Poi, si guardò attorno e commentò, per niente impressionato: «Carino, io ci avrei messo anche il mostro della palude e la palude annessa».
«Tu puoi fare il mostro, per la palude possiamo usare qualcos’altro».
«L’impianto fognario? Dai, su, non fare quella faccia, una botta al tubo di scarico, allaghi un po’la Casa e via. Non faceva ridere, eh?» Disse poi notando la tua occhiataccia. «Per niente. Fa meno lo spiritoso e renditi più utile, va alla Seconda e porta via Yoshino».
«Non serve, ci ha già pensato Mur».
«Allora tu che ci stai a fare qui?»
Lui alzò le spalle: «Non ho niente da fare, quindi, sai com’è... Quindi deduco che sia cominciata, eh?»
«Deduci bene, attieniti agli ordini». Rispondesti passandogli accanto anche se sapevi che quel piantagrane non avrebbe mai ascoltato neanche una parola di quello che gli avresti ordinato. «Sissignore». Ti sfotté in un sussurro che ignorasti.
Tornasti a occuparti dei nemici con i tuoi poteri telepatici.
Dal niente comparve un uomo con ai piedi i sandali alati di Ermes. Indossava una fascia e una Glory (si chiamavano così le Armature degli adepti della Dea della Luna) e disse: «Non perdere tempo qui, dobbiamo cominciare la scalata immediatamente, prima che accendano la Meridiana dello Zodiaco».
«Non darmi ordini, ragazzino, comando le ninfe della nostra Signora da prima che tu venissi al mondo». Ringhiò la donna, con aria feroce. «E, tu non comportarti come se fosse necessario darteli».
«Abbassa la cresta, ragazzino insolente, solo perché sei il prediletto di Callisto non significa che tu sia il mio superiore».
«Infatti, io comando soltanto gli Angeli, questa è una pretesa che ti sei arroccata tu».
“Senti senti, problemi ai piani alti”, pensasti prima di spegnere le comunicazioni con l’esterno e indossare la crudele maschera della morte di cui portavi fieramente il nome.

Aphrodite
Il profumo delle rose era qualcosa di sublime. Tu e le tue care piante eravate un tutt’uno. Erano loro che ti illuminavano la giornata con la loro beltà. Ma vi prendevate cura a vicenda. Migliori compagne di esse non potevi sperare di incontrarle.
Stavi curando le tue rose quando avevi sentito i Cosmi nemici all’orizzonte e avevi dato l’allarme. Poi avevi richiamato a te la tua cloth con il Cosmo e ti eri preparato a ricevere i nemici. Sempre ammesso che riuscissero prima a superare la prima rampa di scale.
Finalmente avevi l’occasione di recuperare la vittoria, la suprema bellezza che tanto tempo fa ti fu strappata via come un petalo da un soffio di vento. Stavolta niente e nessuno ti avrebbe impedito di vincere. In nome della Dea.
E, adesso, gli ex Bronze vi avrebbero dato una mano ricoprendo i loro legittimi ruoli. E, sarebbero finalmente rientrati nei ranghi anche loro. Perché era questo che significava essere un Gold, presidiare soprattutto le Dodici Case. Da un lato trovavi anche tu che non fosse una buona strategia, ma dall’altro era la mossa migliore da fare giacché non avevate tutta questa libertà di movimento. L’unica cosa che un po’ti dispiaceva, era che non avresti visto Astrid.
Sperasti che i soldati semplici avessero già evacuato l’ospedale.
Ma ora non era il momento di pensarci. Avresti rivisto la tua amica quando sarebbe tutto finito. Ora dovevi compiere il tuo dovere. Perciò, ordinasti alle tue rose di ricoprire la scalinata che portava alla Tredicesima Casa e attendesti il tuo turno di affrontare i nemici.
Aspettasti ma non successe niente.
Poi vedesti i servitori sciamare di fronte a te con aria preoccupata. Una donna agitò una mano davanti alla tua faccia e tu inarcasti un sopracciglio. Che ci facevano i collaboratori domestici qui? Non lo capivano che era pericoloso? «Andate via!» Ordinasti, ma quelli si limitarono a guardarsi preoccupati e a guardare di nuovo te. «Non mi avete sentito? Andate via!» Dicesti. E, fu allora che ti venne un dubbio. Ma quelle parole erano davvero uscite dalla tua gola? Provasti a muovere le labbra ma non ci riuscisti. La bocca non rispose al tuo comando e nessun’altra parte di te. Cosa diavolo stava succedendo? Non riuscivi nemmeno a percepire le tue stesse rose.

Cocteau
Tu non potevi presidiare la Terza Casa, non più, almeno non così e in questa forma. E, Kanon non poteva sprecare energie quando serviva qui alla Tredicesima Casa al servizio di Atena. Né, potevi avvalerti dell’aiuto di qualche altro Cavaliere dei Gemelli perché non c’era nessuno capace di compiere questa missione.
Eri appollaiato sul davanzale della finestra quando percepisti accanto a te il Cosmo della tua Dea. «Vai». Ti disse soltanto lei. La guardasti preoccupato. La divina Atena impugnava lo scettro di Nike e indossava un chitone bianco. Gli occhi azzurri erano puntati sulle Dodici Case che si vedevano dalla finestra in cui vi trovavate. Il volto serio e determinato come ogni volta prima di una battaglia.
«Siete sicura, Milady?» Il timore che quella bestia potesse ripresentarsi in un momento come questo era tanto. La tua Dea ti sorrise e sentisti il cuore riempirsi di meraviglia e fiducia. Lei si fidava di te e sarebbe rimasta con te fino alla fine. Non avevi nulla da temere.
Perciò spalancasti le ali e volasti via, diretto alla Terza Casa, dove ti attendeva l’Armatura dei Gemelli, per iniziare questa nuova Guerra Sacra. Eppure stava succedendo qualcosa di strano. Perché non percepivi i Cosmi dei tuoi compagni? E, perché dopo la prima ondata di frecce non era più successo niente? Che la Divina Atena fosse riuscita a erigere una barriera? Poteva darsi ma allora perché percepivi soprattutto i nemici? E, perché nessuno si occupava dei cittadini? Cosa era successo?
Ti rifugiasti tra le fronde di un albero domandandoti che cosa stesse accadendo e perché. Poi, percepisti un altro Cosmo, quello di un Cavaliere. Volasti in quella direzione e sentisti il Domination Language di Ionia. Stava recitando una sorta di incantesimo? Si poteva chiamare così? A differenza di molti altri Cavalieri restasti in ascolto per capire cosa stesse dicendo e capisti che stava cercando di contrastare in potere del nemico.
Ma a chi apparteneva questo Cosmo che stava riducendo alla stregua di bambole tutti i soldati del Grande Tempio?
Se era così allora significava che il Tempio era senza protezione! E, per quanto potente fosse, non potevate contare sull’esclusivo aiuto di Death Mask. Che, chissà come, si era svegliato dall’ipnosi. Cercasti di fare mente locale per comprendere quale nemico si fosse lanciato alla conquista del Grande Tempio, ma l’unico che ti venne in mente fu Hades. O meglio, Hypnos. Era l’unica divinità che poteva usufruire di un potere simile.
«Maledetto», sibilasti.
Poi ti alzasti di nuovo in volo e ti precipitasti alla Terza Casa. Non avevi altra scelta che cercare di impedire l’avanzata dei nemici. Anche se non comprendevi perché avessero fatto il giro largo, stavolta. Ma non aveva importanza.
Riacquistasti la tua forma umana e chiamasti a te il cloth di Gemini che ti rivestì quasi istantaneamente.
Poi ti mettesti in attesa.
Il cuore che ti batteva rapidamente nel petto, richiamasti i tuoi poteri.
Ma non facesti neanche in tempo a creare il labirinto dei Gemelli che le tue membra furono invase da un insolito torpore che le immobilizzò e con esse, anche il tuo Cosmo. Come se qualcuno avesse fermato il tempo.

Shura
Per ironia della sorte, tu non ti trovavi alla Decima Casa quando la battaglia cominciò. Ti trovavi invece in paese a discutere con Georg della Croce del Nord e Juan dello Scudo mentre passeggiavate per le vie di Rodorio. Il primo doveva essere del nord Europa, forse norvegese con i tratti squadrati e la barba. Un tempo doveva essere stato biondo mentre ora era completamente canuto. Unica modifica che il suo aspetto fisico aveva subito. Aveva il viso ovale e gli occhi a mandorla scuri. Non era inusuale per voi Saint vivere a lungo senza invecchiare. Infatti, il secondo, che era tuo connazionale, aveva ancora la chioma scura e neanche una ruga.
Avevano combattuto al fianco delle Saintie contro Eris e le Dryad e, la loro amicizia, a quello che avevi compreso, affondava lì le sue radici. Avevano messo in palio le loro Armature in quanto non ce la facevano più e si sentivano pronti per addestrare delle nuove leve. Eri finito a chiacchierare con questi due per puro caso. In realtà non ricordavi neanche di cosa steste parlando quando cominciò l'attacco.
Incaricasti i due di condurre tutti i civili in salvo. «Ma, voi, signore?» Ti domandò Juan, che era il più chiacchierone tra i due. «Non preoccupatevi per me, rientrerò immediatamente alle Dodici Case e compirò il mio dovere».
I due eseguirono i tuoi ordini.
Belle parole, avevi detto, peccato per quello strano torpore che invase la tua psiche e i tuoi sensi e ti fece rallentare fino a immobilizzarti come se avessi guardato lo scudo del Cavaliere di Perseo. Le persone attorno a te cadevano trafitti dai dardi delle ninfe di Artemide. «No!» Prendesti a urlare ma, la bocca non rispose al tuo comando e neanche la tua voce. Provasti a girarti ma il tuo corpo ignorò il tuo volere.
Proprio in quel momento La Scoumune e gli Angeli atterrarono attorno a te, sollevando un po’di polvere. «Davvero fenomenale, devo dire che il piano della Signora Callisto». Commentò la ninfa.
«Te l’avevo detto che avresti dovuto avere più fiducia in lei, La Scoumune». Ribatté una voce maschile che conoscevi: “Teseo!” Com’era possibile? Non li avevate uccisi? L’Angelo entrò nel tuo campo visivo e ti squadrò con i suoi freddi occhi azzurri. No, non era Teseo, però gli somigliava tantissimo. Forse era suo figlio o suo fratello minore. Maledetti. Come avevano osato farti questo?
«Non sembrano poi questo granché senza Armatura, non credete?» Chiese rivolto ai compagni, guardandoti. «Odisseo ha avuto un’idea davvero meravigliosa». Poi ti mollò un violento pugno in faccia ma, a causa dell’influsso del Cosmo che vi era stato gettato, non riuscisti a muovervi e a schivarlo. Perciò sentisti il naso e la bocca riempirsi di sangue senza che tu potessi fare niente per evitarlo.
Poi, qualcosa ti si conficcò in mezzo alla schiena. Il dolore esplose nel tuo corpo ma tu non potesti liberare il grido di dolore né boccheggiare.
Sentisti il rumore, lo stesso di un sasso che rimbalza contro un elmo. «Ehi! Lascialo stare!» Urlò una voce maschile arrochita dietro di te e l’Angelo rise divertito: «Questa è bella. No, questa è veramente bella!»
Cosa stava succedendo? Non riuscivi a capirlo. Chi era intervenuto in tuo favore? Un soldato? Un altro Saint? Poi, qualcosa colpì il tuo aggressore, qualcosa che dal rumore ti parve di identificare un… mocio? Un Saint armato di mocio? Ma che diavolo stava succedendo? Sentisti il battito d’ali e la risata sarcastica del tuo aggressore mentre il tuo salvatore cercava di affrontarlo. «Ti avverto, Angelo, stai lontano dal Gold Saint». Solo allora riconoscesti quella voce e quasi ti venne un colpo: “No, aspetta, Mino, fermati! Vattene via!” Mino era il tuo ex collaboratore domestico che, ai tempi della tua adolescenza, prestò servizio nella tua Casa. Allora aveva quarant’anni, ti arrivava all’altezza dello sterno e aveva la chioma castana abbinata a dei simpatici occhi scuri. Lui ti sorrideva sempre come se fossi suo figlio e, quando lo faceva tu ti domandavi perché avesse dovuto. Credevi che se ne fosse andato da un pezzo da Rodorio e invece era ancora qui!
«Ora le ho viste davvero tutte».
«Ma non hai ancora visto me!»
«Per Artemide, pietà!»
Salvo poi ricredersi quando si rese conto che l’uomo non scherzava. E, che, nonostante il fiatone, combatteva davvero per difenderti. Anche se spesso venne scagliato contro di te e, ti ritrovasti con la faccia spiaccicata a terra per l’impatto. Il dolore esplose sul tuo volto. Non avevi neanche potuto muovere le mani per ripararti la faccia. Sentisti però il tuo servo dare battaglia all’Angelo. “No! Mino! Vai via! Vai via!” Ma non potevi fare niente.
E, questa impotenza frustrante stava andando ad alimentare la tua ira. Sentisti un colpo più potente degli altri e Mino crollò a terra come un sacco di patate, mandando un lungo gemito di dolore. «Mi hai stufato, vecchio!»
«Nonno!» Esclamarono delle voci, poi udisti altri rumori di colpi che venivano parati e ringhi e grida. «Lascia stare nostro nonno!»
L’Angelo non replicò ma si limitò a parare.
Mentre i civili combattevano, qualcuno corse da te, ti afferrò per un braccio e dopo un paio di secondi e un grugnito, ti trascinò rapidamente via da lì. “No! Mino! No! Lasciatemi!” Provasti a imporre al tuo corpo di divincolarti ma non ci riuscisti. Stavano massacrando quel poveraccio, non potevi permetterlo e, qualche dannatissimo mostro stava trascinandoti via.
“Io non sono un giocattolo!” cominciasti a ribellarti all’influsso di questo Cosmo con ancora più foga di prima al punto che riuscisti ad aprire bocca e urlare. Quello che ti trascinava per poco non ti mollò lì trasalendo. Ma fu solo un istante che il torpore prese di nuovo il controllo e ti serrò la bocca. Allora l’altro si riavvicinò e ti afferrò di nuovo, ricominciando a tirarti ma senza successo. Lo sentisti ansimare per lo sforzo e, il timbro di quella voce ti lasciò perplesso: cosa ti stava trascinando? Non era un mostro come avevi pensato. «Anna! Dammi una mano! E’ pesante!» Urlò infatti la voce di una bambina? Era una bambina quella che ti stava trascinando? Sì, era proprio una bambina, lo capisti dalle piccole dita delle sue mani che non riuscivano a cingerti il polso e dalle unghiette che si erano conficcate nella tua carne come arpioni dei pirati alla balaustra di una nave e tiravano. Qualcun altro vi raggiunse e altre manine afferrarono l’altro braccio. “Giratemi!” Pensasti tra la supplica, il dolore e l’urgenza. A forza di trascinarti stavi raschiando il terreno con il volto ferito. Provasti a urlare nella tua mente con tutta la forza che avevi per farti sentire.
Ti ritrovasti a guardare il cielo azzurro, talmente bello da essere quasi una beffa, e percepisti la presenza di altri corpi accanto a te, corpi che cercarono di scostarsi per farti spazio. E, altre voci di bambini. «E’ ancora vivo?» Domandò qualcuno, poi «Respira, credo di sì», «Perché non si muove?», «Anche il mio papà è ridotto così!» Piagnucolò un bambino. Poi un boato scosse la terra e i piccoli che ti circondavano urlarono di terrore, trapanandoti un timpano. Queste urla annullarono l’influsso del Cosmo e tu ti rizzasti a sedere di scatto spaventandoli ancora di più. Infatti corsero tutti via urlando e disperdendosi.
I rumori della battaglia continuavano a infuriare. Ma tu dovevi toglierti quella freccia dalla schiena. Portasti una mano dietro la schiena e riuscisti ad afferrare l’asta. Ma, tutto quello che riuscisti a fare fu spezzarla e, la punta di freccia restò conficcata nella tua carne, strappandoti delle grida di dolore. A un tratto udisti un grido più acuto degli altri. Volgesti la testa in quella direzione e capisti che avevi riposato abbastanza.
Bruciasti il tuo Cosmo e chiamasti a te la tua Armatura, la quale ti rivestì completamente e corresti in soccorso dei tuoi salvatori.
Alla freccia avresti pensato dopo.
Prima di tutto rintracciasti i bambini e li portasti in salvo. Poi andasti a occuparti di quell’Angelo.
Quando arrivasti vedesti Mino mezzo martoriato che gemeva di dolore. Il mocio ai suoi piedi spezzato in due. L’omino era sorretto da due ragazzi che dovevano essere i suoi nipoti, mentre un uomo armato di mazza da golf ormai piegata a quarantacinque gradi che continuava a fronteggiare l’Angelo appena scarmigliato ma molto infastidito. Il gioco non lo divertiva più. «Adesso mi avete stufato!» E, gli lanciò il suo colpo più potente ma tu ti frapponesti tra esso e i civili e, con il semplice aiuto del mantello, lo parasti.
«Cavaliere di Capricorn!» Esclamò l’Angelo sorpreso. «Com’è possibile? Voi soldati dovreste essere immobilizzati»
«Nobile Shura!» Esclamò l’uomo con la mazza, sorpreso. «Padrone!» Esclamò Mino. «Sono qui, adesso andate, mi occupo io di costui!» L’Angelo incrociò le braccia e sorrise divertito e impietosito: «Tu occuparti di me? Nelle condizioni in cui sei ridotto?»
«Allontanati immediatamente da queste persone». Lo minacciasti, mortalmente serio alzando il braccio destro. In un certo senso tutto questo ti ricordò il sottopassaggio in Giappone dove affrontasti il primo Senza Volto. La differenza era che nessuno sarebbe arrivato a interferire. 

Kiki
Avevi sentito anche tu l’esplosione del Cosmo pieno di rabbia di Yoshino ma non avevi potuto fare niente. Non riuscivi a raggiungerla e non potevi comunicare con la sua psiche per fermarla. Quello che stavi vedendo ti lasciava a bocca aperta. Almeno l’avrebbe fatto se tu avessi potuto muoverti. Rodorio vi stava difendendo.
Avevi cercato di opporre resistenza al Cosmo, perché era questo quello che era ma eri rimasto pietrificato lo stesso. Ma non avevano potuto fare niente per imbrigliare i tuoi poteri telepatici, perciò, se da una parte riuscisti a erigere il Crystal Wall per ostacolarli, dall’altra riuscisti anche a lanciare un S.O.S. a Rodorio, nella speranza che qualche Gold rimasto lì potesse aiutarvi. In effetti sentivi il Cosmo di Shura laggiù e quelli turbati di tutti gli altri. Allora, sempre con l’ausilio dei tuoi poteri mentali viaggiasti da una mente all’altra per capire cosa stesse succedendo. Era la prima volta che tentavi un’impresa simile e c’era il rischio di perdersi ma ora era più urgente raggiungere Shura. Solo lui aveva una forza di volontà tale da riuscire a contrastare quest’incantesimo. Se fosse riuscito a trovarne la fonte forse vi avrebbe restituito la mobilità.
Ma, invece, vedesti Astrid e molti altri civili gettarsi addosso ai soldati o spostare quei cavalieri che ancora camminavano come zombie per le vie, con degli spintoni, per salvarli dalle frecce. Le ninfe, infatti, avevano cominciato a giocare al tiro al bersaglio. Alcuni cittadini usavano i coperchi dei bidoni, altri, più audaci usavano le padelle come racchette da tennis e, altri ancora si spostavano usando una porta come scudo e, un momento! Ma quelli erano i dottori e gli infermieri dell’ospedale e quelli… Quelli erano i vostri collaboratori domestici! Cosa ci facevano lì? Erano impazziti?
Frugasti nella mente di questa persona e trovasti i ricordi che ti servivano.
Death Mask l’aveva appena chiamata e le aveva messo Astrid in braccio. La ragazza aveva cominciato subito a dimenarsi: «Mi lasci! So camminare anche da sola!»
«Ma tu sei ferita! Presto, vieni via, bambina!» Aveva esclamato la signora e l’aveva trascinata via. Conosceva l’italiano perché (stando a quello che vedevi) il nonno era italiano e le aveva insegnato la lingua di Astrid. «Non posso! Sta succedendo qualcosa ai soldati!»
«Se la caveranno anche da soli, andiamo!»
«Ma non si muovono e…» Trasalì rumorosamente e sollevò il naso al cielo, poi la scostò malamente e corse a spingere via un soldato che passava lì vicino. Una freccia si conficcò nel terreno dove prima c’era l’uomo e la giovane corse via.
Poi saltasti in un'altra mente finché non la ritrovasti. Eri accucciato dietro un muretto in compagnia di un’Astrid insolitamente impassibile ma concentrata e determinata. Dalla voce della donna la riconoscesti per una delle dottoresse. I civili erano ancora in grado di muoversi? Come era possibile? «La tua idea per ora funziona, ma non possiamo andare avanti così, dobbiamo trovare un modo di svegliarli al più presto». La tua idea? Quella rivolta era un’idea sua? Com’era possibile? Come aveva fatto a farsi ascoltare da tutte quelle persone?
«Livia ha ragione! Se andiamo avanti così verremo sterminati tutti».
«Lo so! Lo so!» Poi qualcuno afferrò la donna per le spalle e lei trasalì. Anche le altre due si volsero verso di lei e vedeste Juan dello Scudo. «Cosa ci fate qui? E’ pericoloso, andate via!»
«Non possiamo, dobbiamo…»
Poi tornasti immediatamente al tuo corpo. E, ti ritrovasti a vedere i civili di fronte a te, intenti a combattere tre ninfe di Artemide. Stavano resistendo coraggiosamente, barricati com’erano dietro la porta? Quella era veramente una porta? «No!» Urlasti ma non riuscisti a farti udire. Poi, qualcuno ti urlò nell’orecchio, facendoti prendere un accidente ma riuscendo però a svegliarti. Urlasti a tua volta e ti girasti a vedere la collaboratrice domestica scarmigliata e sporca che sorrideva: «Nobile Kiki!» Esclamò.
Poi, i rintocchi della Meridiana presero a rimbombare per tutto il Santuario. Fino ad allora non avevi idea che fosse anche un campanile. E, avevi potuto finalmente sprigionare i tuoi poteri mentre Shura saltava da un tetto a una roccia all’altra per raggiungere più rapidamente la Decima Casa. Sollevasti tutti i nemici con la telecinesi e li scagliasti via, fuori dal tuo Tempio, salvando i civili che erano accorsi in tuo aiuto. Poi erano arrivate le creature e si erano avventate contro tutti quelli che usavano il Cosmo. Ed eravate stati costretti a difendervi. Sperasti che anche i Silver e i Bronze arrivassero a comprendere di non sprecare Cosmo in loro presenza.
Poi, la Meridiana dello zodiaco lanciò i suoi dodici rintocchi che risuonarono per tutto il Santuario e, potesti udire anche i Cosmi dei tuoi compagni d’arme, bruciare e adoperarsi per combattere questi nemici.

Aldebaran
L’impresa più difficile della tua vita non fu la Titanomachia e, neanche la Guerra Sacra. Fu invece, cercare di spiegare a tua figlia che cosa stava succedendo. Yoshino era alla Seconda quando venne lanciato il colpo che vi immobilizzò tutti. Ma tu non sapevi che fosse ancora qui finché le ninfe di Artemide non giunsero nel tuo Tempio. Avevi provato a muoverti e bruciare il tuo Cosmo ma non eri riuscito a muovere un muscolo. Solo la tua mente restava libera di muoversi in tutta quell’immobilità.
Le ninfe stavano per scoccare le loro frecce quando Yoshino aveva urlato: «Lasciate stare mio padre!» E aveva espanso il suo Cosmo respingendo le serve di Artemide con una tale potenza da scaraventarle fuori della porta. «Non vi perdonerò mai per avergli fatto del male, mai!»
“Yoshino!” Pensasti allarmato mentre la ragazza si arrabbiava e il suo Cosmo rispondeva a quella chiamata.
Ma le ninfe non si erano date per vinte e avevano cominciato a scoccare le loro frecce. Ma, tua figlia, con l’imposizione di una mano, le bloccò e le fece cadere a terra. «State, lontane, da mio padre!» Scandì le parole quasi con cura, a dispetto del tono furioso, mentre si spostava di fronte a te. Il Cosmo che le aleggiava attorno scuotendole la chioma come un vento impetuoso. Fulmini e saette danzavano dentro il suo Cosmo e vicine ai suoi pugni chiusi.
“Yoshino!” Avevi pensato pieno di paura mentre una delle ninfe la scherniva con la sua voce incolore: «Che ragazza coraggiosa, ma è tutto inutile».
Non avevano capito con chi avessero a che fare. Yoshino non era una ragazza come tutte le altre ed era meglio non farla arrabbiare. Perché era con la rabbia che saltava fuori tutto il suo Cosmo aggressivo.
La Casa intera cominciò a tremare e il pavimento sotto ai vostri piedi si riempì di crepe. Le ninfe persero l’equilibrio e tu, che non potevi permettere che la tua bambina finisse per essere divorata dalla sua stessa rabbia e si cacciasse nei guai, cercasti di trovare la forza per urlarle di smetterla. Il tuo respiro accelerò e così anche il tuo battito cardiaco mentre cercavi di sforzarti di opporti alla sonnolenza che aveva pervaso le tue membra fino a immobilizzarle completamente.
La tua bambina.
Le ninfe si alzarono in volo e presero nuovamente la mira, incuranti della vera natura di Yoshino. «Spostati, ragazza. Non vogliamo versare sangue innocente!» Aveva intimato una di loro.
«Me ne infischio!» Aveva replicato la diciassettenne infuriata e il Cosmo riprendeva a manifestarsi con ancora più violenza di prima, facendo cadere dei calcinacci e riempiendo la Seconda di altre crepe. «Allora non ci lasci altra scelta». Avevano prontamente incoccato gli archi. E, tu ti eri sentito morire dentro. Yoshino non aveva i riflessi pronti da Saint e tanto meno sapeva gestire i poteri del suo Cosmo, dovevi sbrigarti prima che finisse trafitta di fronte ai tuoi occhi. Riuscisti con uno sforzo ad aprire la bocca: «Yoshino...» Dicesti ma la voce ti uscì troppo flebile perché ti udisse.
La ragazza urlò e le frecce furono respinte. Tua figlia cadde bocconi sul pavimento per il consumo eccessivo di energie. Non era addestrata e non aveva mai sviluppato a dovere il proprio Cosmo, per questo non riusciva a usarlo pienamente. Ma le donne tesero di nuovo gli archi. Ci riprovasti: «Yoshino». Stavolta in tono normale.
Prendesti fiato e urlasti con tutto il fiato che avevi in corpo: «Yoshino!» La ragazza si calmò quasi istantaneamente ma proprio allora le donne scoccarono le loro frecce. «Papà!» Gridò lei ma tu non potesti muoverti. Le frecce rimbalzarono sul Crystal Wall di Kiki. “Kiki!” Pensasti sorpreso. “Sto bene”, ti rispose lui.
“Kiki! Ma allora tu riesci a muoverti?” Pensasti speranzoso. Ma il Saint della Prima Casa bloccò ogni tua aspettativa sul nascere rispondendo “No, non riesco a muovere nemmeno un muscolo, però posso ancora usare i miei poteri telecinetici. Quelli non hanno niente a che vedere con il mio Cosmo”.
Le ninfe non si erano arrese ed erano tornate all’attacco ma Kiki le respinse di nuovo teletrasportandole altrove.
Yoshino si girò verso di te e cominciò a domandarti, concitata se stessi bene, ma tu non potevi risponderle. Cominciò a scuoterti nel tentativo di sciogliere le tue braccia incrociate e la tua posa ma niente: «Papà? Rispondimi, papà! Parla! Parla!»
Poi proprio in quel momento tornarono all’attacco le ninfe, le vedesti tornare in lontananza verso di voi, ma, prima che fossero vicine sentiste altre grida: «Eccole! Ritornano! Sbrigatevi!» Chi stava arrivando? Altri nemici? “Non attaccare, Aldebaran!” Esclamò Kiki nella tua testa. “Cosa?”
“Non attaccare, non sono nemici!” Dopo di ciò vedesti, con tua grande sorpresa, i civili comparire sulla soglia della Seconda Casa. Scompigliati, feriti e recanti armi di vario tipo tra cui oggetti per pararsi dalle frecce, il più sorprendente dei quali fu una porta.
«Stai bene, ragazzina?» Domandò un uomo fermandosi assieme a un gruppetto mentre tutti gli altri sciamavano rapidamente attorno a voi completando il passaggio della Seconda per correre verso tutte le altre. Ma da dove diavolo erano saltati fuori questi? «Sì, ma mio padre...» Disse guardandoti, l’altro la interruppe: «Tutti i Cavalieri sono in questa situazione, è per questo che siamo qui. Non permetteremo a nessuno di prendere il Santuario. Ma tu devi andare via. Devi andare al sicuro».
«No!» Sentisti le braccia di tua figlia cingerti il busto.
«Non voglio lasciarlo solo, non voglio!»
«Ma è quello che vuole lui». Rispose l’uomo. «Sono padre anch’io. Lui non vorrebbe vederti qui».
«Ma non posso...» Piagnucolò lei allentando la presa. «Sì che puoi, va con Anthia, a tuo padre pensiamo noi». Poi la voce di una donna disse: «Vieni cara, andiamo via». Yoshino stette in silenzio per un po’, ponderando le parole e l’offerta dell’uomo prima di dire: «Ve bene». E, ti lasciò andare. “Kiki!” Pensasti.
“Aldebaran”.
“Cosa sta succedendo?”
“Sto cercando di capirlo”. Poi la donna riuscì a portarla via continuando a dire: «Venite via, è pericoloso!» Ma Yoshino dovette cambiare idea dopo cinque passi perché prese a dire: «Non posso, mio padre…!»
«Lo aiuteremo noi! Ora venite, presto!» E l’avevano trascinata via. L’ultima cosa che avevi sentito era stata tua figlia urlare il tuo nome, disperata, prima che i collaboratori domestici la portassero al sicuro. Sei uomini e cinque donne erano schierati di fronte a te. «Arrivano! Presto!» Urlò l’uomo che aveva fatto condurre via tua figlia poi, le ninfe presero a scoccare e leste, le persone alzarono la porta e ti ritrovasti a fissare il legno trapassato dalle frecce a pochi centimetri dalla tua faccia. Neanche eri riuscito a capire come avessero fatto. Poi i Dodici rintocchi erano risuonati nell’aria e l’influsso di quel Cosmo ostile si era disperso. Era come se qualcuno avesse suonato la sveglia per il tuo corpo. Riacquistasti tutta la tua forza e ti ponesti davanti ai tuoi salvatori: «Nobile Aldebaran!» Esclamarono sorpresi e sollevati. «Potete muovervi?»
«Sì, qualcosa ha annullato gli effetti di quel Cosmo. Andate, ora, ci penso io! Voi avete rischiato anche troppo».
«Come desiderate, signore». Aveva detto il capobanda e si erano dileguati augurandoti buona fortuna.

La battaglia venne vinta quasi istantaneamente.
Al tramonto i nemici avevano già lasciato il Santuario.
La prima cosa che facesti fu cercare tua moglie e la trovasti in città che dava una mano ai medici e a Castalia a raccogliere i feriti. Non potevano lasciarli lì in quello stato. «Shaina!» La chiamasti. Lei si volse verso di te e, nonostante la maschera, la sentisti urlare un sollevato: «Aldebaran!» E ti corse incontro per gettarti le braccia al collo. «Non sai quanto ero preoccupata per te!» Disse mentre la stringevi a te. L’avevi sollevata da terra. Ti chinasti per rimetterla giù e restasti così per poterla guardare negli occhi. «Come è potuto accadere?» Ti domandò. «Come è potuto accadere?»
«Non ci pensare, è tutto finito». Le mormorasti in tono rassicurante, posandole un bacio sulla fronte. Avresti voluto sollevarle la maschera e baciarla con tutta la passione che ti riusciva, davanti a tutti, ma sapevi che la tua orgogliosa consorte ti avrebbe fermato bloccandoti il polso con la mano. Lei ti prese il viso tra le mani e lo carezzò con dolcezza. «Sono contenta di saperti vivo, non sai, non hai idea di quanto...» Disse con voce rotta dall’emozione e la felicità per abbracciarti un’altra volta. «Anch’io, tesoro, anch’io».
«Aldebaran!» Chiamò la voce di Castalia e tu ti raddrizzasti mentre la Sacerdotessa dell’Aquila si avvicinava: «Cos’è successo? State tutti bene alle Dodici Case?»
«Sì, chi ha mandato i civili e i servitori?»
«Sono stata io e altri Silver, non pensavamo che accettassero».
«Tu? Ma come, tutti noi guerrieri non eravamo bloccati?»
«Sì ma i civili hanno trovato il modo di svegliarci». Rispose l’amica di tua moglie. La quale trasalì e tu la guardasti: «A proposito, dov’è Yoshino?» Ti domandò.
«Alcuni civili l’hanno portata via durante l’assalto».
«Oh, Somma Dea!» Esclamò Shaina irrigidendo le braccia frenando l’impulso di portarsi le mani alla bocca.

Ritrovaste la vostra bambina seduta sul divano della Seconda. Aveva lo sguardo perso nel vuoto e non reagì neanche quando l’abbracciaste. Shaina si discostò un attimo e le carezzò il viso e le domandò se andasse tutto bene, con ansia nella voce. «Sì, mamma». Rispose lei senza alzare lo sguardo neanche una volta. «Eravamo così in pensiero, dove sei stata?»
«Con le persone che sono venute a salvare papà, sono riuscita a tornare a casa adesso».
«Tesoro, va tutto bene?» Domandò ancora Shaina. Vostra figlia se ne stette zitta, prima di prendere un respiro profondo e domandare: «Allora è per questo che siamo qui? Per un’altra Guerra Sacra?» Poi aveva alzato gli occhi e avevate incontrato il suo sguardo spaventato e frustrato. Durante i fatti dei Senza Volto aveva scoperto la verità su se stessa ed era stato difficile per lei da sopportare. Soprattutto quando aveva capito che la gemella Tomoe voleva riaverla con sé e insieme distruggere il vostro mondo. Ma era riuscita a opporsi e a imporre la pace.
Vostra figlia si lasciò cadere sul divano, la schiena china, quasi sulle ginocchia e si prese il viso tra le mani. «E’colpa mia. E’ colpa mia se sono qui. Sta succedendo tutto a causa mia un’altra volta».
«No, ma cosa dici?»
«Non capisci, mamma? E’ colpa mia se sta succedendo di nuovo tutto questo!» Esclamò lei con le lacrime agli occhi, ben visibili alla luce della lampada accesa.
«Non eri tu, Yoshino, non eri tu!»
«Io ho… No, lasciatemi stare, per favore. Ho bisogno di stare un po’da sola».
«Yoshino…» Avevi tentato tu. Ma la vostra bambina si era già rintanata nella sua stanza. Shaina sospirò e si tolse la maschera, rivelando il viso affranto e distrutto.
«Credi che dovremmo fare qualcosa?» Domandò lei. Tra tutti e due eri tu il più dolce e comprensivo della coppia. Tua moglie era più severa e rigida ma amava vostra figlia alla follia quasi quanto te. Ed era grave che neanche lei riuscisse a trovare le parole giuste per comunicare con Yoshino, decisamente nel cuore dell’adolescenza e più testarda e in preda alle tempeste ormonali che mai.

Nei giorni seguenti, mentre il Gran Sacerdote vi dava il via per ristrutturare le Dodici Case dagli ultimi assalti subiti, con il Cosmo, i Silver Saint dello Scudo e della Croce del Nord risalirono la scalinata.
Tu avevi appena finito quando i due ti salutarono: «E’ permesso?» Ti domandò allegro Juan. Li conoscevi di vista ma non erano cattive persone, anzi. Erano stati molto d’aiuto durante la Guerra Sacra contro Eris. Indossavano le loro cloth d’Argento tirate a lucido per l’occasione e anche Georg si era fatto la barba. «Salve, Cavalieri d’Argento, come state?»
«Non c’è male, nobile Aldebaran e voi?» Domandò Georg.
«Siamo vivi, perché state risalendo le Dodici Case?»
«La Somma Atena e il Gran Sacerdote ci hanno convocati, possiamo passare?»
«Prego, passate pure». I due ti ringraziarono e ti salutarono. Chissà cosa voleva la Somma Atena da quei due? Molto probabilmente voleva affidar loro una missione. Non sarebbe stata la prima volta che dei Silver attraversavano le Dodici Case per conferire con la Dea proprio per questo motivo.
«Io vado a fare la spesa, abbiamo finito il latte e le uova». Ti disse Shaina a un tratto mentre rassettavi un po’ gli appartamenti privati. Avreste potuto delegare il compito ai collaboratori domestici che vivevano nelle case quasi a ridosso del Tempio del Toro ma lei era abituata a fare da sé e non saresti stato tu a toglierle quest’abitudine. Inoltre, era giusto che anche i servitori, che, avevano combattuto (o meglio, messo a repentaglio le loro vite) per salvarvi durante l’attacco, riposassero. Addirittura, Shura aveva cercato di scendere in paese per andare a trovare il vecchio Mino, che lo aveva salvato. Ma, se non c’era riuscito era stato per via di Cocteau, che gliel’aveva impedito e perché il vecchio Mino era morto di crepacuore proprio al primo rintocco che vi salvò. Povero Shura, non aveva neanche potuto ringraziarlo.
Stavi spazzando il cortile della Seconda quando Aiolia fece il suo ingresso. «Ehi, Aldebaran!» Ti chiamò. Tu alzasti lo sguardo verso di lui e lo vedesti avanzare verso di te: «Ciao, Aiolia». Lo salutasti. Il Cavaliere della Quinta, come quello dalla Quarta in poi (a parte Shura, sì, avevi saputo anche tu della freccia nella schiena che lo aveva colpito. Per fortuna che aveva intaccato soltanto il muscolo e non gli organi vitali) era uno di quelli ad essere ancora illeso. E, uno dei più sorpresi dall’invasione dell’esercito improvvisato di servi e civili che vi aveva protetto. «Hai saputo quello che è successo?»
«Ti riferisci ai due Silver che stanno salendo le scale? Sì, li ho fatti passare».
«Tu lo sai qual è il vero motivo per cui stanno salendo?»
«Ah, boh? Sarà per una missione», avevi detto smettendo di spazzare.
«Mia sorella dice che non è così e anche gli altri domestici confermano».
«E, da quand’è che ascolti pettegolezzi di servi?» Gli domandasti inarcando un sopracciglio, scherzoso. Che, si era annoiato di giocare a mimetizzarsi come un camaleonte tra i soldati semplici e si era dato al taglia e cuci? E, sì che sarebbe dovuto essere Aphrodite quello con questo hobby, sempre secondo le comari del paese. Ma quello era più legato alle sue rose per essere interessato ai pettegolezzi.
Aiolia arrossì ma disse: «In realtà non mi interessano, ma Lythos è una tale chiacchierona e stamattina mi ha raccontato questa storia assurda. E’ vero?» Già. Poco prima dell’arrivo di Aiolia, era sceso il vecchio Galan. E, tu, lo avevi fatto accomodare in casa e riposare un po’. Dopotutto aveva una settantina d’anni anche lui. «Ti ringrazio per la gentilezza, nobile Aldebaran, però non c’è bisogno». Aveva tentato di schernirsi l’uomo più basso di te di una decina di centimetri. «Insisto». Avevi detto e così, il servo di Aiolia si era piegato al tuo volere con un quieto: «Se proprio insistete». E, l’avevi accompagnato a una sedia in cucina e gli avevi offerto qualcosa da bere.
Anche Lythos era corsa in soccorso del fratello, stando a Galan, armata di una pala che la ragazza usava per curare l’orticello vicino alla Quinta. Orticello che Aiolia aveva contribuito a creare spaccando la roccia e aiutandola a riempire le buche di terriccio e, di cui la donna si occupava con molta cura. E, la sua cura si poteva risentire nel gusto e nella bellezza degli ortaggi che coltivava. I pomodori che ti aveva portato erano i migliori di sempre.
Leo era rimasto sconvolto quando sua sorella si era parata di fronte a lui con quell’aria minacciosa e la pala, che aveva lanciato un sinistro brillio alla luce delle fiaccole. Te lo aveva raccontato Galan, in vena di chiacchiere. La cosa che, più di ogni altra cosa aveva sconvolto il Cavaliere di Leo, aveva detto, era non tanto il fatto che la sorella volesse difenderlo (e l’invasione della servitù e di Rodorio poi) quanto il fatto che fossero armati. «Giuro che se avesse potuto avrebbe strillato: Non è leale e Atena ha vietato l’uso delle armi!» Aveva ridacchiato il nonnino. E, a quel punto eravate scoppiati a ridere. In effetti ce lo vedevi anche tu a dirglielo, arrabattandosi nel tentativo di trovare una frase migliore di un classico “vattene via, è pericoloso!” Certo, l’uso delle armi era vietato al Santuario, ma Lythos non era mica una Saint, era una serva, non era legata da nessun giuramento cavalleresco. «A parte questo pare alcuni Cavalieri d’Argento siano riusciti a capire come annullare gli effetti di quel Cosmo. Ma la cosa interessante è che sembra che non sia stata loro l’idea».
«Ah, no? E di chi è stata?»
«E’ stata di una giovane molto intelligente. Io, personalmente non l’ho vista, ma sembra che lei avesse compreso che il Cosmo influenzava soltanto i soldati e i Cavalieri, addormentandovi, in un certo senso. Quindi ha cercato di proteggerli spingendoli via o facendo scudo ai soldati con quello che poteva. E, a lei si sono aggiunte altre persone. In breve tutta Rodorio, armata come meglio poteva, si è rivoltata contro i nemici e ha risalito le scalinate. Ho sentito che Aphrodite dei Pesci non ne è stato molto entusiasta. Scusatemi, a volte divago, sapete com’è, l’età. Dunque, dicevo? Ah, sì. Lei ha pensato questo: se i Cavalieri e soldati sembrano addormentati, allora per svegliarli ci vuole qualcosa che abbia un effetto opposto, dal momento che si era accorta che strillarvi nelle orecchie vi svegliava e annullava definitivamente gli effetti di quel Cosmo. Però non poteva passare il tempo a strillare, per questo, aiutata dai Silver dello Scudo e della Croce del Nord, si recata alla Meridiana dello Zodiaco e ha annullato definitivamente gli effetti del Cosmo ostile. Pare che Georg e Juan l’abbiano aiutata percependo il Cosmo al posto suo».
«Dobbiamo la nostra salvezza a una civile?»
L’uomo bevve e ti restituì il bicchiere vuoto. «Così è, Cavaliere, via, devo andare. Grazie per l’acqua, ci voleva qualche minuto di pausa». Decretò alzandosi dalla sedia poggiandosi sul bastone. Tu ti protendesti ad aiutarlo ma scacciò la tua mano con un gesto del braccio metallico come a dire: “Ce la faccio, ce la faccio”.
L’avevi accompagnato alla porta e lì ti aveva salutato augurandoti buona giornata.
Tornasti al presente e confermasti: «Sì, è vera, perché questi dubbi?»
Il tuo amico aggrottò la fronte e domandò, confuso: «Dunque la conoscevi già?»
«E’ passato Galan tre ore fa e me l’ha raccontata». Spiegasti.
L’altro si rilassò: «Ah, se lo dice Galan allora…» Come se il suo servo fosse la Bocca della verità.
«Tu cosa ne pensi?»
«Penso che dovremmo ringraziare la nostra salvatrice».
«Io penso soltanto che non dovevano impicciarsi. Molti ci hanno rimesso la vita, lo sai». Sì, lo sapevi. I civili non erano addestrati e infatti, lanciandosi allo sbaraglio, non tutti ne erano usciti vivi. Molti erano feriti e i medici se ne stavano occupando tuttora. Stringesti i pugni: non avresti mai voluto che accadesse una cosa simile. Non sarebbe mai dovuta accadere. Era compito vostro difenderli e vi eravate fatti cogliere di sorpresa dalle ninfe e gli Angeli di Artemide. Nel bel mezzo della battaglia, qualcuno aveva urlato che c’erano delle cose nere nei cieli di Rodorio, che stavano dirigendosi da tutte le parti alla Meridiana dello Zodiaco, i cui fuochi risplendevano ancora. E, come se ne fossero state attratte, le creature ci volteggiavano attorno prima di disperdersi e scomparire nel nulla.
«Sai cosa ha urlato una delle ninfe di Artemide?» Domandasti.
«A proposito delle creature?» Indovinò Aiolia con aria grave portandosi le mani sui fianchi. Ma il suo sguardo sembrava già esortarti a continuare, come se dicesse che era pronto al peggio ma che l’avrebbe affrontato con la stessa grinta di sempre. «Che quelle creature sono loro alleate». Il Cavaliere del Leone scosse il capo e si batté un pugno sulla fronte: «Dannazione. Avrei dovuto immaginarlo!» Borbottò.

Castalia
Avevi fatto la conta dei morti e dei feriti e non erano bastate le lenzuola bianche a coprire i primi. L’unico che sembrava felice della situazione era Sirrah, il becchino. Anche se simulava bene il suo cordoglio per le vittime, trasudava comunque viscidume da tutti i pori. Non era veramente uno spirito, ma era rimasto bloccato tra questo mondo e l’altro. Ciò, aveva procurato al Fantasma dell’Opera mancato, alcune capacità dei fuochi fatui combinate a quelle dei vivi. Per esempio poteva mangiare e bere, dormire, ma non poteva infierire in alcun modo sugli esseri umani né usare i suoi poteri di Saint. Anche perché era soggetto al controllo ferreo di Death Mask e Lancelot, che se lo rigiravano come gli pareva quando gli serviva.
In tutto questo delirio post attacco, mancava solo una persona all’appello: Astrid. Ad accorgersene era stata una delle dottoresse. «Non era con voi?» Avevi chiesto alla tua collega infermiera, che scosse il capo, desolata: «Credevo che fosse con voi!»
Una voce maschile tossicchiò alle vostre spalle: «Ehm ehm». Vi giraste e vedeste due scompigliati Saint della Croce del Nord e dello Scudo. Il primo reggeva tra le braccia una ragazza svenuta dalla chioma bionda: «Astrid!» Esclamasti e tu e la donna vi precipitaste da lei. La prendesti dalle braccia di Georg e la guardasti. Era sporca in più punti le bende ai piedi insanguinate ed era coperta di polvere e sporco. «Dov’era? Dove l’avete trovata?» Domandasti in coro con l’infermiera che si era precipitata ad auscultarle il cuore. «Era alla Meridiana dello Zodiaco, pare che sia grazie a lei che abbiamo vinto». Rispose Juan.
«La Meridiana dello Zodiaco? Lei? Come ci è arrivata?»
«E’ una lunga storia».
«Castalia!» Ti chiamò uno dei dottori e tu dicesti: «Arrivo!» Poi ti volgesti verso i tuoi colleghi e dicesti: «Me la racconterete un’altra volta, dobbiamo andare». Ciò detto raggiungesti gli altri dottori portando con te il tuo prezioso carico.

Era la tua impressione o la tua paziente sembrava rimuginare su qualcosa? Da quando le avevi detto che erano stati Georg e Juan a riportarla in infermeria si era chiusa nel silenzio. Com’era possibile che questa giovane che profumava di sapone, profondamente addormentata nel suo letto fosse l’artefice della vostra salvezza?
Te l’avevano detto Georg e Juan quando la battaglia finì e la riportarono in braccio da te, svenuta. Era stata lei, infatti, nonostante la convalescenza, a gettarsi in battaglia e a salvarti urlandoti nelle orecchie. E, mentre tu avevi guidato quell’esercito improvvisato di civili che avevano risvegliato parte delle forze armate della Dea, lei, coadiuvata da due Silver, era riuscita ad aprirsi la via verso la Meridiana dello Zodiaco. E, accendendola (neanche tu sapevi come), aveva annullato l’influsso di quel Cosmo malefico. E, pure molto famigliare, che avevi già percepito parecchi anni prima. Volgesti lo sguardo verso la scalinata delle Dodici Case. E ripensasti al seguito della conversazione. Ti dissero che, una volta arrivati alla Meridiana erano stati attaccati da Odisseo, l’altro Angelo di Artemide. L’Angelo li aveva tenuti d’occhio fin da quando aveva visto Astrid lanciare un sasso alla nuca di Teseo e tramortirlo. I due Silver avevano ingaggiato battaglia con il nuovo arrivato per permetterle di suonare il gong. Ma erano stati sconfitti.
L’ultima cosa che avevano udito era stato l’urlo di terrore della ragazza. Poi erano stati risvegliati di soprassalto dal suono del gong, si erano alzati e l’avevano vista percuotere il gong con un tubo che era stato lasciato lì dai precedenti lavori di ristrutturazione.
“Non è possibile, Juan è sempre stato un fanfarone contafrottole. Non può essere andata così”.
Il ricordo ti faceva rabbrividire, perché sapevi che era reale. Ti venne quasi da ridere di te stessa. Tu, Castalia dell’Aquila, che ti facevi spaventare da una ragazzina. Cosa diavolo stava succedendo? Se Shaina l’avesse saputo, avrebbe riso. Quella là non perdeva mai occasione per prendersela con i più deboli, quando non si precipitava ad aiutarli. Come con Pegasus o Seika. Ammettevi che da quando si era innamorata di Seiya, era molto cambiata. Aveva mostrato un lato che non le conoscevi, anche se bastava poco per farla tornare a essere la solita battagliera di sempre. Adesso che poi era diventata madre era come se avesse trovato una ragione più che valida per sfoderare gli artigli a difesa della sua amata figlia.

Tu e Shaina non vi eravate più sentite da quando aveva sposato Aldebaran del Toro. Un giorno, così dal nulla, se ne era andata e, qualche mese dopo, ti era giunto l’invito al matrimonio. Era stata una bella sorpresa sapere che non solo lei si sarebbe sposata, ma che Aldebaran fosse tornato in vita. La coppia però, che andò a stabilirsi in Giappone, ti fece promettere di mantenere il segreto. E, tu, eri una tomba, quando si trattava di segreti. Poi, ricevesti una lettera da parte di Shaina che ti annunciava la sua maternità, con allegate delle foto della famiglia felice.
Quel giorno ti saresti dovuta presentare in ospedale tempo per dieci, però, forse per l’emozione di aver rivisto Seiya, Shaina e Aldebaran, ti eri attardata con loro la sera prima ed eri andata a dormire tardi. Non ti era mai successo neanche ai tempi dell’addestramento di Seiya. Se il tuo ex allievo l’avesse scoperto... Pregasti che non succedesse mai. Scattasti via dal letto scalciando le coperte, indossasti rapidamente la maschera e i vestiti, corresti a lavarti, fare colazione, il tutto dovendo togliere e rimettere maschera e vestiti e poi uscire di corsa. Quando raggiungesti l’ospedale, venisti a sapere che le infermiere avevano portato Astrid nella piccola palestra dove Shun l’aveva ricevuta. Ah, già, Shun. Ti eri scordata che c’era anche lui. Chissà perché aveva insistito per seguire la completa guarigione della vostra nuova ospite era un mistero.
Forse però non era una brutta idea. Un giovane uomo talmente bello da sembrare una ragazza, con i capelli castani lunghi fino alle spalle con riflessi verdi chiari e biondi, legati in una coda bassa e gli occhi azzurri, abbigliato con un camice bianco, sopra una camicia verde e pantaloni candidi, avrebbe sicuramente sciolto la vostra paziente nei vostri confronti. Non che tu ti fossi mai azzardata a formulare un pensiero sconveniente. Seiya e i suoi amici (sapevi benissimo che quei cinque erano fratellastri, però per tutti erano un gruppo di amici) erano alla stregua di figli, per te. A pochi metri della porta della piccola palestra dell’infermeria, fosti raggiunta dalle voci di Astrid e Shun. «Non ha paura?» Gli stava chiedendo lei.
«Certo che no, perché dovrei averne?» Rispose il Cavaliere con la voce di uno che cade dal pero.
«Bè, le ho appena confermato la veridicità di quelle voci».
«Credimi, mia cara, nella mia vita ho visto cose molto più spaventose di questo dono. Su, vieni, ti do una mano io.» Proprio in quel momento entrasti e trovasti il fratellastro di Seiya che accompagnava la bionda al primo esercizio. Aveva appena finito di mormorare qualcosa quando dicesti: «Shun, scusami, avete già cominciato?» Se non ti posasti una mano sul cuore per calmarlo, lo dovevi solo ai tuoi allenamenti, che ti avevano privato di certi gesti superflui come quello. I due si girarono a guardarti e il dottore ti sorrise, affabile: «No, Castalia, sei arrivata giusto in tempo per darci una mano». Peccato che lo capivi benissimo che non aveva la più pallida idea di dove cominciare.
Annuisti e ti avvicinasti.
Grazie ad Atena eri arrivata in tempo.
Per quanto Shun fosse un chirurgo eccellente, non sapeva quasi niente di fisioterapia, sebbene durante il periodo di addestramento, fosse probabile che avesse subito ferite tali da spedirlo in infermeria. Ti accorgesti dello sguardo insistente di Astrid e ringraziasti di indossare la maschera che copriva la tua faccia infastidita e stupita. Sembrava di rivedere la versione bionda del Cavaliere di Aquarius precedente. In un certo senso, però, ti sentisti giudicata. Anche se il tuo corpo era tonico e allenato, indossavi una maglia ampia con la fusciacca e dei leggins, non ti si vedevano neanche le smagliature e le vene varicose. Perciò non capivi che cosa avesse da guardarti.
Cominciaste gli esercizi. Era la prima volta che faceva esercizi di fisioterapia, lo capisti dall’impaccio e dall’insicurezza. Era evidente che non le era mai capitato niente di tanto grave. Poi capisti il reale motivo di tanto interesse: non avevi indossato il camice. Era risaputo che non lo indossavi mai ma non t’importava. Nessuno ci aveva mai fatto caso. Però, in fondo, a quella ragazzina non dovevi alcuna spiegazione. Eri sempre stata una persona molto discreta e abbastanza intelligente da fare attenzione alla maschera. In più non ti era mai importato niente di quello che pensavano le persone, e, la maschera, ti aveva aiutato, in un certo senso. Anche se con alcuni soggetti come Seiya era stato difficile conquistarsene l’immediata fiducia. Che la ragazzina rientrasse nella categoria? Anche perché poi tornò a guardare Shun e gli chiese «Sul serio lei è, cioè, tu sei un medico?».
«Certo, ho studiato medicina non appena ho potuto e mi sono laureato a Nuova Luxor.» Rispose sorridente. Un sorriso tranquillo e cordiale che rasserenava l’animo di chi gli stava accanto. Lei invece sembrava domandarsi dove si trovasse quella città. «Cosa ci fai qui?» Gli domandò, suo malgrado incuriosita. «Lady Isabel mi aveva detto che avevano bisogno di un bravo medico al Santuario e mi sono offerto volontario, lavoro qui da due anni».
«Ti pagano bene, suppongo».
«Certo, il Gran Sacerdote e milady tengono molto alla salute dei Cavalieri e degli altri abitanti del Santuario. Ti hanno già spiegato tutto?» S’informò.
«In realtà ricordo a malapena di aver incontrato la vostra Lady». Strabuzzasti gli occhi, anche se nessuno giacché avevi il volto celato dalla maschera. Adesso fu il turno del dottore a mostrarsi incuriosito: «Davvero?»
«Bè, se era la signora vestita come una torta nuziale...» Ribatté incerta, timorosa di offendere. Invece, Shun si limitò a sorridere di nuovo: «Sì, è lei, anche se è la nostra Dea non ha ancora imparato a vestirsi. Non preoccuparti, non offendi nessuno nel dire che è rimasta indietro. Tutti noi alle sue spalle ne diciamo ben di peggio sul suo stile, non è vero, Castalia?» Asserì divertito, ricordando chissà cosa sullo stile d’abbigliamento della Vostra divinità. Ridesti anche tu, in effetti, la vostra Dea non aveva proprio idea di come si vestisse: «Vero, Shun». Ridevi poche volte, ma era sempre divertente. Poi non vi diceste più niente.
A parte ogni tua remora appurasti che la gentilezza di Shun, e la sua parlata da ciclo bretone, contribuirono un po’a sciogliere la vostra paziente. Forse non era stata una pessima idea, la sua proposta, e tu, che avevi accettato soltanto per curiosità.
Quando gli esercizi finirono il Cavaliere di Andromeda, o meglio, di Virgo, la salutò: «Bene, per oggi abbiamo finito, riposati. Ci vedremo domani alla stessa ora.» si raccomandò. Fosti tu a riaccompagnarla in camera. Shun doveva averle fatto davvero una buona impressione. Di solito non ti sorrideva mai, ma si lasciò scortare senza fare storie. Grazie ad Atena, eri ancora giovane e scattante, ma non eri certa di poter sostenere così a freddo un’altra maratona. Soprattutto adesso che la Dea aveva vietato l’uso del Cosmo, per non si sa quale ragione.
Questo fu ciò che accadde il primo giorno.

Col passare del tempo comprendesti che il suo caso era più grave di quanto apparisse. Se non fosse stato per il rassicurante influsso di Shun, sarebbe stato assai peggio. La poveretta era, infatti, affetta da incubi che la costringevano alla fuga, come se una ritirata fisica avesse potuto salvarla dai suoi demoni interiori; mandando in confusione tutta l’astanteria.
Di solito eravate tu e Shun quelli che solo per essere ritrovata, in un angolo, ancora tremante e con gli occhi sbarrati, dalle infermiere. Non c’era mai un orario per queste crisi, potevano colpirla in qualunque momento della giornata. A volte erano gli stessi Cavalieri d’Oro che venivano a farle visita a dover assistere a questi spettacoli. Quasi niente poteva per rasserenarla, a parte metterle una rosa sotto il naso e farla piombare in un sonno profondo. Death Mask aveva commentato, più dispiaciuto che irato, quando una di quelle crisi la assalì in pieno pomeriggio durante una loro visita: «Sarà meglio che esca da qui, non credo che mi permetteranno di fumare».
Gran parte del merito però andava proprio a Shun. Grazie a lui la giovane stava cominciando a capire che non eravate dei rapitori, da come ci tenevate alla sua salute. Anche quando aveva gli incubi e le crisi derivate dal trauma, sembrava sempre sorpresa di trovarvi lì, pronti a riportarla alla realtà. Adesso però sembrava aver esteso questa considerazione anche a Death Mask, Aphrodite, Kiki e Mur.
Quel nuvoloso pomeriggio, Astrid stava dormendo, uno dei rari momenti di riposo che il trauma le concedeva. E, Death, si era alzato per avviarsi al davanzale e fumare. Si accomodò sul parapetto della finestra e si accese una sigaretta. Si metteva sempre in modo che il fumo non arrivasse alle narici di Astrid. Non aveva voglia di sorbirsi un altro cazziatone da parte tua, così l’aveva chiamato. «Lancelot da ancora dei problemi?» Aveva chiesto Aphrodite, seduto sul letto vicino a quello della loro protetta. «Quello è tutto un problema». Come se quelle parole fossero state una sorta di segnale, Astrid cominciò a tremare nel sonno. Le sue palpebre si aprirono di scatto e si sollevò a sedere, spaventata. Vi scambiaste uno sguardo d’intesa prima di accostarvi a lei per aiutarla a tranquillizzarsi.

Astrid
Il dolore al collo e il ricordo di quella notte che continuava a perseguitarmi. Un altro ricordino da aggiungere alle ferite che già costellavano il mio corpo ancora martoriato.
All’inizio erano sopraggiunti dei giorni di vuoto emotivo e poi le lacrime erano strabordate da sole e avevo pianto per un’intera giornata. Pensavo di aver già superato la fase in cui sembrava che mi stessi riprendendo e altre invece che subivo mostruose ricadute. Quei sei mesi più gli extra per la mia scampagnata durante l’attacco e che mi procurò qualche ecchimosi e persino il collare ortopedico e furono i peggiori della mia vita. Come se non bastasse la mia ansia stava raggiungendo livelli quasi record. A tal proposito mi sorpresi del fatto che Death e gli altri avessero ancora voglia di venire a trovarmi, forse per riconoscenza per averli salvati. Anche se non potevano sapere che ero stata io. A ripensarci non sapevo neanch’io come c’ero riuscita. Mi ero solo accorta che Death Mask era diventato sonnambulo e io volevo che la smettesse di portarmi a spasso, ignorando persino i richiami dei dottori e delle infermiere. Perciò lo avevo chiamato e chiamato finché non avevo cominciato a strillargli nelle orecchie. Solo allora tornò in sé. E, nel frattempo, avevo già visto i soldati ridotti a quello stato miserevole.
Mi ci erano voluti cinque minuti per capire come risvegliarli e, mi serviva una fonte di rumore abbastanza potente, perché non potevamo passare tutto il tempo a strillare per i vicoli e le strade della città alla stregua degli strilloni degli Anni ‘20. Se non fosse stato per quei medici che mi dettero retta e sparsero la voce e, per quei due Silver, forse adesso non saremmo qui.
Non avevo detto a nessuno che la mia era solo un’idea folle. Folle ma con un fondamento, se fossimo riusciti ad accedere a una fonte di rumore ancor più potente delle grida, forse saremmo riusciti a fare qualcosa. «La Meridiana dello Zodiaco!» Aveva detto Georg a quel punto, mentre Juan lanciava il sasso che andò a tramortire quell’Angelo. Era stato lui, io non c’entravo niente, ma chissà perché tutti pensarono il contrario. «E’ anche un campanile!» Poi lo spagnolo mi prese in braccio con un sorriso: «Le mie scuse, signorina». Fece allegro, in inglese, (come si fa ad essere allegri in una situazione del genere?) Poi saltammo via, sui tetti del paese, per arrivare rapidamente alla Meridiana.
Quella delle creature non fu neanche una mia idea, a dir la verità. Stavo per suonare il gong quando un altro Angelo (maledette iconografie che li dipingevano come creature benevole!) che cercò di ucciderci. I due Cavalieri furono sconfitti con una rapidità impressionante e passò a me. «E, tu, creaturina spaurita con le gambe tremanti, cosa vorresti fare?» Mi canzonò divertito. Provai a dargli una bastonata, non so nemmeno io con che coraggio, ma afferrò il bastone, me lo strappò via e Fu allora che gridai terrorizzata e, le creature, proprio mentre cercavo di strisciare via. I ricordi della notte dell’aggressione improvvisamente si sovrapposero alla realtà. «No, vattene via!» Cominciai a dire. «Vattene via, lasciami stare!»
L’Angelo però non mi aveva ascoltata, mi aveva raggiunta e, stava per ghermirmi con una mano quando urlai terrorizzata. A quel grido si bloccò ma solo per un attimo che poi mi afferrò per il collo e mi sollevò. «Che esseri inutili che siete». Commentò sprezzante. Boccheggiai e cercai di allentare la stretta intanto che scalciavo nel tentativo di liberarmi. Improvvisamente sentii il vento e poi il caldo e una creatura, la prima di una lunga serie afferrò il mio aguzzino. Il quale trasalì e mollò istintivamente la presa. Io crollai sulla catasta di legna della Meridiana.
Mi portai la mano al collo dolorante mentre mi riempivo i polmoni d’aria e rialzai la testa mentre la creatura lo riduceva in cenere. L’aria si riempì dell’odore di carne bruciata e, quando il corpo cadde a terra privo di vita, la cosa passò a me.
Cercai di arretrare di nuovo e, la creatura, con il suo solo passaggio incendiò il legno che prese ad ardere come legna secca. Io scesi immediatamente, prima che le fiamme mi avviluppassero e rotolai sul pavimento. La creatura si avvicinò di nuovo e allora urlai: «No!» E tesi un braccio come a fermarla. Quella si immobilizzò come se si fosse trovata di fronte un vetro e ci avesse sbattuto contro. «Vattene via! Vattene via! Vattene via!» Urlai a squarciagola e la creatura girò sui tacchi e obbedì, uscendosene da dove era venuta. Poi svenni.
Quando ripresi conoscenza, qualcuno mi stava bagnando la fronte con un panno umido. Battei le palpebre e riuscii a riaprire gli occhi, mettendo a fuoco la scena e incontrai la maschera inespressiva di Castalia. Che poi, scoprii anche essere la mia fisioterapista; che fortuna, proprio.

Ovvio che da quando mi aveva raccontato che erano stati quei due a riportarmi in infermeria non mi ero sentita molto contenta. E, se durante il tragitto mi avessero… No, non poteva essere. Avevo cercato di scacciare questo pensiero con forza eppure non se ne andava e, questo, finì per scatenarmi altre crisi d’ansia e paura.
Castalia e gli altri non sapevano cosa fare.
Stranamente, però lo seppero Death, Aphrodite, Mur e il suo allievo e Shun. Lo scoprirono per caso, un giorno durante un attacco. Non volevo essere toccata da nessuno e non volevo vedere nessuno. Sulle prime mi ascoltarono ma poi cominciarono a imporre la loro presenza e, un giorno, assisterono a un attacco di ansia scatenato dall’insieme di tutto quello che avevo passato e le mie paure.
Furono costretti ad andare via mentre i medici mi sedavano. Se avessi continuato così avrei finito per sviluppare una dipendenza dai sedativi. Anzi, mi sa che la stavo già sviluppando. E, quando i medici se ne accorsero interruppero le dosi, provocandomi l’astinenza e altre crisi d’ansia.
Una notte mi svegliai di soprassalto a causa di un incubo, che mi provocò uno dei soliti attacchi. Ma, anche se ero tornata alla realtà, mi sforzai di non dar a vedere quanto stessi male e mi rannicchiai in posizione fetale prima di cambiare idea e mettermi seduta contro la testiera del letto, abbracciando il cuscino.
E, fu allora che risentii la voce maschile che apparteneva al mio passato: “Non dovresti farti del male a questo modo”. Stavolta, però, ne avvertii anche il Cosmo rassicurante che mi avvolse, scaldandomi e scacciando via il mio freddo interiore.
“Tu cosa ne sai? Cosa ne sai di quello che ho passato? Come fai a parlare con tanta leggerezza?”
“Non sto parlando con leggerezza, lo sto dicendo per te. Non lasciarti sopraffare dalla paura, Astrid”.
“Non so come si fa, dimmelo, ti prego, dimmelo. Potrebbe essermi successo di tutto, di tutto! E, io potrei non saperlo e, anche se lo venissi a sapere non sono pronta per affrontarne le conseguenze e…”
“Ora basta così”. Disse e mi parve di essere abbracciata da qualcuno. Anche se non c’era nessuno con me. La mia vista si era abituata alla penombra e, posso garantire che non c’era davvero nessuno con me. Adesso avevo pure le allucinazioni tattili. Eppure il respiro di qualcuno lo sentivo sulla mia testa e il corpo di un uomo pure, che si sostituì al cuscino. Ma dal modo in cui mi cingeva capii che non voleva farmi del male. E, mi tenne stretta a sé finché la paura e l’ansia non passarono, continuando a mormorare parole senza senso come si fa con i bambini.
“Che cosa fai?” Domandai imbarazzata, arrossendo quando mi passò per la testa che poteva percepire il battito accelerato del mio cuore. “Ti dimostro che non c’è niente di cui aver paura”. Mi rispose. “Te l’ho detto, Astrid, sei al sicuro, nel posto più sicuro della Terra e tu lo sai. Nessuno alzerà mai un dito su di te. Sono solo le tue paure ad essere fuori controllo. Sforzati di guardare oltre esse e ritroverai la calma”. “Come si fa?” Gli domandai corrugando la fronte in una smorfia di pianto. Non mi ero mai sentita così fragile e debole come ora e mi vergognavo di me stessa. “Lasciati aiutare”. Disse sorridendo e sciogliendo dolcemente la stretta.
“Da chi?” Domandai. Ma lui si allontanò.
“Aspetta! Non andare via!” Implorai alzando una mano come se avessi potuto riacchiapparlo. Ma le mie dita si chiusero nel vuoto e io non potei fare altro che asciugarmi le lacrime con la mano, tirare su col naso e cercare di dormire.

“Lasciati aiutare”. Queste parole mi restarono impresse a lungo.
Ma da chi?
Cominciai a prestare attenzione ai piccoli gesti delle persone vicine a me. Fu così, che, quattro giorni dopo, mi accorsi che i Gold (approfittando del momento in cui non toccava a loro combattere) stavano cercando di aiutarmi come potevano, anche se il loro aiuto si poteva ridurre a portarmi un vassoio di cibo, qualcosa da leggere, raccontarmi delle storie, aneddoti sul loro passato, guarirmi il collo con l’aiuto delle rose demoniache di Aphrodite (non smetterò mai di ringraziarlo per questo) o chiudere la finestra quando sentivo freddo. Il che succedeva, alle volte. Perché l’ansia e il terrore erano talmente forti da provocarmi brividi di freddo al minimo refolo di vento. Dimostrarono una pazienza degna di veri e propri santi. Non mi domandavo da dove gli uscissero quei gesti e quella bontà, era evidente che fosse dettata dalla compassione che gli suscitavo. E, a volte, quella compassione era un’arma a doppio taglio. Alle volte mi sembrava un insulto alla mia persona, altre, invece, una panacea per i miei patemi. Più facilmente la seconda. “Sforzati di guardare oltre esse”.
L’aiuto più grande mi giunse da Death, Kiki e Mur. Se Shun mi parlava e cercava di farmi confidare, con la sua pazienza e gentilezza, durante gli esercizi, loro capirono cosa fare per andare a ripescarmi.
Un giorno che ero tornata dal bagno, vidi un’ombra assumere i contorni di Rhadamantys. Cominciai a tremare mentre un’altra crisi mi assaliva. Crollai in ginocchio e tutto attorno a me si fece nero, come quando alzavo le braccia e la mia vista si offuscava. Solo che in questo nero percorso da figure e luci psichedeliche e lastre di vetro infrante, con i cocci che volavano dappertutto, non mi lasciavano possibilità d’appiglio. Solo dopo arrivai a capire che quella trappola altro non fosse che la manifestazione delle mie paure. Ero una piccola stella senza cielo cui era appena stato tagliato il filo che la teneva su. Che cosa succede quando il filo viene tagliato? Nessuno lo aveva mai detto, ma ora lo sapevo: si precipitava. Ed era quello che stava succedendo a me. E, così, precipitavo nelle fauci della paura, dell’angoscia, della disperazione. Era come se il dolore e la paura avessero acquisito un effetto devastante su di me, assieme al senso di colpa per non essere stata finita. Mai avevo percepito sensazioni così vivide e così potenti al punto da sopraffarmi. Non ero mai stata traumatizzata prima d’ora. Non pensavo che una cosa simile mi avesse demolito a tal punto. Per quanti sforzi facessi non riuscivo a rimanere ancorata alla realtà. Poi, senza sapere come, mi ritrovai a fissare gli occhi azzurri e determinati di Kiki e, poco dopo, anche il resto prese forma e tornai alla realtà. Quella esterna a me, anche grazie alle mani del Cavaliere di Ariete. Strano a dirsi, ma aggrapparmi fisicamente alle sue mani, che ricambiarono la stretta con forza, come a dire: “Ti tengo, sono qui”, in quei momenti, mi aiutò. Riscontrai lo stesso fenomeno anche con le mani degli altri.
Mi piacerebbe poter dire che la mia guarigione fu quasi immediata, che da quel momento in poi, mi bastava guardarli e appigliarmi alle loro mani per sentirmi al sicuro e innamorarmi di uno di loro, ma non è così che funziona. Questo non è il mio caso.
Però è vero che a quegli sguardi, a quei colori e a quelle dita mi ci aggrappai con tutte le mie forze. Con uno sguardo e pochi gesti erano riusciti a trarmi in salvo. E, furono proprio loro, oltre a Shun e a Castalia, a donare nuove basi alla mia mente distrutta, per ricostruirsi.
La cosa che mi sorprese era che avevo capito che cosa intendesse quella persona.
Ovvio che il trauma non sarebbe mai scomparso, ma potevo almeno cercare di andare davanti un giorno dopo l’altro, un passo dopo l’altro. Con la consapevolezza, che almeno, non ero sola. Non ero mai stata in cura da uno psicologo e, non sapevo cosa si provasse. Sapevo per certo, che ormai mi ero arresa a ricevere il loro aiuto. A quel punto, non m’importava più niente della mia psiche, che facessero di me quello che volevano. E, con mia grande sorpresa e sollievo, ogni giorno che mi svegliavo e che mi scoprivo ancora intatta, ringraziavo il Cielo, anche se non ero mai stata credente. Mi piaceva pensare a me stessa come panteista, ma di qui a ritrovarsi a che fare con una realtà molto, troppo vicina al mito era un altro paio di maniche. Anche gestire quell’assurdità, mi era insostenibile, ora come ora. “Un problema alla volta”, mi dissi una sera dopo cena “un problema alla volta”. Ma da quale cominciare? Non avevo neanche le forze per riconoscere i miei problemi, figuriamoci affrontarli. E, poi i miei genitori, a quest’ora erano sicuramente morti per la disperazione o per infarto. Oppure mi stavano cercando ed io non potevo fare niente per raggiungerli. Sentivo la loro disperazione forte e chiara, potevo quasi usarla come un radar per individuare la lor posizione.
Il mio problema più grande era l’empatia, io ero empatica e, più forti erano i sentimenti che mi legavano alle persone, più chiaramente li percepivo. E, ora, grazie a quei cinque, stavo cominciando a percepire anche i loro. E, non volevo crederci. Un giorno, mi sovvenne un pensiero: se avessero detto la verità? Se avessero davvero cercato di salvarmi, quella sera? Non sapevo se fosse vero o meno, ma era anche certo che non ero nelle condizioni necessarie per rifiutare una mano, a prescindere a chi appartenessero.
Come disse il mio angelo custode, chiamiamolo così, “Lasciati aiutare”, ed era quello che stavo facendo.

Castalia
Azzardasti a guardare il Cavaliere di Leo. In quel momento lo vedesti tornare a guardare di fronte a sé e sgranare gli occhi verdi. Guardasti anche tu e vedesti Lythos su un carretto, che scrutava la folla per cercare il suo padrone con lo sguardo. Intanto che Galan, faceva salire quei soldati che non riuscivano a camminare. Non erano stati gli unici ad aver avuto quell’idea. Il che era un bene. Gli suggeristi di raggiungere la sorella e lui ti lanciò uno sguardo come a dire: “Vieni anche tu” ma tu scuotesti il capo. E, lui, allora strinse le labbra e la raggiunse.
La sorella minore di Leo trovò il viso del fratello maggiore in mezzo alla folla e la sua espressione si distese e sorrise sollevata. Poi tese una mano per aiutarlo a salire a cassetta. Anche se il Cavaliere di Leo preferì fare da solo. La sorella non se la prese.
Galan si volse a sorridergli un attimo, prima di sistemare uno dei feriti. Poi, Lythos, prese le redini e fece partire il carretto trainato dal cavallo. In quel momento ti venne da sorridere sotto i baffi per la stupidità di Aiolia. Scuotesti il capo soffocando una risatina. Aiolia non era cambiato quasi per niente, nonostante tutti questi anni. Ancora si sorprendeva della devozione e dell’affetto che i suoi servi nutrivano per lui. Poi tornasti a pensare ad argomenti più seri e ti tornò in mente la frase che aveva urlato la Dea Artemide. Perché avevi la sensazione che qualcosa non quadrasse?
Se la prima volta la Dea si era mossa per vendicare gli oltraggi arrecati dai Cavalieri a Poseidone e Hades, adesso era spinta dalla vendetta. Non c’era giorno che non ti recassi, mediante il Cosmo, sui campi di battaglia e aiutassi Seiya e gli altri. E, non vedessi con quanta rabbia e sete di vendetta combattevano i vostri avversari. Al punto che i favoriti della Dea erano stati costretti a scendere in campo con le Kamui. Era la prima volta che le vedevi ed erano spettacolari. I loro Cosmi parevano eguagliare quello di Atena stessa. A riprova della fedeltà che li legava. Persino Shun, così pacifico, sembrava un’altra persona con indosso quell’Armatura. Non eri l’unica Sacerdotessa-guerriero in campo. Anche Shaina faceva lo stesso, ma per Aldebaran. E, stavolta, aveva l’assoluta certezza che il suo non fosse un amore immaturo e a senso unico. Si vedeva lontano un miglio quanto il Cavaliere del Toro tenesse alla Silver Saint.

La prima battaglia era stata sfiancante. Per allora avevi indossato nuovamente la tua Armatura, dopo anni che non la mettevi. Era stato come riunirsi a una parte di te che ti era mancata.
Tu e Shaina e gli altri medici eravate stati schierati ai margini, pronti a intervenire in caso di necessità. Principalmente per recuperare i feriti e i caduti per mano delle lance dei guerrieri alati della divinità avversaria.
La situazione ti ricordò molto anche tuo fratello Touma. Ti sforzasti di non pensarci, per quanto il cuore ti dolesse. Avevi già pianto la morte di Touma, non avresti mai pensato di ritrovarti a versare altre lacrime per lui. Se non fosse stato per Seiya, che, un giorno, durante la battaglia, ti salvò la vita mentre stavi trascinando via un ferito, probabilmente ti saresti lasciata ammazzare dallo sconforto. Uno degli Angeli ti aveva costretto alla lotta: «Non avrò pietà di te, anche se sei una donna di una certa età». Salvo poi inferocirsi quando la donna di una certa età si era rivelata capace di dargli filo da torcere. Anche se era anziana, lei era una veterana, mentre quell’angelo borioso e pieno di sé, era solo un ragazzino. Si vedeva che non aveva mai combattuto contro una Silver Saint come lei. Già, tu non eri sola, avevi ancora Seiya, con te. Era stato salvato da Atena. Non era morto. Anche se il ragazzo non poteva capire né sapere cosa ti passasse per la testa. Gli mollasti uno schiaffo e lo rispedisti a proteggere la Dea, come sempre. «Non pensare a me, va a salvare Atena!» Lo redarguisti. Anche se non era più il tuo allievo, lui ti avrebbe sempre considerato la sua maestra. Però, stavolta, annuì senza fiatare e obbedì.
Questo, per ordine del Gran Sacerdote e di Cocteau, l’oracolo di Atena, che, in quanto a strategie belliche, dovevi ammettere che se la cavavano molto bene.

Oggi l’Angelo di Artemide superstite, aiutato dalle ninfe, aveva sferrato il loro primo attacco a Grevena e i Cavalieri e i soldati erano stati mandati lì. Era stato come rivivere la Titanomachia, sotto alcuni aspetti. Ma proprio sotto alcuni. Stavolta la Dea, oltre che dalla vendetta, era spinta da qualcos’altro. Non sfuggì a nessuno di voi il grido di rabbia che la vostra principale avversaria lanciò alla vostra Signora: «Atena! Dove la nascondi, maledetta?» Intanto che Atena si metteva in gioco per ristabilire la pace e sconfiggere le forze del male, infondendo il coraggio necessario alle truppe. Le quali, alla fine riuscirono a sbaragliare l’esercito avversario, che fu costretto alla ritirata. Anche voi faceste ritorno al Santuario. Molti soldati erano caduti in battaglia, nonostante la protezione dei Cavalieri. Era inevitabile, come in ogni Guerra Sacra.
Ci stavi pensando proprio in quel momento, quando Capricorn ti superò, guardando fisso davanti a sé, con l’imperscrutabilità che gli conoscevate tutti. Potevate ritenervi molto fortunati, il suo lato oscuro e il suo devastante potere insito nella sua costellazione, non erano venuti allo scoperto. Avevi sentito dire che durante l’attacco al Santuario fosse stato trafitto da una freccia. Ma se era così allora Aphrodite o Aiolia avevano già provveduto a risanarlo.
Mentre camminavate, lasciandovi dietro le macerie ancora fumanti e il puzzo di sangue e morte, ti guardasti attorno. Di solito non lo facevi mai, ma quel giorno invece sì. Scorgesti il nerboruto Toro e Shaina uno vicino all’altra e il resto della zoppicante e ammaccata guarnigione. A un tratto, Aiolia ti si affiancò: «Stai bene?» Ti domandò. Era coperto di sudore, sangue suo e non e sporco. La sua Armatura Dorata era tutta impolverata e crepata in più punti, ma, nel complesso era ancora tutto intero. Tu curvasti le labbra in un sorriso, ben celato dalla maschera: «Aiolia, sì».
«La battaglia è stata molto dura».
«Ma è solo una battaglia, la guerra è un’altra cosa». Scacciasti dalla mente i ricordi della Titanomachia. Perché la Dea aveva cercato di entrare a Grevena? Che cosa sperava di ottenere? La Megas Drepanon di Khronos era di nuovo sottochiave e protetta dai vostri Cosmi. A cosa le serviva?
«Cosa c’è? Ti vedo pensierosa». Ma come darti torto? Fu quello che non disse. Anche se non vi vedevate da quasi trent’anni, riuscivi a capire ancora quello che diceva e quello che sottintendeva. Non era difficile, bastava solo fare attenzione. Anche se il Cavaliere del Leone si esprimeva raramente tra le righe.
Alzasti le spalle. «E’che questa situazione mi sembra assurdamente famigliare. È come se si fosse venuta a creare una distorsione spazio-temporale e fossimo di nuovo precipitati nel passato. Solo che i Titani qui non c’entrano niente».

Non sapevi che pesci pigliare. Come dicevano in Italia.
Il giorno che tornasti in astanteria per riposarti ti trovasti di fronte a una scena surreale. Com’erano riusciti quei tre, intanto che riposavano, a conquistarsi la fiducia di Astrid? Come erano riusciti ad aiutarla? A che gioco stavano giocando? Che la giovane avesse loro ricordato Camus? Non era possibile, non erano mai stati molto legati quei quattro e il defunto miglior amico di Milo di Scorpio. Che ci fosse dietro lo zampino del Gran Sacerdote? Possibile. Sapevate tutti quanto l’odore dell’infermeria infastidisse Cancer e, quanto il suo concetto di pietà sconfinasse nella crudeltà. Tu non la sentivi perché la tua maschera la filtrava.
Che fosse, dunque, amicizia? Da Mur e Kiki te lo potevi anche aspettare, ma da Death Mask e Aphrodite no. Quei due non erano le persone più generose, aperte e comprensive del Santuario. Il primo era un irascibile con la mania del collezionismo di maschere e anime dei suoi assassinati, il secondo un inguaribile narcisista con la puzza sotto il naso dedito solo alla venerazione della propria incommensurabile bellezza e alla cura delle sue rose demoniache. Però la loro terapia occhio-mano sembrava funzionare. Anche Shun sembrava d’accordo con te, sotto quest’aspetto. Ne parlasti con Shaina, la sera che i Gold furono tutti schierati in campo per sferrare l’attacco finale ad Artemide.

«Tu che ne pensi?» Domandasti alla Silver Saint dell’Ophiuco mentre facevate la ronda. Non si poteva mai sapere con la Dea della Luna. «Non lo so. So solo che devo mettere Yoshino in punizione».
«Yoshino? Ma ha diciassette anni, Shaina!» Domandasti sconvolta.
«Non importa. Le avevo detto di scappare appena succedeva qualcosa e lei è rimasta! Capisci? E’ rimasta! Lo so che l’abbiamo portata noi al Santuario, lo so, ma pensavo che fosse con la somma Atena non che fosse rimasta alla Seconda a giocare al Saint!»
«Pensavi che stessero cercando lei, non è così?»
«Sì. Quando ho sentito l’esplosione del suo Cosmo ho temuto il peggio». Il Cosmo di Yoshino aveva causato non poche perplessità iniziali tra le fila dei soldati. Ma era bastato dire che la Dea era scesa dalla Tredicesima Casa per tranquillizzarli e chiudere lì la questione. Non parlaste della battaglia decisiva. La potevate sentire grazie al Cosmo e voi, non eravate tipi da smancerie.

Aldebaran
Erano passati quindici giorni da quando avevate affrontato l’esercito di Artemide ed eravate tornati malconci al Santuario.
Yoshino vedendoti così era scoppiata in lacrime e si era prodigata per farti stare meglio. Si occupava di te come quando eri malato. Ti sprimacciava il cuscino e ti portava da mangiare, mancava poco che ti rimboccasse le coperte.
Se non altro aveva smesso di avercela con voi per averle nascosto il vero motivo per cui l’avevate portata al Santuario.
Ma cosa potevate saperne voi che quel giorno, invece di essere ad Atene lei era rimasta alla Seconda? Shaina aveva cercato di dirti che non era colpa tua, ma continuavi a sentirti colpevole. Era persino peggio di quella volta che Seiya ti spezzò il corno. Anche se l’avevi affidata alle cure di Shura non avresti mai smesso di vegliare su di lei e occupartene.
«Non è così».
«Che vuoi dire? Non capisco». Aveva detto tua moglie, seduta sul bordo del letto.
«Pensavamo che la Guerra Sacra fosse scoppiata per lei, che, ancora una volta, fosse lei il bersaglio. Ma non è così. Ne ho avuto la prova quando le Lunari ci hanno attaccati».

Kiki
Stavi riparando un’armatura quel giorno. Grazie ad Atena che il tuo maestro era riuscito a teletrasportare altrove Raki un attimo prima che cominciasse il primissimo attacco delle ninfe. Non le avevi mai affrontate prima ma una tale freddezza metteva orrore.
Ti sedesti a gambe incrociate nella tua Casa. Ormai stavi abbastanza bene da poterti mettere seduto e tenere in mano gli strumenti da riparatore di Armature. Eri abituato alle ferite. Ormai avevi perso il conto di tutte le volte che avevi messo a repentaglio la tua vita per conto del Santuario e della Giustizia.
«Raki, portami...» Iniziasti, poi ti ricordasti che la tua allieva era in Jamir e mormorasti: «Ah, già». Eri talmente abituato ad avercela tra i piedi che ti eri dimenticato che il tuo maestro l’aveva portata al sicuro.
Dopo pranzo passato a mangiare un po’di riso e antidolorifici, apristi la mente e inviasti un messaggio telepatico a Ichi. Era ora di ricevere il rapporto quotidiano. Avevi richiesto un permesso speciale al Gran Sacerdote, subito dopo l’attacco al Grande Tempio, affinché Ichi dell’Hydra potesse tornare immediatamente a investigare per te. In realtà lui si limitava a raccogliere informazioni per te e, se la situazione lo richiedeva, ripulire i campi di battaglia. Nonostante il look punk, Ichi era pur sempre un Cavaliere d’Atena, quindi non era una buona idea sottovalutarlo. Eri tu quello che investigava.
Il permesso speciale consisteva nel non farlo combattere e di usarlo in altro modo e, per facilitare la transizione, avevate deciso che avreste usato i tuoi poteri telepatici.
Come al solito ti inviò tutte le informazioni che era riuscito a raccogliere. Chiudesti gli occhi e facesti un bel respiro profondo per prepararti alle immagini che presto ti avrebbero raggiunto. Poi lasciasti che i suoi ricordi fluissero nella tua mente come il sangue scorre nelle vene. Avesti una panoramica del cielo azzurro costellato di cirri e, poi, il monastero davanti a te, appollaiato su una roccia. Il ricordo del vento che frusciava tra le fronde degli alberi di uno dei pochi luoghi dove potevate sperare di trovare un po’di vegetazione in Grecia. Avesti davanti a te la panoramica di rovine e un campo di fiori e poi, di gente che lavoravano che venivano interrotte dagli agenti di polizia che erano chiamati a risolvere il caso.
E, in mezzo a tutte quelle immagini, sensazioni e ricordi, ti accorgesti di due cose. Primo tra tutti, che i famigli dei monaci dicevano che mancava una persona. Perché mancava una persona? “Ichi sei ancora qui?”
“Sì, signore, avete trovato qualcosa?”
“Può darsi, o forse può darsi che non c’entri niente. Tu investiga su…” Recepisti il nome e glielo ripetesti. “D’accordo, signor Kiki”. Poi chiudesti le comunicazioni per quel giorno. Non eri una persona molto intuitiva per quanto riguardava i casi investigativi, ma se coglievi un indizio, un piccolo dettaglio stonato, allora ti impuntavi. E, quando ti impuntavi, avevi capito che era il caso di allertare il Gran Sacerdote. Indossasti la tua Aries e salisti fino alla Casa di Atena ove chiedesti udienza. La Dea e il Gran Sacerdote ti ricevettero subito. Atena era accomodata sul suo Trono e il Gran Sacerdote era in piedi accanto a lei nei suoi paramenti.
«Cavaliere di Aries», ti salutò Lady Isabel con un dolce sorriso. Il Papa, invece ti guardò. Una mano poggiata sullo schienale del Trono. «Milady».
«Come vanno le tue ferite? Ti sei ripreso?»
«Sto già meglio, grazie per l’interessamento mia Signora. Sono qui per comunicarvi una notizia».
«Che notizia?» Domandò il Gran Sacerdote.
«Sto indagando a proposito dell’assassinio del monastero e ritengo che ci sia dell’altro».
«Hai avvertito un Cosmo ostile?»
«No, ma c’è qualcosa che non mi quadra in quella faccenda e sono deciso a indagare».
«Lo sai che potrebbe essere una faccenda che con noi non ha niente a che vedere». Disse il Gran Sacerdote. «Ma è nostro compito mantenere la pace e la giustizia, se credi di riuscire a farlo, allora fai pure, noi non ti fermeremo».

Shura
«Signor Shura, come va la ferita alla schiena?» Ti aveva chiesto Yoshino mentre camminavate sulla spiaggia affollata quella mattina di agosto.
Quella mattina non eri sceso in campo in quanto il Gran Sacerdote aveva deciso di prendere in mano le redini della situazione, d’accordo con Aphrodite dei Pesci, il miglior stratega di cui disponevate. Avevano deciso di riorganizzare le forze. Dal momento che c’erano ancora molti Saint allora aveva deciso di organizzare una rotazione di modo che tutti avessero la possibilità di combattere e il restante rimanesse a proteggere il Santuario e la Dea. O meglio, le Dee.
Ma non era una Dea quella che stavi sognando, bensì una ragazza su una rupe che, cantava e poi, gettava la testa indietro e, ululando si trasformava in un lupo. Ti accorgesti di essere a quattro zampe anche tu. Solo che tu non eri un lupo, bensì una capra e, avesti la malaugurata idea di lanciare il tuo belato proprio in quel momento.
La lupa infatti, ti udì, si volse verso di te e ti si lanciò contro sbranandoti. Nel tentativo di sottrarti alle sue fauci eri arretrato ed eri caduto in un precipizio. Ma una mano si era allungata verso di te e si era serrata attorno al tuo polso bloccando la tua caduta e lasciandoti penzolare nel vuoto.
Avevi sgranato gli occhi. Quando li avevi sollevati per vedere chi ti teneva avevi visto il te stesso demoniaco sorriderti beffardo. Avevi urlato nel sogno, soprattutto quando poi eri stato trapassato al cuore da una freccia. Eri caduto bocconi e sollevando la testa avevi visto Seiya, con l’Armatura del Sagittario indosso, avanzare verso di te controluce del tramonto: «Seiya», avevi mormorato. Poi quando fu davanti a te sgranasti gli occhi per l’orrore: «Aiolos!» Esclamasti e il fratello maggiore di Aiolia ti guardò con occhi pieni di disprezzo. Poi incoccò una seconda freccia e tese l’arco. Ti svegliasti improvvisamente, mettendoti seduto di scatto. Respirasti profondamente tre volte, prendendoti il viso tra le mani. Poi, quando le mani abbandonarono il tuo viso, sbuffasti. Lieto di trovarti di nuovo nella realtà ma con la ferità al cuore di nuovo aperta come prima. «Aiolos». Mormorasti e, nel tuo tono avevi cercato di metterci tutte le scuse che non eri riuscito a fargli. Perché ancora più che ad Aiolia era a lui soprattutto che gliele dovevi.
Eri ancora fasciato (anche se grazie alle rose demoniache le tue ferite erano già state risanate, Aphrodite aveva insistito affinché tu tenessi la fascia. Va a capire perché). E, avevi un principio di stress. Non eri abituato a restartene con le mani in mano in una situazione come questa. Tutte le Guerre Sacre che avevate combattuto le avevate combattute fino alla fine e senza ricambi. Temevi che la Dea non ce la facesse senza tutti voi al gran completo. Ma quelli erano gli ordini del Gran Sacerdote e della Vostra Signora in persona. E, gli ordini non si discutevano mai. Ti grattasti la testa e inforcasti gli occhiali, poi ti alzasti e andasti a fare colazione. Avevi trovato Yoshino seduta sul divano del salotto della tua Casa.
«Signor Shura», ti aveva salutato alzandosi dal divano. E, ti eri accorto che portava una borsa da mare tra le mani.
«Yoshino! Cosa fai qui? Non dovresti essere con i tuoi?» Le avevi domandato sorpreso (anche un po’spaventato) per quest’intrusione, non solo di trovarla lì ma anche di essere beccato in pigiama (boxer). E, dal momento che Aldebaran e Shaina quel giorno erano rimasti al Santuario ti sorprendeva che non fosse con loro. A meno che non c’entrasse il disastro dell’attacco precedente. Avevi sentito anche tu l’esplosione del suo Cosmo infuriato che aveva quasi buttato giù la Seconda. Avevi già assaporato una volta il potere delle Atene gemelle della dimensione di Lancelot. Non ti saresti mai aspettato che quel giorno Yoshino fosse rimasta alla Seconda e che fosse venuta a sapere della Guerra in tal modo.
Lei si accorse che eri in boxer e arrossì e si volse dall’altra parte. «Mi scusi, non sarei dovuta venire». Borbottò ma tu la fermasti. «Aspetta.» Lei si bloccò e tu cercasti le parole giuste per non farla andare via. Alla fine te ne uscisti con un: «Fammi mettere qualcosa addosso e ne parliamo, d’accordo?» Non eri un grande comunicatore ma almeno ad ascoltare ci riuscivi. E, non era da tutti saper ascoltare. Ti era sempre parso di inquietare un po’ la figlia di Aldebaran e Shaina, ma se ora era qui lei, di sua spontanea volontà e senza che tu avessi mandato un messaggio ad Aiolia o qualcun altro per un appuntamento, allora era grave.
«Va bene».
Andasti in camera tua, ti infilasti una camicia bianca e dei pantaloni neri e tornasti in soggiorno.
Yoshino era ancora lì, girata verso la porta. «Puoi guardare, ora». Le dicesti. Lei si volse e ti mettesti le mani in tasca, in attesa che dicesse qualcosa. Ma lei non riuscì a dire niente, anche se si sforzò. «Hai bisogno di qualcosa?» Le domandasti con il tono più delicato che ti uscì. «Volevo… volevo andare un po’via dal Santuario». Cogliesti la sua richiesta implicita e domandasti, stupito: «Nel bel mezzo della Guerra?» Ti saresti aspettato che l’avrebbe chiesto ad Aiolia, invece che a te. «Perché?» Domandasti poi.
«Perché non sopporterei di stare qui un minuto di più. La prego, solo per oggi».
«Lo sai che è molto rischioso quello che mi chiedi?»
«Sì».
«Ma vuoi farlo lo stesso».
«Sì».
Eri tentato dal dirle di no, però qualcosa ti spinse a dire il contrario: «Va bene».
E, così, eccovi qui, alla spiaggia che passeggiavate l’uno accanto all’altra. Lei indossava un costume da bagno e un pareo mentre tu i pantaloncini del costume. (Che avevi dovuto indossare sotto i vestiti quando lei ti aveva detto che voleva andare al mare). Avrebbe fatto un po’strano vedere un ragazzo in camicia e pantaloni lunghi sulla spiaggia in mezzo a tutti i bagnanti, no? La spiaggia era molto diversa d’estate, quasi non la riconoscevi con tutte quelle persone e quegli ombrelloni. Per loro questo era un luogo di villeggiatura e turismo come un altro.
L’avevi portata fuori dei confini del Santuario pensando che sareste stati più riparati, dal momento che tu non potevi percepire i Cosmi altrui né usare il tuo per comunicare ad Aldebaran e Shaina la vostra meta. Ma, avevi potuto mandare furtivamente un messaggino alla coppia, spiegandogli tutto e dicendo di stare tranquilli.
Aldebaran aveva risposto che si fidava di te. Shaina invece no e, sapevi già che avrebbe rimproverato Yoshino una volta che avreste fatto ritorno al Santuario.
Per un momento tornasti a pensare alle sorti della Guerra. La tecnica adottata dal Gran Sacerdote aveva, infatti, un difetto: se i nemici fossero stati attenti avrebbero capito che non eravate tutti schierati e, avrebbero potuto mandare qualcuno a cercarvi. E, voi due, in particolare, eravate piuttosto scoperti. Soprattutto tu. Anche se dovevi ammettere che attiravi molte attenzioni, quasi non c’eri abituato. Molte ragazzine ti scoccavano sguardi pieni di ammirazione e a Yoshino di invidia omicida. Ma, a parte questo, a te non interessava.
Avevi accettato di uscire, più che altro per non soffrire troppo, perché certi giorni era più difficile di altri. E, questo era uno di quelli. Per fortuna Yoshino non ti conosceva così bene da intuire il tuo dolore o percepire il tuo Cosmo intriso di malinconia, pentimento, tristezza e dolore. «Allora, perché hai voluto vedermi?» Le domandasti nel tentativo di distrarti un po’ e di non darle l’impressione di passeggiare in compagnia di un fantasma. «Avevo voglia di staccare un po’, gliel’ho detto al bar dove abbiamo fatto colazione». Disse girandosi verso di te per scoccarti uno sguardo.
«Che cosa è successo? Puoi dirmelo, non andrò a ridirlo ad Aldebaran». Eravate amici, ma ciò non significava che gli avresti detto ogni cosa. Non queste, sapevi mantenere i segreti.
Lei ti scoccò un’occhiata speranzosa e al tempo stesso dubbiosa, prima di cominciare: «Si ricorda il nostro primo incontro?» La ragazza era una delle poche persone che ti dava del lei e non del tu. Ma non avevi diritto di obiettare, la Dea Atena ti poteva chiamare come desiderava. «Sì, perfettamente».
Lei si era cinta un braccio con una mano e aveva sospirato. «Se non l’avessi mai incontrata, io non avrei mai scoperto la verità sulle mie origini e su di me. Io, vi devo molto, Shura, a lei e a tutti gli altri. Ma ci sono delle volte in cui mi manca essere una ragazza normale come tutte le altre». Tu non sapevi cosa dirle, non avevi mai saputo cosa significasse avere una vita normale. Perciò ti limitasti ad ascoltarla: «A volte mi sembra ancora di essere il premio della Guerra delle Spade Sacre e ho paura che altri nemici appaiano e vogliano uccidermi o rapirmi».
«Lo sai che sono tutte idiozie? Noi non lo permetteremo mai». Le dicesti incrociando le braccia dietro la schiena. Lei trovò uno spiazzo libero e si fermò, stese il telo colorato che portava in borsa e ci si accomodò. Poi ne passò uno anche a te, sicché tu potessi fare altrettanto. Il tuo era arancione e sapeva di pulito, come se l’avesse comprato da poco. «A volte vorrei che non doveste farlo per forza».
«Yoshino, tu non devi preoccuparti di niente. Se lo facciamo è solo perché vogliamo che tu possa vivere una vita il più normale possibile, a prescindere da chi sei davvero. Perché è questo quello che hai scelto di essere, ricordi?» Le domandasti. Lei ti guardò come a domandarti se lo pensassi davvero. Tu evitasti anche solo di pensare che stavi ripetendo le parole che ti disse Aldebaran il giorno che l’affidò alla tua custodia. Sapevi perfettamente che lei non avrebbe mai potuto vivere una vita completamente normale. Ma eri abbastanza intelligente da comprendere che non era il caso di farglielo notare. Almeno, non oggi.
Ti passò la crema solare e tu te la spalmasti, onde evitare di diventare di una bella sfumatura rossastra, in perfetto stile aragosta bollita. «E, poi non hai bisogno di tormentarti per questa Guerra Sacra, stavolta tu non c’entri niente».
«Come fa a dirlo? Avrebbe dovuto vedere quelle donne come attaccavano!» Obiettò.
«Attaccano sempre le Dodici Case ma, puoi stare tranquilla, non stanno cercando te». Dicesti finendo di spalmarti la crema solare e gliela restituisti. Stavolta fu lei a spalmarsela. «Ma io sono pur sempre Atena». Sussurrò spaventata.
«Dammi retta, non sei tu quello che vogliono, altrimenti ti avrebbero attaccato senza pietà quando hai cercato di difendere Aldebaran».
«Ma loro l’hanno fatto».
«Solo perché hai difeso la Seconda Casa e tuo padre. Altrimenti non ti avrebbero mai lasciata andare, esattamente come durante i fatti dei Senza Volto. Non credi?» Lei chiuse la bocca e meditò sulle tue parole. Volse il viso verso il mare calmo e azzurro e si portò le ginocchia al petto e si torturò un po’il labbro inferiore prima di domandarti: «Allora se non sono io il loro bersaglio, stavolta chi è?»
«Non lo so». Ammettesti. Non sapevate neanche se l’obiettivo di Artemide fosse il Santuario o fosse un soggetto o un oggetto. In ogni caso non gliel’avreste lasciato trovare.

Cocteau
La battaglia alle Dodici Case si era conclusa nel migliore dei modi anche se avevi temuto che l’altro prendesse il controllo. Anche tu, come gli altri, tutto ti saresti aspettato fuorché essere difeso dai civili. Addirittura, un collaboratore domestico ti fregò (passategli il termine) l’elmo per deviare una freccia dicendo: «Scusate, signore,» poi te lo calcò di nuovo sulla testa e, fece anche male. L’elmo di Gemini usato come scudo devia frecce serpi che, facevano la parabola sulla calotta e cadevano a terra quasi come spaghetti e, venivano spazzate via dalle scope dei servi o afferrate per la coda da qualche coraggioso e lanciate al mittente . Ah, tra le altre cose, ti avevano fatto sdraiare (con la stessa rigidità di un pupazzo di plastica di quelli che vedevi nei negozi di giocattoli) e ti avevano riparato dietro una barricata improvvisata di loro corpi e legno e le mazzate che elargivano e prendevano dagli avversari.
Non ne volevi vedere altre. Il servo aveva solo da ringraziare la Dea, altrimenti, se fossi stato capace di muoverti, lo avresti gonfiato come una zampogna. Passassero un mucchio di cose, che eri costretto a stare nella tua forma animale per la maggior parte del tempo, per esempio.
Che spesso dovevi fare attenzione ai predatori e nutrirti come una vera civetta, per esempio. Che quando riacquistavi la tua vera forma eri nudo come un verme. Ma che fossi costretto a subire questo, no!
Infatti, quando l’influsso di quel Cosmo era stato spezzato, eri balzato in piedi e avevi cacciato tutti i nemici con l’Another Dimension e, poi, con un enorme sforzo per non mostrarti adirato, mandasti via i tuoi fin troppo leali salvatori. Una volta compiuto il tuo dovere avevi riacquistato la tua forma animale, eri corso (si fa per dire) alla Tredicesima a fare rapporto e a sincerarti delle condizioni della Dea e di Kanon. Avevi trovato il Gran Sacerdote ancora mezzo intontito e la tua Dea sana e salva con le sue Saintie.
Poi, una volta compiuto il tuo dovere ed esserti sincerato delle condizioni di salute di Atena, eri volato da Ionia. Lo trovasti sfiancato e afono. Quasi si accasciò a terra e si portò una mano alla gola. Dalla sua espressione sembrava che qualcuno gli avesse appena rubato la voce.
«Non pensavo, che il suo potere, fosse così forte». Ansimò con un fil di voce. Se tu avessi ancora avuto le sopracciglia, adesso le avresti aggrottate. Un momento, il suo potere? Di chi stava parlando?
Poi si alzò e andò in bagno.
Tu lo tenesti d’occhio tutta la sera, sperando che facesse una mossa falsa o si lasciasse incastrare. Ma la Una volta tornato alla Decima, Shura si accorse che c’era qualcosa che non andava. Di solito te ne stavi sulle tue soltanto se eri adirato per via della tua condizione o se avevi i sensi di colpa. Non eri mai il primo a chiedere scusa, a meno che non ci fosse l’occasione giusta per farlo, come quella volta che accompagnaste Yoshino a casa del padre.
Quando guardasti meglio il tuo amico strabuzzasti gli occhi: «Santa Atena, che cosa è successo?» Aveva il naso coperto da un grosso cerotto e il torso era completamente fasciato. «Una freccia e qualche ragazzino troppo zelante».
«Anche tu sei stato salvato dai civili?» Gli domandasti. Lo spagnolo alzò le spalle: «A questo punto penso che non ci sia nessuno di noi che non sia stato salvato dai civili».
«Quanto ti hanno dato?»
«Un paio di settimane». Se conoscevi un po’ la strategia di tuo fratello allora eravate nei guai: «Non ce le abbiamo».
«Lo so, ma non ti preoccupare, mi sono lanciato in battaglia con il corpo guarito al settanta per cento, riuscirò a sopravvivere anche stavolta». “Ottimista”. Pensasti.

In quelle due settimane, mentre i Cavalieri combattevano e facevano del loro meglio per resistere, avevi tenuto d’occhio Ionia. Soprattutto ogni volta che non eri costretto a scendere in campo a fianco di Kanon. Non avevi delegato questo compito a nessun altro perché non ti fidavi. Il vecchio non era stupido e, se c’era una persona di cui in linea di massima era meglio non fidarsi, quello era proprio lui. Per questo lo controllavi.
Anche se Shura preferiva non farlo, come se potesse ancora usare il proprio Cosmo e percepire quello altrui, tu sì. Dopotutto ti sentivi ancora in colpa per quello che era successo durante la gioventù del tuo amico. Ora, come minimo, dovevi aiutarlo. Specialmente adesso che era tornato al Grande Tempio così macilento. Per fortuna tu eri riuscito ad arginare l’avanzata delle schiere di Artemide alla Terza mentre tutti gli altri servitori si erano schierati alle altre Case.
E, quella mattina di agosto, non era il tuo turno, così ne avevi approfittato per riposarti un po’. Eri volato alla decima e avevi cercato Shura ma non l’avevi trovato né lì né altrove. In compenso avevi avvertito chiaramente il suo Cosmo allontanarsi dalla barriera assieme a quello turbato di Yoshino. Se avessi potuto ti saresti messo le mani nei capelli. Quell’incosciente si era alzato dal letto prima del tempo un’altra volta. Anche se mancavano solo quattro giorni al completo recupero si era per forza dovuto alzare. D’accordo che gliel’aveva comandato Atena, ma almeno aspettare un altro po’, no, eh? No.
Aspettasti tutto il giorno il suo ritorno. Ritorno che avvenne al tramonto. «Dov’eravate finiti?» Chiedesti adirato quando il tuo amico rincasò, un po’più abbronzato e puzzolente di salsedine, sabbia e crema solare. «Scusa, siamo andati al mare».
«E, ci siete andati senza di me?»
«Quando mai si è vista una civetta al mare?»
«Non sono una civetta!» Sbottasti. Shura fece un sorrisetto divertito, come a dire: “Come adoro stuzzicarti su quest’argomento”.
“Sì, va bè, sorvoliamo”. Pensasti continuando a trafiggerlo con lo sguardo e, per lanciargli quest’occhiata non occorreva affatto possedere Excalibur. «Va bene, va bene, non ti scaldare». Disse in tono conciliante. «Su, dimmi il resto». E, tu cercasti di darti una calmata. Facesti un respiro profondo prima di accucciarti sul tavolo della cucina: «Piuttosto, ho delle novità». E, quando dicesti così lo vedesti fermarsi: «Ionia?»
«Proprio lui». Riprese a camminare. «Di che si tratta?» Chiese interessato.
«Era come pensavi tu, Ionia stava usando il Domination Language durante l’assalto».
Shura assottigliò gli occhi mentre si recava in cucina e si versava un bicchiere d’aranciata. Poi si girò verso di te e bevve, in attesa che tu gli dicessi altro. «Ma c’è di più. Sembra che abbia un socio».
«Non sarebbe la prima volta, dopotutto quel buffone era alle dipendenze di Mars». Commentò lo spadaccino portandosi il bicchiere alle labbra. «Già. Penso che ne parlerò con Kanon». Gli annunciasti. Shura non disse nient’altro, si limitò solo a sorseggiare la sua aranciata, pensieroso.

Aphrodite
Stavi passeggiando nella piccola serra che avevi allestito. L’aspetto delle Dodici Case cambiava a seconda dell’influenza del Cosmo del suo proprietario. E, tu, amavi vederla decorata di statue, stucchi, fregi e rose. Le tue amate rose. La Dodicesima Casa aveva visto giorni migliori. E, anche la scalinata che conduceva alla Tredicesima, che, in casi normali, usavi a mo’di prolungamento del tuo giardino. L’unica Casa ad averne sul serio uno era la Sesta. Voialtri vi dovevate accontentare delle piante ornamentali da vaso come i gerani (che mal sopportavano l’afa della Grecia ma tant’è) Ma affronto più grande di quello che ti avevano recato i servi non l’avevi mai subito. Ora non era il momento di pensarci.
Dovevi recarti dal Gran Sacerdote a discutere della prossima strategia. Il Gran Sacerdote non aveva mai voluto farti scendere in campo, se non in caso di estrema necessità. Il tuo sangue velenoso non andava sparso. Sapevi che Albafica, il tuo predecessore, aveva anche la pelle velenosa, ma tu no, grazie ad Atena almeno questo tormento ti era stato risparmiato e, potevi goderti tutto il contatto e il calore umano che desideravi. Anche se al momento avresti preferito di gran lunga sentire il sapore del vino sulle tue labbra.
Era ora di pranzo e non avevi ancora toccato cibo. Certe volte prima di una battaglia lo stomaco ti si chiudeva e non riuscivi a ingerire neanche un pezzo di pane. Ma non ci potevi fare niente, certe volte ti prendeva così.
Quello che ti preoccupava davvero, più che le Lunari erano le creature. Le avevate già affrontate una volta ma non avresti mai pensato che ci fossero loro dietro tutto questo. Né che Artemide non si fosse ancora stufata di combattere la sorella minore. Ma se la Dea stesse mentendo? Se quelle creature non fossero davvero di sua proprietà? Avevi letto i registri e i rapporti delle precedenti Guerre Sacre per ispirarti e creare nuove strategie. Perché si sa, gli Dèi hanno la memoria lunga ma i loro eserciti no, quindi avevi chiesto alla Somma il permesso di recarti in biblioteca e studiare nuove possibili strategie. Con Hades una mossa simile non era necessaria perché in fondo, il Dio attaccava un po’come gli pareva, ma con la Dea della Luna sì. E, lo avevate visto proprio due settimane fa.
Salisti le scale fino alla Tredicesima e andasti dritto agli archivi delle Guerre Sacre come facevi da una settimana a questa parte. Non amavi particolarmente la biblioteca dal momento che era un posto un po’chiuso che sapeva di stantio. In un certo senso tu eri come i tuoi fiori, prediligevi gli spazi aperti per meglio respirare e goderti il bacio del sole sulla pelle e la carezza del vento tra i capelli. Ma a volte anche i fiori riescono ad adattarsi all’oscurità in caso di necessità. E, lo stesso riuscivi a fare tu.
Prendesti qualche libro e ti accomodasti a un tavolo. Stavi studiando le Guerre Sacre del XII secolo d.C..
Mentre sfogliavi i registri sentisti un frullo d’ali e poi dicesti: «Non pensavo che oggi mi avresti fatto l’onore della tua compagnia». Sollevasti il viso dalle scartoffie e lo reggesti con una mano. La civetta era appollaiata sullo schienale della sedia di fronte alla tua.
«Ancora con il naso infilato tra i libri, Aphrodite?» Ti domandò Cocteau. L’altro stratega delle Dodici Case, secondo soltanto a te. Ti esibisti in un piccolo sbuffo talmente piccolo che parve quasi un sospiro rassegnato: «Devo».
«Credi che potrebbero esserci utili queste informazioni?»
«Non lo so, ma sono sicuro che almeno parte delle risposte si celi qui dentro».
«Se lo dici tu...»

Death Mask
Non sempre le creature vi attaccavano. C’erano delle volte in cui sembrava che non esistessero neanche, ed erano i giorni che preferivi di più perché ti potevi riposare un po’. Ti stavi aggirando sul campo di battaglia coperto di sangue tuo e non.
Nello Yomotsu Hirasaka avevi mandato tante di quelle Lunari, che ti sorprendeva che Artemide ne avesse ancora.
Le truppe di ambo gli schieramenti si erano ritirate da circa dieci ore mentre tu avevi atteso un po’. Volevi vedere se le creature sarebbero arrivate a portarsi via le anime dei defunti che ancora si aggiravano sul campo di battaglia. Ma non era successo niente.
Ti accendesti una sigaretta. “Come pensavo, non hanno attrazione alcuna per le anime, solo per il Cosmo”.

Adesso stavi tornando al Santuario con la vaga sensazione che non fosse finita lì. Avevi fatto un salto al tuo campo giochi preferito ma non avevi trovato niente di anomalo. Tutto proseguiva come doveva essere.
Eppure, avevi lanciato lo stesso un richiamo per un’anima in particolare. Di solito quest’anima arrivava quando gli pareva, ma alcune volte, capitava che ti ascoltasse. E, questi era il tuo maestro DeathToll.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** La sottile luce dell'aurora ***


La sottile luce dell’aurora


Shun
Quel giorno non sarebbe toccato a te scendere in battaglia.
Perciò ti stavi vestendo per recarti al lavoro, dedicando il solito pensiero a Ikki. Che monitorava la situazione nelle retrovie, sempre due passi dietro a voi, rapidamente colmati con un balzo in caso di necessità. Hyoga ti aveva già preso in giro facendoti notare quanto tu fossi ossessionato da tuo fratello maggiore. Però non ci potevi fare niente. Lo stesso Hyoga che non aveva incontrato Astrid e, che era meglio non incontrasse mai. Ma, tu non eri lui e lo vedevi che lei non era poi così identica all’ex Aquarius.
Il volto di tuo fratello fece di nuovo capolino nella tua mente. “Ikki.” Stavi ancora domandandoti dove fosse quando la voce di Hades ti aveva strappato alle tue riflessioni. "La finisci e ti dai una mossa?" Sbottò esasperato, facendoti sussultare.
A Castalia erano, ovviamente, sorti un po’di dubbi quando le avevi chiesto di aiutarla nel suo lavoro con Astrid. A posteriori ti desti del deficiente da solo, perché con tutte le persone che c’erano, avevi chiesto di aiutarla solo per l’ospite del Santuario. Era lei che, da volontaria, si occupava dei feriti, soprattutto quando c’era da fare esercizi di riabilitazione. La Silver dell’Aquila, infatti, con il sopraggiungere dell’età, aveva deciso di servire in un altro modo la giustizia. Anche perché, non aveva mai usato il Cosmo per ritardare gli effetti dell’invecchiamento. Lei, aveva coraggiosamente deciso di accettarlo e basta. Inoltre, avendo un passato da insegnante, se la cavava piuttosto bene come coach motivazionale per i pazienti. Non che fosse molto più anziana di voi, però aveva deciso così. «Buongiorno, Shun, che piacere vederti, come stai?» Ti aveva salutato quando l’avevi raggiunta nella piccola palestrina dell’infermeria. «Molto bene, Castalia, ascolta, avrei un favore da chiederti».
«Ma certo, dimmi tutto». Aveva ribattuto con voce allegra e incuriosita. Rivedere Seiya dopo tanto tempo doveva averle restituito un po’di felicità. L’età l’aveva un po’addolcita nei vostri confronti. Avevi sempre sospettato che nascondesse una sorta di lato dolce e materno che Seiya aveva avuto modo di conoscere e, forse, anche Aiolia. Ma su quest’ultimo avevi dei dubbi. Secondo le indiscrezioni c’era chi li voleva amanti e chi li voleva, invece, amici. Da quando però era tornato in vita, con l’aspetto e la mentalità di quando aveva lasciato questo mondo, dubitavi fortemente che queste voci avessero un fondamento.
In ogni caso le avevi presentato la tua richiesta e lei aveva risposto: «Bè, è un po’inusuale, ma si può fare. D’accordo, ti permetterò di darmi una mano con Astrid, quando toccherà a lei. Proprio stamattina mi è arrivata la sua cartella clinica da parte della Fondazione Grado, un bel caso disperato, non c’è che dire. Non mi sorprende che sia così spaventata nei nostri confronti». Aveva commentato con pietà nella voce, mentre lasciavate la sua zona per dirigervi fuori dell’astanteria per prendere una boccata d’aria fresca.
Grazie agli Dèi, Milady aveva munito Rodorio e il Santuario di una struttura più grande e più attrezzata per meglio occuparvi dei feriti. Avresti voluto continuare a lavorare a Tokyo ma se la Dea aveva insistito tanto nel trasferirti qui, un motivo c’era di sicuro. E, un giorno, lo avresti scoperto. L’ex maestra di Seiya non ti aveva posto domande, ma era chiaro che stesse pensandoci anche lei. Lo avvertivi ogni volta che vi occupavate della paziente. Non capivi perché una donna forte e orgogliosa come lei ti avesse permesso di aiutarla. Ma, per tenere a bada Astrid, evidentemente ce ne era bisogno. E, tu, eri l’unico che si era offerto. Non che foste così tanti in infermeria.
Meno male, che lei non ti aveva posto domande perché altrimenti che le avresti detto? Tu non eri bravo a raccontare le bugie e, le sarebbe bastato inchiodare gli inespressivi occhi della maschera d’argento nei tuoi per farti dire tutta la verità. E, che sarebbe successo? Che gli avresti detto che l’idea non era stata tua, bensì del tuo ospite! Una follia del tuo ospite che, quella mattina che te l’aveva comunicato, ti aveva chiamato facendoti sobbalzare come se una bomba fosse esplosa alle tue spalle. Il Dio Infero non si faceva sentire e non vi aveva più considerato dalla notte dell’arrivo di Astrid; né tu, né i suoi sottoposti, tantomeno Atena.
Ti girasti verso lo specchio e vi trovasti Hades che ti guardava con serietà e un filo di impazienza. «Hades!» Esclamasti sorpreso. Purtroppo era nell’indole del Dio comparire quando meno te lo aspettavi. E, dopo tutti questi anni non ci avevi ancora fatto l’abitudine. «Voglio che tu faccia una cosa per me». Ti aveva ordinato.
«Cosa?» Avevi chiesto, più guardingo che voglioso di obbedirgli.
«Diventa il fisioterapista della nuova arrivata». Sgranasti gli occhi. E, questa da dove se l’era uscita? Tu eri un medico chirurgo non un fisioterapista! «Perché dovrei fare una cosa del genere?» Obiettasti indignato.
«Perché voglio studiarla». Quel tono non ti piacque per nulla. Che progetti aveva? «Non l’hai studiata abbastanza quando era sul tavolo operatorio?» Gli domandasti inarcando un sopracciglio. Gli occhi verde mare del Dio si adombrarono. «No. Non l’ho neanche guardata. Non mi serve a niente un pezzo di carne addormentato e macilento su un tavolo. No, mi serve di studiarla adesso che è sveglia».
«Che cosa vuoi fare?»
«C’è una cosa di cui devo sincerarmi».
«Perché? Ha a che vedere con le creature?» Insinuasti. L’altro ti scoccò un’altra occhiataccia e poi scomparve dallo specchio. Decidesti di assecondarlo, ma lo minacciasti di intervenire in caso avesse messo a repentaglio la vita della sua paziente. Non ti piaceva che il Dio dei Morti si mettesse a usare il tuo corpo quando gli pareva e piaceva. Ciononostante era anche vero che non eri più lo sprovveduto ragazzino che possedette la prima volta, adesso, riuscivi a opporti a lui.

Passò un’altra settimana prima che decideste di cominciare con gli esercizi di fisioterapia e, per quelli, purtroppo, non doveva esentarsi. Le infermiere l’avevano avvisata anzitempo. Perché nonostante le cure e le operazioni d’alto livello che aveva subito, da sole non erano sufficienti. Aggiunsero che eravate stati tu e Aiolia a occuparsi di lei.
Il primo giorno facesti un respiro profondo e ti recasti nell’area di Castalia, sfogliando per l’ennesima volta la cartella clinica.
Scorgesti il vostro riflesso nel vetro della finestra ma incontrasti soltanto il tuo sguardo smarrito. Di Hades nessuna traccia. Che si fosse scordato per cosa lo stavi facendo? No, sicuramente non era così.

Avevi smesso le Sacre Vestigia per occuparti dei feriti. In realtà tu te ne eri rimasto nelle retrovie assieme a Shaina, Castalia e tutti quelli che avevano conoscenze mediche. Il tuo compito, in particolare, era quello di proteggere i feriti e la Dea. Che, quel giorno, era rimasta indietro assieme a voi. Non indossava la sua sacra armatura ma, aveva pregato tutto il tempo, infondendo speranza ai Cavalieri e anche a te. Era solo grazie al suo intervento che eravate riusciti a vincere. E, voi e i Cavalieri d’Oro, Argento e Bronzo, avevate reagito infiammando i vostri Cosmo e recuperando le forze in un baleno.
Per l’occasione persino tuo fratello era tornato per combattere con voi e proteggervi. Era apparso come un raggio di speranza al tuo fianco, proprio come sapevi e, proprio mentre lo sconforto stava iniziando a prendere il sopravvento. Ti eri ripromesso di non chiamarlo, ma lui, doveva aver udito la preghiera accorata emessa dal tuo cuore, perché era lì, adesso. Pronto per aiutarvi a respingere i tre angeli più potenti della Dea.
Poi, erano arrivate le Creature. Ormai avevate deciso che il loro nome comune era quello per comodità. Era la prima volta che le vedevi dal vivo e, avevano seminato scompiglio, tra le fila.
Avevi anche visto ciò che erano capaci di fare.
Aiolia aveva già avuto a che fare con loro e aveva dato l’allarme. Così Mur aveva eretto il Crystal Wall più grande che gli avevate mai visto a parecchi metri d’altezza sulle vostre teste. Mentre le creature fluttuavano minacciose sopra di voi. Con tuo sommo orrore le creature, lo oltrepassarono sciogliendolo.

Ti girasti a osservare la reazione di Milady e la vedesti a occhi sgranati e le mani giunte in petto. Le avevano detto che erano pochissime, ma lì, sul campo, ne potevate contare un migliaio.
Le armate della Dea avversaria ne approfittarono per sfruttare la vostra sorpresa a proprio vantaggio. «Attaccate!» Urlò La Scoumune e, gli angeli e le sue milizie, al fianco delle creature, vi si erano scagliate addosso. Era stato il Dio dei Morti a suggerirti di non muoverti e di non usare il Cosmo. «Perché?» Domandasti ad alta voce, tanto, con tutto il caos che c’era, non ti preoccupavi di essere udito da alcuno. Nessuno avrebbe fatto caso a te. «Fa come ti dico.» ordinò perentorio il Dio.
Azzerasti il Cosmo e ti rilassasti, chiudendo gli occhi, preparandoti al peggio. Invece, le creature non ti calcolarono neanche di striscio, intanto che la tua armatura tornava alla sua forma originale. Si limitarono a passarti accanto scottandoti e smuovendoti i capelli.
Ti guardasti attorno stupito e azzardasti a muoverti, restando col Cosmo in quelle condizioni e, scopristi, che per loro eri quasi invisibile.
Qualche Cavaliere accanto a te seguì il tuo esempio e le creature persero ogni interesse per loro.
Forte di questa scoperta corresti a riferirla a Milady. Ci mettesti un po’ per ovvi motivi, ma ne valse la pena.
La Dea era circondata dai tuoi fratellastri e stava facendo leva sul proprio Cosmo per tenere a bada le creature, le quali, per contro, ne venivano sempre più attratte. Hyoga e gli altri stavano davvero mettendocela tutta per proteggerla. «Milady!» Urlasti quando fosti vicino. Inciampasti ma riacquistasti subito l’equilibrio. Urlasti altri tre milady prima di poter essere veramente vicino. La Dea volse il viso verso di te esclamando: «Shun!»
«Azzerate il Cosmo! Tutti, è l’unico modo per scacciarle!» Riferisti senza troppi giri di parole e, con urgenza nella voce.
«Sei sicuro? I Cavalieri potrebbero cadere vittime degli angeli!» Rilevò preoccupata mentre l'ex Pegasus evitava a malapena le mani artigliate delle creature. «Sì, ma le creature stanno facendo strage anche tra le truppe di Artemide!» Lady Isabel lesse la serietà e la convinzione nel tuo sguardo e, fece come le avevi detto. «Va bene, mi fido di te, Shun!» Ciò detto, usò il Cosmo un’ultima volta per mandare un messaggio a tutti i suoi soldati. E, esattamente come avevi detto le creature, persero ogni interesse per voi. Persino il recalcitrante Seiya si stupì di tutto ciò, anche se ne perse la sua Armatura. E, lo stesso, valse per i tuoi fratellastri e Ikki. Sulle prime le forze di Artemide parvero vincere, benché decimate anch’esse dalle creature, ma, sapeste prendere questo inaspettato aiuto a vostro vantaggio, facendo ritirare le milizie angeliche.
Hades non era intervenuto neanche una volta. Aveva lasciato l’incombenza della battaglia a te. Ed era giusto così, la sua presenza e il suo Cosmo, avrebbero portato solo scompiglio. Anche se il Re dell’Oltretomba era divenuto vostro alleato, Atena, il Gran Sacerdote e il Dio avevano deciso di utilizzare le milizie di Specter soltanto in caso di necessità. Dopotutto l’aiuto di Thanatos non era indifferente.
Il Gran Sacerdote non aveva voluto scoprire subito le proprie carte. D’altronde nemmeno Artemide aveva fatto lo stesso. Sarebbe stato il Patriarca a dargli il via libera per manifestarsi. Per ora si limitava ad apporre il suo aiuto osservando e dandoti dei consigli sugli avversari: avendo avuto un passato come artista, aveva imparato qualcosa sulle persone, nell’inciso, a riconoscere i punti deboli. Ti aveva però, promesso, che non avrebbe preso lo stesso il controllo del tuo corpo. E, finora, aveva mantenuto la promessa. Poi, avevate sentito urlare l’altra Dea quella frase: «Atena! Dove la nascondi, maledetta?» Non avevi mai visto la Dea così agitata, neanche nei ricordi del passato di Hades. Il quale, continuò a restare zitto e muto tutto il tempo, nonostante le rotelle le sentisti girare eccome, nella tua testa.
Passasti la giornata a medicare i feriti in infermeria al Santuario e altri nelle proprie case. Fosti immediatamente chiamato in sala operatoria per alcune operazioni urgenti e, così, passasti le successive dodici ore al lavoro, interrompendoti ogni tanto per trangugiare un boccone e tracannare un po’d’acqua. Fortuna che non eri l’unico dottore del Santuario, così poteste istituire dei turni per permettervi di riposarti e mangiare un boccone.

Seiya
Osservavi i progressi del tuo futuro successore dall’arena.
Dopo le ferite che avevi subito in battaglia eri stato costretto, per ordine del Gran Sacerdote e della Dea a ritornare al Santuario assieme alla tua divisione (trascinato con le catene d'oro di Shun). Avevi provato a restartene un po’ confinato nel Tempio del Sagittario, ma non eri proprio riuscito a riposare. Non riuscivi a concepire la tua amata Dea in battaglia senza di te. Non dimenticavi nemmeno la vostra esclusione dalla prima parte della Guerra Sacra. Se Atena non si fosse dimenticata la sua Armatura, voi neanche l’avreste mai raggiunta, risvegliato l’ottavo senso e salvata.
Eri ridotto peggio di un modellino di anatomia (ti dicevi, in realtà neanche lo sapevi come era fatto). Avevi un braccio rotto, la testa fasciata, una benda sull'occhio, escoriazioni, microfratture alle costole e punti lungo il cranio e la spina dorsale.
Ti portasti la mano sana all’altezza della cicatrice lasciata dalla spada di Hades. Ogni volta che la toccavi rabbrividivi anche se, in realtà, non ricordavi neanche di aver provato dolore. La tua mente si era rifiutata di conservare quel ricordo e l’aveva rimosso.
Non ricordavi assolutamente niente. E, non sapevi se dispiacertene o gioire di questa mancanza. Per questo avevi scalciato via le coperte, avevi indossato una camicia sopra la maglietta e il braccio steccato legato al collo (fratturato durante la battaglia) ed eri sceso in arena. Lì vedesti i ragazzi della Palaestra del Santuario che si allenavano. In loro riconoscesti l’impegno e la speranza. Sapevano, infatti, che se i Cavalieri avessero fallito, allora sarebbe toccato a loro difendere il Santuario e recuperare la vostra amata Dea.
Se mai si erano impegnati duramente nello scontro con Mars quello con Artemide aveva evidenziato un altro livello ancora. Come era accaduto a voi dopo lo scontro con Hilda di Polaris e i suoi Cavalieri Divini e Poseidone. In loro rivedevi voi stessi. Solo che stavolta la guerra stava prendendo strade che non ti saresti mai immaginato. Una prova evidente l’avevi avuta il primo giorno d’attacco, quando le creature avevano sciolto la barriera come se fosse fatta di plastica e non di Cosmo divino. Un’altra l’avevi avuta quando a salvarvi erano stati i vostri servitori e i civili. E, poi, avevi scoperto che anche gli allievi della Palaestra erano rimasti immobilizzati. Se si erano salvati era stato per puro miracolo, dal momento che in quell’ora nessuno di loro si trovava in cortile e che le Satelliti di Artemide ignoravano l’esistenza della Palaestra.
Per questo da allora Koga aveva preso ad allenarsi con ancora più foga. E, tu, lo capivi. Tornasti a pensare al figlio adottivo di Lady Isabel che si allenava sotto ai tuoi occhi. Non si era neanche accorto della tua presenza. I ricordi che avevi di quel periodo erano pochissimi, quasi labili. Non avresti mai pensato che alla fine quella smorfiosa lo avrebbe adottato davvero. Quel ragazzino che, caratterialmente parlando ti assomigliava ma cercava se stesso. Non avresti mai pensato che sarebbe diventato un guerriero così valoroso.
Ti stringesti nella camicia rossa che indossavi sopra la maglietta bianca gentilmente procurati da Seika e gli altri. Una volta conclusi i fatti dei Senza Volto e stipulata la pace tra i due Santuari, ti eri ricongiunto alla tua adorata sorella maggiore e avevate recuperato buona parte degli anni che vi erano stati sottratti. Ogni sei mesi, quando la Dea lo riteneva opportuno e, non c’erano missioni da assolvere, tu potevi recarti in visita dalla tua amata sorella. La quale era invecchiata e aveva avuto anche dei figli. Ti faceva uno strano effetto essere zio. Anche se tra Atena, Shiryu e Hyoga, saresti dovuto esserci ormai abituato.
Il pensiero ti corse a Miho. Chissà come stava la tua amica? Era dai tempi della Corsa alle Dodici Case che non avevi più ricevuto sue notizie. L’avevi cercata sul social e, con un po’di fatica, l’avevi trovata. Anche lei era invecchiata, però, ti eri reso conto di provare qualcosa per la direttrice dell’orfanotrofio gestito dalla Fondazione Grado. Lo stesso che aveva visto lei, te e i tuoi cento fratelli crescere e cercare di scappare. Era stato quando l’avevi rivista che avevi compreso quanto ti fosse mancato. Se mai c’era stata una persona che avevi davvero amato, di là dalla devozione e della fedeltà, quella era lei. Ti desti mentalmente dello stupido per averla abbandonata così, quando eravate più giovani. Eppure, sentirvi ogni tanto grazie ai social network, avevi scoperto che ti bastava per lenire quel sentimento che provavi.
Quello che provavi per Lady Isabel invece era diverso ancora. Un misto tra amicizia, devozione, fedeltà, lealtà, rispetto e vassallaggio. Dopotutto eri uno dei suoi Cavalieri più fedeli.
«Seiya, ero sicuro di trovarti qui.» Esordì Shiryu sedendosi accanto a te. I capelli lunghissimi scompigliati dal venticello. Doveva essere una specie di panacea per la calura del sole di Grecia. Sfortunatamente per te, non era così. «Shiryu, sì, sono venuto qui per assistere agli allenamenti di Koga e tu che ci fai qui?» Il tuo fratellastro si sedette accanto a te, puntando i suoi occhi ciechi sull’arena. Ti era difficile vederlo come un fratello, era più facile vederlo come il tuo miglior amico. Ma, alla fine, tra voi Cavalieri era così, eravate tutti fratelli e sorelle, bè, più o meno.
«Io ho appena finito di allenare Paradox e Ryuho. Shunrei dice che a volte calco un po’troppo la mano, ma non capisce che è per il loro bene».
Curvasti le labbra in un sorrisetto. Però, non l’avresti mai detto che alla fine quei due si sarebbero messi insieme. Eri serio, senza ironia. A dir la verità non eri affatto bravo quando si trattava di sentimenti e affini. Gli ormoni li capivi, ma i sentimenti diversi dall’amicizia e la fratellanza no. Ma alla fin fine, tu stavi bene anche così. Avevi tutto quello che potevi desiderare, anche perché non avevi mai pensato di poter desiderare altro. Tu eri una mente semplice, ti accontentavi ed eri felice con poco. Per poi dare tantissimo alla persona che più di tutte t’importava, la tua Dea. «Ah, Shunrei, non è affatto cambiata neanche lei, ancora a preoccuparsi per te. Dov’è adesso?»
«Alla Casa di Libra, con Paradox e Ryuho, probabilmente a quest’ora starà medicando la bambina.» In realtà Paradox aveva già una trentina d'anni, ma per Shiryu sarebbe rimasta sempre una bambina. Nelle sue parole leggesti tutto l’affetto che provava per le donne della sua vita. A dirla tutta, era l’unico di voi cinque, che era stato baciato dalla fortuna, per aver trovato una ragazza che lo amava con tutta se stessa e amatissimo dalla sfortuna. Con tutti gli incidenti che gli erano capitati, non lo compativi e non lo biasimavi. Anche se, a volte, alcuni se li era cercati. Ti sorprendevi come adesso riuscivi a pensarci e scorgere i tuoi e i suoi errori giovanili. Se quelle battaglie vi fossero capitate adesso, sicuramente avreste agito con più discernimento. Anche se, ancora non capivi cosa avesse inteso Thanatos con le parole: «Hai tendenze autolesioniste». Ma, forse l’aveva detto per prenderti in giro, non era mica vero. E, poi, non avevi neanche idea di cosa avesse voluto dire. «Ti va di venire a mangiare un boccone?» T’invitò.
Apristi la bocca d’impulso per dire un «Perché no? Ho giusto un languorino.» che strappò una risata al tuo miglior amico. Vi alzaste entrambi e vi recaste alla Settima Casa.
Mentre salivate le scale, ti ritrovasti a pensare al maestro Dohko. Sfortunatamente il vecchio maestro di Shiryu non era tornato in vita. Sapevi che a Shiryu dispiaceva non aver potuto ricongiungersi a lui. Forse era meglio così, l’ex Saint di Libra aveva vissuto per duecentosessantun anni, era giusto che finalmente riposasse in pace. Adesso c’era Shiryu a combattere con le sue sacre vestigia. Ah, chissà perché quel giorno la tua mente era così ingombra di pensieri. «Cosa ne pensi?» Domandasti.
«Della situazione? Non mi piace».
«Nah.» dicesti invece tu incrociando le mani dietro la nuca, per poi ritrovarti con la visuale coperta dal laccio che ti sorreggeva il braccio rotto ed essere assalito dalle fitte di dolore della frattura e ricacciare tutto giù. Per poco l’altro non inciampò nei gradini perché volse il viso verso di te. Se non fosse stato per il tuo tempestivo intervento e per il bastone che usava per camminare, sarebbe caduto lungo disteso sui gradini. Sembravano così lunghi, se percorsi lentamente. «Abbiamo affrontato altre brutte situazioni e altre Guerre Sacre, non penso che questa sarà poi tanto diversa».
«Spero tu abbia ragione. Ti sarei grato se tu non ne facessi parola a tavola con Shunrei, non voglio che si preoccupi ancora di più». «Lo sa perché siamo stati radunati qui?»
«Purtroppo sì e, stavolta, non ho potuto fare niente per lasciarla a Goro Ho assieme a Paradox». A differenza di altri ex Saint, Shiryu non aveva paura di mostrare i sentimenti che provava per le due donne più importanti della sua vita dopo Atena. Ed era proprio il pensiero di tornare da loro, unito al suo spiccato senso di giustizia, il vostro legame di sangue e la sua amicizia con Shura, che, molto spesso lo avevano salvato da situazioni spinose.

Shura
Di battaglie e Guerre Sacre ormai avevi fatto tesoro ed esperienza. Ne avevi combattute molte e, alcuni avversari davvero formidabili li avevi vinti per il rotto della cuffia. A volte avevi rischiato di cadere preda del demone che abitava il lato oscuro del tuo essere e della tua costellazione, ma per fortuna non era mai accaduto.
Ti sfregasti la faccia con la mano mentre il carretto su cui eri salito tornava al Santuario. Avevi trovato posto vicino a un ferito che non faceva altro che gemere di dolore.
Per fortuna non ti dava così fastidio viaggiare con i feriti. Neanche l’odore di sangue era un problema. Semmai erano le mosche. Ma tu non eri tipo da lamentele, ti andava bene tutto, purché ogni tanto potessi riposare. Se non avessi trovato quel posto libero, avresti viaggiato anche a dorso di mulo. Che importava di piccoli effetti collaterali quali l’odore o rumori simili? Avevi sopportato di peggio nella tua vita e, adesso, eri troppo stanco per lamentarti.
Non immaginavi che avresti finito per incontrare le creature di cui ti aveva parlato Death Mask durante il salvataggio dei Cavalieri Neri. E, dire che quella notte ti era parso di scorgere una ragazza su una delle rupi dell’isola, mentre fuggivate verso l’aeroporto.
Ti eri fermato per capire se si trattava di un’allucinazione e, quando non era sparita, eri corso da lei. Soltanto per fermarti un’altra volta: quella ragazza dalla lunga chioma argentea alla luce della luna, la camicia da notte candida a mezze maniche che ondeggiava al ritmo di una brezza inesistente con i capelli, non poteva trovarsi davvero lì. Solo quando fosti abbastanza vicino lei si accorse di te, ti guardò da sopra una spalla e poi scomparve, così nel nulla, come uno spettro. Per poco non eri cascato giù dalla rupe per il troppo slancio che avevi impresso alla tua andatura. Invece, finisti soltanto per inciampare e cadere dove fino a poco prima c’erano i suoi piedi nudi. Ti eri rialzato carponi e ti eri guardato attorno, cercandola con lo sguardo, ma non l’avevi più vista da nessuna parte. Com’era possibile? Che ti fossi rimbecillito o che stessi impazzendo? Ti eri rialzato in piedi, il petto che si alzava e si abbassava velocemente per lo sforzo e il timore. Non percepivi neanche il Cosmo di quella ragazza. “Shura?” Ti chiamò Death Mask attraverso il Cosmo. “Sì, ti sento”.
“Cazzo, ma dove sei finito? Sbrigati, non c’è tempo”. Poi non ti disse nient’altro.
Ti affrettasti a raggiungerlo, con il turbamento nel cuore.
Eravate giunti al Santuario in breve tempo, portando con voi i vostri temibili e spauriti avversari. Se te l’avessero raccontato in un altro momento, non ci avresti creduto. Oppure sì, ma sicuramente, non subito. Prima di fare una mossa, studiavi il tuo avversario e il campo di battaglia. Era questo il segreto della maggior parte delle tue vittorie: tanto spirito d’osservazione e poche parole.
Death Mask, durante il viaggio di ritorno ti aveva chiesto che cosa ti avesse trattenuto, ma, non ottenendo risposta immediata, ti aveva liquidato con il suo savoir fare e, ti aveva lasciato solo a rimuginare.
Non appena avevate rimesso piede al Santuario, avevi fatto rapporto alla Dea dopodiché, una volta congedato, eri tornato alla Decima. L’allucinazione, era scomparsa dalla tua memoria, finché non avevi cercato Aphrodite, molto tempo prima della Guerra Sacra e, l’avevi trovato in astanteria. Avevi saputo del fatto che lui ci passasse molto tempo, ultimamente e, quando eri andato a cercarla, l’avevi rivista. Adesso era sveglia e ti stava guardando. Anche se illuminata dalla luce del Sole riconoscevi il biondo chiaro della chioma, lo stesso modo di guardarti di quegli incredibili occhi e la camicia da notte, non potevi sbagliarti. La visione era lei. Sgranasti gli occhi e la fissasti incredulo finché il tuo amico non si alzò e ti venne incontro.
Riemergesti dal ricordo e volgesti lo sguardo al cielo plumbeo. Si annunciava una tempesta. Non invidiavi per niente Shun sotto questo punto di vista, a lui e altri volontari sarebbero toccate in sorte la raccolta dei morti e la cura dei feriti. Fortuna che di ferite non ne avevi riportate moltissime. Ti guardasti le mani e il pensiero ti corse alle Creature. Aiolia aveva proprio ragione a temerle. Poche volte in vita tua l’avevi visto intimorito o spaventato, lui, che era sempre così battagliero. Intendiamoci, anche tu provavi emozioni, solo che non le mostravi così facilmente. Perciò reputavi Aiolia un buon metro di paragone per comprendere la pericolosità di un nemico che non avevi ancora affrontato. In questo caso non ne avevi avuto molto bisogno. Obbedendo al tempestivo ordine di Atena ti eri salvato e adesso riportavi delle ustioni che qualche disgraziato si sarebbe premunito di curare. Anche se ferito, però, non ti era sfuggita la frase di Artemide: «Atena, maledetta, dove la nascondi?» Cosa aveva voluto dire?
Il carretto si fermò, alzasti gli occhi e vedesti che eravate di fronte l'infermeria. Scendesti assieme ai soldati ed entrasti anche tu, sicuro di trovare lì anche Aphrodite. Non tutti i Cavalieri erano scesi in battaglia, alcuni di voi erano rimasti a protezione del Santuario. Fortuna che eravate riusciti a evacuare quel poco che restava di Grevena, durante l’attacco.
Mentre i volontari vi venivano incontro prestandovi i primi soccorsi, alzasti gli occhi verso le finestre dell’astanteria e lì, trovasti Aphrodite e Astrid affacciati. “Questa ragazza...” Pensasti. Più la guardavi e più eri sicuro di non esserti sbagliato: era proprio lei, quella sull’isola. Riportasti il viso dritto ed entrasti. Se c’era qualcuno che poteva aiutarti a sciogliere qualche dubbio in questo caso, quello era Aphrodite. Deglutisti.

Aphrodite
Astrid tornò a sedersi sul letto, senza guardarti, ma chiaramente scioccata.
Adesso che eseguiva gli esercizi, i suoi movimenti erano molto migliorati. Ancora un po’e avrebbe riacquistato la completa padronanza del suo corpo. Fortunatamente non aveva riportato ritardi mentali dal brusco risveglio dal coma. Sembrava solo un po’più apatica di quando l’avevate incontrata. La seguisti con lo sguardo e poi, quando guardasti di nuovo in basso, notasti che Shura stava entrando in infermeria. Lo sguardo tagliente che le aveva rifilato doveva averla scombussolata. Già, a volte poteva fare quell’impressione, anche se era una brava persona.
Ti trovavi in infermeria perché eri venuto a trovare Astrid, non appena avevi saputo che la battaglia era terminata. Atena aveva mandato un’e-mail a Jabu, il quale aveva ordinato di sciogliere le fila. A rimanere di guardia al Santuario eravate stati tu, Cocteau, Kiki, Shiryu, Kouga, Milo e tutta la divisione che era rimasta e poteva ancora combattere. Ancora una volta ti ritrovasti a pensare che non era stata una mossa stupida quella del Gran Sacerdote, di dividere le forze.
Avevi saputo che Shun aveva provato a convincere Seiya a non scendere in campo ma quel testone non gli aveva dato retta.
I bambini e i civili erano stati mandati in un rifugio sicuro, non avreste mai permesso che scendessero in campo un’altra volta.
Mentre i soldati facevano ritorno a Rodorio, ti eri recato in infermeria. L’avevi trovata seduta sul letto che guardava il cielo plumbeo. «Astrid». La chiamasti mentre lei si portava le gambe al petto e le abbracciava. «Tutta quella gente...» Proferì lei invece, spiazzandoti completamente; gli occhi spalancati fissi sulla coperta. Pareva quasi caduta in uno stato di trance. Per certi versi era persino più inquietante di quando aveva le crisi isteriche. «Non avevo mai visto così tanti feriti tutti insieme dal vivo». Avevi provato ad elargirle una carezza sul capo per confortarla, ma, proprio in quel momento, avevano fatto irruzione i medici e i nuovi pazienti e avevi ritratto la mano. Lei guardò spaurita questo nuovo gruppo che andò a invadere ogni angolo della stanza. Strinse le labbra mentre i gemiti dei feriti e gli ordini concitati dei dottori riempivano ogni parte. Di fronte a questa scena la trovasti incredibilmente fragile e, quando i medici ti chiesero aiuto per le fasciature (ogni persona in questi frangenti poteva dare una mano) balzasti in piedi, chiedendo scusa alla ragazza.
Ti ritrovasti a fasciare e medicare così tanti feriti da perderne il conto.
Stavi medicando l’ennesimo ustionato quando il volto di Astrid ti tornò in mente. Chissà se poteva reggere da sola in mezzo a tutta quella disperazione? «Tutto bene, Aphrodite?» Ti domandò la voce maschile con un accento spagnolo. Solo allora alzasti gli occhi e ti ritrovasti di fronte allo sguardo impenetrabile di Shura. «Oh», ti uscì. Non te ne eri proprio accorto che era lui. Il corvino col volto sporco di polvere e sangue ti osservò e non gli sfuggì la smorfia che facesti nel comprendere da cosa erano state procurate quelle ferite: «Ti vedo distratto, Aphro, qualcosa non va?»
«Avete incontrato le Creature, non è così?» Gli dicesti finendo di stringere la fasciatura e passandogli la pomata per le ustioni sulle parti lesionate. Lui annuì e confermò con una specie di sospiro sibilato: «E’così. In verità, mi aspettavo di incontrarle assai prima di ora». «Immagino che non sia per queste ferite di poco conto che tu sia qui, non è così, Shura?» Gli chiedesti afferrando qualcosa nella sua frase. Sapevi che quando faceva così subito dopo ne sparava una delle sue che ti faceva ricredere sulla sua immagine di persona impassibile. Infatti, chiese: «Hai ragione, per ferite del genere avrei potuto anche andare a Casa mia a medicarmele, la verità era che non avevo voglia.» E, tu, che pensavi che stesse per dire qualcosa a proposito di Astrid. Ciò detto bevve un po’d’acqua da una bottiglietta che finora aveva tenuto nell’altra mano e che, tu, non avevi proprio visto. «Oh, d’accordo. Mi scuserai spero, se non mi trattenga a parlare con te, ma mi hanno sequestrato per usarmi come volontario infermiere, devo finire il giro, non è bello far aspettare i pazienti». La verità era che dovevi tornare da Astrid.
«E, da quando t’importa dei pazienti?» Ti chiese l’altro, incuriosito. Serrasti le labbra. «Stasera ci vediamo?» Domandò Shura, cambiando improvvisamente discorso. «Non penso che avrò altri pazienti da medicare stasera». Rispondesti. Shura annuì.
«Alle nove a Casa mia o facciamo alla tua?»
«Vada per la mia». Anche se lì non c’erano le tue splendide e amate rose. Era un peccato, forse avrebbero contribuito ad alleggerire un po’la serata, visto come stavano andando queste ore. «D’accordo, a stasera». Poi ti salutò e se ne andò.
Tornasti da Astrid e la trovasti seduta nella posizione dove l’avevi lasciata. L’unica figura silente in mezzo a tutto quel caos, come una sorta di nota stonata all’interno di quella caciara. La pausa in mezzo al rumore del mondo, ecco come ti sembrava. Lei si accorse del tuo sguardo e sollevò la testa per guardarti. I suoi occhi dorati ti ricordarono, nello sguardo, quelli di Shura: parimenti taglienti e, di fronte a quella stilettata un brivido scosse la tua schiena.
Nonostante quello sguardo restasti qualche minuto assieme a lei, assicurandoti che stesse davvero bene. La sua calma era insolita, ma sperasti per il bene di tutti, che durasse a lungo.
Quando fu il momento di andare la salutasti e tornasti alla tua Casa. Facesti una doccia e, dopo esserti cambiato, ti cucinasti qualcosa. Dopo una cena frugale (non avevi molta voglia di mangiare) raggiungesti la Decima. Lì trovasti Shura e Death Mask (entrambi ripuliti da capo a piedi) intenti a cenare. Anche lui era rimasto al Santuario, solo in quel momento te ne ricordasti. Ma allora, chi era sceso in battaglia al posto suo? Ah, già Lancelot.
«Aphrodite, non mi aspettavo di vederti così presto, il nostro Shura aveva detto che saresti arrivato per le nove». Ti salutò Death (il capo fasciato da una serie di bende) mentre l’altro ti domandava se avessi fame. Scuotesti il capo scusandoti con il padrone di casa e spiegasti di aver già mangiato. Poi dicesti: «Non avevo nient’altro da fare per quell’ora. Deve venire qualcun altro o siamo solo noi?»
«No, siamo soltanto noi».
Ti accomodasti senza chiedere il permesso al padrone di Casa. Ormai vi conoscevate da tanto tempo che non avevate bisogno di ricorrere a queste formalità. Ti prendesti un bicchiere e lo riempisti di birra. «Allora, di cosa volevi parlare?» Chiedesti a Shura e Death ti ringraziò per averlo ignorato. Tu gli facesti un sorriso beffardo che per poco non fu ricambiato con una bottiglia in testa. Non avevi bisogno di chiedere come fosse andata la battaglia. Avevi potuto visionare tutto grazie al Cosmo. Le uniche delucidazioni che avresti potuto chiedere erano sull’improvviso azzeramento dei Cosmi, ma ormai avevi già compreso che se l’avevano fatto doveva essere stato per via delle creature. Non avevi raccontato niente ad Astrid, ma avevi la sensazione che non fosse stata la cosa giusta da fare. Anche perché lei aveva provato a porti qualche domanda.
Poi, Death il solito chiacchierone, ti raccontò tutto ciò che era accaduto senza nemmeno che tu lo chiedessi. Appena finì di aggiornarti e rispondere alle tue domande, il Capricorno prese parola. «Bene, veniamo a noi, non mi avevate detto che Astrid avesse un Cosmo».
La rivelazione vi lasciò entrambi di sasso. Poi Death Mask scoppiò a ridere: «Sei sicuro di stare bene, Shura?» Chiese tra una risata e l’altra. Ma il Capricorno restò serio e composto. «Sono sicuro. Anche perché adesso ho la certezza che la ragazza alle isole Baleari fosse proprio lei». Death gli domandò se si fosse preso una lesione o un qualche tipo di trauma cranico. Ma tu lo vedevi che era serissimo.
Alla fine riuscisti a spiccicare; «Alle isole Baleari hai visto Astrid? Caro mio, secondo me ti sei sbagliato, oppure ti si è fuso il cervello. Lo dicevo io che la Dea aveva fatto male a mandarti in missione così presto». Intanto che Death Mask gli domandava perché non gliel’avesse detto subito, invece di aspettare tanto. Possibile che avesse il vizio di tenersi tutto dentro?
Il corvino si raddrizzò gli occhiali sul naso: «Impossibile che mi sia sbagliato, quella notte era lei, era a piedi nudi e indossava la camicia da notte. Quello che mi impensierisce, sono i suoi occhi; cioè, avevano uno sguardo strano, assente. Sulle prime ho pensato anch’io di aver preso un abbaglio, immagina cosa ho pensato quando l’ho vista in infermeria poco fa. Vi dico che era lei».
«Ma in quel periodo lei stava dormendo. Non poteva raggiungerci, lei non sa usare il Cosmo». Obiettò il siciliano. «Eppure ti ha letto la mano». Rilevò lo spagnolo. «Non so come ci sia riuscita, ma escludiamo a priori che abbia un Cosmo, altrimenti l’avremmo percepito da qualche tempo, non credi?» Shura tacque, pensieroso. Tu prendesti un sorso di birra e, dopo aver inghiottito, domandasti: «Era per questo che ci volevi vedere?»
«Non era solo per questo, ovviamente. Però non posso fare a meno di pensare a quello che ha detto Artemide». Rispose il vostro miglior amico guardandoti. Allora voleva davvero passare una serata in vostra compagnia. «Aspetta Artemide ha detto qualcosa?»
«Durante la battaglia ha urlato alla Nostra Signora: Atena! Dove la nascondi, maledetta! Io avevo pensato che si riferisse a un’arma, probabilmente alla Megas Drepanon di Khronos, però dal tono di voce non mi sembrava riferirsi a un oggetto. Anche se la scelta di attaccare Grevena non ha senso, in effetti, se così fosse». Fece il Cavaliere di Capricorn meditabondo, rigirandosi la bottiglia in mano.
«Aspetta, mi stai dicendo che pensi che lei stesse cercando una persona?» Chiese Death Mask, raccogliendo dal tavolo la sigaretta che gli era caduta di bocca per lo stupore. La rigirò prima di riporla nel posacenere e trarne un’altra dal pacchetto che teneva in tasca. Tanto a Shura non dava fastidio il fumo, se era estate e lasciava tutte le porte e le finestre aperte. Ormai, aveva messo i posacenere un po’dappertutto per via di Death. «Shura? Mi senti?» Gli chiedesti. Sembrava un po’assorto. Infatti, non vi rispose.
Proprio in quel momento Cocteau vi raggiunse e si posò sulla spalla di Shura. Ogni sera andava a controllare Astrid per ordine del Gran Sacerdote e, anche lui, qualche idea se l’era fatta. «Tu cosa ne pensi di tutta questa storia, Cocteau? Che cosa sta cercando davvero Artemide?» Chiese girando il capo per guardare la civetta. «Ancora non c’è niente di certo, ma credo che sia il caso di riunire i Cavalieri». I suoi tre topini sul capo buttarono lì la parola: «Assemblea».
«Un’assemblea dorata?» L’oracolo di Atena, per tutta risposta, batté le palpebre. Poi aggiunse: «Sarebbe la cosa migliore, ma domani ci aspetterà un altro scontro con Artemide, non possiamo permetterci il lusso di riunirci».
Shura sospirò e pose la bottiglia sul tavolo: «Già, dopotutto anche questa è una Guerra Sacra, ah, per la cronaca, lei non gli somiglia per niente». Decretò. E, tu, che avevi afferrato subito, rispondesti: «Lo sappiamo». Così passaste quelle ore in compagnia. L’indomani, infatti, sarebbe toccato a te scendere in campo.
Il Gran Sacerdote era ingegnoso. A differenza delle volte scorse, in cui avevate seguito pressappoco lo stesso schema, qui, se ne inventò uno. Non mandò gli stessi Cavalieri che avevano combattuto il giorno prima, bensì quelli che erano rimasti al Tempio, sicché anche Lancelot poté «togliersi dalle scatole» e andare a divertirsi. Poi se una creatura lo ammazzava, per lui era tanto di guadagnato.

Lady Isabel
La situazione non poteva andare avanti così. Con le creature i tuoi Cavalieri erano nettamente in svantaggio. «Oh, Seiya.» sospirasti affranta. Già una volta avevi perduto i tuoi Cavalieri d’Oro e, quale era stata la tua speranza e sollievo, nell’udire di nuovo la preghiera di Shaka, dopo che i loro Cosmi si erano estinti per permettere a Seiya e gli altri di raggiungerti nei Campi Elisi. Non avevi intenzione di piangere di nuovo le loro perdite.
I loro volti fecero capolino nella tua mente e una lacrima solcò la tua guancia.
Erano tutti valorosi, sì, tutti loro.
I Gold erano andati in avanscoperta e tu avevi tenuto Seiya al sicuro accanto a te. Non avresti sopportato di perderlo di nuovo come durante la Guerra Sacra contro Hades. E, Seiya doveva essersene accorto, perché stavolta, per quanto fosse preoccupato per i veterani, non si staccò neanche un secondo dal tuo fianco. Neanche Koga, che aveva la stessa stoffa di Seiya, se non avessi saputo che era il tuo figlio adottivo avresti giurato che fosse figlio del tuo prediletto in assoluto. Era stato il giovane futuro cavaliere di Pegasus a persuaderlo a correre in aiuto degli altri. Aveva colto il bruciante desiderio del Cavaliere di Sagitter di compiere il proprio dovere in tuo nome. Così, piuttosto che lasciarli soli e in balia delle forze nemiche, avevi mollato capra e cavoli a Nuova Luxor, affidando tutto alle tue Saintie e avevi seguito le persone che amavi di più in assoluto. «Mi raccomando portate avanti le indagini sulle mosse di Artemide e curate gli affari della società». Avevi ordinato alle tue ancelle personali. Le quali si erano inchinate e avevano obbedito. Già una volta si erano dimostrate abilissime nella Guerra contro Eris, quella battaglia che avevi taciuto a Seiya e gli altri, per non farli sentire in colpa, visto che era avvenuta qualche mese prima delle Galaxian Wars e dopo la Scalata delle Dodici Case. Potevi fidarti di loro ciecamente quanto con i tuoi Saint. Per questo eri tornata a Gravena, utilizzando il tuo Cosmo, per infondere loro speranza e guidarli in battaglia. Ma poi, non eri riuscita ad andartene da lì, ed eri rimasta con Seiya e gli altri. Neanche tu avevi mai visto prima le creature, ma ora potevi affermare che erano veramente terrificanti. Neanche i vostri Cosmi sprigionati al massimo erano riusciti a distruggerle. Per la prima volta in vita tua avevi provato sulla tua pelle una fragilità nuova. E, ti eri sentita impotente, tu Lady Isabel, la Dea Atena.

Se non fosse stata per l’intuizione di Shun, probabilmente sareste morti sul posto. Invece, così vi eravate salvati e avevate salvato Grevena. Anche tu avevi sentito le parole che ti aveva urlato tua sorella maggiore Artemide. La stessa che, prima di incarnarti nuovamente in questo secolo, ti aveva ospitato nel suo Tempio e ti aveva lasciato cogliere i fiori del suo regno. La stessa che per aiutarti contro Ares ed Eris ti aveva inviato il suo hagoromo per salvarti la vita.
“Sorella mia, cosa ti è successo?” Non avevi capito che cosa avesse in mente, ma non era da lei comportarsi a quel modo. Cosa le era successo per essere cambiata a tal punto? Avevi vissuto come un incubo la precedente lotta contro di lei. Avevi sperato che non accadesse mai più e, invece le tue speranze erano state vane. Artemide per certi versi era più imperscrutabile di Capricorn e anche di te. Ricordavi che era implacabile e feroce già di suo se provocata. Come ricordavi perfettamente che nel suo Tempio nessun’uomo e nessuna donna corrotta avrebbe mai messo piede. Altrimenti sarebbero stati trafitti senza pietà dalle frecce delle sue sentinelle. Com’era accaduto a Elda di Cassiopea e a Katya della Corona Boreale. Però ti sembrava strano che, tra tutti i luoghi avesse attaccato proprio Grevena. Cosa cercava e, perché agiva con quella ferocia? Persino Callisto era scesa in battaglia e aveva dimostrato una disumanità che non le conoscevi. Non riconoscevi più nessuno di loro. Le sue ninfe imperscrutabili alla stregua di robot senza cuore guidate da Callisto che, più di tutte, faceva paura, con quel viso senza imperfezioni e sopracciglia, i capelli ricci e viola e gli occhi che risplendevano di giallo, verde e di un tenue azzurro, talmente luminosi da creare contrasto con la chioma.
Ma quell’ira era troppo persino per loro. Che si stesse riferendo alla Megas Drepanon o alla porta per il Tartaro che si trovava lì? «Non so di cosa parli», avevi risposto addolorata ma risoluta, «ma non ti lascerò uccidere degli innocenti per il tuo diletto».
«Tu non capisci!»
Aveva ribattuto con disprezzo nella voce.
Avevi chiesto spiegazioni ma lei non aveva neanche risposto, recuperando il suo glaciale contegno mentre le sue truppe si ritiravano alla fuga, prima di essere incenerite dal tocco delle creature. Che se ne erano andate silenziose com’erano venute, come se fino a quel momento, più che ammazzare entrambi gli schieramenti, avessero rovistato in un magazzino alla ricerca di qualcosa e, non l’avessero trovato. Per fortuna che non c’erano riuscite: si nutrivano di Cosmo.
Ti eri attardata un po’sul campo di battaglia, cercando qualcosa con gli occhi, neanche sapevi bene cosa. All’improvviso, cominciò a soffiare un vento che smosse la tua chioma e ti donò un brivido gelido.
«Milady». Ti chiamò Hyoga facendoti sussultare. Eri così concentrata sui tuoi pensieri che non ti eri neanche accorta della sua presenza. Ti girasti a guardarlo e incrociasti i suoi occhi, quello vero e quello di vetro. Così simile a quello originale che i disattenti non avrebbero colto la differenza. «Date degna sepoltura ai caduti». Avevi mormorato, cercando di non apparire troppo dura e insensibile. Chi volevi prendere in giro? Avevi il viso rigato di lacrime e, non solo per via della battaglia. Quanto ancora sarebbero dovute andare avanti quelle stragi senza senso? Quelle battaglie?
«Sì, Lady Isabel». Dopodiché, stringendo nella mano il tuo scettro di Nike, come se da esso avessi potuto trarre tutta la forza e il sostegno che necessitavi, abbandonasti quel luogo a tua volta. Ferita dal cambiamento della tua adorata sorella maggiore.

La Guerra si era protratta finché i tuoi Cavalieri, magistralmente guidati da Gemini, non si erano lanciati al contrattacco. Li avevi lasciati agire da soli perché avevi un’immensa fiducia nelle loro capacità. Erano bravissimi ad aprirsi la via tra le file nemiche e infiltrarsi nei loro territori. Anche se quelli di Artemide sarebbero rimasti sempre inviolati al tocco di altri piedi umani. Soprattutto dopo lo scontro di quasi una ventina d’anni addietro.
Avevi infuso loro speranza e forza a tutti loro quando erano stati sul punto di arrendersi. Poi, quando l’amarezza e il dolore ti erano divenuti insostenibili, ti eri messa in moto a tua volta. Così, eri salita all’Altura delle Stelle di nascosto e, da lì, sfruttando un raggio di luna e la civetta guardiana che sorvolava quella rupe e fungeva da collegamento tra i vostri due regni, avevi raggiunto tua sorella al suo Tempio sulla Luna. Ricordavi bene quel sentiero e i tuoi piedi si muovevano con una sicurezza che non ti sentivi di avere. Tu volevi soltanto delle risposte e cercare di riappacificarti con la tua cara sorella maggiore. Da troppi anni, ormai, eravate ai ferri corti e tu sentivi di non avere più la forza di sopportare anche questo peso.
Presto giungesti alle mura del Tempio. Bastò dire alle sentinelle di guardia che eri venuta a consegnarti spontaneamente alla loro Sovrana per lasciarti passare. A quel punto era intervenuta Callisto, che aveva ordinato loro di abbassare gli archi e lasciarti passare. Fu l’attendente di Artemide stessa ad accoglierti, con a fianco Ryuthos, ormai cresciuto. Te ne aveva parlato Elda molto tempo fa, ma tu lo riconoscesti perché indossava i sandali alati di Hermes ai piedi. Superava Callisto di tutta una testa, era abbigliato con la Glory degli Angeli (così si chiamava la loro corazza) e portava un arco e una faretra colma di frecce a tracolla.
«Divina Atena, bentornata nel Tempio della Luna». Ti accolse la donna dalla chioma riccia con un lieve, freddo sorriso di cortesia sulle labbra. Dopotutto era la stessa donna che aveva mandato La Scoumune e altre ninfe ad ucciderti durante la via del ritorno dall’Olimpo alla Terra. Ovvio che te ne eri accorta, avevi percepito i Cosmi delle Lunari. Ancora ti domandavi perché.
«Grazie Callisto, Generale Ryuthos. Immagino che tu sappia perché sono qui, Callisto». Il generale rispose con un inchino formale e un: «Divina Atena, sono onorato di fare la vostra conoscenza». Che tu ricambiasti con un cenno del capo e gli dicesti di alzarti.
«Ma certo, per negoziare una tregua con la Mia Signora». Sapevi che a Callisto spettava il compito di esaminare gli ospiti, di giudicarli completamente immacolati e puri, proprio come delle vergini. Come te. Anche se non eri completamente insensibile ed era stato questo a turbare profondamente la consigliera di Artemide, la prima volta, dopo la vostra udienza e quasi battaglia.
Fortunatamente non poteva levare la mano su delle divinità come te, altrimenti ti avrebbe mandato alle prigioni della Luna per essere purificata.
«Precisamente, per favore, conducimi da lei».
La donna annuì: «Seguitemi divina Atena». E, cominciò a incamminarsi.
Una volta nella sala del Trono, tua sorella non ti aveva accolto come l’altra volta. Stavolta, non aveva neanche levato la sua mano e il suo scettro contro di te. «Atena. A cosa devo la tua visita? Se sei qui per immolarti per la salvezza della Terra e dei tuoi corrotti, depravati umani, allora t’informo che del tuo sangue non so cosa farmene. Non sprecherò oltre altro ichor, neanche se fosse il tuo». A quel punto ti eri gettata in ginocchio e l’avevi pregata: «Artemide, sorella mia, che cosa ti è successo? Perché quest’attacco? Eppure eravamo in pace da tanto tempo. Cosa ti ha spinto a imbracciare nuovamente le armi e scagliarti sugli umani?»
Non si era mai comportata così prima d’ora. Cosa le era successo per cambiare così? L’altra volta agì a quel modo per vendicare Poseidone e Hades, oltre che il suo onore. Stavolta per cos’era?
«Vuoi sapere perché? Le mie truppe stanno morendo, Atena. Noi tutti stiamo morendo, ecco perché. E, l’unica cosa che può aiutarci è in tuo possesso. Non sai quanti ambasciatori ho mandato al tuo Tempio in questi mesi e quante volte abbiamo subito attacchi da parte dei tuoi Cavalieri». Trasalisti. Non ti saresti mai aspettata una simile rivelazione. «State morendo? Com’è possibile? Di cosa stai parlando?»
Lei sospirò rivelando la propria preoccupazione e il proprio timore. Oltre che l’offesa. «E’così. E’cominciato tutto sei mesi fa con la scomparsa di alcune stelle nel firmamento. Sulle prime non ci abbiamo dato molto peso perché le stelle muoiono, è normale, è il ciclo della vita e nessuno ne è esente. Però non così tante e non così tutte assieme. E, poi, alcuni dei miei guerrieri hanno avvistato delle creature, quelle che tu stessa hai visto in battaglia. Sulle prime non gli abbiamo dato molto peso perché sembravano innocue. Ma gli abitanti del mio Tempio e del mio Regno hanno cominciato a star male. Nessuna medicina funzionava e presto morivano dopo una terribile agonia. I medici mi hanno riferito che i loro corpi erano in condizioni orribili, come se fossero stati bruciati vivi. Io stessa mi sono recata a vederli ed è uno spettacolo orribile, che neanch’io avrei mai voluto vedere. Qualche settimana dopo sono cominciati gli avvistamenti di quelle creature color delle ombre e dalle lunghe dita artigliate e abbiamo compreso: erano loro la causa. Non era mai accaduta una cosa come questa in questi luoghi. Pensavamo di essere al sicuro qui, tagliati fuori dai domini Olimpici, ma ci sbagliavamo. Sono mesi che mando messaggeri e ambasciatori a chiedere il tuo aiuto e i miei uomini e le mie amate ninfe non tornano. E, ora, tu osi presentarti al mio cospetto da sola e dirmi che non ne sapevi niente?» Ringhiò irata, trapassandoti con i suoi occhi verdi chiari, dello stesso colore della sua chioma.
«Io non ho ricevuto alcuna notizia, sorella, devi credermi, non sapevo che tu avessi mandato degli ambasciatori e che tu avessi cercato di chiedermi aiuto. Ma, non ho mai neanche sentito parlare di ambasciatori. Se li hai mandati, devono essere stati intercettati molto prima di essere giunti al mio Santuario. Ti chiedo scusa per la mia inadempienza. Ma non è troppo tardi, dimmi cosa posso fare per rimediare. Ti prego, dammi una possibilità, in nome del nostro vincolo di sangue e dell’affetto reciproco che ci lega».
La Dea della Luna stette zitta molto a lungo, tenendoti sulle spine: «Non so se siamo ancora in tempo, però c’è una cosa che puoi fare. Mi sono consultata con mio fratello Apollo e abbiamo scoperto che esiste una cura a questa piaga. Credo che tu la conosca, si tratta della Luce Ombrosa». Sgranasti gli occhi. E, tu, che avevi temuto che cercasse la Megas Drepanon per allearsi con Khronos e dare origine a una nuova Titanomachia. E, invece, cercava un altro manufatto ancora. Solo che, questo non avevi proprio idea di cosa si trattasse. Tua sorella maggiore continuò: «Cara sorella, adesso sono io a implorare te. Ti prego, aiutami a salvare la mia gente. L’ultima volta furono i tuoi Cavalieri del Mito a nasconderLa. Adesso voglio sapere, dove si trova».
NasconderLa? Nascondere chi? A cosa si stava riferendo? Cos’era questa Luce Ombrosa? «Mi dispiace; se l’hanno nascosta loro allora io non so proprio, dove si trovi». Se era accaduto, tu dovevi essere morta da poco, per questo non avevi memoria di una simile reliquia. E, glielo dicesti. «Mi dispiace, ma deve essere successo in un periodo in cui non ero incarnata e nessuno di loro me ne ha mai parlato». Improvvisamente vi giunsero dei rumori di battaglia.
«Che cosa sta succedendo?» Chiese Artemide.
Voltasti la testa in direzione dei rumori e percepisti il Cosmo dei tuoi Cavalieri d’Oro. Cosa ci facevano lì?
«Degli uomini stanno profanando il nostro sacro suolo!» Esclamò Callisto. «Sono Cavalieri d’Oro!»
“Oh, no”. Pensasti allarmata. Guardasti tua sorella, che, per tutto il tempo, non si era neanche alzata dal suo Trono. Il suo sguardo si oscurò: «Callisto, portala alle prigioni purificatrici. E, lasciacela». Decretò amareggiata. Se c’era una cosa che proprio non sopportava, era che degli esseri umani di sesso maschile profanassero i suoi domini. Per questo i suoi Angeli erano dotati di ali. Era l’unico modo per entrarvi senza macchiare la santità del luogo. Infatti, essi vivevano al di fuori dei domini lunari.
«Artemide, Artemide, ti prego, aspetta, fammi spiegare, è tutto un malinteso, no!» Callisto aveva alzato la mano e un raggio lunare ti aveva avvolto. L’ultima cosa che vedesti prima di svenire, fu il bianco accecante. Poi credesti di essere morta.
Quando rinvenisti, ti ritrovasti sdraiata sul pavimento di un ninfeo circondata dall’acqua della Luna. I polsi assicurati al masso dietro di te, tramite delle lunghe catene. Non poteva essere, l’aveva fatto davvero. Questa nuova realtà era persino peggiore dei tuoi incubi. La storia si stava ripetendo e, tu, stavolta, non potevi niente per opporti.
«Artemide, sorella» mormorasti mentre gli occhi ti si riempivano di lacrime di dolore. Ma la Dea della Luna non ti rispose. Nessuno lo fece. Cominciasti a piangere a dirotto per la disperazione. Koga, Seiya, la Terra e i tuoi Cavalieri erano in pericolo e tu non potevi fare nulla per salvarli. Per la prima volta in vita tua, avevi fallito.

Death Mask
Il tuo maestro era un tipo veramente strano. Si diceva che in passato avesse aiutato i Bronze a raggiungere Shijima, il predecessore di Asmita della Vergine. Un doppiogiochista che, fedele al suo giuramento di Cavaliere, fingeva di allearsi con il nemico più forte per poi intrappolarlo nelle sue bare. A dispetto del nome che si era scelto, però, era un tipo abbastanza eccentrico e, questo suo tratto poteva essere un’arma a doppio taglio, esattamente come il fascino femminile. Forse questo suo comportamento gli veniva proprio dal fatto che, durante la sua infanzia, venne continuamente deriso dagli altri apprendisti perché non comprendeva se era un uomo o una donna. Grazie ad Atena tu non avevi mai avuto questi complessi.
Anche se, forse qualcun altro ci avrebbe visto, sia nel nome che nel suo modo di fare, gli aspetti della morte. “Io sono un uomo o una donna?” Avevi saputo che domandava sempre e, stancamente, avresti voluto rispondergli “Tu sei la morte”. E, la morte, anticamente, era vista come un uomo, solo recentemente le persone avevano cominciato a vederla come una donna. E, DeathToll, che qualche simpaticone aveva ribattezzato come, il debito che ogni uomo paga, ne aveva risentito fin da subito. Oppure era veramente una donna nel corpo di un uomo e non lo aveva capito. Qualunque fosse la verità era un tipo strano e pericoloso, anche se non quanto te. Anche se non ti dava quella sensazione di viscido che ti dette Sirrah. Sia in te che nel rosso, c’era una sincerità di fondo, una certezza solida proprio quanto la morte stessa.
L’avevi rivisto durante i fatti dei Senza Volto, quando eri andato a ripescare Shura e Saga dalle grinfie dell’Aiolos di Tomoe. E, il tuo effeminato maestro, aveva cercato di metterti in guardia sull’inutilità del tuo gesto. A torto.
Dopo cena ti teletrasportarti nello Yomotsu Hirasaka e attendesti l’arrivo del tuo maestro.
Ti accendesti una sigaretta e cominciasti a fumare quando sentisti la sua voce: «Vedo che le buone abitudini non muoiono mai».
Curvasti un angolo della bocca in un mezzo sorriso: «Maestro». E, ti girasti a guardarlo. I capelli rossi lunghi fino alla vita che sventolavano nella brezza. La camicia viola in tinta con i pantaloni sbottonata sul fisico scultoreo dell’uomo dal brutto muso che ti stava dinanzi. «Mio caro, spietato e stupido allievo, che piacere rivederti. Noto che la speranza ha addolcito un po’di più i tuoi lineamenti, anche se per le rughe bè, sei fortunato, si vedono appena, per ora. Aspetta di avere quarant’anni e poi ne pagherai le conseguenze anche tu». Ti salutò sollevando una mano dalle lunghe, triangolari e curate unghie smaltate di rosso, in uno svolazzo simile a quello di una nobildonna. «Come mai di nuovo qui, a cercare il tuo vecchio maestro? Sentivi la mia mancanza o devi salvare altri tuoi amici in pericolo?»
«Niente di tutto questo, sono qui per parlare con voi».
«Con me? Veramente? Sono lusingato, quasi. Ma anche parecchio deluso, mi sembrava di non avere più niente da insegnarti da un pezzo, soprattutto per quanto riguarda le folli speranze. Sai bene quanto me, in fondo, che la speranza non è niente. Noi siamo i Cavalieri che, più di ogni altro conoscono la durezza del mondo. Siamo i più realisti, la speranza serve a poco. Eppure non credo che tu sia qui per un’altra ramanzina in merito. Mi sbaglio?» Disse mettendo una mano sul fianco.
Tirasti un’altra boccata: «Già».
«Dunque cosa vuoi sapere?»
«Riguarda le Creature, voglio sapere se sono già arrivate all’altro mondo oppure no».
«Tutto qui? Pensavo peggio. No, quelle cose non sono ancora arrivate e, neanche quando ero vivo io, si erano mai fatte vedere prima. Ho saputo che hai già avuto un incontro ravvicinato con loro». Insinuò con voce melliflua accomodandosi su un masso.
«Non vi sfugge mai niente, eh?»
«No, direi proprio di no, altrimenti non sarei il tuo maestro. Com’è stato? Abbastanza terribile come essere rinchiusi in una delle mie bare?» Domandò incuriosito.
«Volete veramente saperlo, o lo sapete già?»
«Allora è tremendo come pensavo».
«Io me ne vado».
«Di già?» Domandò DeathToll inarcando le sopracciglia folte e increspando le labbra carnose.
«La vostra risposta me l’avete già riferita, non vedo perché dovrei continuare a restare qui, senza niente e nessuno da torturare è noioso». Dicesti, anche se non avevi voglia di ricadere nelle vecchie abitudini e perdere la tua Sacra Cancer un’altra volta.
«Non vuoi neanche sapere come è riuscita a salvarvi?» A quelle parole il tuo cuore perse un battito ma simulasti indifferenza: «Salvarci?» Domandasti con la voce appena tremula. Lui scese dal masso e si avvicinò: «Quella ragazza, non far finta di non capire».
«Non pensavo che avesse già una tale fama da essere nominata anche da voi». Dicesti buttando via la cicca ormai consumata, girandoti di nuovo verso di lui, trovandolo a un metro da te. L’altro ti sorrise. Ma di un sorriso sinistro che ricambiasti con uno dei tuoi soliti mezzi sorrisi. Poi disse: «Ne converrai che non sia da tutti, infatti, riportare in vita ben due Gold Saint e tre Specter nello stesso lasso di tempo e che sia capace di viaggiare oltre il proprio limite, nel mondo dei Vivi, questa è una tecnica che né tu né io possiamo usare. Ti consiglio di fare molta attenzione, gli Specter non hanno amato molto questa intromissione da parte sua. Un potere come quello fa gola a molti, è capace di portare la più grande pace quanto la più pericolosa delle guerre. Non sottovalutarlo e ricordati che lui l’aspetta, annidandosi nelle ombre, proprio come un serpente». Lui? E, adesso di chi stava parlando? E, perché nel proferire quelle parole aveva assunto quell’espressione infuriata.
«Perché parlate per enigmi?»
«Perché a causa di uno sporco giuramento che ho contratto con egli, non posso esprimermi in una maniera diversa».
«Ah, è opera sua quella bella chioma rossa che sfoggiate?» Domandasti indicandola con un cenno della mano. «Meravigliosa, eh?» Si vantò con un sorriso smagliante. E, in cambio del parrucchino si metteva a fare l’oracolo per costui? Che diavolo stava succedendo nell’Averno? Hades stava perdendo il suo potere? C’era una nuova guerra intestina in corso o qualcuno stava cospirando contro il Signore dell’Oltretomba? Decidesti di non porre altre domande per sicurezza. «Capisco, c’è altro?» Domandasti in tono fintamente annoiato. La verità era che non ti piaceva che il tuo maestro ficcasse il naso nei tuoi affari. Né che adesso riferisse messaggi da parte di chicchessia o che si vendesse per così poco. Non ti aspettavi che l’ex Cancer cadesse così in basso. Anche se, a ben vedere, tra te e la bionda non correva che una fievole conoscenza.
«Sì, in realtà, secondo te perché l’hanno attaccata, quella sera?»
«Pensavo perché cercassero noi».
«E, perché avrebbero dovuto, se siete in pace con le schiere di Hades?» Non sapesti che rispondere. E, qualcosa ti disse che lo avevi deluso. Lui, l'artista, che ti aveva insegnato a usare le mani per realizzare opere d'arte, ti guardava deluso. Tu dovevi essere colui che doveva cogliere ogni sfumatura della vittima da imprimere nella sua maschera, non un semplice collezionista. Ecco, cosa ti diceva. 
Ecco di cosa non ti fregava.
Il tuo maestro si alzò in piedi e levitò: «Quando ci sarai arrivato fammi sapere, Death Mask». Disse a mo’ di congedo prima di scomparire.

Tornasti nel mondo dei vivi con mille punti interrogativi. Anzi, mille e uno, dato che percepisti una strana aria di confusione aleggiare per le Dodici Case. Come se qualcosa di grosso bollisse in pentola.
Ti sedesti sul divano dei tuoi appartamenti privati e, proprio allora Lancelot comparve davanti a te: «Dov’eri finito? Ti ho cercato dappertutto!» Esclamò inalberandosi.
«Quello che faccio e non faccio sono affari miei e non sono tenuto a dirti niente, Lancelot». Ribattesti.
«Neanche se ha a che fare con Miss Isabel?» Ti bloccasti e lui ti riferì il messaggio. Quando chiuse la bocca sgranasti gli occhi: «La Dea ha fatto che cosa?»

Cocteau
Dopo la scomparsa della vostra Signora eri riuscito a conferire in privato con il Gran Sacerdote. Nonostante tutto il fermento.
Con la Guerra Sacra in corso ti era sembrato più spossato del solito. Ma non ci potevi fare niente, almeno per questo. «Kanon, io nutro dei sospetti su Ionia».
Tuo fratello si volse verso di te e domandò, in tono concitato: «Perché? Che cosa è successo?»
«Durante l’assalto di quest’estate alle Dodici Case stava usando il Domination Language. Sua Santità, io credo che Ionia stia cospirando alle spalle del Grande Tempio e della Dea Atena, ancora una volta».
Il Gran Sacerdote ascoltò la tua spiegazione e poi ti disse, in tono più tranquillo: «Rilassati, Cocteau, Ionia non sta cospirando proprio per niente . Durante l’assalto sono riuscito a mandare un messaggio mentale a quell’uomo, di modo che potesse provare ad arginare quel Cosmo con la sua tecnica, anche se si è rivelata un’idea fallimentare, la mia». Ma la tensione non abbandonò le sue spalle: la Dea era comunque scomparsa e, avevi una vaga idea di dove potesse essere andata. In linea con il proprio pensiero e volere.
«Da quando lo stimi a tal punto da ordinargli una cosa simile? Forse è che tu ti fidi di lui come un compagno?»
«Ma come, proprio tu che mi fai una domanda simile? Dovresti saperlo, ormai che io non mi fido mai di nessuno e che non lo considero un mio compagno». Rispose con il tono gelido da grande manipolatore di persone e divinità (altrimenti tradotto come gran bastardo) che gli conoscevi. In cuor tuo ne fosti rincuorato, non era bene mostrarsi deboli con i propri sottoposti.

Astrid
Fisicamente ero migliorata ma non potevo dire altrettanto della mia mente.
Figuratevi (ma ce la farò a smettere di rivolgermi al niente come se ci fosse qualcuno?) che a causa di un incubo, comunicai a maturare nuovi sospetti sul periodo che avevo passato in coma. Avevo sentito dire di alcuni maniaci che si approfittano dei pazienti in stato comatoso, non vorrei che qualcuno mi avesse… mentre ero… No, il pensiero era troppo crudele persino per me. Ma dovevo essere realista. Non sempre a uno stupro corrisponde una gravidanza, ma dovevo esserne sicura. Inoltre, con tutte le ferite che avevo riportato, chi poteva sapere se non mi fosse successo altro? Questo non era un ospedale ufficiale, magari questi argomenti in un posto simile erano ancora tabù, no? Per questo mi chiusi nel mutismo più assoluto. Cosa che fece preoccupare le infermiere. Non riuscii a parlarne neanche con Kiki e il Grande Mur che erano venuti a trovarmi.
Un giorno, dopo mangiato, trattenni Castalia e, rossa in volto, riuscii a chiederle di essere sottoposta a un controllo ginecologico. Mi morsi il labbro, distogliendo lo sguardo per la vergogna: «Forse dovresti chiederlo alle infermiere...» Tentò di dire in tono delicato e gentile ma di fronte al mio imbarazzo, si arrese e promise che mi avrebbe fissato una visita.

Il ginecologo di Rodorio decretò che l’imene era ancora intatto e che potevo stare tranquilla. Tirai un sospiro di sollievo e mi sentii come se mi fossi tolta un peso dal cuore. Dopo il controllo, Castalia mi venne a trovare e mi domandò: «Tutto a posto?» «Sì, va tutto bene». Le sorrisi e lei, annuì. Poi chiese: «Non sei…» ma lasciò cadere la frase in sospeso. Ci misi un po’ per capire, ma alla fine scossi il capo: «No, è tutto a posto.» e, le sorrisi di nuovo. La rossa rilassò le spalle e sospirò di sollievo, rassicurata.
Da allora cercai di recuperare il tempo perduto: avevo cominciato a fare domande alle persone che mi venivano a trovare. Ultimamente però più che i Gold erano i due Silver che mi avevano aiutata con la Meridiana. All’inizio mi sentii un po’in imbarazzo nel trovarmeli in stanza. Mi venne pure da domandarmi che cosa avessero voluto. Poi quando sentii parlare lo spagnolo li riconobbi. Ma dei gold non ebbi più alcuna notizia. Mi accorsi che rispondevano a tutte le domande, persino quelle sull’esterno, aggiornandomi sulle novità. Ma nessuno mi parlò mai dell’andamento della Guerra Sacra. Mi domandai perché.
«Andiamo, ragazzi.» Dissi un giorno ai due Silver. «Ormai sono qui, vorrei sapere come vanno le cose».
Ma i due svicolarono sempre. D’accordo che ero traumatizzata, ancora convalescente eccetera eccetera, però ormai mi ero impuntata e volevo saperlo. Cosa mi stavano nascondendo? Perché non volevano dirmi cosa stava succedendo? E, perché Kiki, Mur, Aphrodite e Death Mask non erano più venuti a trovarmi? Dov’erano scomparsi? Vuoi vedere che erano in campo e non me lo volevano dire? Perché?
Decisi di aguzzare le orecchie e di prestare attenzione a ogni pettegolezzo.
Verso mercoledì sentii Castalia parlare con delle infermiere fuori della porta della sala, credendo che la cacofonia celasse le loro parole o che io stessi dormendo. Fu così che venni a sapere della finta rivolta inscenata dai Cavalieri Neri. L’infermiera ribatté stupita: «Cosa? Perché avrebbero dovuto farlo?»
«Disperazione», rispose Castalia, «il loro capo blaterava che qualcosa stava distruggendo le loro fila giorno dopo giorno, una specie di malattia che si manifestava con cadaveri anneriti come se fossero bruciati vivi e armature in frantumi. Ho chiesto di vedere i corpi e quando mi hanno ascoltato, mi sono sentita male, non avevo mai visto una cosa del genere».
«Li ho visti anch’io. Non dimenticherò mai quei corpi». Aggiunse una che finora non aveva ancora parlato.
«Esatto, ma stando alle parole di Cancer sembra che ci sia di più. Pare infatti, che fossero stati… cancellati».
«Cancellati? Che vuoi dire?» Chiese un’infermiera, spaventata.
«Non so che cosa intendesse dire, sapete che Death Mask non è molto loquace a meno che non si tratti di spiegare alla sua vittima cosa sia la Valle della Morte. Ma da quel che ho potuto percepire io, era come se neanche i loro Cosmi esistessero più».
«La Valle della Morte, la Bocca dell’Ade, intendi forse l’Ammasso del Presepe nella costellazione del Cancro?» Domandai annunciando così la mia presenza. Le donne si volsero verso di me quasi in sincrono dopo un trasalimento quasi generale. Mi tenevo appoggiata allo stipite della porta con una mano e le guardavo incuriosita. “Era questo che non mi volevano dire?”
«Dove sono adesso?» Chiesi.
«Non ti riguarda». Mi ghiacciò Castalia.
«Ma io devo saperlo!»
«Per fare cosa? Raggiungerli? Nelle condizioni in cui sei ora non sopravvivresti neanche a una folata di vento! Ragiona, Astrid. Non so cosa tu abbia in mente di fare ma è sicuramente una pazzia, e io non posso lasciartelo fare».
«Ma loro potrebbero essere in pericolo».
«Sono guerrieri, sono addestrati, tu no! La volta scorsa ti è andata bene ma se vai laggiù non sopravvivrai. Lo capisci? Questo non è un gioco, Astrid». Ai suoi occhi dovevo apparire come una bambina inesperta. O meglio, come Kramer, l’apprendista di Costantine. E, purtroppo ricordavo troppo bene la fine che quest’ultimo aveva fatto per impuntarmi e replicare a dovere.
«Piuttosto, come sapevi che l’altro nome della Valle della Morte è l’Ammasso del Presepe?» Domandò nell’evidente tentativo di cambiare discorso, poi finse di rinvenirsi: «Ah, già, gli hai letto la mano». Era veramente brava, a momenti le credevo anch’io. Ma decisi di stare al gioco, anche se mi costò rispolverare uno stereotipo sulle bionde. “Ma tu guarda che mi tocca fare”. Perciò attaccai a spiegare, sperando di essere convincente: «Bè, no, non esattamente. Nei suoi ricordi la nominava soltanto quando sconfisse quel Gigante nella sua Casa, in realtà m’intendo di astronomia.» rivelò giocherellando con una delle sue lunghe ciocche, mentre con l’altra continuava ad aggrapparsi allo stipite. «Astronomia? Davvero?» Chiese Castalia in tono sorpreso.
«E’ così strano che una chiromante conosca anche l’astronomia?» Borbottai inarcando un sopracciglio. «Prima di mollare gli studi stavo per prendere la doppia laurea in astronomia e astrofisica».
«Ma pensa un po’, abbiamo una studiosa tra noi». Commentò l'altra.
Strinsi le labbra. «Ma adesso pensa a riposare». Decretò.
Accidenti.
E, io che speravo che sarei riuscita a scucirle qualcos’altro.

Quella sera il Cavaliere di Virgo mi cambiò le bende e mi visitò. Mi sembrò piuttosto esausto. Avevo sentito dire che anche lui era sceso in campo. E, se quello che avevo visto dai ricordi di Death era giusto, allora non avevo dubbi sulla sua potenza: «Ho sentito che stanno succedendo cose strane, che i Cavalieri Neri hanno chiesto asilo». Buttai lì rifacendomi a una conversazione vecchia di qualche settimana che avevo avuto con Juan di Scutum e Georg di Northen Crux.
Lui mi guardò sorpreso con i suoi occhi azzurri come il mare. «Come lo hai saputo?»
«L’ha detto Cancer». Risposi con voce incerta, sperando che non captasse la balla. Se non erro, i miei tre aggressori lo avevano apostrofato così. Shun sospirò ma non disse niente. Allora cercai di imboccarlo: «Mur ha detto che siamo davvero in guerra, ma non capisco la differenza, i giornali non ne parlano». Non che qui ricevessi notizie dall’esterno.
L’avevo capito anch’io che era una Guerra Sacra e che era diversa, però potevo permettermi di fare la figura della confusa, quindi perché non sfruttarla a mio vantaggio? Il dottore rispose: «Non è quel tipo di guerra che puoi sperare di trovare sui quotidiani, questa è una Guerra Sacra e la situazione si sta facendo preoccupante».
«Che vuoi dire? Non capisco».
«Non ce ne è bisogno, non preoccuparti, lascia fare a noi e vedrai che risolveremo tutto. D’accordo?» Domandò con la sua voce gentile e vellutata. Giuro che quando faceva così mi veniva una smodata voglia di abbracciarlo e proteggerlo. Non so perché ma scatenava il mio istinto materno. Però mi trattenni. «D’accordo. Si sa niente delle battaglie?» Non avevo affatto voglia di restare qui un secondo di più. Non avevo certo accantonato i miei propositi di fuga. Dopo la visita ginecologica, che per fortuna aveva sventato i miei timori riguardo a un possibile stupro, mi era ancora più venuta voglia di scappare. Non potevo restare qui. Dovevo tornare a casa dalla mia famiglia. Li avevo sentiti. Li sentivo ancora, dovevo sbrigarmi a raggiungerli in qualche modo. Ma prima mi sarebbe piaciuto vedere i miei conoscenti ( “E’ il termine giusto, vero?” Domandai alla mia coscienza) un’ultima volta.
«Sì, va tutto bene. Vedrai che ne usciremo tutti e che Artemide sarà sconfitta. Abbi fiducia in noi». Tesi le labbra in un sorriso. Il dottore mi domandò, cambiando repentinamente discorso: «Piuttosto, come va con le crisi?»
«Comincia ad andare meglio». Non significava che mi fossero passate, ma, diciamo che adesso le affrontavo. Mi rannicchiavo in posizione fetale e stringevo i denti. Adesso mi venivano pure le crisi di vomito (non sempre raggiungevo il bagno e, allora dovevo vomitare fuori della finestra o nel cestino) e le gambe non mi reggevano. Allora chiudevo gli occhi e pregavo fino ad addormentarmi. La mattina magari mi svegliavano gli inservienti parecchio irritati per il mio comportamento ma non potevo farci niente. Neanche a me piaceva vomitare i pasti, anche perché queste crisi mi lasciavano un mal di stomaco che mi durava per giorni interi e, non era il massimo andare avanti a tè e fette biscottate per riassorbire i succhi gastrici. Poi, anche Shun fu costretto a raggiungere i suoi compagni in battaglia. Mi spiegò che era successo qualcosa a suo fratello maggiore e gli altri e anche alla Dea. Di fronte alla mia espressione spaventata promise che sarebbe tornato sano e salvo e gli augurammo buona fortuna.

Era settembre quando i medici mi dimisero. Né Aphrodite o gli altri mi vennero a prendere perché erano incastrati sul campo di battaglia. Stavolta tutte le milizie (salvo Shun e i Cavalieri d'Argento e Bronzo) erano schierate per l'attacco finale.
Pregai che stessero bene, come tutti gli altri giorni.
Poiché non avevo un alloggio Castalia mi prese a vivere con sé. Mi fece uno strano effetto uscire dall’ospedale: non mi ero mai sentita così piccola e smarrita da un pezzo. Mi guardai attorno sotto il cocente sole greco. Erano tutti sassi e pochissimo verde, allora mamma aveva detto il vero quando mi parlava della sua luna di miele con papà. La Grecia era davvero così.
La voce di Castalia che era già andata avanti, mi richiamò. «Eccomi, scusami». Dissi raggiungendola, appoggiandomi al bastone trenta centimetri più alto di me, che mi aveva portato, a mo’di stampella. Ma io un randello così l’avrei usato per scalare i sentieri di montagna. Poi, ne capii anche il perché: il Santuario e i territori vicini si spandevano effettivamente tra montagne e avallamenti uno più irto e pericoloso dell’altro. La mia accompagnatrice mi guidò per un breve tour mostrandomi addirittura l’Altura delle Stelle, il posto che solo il Gran Sacerdote poteva raggiungere per predire il futuro tramite il moto degli astri. A questa spiegazione alzai il sopracciglio ma non mi espressi: “Ognuno ha i suoi metodi divinatori”.
Sulla strada incontrammo servitori, civili indaffarati e mercati e poi, tra le rovine che attraversammo, vedemmo Sacerdotesse-guerriero e maestri che addestravano i propri discepoli in parte giovani e circa bardati con pezzi d’armatura. Soldati che si riposavano all’ombra di rovine e massi o che bevevano qualcosa nelle osterie. Molti mi seguirono con lo sguardo o diedero gomitate al vicino per indicarmi. Alcuni commentarono: «Hai visto?», «Per gli Dèi!», altri, «Che sventola!» mentre altri mostrarono espressioni sorprese e commosse e altri ancora rispettose e spaventate. Ci fu addirittura chi accennò un inchino, ma pensai che stessero salutando Castalia, che ignorò tutti. Infine giungemmo a casa sua. Mi ero aspettata chissà quale casa, invece era una casetta piccola ma accogliente. Cucina e salotto erano praticamente nella stessa stanza, il bagno era sulla porta a sinistra e le camere erano a destra. «Fa come se fossi a casa tua.» mi disse mentre si dirigeva in cucina e metteva su del tè: «Gradisci qualcosa da bere?» Aggiunse.
«Oh, no, niente, grazie, sono a posto così.» risposi mettendomi a sedere sul divano vecchio ma comodo.
«Neanche del tè freddo?»
Deglutii e sentii la gola secca: «Pensandoci bene sì, va bene il tè freddo».
«Limone o pesca?»
«Limone».
Shun mi aveva raccontato che Castalia fu la maestra di Seiya, il Cavaliere di Bronzo più vicino alla Dea Atena. Appena lo seppi l’avevo guardato sbalordita. Non sapevo che Castalia fosse così importante nella vita di Seiya e dei suoi fratellastri. Vidi persino delle foto su una mensola vicina. Mi alzai e andai a vedere. A giudicare dalla pellicola risalivano proprio agli Anni ’80. Ero brava a riconoscere il periodo in cui era scattata una foto, non tanto dall’abbigliamento, quanto dai colori della pellicola. Ormai non si usavano più ma ricordavo ancora di quanto mio padre usava quelle vecchie macchine fotografiche col rullino. Ne regalarono una anche a me, per la cresima. Tornai a concentrarmi sulle foto incorniciate; ritraevano lei da giovane, abbigliata con un body nero a due spalline e le medesime protezioni, con calze rosse e scaldamuscoli bianchi, con Seiya e un’altra ragazza. Mi era impossibile stabilire il suo aspetto, poiché la maschera me lo nascondeva. A volte invece, ritraevano lei e una giovane donna dai capelli e le calze della stessa tonalità di verde, una maschera con disegno a occhi di procione e un’accozzaglia di marrone, viola scuro, giallo e rosa. Mioddio, questa se la batteva con Lady Isabel in quanto a orrore solo per l’accostamento!
Passai alla prossima foto. In questa era ritratta lei con i cinque Bronze, Shaina e i Gold tutti insieme. La foto aveva catturato a pieno la loro bellezza. Già presi singolarmente, ammettevo, che erano davvero belli ma, tutti insieme, erano una visione insostenibile. E, non solo per il fascino delle corazze.
Tra tutti mi colpì in particolare quello sulla sinistra. Trattenni il fiato per la sorpresa e sgranai gli occhi: sembrava la mia versione maschile, forse più alta, a parte la chioma rossa, le sopracciglia biforcute rosso scuro e gli occhi cobalto. E, le unghie smaltate di un color ghiaccio che mi fece inarcare un sopracciglio. Il fantasma di un sorriso albergava sulla sua faccia. Se non fosse stato che conoscevo benissimo i tratti dei miei, che avevo ereditato e riconoscevo in me quando mi guardavo allo specchio, avrei giurato che questo tizio accanto a Milo, fosse mio parente. Sì, credo che si chiamasse così il vicino con il Cloth dello Scorpione che guardava fiero in macchina e sorrideva più apertamente del giovane con la chioma azzurra. Tornai a focalizzarmi su quest’ultimo. “Chi sei? Come mai mi somigli?” Pensai confusa, come se la foto avesse potuto rispondermi. Lo avevo visto anche nei ricordi di Death e non c’era niente di compromettente che potesse legarmi a lui. Inoltre nella mia famiglia non c’erano scheletri nell’armadio di questo tipo. Se avessi avuto un altro parente come quello, me l’avrebbero detto. I miei, per quanto stravaganti fossero, mi volevano bene, non mi avrebbero mai nascosto una notizia come questa. No, non era mio parente, era soltanto la mia copia al maschile. “E, dire che, io pensavo di averlo femminile il sosia”. Ironizzai divertita e, con questo pensiero scacciai ogni dubbio sull’onestà dei miei parenti.
Ah, forse era per questo che alcune persone mi avevano additato neanche avessero visto un fantasma.
Tornai a rispolverare i ricordi di Death alla ricerca d’informazioni su quest’algido personaggio. Com’era che si chiamava? Mi pareva avesse un nome simile a quello dell’autore de La peste, ma non riuscivo a pronunciarlo.
Decisi che l’avevo fissato anche troppo e passai oltre e l’occhio mi cadde sulla foto della mia ospite che teneva le mani sulle spalle di un bambino con un sorrisone, abbronzato, dai capelli castani scuri spettinati e gli occhi del medesimo colore: «Questa sei tu?» Le domandai. Lei si volse e annuì: «Sì, siamo io e Pegasus ai tempi dell’addestramento». Ce ne erano molte dove si poteva costatare la crescita del bambino. Da come ne parlava, intuii che le mancasse molto.
«Pegasus? Ah, ti riferisci a Seiya, il Cavaliere di Pegasus.» dissi sedendomi al tavolo.
«Proprio lui, allora ti ricordi ancora quello che hai visto nella mente di Death Mask?» Disse portando un bicchiere di tè freddo per me. Ringraziai e bevvi. Lei si alzò la maschera fino a scoprire il naso e la bocca e fece altrettanto. «Non è così difficile, la sua mente ha talmente tanti ricordi negativi che ti restano impressi a fuoco.» spiegai rabbrividendo, cercando di non pensarci. Non a caso era stato il mio primo “buco nero”.
«Già, come darti torto». Commentò.
«Anche tu leggi la mano?» Le domandai, incuriosita dalla sua frase.
«No, non ho un simile talento, mi basta percepire il suo Cosmo o vedere la Quarta Casa per capirlo».
«Ah…»
Poi ci concentrammo sulla bevanda che stavamo sorseggiando.
Avevo pensato di chiederle subito di fare qualcosa per aiutarmi a trovare dei soldi, ma sentivo che non era il momento adatto. Non adesso che era sprofondata in chissà quali ricordi. «Però è un tipo simpatico, sa il fatto suo, quando non ammazza nessuno». Aggiunsi, anche se mi sapeva di scusa che faceva acqua da tutte le parti persino alle mie orecchie. Lei si limitò a dire: «Se lo dici tu».
Mi guardai le mani e mi accorsi che erano diventate più scheletriche di prima. Solo allora ebbi la piena consapevolezza della mia magrezza sotto i vestiti. Avevo perso qualche chilo da quando vivevo qui. Ma si poteva chiamare vivere quello che mi stava accadendo? Vivere comprende fatti positivi e fatti negativi, se non erro. Quando stavo in infermeria, pensavo che la mia vita fosse sospesa, le mie conoscenze, la mia routine, il mio lavoro, le mie passioni, la mia famiglia. Tutto sospeso. Ma se non fosse stato davvero così? Se, davvero, Death Mask e Aphro non mi avessero mai rapito come dicevano? Se fossero stati sinceri? Se la radice di tutto ciò fosse proprio il verbo che avevo usato per definire la loro azione e il Santuario? Se invece di rapita ci avessi messo salvata? Non appena lo pensai ebbi la sensazione che una parte del puzzle fosse andata al suo posto. Non dovevo sentirmi in colpa per essermi affezionata a dei rapitori. Perché non erano mai stati tali. Un rapitore chiede un riscatto per restituire l’ostaggio alla famiglia. Un ostaggio non è aiutato a superare un trauma e neanche operato per tornare in salute. Al massimo è mantenuto in vita, o finisce mutilato (a seconda di chi lo cattura), ma è comunque prigioniero. Un vero prigioniero non è trattato come me e aiutato. Poi, se quei due avessero davvero voluto farmi del male, l’avrebbero fatto fin dal principio. O, almeno credo. Non ero pratica di rapimenti, per fortuna.
Questo significava che non era necessario sentirmi in colpa per l’affetto che sentivo per loro. Forse, considerando che avevo istaurato un bel rapporto di amicizia con Shun e qualche altra infermiera, mi ero sbagliata. La mia vita non era stata messa in stand by, era solo cambiata. Il solo pensarlo mi fece sussultare. «Tutto a posto?» Mi chiese Castalia.
«Sì, sì».
«Sicura? Mi sembri strana».
«E’che ho appena realizzato una cosa». Risposi tenendomi sul vago. Doveva essere così. Se no perché mi dispiaceva non vedere più neanche Shun? Amore? Nah. Ero stata pronta a combattere a piè sospinto affinché non avvenisse. Potevo dichiararmi fortunata perché non era neanche scoccata la scintilla. Allora cosa mi aveva colpito? Feci un paragone con il suo predecessore. Il dottore era molto più alla mano e disponibile. Anche Shaka a onor del vero, aveva dei pregi, oltre che dei difetti, come l’arroganza data dalla sua consapevolezza di reincarnazione di Buddha, ma Shun era quello che l’altro non fu. Forse era questo che me lo rendeva assai più accessibile. Se conoscevo un po’ il suo predecessore era soltanto grazie ai ricordi di Death.
Non fu facile per me accettare questa consapevolezza. Mi erano crollate tutte quelle certezze che mi si erano formate. E, non mi piaceva sentirmi in colpa per questo. Quel giorno mi capitò spesso di formulare pensieri su di loro. Avevano davvero cercato di aiutarmi. Non potevo dire la stessa cosa degli altri soldati semplici. Quelli sì che erano davvero fastidiosi. Persino più di Death Mask.
Poi, però mi ricordavo del mio piano di fuga e, subito cercavo di cancellare l’affetto che provavo per loro. Anche per evitare di soffrire. Questa non era casa mia, qui non c’era la mia famiglia. Non potevo permettermi di affezionarmi, dovevo andarmene.
Anche se salvata, mi avevano comunque rapito. Altrimenti perché non mi avevano lasciato chiamare casa? Perché non mi avevano passato un telefono? “E, perché tu in questi mesi non l’hai mai chiesto?” Mi domandò la mia coscienza, zittendomi nuovamente mentre sprofondavo nella vergogna più totale.
Cosa mi stava succedendo? Perché, non avevo mai chiesto a nessuno un telefono o mi ero mai attivata per raggiungerne uno? O un computer? Perché?
Come avrei voluto parlare con Shun. Avrei voluto chiedergli cos’era questo sentimento che mi portava a pregare affinché tornassero sani e salvi dalla Guerra Sacra. Ma lui non poteva sentirmi. Solo in quel momento mi resi conto che il nostro rapporto non era molto professionale. Voglio dire, lui era un dottore (chirurgo oltretutto, ma allora perché si era messo a farmi eseguire quegli esercizi?) e lui stesso se ne accorgeva. Che si fosse innamorato? No, non mi guardava con quel trasporto tipico degli innamorati. Né l’avevo mai sentito sospirare o l’avevo mai visto arrossire nei miei confronti o fissarmi le curve del mio corpo con sguardo voluttuoso. Avevo avuto anch’io degli innamorati in passato (anche se non ci avevo mai combinato niente) e, anche senza l’empatia (disturbata dalle medicine e dalle crisi), sapevo riconoscere l’amore quando lo vedevo. L’unica cosa che mi venne in mente fu che doveva aver visto qualcosa in me che lo spingeva a un tale gesto. Non mi ero lasciata incantare nonostante il suo sguardo puro, aperto e fiducioso che m’invogliava a proteggerlo io stessa. Salvo quando non notavo un qualcosa di strano nella sua ombra o nel suo riflesso.
A proposito di sguardi, mi ricordai quelli degli altri e mi ritrovai a serrare la mascella. Anche se i loro erano diversi da quelli di Shun, mi faceva pregare che tornassero sani e salvi. Erano, infatti, spariti quasi quattro giorni prima che mi dimettessero.
L'unico rimasto era proprio Shun. A volte mi sembrava che la sua ombra non corrispondesse alla sua persona. E, lo stesso valeva per il suo riflesso, soprattutto sugli oggetti metallici e riflettenti. Che ci fosse un altro motivo per cui mi stesse vicino? Che stesse agendo per conto di qualcun altro o che qualcuno mi stesse tenendo d’occhio? O che io stessi dando di matto? Se stavo dando di matto, però allora la colpa doveva essere degli ansiolitici. Avevo sentito che alcuni di essi causavano le allucinazioni.
Anche se quella del mio angelo custode, non era un’allucinazione. Me lo sentivo dentro. Lui era reale. Lo sentivo sulla mia pelle, lo sentivo nella mia mente e lo sentivo vicino. Una presenza che ricordavo dall’infanzia. No, quella non era un’allucinazione.
L’ultima volta che venne a trovarmi, qualche notte dopo che accettai finalmente l’aiuto degli altri, lo stavo aspettando ad occhi chiusi, seduta sul divano.
Sembravo meditare, ma in realtà stavo allenandomi a espandere la mia aura e a zittire la mia mente per percepire le presenze altrui. Come mi aveva insegnato mia nonna.
Lo sentii salutarmi e sedersi accanto a me sul letto e io lo strinsi a me, guidata dalla mia empatia, che funzionò quasi come una sorta di sonar e, fronte sul suo petto, riuscii a incorniciarne il viso glabro tra le mani, memore di un’altra frase che avevo sentito in passato: “La verità non è qualcosa che si vede solo con gli occhi”. E, se non potevo fidarmi dei miei occhi, potevo almeno fidarmi delle mie mani. «Ehi, siamo contenti, oggi». Commentò divertito e spiazzato l’altro con voce sorridente, abbracciandomi.

E, adesso, cinque giorni dopo, non erano ancora tornati e non se ne avevano notizie. Né io potevo rintracciarli con la mia empatia. Auto impedendomi l’instaurazione di un rapporto di amicizia mi ero preclusa la creazione di questa connessione telepatica.
Perciò, quella nuvolosa mattina di settembre di due settimane dopo, chiesi spiegazioni a Castalia e lei, mentre giravamo per il mercato, mi raccontò che spesso gli scontri si spostavano da un campo all’altro. Probabilmente adesso erano nei territori della Dea Artemide, cioè sulla Luna. Appena lo disse mi cascò la mascella. «Sulla Luna?» Ripetei come se avessi capito male.

«Sì, il Tempio della Luna si trova sulla Luna». Specificò. E, io che ero rimasta a quelli terrestri. “Quindi si può respirare sulla Luna? No, non può essere così semplice come la mette”. Pensai Mi raccontò quello che sapeva a proposito di questa Dea, ma mi era lo stesso incredibile. E, allora dove diavolo erano approdati tutti gli astronauti delle missioni lunari? E, l’Apollo 11 e l’Apollo 12? I filmati? La bandiera sul suolo lunare? Era questo quello che avevano visto nel filmato cancellato? Un Tempio?
E, poi, mi disse che i Cavalieri d’Oro si erano recati sulla Luna a salvare la loro Dea. La Dea Atena sulla Luna? Allora era per questo che il Santuario era quasi andato nel pallone? Sperai che si fosse portata almeno un’arma con sé.

Altrimenti perché si sarebbe recata di persona nei territori della sorella maggiore per affrontarla apertamente? Se non ricordavo male Artemide non mi era sembrata una persona (in senso lato) che ci girava troppo intorno. Oppure si erano già dimenticati dell’attacco che diede il via alla Guerra Sacra? «Non è la prima volta che mette a repentaglio la sua stessa vita per la salvezza del pianeta». Mi rivelò la Sacerdotessa-Guerriero. «Ma voglio dire, si sarà almeno portata dietro un’arma, qualcosa, qualcuno…»
«No, devi sapere che la Nostra Dea aborrisce l’uso delle armi e che preferisce agire di testa sua piuttosto che mettere a repentaglio le vite altrui». Ma così costringeva i suoi Cavalieri a correre in suo soccorso e… Esplosi scandalizzata: «Esponendosi così? Ma è folle!»
«Per questo i Gold sono andati a salvarla».
«E, perché non siete andati anche voi?» Domandai.  La preoccupazione per i miei conoscenti tornò a farsi sentire.

Cercai di non porre altre domande ma resistetti solo fino al giorno dopo, quando la mattina seguente, in infermeria chiesi alla Sacerdotessa dell'Aquila, durante un esercizio: «Quando torneranno?»
«Non si sa. Dipende da quando finirà la Guerra. A volte possono restare lontani anche per dei mesi». Mi dispiacque sentirlo, ma poi mi ritrovai a pensare alle situazioni dei soldati americani e altri esempi storici. Forse non avrei dovuto sorprendermi più di tanto eppure lo facevo e sentivo il pericolo vicino, così vicino da sfiorarmi, come non mi era mai successo.

Perché quelli in Guerra li conoscevo ed erano quasi miei coetanei. Un quasi, ovviamente, grande come una casa e contornato di virgolette alte come condomini a sei piani. Castalia si accorse della mia preoccupazione perché cercò di rincuorarmi posandomi una mano sulla spalla. Mi fermai per guardarla, ma incontrai solo lo sguardo vuoto della sua maschera inespressiva: «Non temere per loro, sono più forti di quanto credi, abbi fiducia, torneranno al Santuario». Disse fiduciosa. Con un piccolo sforzo curvai le labbra in un sorriso e annuii pregando che avesse ragione. Ma i giorni passarono e, di loro non ebbi più alcuna notizia.

Una sera mi svegliai e andai in bagno. Mi sciacquai il viso e, il pensiero mi corse inevitabilmente ai Cavalieri in battaglia.
Grazie alle memorie di Death avevo ricordato come agiva di solito la loro Dea. Certo che storcevo il naso a un comportamento simile. Voglio dire, lei era una Dea per davvero, qualcosa oltre a usarli avrà pur saputo fare, no? Cioè, ma che giustificazione aveva? Avrei potuto capire se fosse stata umana al cento per cento, ma non lo era. Non fatemi continuare oltre che se no cade tutto il Parlamento italiano, qui. E, sì, era bello costatare che qualcosa della vecchia me era sopravvissuto. Uscii di nascosto di casa, pentendomene quasi subito: la sera era veramente fredda e mi fece accapponare la pelle. Camminando un po’, lentamente, mi scaldai. Fu allora, che approdai in un piccolo santuario posto vicino all’infermeria. Qualcuno ci aveva portato delle offerte e c’erano dei lumini accesi. Avvicinandomi mi accorsi che sull’altarino, al posto di una statua votiva di un santo c’era una riproduzione in scala ridotta di quella di Atena. Mi sarebbe piaciuto recitare qualche preghiera, il problema era che non me ne ricordavo neanche mezza e, quelle che ricordavo, erano totalmente fuori luogo per questo posto. Non avevo offerte con me e non avevo nessuna candela d’accendere. In compenso; anche se non sapevo se valesse a qualcosa, mi misi a cantare. In realtà non so neanche come lo decisi, fatto sta che le labbra mi si aprirono da sole e cantai. L’unica canzone, purtroppo, ancora alla portata delle mie corde vocali e della mia memoria: Boadicea. Dapprima gracchiante e poi la voce mi si scaldò e si librò leggera nella notte.

Cocteau
Avevi visto abbastanza, perciò volasti via, nel buio della notte e ti recasti alla Tredicesima. Sua Santità ti attendeva al terrazzo sul retro, quello, dove c’era la colonna con l’imponente statua crisoelefantina di Atena. Adesso una copia della suddetta torreggiava in bella vista e, sembrava vigilare sul Santuario. Era rassicurante ritrovarla lì dopo la Guerra Sacra. Anche se era solo una copia della sacra armatura di Atena.
Mentre sorvolavi il Grande Tempio, intravedesti una figura illuminata dai raggi della Luna, in piedi su una delle rovine. Guardava verso l’ospedale. Il vento smosse i suoi capelli e tu scorgesti la ciocca azzurrina legata col laccetto rosso, sventolare nell’aria umida della sera. Era Lancelot. Cosa ci faceva a quell’ora della notte fuori delle mura della Quarta Casa? Non doveva badarci lui fino al ritorno di Death Mask?
Il Cavaliere di Cancer dell’altra dimensione ti vide e ti sorrise.

Death Mask
Si stava stretti, troppo stretti. Ce la facesti a malapena a toglierti lo stivale di Milo dalla guancia. Era la terza volta che ti calpestava neanche tu fossi un cuscino.
Sembrava un mega partita a twister e, invece eravate incastrati, di nuovo, in una statua, e, stavolta, con tutto il corpo! E, faceva dannatamente male, anche a causa delle punte affilate decorative delle vostre Armature!
Se prima pensavi che la tua fosse un’ipotesi, adesso ne avevi la certezza: Hyoga portava veramente sfortuna. La prossima volta che la Dea se ne andava di sua spontanea volontà e l’ex Bronze del Cigno si offriva volontario per una missione, avresti toccato ferro. «Ehi! Quello è il mio naso! E fai un po’d’attenzione, per la miseria!» Sbottasti cercando di togliere il gomito di Aiolia dal tuo naso. «E, stai un po’zitto!» Si lamentò il Leone dopo l’ennesimo tentativo (andato a vuoto) di spaccare la statua (ma riuscitissimo se stava cercando di uccidervi tutti tramite i suoi colpi di luce e fulimini). «E, tu piantala di lanciare il tuo Lighthing bolt! Ne ho fin sopra i capelli di prendermi le tue dannatissime scosse elettriche come se mi trovassi a una svendita! Smettila di fare il pirla! Diamine, ma ci sei o ci fai?» Era già l’ennesima volta che quell’idiota attentava alle vostre vite con una scarica elettrica ad alto voltaggio. Lui, che possedeva il Keraunos (la potenza deicida del fulmine) e che la usava a sproposito per la seconda volta. Ma allora era scemo!
«Se hai un’idea migliore, mettiti all’opera!» Ribatté il Leone, cercando d’individuarti nel buio di questa statua, sotto la massa di corpi. L’ossigeno cominciava a mancare sostituito sempre più dalla vostra calda anidride carbonica. I vostri odori, compreso quelli del sudore che colava a gocce dai vostri corpi accaldati, cominciava a farsi troppo persistente. Come anche il dolore a varie parti dei vostri corpi. Avevi il sospetto che se foste rimasti lì un altro po’, ti si sarebbe rotta a te la colonna vertebrale, come minimo. Non che nel frattempo non aveste riportato qualche danno durante lo scontro per cercare di salvare Atena dalla trappola in cui era finita lei stessa. Conoscevate tutti il modus operandi della vostra Dea e l’amore che nutriva per voi tutti. Se era giunta fin qui significava che la situazione era grave. Ciò non la autorizzava ad agire di testa propria e con tale sconsideratezza. Possibile che non imparasse mai? E, com’era stato possibile che fosse riuscita a eludere la vostra sorveglianza così facilmente?
Di norma prendevate momenti come questo per riposare un po’e riacquistare le forze. Di solito, però, non eravate intrappolati da nessuna parte. Così compressati e intrecciati era impossibile riprendersi. La tua migliore amica e compagna di giochi stava per raggiungervi e, tu, non potevi neanche trasportati da nessuna parte per liberarti, tanto eri stremato. Non amavi trovarti in quelle situazioni. Avevate cercato l’aiuto della vostra Signora, ma lei non aveva risposto e, ciò, aveva peggiorato la situazione.
«Ragazzi, non è il caso di litigare.» Tentò Aldebaran a disagio e preoccupato, cercando di schiacciare il meno possibile Shura, che, neanche fosse tetris, aveva la faccia spiaccicata contro la parete della vostra prigione a causa dell’imponente mole del Custode della Seconda. A Kiki era andata peggio: lui era incastrato proprio sotto l’imponente amico del suo maestro di faccia. Che, per contro, faceva di tutto per evitare di gravargli addosso, andando inevitabilmente, a spiaccicare ancora di più Shura. Che, per contro, stava rischiando di finire impalato dalle appariscenti corna dell’armatura dell’Ariete. Se non vi foste liberati al più presto, la maggior parte di voi sarebbe morta soffocata.
«E, smettila di schiacciarmi!» Protestò lo spagnolo con voce strozzata.
Le robotiche ninfe di Artemide erano riuscite a prendervi in trappola uno per uno bersagliandovi con inusitata ferocia con le loro frecce. Attuando, inoltre una strategia imprevista persino per Aphrodite. Il primo (sorvoliamo sul come, vi prego) eri stato proprio tu, poi erano seguiti il Cavaliere della Dodicesima, Aiolia, Shura, Shiryu, Kiki, Milo e Hyoga, poi era stata la volta di Toro. Se non era toccato a nessun altro, era stata solo per mera fortuna. Infine, vi eravate svegliati tutti stipati in quello spazio ristretto e angusto. «Milo! Per carità, non muoverti!» Lo supplicò Kiki con voce ovattata, che ormai era ridotto quasi un colabrodo per via delle parti affilate delle vostre armature. Aggiungiamoci i vostri mantelli che trattenevano ancor più il vostro fiato e il quadro della situazione era completo.
«Kiki! Sta un po’attento con quelle corna!» Ribatté il chiamato in causa.
«Shiryu, non ti spostare o succede il macello!» Lo rimbeccasti tu con quel poco di fiato che i tuoi polmoni riuscivano a trasformare le parole. «Hyoga, toglimi le gambe dalla faccia!» Sputacchiò Aphrodite, che ormai era arrivato a mordergli le cosce a sangue pur di toglierselo di torno, onde evitare il soffocamento. Per non parlare poi del fatto che si ritrovava anche una mano non precisata a un palmo di naso. Non ne eri sicuro, ma tra tutti, sembrava che Aphrodite fosse il primo a rimetterci le penne. Di nuovo.
Invece, Aiolia annaspava ogni tre per due tra i capelli lunghissimi di Aphrodite e Milo e mantelli.
«Ahio! Non mordere!» Protestò il Cavaliere di Aquarius dopo l’ennesimo morso ricevuto. Fortuna che Aphrodite non era ancora arrivato a morderlo a sangue. Ma, avevi il sospetto che ci fosse vicino. Ovviamente anche lui aveva provato a scalfire il vaso con le sue rose, ma aveva ottenuto soltanto di farvi una mega seduta di agopuntura con le spine della sua demoniaca profusione floreale. Così le aveva ritratte e aveva rinunciato.
Tu e gli altri Gold c’eravate già stati imprigionati dentro una statua, quindi adesso, nonostante il fastidio, sapevate già cosa fare per non spiaccicarvi a vicenda. Soprattutto se, quasi in cima, c’era proprio l’ingombrante Aldebaran. Ma Shiryu e Hyoga no. Shura, l’altro sano di mente della situazione, prese il controllo: «Se avete finito di litigare proporrei l’immobilità!» Adesso parlava con la guancia spiaccicata contro la parete, ma, se non altro era riuscito a girare la faccia. Non che gli convenisse, dato gli effluvi mefitici emanati dai vostri corpi annodati al pari dei vostri mantelli. E, che ci volevate fare? Eravate umani anche voi. Anche voi sudavate e pativate il caldo. A proposito di caldo: «Aiolia! Smettila di sudare, fai schifo!»
«Stai zitto, è caldo e non ci posso fare niente. Non l’ho mai sopportato». Infatti, una delle ragioni per cui cercava di sfondare la statua, era proprio quella di riuscire a sfuggire a quell’untuosa, puzzolente e ristretta fornace che era diventata. «Hyoga, ti prego, surgelalo!» Lo implorò Milo sputando una ciocca di capelli di non meglio identificata appartenenza.
«Sta zitto, artropode!» Lo rimbeccò, stufo il fratello minore di Aiolos.
«Ehi, voi due!» Li richiamò Shura. «Ascoltatemi! Cercate di restare immobili, io proverò a spostarmi.» vi avvisò e tu trasalisti.
«Spostarti, ma sei pazzo?» Esclamasti in coro con Hyoga, Aiolia e Milo.
«No, tra tutti sono quello che ha più libertà di movimento, posso provare a sgusciare via».
«Hai un piano?» Chiese Shiryu speranzoso.
«Che vuoi fare?» Domandò invece Aldebaran.
«Voglio cercare di rompere questo dannatissimo vaso con la mia Excalibur!» Dichiarò risoluto. Già per cercare di agevolare Aiolia vi eravate spostati, adesso vi toccava pure spostarvi un’altra volta. Sperasti di non finire nuovamente soffocato da un mantello o chissà cos’altro. «E’ inutile, Shura; quest’affare ha resistito ai miei colpi più potenti. Non so quanto possa fare tu!» Da dove eri semi incastrato, percepisti l’occhiataccia fulminante di Shura, che, a causa della sua posizione, aveva sbagliato bersaglio. Poi, cominciò a lottare per disincastrarsi. «Fa attenzione. Le creature si aggirano per questo Palazzo». Si raccomandò Shiryu. Ve lo avevano detto mentre vi rinchiudevano qui. E, giacché tenevano il Cosmo azzerato, doveva essere vero. Non che ti fidassi di un nemico, però non si poteva sapere.
Dopo qualche minuto e molti gemiti di dolore, Shura riuscì a disincastrarsi. Cominciò a tastare la volta della statua per farsi un’idea e cercare un buon punto per spaccarla. «Sbrigati!» Quando ebbe finito di tastarla, o meglio, prendere le misure, abbassò il braccio destro e provò, dove finora avevate tentato voialtri. Ma non ottenne risultati. In compenso, il colpo delle sue ossa contro il materiale lo sentiste benissimo, come pure il suo gemito di dolore.
E, le vostre speranze morirono completamente. Ormai mancava poco allo scoccare della vostra ora. Tu cominciavi ad avere le visioni. Per esempio ne avevi avuta una del Tempio della Luna sul sentiero che avevate percorso prima dell’attacco delle truppe di Callisto. Le sentinelle che adesso stavano lottando contro Seiya e Kouga. Però nella tua visione, tu passavi in mezzo allo scontro senza esserne minimamente intaccato.
Ecco, persino questo.
Stavolta temevi che neanche le preghiere di Atena sarebbero riuscite a raggiungervi. Però, tra tutte le preghiere che potevate sperare di udire quella notte, quella che udisti in quel momento, fu una delle più strane. Shura aveva appena cercato di usare Excalibur per la seconda volta quando la udisti. Chi stava cantando? L’avevi già sentita prima, riconoscevi quel timbro vocale femminile. «State zitti!»
«Perché? Che succede?»
«Zitti». Obbediste tutti e tendeste l’orecchio. Eccola di nuovo, quella voce. «Boadicea?» Domandò Shura confuso, abbassando un attimo il braccio per reggersi alle pareti scivolose della statua cava. Kiki si spostò e lui vacillò. Tese le braccia e posò i palmi sulle pareti vicine per mantenersi stabile.
«Di che parli? Io non sento niente».
«E, che diavolo è Boadicea?» Sputacchiò Milo centrando la faccia di Hyoga, ma senza volerlo davvero sapere.
Per metà, riuscisti a sederti, anche se ciò fece perdere l’equilibrio a Shura, perché spostò gli altri. In compenso, liberò un po’di più Shiryu, che cercò di raggiungere il tuo amico. Ma che, irrimediabilmente, spostò un’altra volta la piramide di corpi che eravate. E, così, tu ti ritrovasti ad auscultare le vertebre lombari di Aiolia. Facesti leva con le braccia per spostarlo, imprecando e questi ti fece una bella strigliata. Poi sentisti di nuovo quel mugolio e ti fermasti «Che?» Chiedesti mentre il Leone ti assordava. Lo zittisti con un urlo dei tuoi che lo fece tacere immediatamente. Poi, anche lui la udì. «Cos’è questa canzone?» Ti chiese cercandoti con lo sguardo, impossibilitato com’era a volgere il capo. E, poi, in quell’oscurità, non era che poteste fare molto.
«Shura, lasciami aiutarti.» intervenne Shiryu e lo spagnolo, dopo avergli domandato se ce la facesse, perché il Dragone era uno di quelli conciati peggio (e, esservi sorbiti le tue suppliche), accettò e riprese il filo del discorso: «Boadicea. Questo è il titolo della canzone che sentiamo, non era quella che…»
«Sì. E’proprio questa». Tagliasti corto tu, mentre, non si sa per quale assurdo motivo, la sentivate lì. Lei non poteva trovarsi qui, era impossibile. Come c’era arrivata? «Dev’essere una trappola del nemico», considerò Hyoga con fare agguerrito, «Vogliono farci credere che ci sia qualcuno là fuori per impedirci di liberarci. Sicuramente devono aver stretto un’alleanza con i Marine di Poseidone, quei…» La sua spiegazione vi mise tutti d’accordo. Anche perché non conoscevate nessun altro al di fuori degli Specter che usava la voce come arma in battaglia.
«Sbrigatevi, voi due! Non percepisco più il Cosmo della Dea, dannazione!» Sbottasti, rianimandoli tutti. I due spadaccini, insieme, fecero per abbattere la statua quando capisti che non stavate percependo quella canzone tramite il Cosmo, bensì con l’udito. Sussultasti e cercasti di avvisarli: «Aspettate c’è…» ma troppo tardi: i due calarono il braccio con Excalibur. In quello stesso momento, la statua si frantumò in altri pezzi anche lateralmente. E, voi franaste al solo, uno sopra l’altro (con tutta la pietà del caso per te e i poveracci su cui cascò il possente Aldebaran) e vi disincastraste, tossendo e gemendo di dolore.
Fu allora che vedeste le Creature sul soffitto e lungo le pareti e, pochi passi indietro, tra i cocci e la polvere, un’Astrid dai capelli fluttuanti e illuminati dagli argentei raggi lunari, i piedi nudi e la camicia da notte bianca sbracciata, anch’essa smossa da una brezza che solo lei poteva percepire. Brandiva la metà di un bastone, penzoloni al suo fianco. Il peso spostato su una gamba. Gli incredibili e dettagliati occhi gialli vacui, come se non vi vedesse davvero, come se fosse sonnambula. «Astrid!» Esclamasti strabuzzando gli occhi.
Gli altri ti fecero eco, tra un colpo di tosse e l’altro, guardandosi intorno: «Astrid?», «Dove?», «Sei sicuro?», «Io non vedo nessuno!» Mormorò invece Shura, preoccupato. Vi conoscevate da troppo tempo che ormai riuscivi a decifrare le piccole sfumature della sua voce tagliente e, apparentemente incolore. Qualcuno, forse Kiki, trasalì e Shiryu disse, inquieto: «Io non percepisco niente». Lei parve non udirvi. I suoi occhi, aperti a mezz’asta, guardavano fisso davanti a sé. «Non abbiamo tempo, penseremo a lei dopo! Adesso dobbiamo salvare Atena!» Ordinò Kiki riportandovi alla realtà.
«Le Creature!» Esclamasti poi, mentre le medesime cominciarono a fluttuare verso il basso. Ti lanciasti verso Astrid ma le Creature furono più veloci e, ci passarono attraverso, confermandoti che in realtà era tutto un parto della tua psiche danneggiata dalle botte. Altrimenti non se ne sarebbe restata immobile.
Anche perché era impossibile, DeathToll doveva averti preso per i fondelli.
Azzeraste repentinamente il Cosmo, lasciandoti cadere a terra, proteggendoti la testa con le braccia e, le Creature ti passarono sopra scaldandoti la nuca. Le sentisti sfilare accanto ai tuoi compagni e strappargli gemiti di dolore a causa del bruciante calore che emettevano. «Non fare niente di avventato, Aiolia!» Esclamò Aphrodite, che aveva percepito la furia crescente del fratello di Aiolos. «Lo so, Aphrodite!» Ringhiò il Custode della Quinta. Ti girasti sui gomiti e li vedesti chini anche loro che si rialzavano tossendo. Il Cosmo azzerato per evitare attacchi a sorpresa da parte dei tetri esseri fluttuanti, correste in aiuto di Atena.
Ti girasti un’ultima volta e vedesti Astrid ancora lì dove l’avevi lasciata. Voltasti a malincuore le spalle al suo fantasma e ti scagliasti dietro gli altri. Ti girasti solo una volta per vedere se era ancora lì, ma le Creature che vi svolazzavano dietro, t’impedirono di scorgerla. Allora tornasti a guardare davanti a te. Fortuna che i vostri allenamenti vi permettevano di mantenere bene il ritmo e una qual certa velocità anche senza l’ausilio del Cosmo.
Solo per trovare sulla vostra strada un mucchio di cocci rotti, calcinacci e pezzi di vasellame che si frantumavano sotto i vostri piedi, in quella che, una volta, doveva essere una collezione di statue. «Ma cosa è successo qui?» Forse dovevano essere arrivati i rinforzi. Sicuramente Seiya doveva essere già corso a liberare la Dea. Sì, era così, percepisti chiaramente il suo Cosmo diretto alle prigioni della Luna. Le stesse dove eri rinato a nuova vita grazie all’odio e al desiderio di vendetta di Elda di Cassiopea.
Faceste irruzione nella sala principale e, trovaste le Sentinelle Lunari intente a combattere contro le Creature. Callisto strillava ordini e cercava di tenerle a bada con il suo scettro con la mezzaluna d’argento. Intanto che gridava alla propria Signora di abbandonare la sala e smettere di infondere loro forza con il proprio Cosmo. Forse non capendo che così facendo avrebbero peggiorato la loro condizione. Infatti, come fomentate da una fame insaziabile, le Creature si avventarono su tutti coloro che non avevano azzerato il Cosmo. «No, stolti! Che cosa avete fatto?» Urlò Artemide al vostro indirizzo. Materializzò dal nulla il suo arco e vi bersagliò di frecce d’oro che avreste schivato con l’ausilio della vostra velocità, ma lo scettro di Nike si frappose tra voi e i dardi. «Guardate! Lo scettro! Atena!» Esclamò Milo.
«La divina Atena ci ha mandato il suo scettro per proteggerci». Disse Aphrodite. «Seiya e gli altri devono essere riusciti a liberarla!» Questa costatazione vi restituì la speranza e le energie. Vi giunse perfino un’immagine della Dea che, sorridendo, v’invitò a lasciare questi luoghi: «Sono salva, andate via». Disse soltanto, poi scomparve.
«Atena!» Urlò di nuovo Artemide e intensificò la pioggia di dardi. Lo scettro emise un fascio di luce che polverizzò le frecce e colpì in pieno la Dea. La quale fu sbalzata contro il trono e lì si accasciò priva di sensi: «Mia signora!» Urlò Callisto e si lanciò in suo soccorso ma una Creatura fu più rapida e l’agguantò con le sue lunghe mani grigie. La donna si divincolò e lanciò grida di dolore strazianti mentre la carne cominciava a fumigare e la sua pelle a seccare.
«Callisto!» Gridarono alcune ninfe e cercarono di liberarla finendo però per essere catturate e annientate anch’esse.
«No, Aiolia!» Esclamò Shura bloccando il compagno per le braccia, che stava per lanciarsi in soccorso della Dea e delle sue schiere: «Non puoi più fare niente per loro». Disse risoluto e il Leone emise un verso di stizza e rabbia, girando la faccia da un’altra parte per non assistere a quel massacro. Anche il Cavaliere di Capricorn chiuse gli occhi. Intanto che altre Creature cercavano di avvicinarsi allo scettro di Nike, attirate dal potente raggio di energia, salvo poi ritrarsi scottati non appena lo sfioravano. Però la forza rilasciata era stata troppo anche per l’emblema della Vostra Dea, che si spezzò in due.
Il Palazzo cominciò a tremare violentemente fin dalle fondamenta.
Mentre tutti gli altri scappavano, tu, Aiolia, Aphrodite e Shura, che chiudevate la fila, sentiste il rumore con una sorprendente limpidezza grazie all’acustica della sala. Poi udiste il tonfo di qualcosa di metallico che cade a terra. Con un brutto presentimento nel cuore, vi giraste e vedeste le due metà giacere inerti sulla polvere e il soffitto che continuavano a cadere imperterrita. «No!» Esclamò qualcuno di voi e vi precipitaste a recuperarlo. Purtroppo, però il palazzo, aveva deciso di crollare sulle vostre teste proprio in quel momento, privo com’era del sostegno del Cosmo della Dea della Luna.
In quel momento comparve suo fratello gemello che la prese in braccio e, dopo avervi scoccato un’occhiata piena di odio, scomparve, teletrasportandosi altrove tramite il Cosmo.
Dovevate fare in fretta.
«Come è potuto accadere?» Stava urlando il Leone mentre cercava di tenersi in piedi schivando pezzi di tutto che crollavano sulle vostre teste, sollevando un polverone che vi faceva lacrimare gli occhi e tossire. «Dov’è? Dov’è l’altra metà? Che ne è stato del resto del bastone?» «Dobbiamo andarcene, subito!» Esclamò Shura, preoccupato, mentre la struttura cominciava a franare sotto i vostri piedi. «Non possiamo! Dobbiamo recuperare l’altra metà dello scettro!» Sbottò Aiolia non intenzionato ad arrendersi. Lo spagnolo lo afferrò per le spalle e lo bloccò: «Non abbiamo tempo, Aiolia! Dobbiamo uscire subito!» Proprio in quel momento il terreno franò sotto ai piedi del biondo e i due, per poco non precipitarono nella voragine. Fortunatamente Capricorn crollò solo a terra, sulla pancia ma, riuscì ad afferrare le mani di Aiolia. Il quale si ritrovò a penzolare nel vuoto. «Aiolia!» Gridaste mentre Shura cercava di aiutarlo.
«Non pensate a me, cercate lo scettro!» Vi urlò prima che un pezzo di calcinaccio lo raggiungesse e producesse un rumore metallico. «Aiolia!» Urlò Aphrodite spaventato.
«Non dire stronzate!» Gli urlasti tu cercando di farti sentire in mezzo a quel rumore fortissimo. Con la sola forza delle braccia ferite e sanguinanti, lo spagnolo cercò di compiere uno sforzo sovrumano, per tirarlo fuori di lì. Al diavolo lo scettro! Vi precipitaste a dargli una mano e, insieme, riusciste a issarlo sul pavimento che stava già crepandosi sotto i vostri piedi. Shura si rialzò e Leo, con un ringhio di frustrazione si aggrappò a Capricorn per tenersi in piedi, finalmente rinsavito. La fronte che sanguinava, per via del pezzo di tetto gli era caduta in testa. Ma l’elmo l’aveva protetto. «Dobbiamo usare il Cosmo».
«Ma le creature!» Protestò Aphrodite tra un colpo di tosse e l’altro. Come te, cercava di evitare di cadere nelle spaccature che rapidamente si stavano allargando sul pavimento, mentre la struttura cominciava a crollare su se stessa. Una colonna vi crollò addosso ma con un salto la evitaste. Ma le creature erano ancora lì, illese e minacciose come sempre. «Non me ne frega niente!» Urlò Leo, poi, staccatosi da Shura, «Brucia, mio Cosmo!» Voialtri lo imitaste e, illuminandovi di quella luce dorata che, sapevate avrebbe attirato le Creature, riusciste a trarvi in salvo grazie alla velocità della luce.

Vi svegliaste ai piedi dell’Altura delle Stelle che stava albeggiando.
Fu l’odore delle piante aromatiche che crescevano su quelle pendici, a svegliarti, invadendo le tue narici. Vi trovavate in una radura tra i massi, su dell’erba di montagna secca e dura come aghi che punzecchiava e mordicchiava dolcemente la pelle del viso, delle dita e delle braccia. Tossiste e vi metteste seduti.
«State tutti bene?» Domandò Aphrodite ancora sconvolto, ferito, impolverato e indebolito dalla nottataccia appena trascorsa.
Girasti la testa e li vedesti rialzarsi a sedere, chi cedendo prima ai capogiri e quindi ricadendo sdraiato, chi sui gomiti e chi a schiena dritta. Ma nel complesso tutti scombussolati e feriti quasi gravemente. Shura, che era quello tra voi un po’più stabile sulle gambe, si passò il braccio di Aphrodite sulle spalle e lo aiutò a mettersi dritto e a levarsi in piedi. Invece, il vostro compagno della Quinta, aggrappandosi a rocce e arbusti vicini, fece da sé. Salvo poi tenderti la mano, che afferrasti e, rialzare anche te, dopo aver cercato di rifiutare.
«Siamo vivi». Rispondesti tossendo per via dell’aria ancora piena di polvere e calcinacci.
I deboli raggi del sole cominciarono a illuminare la zona, tingendola dei deboli colori dell’aurora. Solo allora, tra un colpo di tosse e l’altro, Aiolia sibilò: «Maledizione, non abbiamo recuperato l’altra parte dello scettro». Shura si limitò a guardare il Cavaliere del Leone, mentre Aphrodite distolse lo sguardo. Neanche tu sapevi cosa dire. Senza parte dello scettro non avreste saputo dire quanto fosse efficace come protezione.
«Dannazione!» Ruggì Aiolia e, sferrò un pugno al terreno, aprendo una voragine. Non l’avesse mai fatto: le Creature arrivarono in massa da voi.
Dalla bocca del tuo amico della Dodicesima uscì un commento che evidenziò perfettamente la vostra condizione. Shura trapassò il vostro compagno con lo sguardo. «Ricordami di pestarti se ne usciamo vivi!» Ringhiasti invece tu, intanto che il gelo lasciava il posto al calore. Cercaste di alzarvi in piedi e assumere una posizione eretta e ce la faceste. Sebbene non foste molto stabili sulle gambe fuggiste, ma la vostra fuga durò poco: dopo un centinaio di metri foste accerchiati. Fu allora che Aiolia abbaiò, ancora: «Bene, fatevi sotto, ne ho abbastanza di voi! Finché mi resterà fiato in corpo e riuscirò a tenere i piedi ben saldi a terra, niente mi fermerà, l’ho giurato nel nome della mia Dea!» Il suo grido rimbalzò sulle montagne producendo l’eco. L’impulsivo Cavaliere preparò il suo Lighthing bolt.
Voi protestaste e cercaste di fermarlo ma non vi ascoltò.
Le Creature, però, dovevano essere sazie, perché si limitarono a schivare tutti i suoi colpi e a non toccarlo. Anzi, non toccarono proprio nessuno di voi. La cosa a Shura e a te puzzò.
“Che cosa stanno facendo?” Pensasti accigliandoti ancor di più. Ma Aiolia era troppo occupato a dare sfogo alla sua furia per soffermarsi a pensarci un momento.
La risposta si presentò da sé, camminando a piedi nudi e con passi leggeri, sul piccolo sentiero d’argilla battuto dalle capre di montagna e qualche raro pastore. Tranquillamente, come se nulla fosse.
Le Creature ignorarono il suo arrivo, concentrate com’erano a evitare i colpi mortali del vostro ruggente e offeso compagno d’arme. Ti domandasti ancora una volta se fossi impazzito. Invece, Shura e Aphrodite trasalirono. «Astrid!» Esclamò lo svedese. «Che ci fai qui? Vattene via, non è un gioco, è pericoloso!» La rimproverasti in coro con lui, ricevendo così la risposta al tuo quesito.
«Fermati, Aiolia!» Urlò invece lo spadaccino. Ma l’altro non vi ascoltò e voi foste troppo lenti. Aiolia balzò addosso a una Creatura, ma questa si scostò in tempo e, il suo pugno per poco non si abbatté sul petto della fragile ragazza a pochi passi da lui. Quella vista gli fece riacquistare il controllo di sé. Infatti, sgranò gli occhi verdi e ritrasse immediatamente il pugno, arretrando, incredulo e spaventato. Le saette scomparvero repentinamente e il petto che si alzava e abbassava furiosamente per lo sforzo cui il cuore era stato sottoposto e per il terrore, mentre tornava bruscamente alla realtà: stava per colpire un’innocente.
La ragazza, per tutta risposta, inclinò lievemente la testa di lato e si fermò, osservandolo con i suoi occhi vitrei.
«Astrid!» Esclamò il biondo leone, sconvolto.
Per tutta risposta, la giovane alzò il braccio sinistro, candido come la neve e vi tese, con una presa elegante e leggiadra, il resto del bastone di Atena. «Quello…» Iniziò il tuo amico con le meches, sconvolto, mentre Shura, che ancora lo sosteneva, osservava la scena a occhi sgranati. Più volte in quelle iridi dallo sguardo tagliente vedesti passare la domanda: “Sto sognando o sto impazzendo?” La stessa che ti ponevi da una notte intera tu stesso. Dal canto tuo, fissavi la scena a bocca aperta, mentre pensavi che avessi bisogno di una buona dose di nicotina o di alcolici. Perché ora sì che potevi dire di averle davvero viste tutte.
Nessuno di voi si fece avanti per ricevere il pezzo mancante dello scettro. Era come se vi foste cristallizzati sul posto, al contrario del resto del mondo. Infatti, i dolci e caldi raggi del sole, cominciarono a illuminare la scena, pitturando il cielo con i più intensi colori dell’alba. Facendo risplendere l’oro delle vostre corazze sporche e semidistrutte e, restituendo ad Astrid i veri colori della sua carnagione e della sua chioma.
Le Creature, invece, fluttuarono via, altrove assieme alle ombre della notte morente. Come vampiri che non sopportavano la luce solare. «Dove…» Iniziò Aiolia ma, appena proferì quella parola, lei sparì nel nulla e il bastone cadde a terra rimbalzando un paio di volte sull’argilla. Tu e Aphrodite sussultaste per lo spavento. Shura s’irrigidì sgranando gli occhi e Aiolia mancò poco che cacciasse un urlo.
Dopo qualche momento, il tempo necessario per smettere di tremare, il vostro compagno raccolse il coraggio e, esitando, impugnò il bastone.

Aphrodite
Era il primo di ottobre quando faceste ritorno al Santuario. Non ve ne eravate accorti. Di solito le Guerre Sacre non duravano tanto. A parte, forse, la Titanomachia.
Gli altri vi avevano aspettato poco più in là dell’Altura delle Stelle e, Hyoga, si era recato a Rodorio per allertare il Santuario. Tempo sei ore ed eravate di nuovo a Casa. Atena fu portata alla Tredicesima, dove riposò. Fortunatamente non aveva subito danni di alcun tipo, se escludevate i polsi arrossati dalle catene con cui era stata avvinta.
Seiya vi raccontò che Cocteau li aveva teletrasportati sulla Luna direttamente dalla Dea e che, dopo una lotta estenuante con gli Angeli, l’avevano liberata. Così lei era riuscita a mandarvi lo scettro di Nike invece sua e a salvarvi la vita. Ma aveva dovuto agire per un lasso di tempo limitato, dal momento che le Creature stavano avvicinandosi. Se si erano salvati, era stato sempre grazie a Cocteau e al Gran Sacerdote che, dalla Terra erano riusciti a riportarli a casa. Poi avevano fatto lo stesso con voi. Ma, a causa delle Creature non erano riusciti a prelevarvi assieme agli altri. Il resto sapevi anche tu come era andata a finire.
Vi eravate divisi, c'era chi era tornato alle Case e chi si era recato in astanteria. Tu e Death Mask preferiste quest’ultima, mentre Aiolia si lasciò medicare dalla previdente Lythos, che l’aveva atteso tutto il tempo. Il vostro compagno vi lasciò andare con la promessa che vi avrebbe raggiunto dopo. Riusciste a trascinarvi dietro anche il Custode della Decima che, fino a quel momento aveva insistito per andare a fare rapporto a Kanon. Peccato che l’ (odiato) ex Saint di Andromeda l’avesse anticipato. Lo spagnolo si arrese a seguirvi. Normalmente il vostro Cosmo avrebbe badato a guarirvi, ma, nella situazione in cui vertevano le persone dotate di Cosmo come voi, non era consigliabile. Perciò, zoppicaste (che smacco per la tua persona) fino in infermeria, aiutati dai soldati semplici e salutati dalle ancelle e qualche curioso. Quasi ringraziaste Atena quando raggiungeste l’infermeria. Solo allora le Armature tornarono nei loro scrigni alle vostre Case. I medici vi si assieparono intorno, assordandovi con le loro domande e vi soccorsero. I medici ti tolsero dal collo di Shura e ti portarono via parlando nel loro gergo incomprensibile, per determinare cosa avessi. Fortuna che Shun non era l’unico medico chirurgo del Santuario. Prima di chiudere gli occhi vedesti Astrid sulle scale del piano superiore appoggiata alla balaustra, che vi guardava con due occhioni grandi così, pieni di preoccupazione e sollievo. In quel piccolo intervallo che ti fu concesso prima di chiudere gli occhi, non fosti mai così contento di essere a casa.

Shura
Mentre ti curavano, captasti i mormorii di alcuni dottori: «Non era mai successo che i Cavalieri d’Oro venissero a farsi medicare in infermeria», «Che cosa sta succedendo?» Qualche coraggioso te lo chiese apertamente, ma tu non rispondesti mai.
Tra tutti, quello che forse aveva subito le ferite più gravi era stato proprio Aphrodite, che, fu immediatamente sedato e portato in sala operatoria. Tu e Death ve l’eravate cavata con poco: solo qualche osso rotto, dei lividi e ferite che furono ripulite, disinfettate, ricucite e medicate attivando le proprietà dei punti di pressione. Per sicurezza decisero di ricoverarvi lo stesso e, adesso, te ne stavi anche tu nella sala, dove prima aveva soggiornato la ragazza dagli occhi gialli.
Alle undici uno Shun visibilmente stressato, fece il suo ingresso in infermeria e passò a trovarti. Verso mezzogiorno vi raggiunse anche Aiolia, seguito da Lythos. La quale continuava a fare la spola con lo sguardo tra te e il suo padrone, non sapendo per chi di voi due preoccuparsi di più. Poi, vi raggiunse anche Death Mask seguito da un’intimidita e preoccupata Astrid.
La osservasti mentre avanzava zoppicando aggrappandosi al braccio di Death e sostenendosi con un bastone lungo come lo scettro di Nike. «Guardate un po’chi ho incontrato mentre venivo qui». Disse accennando a lei col mento, mentre con la mano sana cercava di aggiustarsi il braccio legato al collo.
Aiolia assottigliò lo sguardo, Lythos la guardò senza capire chi fosse, prima di salutarla. La nuova arrivata ricambiò con un cenno del capo e un sorriso timido. Il Cavaliere di Cancer la aiutò anche a sedersi sul letto vicino al tuo, con la mano sana. Anche se finì per essere lui quello a essere aiutato, invece che il contrario. Vedeste tutti l’enorme sforzo che compì per non darle addosso per questa gentilezza, da lui considerata come una debolezza. Infine, si accomodò a sua volta accanto a lui, che si era scostato per fargli posto.
La guardasti. Indossava una maglia a mezze maniche aderente, con le spalline fermate da due spille dorate, lungo fino a metà femore e pantacollant neri al ginocchio. Una fusciacca rosa pallido annodata in vita. «Tu devi essere Astrid, giusto?» Domandò l’incerottato Cavaliere di Leo, seduto alla tua sinistra su una sedia. La ragazza confermò con voce sottile.
«L’ho trovata sulle scale e, ho pensato di portarla qui». Spiegò Death con voce stanca. La sorellina di Aiolia gli domandò se avesse voluto qualcosa da bere o da mangiare e il tuo amico scosse il capo. «Io sono Aiolia di Leo». Si presentò il fratello minore di Aiolos. «Questa è mia sorella Lythos e lui è Shura di Capricorn». Tu muovesti la testa in un cenno d’assenso. «Ci siamo già incontrati». Disse lei guardandoti con i suoi occhi gialli. Ti venne istintivo pensare che non fosse la stessa ragazza di poche ore fa. I suoi occhi esprimevano una vitalità che l’altra non aveva. I suoi gesti erano rigidi e impacciati, quasi fosse intimidita. «Sì, mi ricordo di te». Dicesti. Poi aggiungesti un cordiale: «Lieto di rivederti, come stai?» Lei abbassò gli occhi e si torturò una ciocca della coda adagiata sulla sua spalla: «Bene, cioè, molto meglio». Il bastone appoggiato vicino al letto.
«Ti hanno già dimesso?» Domandasti ancora.
«Da un mese, torno qui per dei controlli e gli esercizi di fisioterapia tre volte a settimana. Tra poco potrò smettere». Spiegò, guardandoti incerta. «Voi invece, per quanto ne avrete?»
«Dipende dal Cosmo». Rispose asciutto Death prima di spiegarle che potevate impiegarlo per scopi curativi. Lei annuì ma la voce di Cancer fu soppiantata da quella di Leo che disse: «Bè, se è così non dovresti far attendere i dottori, non credi?» Già dalle prime battute l’aveva presa in antipatia. Lo guardasti e notasti che scrutava la vostra interlocutrice allo stesso modo sospettoso e minaccioso con cui si rivolgeva ad Arles prima che subisse anche lui il lavaggio del cervello.
«In realtà avrei finito da un po’. Ero andata a cercare Shun per avere notizie di Aphrodite, ma ho incrociato Death Mask che mi ha spiegato quello che è successo. Dite si riprenderà?» Chiese lei, tormentandosi le mani, alzando lo sguardo risplendente di preoccupazione. Si vedeva che era affezionata ai tuoi amici e che era sollevata, quasi felice di rivedervi. «Ma sì, vedrai che ce la farà sicuramente, abbiamo la pelle dura, noialtri». Si pavoneggiò il Custode della Quarta.
«Mi hanno raccontato di come sei giunta qui. Mi dispiace per tutto quello che ti è successo, è colpa nostra se sei caduta vittima dei Giudici Infernali». Dicesti poi beccandoti un’occhiataccia da parte di Aiolia. Il quale, però, ebbe la buona creanza di tacere. Invece, lei ti guardò sorpresa, prima di recuperare un po’di compostezza e ringraziarti. Evidentemente quei due orgogliosi non dovevano averglielo detto.
«Posso sapere cosa ci facevi nel Tempio di Artemide e come hai fatto ad arrivarci?» Domandò il fratello di Lythos. La ventenne lo guardò come se non sapesse di cosa stesse parlando: «Cosa?» Allora Aiolia aggrottò le sopracciglia e le raccontò di come vi eravate salvati e dell’aiuto che lei vi aveva fornito.
A rigor di logica eravate capaci di spostarvi tra le dimensioni tutti quanti grazie al Cosmo. Ma nessuno di voi riusciva a fare ciò che aveva fatto lei. «E, poi, quando il castello è crollato, ci hai raggiunto e ci hai portato lo scettro di Nike». Finì il padrone di Galan, mentre la sorella dal canto suo, cercò di rabbonire il Cavaliere, facendogli notare che la stava spaventando. Ma non ottenne risultati. Quando Aiolia si fissava così su qualcuno era difficile fargli notare tutto il resto, compresi i suoi errori.
«Io… non so di cosa stai, cioè state, parlando». Balbettò la poverina, pallida come un cencio, afferrando il bastone e stringendolo come se avesse potuto ripararsi dietro a esso. Continuasti a esaminare la vostra ospite senza dire niente. Lei si ritrasse un po’sul materasso rifatto, intimorita dal tuo sguardo. «Io… credo che debba andare via, Castalia sarà in pensiero per me. Mi ha fatto piacere conoscervi». Ribatté alzandosi in piedi sulle magre gambe tremanti. Vacillò un po’, anzi, quasi perse conoscenza per un capogiro (si era alzata troppo velocemente). «Ehi!» Esclamò Death scostando il busto come se avesse temuto che potesse caderle addosso, il pugno chiuso sulla coscia. Temeste che svenisse, invece riuscì a stabilizzarsi da sola, puntando il bastone a terra. «Astrid!» Esclamò Lythos balzando in piedi e facendo il giro del letto per aiutarla. Il fratello maggiore la guardò sconcertato e contrariato come se non concepisse un simile gesto da parte sua. Ma lei riaprì gli occhi quasi subito.
Lythos si fermò.
Neppure quella vista smosse il vostro battagliero compagno dal suo atteggiamento. Anzi, aprì la bocca per fermarla ma tu e sua sorella gliela tappaste repentinamente con le vostre mani e lasciaste che la poverina potesse andarsene. Death le domandò, col suo solito tono scocciato, se avesse avuto bisogno di una mano e lei, dopo averci pensato qualche secondo scosse il capo: «Grazie, ma posso farcela anche da sola». Poi vi salutò e sparì oltre la soglia aiutandosi con il bastone.
Tornaste a concentrarvi su Aiolia che alternava mugolii a minacce sulle vostre mani premute sulla sua bocca e vi lanciava occhiatacce. Non gli diceste niente, vi limitaste rispettivamente a farlo a pezzi e fulminarlo con gli occhi. Poi, lo liberaste. L’impronta arrossata delle vostre mani ben visibile sulla parte inferiore della sua faccia.
Lui v’ignorò tutti e disse, incrociando le braccia e appoggiandosi allo schienale della sedia: «Non mi piace, ha qualcosa che non mi convince».
In quel momento passò un medico e gli intimò di fare silenzio o di andarsene. Aiolia si zittì. Dal canto vostro preferiste non esprimervi. Tanto, ci stava già pensando Lythos a rimbeccarlo per voi due. Nonostante l’intelligenza, a volte, anzi, spesso, si fermava alla prima impressione, facendo così la figura dello stupido. Tu, invece, preferivi studiare attentamente le persone prima di giudicarle. E, lo stesso decidesti di fare con Astrid. Non che, intanto, qualche ipotesi non te la fossi già fatta. Però la stanchezza ebbe la meglio su di te, in quel momento. Ti sistemasti meglio sul letto e chiudesti gli occhi, pregandoli di fare piano, che avevi sonno. Piano piano ti addormentasti. Quattro giorni dopo Shun decretò che eri di nuovo sano come un pesce. Avendo esercitato pressione sulle tue stelle, aveva attivato le proprietà curative del tuo Cosmo ed eri di nuovo in piedi. Death Mask si era ripreso dopo tre giorni e, ti aveva portato dei vestiti di ricambio (dandoteli con la sua solita espressione burbera e beffarda al tempo stesso) sicché tu potesti indossarli e tornartene alla Decima sulle tue gambe.
Fuori dell’infermeria trovasti Cocteau appollaiato su una colonna caduta. L’animaletto ti raggiunse e, dopo averti chiesto come stessi, in tono arrabbiato, si appollaiò sulla tua spalla. «Perché sei così arrabbiato?» Gli domandasti, provando un vago senso di deja-vù.
L’oracolo di Atena ti lanciò un’occhiataccia e rispose, quasi urlando, che era stato scambiato per un animale un’altra volta. Anche se Shun sapeva chi era, aveva comunque deciso di non farlo entrare in infermeria. E, lui non l’aveva presa per niente bene. Cosa peggiorata dal fatto che, non era potuto neanche appollaiarsi sul davanzale come aveva fatto per tutta l’estate per controllare Astrid. «A proposito di Astrid, tu che l’hai tenuta d’occhio tutto il tempo, cosa sai dirmi di lei?» Domandasti avviandoti verso le scale dei Templi. Le mani nelle tasche dei pantaloni. «Ha manifestato un Cosmo mentre eravamo in guerra?» Aggiungesti di fronte alla sua occhiata perplessa.
«Non so dirti se ha un Cosmo o no. Posso dirti che ieri sera s’è recata in uno dei santuari di Rodorio e lì ha cantato».
«Cosa?»
«Non lo so».
<< Per caso la canzone era così?» E, gliela suggeristi. Cocteau sbatté le palpebre e confermò, stupito: «Non è la prima volta che gliel’ho sentita cantare, però. La prima è stata la notte prima che tornaste dalla missione alle Baleari». “E, Death Mask l’ha sentita.” Pensasti tra te e te. Ovvio che non avevi scordato una cosa simile. Era risaputo che a volte anche Death ogni tanto canticchiava, ma quella doveva averla per forza sentita da lei, perché non ti sembrava proprio il suo genere. «Che è successo dopo?» Domandasti.
«Dopo aver cantato, è tornata in infermeria al suo letto e si è coricata».
«E, non è successo altro?»
«No, ha dormito tutto il tempo».
«Ne sei certo?»
«Sì, perché questa domanda?»
«Perché l’abbiamo vista alle Baleari e anche ieri sera, sulla Luna e poi anche ai piedi dell’Altura delle Stelle». Rivelasti e l’oracolo di Atena ti guardò strabiliato: «Cosa? Sei sicuro che fosse lei?»
«Non ne sono certo, ci ha liberato dalla statua nella quale eravamo rinchiusi».
«Ma Hyoga ha detto che siete stati tu e Shiryu a farla a pezzi». Osservò ragionevole lui.
«Anche, ma la statua si è infranta un secondo prima che calassimo il braccio con Excalibur, lateralmente, rispetto a noi, che l’abbiamo tagliata di fronte. Death subito dopo ha detto di aver visto Astrid e, poi, quando ci siamo salvati dal crollo del Tempio, ci è venuta incontro per restituirci la parte mancante dello scettro di Nike, che si era spezzato. A proposito, siete riusciti ad aggiustarlo?» Si erano infatti messi subito all'opera.
«Non ancora, ma ce la stiamo mettendo tutta». Sperasti che ci riuscissero. Senza quello scettro la vostra Dea era pericolosamente scoperta e vulnerabile. Doveva essere veramente una situazione di estremo pericolo se si era privata della sua protezione più grande per donarla a voi. Ancora più pericolosa di quello che avevi immaginato poiché non avevate neanche potuto usufruire dei God Gold Cloth. «A cosa pensi?» Ti chiese Cocteau.
«A molte cose e a niente di importante».
A seguito della vostra conversazione, decidesti che anche tu avresti tenuto d’occhio Astrid. In un certo senso ti ricordava Yoshino. Anche lei non era una persona normale. Chissà, forse la seconda incarnazione di Atena dell’altra dimensione, avrebbe potuto aiutarti a far luce sul mistero che circondava Astrid. Ma sarebbe stato giusto coinvolgerla di nuovo in fatti più grandi di lei? Aiolia non te lo avrebbe mai perdonato. E, tu, non ti saresti mai perdonato se avessi messo in pericolo Yoshino per niente. Perciò lasciasti perdere ogni eventuale coinvolgimento di Yoshino.
Per prima cosa chiedesti a Shun di raggiungerti a casa tua alla Decima quella sera. Il Cavaliere di Virgo ti raggiunse puntuale: «Shura, eccomi, cosa volevi dirmi?» Lasciasti che ti raggiungesse in sala da pranzo. Eri già accomodato in tavola e lo salutasti dicendo: «Accomodati, spero che tu abbia fame perché è ora di cena, serviti pure, ce n’è anche per te». Una volta ripresosi dalla sorpresa per il tuo invito, ti accontentò e, mentre mangiavate, ti raccontò tutto quello che aveva capito a proposito delle creature. Per contro, tu lo mettesti da parte delle informazioni che avevi raccolto a proposito di Astrid. «Credi che possa essere un oracolo di Atena anche lei?»
«Non so. All’inizio pensavo che anche Yoshino lo fosse, ma mi sono sbagliato. Probabilmente vale la stessa cosa anche per lei». Ma qualunque cosa fosse, esulava completamente dalle tue conoscenze.
«Credi che sia opera di un’altra distorsione temporale?» Ti chiese lui. Il pensiero di avere una terza Atena nel Santuario affiorò nella tua psiche. In un certo senso ti ricordava molto il controllo che esercitò Tomoe su Lancelot, quando lo consacrò suo Cavaliere del Cancro. «E’possibile». Ma non vedevi altra spiegazione.
«Non penso che sia una Dea incarnata o la figlia segreta di Camus. E, neanche un Cavaliere di qualcun'altra divinità; se così fosse, non credi che avremmo percepito il suo Cosmo o qualcosa di simile?» Osservò Shun.
«No, l’ho notato anch’io che è una comune mortale, eppure come può un comune essere umano fare ciò che lei in questi mesi è riuscita a fare?»
«Non ne ho idea. Forse ci sfugge qualcosa». Mormorasti soprappensiero. Poi, cambiasti repentinamente argomento.
Nei giorni seguenti ti mettesti a tenere d’occhio la ragazza con la tua discrezione e l’aiuto di Cocteau. Avevi scoperto che era ospite di Castalia. Quello che ti aveva stupito era il bel rapporto d’amicizia che era riuscita a creare con Shun. A volte tu stesso l’avevi visti incrociarsi per le vie di Rodorio, fermarsi e chiacchierare un po’. Non eri rimasto a sbirciare quei momenti: non eri un guardone. E, poi, non era che ti importasse chi frequentasse. Né era così importante monitorarla ventiquattro ore su ventiquattro. Avevi una vita anche tu. Soprattutto perché, due settimane dopo, anche Aphrodite fu dimesso. Invece, ti preoccupavano le voci che giravano tra i sottorango. Ti faceva un po’strano che i soldati semplici e i Cavalieri di rango inferiore, la considerassero una specie di Sacerdotessa-Guerriero ribelle. Chissà perché. Dopo qualche giorno ti ricordasti di aver udito da Milo una storia strana su una bionda fuggita dall’infermeria, che aveva travolto Mur e mettesti insieme i pezzi.

A volte Castalia e Astrid andavano a fare la spesa insieme. A volte invece, la vedevi uscire con Death Mask e Aphrodite. Un giorno anche tu uscisti con il trio ma Astrid si tenne alla larga da te tutto il tempo. E, cercò l’aiuto di Death quando il Custode della Dodicesima cominciò ad assillarla con consigli su trucchi, accessori e abbigliamento. Tu non sapevi neanche che quell’esteta se ne capisse qualcosa.

Una sera che eri rimasto sveglio fino a tardi, decidesti di fare una passeggiata per le vie di Rodorio, in borghese. Era stato un peccato che nei mesi precedenti non fossi potuto uscire la sera e goderti la bellezza delle stelle nel cielo e la vita notturna sulla Terra.
Avevi appena girato l’angolo quando sentisti delle voci sbiascicate. «E, tu chi sei, Sacerdotessa-Guerriero?», «Sei nuova? Non ti abbiamo mai visto qui» e, un terzo disse: «Sei sola?»
Roteasti gli occhi pensando che fossero i soliti balordi. A volte succedeva che qualche soldato decidesse di infischiarsi delle maschere portate dalle giovani Saint e ci provassero lo stesso. Non tutte gradivano queste avance. Molte le rifiutavano immediatamente, perciò se era una Sacerdotessa-Guerriero allora non era neanche necessario intervenire, lei stessa li avrebbe conciati per le feste. Facesti per andare avanti quando sentisti la voce di Astrid replicare spaventata:
«Veramente sono solo di passaggio.» Ti fermasti e tornasti indietro per affacciarti. Erano in quattro e la stavano circondando improvvisamente guardinghi: «Sei una spia?» Domandò uno di loro in tono minaccioso.
Lei si strinse il bastone al petto, come se avesse potuto farle scudo e si affrettò a scuotere il capo. Assottigliasti gli occhi, saresti intervenuto se avessero alzato le mani su di lei. Con la velocità della luce l’avresti salvata prima ancora che quei maiali la sfiorassero. Lo vedevi che erano visibilmente eccitati e che non l’avrebbero lasciata andare incolume. Li sapevi riconoscere tipi così. «No, solo che non ho trovato altro da mettermi... ». A queste parole le loro voci e le loro espressioni tornarono amichevoli. «Ah, allora sei una nuova apprendista Sacerdotessa.» dedusse uno di loro, tendendo una mano verso di lei per sfiorarle il viso, con un sorriso sdentato: «Come mai non porti la maschera?» Chiese poi.
Lei si ritrasse di nuovo al contatto e rispose: «No, io non sono una Sacerdotessa».
«Allora sei una Saintia?»
«No, non sono...» La voce le morì in gola mentre il sorriso fioriva sul volto di uno di loro, che, lesto, le aveva strizzato le guance con una mano e lei non era riuscita a ritrarsi. Il cerchio attorno a lei si strinse e il luccichio negli occhi di quelli che riuscivi a vedere t’informò che avevano tratto le conclusioni sbagliate. «Tanto meglio, ti va di bere qualcosa, bellezza?» Chiese cingendole le spalle col braccio, stappandole un gemito di terrore che presto si trasformò in un urlo: «No! Non mi toccare!» E appioppò una poderosa bastonata al tizio che cascò a terra ai suoi piedi. Lei si scansò in tempo. Sfortunatamente il colpo non fu abbastanza potente da tramortirlo. Infatti, l’uomo si rialzò adirato e dolorante ed esclamò a sua volta massaggiandosi la parte della testa lesa con una mano: «Ehi! Come osi brutta figlia di…!» Mentre i suoi occhi si incendiavano di rabbia e, i suoi amici avevano fatto un istintivo passo indietro. A quel punto ti staccasti dalla tua postazione e li chiamasti: «Lasciate stare quella ragazza». Lei si volse e ti riconobbe: «Shura!» Ma gli altri, troppo ubriachi per riuscirci o percepire il tuo Cosmo, risero e la riacchiapparono dicendo che non le avrebbero fatto niente di male. Che volevano solo divertirsi un po’. A casa tua se una ragazza diceva, no era no. Il fondo lo toccarono quando aggiunsero che se avessi voluto, c’era posto anche per te. Lei cercò di divincolarsi per sfuggire ai loro bavosi complimenti e il loro tocco troppo vicino al suo seno e al suo sesso: «Guardala, sembra un uccellino».
Ti avventasti contro di loro e gliela strappasti dalle mani.
«Ehi, dove… Ehi, tu, come osi? Ridaccela!», «Egoista, la vuoi tutta per te, allora». «E, dai, lasciane un po’anche a noi». Mettesti Astrid a terra, che ti guardò a occhi sgranati ancora colmi di terrore, stringendo il bastone. Era stata molto fortunata, se non fossi arrivato te dubitavi che fosse stata in grado di difendersi.
Ti volgesti verso i quattro molestatori: «Questa ragazza non vuole la vostra compagnia. Ve l’avevo detto di non toccarla. Sarò clemente: andatevene adesso».
I quattro non vollero darti retta e così, li riempisti di mazzate. Non usasti Excalibur, con simili esseri non ce ne era bisogno. In pochi secondi giacevano doloranti ma vivi ai tuoi piedi. Ti girasti verso Astrid. Era arretrata di qualche metro e ti accorgesti che era sopraggiunta Castalia. La quale aveva posto sulle sue spalle uno scialle: «Castalia». La salutasti infilando di nuovo le mani nelle tasche dei jeans. Astrid ti guardava con un misto di gratitudine e sconcerto nello sguardo.
«Cavaliere di Capricorn, vi ringrazio per l’aiuto». La Sacerdotessa-guerriero cinse le spalle di Astrid con un braccio: «Andiamo a casa, Astrid». Salutasti le due e lasciasti che se ne andassero. Non le seguisti, che tanto Castalia era più che sufficiente per difendere entrambe. Ti limitasti ad accompagnarle con lo sguardo. Mentre si allontanavano, la sentisti rimproverare la vostra ospite.
«Perché sei uscita senza dirmi niente?»
«Scusami, io, non riuscivo a dormire e ho pensato di fare una passeggiata. Non volevo svegliarti.» Si giustificò e tu, anche se riconoscesti al volo la bugia, decidesti di tacere.
«Bè, invece dovevi. Questo Santuario non è luogo per fanciulle indifese, soprattutto di notte. Ringrazia gli Dèi che ho il sonno leggero». Esattamente come avevi pensato tu: non aveva nozioni di autodifesa. Dopo averla vista nelle grinfie di quei quattro, non ti era stato difficile immaginarla pestata dagli Specter. Era troppo fragile e dolce per essere la stessa ragazza che avevi visto alle Baleari e durante lo scontro finale. Aiolia stava prendendo un granchio colossale.
«Scusami.» ripeté lei. La maestra di Seiya non replicò e poi disse: «Su, andiamo a bere qualcosa, ti sento tremare, e non dire che è per il freddo». Poi non riuscisti a udire più niente.
Fare movimento ti aveva messo sete, perciò scavalcasti i corpi dei malmenati (che gemevano ancora di dolore) e ti recasti in un’osteria.

Seiya
La Guerra Sacra si era risolta in un modo che non ti saresti mai aspettato, ma a te non interessavano i festeggiamenti. Avevi ben poco da festeggiare. Non era la prima volta che combattevate Artemide, ma era la prima che lei lo faceva senza di te. Addirittura fuggire dal campo di battaglia per gettarsi nelle fauci del leone. Non pensavi che Lady Isabel fosse diventata così coraggiosa. Ma questa vittoria, più di ogni altra, sapeva più di sconfitta e amarezza che di onore, gloria e sollievo. Death Mask ti avrebbe redarguito dicendo che non c’era vittoria senza amarezza, in guerra.
Se non fosse stato per le tue ferite e la barriera che eresse sui vostri Templi per impedirvi di raggiungerla, avresti combattuto per lei come tutte le altre volte. Ormai non doveva più neanche chiederlo, l’avresti fatto solo a un suo cenno del capo. Un cenno che chissà quando sarebbe tornato. Ti era stato concesso il permesso di accedere alle stanze private della Dea. Non sapevi cosa immaginarti finché non avevi visto la camera spoglia dagli alti soffitti. Sembrava una camera mortuaria, solo senza i fiori e con qualche torcia ad illuminare l’ambiente.
La Dea giaceva priva di sensi sul suo letto di pietra che somigliava in una maniera inquietante a un altare. Ai lati del medesimo c’erano delle piccole colonne come una sorta di vestibolo o un tempietto cui erano arrotolate dolci ed eteree tende di seta candida.
E, lei, coperta da quel sottile velo, somigliava a una vittima sacrificale. Pallida come il chitone che indossava. Se non fosse stato per il ritmico abbassarsi e alzarsi del petto non avresti mai pensato che stesse dormendo. I polsi erano fasciati da bende candide intrise di sostanze medicamentose, perché le catene glieli avevano feriti.
Ti inginocchiasti accanto al letto e le prendesti una delle delicate mani tra le tue con occhi pieni di lacrime. Pregasti che si svegliasse in quel momento e chi ti vedesse, che ricambiasse la tua stretta ma non lo fece. Lei restò addormentata.
«Mi dispiace, mi dispiace Lady Isabel, mi dispiace. Sarei dovuto essere al tuo fianco». Ifigenia sull’altare sacrificale degli Achei. La differenza era che non sapevate se Ifigenia sarebbe stata salvata un’altra volta. E, sicuramente, stavolta il suo salvatore non sarebbe stata Artemide. E, forse, stavolta ad attaccare sarebbe stato Apollo. Non era una possibilità da escludere. Apollo e Artemide erano fratelli gemelli, uniti da un legame ancora più stretto di quello che condividevano con Atena. Non sarebbe stato così impossibile.
Dovevate prepararvi a un altro attacco.

Shun
Vedere tuo fratello così in pensiero ti faceva stare male. Il tuo animo gentile non poteva sopportare di vedere il dolore, anche se sapevi come metterlo da parte quando toccava a te scendere in campo. Soffrivi anche per le condizioni della vostra Dea, ovviamente, ma non eri così legato a lei come lo eri ai tuoi fratelli. In più, sapevi che lei si sarebbe ripresa, te lo sentivi. Stava solo recuperando le forze.
Ikki accanto a te taceva, appoggiato alla colonna. Ma anche se faceva finta di niente sapevi benissimo che era in pena per la Dea e per Seiya. Avvertivi chiaramente il turbamento e la tristezza nel Cosmo del vostro fratellastro. Proprio in quel momento una bionda vestita in abiti di foggia greca, con uno scialle sulle spalle e un mazzo di gigli bianchi tra le mani, vi raggiunse. «Mi dispiace per il Cavaliere del Sagittario». Esordì. Sulle prime non comprendesti né chi fosse né che volesse. La osservasti e riconoscesti le trecce legate dietro la testa come una corona. «Tu sei la donna che ho visto qualche volta con Lady Isabel, non è così?»
«Sì, Cavaliere di Virgo, è un piacere rivedervi sani e salvi».
«Vuoi portare dentro quei fiori? Se vuoi posso pensarci io». Ti offristi con garbo ignorando gli occhi alzati al cielo di Ikki.
Lei parve restia a darti quel mazzo, infatti lo strinse ancor più al petto neanche fosse un neonato da proteggere. Poi rilassò le spalle e vi sorrise: «Non vi disturbate, Cavaliere, ci penserò io stessa quando la divina Atena si risveglierà». In un primo momento pensasti al peggio, ma poi, ripensando a quello sguardo e alle emozioni emanate dal suo Cosmo, comprendesti che era un rito. Quasi ti parve di udire la voce dei suoi ricordi: «Non m’importa niente di quello che pensi, io continuerò a portare dei fiori ad Atena perché voglio soltanto vederla sorridere». Non dovevi usare i tuoi poteri da Gold Saint a questo modo ma dovevi sapere e, avevi capito che voialtri non eravate i soli ad amare la vostra Dea e, che, anche sforzandovi, le persone a lei più care e vicine al suo cuore, sarebbero rimaste le Saintie.
Inoltre, avevi visto altre volte la Dea circondata dai gigli nelle stanze di Villa Kido, in passato. La donna vi salutò e se ne andò.
Ikki fece per seguirla ma tu lo fermasti. «No». Dicesti poggiando un braccio davanti a lui.
«Sei sicuro?»
«Sicurissimo, lei è pura, non porta fiori ad Atena con intenti maligni».
Tuo fratello maggiore sospirò: «Sono contento che tu l’abbia chiarito, fratellino, ma in realtà non volevo seguirla, volevo soltanto andare in bagno. Potresti abbassare cortesemente il braccio?» Lo ritraesti e ti scusasti con lui. «Non c’è problema, Shun». Ti sorrise comprensivo come se con quegli sguardi un po’meno severi riuscisse a leggerti dentro senza ricorrere al Fantasma Diabolico.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Un'infinità di scale (Km 1) ***


Un’infinità di scale (Km 1)


Kiki
«Perché non posso tornare al Santuario, maestro?» Piagnucolò Raki, guardandoti dal basso. Anche se aveva tredici anni a volte si lasciava ancora andare a piagnistei infantili e si avvinghiava come un koala alla tua gamba. Neanche tu fossi stato il suo eucalipto. Fortuna che non ti aveva ancora afferrato per i capelli che ti sfioravano le ginocchia, legati con il nastro bianco.
Eri tornato a trovarla nel palazzo in cui avevi abitato durante la prima parte della tua infanzia nello Jamir. Incredibile che questo luogo fosse ancora in piedi dopotutto quello che era successo. Credevi che i Cavalieri d’Argento di Arles fossero riusciti a distruggerlo. Ma a quanto sembrava non era così.
«Te l’ho già detto, è ancora pericoloso, la Dea Atena non ha ancora fatto ritorno e si preannuncia un nuovo attacco». Non avevi voluto dirle la verità. Non te l’eri sentita. «E, poi, non sarai da sola, ho chiamato il mio vecchio maestro Shion e gli ho detto che saresti andata da lui in Giappone, al monastero dove vive». E, lei sapeva dove si trovava perché ce l’avevi portata qualche volta, in passato, per farle conoscere l’ex Papa.
«Non ci voglio andare dal vecchio Shion, voglio tornare al Santuario con voi!» Piagnucolò, serrando la presa sulla tua gamba, bloccandoti la circolazione. Da quando era diventata così forte? La cosa peggiore era che sapevi che sarebbe potuta scendere in campo a sua volta per aiutarvi e dimostrarti il suo valore. Te l’immaginasti mentre cadeva vittima dei nemici e poi, alla fine, ti domandava se fosse stata brava. No, era un’immagine che non volevi che si concretizzasse neanche per scherzo.
Lei si accigliò e comprendesti che stava per usare i suoi poteri telepatici.
Per fortuna avevi innalzato da tempo le tue barriere mentali onde evitare che la piccola potesse leggerti nel pensiero. Lei aggrottò le sopracciglia ovali e ti trapassò con lo sguardo prima di lasciarti andare la gamba e chiudersi in un’altra stanza sbattendo la porta. A niente valse il tuo tentativo di fermarla: «Raki…» Che per poco non prendesti la porta sul naso.
Sospirasti e poi ti materializzasti di nuovo al Santuario.
Raki non capiva, era ancora una bambina ed era giusto che lo restasse ancora un po’. Ma per essere la tua apprendista lo era? Era giusto che lei continuasse a vivere nella bambagia? Il tuo maestro, il Grande Mur, non si era fatto alcun problema a mandarti in battaglia quando avevi solo otto anni. La tua prima missione come Cavaliere fu quella di portare le armi di Libra ai Bronze per distruggere le colonne degli abissi di Poseidone.
Ma quelli erano altri tempi e, non aveva senso ripensarci.
La Dea Atena in realtà non si era ancora ripresa dallo scontro con Artemide, secondo i dottori era come se fosse caduta in una sorta di stasi a causa dello shock. Non era esattamente un coma, era più che altro un meccanismo difensivo della vostra Dea. Non era la prima volta che lo usava. Lo fece anche con Eris, durante la Guerra Sacra contro quest’ultima, prima che si recasse al Tempio della Dea nell’Eden per combatterla.
Stavolta però, non stava pianificando qualcosa, stava cercando risposte. Stava viaggiando nei Cosmi per trovare le risposte ai suoi enigmi e, al mistero che circondava Astrid. Era ovvio che quelle cose fossero legate a lei. Non capivi come o in che modo ma era così e, il fatto che la Dea la pensasse come te era un’ulteriore conferma. Avresti preferito non lo avesse compreso anche Aiolia. Perché il punto era: lei, chi era veramente? Un’amica o una nemica?
Il fratello minore di Aiolos pensava che fosse una nemica infiltrata ma tu non eri d’accordo.
Non volevi essere d’accordo. Ti sedesti alla scrivania inclinata che usavi per progettare nuovi cloth e disegnare e, incrociasti le braccia sul tavolo. Appoggiasti la testa sulle braccia e sospirasti.
Una matita rotolò vicino alla tua mano e cominciasti a giocherellarci con un dito, spingendola di nuovo indietro, con la gravità che te la rimandava verso di te in una specie di pena di Sisifo. Non sapevi davvero cosa pensare. Sentivi solo l’innocenza e il coraggio da parte della bionda. Niente di più. Aiolia la considerava, a torto, una nemica perché le Creature la rispettavano, ed era pure inutile farglielo notare per due motivi. Il primo era che non eravate in rapporti così stretti da farti sentire, il secondo era che ormai il Leone si era impuntato, perciò anche volendo, non si sarebbe schiodato dalla sua posizione per niente al mondo. Non finché non avesse dimostrato la veridicità delle sue convinzioni. Neppure il Grande Mur era riuscito a fargli cambiare idea. Per lui Astrid era solo un brutto scherzo degli Specter.
Gli Specter non sono caldi, gli Specter non piangono e, soprattutto, non si aggrappavano alle tue mani a quel modo e i loro pensieri non somigliavano affatto a quella tempesta vorticante piena di paura e di dolore dalla quale tu cercavi disperatamente di tirarla fuori. Quella ragazza, nonostante il coraggio, era umana dalla radice dei capelli alle punte degli alluci.
Poi ti tornava in mente Aiolia che l’accusava di essere una nemica e allora non sapevi che cosa ti succedeva. “No!” Pensavi tutte le volte e, tutte le volte il tuo cuore batteva un colpo più forte degli altri. Un colpo che liberava un urlo di disapprovazione dalle tue corde vocali e, che ti faceva pizzicare gli angoli degli occhi. Allora ti ritrovavi a morderti il labbro inferiore con forza, fino quasi a farlo sanguinare per non urlare. “Non era possibile”. Peccato che dall’esterno, il massimo che esternavi fosse una minacciosa occhiata in tralice che veniva puntualmente ignorata. Ma colta solo dal venerabile Mur, il quale ti guardava con calma rassegnazione.
Lei con quelle Creature non aveva niente a che vedere. Era logico, se fossero stati collegati le avrebbe controllate. Invece quelle cose agivano quasi indisturbate rispetto al suo volere. In più non ti sembrava così crudele da usarle contro di voi. Inoltre, vi aveva aiutati. Tu non avevi potuto percepire la sua presenza, tantomeno vederla, però se ben quattro Cavalieri d’Oro asserivano che sì, era presente, allora era vero.
Chi era che aveva ragione? Aiolia che l’accusava o tu che le stavi vicino?
Serrasti le palpebre.
Aiolia si stava sbagliando.
«Stai male, Kiki?» Ti domandò il tuo maestro comparendo dalla porta. Ti raddrizzasti e smettesti di giocherellare con la matita e sorridesti al tuo maestro, mettendo da parte i tuoi tormenti. «Pensavo che fosse successo qualcosa in Jamir con Raki».
«No, con Raki va tutto bene, ho solo fatto un po’di fatica a scrollarmela di dosso». Un sorriso divertito curvò la tua bocca solo a ripensarci: «E’ giovane e impulsiva, se non la lasciavo là sarebbe sicuramente scesa in campo assieme a noi». Spiegasti.
Mur prese la matita con la quale avevi giocato fino a quel momento e la fece levitare con la telecinesi. Poi la prese tra le dita affusolate e la rimise al suo posto nel portamatite. «Non dovresti cominciare ad approfondire il suo addestramento? E’ pur sempre l’Apprendista di un Cavaliere d’Oro, nonché la futura Gold Saint di Aries. Dovresti almeno prepararla a ciò che sarà, non sperare che lo comprenda da sola». «Lo so, maestro, ma...»
Il Grande Mur si avvicinò alla finestra e guardò il panorama al di fuori di essa: «Ti sei affezionato a lei e ti piange il cuore doverla sottoporre a quei massacranti allenamenti. Sai bene quanto me che non c’è mai pace per noi Cavalieri. Non c’è ora e non ci sarà mai e, per lei, ormai è troppo tardi per avere una vita normale. Ti pongo una domanda, Kiki, tu volevi diventare il mio successore?» Sgranasti gli occhi viola. «Cosa? Che domande sono, maestro?»
«Rispondi sinceramente». Ordinò invece l’altro, con il suo solito tono flemmatico, chiudendo gli occhi, come quando tu cercasti di smuoverlo dai gradini della Prima Casa per scendere a difendere la Vostra Dea colpita al petto dalla freccia di Ptolemy. E, tu comprendesti, che ora come allora, sarebbe stato irremovibile. Perciò non avesti altra scelta che arrenderti e rispondere: «Sì, certo che sì, io volevo diventarlo».
«E, questo è anche il desiderio di Raki?» Ti chiese.
Ti fermasti di botto e cercasti nella tua memoria il giorno che la prendesti con te. Eri tornato a vivere nello Jamir da sei mesi dalla conquista della gold cloth e stavi controllando gli strumenti. Controllando l’occorrente, ti accorgesti di avere tantissimo Xantos, ma che avevi quasi finito la Sabbia di Polvere di Stelle e l’Orihalcon. Con uno sbuffo annoiato costatasti che dovevi recarti sui picchi più alti dello Jamir per ricavarli.
Quella che chiamavano Sabbia di Polvere di Stelle altro non era che frammenti di meteoriti caduti sulla terra milioni di anni prima. Aveva la particolarità di essere carica dell’energia dei corpi celesti che avevano sfiorato e dell’energia cosmica presente nella creazione. Il motivo per cui quella regione era così particolare era perché lì sussisteva un flusso di energia cosmica costante, una sorta di pilastro energetico. Un tempo, addirittura, si diceva che il vostro popolo avesse edificato lì il proprio Santuario e che venerasse le stelle. Le quali, magnanime, concedevano la loro benevolenza con meteoriti, comete, come gli Dèi concedevano la pioggia in tempi di carestia. Ma quei tempi erano passati e tu dovevi fare attenzione a quello che raccoglievi. A nessuno faceva piacere sapere che tra i vari meteoriti caduti si potevano trovare rifiuti di dubbia origine provenienti dalla stazione spaziale. O pezzi stessi della stazione spaziale. Per dirla un po’ più volgarmente, non potevi usare le feci umane per rivitalizzare le cloth che ti portavano. Le stesse cloth per principio sarebbero rimaste defunte, piuttosto che sottostare a un’umiliazione simile.
Fortunatamente non ti era mai successo. Il tuo maestro aveva davvero fatto un buon lavoro insegnandoti a riconoscere rocce e materiali necessari. Per quanto riguardava l’Orihalcon, esisteva un vero e proprio giacimento in Jamir.
Poi, quando scendesti al villaggio a fare compere (il cibo non ti arrivava per posta e nessuno osava attraversare il cimitero dei cloth per portarti provviste e materiali per il tuo lavoro). Era vero che di lemuriani ne esistevano pochissimi, ma, di tanto in tanto, tra le nuove generazioni ne spuntava di nuovo uno. Non potevi tornare al tuo villaggio natale, eri comunque un ricercato, dal momento che avevi portato con te le Sacre Vestigia dell’Ariete per non farle cadere in mano di Mars.
Ogni volta che scendevi in paese, controllavi i Cosmi dei tuoi potenziali allievi. Anche tu sentivi il bisogno di trasmettere le tue conoscenze a qualcuno. Se tu fossi morto prima di trovarlo? Non potevi permetterti di lasciare il Santuario senza un riparatore di Armature. Era sempre esistito un alchimista lemuriano che se ne occupava. A volte ci pensavi e, in un certo senso, la mancanza di un allievo cui trasmettere le tue conoscenze ti impensieriva.
Proprio allora avevi conosciuto Raki, era la nipote della fruttivendola e lei, non ti aveva staccato gli occhi di dosso tutto il tempo dell’acquisto. Ti eri quasi sentito a disagio. Poi, avevi sentito la risata della bambina nella tua testa. L’avevi guardata stupito ma lei aveva continuato a giocare con le sue bamboline sulla sedia pieghevole dietro la bancarella, totalmente disinteressata a te. E, in lei, percepisti il Cosmo più forte nel raggio di un centinaio di chilometri. Attendesti un anno prima di parlarne con la signora, spiegarle la situazione e prendere Raki con te come apprendista. La donna ti raccontò che non era la vera nonna della piccola, ma che le era stata affidata da una coppia di fuggiaschi che poi furono uccisi dai Martian di Mars. La donna l’aveva allevata come se fosse stata veramente sua nipote e l’aveva chiamata Raki.
Appena scoprì che tu eri il Cavaliere d’Oro della Prima Casa te l’affidò, ma a patto che potesse vederla almeno una volta al giorno e, così fu. Sei mesi dopo morì a causa di un infarto e Raki venne a vivere con te.
Quello che non avevi contato era che ti saresti affezionato a lei come a una sorellina. A lei non negavi mai nulla, forse a tratti l’avevi viziata ma non ci potevi fare niente. Spesso ti eri chiesto se Mur avesse dovuto fare tanta fatica quanta ne stavi facendo tu con la bambina, per crescerti. Sicuramente eri più ribelle di lei, che, al contrario di te, incanalava la sua energia negli allenamenti. E, ricambiava il tuo affetto (ovvio che ti eri affezionato, mica eri fatto di pietra) cercando di mettere tutta se stessa nell’addestramento e cercando di compiacerti.
Era sempre lei quella che ti aveva istillato piano piano l’idea di progettare nuove cloth, anche se sapeva che erano state disegnate da Atena e che cambiavano configurazione a seconda del sangue che vi veniva versato. Però l’idea di costruire una nuova serie di cloth, invece che limitarti a ripararne era una bella impresa. Però ogni volta che provavi a metterti all’opera ti bloccavi, improvvisamente senza idee e senza neanche poggiare la punta della matita sul foglio. Ma quel sogno di creare una nuova cloth era sempre lì.
Poi era saltata fuori la novità dei poteri Elementali. Alla bambina sarebbe piaciuto imparare a dominare un Elemento ma, questo potere, fu distrutto con l’effettiva annientamento del meteorite da cui si erano originati i cristalli delle ClothStone. Ed eravate tornati ai vecchi cari poteri telepatici e del Cosmo. In un certo senso era anche stato meglio così. C’erano meno problemi ma molto più impegno in battaglia. Tornasti al presente e rispondesti alla domanda: «Sì».
«Allora valla a prendere e comincia ad addestrarla seriamente».
«Non posso, ci sono alcune cose che devo fare prima».
«Cosa è più importante dell’addestramento della tua allieva? Una missione per conto della Dea Atena?»
«No, sto investigando sul monastero di San Sebastiano del Picco». Si chiamava così il monastero che era stato attaccato dalla “setta satanica”. Solo che più rapporti da Ichi ricevevi, più ti convincevi che non era opera di alcuna setta.
«Ancora con questa storia, Kiki? Perché?»
«Ho guardato nella mente della Dea e, lo so, lo so è sacrilegio ma le sue difese erano abbassate e io volevo solo trovare il modo di aiutarla. Comunque ho trovato un ricordo della Divina Artemide dove diceva di aver mandato degli ambasciatori da noi che non sono mai giunti. La cosa strana è che nei mesi scorsi abbiamo percepito dei Cosmi scomparire in una linea molto vicina al Santuario».
Il Grande Mur sbarrò gli occhi e domandò, intuendo dove volevi andare a parare: «Tu pensi che siano stati attaccati da qualche soldato di altre armate divine?»
«E’ possibile».
«Dovresti chiamare Raki, potrebbe aiutarti».
«Maestro, è solo una bambina, non voglio che sia immischiata in un caso come questo. Non è ancora così forte ed esperta da potersi difendere in caso di agguato».
«Ma a sette anni ha tenuto testa ai Bronze attuali che studiano alla Palaestra del Santuario. A soli sette anni ha impedito loro l’accesso alla torre nello Jamir. Guarda in faccia la realtà, Kiki, quella bambina è molto coraggiosa e forte, non si lascerà mai cogliere alla sprovvista. Non dico che te la devi portare dietro, ma almeno potresti riportarla al Santuario e farti aiutare, se non altro con le riparazioni delle Armature, Seiya ha fatto un macello un’altra volta». Disse accennando alla cloth del Sagittario nel Pandora-Box che aspettava si essere riparata da un paio di giorni. Ovvero, da quando eri tornato dall’infermeria per la tua seduta di massaggio (dopo essere stato stipato nella statua di Artemide e costretto a fare la verticale, avevi rimediato delle contratture e ti si era bloccato il collo) e, tra tutti, te l’eri cavata veramente con poco.
Ma vedere lo scempio che sicuramente era riuscito a compiere Seiya... No, per quello non eri ancora pronto. Perciò glissasti per tornare all’argomento precedente. «Non voglio coinvolgerla in questa storia. Maestro, è compito mio occuparmene, io me ne sono preso la responsabilità, io me ne occupo fino alla fine». Dichiarasti risoluto alzandoti in piedi e posandoti la mano sul torace all’altezza del cuore, come se avesse potuto sottolineare la tua volontà. Il tuo vecchio maestro non si voltò e tu restasti a guardare la sua lunga chioma liscia e lillà. «Non so chi sia il nostro avversario, ma chiunque egli sia, non voglio che Raki venga coinvolta, capite?»
«Sì, lo capisco benissimo». Disse volgendo la testa da sopra una spalla per guardarti. Poi si girò completamente per guardarti negli occhi. Le mani appoggiate al davanzale della finestra. «Ma non sono qui per dirti questo. Kanon mi ha mandato a chiamarti, dice che servono tutti i Cavalieri d’Oro disponibili».
«Perché proprio io se ci sono già Seiya e gli altri?»
«Non solo te, anche Aldebaran e Aiolia e Shura e Death Mask sono già stati convocati. Kanon pensa che insieme possiate riparare lo scettro di Nike».

Cocteau
Ne avevi parlato a lungo con Mur prima di dare il tuo benestare per l’operazione.
Anche Kanon aveva insistito affinché tu dessi il tuo consiglio.
«Ma è un’arma divina forgiata nelle fucine di Efesto, che ne sappiamo che funzionerà?» Avevi chiesto, ragionevole.
«Ho sfogliato numerose cronache negli archivi della mia dimensione, tutte riportanti lo stesso risultato positivo, vi posso assicurare che può funzionare». Aveva assicurato il Grande Mur. Tu sperasti soltanto che non fosse una trappola.
I Cavalieri chiamati da tuo fratello gemello erano giunti alla Tredicesima Casa. Klaus (nipote del tuo ex assistente che uccidesti sotto l’influsso di Arles, qualche notte dopo il salvataggio di Katya della Corona Boreale) scortò i tuoi compagni d’armi nella stanza dove, su un piccolo altare, giacevano i due pezzi dello scettro della vostra Dea.
Se avessi potuto avresti riacquistato la tua forma umana, peccato che la Dea ti aveva concesso di usarla solo in occasioni speciali, come una battaglia o un salvataggio, meglio se in un’altra dimensione. Non in casi come questo. Non solo perché la Dea in persona non li aveva previsti ma perché non potevi usare l’Another Dimension su te stesso (l’unica tecnica del tuo repertorio che ti avrebbe permesso una sorta di condizione per riacquistare la tua forma umana. Anche questo rientrava nella categoria di salvataggio, ma non da quella prevista da Atena. Cioè con avversario fisico presente. Per un’azione più lenta come questa non potevate permettervi di rischiare. Durante la battaglia contro le Satellitari di Artemide ti era andata molto bene, ma sapevi anche che la generosità degli Dèi era molto limitata e, qualcosa ti diceva, che non sarebbero stati così generosi un’altra volta. Arles era sempre lì in agguato, pronto a prendere il tuo posto in qualsiasi momento. Qualcuno ti avrebbe detto che eri pessimista, in realtà eri solo abbastanza sveglio da saperlo anche da solo.
«Mi dispiace non poter essere d’aiuto». Dicesti appollaiato sulla spalla di Shura. Quest’ultimo non rispose. Non era necessario, ogni cosa detta sarebbe risultata superflua e lui non amava scherzare sulla tua condizione. Neanche Death, che ti riconobbe immediatamente appena ti vide, ci scherzava. Forse era solo il suo modo di portare rispetto, ma eri grato di questo silenzio in materia. Kiki e il Grande Mur prepararono i loro strumenti e le polveri. Intanto che Mur spiegava questo rituale della sua dimensione. In sostanza voi Cavalieri d’Oro potevate effettivamente riparare lo scettro di Atena. Era come la rigenerazione delle Armature, solo che sarebbero occorsi i Cosmi di Dodici Cavalieri d’Oro e il loro sangue.
Non ne avevate parlato con gli ex Bronze. Era compito vostro difendere la Dea e riparare al peccato che vi eravate accollati. I vostri compagni avrebbero provveduto a custodire la Dea mentre voi a rigenerare il suo scettro. La sua protezione più grande.
Shura, Death Mask, Aphrodite, Aiolia, Aldebaran, Kanon e Milo prese posto attorno al piccolo altare.
«Siete sicuro, maestro?» Domandò Kiki, rivolto al proprio maestro, mentre tu osservavi l’operazione dalla spalla di Shura. Ma, non era questo il tuo compito. Il tuo era quello di richiamare i vostri compagni defunti per dare supporto dall’altra parte. C’era, infatti, un lato positivo nella tua carica di oracolo di Atena, cioè, che potevi fungere da collegamento tra i vostri compagni scomparsi e quelli in vita. Perciò, al segnale di Kiki, tu avresti dato il tuo supporto incanalando l’energia dei Cosmi dei defunti Shaka, Aiolos, Camus e Mur, che erano stati già avvisati grazie ad Hades (che, anche se scocciato aveva riferito il messaggio ai sei) e stavano caricando i loro Cosmi da tre giorni. Tu ti sollevasti in volo fino a restare sospeso sopra le parti dello scettro e avvisasti il resto del gruppo che erano pronti.
«Bruciate il vostro Cosmo adesso». Ordinò il lemuriano e i Cosmi dei tuoi amici furono attirati dal tuo come una stella cadente viene attirata dalla gravità del pianeta Terra e si unirono a quelli dei defunti Cavalieri.
«Adesso». Disse il Cavaliere d’Ariete dell’altra dimensione e, a quel segnale, Capricorn, Cancer, Scorpio, Gemini, Leo, Toro e Pesci si tagliarono il polso destro e tesero il pugno verso le due metà dello scettro. Un secondo dopo tu rilasciasti sul bastone l’energia che avevi accumulato fino a quel momento.
Non pensavi che i tuoi compagni potessero rilasciare una simile quantità di energia. Tu, che eri il Cavaliere d’Oro più forte di tutti al servizio di Atena. Che potevi fermare persino le loro Guerre dei Mille Giorni. Sulle prime eri riuscito a bilanciarle con il tuo Cosmo Doppio, ma quella forma non era adatta a sopportarla come il tuo corpo umano. Era come cercare di comprimere un blocco di diamante con tutta la tua forza fisica e senza Cosmo e, al tempo stesso, tenere insieme due palazzi con il solo ausilio di due corde. Se tu fossi stato umano forse saresti riuscito a fare molto di più. Serrasti il becco, lasciandoti sfuggire un gemito di dolore.
«Saga!» Esclamarono Kanon e Shura, preoccupati.
«Ehi, niente scherzi!» Esclamò perentorio Death Mask.
«Sto bene!» Riuscisti a dire mentre ti sforzavi di continuare a incanalare l’energia. Ti sentivi accaldato, in questa forma, a causa dell’energia che convogliavi sullo scettro. Tu, che eri nel corpo di una civetta!
Per un momento ti dimenticasti di battere le ali e perdesti quota, suscitando altre esclamazioni ma le battesti di nuovo, furiosamente. Non eri fatto per restare in volo a mezz’aria, non eri un falco, eri una civetta. Il tuo corpicino non l’avrebbe sopportato ancora a lungo.
«Basta!» Esclamò il Grande Mur e smetteste immediatamente di bruciare il Cosmo e tu di incanalarlo.
Tutti voi eravate molto provati e, tu, con un grande sforzo di volontà, riuscisti a tornare sulla spalla dello spagnolo che ansimava e sudava per la fatica e si aggrappava al bordo dell’altare coperto di sangue.
Death Mask si era lasciato cadere seduto e Milo, piegato in due, sembrava sul punto di vomitare. Aiolia invece si era appoggiato ad Aldebaran, il quale teneva le mani sulle ginocchia. Non guardasti gli altri perché il lemuriano ordinò: «Kiki, cura i nostri compagni».
«Sì». Disse quest’ultimo prima di disinfettarvi (ecco a che serviva il kit di pronto intervento) e ricucirvi velocemente la ferita e bendarvela con una stretta fasciatura. «Adesso vi rimando tutte alle vostre Case, di qui in poi ci pensiamo noi». Dichiarò prima di teletrasportarvi tutti altrove. Adesso era tutto nelle loro mani.

Gran Sacerdote
Ti sfiorasti la fasciatura che cingeva il tuo polso ferito.
Erano passati cinque giorni da quando avevate tentato quel rituale. Cinque giorni e Kiki e Mur stavano ancora lavorando allo scettro. Stringesti il pugno. Fortunatamente non avevi reciso troppo in profondità. Ma, per Atena, questo e altro. Purtroppo con il passare del tempo i Cavalieri si erano ripresi ed erano tornati alle loro occupazioni. Il che, significava anche che Aiolia era tornato a investigare sul conto di Astrid e ad assillarti. Mai una volta che perdesse la voce, che si prendesse una frescata, che se ne restasse alla Quinta Casa, mai.
Era in giorni come questi che il trono di Grecia diventava un fardello enorme per un comune mortale come te. Nonostante tu fossi soltanto il reggente, quel peso lo sentivi tutto. Ancora ti domandavi chi te lo faceva fare di continuare a conservare quella carica. Fortunatamente, nonostante le difficoltà, i Saint e Atena riponevano fiducia nelle tue doti.
Ed era sempre in giorni come questi che gestire il Santuario diventava più pesante e difficile di altri; soprattutto quando teste calde come Milo e il già citato Aiolia s’impuntavano. E, adesso, si erano fissati rispettivamente sullo Scettro di Atena e sull’ospite del Santuario. Il primo, preoccupato almeno se ne restava all’Ottava a rimuginare e non passava tutti i giorni ad infastidirti. A differenza del secondo, che ti aveva raccontato un’assurda storia che la vedeva artefice della loro salvezza e della restituzione dello scettro rotto. Peccato che poi commise l’errore di sputarla e infarcirla di teorie, piene di tutto il livore di cui era capace, proprio in presenza di Aphrodite. Che avevi convocato per mandarlo in missione investigativa in vece di Kiki. Lo svedese, prontamente reagì e presto lo scontro verbale degenerò in un litigio. “Aphrodite che litiga con qualcuno”, pensasti esasperato e sul punto di scagliargli un Genro Mao Ken per il semplice gusto di zittirli.
Se non fossi stato presente non ci avresti mai creduto.
A un tratto Aiolia ti aveva guardato e aveva detto: «Sua Santità, sapete che io non muovo mai accuse infondate, benché meno su persone deboli che non possono sostenere un scontro ad armi pari con un Cavaliere, ma quella ragazza non è una persona comune. Per me è un’affiliata delle forze oscure». E, con quest’ultima accusa per poco non si scatenò una Guerra dei Mille Giorni. Per poco, perché a quel punto perdesti la pazienza, balzasti su dal Trono e urlasti ai due di finirla.
I due si zittirono, colpevoli e improvvisamente remissivi. Imponesti loro di calmarsi ammonendoli dicendo che si trovavano pur sempre di fronte al Portavoce di Atena e in un luogo sacro.
La coppia (avvolta nelle loro Armature d’Oro che lanciavano brillii anche alla dolce luce che entrava nella sala) s’inginocchiò di nuovo chiedendoti umilmente perdono per la loro mancanza di rispetto.
Di solito eri un tipo abbastanza distaccato anche nei confronti di buona parte dei tuoi compagni, ma cosa ti trattenne dallo scagliarli nel Triangolo D’oro, non lo sapevi neanche tu.
Nell'insieme eri comunque sorpreso: non avevate mai visto il Gold dei Pesci così appassionato. Che tenesse a quella ragazza? Poi ti ricordasti che lui considerava la vittoria, la bellezza suprema e, sebbene degradante per la sua persona e il suo orgoglio, anche quel litigio avrebbe visto un vincitore e uno sconfitto. D’un tratto avevi compreso chi dei due non voleva essere sconfitto a tutti i costi più dell’altro.
Pensasti all’ospite del Santuario. Tu non avevi ancora avuto l’onore di vederla, troppi problemi avevano tormentato la tua vita, ultimamente. Non ultimi la Guerra Sacra contro Artemide e lo scettro di Nike spezzato. Avevate provato a convogliare l’energia dei vostri Cosmi per ripararlo, ma non c’eravate riusciti. Neppure il sublime Cosmo della Dea c’era riuscito. Non era mai accaduta una cosa del genere prima d’ora. Sinceramente, preferivi concentrarti su questo e altri problemi, piuttosto che sulle loro beghe per una ragazzina. Non volevi rischiare una polarizzazione all’interno dell’elité del Santuario.
Inoltre, avevi già Aphrodite, Death Mask e Cocteau a controllarla e farti rapporto. Non avevi certo bisogno dell’intervento di Aiolia in affari che non gli riguardavano. A tal proposito ti venne un’idea: giacché aveva tanta voglia d’investigare, decidesti di dargli pane per i suoi denti, perciò lo spedisti sulle tracce di ciò che restava dell’Armata di Artemide. Come ci godesti quando lui, inginocchiato ai tuoi piedi, disse a denti stretti: «Sarà fatto». Anche se avevate vinto, dovevate comunque controllare che la Dea non avesse minato il passaggio per il Tartaro e cercato di rubare la Megas Drepanon. Sentivi, infatti, una perturbazione nel Cosmo più forte proprio a Grevena che in altre parti del mondo. Avevi già mandato alcuni Saint di rango inferiore (che non avevano partecipato alla Guerra) a controllare e ti erano giunti i rapporti affatto incoraggianti. Anche le Saintie (che Atena aveva messo a tua disposizione), non avevano riportato risultati positivi. L’unica soluzione non era che affidarsi a qualcuno di superiore, qualcuno che, avresti preferito non incontrare mai più, benché meno mentre vi riprendevate dalla Guerra e che coglieva Atena in un tal momento di debolezza.
«Sua Santità», ti richiamò Aphrodite distogliendoti dai tuoi pensieri, «cosa ne facciamo dei Cavalieri Neri?» Stavano soggiornando in quella palazzina da cinque mesi, ormai. Quando le Creature avevano sciolto la barriera, loro si erano nascosti.
«Non mi sento ancora di decretare la loro libertà, ricordate che tramavano la conquista del mondo». Rispondesti e cogliesti un implicito “anche tu” negli sguardi che i tuoi due ti rifilarono. “Non c’è bisogno che me lo rinfacciate” pensasti. Ormai era acqua passata e tu eri fedele alla Dea, possibile che non si fidassero ancora di te? Li fulminasti con gli occhi ma loro non se ne accorsero per via della maschera. Sospirasti rassegnato: «Ora come ora è meglio che restino dove stanno, sarà Atena a deliberare della loro sorte, Aphrodite, sei congedato, tu no, Aiolia». Il Saint del Leone ti guardò sgranando i suoi occhi verdi scuri. Poi si rilassò e domandò: «La Dea come sta?»
«Si sta riprendendo: perdere lo scettro di Nike è stato un duro colpo per lei». Rispondesti, tacendo però la parte più importante. Ovvero che il suo Cosmo era ancora debole e che dormiva da quasi una settimana di fila. Temevi che potesse esserle accaduto qualcos’altro che non ti era dato sapere. Ma, con i tuoi sottoposti, dovevi fingere che andasse tutto bene. Avevi preso per il naso una divinità e, i tuoi compagni erano piuttosto manipolabili. A volte avevi compassione per loro: ti sembravano degli idioti fatti e finiti.
In quel momento giunse Jabu in sala. La divisa marrone da maggiordomo con il panciotto verde spiccava come non mai in tutto il bianco della sala. Anche la sua somiglianza con Seiya era evidente. Forse, tra tutti i suoi fratellastri, era quello che gli somigliava di più fisicamente. Anche se, in quanto a ingraziarsi i favori altrui, era notevolmente più bravo dell’attuale Saint del Sagittario.
«Sua Santità». Ti salutò il maggiordomo di Lady Isabel.
«Jabu. Che notizie dalle Saintie?»
«Hanno appena catturato l’Angelo fuggitivo e lo stanno interrogando, ma l’Angelo sta opponendo resistenza; in compenso», fece una pausa per riprendere fiato, «abbiamo compiuto delle ricerche sul suo passato e, no, la nostra giovane ospite non ha legami col Santuario e col defunto Cavaliere dell’Acquario. La loro è solo una somiglianza genetica casuale. Invece, siamo riusciti a parlare con la polizia e li abbiamo persuasi a sospendere le ricerche della signorina av Stjernene». Proferì con tono amaro e disgustato. Per quanto leccapiedi fosse, non era un disonesto.
Al solo a udire quelle parole Aiolia aveva assunto l’espressione di uno che sta per vomitare e cominciò a lanciarti sguardi riprovevoli. Anche se dubitavi che conoscesse davvero la signorina av Stjernene. «Sua Santità, perché corrompere le autorità in tal modo? E, chi è la signorina av Stjernene?» Ti domandò, in tono scandalizzato, dandoti una vaga idea di quanto fosse rintronato.
Reprimesti l’istinto di spiaccicarti una mano sulla faccia per l’esasperazione e scuotere il capo. “Appunto”. Pensasti. Poi gli rispondesti: «Non sono tenuto a darti risposte ma, dal momento che l’hai chiesto, ti accontenterò. Abbiamo dovuto agire in tal modo per evitare ripercussioni e incidenti diplomatici. Fino a che le forze armate e le autorità di tutto il mondo continuano a chiedere i nostri servigi, li avranno, ma la notizia dell’esistenza di noi Saint, a parte i cinque ex Bronze e i restanti loro fratellastri, fino a prova contraria è segreta e tale deve rimanere. Non vogliamo attirare sulle nostre teste altri incidenti come ciò che avvenne due anni fa. E, per quanto concerne la signorina av Stjernene, a quanto mi pare di aver compreso, è colei con cui ultimamente, mi assilli da giorni con le tue congetture. Sono stato sufficientemente chiaro?»
Aiolia collegò dopo cinque minuti e sussultò. «Allora, perché tenerla qui?»
«E’stata la volontà di Atena in persona». E, questo, era vero. Aveva preso a cuore quella ragazza e ti aveva ordinato di tenerla al sicuro e proteggerla. Tu, avevi delegato questo compito a Death Mask e Aphrodite, che non avevano fatto altro tutto il tempo. «E, perché Atena avrebbe dovuto ordinarvi una cosa simile?»
«I piani della Dea sono un mistero anche per me, alle volte. Però, posso dirti che me l’ha ordinato prima di rinchiudersi nelle proprie stanze personali subito dopo la Guerra Sacra». E, anche questo, era vero. Prima di precipitare in quel sonno che tanto ti preoccupava, ti aveva ordinato di tenere d’occhio Astrid e di non lasciarla uscire dal Santuario. Tu avevi domandato perché e lei ti aveva solo detto di farlo, con due occhi talmente preoccupati che non te l’eri sentita di obiettare. Ogni cosa da lei ordinata era giusta, lei non faceva mai cose a caso. Poi, aveva fugato i tuoi dubbi con questa frase: «E’possibile che gli Specter la stiano ancora cercando».
«Perché dovrebbero avercela con lei?» Domandò l’ex Bronze, riportandoti alla realtà.
«Forse temono che le Creature siano una mia creazione, dopotutto, le hanno viste agire assieme a noi, durante lo scontro del Cavaliere d’Oro di Leo e uno di loro, pensano di poterla usare per costringermi a rivelare la verità e consegnare loro il dominio delle Creature, prima che ci arrivi Artemide o un’altra divinità».
«Ma quelle Creature non sono al nostro servizio». Tra le tecniche di cui Milady disponeva, la creazione di simili esseri non era contemplata. Lei non aveva bisogno di abbassarsi a tal punto per ottenere l’obbedienza e l’amore dei propri Cavalieri. Le bastavano le parole e il suo influsso benefico. Anche perché ricordavi perfettamente dell’udienza avuta con il Dio degli Inferi. Se lei ne fosse stata l’artefice, non avrebbe avuto necessità di arrivare a tanto. «Lo so, ma per il momento è meglio non dissuaderli».

Death Mask
Erano passati cinque giorni dal vostro infruttuoso tentativo di aggiustare lo scettro di Atena. Le avevate provate tutte. Ma il taglio delle vene… Quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta che ti saresti aperto le vene senza senso. Perché nonostante tutti i litri versati e l’intervento di ben due alchimisti dello Jamir, non era successo niente. Le due metà erano rimaste spezzate, voi eravate sul punto di svenire e , tu, sentivi la mancanza della nicotina. Eri stato costretto all’astinenza per un giorno e ne avevi risentito. Il problema era che eri combattuto tra la voglia di recuperare il tempo perduto e quella di continuare a sperare. Con il risultato che eri stravaccato sul divano, con i punti di sutura sul polso sinistro e le bende strette sulle ferite in via di guarigione. Fortunatamente il taglio non era troppo profondo, se no con il cavolo che saresti ancora riuscito a muovere le dita e accenderti una sigaretta. Sigaretta che ti rigiravi nella mano come se fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra. Non potevi sopportare quest’ulteriore umiliazione. Voi che combattevate in nome della Speranza non potevate arrendervi così. Voi, che avevate sconfitto i Titani e Loki di Asgard e combattevate per Atena.
Anche questa ferita era una seccatura. Metti caso che aveste dovuto subire un altro attacco e sette di voi erano feriti. E, ferite come quelle che avevate ai polsi, non erano una bazzecola. Schioccasti la lingua contro il palato, infastidito.
Proprio in quel momento un raggio di sole entrò dalla finestra accecandoti. «Ah. E, che palle!» Sbottasti. Era tutta la mattina che quel tempo variabile ti accecava così, mentre cercavi di riposare. Se non ti eri ancora schiodato da lì era perché avevi trovato una posizione talmente comoda che il tuo corpo rifiutava di muoversi. E, poi, Lancelot non c’era. Era andato a fare rapporto a Miss Tomoe (“Santa Atena, adesso parlo come lui!” Pensasti disgustato) nell’altra dimensione. E, quando ti ricapitava una mattinata così tranquilla e silenziosa? E, tu, eri intenzionato a godertela fino in fondo. In barba a tutti i raggi di sole dispettosi che potevano accecarti. Se il Sole fosse stato una persona gli avresti alzato il dito medio.
«Death Mask? Sei in casa?»
Sbuffasti. Ecco, addio tranquillità. Ma era solo quello scassapalle di Mur. Decidesti che poteva attaccarsi al tram (per essere fini) e chiudesti gli occhi. Peccato che continuò a chiamarti. «Death Mask?» E, che rottura di scatole. Ti alzasti e ti avviasti sulla soglia gridando, seccato e con un principio di arrabbiatura, «Arrivo! Arrivo! Si può sapere che avete da rompere già a quest’ora? Un attimo!»
Sulla soglia, avevi serrato immediatamente la bocca. Mur non era solo. «Avevo percepito il tuo Cosmo, Mur, ma non mi aspettavo che avessi compagnia». Avevi detto riacquistando la sua espressione arcigna e annoiata, notando Astrid accanto a lui.
«Già, è venuta da noi dicendo che vuole parlare con te». Rispose il lemuriano per niente intaccato dal tuo benvenuto.
«Con me? Va bene, entra». Dicesti tendendo una mano verso di lei, che abbandonò il fianco del tuo collega dell’altra dimensione. Le sfiorasti le scapole con la mano come a sospingerla dolcemente nei tuoi appartamenti privati. Poi, ti girasti di tre quarti verso l’altro e dicesti: «Grazie per averla accompagnata, ora te ne puoi anche tornare da dove sei venuto». Il Cavaliere di Ariete annuì, ignorando il discorso, salutò Astrid e andò avanti, verso la Tredicesima Casa.
Emettesti un verso di stizza e prendesti a berciare in siciliano così stretto che la bionda non capì niente e ti guardò un po’preoccupata.
«Bè? Che hai da guardare?» Domandasti, infastidito dal modo in cui ti stava fissando.
«Sei pallido quasi quanto me, che cosa ti è successo?» Spiegò lei guardandoti inquieta. “Da che pulpito”, pensasti. Aveva il viso arrossato, il fiatone e potevi vedere le gocce di sudore scorrere sul suo collo e sulla fronte.
«Non è niente, solo un po’di stanchezza, sto bene». Minimizzasti con uno svolazzo della mano che stava a dire: “Lascia stare e fatti gli affaracci tuoi”. Peccato solo che lei si accorse delle bende sul tuo polso e strinse le labbra poco convinta. Bah, che pensasse quello che voleva. Se ti avesse chiesto qualcosa ti saresti appellato al caro “Domandare è lecito, rispondere è cortesia” e, tu e la cortesia... Ok che eravate conoscenti, ok che ti occupavi di lei (in un certo senso), ma non eri tenuto a rispondere a ogni sua domanda. Né, lei ti sembrava in grado di procurarsi le risposte. Sicuramente non allo stato attuale.
Se non si fosse sorretta al bastone eri sicuro che fosse caduta: «Per caso vuoi un po’d’acqua?» le domandasti. A quell’offerta gli occhi le si illuminarono di sollievo ed esclamò: «Magari!»

Astrid
«Vorresti lavorare qui al Santuario?» Domandò Death Mask incredulo, seduto sul divano di fronte a quello dove ero seduta io. Come se non fosse già stato stupito dal fatto che Mur mi avesse accompagnato fino alla Quarta, complice l’assenza dei Cavalieri di Gemini e del Toro perché convocati dal Gran Sacerdote. (Almeno credo, il cavaliere di Gemini sembrava che non vivesse nella sua Casa da anni, a giudicare dalla polvere. Mi domandavo distrattamente se non fosse morto). Meglio così, non me la sarei sentita di spiegare loro chi fossi, cosa ci facessi qui, e perché me ne andassi a giro con un bastone.
A causa del sole, non mi era stata risparmiata la sudata. E, dire che mi ero anche fatta la doccia prima di uscire.
Mi ero rifiutata di indossare la maschera. Secondo Castalia questa sarebbe potuta essere una precauzione, poiché mi avevano scambiata per una Sacerdotessa-Guerriero ribelle e circolavano strane voci su di me e Camus. Non sarei stata la prima donna a rifiutarsi di indossarla ma sicuramente ero la prima ad avere un legame (?) con un ex Gold e, questo scatenava ancora più incomprensioni. Alla fine avevo scoperto come si chiamava l’uomo che mi somigliava nella foto.
Ma perché proprio le Sacerdotesse-Guerriero e non le Saintie, dico io. In ogni caso non c’era stato verso. Neppure Aphrodite era riuscito a farmi cambiare idea e se ne era andato borbottando frasi in svedese. Per prima cosa non mi stava bene e ci sarei morta di caldo (maledetto riscaldamento globale). Seconda, mi faceva tanto maschilismo ed io ero per la parità dei sessi. Se Death Mask era dello stesso avviso dell’amico, poco importa, avrei litigato anche con lui, nella sua inquietante Casa decorata di facce.
Adesso, dicevo, ero seduta sul divano del Gold Saint del Cancro e tenevo in mano il bicchiere d’acqua che mi aveva offerto, accorgendosi che ero disidratata. E, quello che tenevo in mano era già il terzo. «Perché no? Ho bisogno di soldi e, se voglio tornare a casa, ho bisogno di farmi un passaporto o dei documenti, qualcosa». Avrei voluto dire rinnovare ma il mio era rimasto a casa, in Italia assieme al resto dei miei documenti e, di questo lo incolpavo tacitamente.
«Ho capito, solo che non capisco che cosa potresti fare qui». Gli avevo già spiegato che era stata Castalia a indirizzarmi da loro. Alzai le spalle: «Non lo so, cosa si può fare qui?»
«Qui si combatte, siamo tutti guerrieri.» rispose confuso dopo aver fatto un tiro dalla sigaretta. Credo che nessuno gli avesse mai posto una domanda simile prima di quel momento. «Vorresti provare?» Domandò poi.
«Non fumo».
Cominciò a sghignazzare divertito e a prendermi in giro: «Che hai capito, io offrirti una sigaretta? Ma per favore, si vede lontano un miglio che non fumi! Mi riferivo ai combattimenti». Ribatté tornando serio per guardarmi come a valutare le mie capacità. Il solo pensiero di dover combattere mi fece rabbrividire: «No, no. Tu sei davvero sicuro che non si faccia altro, qui?»
Lui ci pensò su dopo aver spento la cicca nel posacenere sul tavolo: «Dovresti andare a informarti dal Gran Sacerdote». Mi consigliò. «Buona idea; ma non so, non penso che qui mi pagheranno fior di quattrini per la lettura della mano». Inoltre non vedevo l’ora di togliermi questi vestiti. Anche se comodi, mi sentivo ridicola con questa canotta azzurra e la fusciacca. «E, per le carte?» Chiese il mio connazionale. Scossi il capo dispiaciuta: «Sono rimaste nel mio appartamento in Italia». Lui mi fissò a lungo, poi sospirò e disse, in tono rassegnato, alzandosi dal divano e tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi: «Ti accompagno io dal Gran Sacerdote».

Così fece, ma non mi disse che lo scalone per il Grande Tempio era una scalata da far impallidire le scalinate delle piramidi a gradoni delle civiltà precolombiane. Sicuramente adesso capivo come mai Maya, Aztechi e Incas vedessero gli Dèi dopo una salita simile.
Il mio accompagnatore mi avvisò che i padroni delle Dodici Case potevano essermi ostili e, forse, avrebbero cercato di impedirmi il passaggio. Sperai che scherzasse perché ci trovai ben poco da ridere. «Come, credevo che foste colleghi».
«Lo siamo, ma non sempre scorre buon sangue tra di noi e, molti sono imprevedibili».
«Come se non bastasse, eh?» Domandai pensando alle figure sbiadite dei miei ricordi sui Cavalieri dei Gemelli. Anche a lui, ma lui lo era già di meno.
«Eh, già». Ribatté senza voltarsi. In breve tempo il cuore mi andò in sovra sforzo e l’aria che respiravo cominciò a bruciarmi le pareti interne delle narici. Dovetti fermarmi quasi subito e il mio accompagnatore si fermò e si volse solo quando sentì il rumore del mio bastone rimbalzare sui gradini. Mi ero seduta e mi ero afferrata il viso tra le mani come se, così facendo, avessi potuto smettere di provare dolore, speranza vana: «Ehi, stai bene?»
«No, il cuore, il naso, fanno male».
Lui tornò indietro e recuperò il bastone, che mi restituì in mezzo a borbottii scocciati: «Fermati un attimo e riposa, poi diminuisci il ritmo della marcia». Mi consigliò poi cacciandosi le mani in tasca e rimanendo piantato sul gradino di fronte al mio.
«No, è meglio se continuiamo. Trenta secondi saranno più che sufficienti».
«Come ti pare». Però adeguò il suo passo al mio onde evitarmi sgradite sorprese da parte di colleghi e allievi. Andò molto meglio. A volte si girava a guardarmi per chiedermi come stessi ed io rispondevo «Sto bene» o con dei cenni affermativi. A un certo punto, dopo aver passato la Sesta Casa, mi domandò: «Come conoscevi questo trucchetto? Non mi ricordo di avertelo insegnato».
«Quando andavo ancora a scuola, il prof di educazione fisica ci faceva fare trenta secondi di riposo tra un esercizio e l’altro». Ma di quelle lezioni mi erano rimaste solo questo trucchetto e, poi, non avevo mai salito così tante scale in vita mia. Lui strinse le labbra. Io sorrisi: «Già, vero? A volte dimentichi che non sai nulla di me, non è così?»
Inarcò un sopracciglio: «Ora leggi anche nel pensiero?»
«No, è solo un errore che fanno tutti. Grazie alla chiromanzia imparo a conoscere chi ho davanti come se fossi sempre stata accanto a lui o avessi vissuto io in prima persona i suoi ricordi. Quest’ultimo è il caso più raro. Nel tuo l’ho vissuta in entrambi i modi. Ma non vale il contrario per chi leggo. Non è uno scambio equo, capisci? Mentre leggo te, tu non puoi leggere me, per cui, per te, io sono sempre una sconosciuta; mi dispiace se hai pensato il contrario, Death Mask». Abbassai lo sguardo, contrita ricordandomi che questo era il prezzo da pagare per esercitare quest’arte. Poi mi sentii di aggiungere: «Non ti preoccupare, non userò mai i tuoi ricordi, i tuoi segreti e le tue paure contro di te, sono una brava persona, io». Anche perché erano talmente assurdi che non mi avrebbe creduto nessuno.
Dopo questa confessione pensai che mi avrebbe mollato lì in mezzo alle scale, con un’occhiata velenosa e degli insulti. Invece, continuò a camminare accanto a me, guardando dritto davanti a noi. A un tratto domandò: «Esistono chiromanti che non lo sono?»
«Eh, no, dovresti averlo capito da un pezzo, ormai, visto che non uso il tuo vero nome, nonostante che io lo conosca».
«Lo conosci?» Domandò stupefatto, guardandomi. «Sì».
«Non lo dire!» Mi bloccò subito con un’occhiataccia delle sue. Io sorrisi: «Rilassati, non m’interessa dirlo a chicchessia».
«Sarà meglio». Non disse nient’altro per molto tempo, poi, mentre raggiungevamo la Quinta Casa, mi chiese: «Cos’era quella storia del Prezzo da Pagare?»
«Per ogni arte c’è un Prezzo da pagare; per esempio, per leggere la mano vengo pagata con la solitudine e il non essere riconosciuta che ripago con la stessa moneta, perché le persone mi scambiano per una di quelle macchinette delle fiere e non pensano che anch’io sia una persona. Nessuno di loro si prende la briga di domandarmi: “E, invece, tu chi sei?” Ergo, non ho amici». Ed era vero, anche se non era vero che non li avevo mai avuti. Almeno, non amici veri. «E, invece, per le carte?»
«Do un pezzo della mia felicità e delle mie energie per far sì che ciò che leggo si avveri per aiutare chi ne ha bisogno, ma anche per non far avverare un evento spiacevole. Pregando che non siano mai disgrazie. Quindi, come vedi, a questo mondo soffro anch’io ». Risposi dandogli una pacca sulla spalla con un sorrisetto comprensivo, pensando a Helena la fioraia asgardiana che lo aveva colpito e che stava cercando di aiutare. «Perché non smetti, allora?» Mi chiese in tono ragionevole girandosi a guardarmi.
«Perché... » Proprio in quel momento udimmo un rumore di passi in corsa e una voce femminile: «Maestro Death Mask!» Ci girammo e vedemmo due ragazzi correre verso di noi con una facilità impressionante. Li invidiai solo per questo e mi sentii una specie di tartaruga confrontata alle gazzelle. Una era una ragazza vestita alla maniera delle Sacerdotesse-Guerriero e l’altro un giovane di belle speranze che doveva avere all’incirca quanto Death Mask. Aveva folli occhi rossi, capelli azzurri con una ciocca più lunga legata con un laccetto che scendeva a destra del viso. Ci fermammo e lasciammo che ci raggiungessero.
Il ragazzo ci salutò entrambi, la ragazza soltanto Death Mask: «Buongiorno; maestro, siete tornato dalla missione?» Era tornato già da un po’dalla missione che gli avevano affidato, oppure ne aveva svolta un’altra e io non ne sapevo niente? Possibile anche questo. Poi vagliai un’altra possibilità: e se questa qua fosse caduta dal pero, come si usava dire dalle mie parti? Possibile, a giudicare dal modo in cui il suo maestro evitò di rispondere. Anzi, il modo in cui lei stravedeva per lui - quasi scodinzolando -, pareva infastidirlo un pochino. Purtroppo però non poteva spedire un’aspirante Sacerdotessa nella Valle della Morte, come un tempo fece esattamente con l’Accademia delle Saintia. La ragazza scosse la testa e riformulò la domanda: «Cioè, volevo dire, siete stato convocato al Grande Tempio per una nuova missione?»
Se il suo compagno rise, Death Mask domandò: «Non dovreste essere in arena ad allenarvi?» Il mio conoscente non aveva allievi, era solo che i ragazzi lo chiamavano così perché qualche volta si era ritrovato a sostituire il loro insegnante, quando questi era in missione.
«Ci stavamo andando e, lei chi è? Perché non porta la maschera?» Domandò la ragazza in tono offeso e scandalizzato, notando il mio volto scoperto e, accorgendosi finalmente della mia presenza.
«Perché mi da fastidio e non riesco a respirare.» risposi. E, poi la maschera costringeva a esasperare i movimenti perché non potevano esprimere le emozioni con il viso. O, almeno, era questa la sensazione che mi aveva dato questa ragazza che, a occhio, doveva essere più piccola di me di qualche anno, anche se non sembrava. Inoltre, dubitavo fortemente che tutti gli uomini riuscissero a interpretare correttamente i gesti e le espressioni.
«Ma è una delle regole del Tempio! Ha infranto una legge sacra e per questo va punita!» Di solito non m’importava di queste sottigliezze, però quella riuscì, in soli tre secondi, a starmi sulle scatole: «Ma vaffanculo, oca!» Sbottai prima che il mio accompagnatore aprisse bocca. Sia il ragazzo sia il Cavaliere d’Oro mi guardarono sbalorditi, inarcando le sopracciglia: «Non sono una... Qualunque cosa tu sia! Sono solo un’ospite ed è già abbastanza penoso per me andarmene a giro conciata così sotto questo sole rovente, non ti ci mettere anche tu!» «Un’ospite?» Ripeterono i due in coro, lui sorpreso e lei indignata, poi aggiunse: «Non era mai successo».
«Già!»
A quel punto anche l’aspirante Saint cercò di fermare la sua compagna, presagendo una rissa. Death Mask decise di prendere il controllo della situazione posandomi le mani sulle spalle e dicendo, cercando di girarmi: «Astrid si sta facendo tardi...» Ma io puntai i piedi e lui non mi smosse di un millimetro. Ormai ero arrabbiata nera. Stringevo il bastone con così tanta forza che le nocche mi erano sbiancate. «E, mi hai insultata! Io pretendo delle scuse!»
«Scuse? Io non ti devo proprio niente, brutta mocciosa impertinente! Non sei una Saintia, non sei un’ancella del Tempio e sei pure più piccola di me. Non sei nessuno!» Death Mask cercò di portarmi via da lì richiamandomi senza risultato perché continuai a urlare: «Io non do retta a leggi maschiliste vecchie come il cucco! E, sono io e solo io che decido quello che devo fare e non fare! Io quella maschera non la indosserò mai! Che vi piaccia o no, il 2018 è arrivato anche qui, ragazzina!»
«Non sono gli uomini a dirci cosa fare!»
«Ragazze...» tentò Death Mask ma ci girammo simultaneamente verso di lui e sbottammo in coro: «Stai zitto!» Il poverino s’irrigidì, impallidì e fece un passo indietro sui gradini, stile gambero. Prima di accigliarsi e fissarci in cagnesco. Si sarebbe anche unito alla litigata, se gli avessimo lasciato lo spazio per farlo. Ma non gli demmo quest’opportunità: «E’una sacra legge di Atena!» Continuò quell’altra liberandosi del compagno con una gomitata ben assestata nelle costole. Il poveretto si piegò in due, gemendo.
«Legge? Una legge proferita da un Gran Sacerdote uomo, per caso? Uomo collegato a una Dea? E chi ve lo dice che ‘sta stronzata non sia uscita dalla sua bocca; invece che da quella della Vostra Signora? Chi ve lo dice che non vi sta prendendo in giro? Per non parlare dei vestiti sadomaso e dei pochi pezzi di armatura che siete costrette a mettere! Le leggi possono cambiare, niente è immutabile, nemmeno gli Dèi e neanche le stelle!»
Invece di zittirla, le mie parole ebbero l’effetto di farla infervorare ancor di più: «Cos’hai detto? Ripetilo, se hai il coraggio!» Avrei voluto dire qualcos’altro, ma a quel punto Death Mask tornò all’attacco, mi afferrò per la vita, mi caricò sulla sua spalla e ce la svignammo. Per la sorpresa lanciai un gridolino e persi la presa sul bastone, che cadde sulle scale. A quel punto anche l’altro ragazzo si era ripreso e aveva riafferrato la ragazza con la maschera per le spalle: «Adesso basta, Neera!»
«Fatti gli affari tuoi, Lancelot!» Esclamò la ragazza, mentre io battevo i pugni sulla schiena di Death Mask e mi agitavo sbottando a mia volta: «E, lasciami!» Poi presi ad appellarlo con nomignoli poco vezzeggiativi. Lui m’ignorò stoicamente, anche se un paio di volte minacciò di lasciarmi cadere di botto sulle scale o in mezzo alle Case: «Se non la pianti immediatamente ti faccio cadere! E, che diavolo!» Poi attaccava a masticare imprecazioni e frasi in dialetto siciliano in tono scocciato. Mi parve di leggere tra le righe che, subito dopo mi avrebbe spedito nell’Ammasso del Presepe. Emisi un verso di rabbia e frustrazione che gli strappò una risata divertita.
Fu così che ci ritrovammo alla Casa del Leone con Mur che ci venne incontro, sorpreso: «Death Mask, hai visto per caso Astrid! Che cosa succede? Perché...» non ebbe il tempo di completare la domanda che sbottai mezzo girata sulla spalla del mio conoscente: cominciavo pure a provare dolore per via della posizione. «E, mollami, zoticone, non voglio che mi riconoscano dal sedere e quella sì che sarebbe una cosa sessita e imbarazzante!» Anche per com’ero messa riuscii a vedere i due arrossire. A quelle parole, il Cavaliere di Cancer mi rimise giù con delicatezza e Mur si affrettò a ribattere, ancora tranquillo: «No, no, non ti avevo riconosciuta da quello, ma dalle urla». Il collega invece si massaggiò una tempia con fare scocciato ma si ostinò a non guardarmi e non ribattere niente. «Te lo auguro!» Sbottai incrociando le braccia. Anche se ero un’“ospite”, ne avevo già abbastanza di questo posto.
«Bè, comunque ben ritrovati». Glissò il maestro del Cavaliere dell’Ariete. «Avevo capito che volevi parlare con Death; come mai state salendo la scalinata del Grande Tempio?» Mi chiese con la sua solita espressione con il sorrisino accennato che gli conoscevo e che mi calmò.
Quando mi aveva accompagnata non gli avevo mica detto che cosa volessi davvero fare. «Devo incontrare il Gran Sacerdote.» rivelai un poco dispiaciuta. Adoravo Mur quando non mi ricordavo dell’attacco al pianeta di due anni prima. «Dopo averne dette di peste e corna su di lui?» Mi ricordò Death Mask, ancora scocciato e con un principio di mal di testa, incrociando le braccia.
Arrossii di nuovo.
Invece il ragazzo dagli occhi verdi scuri, dopo aver scoccato uno sguardo al collega, mi chiese: «Perché stai andando dal Gran Sacerdote? Sei guarita da poco». In realtà mancavano ancora due settimane prima di smettere gli esercizi fisioterapici.
«Ecco, io...» Il suo sguardo color malachite era così dolce e rilassato, era come se mi stesse invitando ad aprire il mio cuore. Eppure mi sembrava così fragile, non volevo ferirlo. «Mi annoiavo, perciò ho deciso di andare a chiedere al Gran Sacerdote se c’è qualcosa che potrei fare per occupare il mio tempo». Mentii e il Cavaliere dai capelli lillà mi guardò sorpreso: «Ma come, non avevi detto che...»
Lo interruppi: «Bè, niente mi vieta di restare un altro po’, siete così gentili con me, che mi sembra giusto ricambiare.» gentili, ovviamente se escludevamo i quattro molestatori di qualche giorno prima e Neera. E, non avevo neanche incontrato gli altri, pensa un po’.
Mi ripromisi di chiedere scusa a Death Mask per il teatrino cui era stato obbligato ad assistere. Nel frattempo Mur mi sorrise: «Mi fa piacere sapere che la pensi così, allora non ti tratterrò oltre, vai pure». “Non sorride apertamente molto spesso” mi ritrovai a pensare con una punta di rammarico, “Però è come se lo facesse”.
Ci salutammo e riprendemmo a camminare, soltanto per accorgermi che senza bastone non potevo muovermi come desideravo. Giacché i sensi di colpa nei confronti del Cavaliere del Cancro stavano nascendo in me, non mi sentii di chiedergli di farmi da stampella. Invece, mi limitai a zoppicargli accanto, mentre quest’ultimo si controllava il polso ferito.

Death Mask
«Ehi, che ti prende?» Le chiedesti accorgendoti del suo cambio d’umore. Ogni volta che incontrava il santone, cambiava sempre umore, ma cosa gli avrà mai fatto alle donne, quello. E tu, che, per tua sfortuna eri telepatico e sensibile, te ne accorgevi molto, troppo facilmente. Sperasti, invece, di non subire ripercussioni per lo sforzo che avevi compiuto, soprattutto per la ferita al polso. Mur ti aveva detto che dovevi stare molto attento a non alzare le braccia o fare sforzi, altrimenti la ferita si sarebbe riaperta. Anche Shun si era raccomandato. Fortuna che la Sesta era vicina, così ne avresti approfittato per farti dare un’occhiata.
Ti stavi mostrando duro e fiero come al solito, ma non sapevi neanche tu se fosse una buona idea questa scalata. Fortuna che te l’eri caricata in spalla con la destra e non con la sinistra. Ma lo sforzo, temevi, probabilmente aveva messo a dura prova i punti.
«Niente». Mentì, rilassando il volto come prima di incontrarvi. Anche questo non ti era sfuggito. Probabilmente le doveva mancare anche il suo lavoro.
Sospirò.
Quella ragazza, lo ammettevi tu stesso, era strana. Era come se nascondesse altre doti oltre a quelle già dimostrate. Non sapevi se era un’abilità innata o no, però era certo che sapeva come regolarsi con le persone. Sembrava bastarle un’occhiata, a volte, per comprenderle fino in fondo, ovviamente, quando non vi rivoltava come calzini con le sue doti da chiromante. Fortunatamente non sembrava intenzionata a esercitare le sue arti anche qui.
Appena fuori dell’uscio della Quinta vi venne incontro Aldebaran. Non ti ricordavi che avesse anche quella sottile cicatrice gli attraversava orizzontalmente il naso fin sotto gli occhi cerulei. Però il suo arrivo si rivelò efficace perché la distolse dai suoi pensieri. Infatti, appena il brasiliano vi vide vi fermò: «Buongiorno, Death Mask, oh, tu devi essere Astrid, piacere, Aldebaran del Toro». Si presentò gioviale porgendole una delle sue manone che, avvolse la sua fino al polso. «Accidenti che occhi, allora Aphrodite non scherzava quando diceva che avevi un intero universo nelle iridi». Commentò poi, inarcando - per quanto potesse, visto che era sempre accigliato - le sopracciglia. Per fortuna aveva evitato commenti inopportuni sulla somiglianza fisica con Camus.
Roteasti i tuoi occhi mentre lei mormorava un ringraziamento a mezza voce. Non pensavi che gli occhi gialli, i capelli biondi e la pelle candida spopolassero tanto da queste parti. A volte ti veniva da pensare: “Ma non l’avete mai vista una ragazza?” Molti in arena ti avevano chiesto persino di presentargliela ma tu li avevi scacciati perché sapevi che l’avevano scambiata per una Sacerdotessa-Guerrerio e, alcuni fantasiosi, pensavano che, una volta rimessasi, li avrebbe conciati tutti per le feste, oppure amati tutti. In parole povere si erano già fatti una notevole quantità di filmini mentali. Ti girasti a guardare Rodorio, che si vedeva bene dalle scalinate, e Atene poco più in là.
«Aldebaran? Sul serio?» Domandò invece lei, sorpresa, riportando la tua attenzione su di loro.
«Certo, perché, qualche problema?» Chiese l’altro, spiazzato e vagamente confuso da quelle parole. Alzasti gli occhi al cielo. Non avevi tutto il giorno, maledizione, avevi anche tu degli impegni e una vita. «No, no, figurati, è che porti il nome di una stella, è una cosa rara al giorno d’oggi». Spiegò al tuo compagno d’arme.
«Conosci le stelle?» Le chiese sorpreso sciogliendo la stretta.
«Una per una», ribatté abbozzando un sorriso. Dovesti morderti la lingua a forza per non scoppiare a ridere per quella panzana. Che esagerata! Intanto lei disse: «E, tu come conosci il mio nome?» Salvo poi ricordarsi di essere diventata un pochino famosa per la sua fuga dall’infermeria. Se tu fossi stato Milo, se non fosti stato tu uno degli artefici del suo arrivo e, se non ne fossi a tratti intimorito (“Questa è bella, ma è vero”), l’avresti presa in giro senza pietà. Ammesso che Scorpio non si lasciasse ingannare dal suo aspetto e non la prendesse molto male.
In tuo soccorso giunse però Aldebaran, che rispose: «Oh, qualche volta Death Mask e Aphrodite ci hanno parlato di te». Rise con il suo vocione. Lo guardasti con il tuo solito cipiglio. Non te lo ricordavi così spigliato con le ragazze. D’accordo, magari eri esagerato però in passato non riusciva neanche a dire ciao a un esponente di sesso femminile di qualsiasi età. Adesso persino una frase intera e senza arrossire? Era veramente un miglioramento. Si vede che il tempo l’aveva cambiato. Ci stavi ancora pensando quando lei ti lanciò un’altra occhiata, non dissimile da un fulmine dorato che, in maniera simmetrica e al tempo stesso differente, ti ricordarono gli scintillanti occhi verdi di Aiolia. Dal canto tuo rivolgesti il tuo altrove, fingendo di esanimare le rocce.
Il Cavaliere del Toro le domandò: «Vai al Grande Tempio?»
«Sì».
«Allora vengo con voi».
Girasti di nuovo il capo e gli domandasti con gli occhi “Sei serio o ti ha dato di volta il cervello?” Con la tua faccia truce. Ma lui t’ignorò.
Lo vedevi che Astrid non se la sentiva di contraddirlo, forse intimorita dalla stazza e quasi ti venne da ridere. Intimorivi di te che il gigante buono che aveva davanti. E, lei lo sapeva ma due metri d’altezza accompagnati a una stazza da armadio a due ante, intimorivano a prescindere. Per il resto del tragitto ti guardò come se si fosse aspettata che tu fossi esploso, ma in fin dei conti non era che avessi niente da dire. Ti meravigliasti di Aldebaran, a parte quella frase non aveva spiccicato nient’altro. Che avesse una ricaduta di timidezza? A questo punto ti domandasti come avesse fatto ad avvicinare Shaina.
Astrid aprì la bocca per dire qualcosa, ma prima che ci riuscisse, lo anticipasti con il tuo miglior tono scocciato e infastidito di sempre: «Anche tu devi chiedere qualcosa al Gran Sacerdote?» Intanto che continuavi a monitorare i pensieri di Astrid, che cominciava a ripassare il suo curriculum vitae da sfoggiare davanti al Grande Sacerdote. “Io comincerei con le scuse per aver urlato peste e corna, fonte di un possibile equivoco?” Effettivamente era una possibilità da non escludere.
«Perché? Hai qualche problema, Death?» Domandò il tuo collega in tono angelico.
«No, nessuno». Dopo aver ricevuto questa risposta, tornò a rivolgersi a lei: «Ho saputo che sei riuscita a spaventare Death Mask, è vero?» Lo fulminasti con gli occhi mentre lei lo guardò confusa: «Spaventare?» ripeté. Cercasti di mimargli a gesti tutte le minacce che ti vennero in mente, senza successo. Però ti ricomponesti in fretta quando lei girò la testa per guardarti di nuovo, sorpresa come se ti avesse beccato, mentre Aldebaran le spiegava che: «Stando ad Aphrodite ci ha messo una giornata per tornare del suo colore naturale e smettere di tremare, soprattutto la mano che gli hai letto. Complimenti, non è mica da tutti! Mi dici come hai fatto?» Completò poi, mentre lei continuava a fissarti stupita, intanto che tu imprecavi il più sonoramente possibile nella tua testa e immaginavi i modi più fantasiosi per torturare il custode della Seconda. «Grazie, ma non mi va di parlarne». Rispose inaspettatamente, salvandoti così dalla curiosità del suo nuovo conoscente. Adesso fu il tuo turno per mostrarti sorpreso, interrompendoti ancor prima di formulare una frase che non sapevi neanche di voler dire. Lei ricambiò con un’occhiata seria, come a ricordarti la promessa che ti avevo fatto. Anche se qualcosa le diceva che quella comare di Aphrodite avesse già spifferato tutto.

Gran Sacerdote
“Essere Gran Sacerdote non è facile.” Questa frase rischiava di diventare il tuo tormentone personale. A volte ti veniva da domandarti cosa te l’avesse fatto fare. Salvo poi ricordarti che, oltre a te, nessuno era degno, né per potenza, né per capacità, di ricoprire quella carica. La Dea era stata molto chiara su questo punto. E, tu, ti eri piegato alla sua volontà.
In molti ti avevano contrastato quella carica, considerando i tuoi precedenti. Ma Milady aveva riposto la sua fiducia in te e tu non l’avresti tradita. Un giuramento era pur sempre un giuramento sotto ogni punto di vista. Scorpio era stato il primo a capirlo e, in un certo senso, dovevi a lui la tua accettazione al gruppo. I Bronze si erano fidati subito dopo averti visto all’opera, mostrando anche una qual certa sorpresa. Non era da tutti reggere il peso del Santuario sulle proprie spalle e saper gestire i guerrieri sacri così bene. Oltre che dare il tuo supporto contro la battaglia dei Senza Volto due anni prima. E, dire, che ti avevano sempre reputato un bastardo pallone gonfiato con manie di grandezza. Che stolti, non si rendevano conto che cosa significasse.
Quel giorno Shun aveva chiesto di poterti ricevere ma, poiché non avevi voglia di restare inchiodato nella Tredicesima, eri sceso tu. Tanto saresti sceso comunque per la benedizione a Rodorio. Scortato dal piccolo drappello di soldati semplici e degli altri Cavalieri d’Oro che, quella mattina, erano rimasti nelle loro Case a riprendersi: cioè Shura con Cocteau, Milo, Aiolia e Shiryu, avevi lasciato la Dimora Terrena di Atena. Poi, salendo, si era aggiunto Kiki per chiederti il permesso ufficiale di investigare su quel caso che lo impensieriva.
Non era bene convocare il vostro alleato adesso, però non avevi altra scelta.
Shun vi accolse sulla soglia della Sesta e vi fece accomodare nella Casa. Stavi per chiedergli un’udienza con Hades quando udiste la voce di Aldebaran raggiungervi. Usciste dal salotto per riversarvi nel corridoio: «Cosa ci fa qui il Gran Sacerdote?» Vedeste il gigantesco Custode della Seconda e quello della Quarta avanzare verso di voi. In mezzo a loro, arrancava una ragazza più minuta ed esile di quanto ti aspettassi. Aveva un principio di fiatone e la sua pelle era lucida di sudore. Era più bassa di te di undici centimetri e ti stava guardando stupita con gli occhi incredibili. Non sapevi come altro descriverli. Anche se non l’avevi mai vista prima capisti all’istante chi fosse. Anche se pure tu restasti stupito dalla sua incredibile somiglianza con l’ex Custode dell’Undicesima Casa, non ti lasciasti impressionare troppo. Lei, dal canto suo, dopo averti scrutato a lungo, sembrò riconoscerti. Ti avevano avvisato che tramite i ricordi di Death Mask vi conosceva un po’, adesso non restava che vedere quanto.
Sentisti gli artigli di Cocteau sulla tua spalla.
Appena lei lo vide i suoi occhi si riempirono di tenerezza immediata. Lo sguardo di chi s’innamora a prima vista di un animale e che vuole tenerlo con sè. Ti mordesti il labbro per non scoppiarle a ridere in faccia e ringraziasti i paramenti cerimoniali: se avesse saputo chi era davvero quell’animaletto, avrebbe smesso immediatamente di guardarlo così.
«Astrid». Esclamò Aphrodite, sorpreso di trovarla lì. Le tue spalle furono scosse da un brivido al solo udire quel nome.
Cocteau agitò le ali per mantenersi in equilibrio sulla tua spalla. Poi ti scoccò un’occhiataccia.
Milo alla tua sinistra, sobbalzò.
Lo guardaste e vedeste che la guardava come se avesse visto un fantasma.
«Buongiorno Aphrodite, Shura, Shun». Capricorn le fece un cenno col capo e un vago sorriso. Shun la salutò con un sorriso e un amichevole: «Qual buon vento?» La giovane non ebbe il tempo di rispondere che «Buongiorno Astrid!» Chiamò uno stanco Kiki, sorridendo gioviale, catalizzando su di sè tutta l’attenzione. «Sono contento di vedere che cammini senza il bastone». Poco ci mancava che il giovane ariete la abbracciasse, però non lo fece. Ormai del bambino che era stato non restava più niente.
«No, in realtà, m’è caduto poco fa ma non mi è stato concesso di raccoglierlo». Sorrise, mesta. In un certo senso quel sorriso ti ricordò uno dei tuoi, i primi tempi della redenzione. Tu sorridevi allo stesso modo, adesso non ne eri più sicuro, non passavi molto tempo allo specchio, salvo per raderti.
Doveva esserle caduto poco fa? Doveva essere stato quando aveva sentito un Cosmo pieno di rabbia e risentimento gonfiarsi pericolosamente sulle scale del Santuario. Allora era lei la causa?
«Oh, non sarebbe meglio risposare finché non ti sarai rimessa completamente?» Domandò e tu avesti voglia di ricordargli che eravate presenti tutti voi.
Lei scosse il capo: «Eh no, se vuoi vedermi riposare, ormai dovrai legarmi al letto». Kiki sorrise per la battuta. «Comunque, mi dispiace dirtelo, Kiki, ma stamani sono qui per parlare con il Gran Sacerdote». “Con me?” Pensasti sorpreso. Grazie ad Atena, la maschera ti permetteva di sfoggiare tutte le tue emozioni senza essere scoperto.
La ragazza ti guardò.
Kiki si girò di tre quarti verso di te, intanto che Death Mask si affiancava a Shun e gli faceva cenno di seguirlo, salutandoti con un cenno della testa. Fingendo di non notare le facce esterrefatte di tutti voi. Persino tuo fratello la guardava sbigottito (anche in quelle sembianze riuscivi a indovinare lo stesso le sue emozioni). Lei si accigliò (ricordandovi molto Camus, a parte le sopracciglia biforcute) e poi dovette giungere a una conclusione perché comprese.
Intanto i due erano spariti in una stanza della Sesta, dove Shun stava cominciando a controllare la ferita di Death Mask. Cocteau volò via per appollaiarsi a un capitello, mentre la guardavi direttamente in viso e mormorasti: «Cosa?» Come se non avessi capito bene. Non ti aspettavi fosse così diretta.
«Come osi presentarti con questa tracotanza?» La riprese aspramente Milo.
A quelle parole restaste tutti di stucco, avevi pensato a un mucchio di reazioni, ma non di certo a questa. Lei ancor più di voi quando poi tornò all’attacco: «Dov’è la tua maschera?» Dall’occhiata che si lanciarono capisti che non si sopportavano già a vicenda. Aphrodite sospirò, rassegnato.
«Ancora con questa storia della maschera?» Sbottò lei, confermando così di essere stata la causa del Cosmo adirato che avevate percepito scendendo. Anche l’espressione di Cancer lo confermò: infatti, scosse il capo come a dire “ci risiamo”, le braccia incrociate, intanto che i compagni chiedevano spiegazioni. Percepisti a malapena le loro domande sulla sua identità e le tranquille, quanto rassegnate, risposte che ricevettero. Aldebaran invece, la guardava intimorito e preoccupato, quasi che non la credesse capace di arrabbiarsi. O che esplodesse per così poco.
Scorpio strabuzzò gli occhi, ma gli uscirono fuori dalle orbite quando lei aggiunse con fare ben poco regale: «Mi preoccuperei di più se mi si vedesse qualcos’altro!» Poi, fece un respiro profondo e cercò di contenersi. Tornò a puntare i suoi lucenti occhi gialli su di te che per tutto questo tempo eri rimasto impietrito a fissarla. Chinò la testa in segno di saluto e tu ricambiasti con un cenno quasi per riflesso. Salvo poi capire cosa avevi fatto. Che diavolo ti prendeva? «Mi scusi per il linguaggio, signore.» disse con tono completamente diverso, «Non era mia intenzione mancarle di rispetto». A quelle parole le domandasti, rilassandoti un poco: «E, per la maschera?»
«Non sono una delle vostre Sacerdotesse-Guerriero, signore, anche se può sembrare e non ho paura di mostrare il mio viso a chicchessia, perciò, mi dispiace, ma non la indosserò».
«Come osi rivolgerti in questo modo al Gran Sacerdote e profanare il Grande Tempio? Inginocchiati e chiedi subito perdono, strega!» Esclamò di nuovo Milo. Lei lo trapassò con lo sguardo. Un lampo dorato, che in un certo senso ti ricordò la Cuspide Scarlatta con la quale sancì la tua redenzione. Shiryu si avvicinò al collega, pose una mano sulla sua spalla e gli impose la calma, prima che decidesse di scagliarsi contro di lei. «Non posso». Si scusò lei.
«Cosa? Ah! Adesso ti vanti fino a questo punto?» La punzecchiò con tono arrogante, gonfiando il petto come un galletto. Invece, tu, comprendesti al volo il senso di quelle parole e ti ritrovasti a pensare a quanto fosse imbecille.
«No, è che se lo faccio non so se riuscirò ad alzarmi di nuovo; devo ancora recuperare il totale uso degli arti inferiori. È già tanto se sono riuscita a salire queste scale.» spiegò con semplicità e una calma che in realtà nascondeva un oceano di rabbia e dolore. Rabbia per il modo in cui la stava trattando, e dolore perché non era ancora completamente stabile sulle sue gambe.
Kiki la guardò stupito.
Comprendesti che se si teneva dritta, era per pura forza di volontà. Quella ragazza risvegliava in te i ricordi della Guerra Sacra, specialmente della possibilità che ti aveva dato Milo. Apprezzavi il modo di mettere alla prova le persone del Custode dell’Ottava, ma certe volte avresti proprio voluto tappargli la bocca.
Il cicladico prese fiato per punzecchiarla di nuovo ma Shun gli tappò la bocca e lo trascinò via scusandosi con tutti voi. Li accompagnaste con lo sguardo finché non scomparvero alla vista e, solo allora, lei tornò a rivolgersi a te: «Ancora mi scuso per questo e il linguaggio, signore. Stavo salendo da lei per chiederle di offrirmi un lavoro, ma l’ho incontrata prima».
«Non ti preoccupare, ho assistito a scene peggiori», rispondesti con una flemma che poteva rivaleggiare con quella del Cavaliere d’Ariete e il predecessore di Shun. Poi dicesti: «Tu devi essere la ragazza che i miei Cavalieri hanno salvato durante il loro viaggio in Italia, Astrid, dico bene?» Per un secondo la sua faccia si contrasse in una smorfia alla parola salvato. Solo un secondo: «Esatto, signore».
«Dunque vorresti un lavoro?» Ripetesti palesemente sorpreso, ma anche desideroso di capire fino in fondo. Non ti eri mai sentito così confuso come adesso, neanche come quando Ikki ti rivelò che Atena ti aveva salvato la vita più volte. Ma questo era un tipo di confusione diversa. Era positiva e sentivi di poterti fidare di lei. Tu, il sadico manipolatore che non si fidava di nessuno tranne che della Dea cui dovevi la tua vita. A parte questo, di tutte le cose che effettivamente avrebbe potuto chiederti questa, era la più inaspettata. Un lavoro? E, da quando conferivano con te per ottenere un impiego al Grande Tempio? Però lei era la stessa ragazza che i tuoi Saint dicevano di aver visto aggirarsi sul campo di battaglia e che aveva restituito la parte mancante dello scettro. Solo per questo non la mandasti via. Confermasti con un cenno d’assenso «Ma come hai evidenziato tu stessa, sei solo un’ospite, non ho niente da offrirti e non credo che tu abbia sufficiente Cosmo per assolvere il compito di un Bronze, figuriamoci un soldato semplice…» Sapevi perfettamente che non era capace di difendersi, però volevi metterla alla prova. Non potevi scagliarle il Genro Maō Ken per scrutare nella sua mente. Ti saresti accontentato di carpire informazioni dalle sue parole, dai gesti e da lei stessa. Non perché avesse qualcosa di speciale o perché avesse suscitato un’immensa simpatia, ma perché, semplicemente, non volevi. Non adesso. Non era ancora ristabilita completamente; avresti potuto ucciderla. E, da quando avevi tutti questi scrupoli di coscienza? Perché lei non era una guerriera e non era una nemica. Era una persona normale, un’innocente.
Adesso fu lei a guardarti con aria confusa. Però t’interruppe lo stesso: «No, signore, sono perfettamente consapevole di essere una comune mortale, quello che le chiedo è qualcosa che mi permetta di racimolare un po’di soldi, solo quel tanto che basta affinché io possa tornarmene a casa mia e riprendere la mia vita». Osservò ragionevole e, tu cogliesti il senso implicito di quella richiesta: lei non voleva restare.
«Perché non lo chiedi a Lady Isabel?»
«Ho saputo che è partita qualche giorno fa e non vorrei disturbarLa. Andrei in paese a chiedere ma non conosco nessuno, tantomeno una parola di greco; e le mie conoscenze linguistiche non sono tali da permettermi di essere assunta; anche perché non ho documenti con me. La prego». Disse, guardandoti con occhi imploranti. Sulle sue conoscenze linguistiche stava dichiarando il vero, infatti, se comprendevi l’italiano, era perché avevi avuto occasione di studiarlo recentemente. Anche se non tutte le parole ti erano chiarissime.
La squadrasti a lungo per capire come avrebbe reagito e, poi, quando decidesti che l’avevi tenuta abbastanza sulle spine, apristi bocca per domandare: «D’accordo, cosa sai fare?»
«Prima ero una guardarobiera». Rispose, facendo cadere di colpo l’immagine di sè che aveva dato prima. Non l’avresti mai detto. Appena lo disse ottenne diverse reazioni: a parte la caduta generale delle braccia di quasi tutti voi, il fioraio del Santuario si coprì gli occhi con una mano e scosse il capo. Death Mask invece fece finta di niente. Aldebaran, al contrario, la guardava come dire: “Sei seria?” Qualcun altro invece, rimase stupito nel non sentirle parlare delle sue doti. Lei si morse il labbro inferiore e tu potesti tranquillamente capire tutto ciò che le passò per la testa. Poi si affrettò a metterci una pezza per far capire che non era una stupida. «Però so anche pulire e occuparmi della casa. Inoltre, prima di diventare guardarobiera ero una studentessa universitaria». Quest’informazione le fece riguadagnare punti agli occhi di tutti voi.
Così tu le domandasti, interessato: «Che cosa studiavi?»
«Astronomia e astrofisica, mi mancava poco per laurearmi». Inarcasti le sopracciglia per lo stupore. Non te lo saresti mai aspettato. E, neanche gli altri.
Avesti l’impressione che le vostre braccia vi si fossero riattaccate. «Perché hai smesso?»
«Perché volevo scrivere.» rispose semplicemente. La guardasti strabiliato, “Adesso capisco come mai si esprime in questo modo”.
«A me è giunta voce che sei una strega, sbaglio?» Sputò Milo con un sorriso tagliente, rispuntando alle vostre spalle.
Vi giraste a guardarlo.
Shun scosse il capo con aria di scuse e sospirò.
Guardasti Astrid e notasti che stavolta furono a lei che cascarono le braccia. Però ebbe la prontezza di spirito di ricambiare il suo sguardo affilato. Occhi gialli dentro sguardo azzurro e, curvò gli angoli della bocca verso l’alto in un sorriso divertito. Ma quando replicò, disse soltanto un: «Vuoi provare?» che lo fece sbiancare. «Fossi matto!» Ribatté, riprendendosi subito. Per un momento temesti il peggio ma la ragazza decise saggiamente di concentrarsi su di te, che non avevi smesso un attimo di guardarla. Alla fine decretasti: «Al momento non c’è niente da fare per te. Torna fra tre giorni e vedrai che ti troverò qualcosa».
Lei ti parve un po’delusa ma ti ringraziò con un cenno del capo. Poi si accomiatò senza chiederti congedo e cercò di arrancare verso le scale. Cosa ti prendeva che la lasciavi andare così senza troppe storie? Non l’avevi mica congedata, non era la Divina Atena, che poteva andare e venire come le pareva. Allora perché non riuscivi ad aprire la bocca per fermarla? Invece tua ci pensò Milo: «Perché è ancora qui? Perché non l’avete ancora andata via?»
«Milo!» Lo ammonirono di nuovo i colleghi. Tu che avevi continuato ad accompagnare l’ospite con lo sguardo, la vedesti fermarsi, stringere i pugni. Poi riprese la discesa.
Kiki ti chiese il permesso di andare con lei per aiutarla e tu glielo concedesti.

Cocteau
Svolazzasti nuovamente fino a posarti sulla spalla di Shura.
Non eri davvero un animale, eri l’oracolo di Atena e, come tale, potevi esprimerti a parole come un essere umano vero e proprio. Era tutto ciò che era rimasto della tua forma umana. Forma che, in caso di necessità, potevi riassumere per salvare i tuoi compagni. Come quando Shura per poco non cadde nell’oscurità e non si trasformò in uno Specter. Ma, non era la stessa cosa che essere tornati alla vita come essere umano vero e proprio. Era triste, ma significava che, dentro di te, quella bestia doveva esistere ancora e, la cosa non ti rassicurava per nulla.
Il Gran Sacerdote distolse lo sguardo dalla scalinata. Da che lo conoscevate, tu in particolare, non l’avevate mai visto incantarsi. «Scusate, dicevamo?» Richiamando così anche la tua attenzione. Dovevate finire di ascoltare il resoconto di Aiolia sulla sua personale indagine. Ovviamente non sapeva che anche Shura stava indagando. Per fortuna che Capricorn era molto più discreto del suo protetto. Dovevi ammettere che forse aveva ragione: ci doveva essere una correlazione tra il primo avvistamento delle Creature e quanto era successo finora. Forse non era una buona idea lasciarla andare via. Se si era dimostrata capace di questi e altri miracoli, forse era il caso di tenerla al sicuro. Magari studiarla e, perché no, addestrarla. E, quale posto migliore del Santuario? Peccato che Milo non fosse dello stesso parere, perché intervenne di nuovo: «Sua santità, non prenderete davvero in considerazione le sue parole».
«Milo, per l’ultima volta…» lo minacciò Aiolia, che per tutto il tempo si era limitato a guardarla male e a tacere. L’occhiataccia che gli lanciò valse più di mille parole. «A cuccia, Leoncino».
«Sta buono, Artropode». Sibilò stizzito il Leone, invano.
«Sua santità, quella ragazza è stata capace da sola, di scoprire questo posto e i nostri segreti tramite una semplice lettura della mano, cosa ci garantisce che non è una spia? Farla lavorare per noi potrebbe essere fatale».
Se Camus fosse stato lì, avrebbe risposto che erano tutte balle e che non era possibile leggere la vita di una persona tramite la mano. Eh, facile dirlo, non aveva conosciuto Astrid. Anche se tu le mani non le avevi più, avevi passato molto tempo a spiarla per conto di tuo fratello. Non potevi usare il Genro Maō ken senza ferirla ma potevi avvalerti dell’aiuto dei telepati del Tempio e, Death Mask, Mu e Kiki, erano più che efficienti ed esperti nell’uso della telestesia. Nondimeno era anche vero, che forse Camus non avrebbe avuto il piacere di conoscerla per davvero, poiché lui era uno di quelli che non erano ancora tornati alla vita. Chissà come avrebbe reagito trovandosi di fronte la giovane sosia che poteva passare per sua figlia? Anche se lei non aveva la sua stessa acconciatura e le stesse sopracciglia, la sua somiglianza era innegabile.
Chissà se c’era qualcosa che legava quei due, al di là dell’aspetto?
«Stai forse insinuando che la sistemazione più adatta per lei sarebbero le prigioni?» Insinuò il Portavoce di Atena volgendo il viso verso di lui, strappandoti dalle tue riflessioni.
«Non sto dicendo questo, lo vedo anch’io che non reggerebbe». Rispose, invece, sorpreso l’amico di Aiolia. Il quale lo guardò come a ripetere: “Ma che stai dicendo?” Tu invece, ti domandasti che razza d’idee si fosse fatto, prima di incontrarla dal vivo e che cosa si aspettasse. Forse una specie di Sacerdotessa-Guerriero? Una donna adulta e forzuta con la quale rivaleggiare? Una Specter come Violate o una persona come Lady Pandora? Sicuramente molte cose fuorché quella ragazza delicata, poco formosa e molto provata che si reggeva a malapena in piedi. A vederla così persino tu stentavi a credere che fosse l’autrice della vostra salvezza. Perché sì, tu non eri mica stupido e ti eri fatto dire per filo e per segno dai due Silver da chi era saltata fuori quell’idea.
Milo non si era mai recato in infermeria neanche una volta per vederla, non dovevi sorprenderti se si fossero fatti un’idea completamente sbagliata su di lei.
«Apprezzo il tuo parere Milo ma vorrei ricordarti che il Gran Sacerdote sono io, non tu, perciò spetterà a me decidere cosa ne sarà di lei. Inoltre Mur, Cocteau e Kiki mi fanno rapporto costantemente, perciò non c’è niente di lei che non possiamo sapere. Anche perché non ha né la forza, né l’addestramento necessario per opporsi a noi, tantomeno a un Cosmo. Credo che anche tu abbia percepito l’assenza di qualsiasi Cosmo in lei».
«Sì, sua santità». Disse chinando il capo in segno di rispetto e, al tempo stesso, rispondendo alla domanda. Anche se la cosa non gli andava molto giù.
Tuo fratello non aveva ancora finito, anzi, aspettava il momento buono sfoderare il colpo di grazia. Ed era quello. Infatti, disse: «Per quanto riguarda il turbamento che percepisco nel tuo Cosmo...» Milo lo guardò, raddrizzando la testa. «Ha forse a che fare con i suoi presunti poteri? O per la somiglianza con il compianto Camus?» Il Cavaliere di Scorpio si morse la lingua per non rispondere e si costrinse a scuotere il capo. Forse tuo fratello non era abbastanza intelligente o non conosceva bene i tuoi compagni d’arme, fatto sta che non seppe capire che l’altro non voleva ammettere che in realtà, invece, era proprio così. Poi, poteri, Milo non credeva nella magia e nei poteri magici, al limite credeva nella potenza di Atena, nella Dea cui avevate giurato fedeltà, nel Cosmo e nelle tecniche che usavate in battaglia. Però comprendevi i suoi timori. Quella ragazza aveva tecniche molto più discrete delle tue e di Kanon, tecniche che avevano del mirabolante. Eppure, per avere tali capacità, ti sembrava piuttosto smarrita.
«Sua santità», prese parola Aldebaran e voi tutti lo guardaste, «le darete davvero un lavoro?»
«Appena troverò qualcosa di adatto a lei. Non siamo i suoi carcerieri e lei non rappresenta una minaccia per noi. Spero che la questione sulla nostra ospite si possa chiudere qui così da tornare a parlare di ciò che realmente ci preme. Aiolia ci puoi confermare che quelle Creature sono le stesse di cui mi ha parlato Aphrodite e che abbiamo visto al Santuario quando la barriera è crollata?» In mancanza di un termine migliore, avevate deciso che quella parola era diventata il loro nome comune. «Stando alla vostra descrizione e a quella dei Cavalieri Neri direi proprio di sì».
«Tu come hai fatto a salvarti da loro?»
«Ho azzerato il mio Cosmo e Mur è giunto in mio soccorso», rispose semplicemente il ragazzo. Tu annuisti, ricordandoti il colloquio avuto con il Leone dopo il suo ritorno. «Sua Santità io propongo di nuovo di investigare. Voglio dire, desidero mettermi sulle loro tracce per scoprire qualcosa di più». Disse di nuovo il fratello minore di Aiolos.
«Sei forse impazzito?» Domandò Aphrodite, voltando la testa di scatto verso di lui. «Non puoi affrontarle, non ricordi cosa è successo durante lo scontro finale? Non hai sentito che se non fosse stato per Astrid noi due non saremmo qui?» Aggiunse.
«Pensi che anche quando ci ha restituito lo scettro ci abbia salvato la vita?» Ribatté il custode della Quinta per niente convinto. «E’stata lei a tirarci fuori dalla statua».
«Aphrodite, guarda in faccia la realtà, quella ragazza non è la stessa che abbiamo visto quella mattina. E neanche la stessa delle Baleari. C’è qualcosa che non mi quadra, voglio vederci chiaro. Per me c’è una correlazione tra lei e le Creature. Non vorrei che fossero collegate alle forze oscure».
«Come puoi dire una cosa del genere? La prima volta che le abbiamo viste stavano per ucciderci tutti. Non so per quale miracolo ci siamo salvati durante il viaggio di ritorno, ma so che se non fosse stato per noi lei sarebbe morta. E poi, quando ci ha riportato lo scettro, le Creature non si erano neanche accorte di lei, tanto erano impegnate a evitare i tuoi attacchi. Non so se l’hai notato, ma si sono dileguate con la luce del Sole».
Aiolia fece spallucce e replicò: «Io le ho viste agire anche alla luce del Sole e non sono sicuro che quella fosse davvero Astrid. Per me era un’illusione del nemico. Vogliono spingerci ad accettarla e poi ti ricordo che ha riportato in vita anche gli Specter, se non è asservita alle forze oscure come mai ha sentito la necessità di compiere quel gesto?» Milo si accodò a quest’ipotesi.
«Ti rendi conto delle assurdità che dici?» Tu concordasti con lui, anche se erano alleati e non era il caso di fidarsi troppo, erano comunque dei compagni.
L’altro alzò le spalle: «Per ora è solo un’ipotesi, ma non mi sento di condividerla».
«Stai forse dicendo che pensi che abbiano a che fare con lei?»
«In parte, in parte penso che lei stessa abbia a che fare con le forze oscure». Le parole di Aiolia gettarono una cappa di silenzio grave sulle vostre teste. A pensarci bene anche questa spiegazione sarebbe stata plausibile, se non fosse stato per un piccolo particolare: Astrid non aveva neanche idea di cosa fossero le forze oscure, figuriamoci farne parte. Il piccolo vantaggio della tua nuova forma fisica era che passava inosservata. Non avevi neanche bisogno di nasconderti più di tanto e, da quando i tuoi compagni erano partiti per affrontare la Dea ti eri reso utile tenendola d’occhio. Se qualcuno avesse cercato di farle del male o, viceversa, se lei avesse cercato di svignarsela o avesse fatto la spia, l’avresti fermata. E, a parte cantare all’altarino in Paese, non l’avevi vista far niente di strano. Tuttavia… Un’idea ti passò per la mente. «E, se ci fosse un’altra spiegazione?» Insinuasti e tutti ti guardarono.
«Che cosa intendi?» Volle sapere Shiryu.
«Non sono sicuro della sua effettiva innocenza, ma se ci fosse un collegamento tra la canzone che le ho sentito cantare e le sue apparizioni da voi?»
«Che intendi?» Chiese di nuovo il padre di Ryuho mentre Shura mormorò: «Boadicea».
«Avete detto che prima che la statua si rompesse di aver udito la sua voce cantare, no? Anch’io l’ho vista cantare la notte prima di addormentarsi. Lì per lì non ho fatto molto caso al resto ma è possibile, che…» Il becco ti si chiuse da solo.
«Che?»
«Lei sia capace di separare la propria anima dal corpo». La rivelazione fece stupire tutti tranne Death Mask. Che il siciliano l’avesse già intuito?
«Come un Senza Volto o come Death, che riesce a viaggiare tra il Regno dei Vivi e quello dei Morti?» Indagò Shun. Hyoga gli aveva raccontato di come era diventato padre di Natasha. E, di come, l’Assassino Senza Volto era uscito dal corpicino che si era costruito. Scrollasti le ali e rispondesti: «Non ho ancora compreso in che modo».
«Bè, se resta qui, avremo modo di scoprirlo.» Disse il Gran Sacerdote.
«Sempre che ne impediamo la fuga». Gli ricordò il Cavaliere di Scorpio in un lugubre mormorio.
Ovviamente Kiki aveva sempre badato a riferirvi le intenzioni quella ragazza. Tutti voi sapevate che il suo Piano B era scappare via. E, questo, non aveva per niente contribuito a renderla simpatica ad alcuni di voi. Anche tu sotto sotto c’eri rimasto un po’male, quella ragazza ti faceva pena. Quando l’avevi guardata, avevi visto lo sguardo di chi vorrebbe scappare. Lo sguardo di chi sente un richiamo, ma non può fare niente per raggiungerlo. Poi avevi pensato che era sconvolta, chiunque avrebbe reagito in quella situazione, anzi, era già tanto se aveva mutato opinione su Mu, Kiki, Death Mask e Aphrodite.
«Frena la lingua, Milo, detto così sembriamo davvero dei sequestratori». Lo rimbeccò Shiryu ponendosi le mani sui fianchi e gettando lo sguardo lungo la gradinata. Death borbottò: «E, poi sarei io quello scurrile.» ma nessuno di voi lo considerò.
«Mettiamo caso quella ragazza stia dicendo la verità, perché non le diamo un’occasione? Non penso che lei sia veramente asservita alle forze del male, se lo fosse perché mai avrebbe dovuto chiedere un lavoro al Gran Sacerdote? Sono pronto a scommettere che lei prima di incontrarvi non aveva mai neanche sentito parlare del Santuario, non è così, Aphrodite?» Gli chiese girandosi verso il Custode della Dodicesima. «Sì, certo, hai ragione». Gli diede corda quest’ultimo.
«Bene, allora è deciso. Voi tutti a turno la terrete d’occhio, e, quando riterrete che sia pronta, la metterete alla prova per testare le sue capacità e verificare il suo Cosmo». Decretò il Gran Sacerdote in tono risoluto.

Kiki
Avevi riaccompagnato Astrid indietro. Il tuo maestro avrebbe atteso un altro po', tanto lo scettro non scappava mica, avevi pensato, con una buona dose di black humor. Perché quello non scappava, ma il tempo volava e non potevate sapere cos'altro sarebbe accaduto.
Non avevi mai assistito prima a un colloquio di lavoro ed eri curioso. Davvero si faceva così? Tu non ne avevi mai avuto bisogno perché, in un certo senso, il lavoro lo avevi già assicurato e, sinceramente, non sapevi fare altro.
Cosa diavolo era preso a Milo per comportarsi così? Ancora di più, ti sorprendeva che lei avesse risposto e, con l’ultima frecciata, non ti era sfuggita la sua rabbia. Per questo avevi accampato quella scusa per seguirla e scusarti a nome del Santuario. Peccato che ogni volta che aprivi bocca per dirlo, la voce non ti usciva. E, per questo, ti limitasti a sostenerla quando ti accorgesti che la discesa per lei era difficoltosa.
Alla Quarta le venne sete e ti domandò se aveste potuto fermarvi per un bicchier d’acqua alla tua Casa. «Ma certo, ce la fai a resistere ancora un po’?» Lei aveva annuito.
Una volta dentro la tua Casa la facesti accomodare in cucina, le riempisti un bicchiere d’acqua e glielo passasti. «Ecco l’acqua, scusa se non ho potuto fare di più, al momento non sono ancora sceso in paese per fare la spesa». Ti scusasti. Però lei parve non fare caso al fiume di parole che ti uscì di bocca e si limitò a ringraziarti con un sorriso.
Ti appoggiasti al lavello della cucina mentre lei tracannava l’acqua come se non bevesse da un giorno intero. Ancor prima che te lo chiedesse avevi già sentito i suoi pensieri e sapevi che presto ti avrebbe chiesto ancora da bere. Ma non potevi scoprirti così, lei non sapeva (o forse, non ricordava) che tu possedevi poteri telepatici e telecinetici. E, forse, era meglio che non lo sapesse proprio. Sentivi il bisogno di dirle qualcosa, anche se la tua flemma lo nascondeva bene. Anche tu eri a conoscenza del nomignolo che ti avevano appioppato al Santuario: “Il Nuovo Mur” non solo perché avevi continuato a portare avanti la nobile arte del riparatore di armature, ma perché crescendo avevi finito per somigliare caratterialmente al tuo maestro e, anche tu ti eri preso un’allieva, ossia Raki, che attualmente sperasti fosse da Shion.
Ma, a differenza di Mur tu potevi contare anche sull’aiuto di altri Cavalieri di Bronzo, come Ichi dell’Hydra, che si era rivelato un valido elemento contro i Senza Volto. Quando si trattava di missioni preferivi portarti dietro sempre qualcun altro per ripulire il campo di battaglia da eventuali nemici sopravvissuti. O da mandare in campo al posto tuo, proprio come un vero comandante. E, in effetti lo eri. I Gold Saint erano allo stesso livello dei generali di un normale esercito. I Silver erano i sergenti e i Bronze i caporali. Tutti gli altri erano soldati semplici, civili e servitori. Avevi scelto accuratamente il tuo compagno per la faccenda dei Senza Volto e la tua scelta era ricaduta su Ichi. Ma forse sarebbe stato meglio che Astrid non conoscesse questo lato di te. Non volevi spaventarla più di quanto lo fosse già.
Cercasti di rassicurarla dicendole: «Non te la prendere, il Gran Sacerdote non è mai venuto meno alla parola data». Per tutta risposta ti lanciò uno sguardo pieno di compassione. Pensando tra l’altro che tu fossi ancora immaturo nonostante la tua età. Ti lasciasti scivolare quell’insulto mentale di dosso come una coperta dalle spalle.
Percepivi l’arrovellamento del suo cervello. Sentiva che nel Santuario c’era qualcosa che non le tornava, però non capivo che cosa fosse. Vedesti la sua mente frugare nei ricordi di Death Mask alla ricerca della risposta, ma per quanto si sforzasse, proprio non la trovava anche se intuiva di essere fin troppo vicina. Improvvisamente ripensò al tuo maestro e ai ricordi di Death sui vostri poteri. E, sul fatto, che voi eravate dei militari e, che la steste controllando. Le sue spalle sussultarono e la sentisti chiaramente pensare: “No. Non voglio vagliare questa possibilità”. Il germe del dubbio, del terrore e della curiosità di sapere però, erano già insinuati in lei da tempo e, da tempo erano germogliati. Tu smettesti immediatamente di scrutare i suoi pensieri per sicurezza. «Qualcosa non va?» Le domandasti, conscio che potevi sembrare uscito da un thriller per questa uscita.
«No, no, tutto ok», peccato che la sua espressione non fosse conforme alle sue parole.
«Vuoi un altro po’d’acqua?» Le domandasti.
«Volentieri». Lei ti tese il bicchiere e tu glielo riempisti nuovamente. «Perché non siete ancora andati a fare la spesa?» Ti chiese, cercando chiaramente di cambiare discorso. «Di solito ci penso io». “O Raki”. Anche se ancora girato di spalle sentisti chiaramente la sua diffidenza. Era dalla sera prima del vostro ritorno dalla Guerra Sacra che aveva il sentore che qualcosa non andasse. E, ora, sapeva perché.
Ti girasti di nuovo e le restituisti il bicchiere, che lei prese con entrambe le mani come se fosse una ciotola. “No, Astrid.” Pensasti sforzandoti di rimanere composto. “Non è come pensi, non è così”. Ma lei non percepì la tua preghiera mentale. Perciò decidesti subito di non svicolare il discorso se avesse dovuto intraprenderlo. Lo vedevi che non avrebbe mai voluto, ma lo fece lo stesso, anche se la prese molto alla larga, con una domanda del tutto diversa da ciò che ti aspettavi: «Kiki, tu sai che cosa sono capace di fare, vero?»
«Come? Certo che lo so e, lo sa anche il mio maestro. Sai noi due abbiamo poteri telepatici».
Lei sgranò gli occhi gialli: «Cosa?» Domandò e tu realizzasti di esserti lasciato sfuggire subito il vostro segreto. Spalancasti gli occhi anche tu per la sorpresa e le guance ti si colorarono di rosso. Ma che diavolo ti prendeva?
Mentre cercavi argomenti per ponderare la questione, lei elaborò l’informazione e si spiaccicò la mano sulla faccia scuotendo il capo ad occhi chiusi.
Il germoglio dentro di lei, crebbe su uno stelo di incredula delusione, mise foglie di vergogna, e fiorì di tradimento, assumendo i colori della scoperta e rivelando un nucleo di tristezza. “Non ci posso credere”, la sentisti lamentarsi mentalmente. “Hanno sentito tutto, conoscono i miei piani e tutti gli insulti impronunciabili che ho snocciolato nella mia testa”.
Cercasti di rimediare dicendo: «Su, dai non te la prendere, di solito non lo diciamo a nessuno». Sentendo le tue parole fare acqua da tutte le parti neanche fosse un innaffiatoio che andò a irrorare i frutti di domande dentro di lei, invece che avvelenarli e farli marcire come se ci avessi buttato il diserbante.
Non riuscivi a sostenere la vista di quelle pozze color del sole incastonate sul suo viso: «Non capisci, io…» Cominciasti, ma lei t’interruppe con un tono arido come il deserto. «Sì, guarda che capisco, invece».
Conoscendo il caratterino della tua amica non sapesti nemmeno tu come fece a restarsene seduta su quella sedia e non andarsene via sbottando. Anche lei era sorpresa da se stessa mentre dentro stava crollando a pezzi. Vi considerava quasi degli amici e ora... «Ok», disse cercando di cambiare discorso, «speriamo che si tenga almeno per sé i suoi giudizi». Però le parole le uscirono a fatica, molta fatica, al punto che ti chiedesti come fosse riuscita a formularle.
«Piuttosto, anche tu hai un’abilità molto simile alla nostra, dove hai imparato?» Domandasti interessato, con un sorriso speranzoso, cercando di cambiare discorso, ma non lei non ti ascoltò.
«Per favore, non mi va di parlarne». Disse soltanto, non avendo più la forza di parlare. Non dopo aver saputo che avevate spulciato a fondo la sua testa, senza il suo permesso. “No, non è vero”. Pensasti. Ma lei non ti sentì “Ora mi spiego tutto, le premure di Mur, di Death... Loro, voi sapevate! Conoscevate i miei timori, le mie speranze!”Ancora una volta la implorasti di non continuare a pensarlo. Death non era mai riuscito a leggerle la mente perché qualcosa glielo impediva al punto che aveva smesso. Tu non ci eri riuscito perché non era giusto e Mur perché non era nel suo stile. Nessuno di voi tre l’aveva rivoltata come un guanto come credeva. Ti accorgesti che qualunque cosa tu avessi potuto dire non sarebbe stata ascoltata. “Io mi ero aperta con voi e ora questo?” Mi sentii fragile come non mai. “E, ora come farò?” E, con questo pensiero, la vedesti cominciare ad agitarsi mentre l’ansia, ribollente come lava e sottomarina e al tempo stesso mareggiata iniziava la sua nuova campagna d’assalto.
«Dai, non te la prendere, vedrai che andrà tutto bene». Riprovasti.
Astrid si fece un appunto mentale di non cadere nella trappola delle apparenze, prima di rispondere: «Lo so. Aspetta, ma il Grande Mur non è il Gran Sacerdote». Disse, in tono dubbioso.
«No». Lei sospirò di sollievo e l’ansia scomparve, dissolvendosi come vapore. Però quando ti guardò di nuovo l’ansia si condensò in una nuvola di tristezza e le sue iridi si riempirono di lacrime di dolore. Soffocò il primo di una lunga serie di singulti e ti chiese un favore: «Scusa, mi faresti il favore di accompagnarmi a casa di Castalia?» Non aveva ancora la forza per correre giù dalle scale senza sfracellarsi. «Certo». Mormorasti dispiaciuto. E, la teletrasportasti direttamente lì.
Una volta sulla soglia trasse la chiave da una tasca dei pantaloni e aprì la porta. Cercasti di dirle qualcosa ma lei entrò e si chiuse la porta alle spalle. Sospirasti e, poi, ti teletrasportasti di nuovo dagli altri. Appena ti videro capirono subito dalla tua espressione dispiaciuta e gli occhi bassi che qualcosa era andato storto.
«Che cosa è accaduto?» Ti domandò Aldebaran e sospirasti: «Mi dispiace, adesso lei lo sa».
«Cosa stai dicendo? Spiegati, non capisco.» Disse Shun.
«Sa che la teniamo d’occhio».
E, i presenti emisero lamenti, imprecazioni, scossero il capo ma esternarono tutti la disapprovazione per la tua disattenzione. Shiryu e Shun si limitarono ad alzare gli occhi al cielo e mormorare «Kiki» come a dire: “Possibile?”
«Com’è successo?» Chiese Aiolia, inalberandosi subito: «Ti ha letto la mano? Ti ha costretto con una tecnica?»
«No, mi è semplicemente sfuggito».Confessasti imbarazzato.
Il Leone masticò una serie d’insulti che fecero sgranare gli occhi persino al più sboccato Death Mask. Shura si limitò a chiudere i propri e fare tre respiri profondi. Cocteau se avesse potuto, si sarebbe spiaccicato la faccia tra le mani.
«Non fa niente, la teniamo d’occhio lo stesso». Decretò Kanon.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Ancella del Grande Tempio ***


Ancella del Grande Tempio


Cocteau
“Incompetenti”. Pensasti.
Possibile che dovevi pensarci tu? Anche quando eri stanco e molto provato? Incanalare tutta quell’energia non era stato per nulla facile. Anzi, tuo fratello era stato costretto a chiamare il veterinario (neanche il dottore, il veterinario!) per accertarsi che tu stessi bene. Purtroppo, nelle tue condizioni, vi eravate dovuti abituare anche a questo.
Fortunatamente te l’eri cavata con parecchia stanchezza e un’occhiataccia del dottore a tuo fratello. «Non so cosa gli abbiate fatto fare, ma questa civetta ha bisogno di riposo, lo porterò con me alla mia clinica per un po’».
“No! Con gli altri animali no!” Avevi pensato inorridito prima di saltellare sul tavolo, verso tuo fratello gemello, che ti aveva raccolto e deposto sulla sua spalla. Spalla che avevi artigliato con forza come a implorarlo di salvarti.
Kanon aveva capito e aveva rifiutato la sua offerta dicendo che eri comunque l’oracolo di Atena e che senza di te tutti erano perduti. Ma che avrebbe mandato a chiamarlo in caso tu fossi peggiorato. E, meno male che ci aveva creduto perché se no sarebbe scattata una denuncia al WWF per maltrattamento di animali, come minimo. E, il signor Zoas, era molto sensibile a queste questioni, oltre che ad essere un animalista convinto.
Dopo l’ennesimo: «Grazie e arrivederci». Detto con una punta di durezza nella voce di Kanon, se ne era andato lanciandogli una lunga occhiata diffidente. Come a dire che non sarebbe finita qui. Solo quando la porta del suo studio si era richiusa avevi ripreso a respirare e lo avevi ringraziato.
Poi ti eri offerto per controllare Astrid.
«Sei sicuro?» Ti aveva domandato l’altro.
«Sì, ora come ora sono il più discreto tra tutti i Saint del Santuario. Posso tenerla d’occhio senza destare sospetti. E, poi, se mi vedesse, posso sempre fingere di essere veramente una civetta. Nessuno penserebbe mai che un animale sia qualcosa di diverso da quello che appare». Il tuo gemello soppesò le tue parole a lungo prima di darti il suo benestare: «Però ti metti all’opera domani. Ora pensa a riposare». Tu annuisti e comprendesti il reale motivo di quella richiesta. Non era tanto per la tua salute quanto per una questione di strategia. Era ovvio che quella ragazza adesso si aspettasse di trovare una spia alle calcagna.
Stringesti la presa sul ramo d’olivo su cui eri appollaiato. Con il senno di poi avevi costatato anche un altro vantaggio. E, cioè, che lasciando trascorrere un giorno, la ragazza aveva pianto di meno, come se andasse esaurendo gradualmente le lacrime. Onestamente, se non avessi atteso, il tuo animo nobile ti avrebbe fatto scoprire subito.
Invece così il dolore era già più diluito e tu sentivi di meno la compassione e il bisogno di aiutarla. E, pertanto, potevi concentrarti di più sulla missione. E, poi, se ti avesse visto probabilmente ti avrebbe ricollegato immediatamente a tuo fratello e addio informazioni.

Nei giorni seguenti non rivolse la parola neanche alla povera Castalia e si limitò a trascinarsi per casa come uno zombie e agire meccanicamente. Kiki tornò a trovarla nei primi due giorni successivi ma la Saint dell’Aquila, intuendo la causa del suo malessere, lo mandò sempre via. Invece, Death Mask e Aphrodite non ebbero neanche il coraggio di andarla a cercare, suscitando il tuo sdegno. Ma d’altronde perché quei due egoisti orgogliosi avrebbero dovuto? L’unico loro dovere era quello di proteggerla, non di farle da balia ventiquattro ore su ventiquattro. Neanche con Yoshino voi Cavalieri eravate così coinvolti. E, sì che lei era pur sempre Atena. Ma Astrid no, allora perché sentivi stringerti il cuore a quel modo e qualcosa dentro di te gridava nel vederla così triste? Il tuo animo nobile e benevolo stava rispondendo alla chiamata di quel piccolo cuoricino infranto? Possibile.

Una mattinata fredda e nuvolosa di tre giorni dopo, Castalia e Astrid uscirono di casa per andare a fare la spesa verso le dieci. La rossa ripassava la lista e Astrid ripeteva in tono distaccato ogni parola per memorizzarla e crearsi il suo dizionario di greco personale. Fortunatamente Aphrodite aveva provveduto, preso dal suo estro creativo, a procurare dei vestiti del Santuario ad Astrid prima che scoppiasse il caos. Altrimenti avrebbe attirato ancor più l’attenzione di tutti. Quale fu la tua grande sorpresa quando la vedesti seguire Castalia con indosso un poncho viola con i meandri gialli a fargli da bordatura e, il chitone bianco che le arrivava fino al polpaccio.
Ti alzasti in volo e le seguisti tenendoti a debita distanza.
A Rodorio ti appollaiasti su un tetto, proprio sulla via del mercato, piena di rumore e di persone già a quest’ora.
Mentre aspettavi che le due comparissero, vedesti Aphrodite e Death Mask seduti a un tavolo esterno di una locanda che parlavano. Death probabilmente stava cercando di bere già di buon mattino e darsi al gioco d’azzardo come sempre (erano in pochi quelli che non erano stati spennati da lui e, tu, eri tra quei pochi. Soprattutto perché non ci avevi mai provato e, anche volendo, cosa avresti potuto scommettere? Le tue setole?) E, Aphrodite probabilmente stava cercando di trascinarlo da qualche parte. Probabilmente dal barbiere per togliersi quel pizzetto. (Ormai mancava solo lui e tutti voi Gold tornati alla vita avevate abbandonato i basettoni tanto in voga negli Anni ’80 in favore di acconciature più moderne e, molti ci avevano guadagnato in bellezza. Anche se tu e tuo fratello vi eravate rifiutati di tagliare le vostre chiome).
A un tratto le due entrarono nel tuo campo visivo.
La maestra di Seiya si accorse di loro e volse il viso coperto dalla maschera verso la sua coinquilina che ora le camminava silenziosa al fianco e, decise di non farle notare la presenza dei due Saint. E, vi oltrepassarono. Tu ti alzasti in volo, certo che nessuno si era accorto di te e continuasti a spiare, appollaiandoti, però al palo della tenda del banchetto vicino a quello del fruttivendolo, dove la Silver si sarebbe fermata tra poco. Se la memoria non t’ingannava, quando le due avevano recitato la lista, ti era sembrato di sentire anche le parole “mele” e “pesche”.
Infatti la Silver Saint si fermò alla bancarella della frutta e cominciò a comprare le mele verdi e le pesche.
A un certo punto, mentre il fruttivendolo pesava la frutta sulla bilancia per decretare il prezzo, Astrid alzò il viso verso di lei e domandò: «Che cosa devo fare per essere assunta?»
L’uomo disse il proprio prezzo e la donna pagò e passò il sacchetto di carta alla coinquilina.
«Essere assunta? In che senso?» Le domandò mentre si allontanavano. Anche da lì riuscisti a vedere Astrid stringersi nelle spalle. «Sì, insomma, a chi devo rivolgermi per lavorare qui?»
«Ma nelle tue condizioni non puoi...» Iniziò ma il vociare della folla e l’allontanamento delle due ti impedì di sentire il resto, perciò ti alzasti di nuovo in volo e le sorpassasti. Ti appollaiasti sul davanzale di una finestra al secondo piano di una locanda.
Quando ti passarono di nuovo vicine, senza fare caso a te, sentisti la ragazza dire, con il tono con cui si da una risposta: «Sono abituata a lavorare. Un po’di lavoro non mi spaventa». Da dove eri riuscisti a vederla fissare gli occhi gialli nei suoi, inespressivi per via della maschera. E, anche da lì riuscisti a percepire tutta la serietà e la convinzione.
«Come vuoi, ma sei sicura?» Domandò lo stesso l’altra mentre si recavano in tintoria.
«Sì, devo trovare qualcosa da fare, perché se no impazzirò definitivamente. Non posso fidarmi di… me stessa. Non ora come sono. Ho bisogno di qualcosa che mi aiuti a restare con i piedi ancorati alla realtà e non mi travolga, capisci?» Spiegò, guardandola di nuovo.
Castalia non poteva fare molto, ma la richiesta della giovane ti sorprese. Non pensavi che avrebbe avallato una proposta come questa. Rinunciare al proprio grado di ospite per lavorare? Tempo fa avevi sentito dire che ormai i giovani preferivano intraprendere una carriera diversa rispetto a quella di domestico al Santuario. Perciò c’erano molti posti liberi e molta meno manodopera rispetto al passato. Chissà, forse c’era posto anche per Astrid.
«Sì, credo di sì, vieni con me». Fu così che svoltarono strada scomparendo alla tua vista.
Ti alzasti nuovamente in volo e le seguisti sempre stando attento a non farti vedere da nessuno.
E, dopo aver girato a vuoto per mezz’ora, le due trovarono la persona che poteva aiutarla: Galan; il secondo servo di Aiolia del Leone, nonché capo dei domestici del Santuario. Lo trovarono che stava attingendo acqua da un pozzo situato proprio sulla via del ritorno verso le Dodici Case.
Era stato promosso da quando i domestici avevano cominciato a reclamare i loro diritti istituendo una sorta di sindacato interno, (forse dopo aver incontrato Tatsumi ed era mancato poco che scioperassero) con a capo proprio Galarian, il quale si era ripreso dopo qualche anno dalla battaglia contro i Titani e aveva riassunto le sue mansioni. Era stato il Maestro dei Cinque Picchi, allora Gran Sacerdote provvisorio, ad avere l’idea ma l’anziano attendente l’aveva perfezionata. Poi, nelle decadi seguenti, soprattutto con l’avvento della crisi con le conseguenze finanziarie che voi tutti conoscevamo tutti, molti servi erano stati licenziati e così, onde evitare di perdere il posto, era stata istituita una sorta di rotazione tra i pochi rimasti. A turno un tot di servi si occupava di pulire e sistemare le Case dello Zodiaco e occuparsi delle faccende quotidiane in Casa dei Gold. L’altra si occupava delle strutture quali l’arena. E, non era un lavoro facile, considerando le lotte che si potevano trovare. Invece la Tredicesima era l’unica ad avere una servitù propria non in comune con il resto del Santuario.
Castalia lo chiamò. L’uomo dall’occhio cieco, la lunga chioma candida raccolta in una crocchia, la cicatrice e il braccio artificiale si volse verso le nuove arrivate. Era diventato un po’curvo con l’avanzare dell’età e ora portava un monocolo all’occhio buono. Ma l'udito era ancora buono. Il viso rugoso lo faceva somigliare a un affabile nonnino e i capelli ormai canuti e lisci, quando erano sciolti gli coprivano le scapole. Le mani erano callose e rovinate dagli anni dell’addestramento come aspirante Saint del Leone e poi dai lavori pesanti da servitore. Eppure il sorriso smagliante con cui le accolse era vero. «Nobile Castalia, che piacere vedervi». Sorrise affabile, come un anziano nonnino che saluta la sua nipotina. Nonostante le apparenze però non era il caso di sottovalutarlo. Galan non aveva dimenticato il vecchio addestramento ed era ancora capace di regalare delle sorprese e dare parecchio filo da torcere ai nemici. Un po’come Castalia.
«Galarian Steiner, il piacere è mio, vorrei che tu potessi dare una mano alla mia giovane amica».
Ciò detto la indicò e la presentò con un semplice: «Astrid av Stjernene». Lei salutò con un cenno del capo.
«Oh, tu sei l’Astrid di cui il padroncino Aiolia mi ha parlato». Disse il servo. Astrid distolse lo sguardo con un’espressione disagiata ma l’uomo aggiunse: «Non fare quella faccia, non mi sorprende che ne abbia parlato tanto con quelle iridi che ti ritrovi. Avete notato anche voi la loro bellezza, nobile Castalia dell’Aquila?» Allora Astrid lo guardò di nuovo, sorpresa, dopo tanta ostilità era sicuramente felice di ricevere un complimento. Quelle parole parvero restituirle il coraggio perché si ricompose e tirò fuori uno sguardo determinato e forte che non le avevi più visto da tempo. Forse si era ricordata che doveva fare una buona impressione.
La donna non rispose e il servo parve prenderla come una sorta di muto assenso perché sorrise: «Visto? Ecco, avevo ragione, dimmi, cosa posso fare per te?» Chiese con gentilezza. Astrid gli espose la sua richiesta in un greco un po’ stentato, senza scendere nei particolari e lui, infine, disse: «Bè, in effetti avremmo davvero bisogno di una nuova domestica, salvo quelle della Tredicesima Casa abbiamo bisogno di un paio di braccia in più. Ci sarebbe qualcosa che potresti fare, in effetti. Il mio padroncino mi ha narrato che tu hai un buon rapporto con Death Mask del Cancro e che non hai paura di lui. Questa è una cosa positiva, molti tremano solo a sentirlo nominare. E, anche a causa di ciò le persone non hanno il coraggio di avvicinarsi ad alcune delle Dodici Case per via delle stranezze» e, come Astrid avrebbe scoperto di lì a poco, stranezze era un eufemismo «dei loro Custodi, ed è raro che tu sia riuscita a terrorizzarne almeno uno. Sarò franco con te, alcuni dei servi temono alcune Case, come quella del Cancro o dei Gemelli e dei Pesci, soprattutto quella del Cancro da quando Death Mask ha fatto ritorno e la divide con quell’altro. Ti faccio fare una settimana di prova. Se poi accetti, la paga è buona sono diecimila dracme all’ora tutti i giorni per sette giorni, tradotto, guadagneresti ventinove euro e trentacinque centesimi all’ora, anche se il lavoro è molto». Astrid soppesò la proposta serrando la mascella. E, tu, che ti eri sempre chiesta quanto prendessero i servi. «Sempre che ti vada, ovviamente». Aggiunse notando la faccia della bionda. Castalia le tradusse tutto il discorso in italiano e Astrid, quando capì abbozzò un sorriso: «Ma no, figuratevi, ho fatto di peggio nella vita, almeno farò un po’di movimento». La rossa tradusse di nuovo e l’uomo la guardò con fare convinto, prima di sorriderle e porgerle la mano che la ragazza strinse. Il resto della conversazione proseguì con l’aiuto di Castalia, che continuò a fare da traduttore.
«Va bene, allora quando vuoi cominciare?»
«Il prima possibile».
«Domani ti andrà bene?»
«Certo!» Così, le dette tutte le istruzioni necessarie per svolgere al meglio il suo nuovo lavoro.
«Sicuro di non volere una mano, Galan?» Domandò a quel punto l’amica di Shaina, vedendolo prendere il secchio con un certo sforzo. Ormai soffriva di mal di schiena. «Non preoccupatevi, ce la faccio benissimo. Allora a domattina, Astrid. Ricordati di presentarti puntuale all’ufficio di collocamento di Rodorio».
Poi lo salutarono e si avviarono verso casa.
Dopo pranzo il cielo si schiarì e Castalia accompagnò Astrid a segnarsi all’ufficio di collocamento come nuova domestica per il Santuario. Lì gli addetti, una volta firmati tutti i moduli necessari, le spiegarono che l’avrebbero assegnato i compiti in base alle necessità del giorno e che avrebbe avuto un tot di tempo per svolgerli. Per esempio, lunedì avrebbe dovuto pulire, rammendare, cucinare e lavare i panni in una Casa in mattinata. Martedì avrebbe dovuto lavare le tovaglie di un’altra Casa, spolverare e lavare i pavimenti. E, così via. Per non parlare delle incombenze impreviste che sarebbero potute arrivare da parte dei Cavalieri.
Se proprio non c’era niente da fare, l’avvisarono che anche i Silver e i Bronze avrebbero potuto chiamarla.
Fossi stato in lei non saresti stato così entusiasta. Anche Castalia parve della stessa opinione, anche se l’aiutò a comprarsi i vestiti delle ancelle, cioè una serie di chitoni bianchi che le coprivano le ginocchia. Quella era ormai diventata la divisa ufficiale delle ancelle del Grande Tempio. Mentre uscivano dal negozio, per un momento ti parve di vedere il fantasma di un sorriso sulla maschera di Castalia. Ma forse era solo uno scherzo della luce.

Milo
Ti eri svegliato con una voglia matta di cantargliene quattro a quella strega bionda. Non perché avevi appena scoperto che uno dei collaboratori domestici si era ammalato e avevano mandato il sostituto, ma perché il suddetto rimpiazzo era proprio Astrid. E, tu proprio non la potevi soffrire. La prima volta che l’avevi vista ti era parso un brutto scherzo al tuo animo ancora ferito. Per un attimo ti era parso che Camus fosse tornato alla vita. Poi l’avevi guardata meglio e ti eri accorto che non era lui. Allora ti eri sentito ancora più perso che prima e arrabbiato. Arrabbiato nero. Se era uno scherzo, era veramente di pessimo gusto. Chi aveva avuto la brillante idea di introdurre quella lì nel Santuario? Come scusa avevi che era una strega, ma la verità per cui la attaccavi non era quella. Di là dal fatto che la stavi analizzando. Nel caso si fosse rivelata per quello che temevi, non avresti esitato a usare la Cuspide Scarlatta.
Eppure, nello stesso momento in cui lo avevi pensato (mentre facevi colazione), ti eri reso conto di non avere il cuore per stenderla come ti eri prefissato. E, avevi deciso che c’era qualcosa di sbagliato in lei. Chi era che si stava divertendo a giocare con il Santuario, adesso? Quale nemico c'era all'orizzonte?
Ancora non credevi che lei non avesse niente a che vedere con gli Specter, anche tra loro c’erano guerrieri che manipolavano la mente facendo vedere illusioni. In verità i tuoi timori erano più profondi di così: temevi che, facendola entrare in Casa tua, avrebbe potuto scoprire molto altro di te. Tutte le tue tecniche e strategie e oltre ancora, compresi i fatti di Asgard. Se qualche divinità a voi avversa l’avesse scoperto, non avevi idea di cosa sarebbe potuto succedere.
Quei giorni li avevi passati nella tua Casa, chiudendoti nel silenzio mentre i tuoi compagni, come Shura, Kiki, Mur e Aphrodite (che diavolo voleva quest’ultimo da te?), avevano cercato di parlarti (il primo) e spiegarti (i secondi). Ma cosa c’era da spiegare? Non avevi voglia di ascoltare i loro sproloqui. “Aspetta un momento!” Pensasti colto da un lampo di illuminazione “Quindi anche Shura lo sapeva! Ecco perché si è unito al gruppo! Brutto…”
D’accordo che non eravate così legati come lo eri a Camus, ma eravate legati dal vincolo della fratellanza dei Cavalieri e dal cameratismo. Anche Camus era stato uno di voi. Almeno in nome suo, se non in quello della vostra Dea, avrebbero potuto avere la decenza di avvisarti. Forse avresti reagito diversamente. Invece, no, avevano deciso di non dirtelo. Che si aspettavano, che non l’avresti mai incontrata? Forse era anche per questo che lei non ti piaceva. Perciò avevi deciso di aspettarla e farci un discorsetto a quattrocchi. Ti eri persino messo in assetto da guerra, con tanto d’Armatura indosso per essere più minaccioso. Peccato che ci stesse mettendo tanto che quasi non ne valeva la pena di stare sull’uscio.
Passò mezz’ora e cominciasti a porti due domande su questo ritardo. Non era come nella scalata dei Bronze alle Dodici Case, non aveva da affrontare nessuno.
Passato un altro po’di tempo ti eri seduto sulle scale e lì avevi aspettato. Erano passati in tutto Shura e Aphrodite, che, appena ti videro, ti avevano chiesto se stavi prendendo il sole, Ptolemy della Freccia, un gatto e quattro passerotti ma di Astrid neppure l’ombra. Eppure avevi sentito che si sarebbe occupata anche lei delle pulizie delle restanti Case. Che ti avessero menato per il naso? Soprattutto Cocteau al quale avevi chiesto conferme. Onestamente non ti saresti sorpreso dato i suoi precedenti. Scuotesti il capo: non poteva essere, quello lì neanche lo sapeva cosa significasse la parola “ironia”. Sperasti che passasse qualcun altro che, alla fine, per disperazione, ti ritrovasti a pensare alle teorie con cui Aiolia vi aveva ammorbato prima della partenza. Mai come quel giorno gli avevi gridato di tapparsi la bocca ed era partito il solito battibecco che vi portavate dietro dai tempi dell’adolescenza, su chi fosse più stupido e millantatore dell’altro.
Subito dopo, come se fossero collegati, i tuoi ricordi andarono a Camus. Secondo lui - che quando facevate così aveva finto spesso di non conoscervi - ve la battevate a pari merito. Purtroppo il povero ex Cavaliere dell’Acquario non si era ancora fatto vivo, né nel mondo né al Tempio. Non sapevate nemmeno se fosse tornato in vita. A volte cercavi il suo Cosmo in Siberia o altre lande che sapevi fossero i luoghi del suo addestramento, ma non avvertivi mai niente. E, ovviamente, non era che ti interessasse granché avvertire quelli dell’ex Saint del Cigno e di sua figlia.
Ricominciasti a preoccuparti e a domandarti dove potesse essere finito. Anche perché, per quanto Hyoga potesse starti simpatico, non era il tuo migliore amico di sempre.
Anche se non lo davi a vedere, il francese ti mancava. Se fosse stato vivo, avrebbe risentito ancora degli effetti del Tenbū Horin e non avrebbe ancora recuperato il completo uso dei quattro sensi, a parte l’udito. Quindi sarebbe stato costretto a girare con gli occhiali e appoggiarsi a te neanche fossi un bastone. Per il gusto, purtroppo gli sarebbe mancato il completo recupero delle papille gustative perciò alcuni sapori, ormai li avrebbe quasi dimenticati e gli odori li avrebbe sentiti a malapena. Poi il tuo pensiero scattò di nuovo ad Astrid e ricominciasti ad aspettare, cercando di allontanare da te la preoccupazione.
Alla fine passò talmente tanto tempo che ti togliesti l’Armatura in favore di abiti più comodi e decidesti di andare ad allenarti. Tanto avevi capito che Astrid doveva essersi persa.

«Buongiorno Milo, ci siamo alzati tardi stamattina?» ti accolse Aldebaran con il suo solito sorriso gioviale. Shaina era vicino a lui, la maschera ben calcata sul viso e l’armatura conforme a una signora della sua età, volse il volto verso di te e ti salutò.
«Spiritoso». Borbottasti e ricambiasti il saluto della moglie del Toro. «Non vedo Yoshino, dov’è?» Domandasti cercandola con gli occhi. «La nostra bambina è scesa in paese con Natasha, la figlia di Hyoga a fare compere». Spiegò il gigantesco custode della Seconda con un sorriso di pura adorazione nei confronti della figlia. «Capisco». Dicesti in tono asciutto.

Hyoga
Natasha non aveva amato fin da subito il viaggio che vi aveva portati dalla Siberia (in realtà non amava troppo neanche il luogo del tuo addestramento), alla Grecia. Però aveva adorato fin da subito l’Undicesima Casa, mentre a te aveva risvegliato i ricordi dello scontro con il tuo maestro. E, la tua bocca aveva assunto una piega mesta. La vostra presenza lì era triste. Ancora di più se pensavi che fosse dovuto soltanto alla preparazione di un’altra Guerra Sacra. In quei giorni avevi avuto paura di non vedere più tua figlia. D’un tratto avevi realizzato cosa avrebbe significato per te non vederla crescere, diventare grande, ed era stato devastante. Qualcosa dentro di te, all’altezza del cuore, si era rotto, ti aveva piegato le ginocchia e cadere bocconi e ti aveva fatto versare delle lacrime.
Sapevi cosa significava essere orfani e non avresti mai permesso che Natasha subisse lo stesso destino. La prima notte prima di scendere in campo avevi pensato a lei. Non avresti mai pensato di provare un sentimento ancora più forte e intenso dell’amore e della lealtà che provavi per la tua Dea. Persino più grande di quello che provavi per tua madre.
Più guardavi tua figlia, più volevi solo restare con lei. A lei avevi pensato quando eravate stati catturati e avevi desiderato con tutto te stesso di tornare dalla tua bambina che ti aspettava ai rifugi di Rodorio. Quando eri tornato, anche se malconcio e con la parte interna delle cosce ancora sanguinanti e doloranti per i morsi del Cavaliere della Dodicesima, la prima cosa che avevi fatto era stata quella di andare a cercarla. E, l’avevi individuata subito in mezzo alla folla (ancora spaventata ma sollevata dalla fine del conflitto) che usciva dai rifugi, in compagnia dell’ancella cui l’avevi affidata momentaneamente prima di scendere in campo. «Papà!» Aveva urlato quando ti aveva visto. Si era liberata dalla mano dell’ancella e ti era corsa incontro mentre t’inginocchiavi su un ginocchio e aprivi le braccia sorridendo, stanco, sudato, ferito ma felice di vederla. In quel momento avevi pianto. La bambina ti aveva gettato le braccia al collo e ti aveva assordato con la sua vocetta mentre ricambiavi l’abbraccio. L’ancella si era tenuta un po’in disparte ma poi si era prodigata ad aiutarti. Era stata lei ad aiutarti a tornare all’Undicesima, dove ti eri fatto medicare. Il fatto che lo scettro di Atena fosse andato distrutto ti aveva costretto a interrompere il tuo riposo per cercare di ripararlo. Ma né tu né gli altri c’eravate riusciti.
Solo adesso che la guerra era finita ti eri concesso il lusso di prenderti un momento di pausa. Anche perché le vostre ferite, (soprattutto i morsi di Aphrodite) non erano ancora guarite completamente. Death Mask, benché ne avesse buscate quanto voi, si era proposto un’altra volta di fare da babysitter a voi quattro, come in Giappone. Nella sua severità mescolata al divertimento, però, era quasi simpatico. Secondo Seiya significava che il Custode della Quarta era cambiato e, avevate visto vostro fratello esultare quando Cancer vi aveva portato un sacchetto con delle leccornie prese al mercato di Rodorio per farvi stare buoni. Una sorta di contentino, diciamo. Secondo voi vostro fratello era rimasto bambino dentro.
Stavi disfacendo la valigia nell’altra stanza quando avevi sentito il rumore delle molle del materasso nella camera vicina e ti ci eri precipitato immediatamente gridando: «Natasha!» Anche se adesso aveva nove anni, non era cambiata. Possibile che diventasse un angioletto solo quando dormiva? La tua bambina si era messa a saltare sul letto (rifatto in tempo per il vostro arrivo, evidentemente, giacché da quando eri diventato Gold, non vi avevi mai più messo piede) tutta felice.
Quella notte avevi sognato Camus sulle scale delle Dodici Case. Ti eri svegliato sperando che fosse tornato, invece, era stato quasi uno shock vedere quella che poteva esserne la figlia. Ma era tutta apparenza, bastava concentrarsi sui colori degli occhi e dei capelli e sulle sopracciglia, per distinguerli. Inoltre Camus era troppo intelligente perché si fosse abbassato così facilmente al livello di Milo di Scorpio. Tu avevi deciso di non mostrare quanto ti avesse turbato, ma concordavi con il tuo collega dell’Ottava: quella ragazza aveva qualcosa di sbagliato, ma ti eri ben guardato dal dirlo lì, in quel momento. Vuoi perché stare al fianco dei veterani ti metteva in soggezione, vuoi perché Milo era l’ultimo collegamento vivente con il tuo maestro che ti restava. Era stato anche grazie a lui se lo avevi conosciuto meglio. A volte tu e Milo parlavate di lui, ma erano rarissime. Il Cavaliere di Scorpio non amava parlarne e, tu, te ne accorgevi e tacevi d’istinto. Adesso eri con i tuoi fratelli riuniti nella Tredicesima, dopo aver provato a riparare lo scettro di Lady Isabel. Mentre Natasha era con Yoshino a Rodorio.
Il pensiero ti corse a Milo che era appena arrivato in arena.
Lui non l’aveva presa per niente bene, se fosse stato una donna, vi avrebbe accusato di tradimento e se ne sarebbe andato sbattendo i piedi e urlando. Invece era rimasto finché l’adunata non era stata sciolta e, quando se ne era andato, solo il viso lasciava trasparire parte dello sgomento e della confusione che la vista di Astrid gli aveva scatenato. E, ora a distanza di una settimana, non si era ancora calmato. Avresti voluto dirgli qualcosa ma era stata colpa tua la dipartita del tuo maestro e, non eri neanche sicuro che avesse smaltito tutto. Nonostante l’ammirazione non eri mai stato in rapporti stretti con lui.
Come se quello che aveva combinato Kiki non fosse bastato. Adesso Astrid ogni volta che vi vedeva girava il viso dall’altra parte. E, faceva così con tutti, persino con Aphrodite. Il Cavaliere di Ariete aveva un muso lungo fino a terra mentre il suo maestro restava sempre il solito: neanche l’Apocalisse gli avrebbe mai tolto quell’espressione tranquilla dal viso. Cancer rimaneva un enigma, come sempre.
Ti stavi allenando quando il sopraccitato fece il suo ingresso in arena. Stavi osservando il migliore amico del tuo maestro allenarsi con più foga e concentrazione del solito, forse cercando di sbollire la rabbia dovuta alla notizia dell’assunzione di Astrid. Ti eri fermato sui gradini per bere un po’d’acqua offerta da un domestico, poco distante dal gruppo di Death Mask, quando sentisti il saluto di Aphrodite, rivolto al nuovo arrivato.
«Ciao, Death». Ti girasti e vedesti Aphrodite e Shura, che avevano appena finito gli esercizi di riscaldamento, raddrizzarsi per guardare il Saint in canottiera rossa con le spalliere e pantaloni scuri avanzare verso di loro, le mani in tasca.
Anche lo spagnolo lo salutò.
«Ciao Aphro, Shura, Cocteau». Ribatté il siciliano.
Cocteau era appollaiato su un gradino vicino ricambiò e i topolini sulla testa gli fecero eco.
«Avete finito di massacrarvi per oggi? O vuoi farlo gareggiare a chi si infuria di più?» Domandò lo spagnolo con un piccolo sorriso divertito riferendosi rispettivamente a Lancelot e a Milo. “Neanche fosse una gara”. Pensasti assottigliando gli occhi mentre il paggio del Grande Tempio andava a servire da bere a qualcun altro e Death Mask roteava gli occhi.
«Nah, ha di nuovo cercato di farmi fuori e io l’ho legato a una colonna. Dovresti spiegare al tuo sottoposto che un giorno o l’altro potrei seriamente incazzarmi e allora sì che si metterà in ginocchio a pregare, oppure ti chiamo davvero per dirgliene quattro, che cosa ne pensi?» Rispose divertito. Tu non conoscevi molto bene Lancelot, ma qualcosa ti diceva che Death stesse esagerando.
«Te lo ripeto, io non sono re Artù, non ho idea di cosa parli quel pazzo e, soprattutto, non è un mio sottoposto; se la divina Atena ha deciso così, non ho colpa». Rispose con calma il moro, lavandosene le mani, mentre si metteva in coppia con Aphrodite e preparava Excalibur. Quando si allenavano, non lo facevano con il cloth indosso, non ce ne era bisogno. Anche se ciò li rendeva più deboli, non dovevano mica uccidersi a vicenda, se non altro, non più, visti precedenti.
«Ma sembri essere l’unico che tratta con un po’di rispetto». Osservò Death mentre cominciava a riscaldarsi.
«Sono sensi di colpa, non rispetto». Ribatté l’altro mentre cominciava a disegnare un cerchio con Aphrodite, che si era spostato per restargli davanti. Sembravano due fiere che si studiano prima di saltarsi addosso. Il tutto senza staccarsi gli occhi di dosso.
«Dopo una figuraccia così ce li avrei anch’io». Commentò quest’ultimo materializzando dal niente delle rose nella mano. «Pronto, Shura?» Domandò poi con uno scatto della testa per togliersi i capelli dal collo. «Non aspetto che te». Ribatté il Cavaliere del Capricorn con un sorriso di sfida e lasciò che l’amico lo attaccasse.
Lo svedese non se lo fece ripetere due volte, elevò la mano e cominciò a tirare le sue famigerate rose, mettendo a dura prova fin da subito i riflessi del compagno. Il quale non si lamentò nemmeno mentre schivava con agilità i letali dardi del tiratore.
Intanto Death Mask cominciò ad allenarsi con la sua stessa ombra. E, nei loro movimenti tu ravvisasti una potenza e una precisione che ti sembrò di non avere ancora. Ogni movimento era calcolato alla perfezione, senza eccessi e senza fronzoli, senza errori.
«Ah, ho sentito che il Gran Sacerdote ti ha affidato l’incarico di Kiki. Come sta andando?» Domandò il siciliano.
«In realtà non ho ancora cominciato. Troppi pensieri ho avuto per la testa, ultimamente». Rispose scagliando fermando l’Excalibur di Shura con una rosa. Ma si capiva che Shura non aveva usato tutta la sua potenza, altrimenti quella rosa e quella mano sarebbero state tagliate.
I due sfidanti passarono al corpo a corpo. A un tratto Aphrodite aggiunse, quasi che fosse una cosa che gli fosse venuta in mente in quel momento, mentre sferrava un calcio volante a Shura che evitò chinandosi per spazzare il terreno con una gamba e buttarlo al tappeto, sollevando un po’di polvere. Ma il custode della Dodicesima fece il ponte all’indietro e si mise fuori portata del colpo di Shura, facendogli digrignare i denti.
«Bè, prega che ad Astrid non salti in mente di liberarlo, quel ragazzo è totalmente imprevedibile».
L’italiano si fermò e lo guardò con aria interrogativa. Lo svedese spiegò, mentre evitava gli attacchi dello spadaccino. Il quale, sfruttando un errore di distrazione, aveva cominciato ad attaccare. «Ha cominciato a prestare servizio come ancella presso il Grande Tempio».
«Allora è vero che quel pazzo di Kanon le ha accordato l’autorizzazione?» Domandò senza nascondere la sua sorpresa mentre riprendeva a combattere con la propria ombra.
Anche se al Gran Sacerdote portavano il rispetto che si confaceva alla sua carica, sapevano benissimo chi si celava sotto quella maschera. Perciò anche ricoprire quel ruolo non lo esentava dagli allegri sberleffi degli altri Gold. Tu ti astenevi perché proprio non riuscivi neanche a mormorare mezzo insulto, non faceva proprio parte delle tue corde.
«Come lo hai saputo? Pensavo che lei avesse smesso di parlare con noi». A queste parole ti parve che la sua voce s’incrinasse. Lo vedesti serrare la bocca e fermarsi.
Era la tua impressione o ti sembrava turbato? Lui? Lo stesso che vi aveva quasi ammazzato e che aveva spedito Shiryu e molti altri nella Bocca dell’Ade? Strinse i pugni mentre assumeva un’espressione frustrata. “A che cosa sta pensando?” Ti domandasti interessato sedendoti sulla gradinata più bassa.
«In realtà no, ha fatto tutto da sola, l’ho saputo da fonte certa e attendibile». Disse Aphrodite.
Tu guardasti l’animaletto insieme a Death. Il quale non ricambiò e fissò concentrato i due combattenti. Quello ne sapeva una più del diavolo, inoltre non gli ci voleva niente per nascondersi e osservare tutto senza farsi neanche notare. Era persino più discreto di Aphrodite e le sue rose. Ma niente batteva in discrezione la telepatia di Death Mask.
A proposito di tecniche di spionaggio, non potevi permetterti di farti scoprire. Eri sicuro che non sarebbero stati affatto felici di sapere che tu stavi origliando. Perciò ti mettesti a scrutare anche tu i presenti che si allenavano, fingendo un interesse che non provavi affatto, mentre ascoltavi.
A un tratto Cocteau domandò al siciliano se fosse preoccupato per Astrid, dal momento che sicuramente avrebbe incontrato il Lost Saint. E, i tre si lanciarono in una filippica sulla pietà e l'ingenuità femminile. Il Lost Saint? Lancelot? Perché? Ripensasti al Cosmo inferocito del suddetto che avevi sentito pochi minuti prima che Death Mask facesse la sua entrata in arena. Cosa avevano fatto stavolta?
Le tue membra furono percorse dall’impulso di correre a verificare che la ragazza stesse bene. Eppure qualcosa ti fece restare ad ascoltare. Death Mask li zittì tutti e tre con queste parole: «Non credo che lo farà, non è così scema da cacciarsi nei guai». Poi cominciò a sferrare una serie di calci al niente. «Non sarebbe stato più semplice scriverle un biglietto?» Gli domandò la civetta e i topolini fecero eco alla parola “informazione”. «Nah, non credo sia necessario». E, in quelle parole avvertisti la fiducia nell’intelligenza di Astrid. Perché si fidava così tanto di quella sconosciuta? “Sarà”, ti dicesti. “Ma è meglio se vado a controllare”.
Così ti alzasti e uscisti dall’arena.

Astrid
«Accidenti a queste scale e chi le ha inventate! Accidenti all’architetto di questo stra-maledetto Tempio». Borbottai tra i denti lanciando un’occhiata fulminante alla rampa, che se ne restò lì, impietosa. Come diavolo avevo fatto a farmi di corsa la prima parte della scalinata? Come? Che l’acido lattico mi era rimasto per tre giorni la prima volta e altri tre la seconda. (Fortuna che le ferite ai piedi erano guarite da un bel pezzo).
Anche se ormai la settimana di prova era appena iniziata (e io avevo ripassato la Camera del Senato e la Camera dei Deputati a suon di imprecazioni) i progressi tardavano ad arrivare. Dicevano che fare escursioni tonificasse il fisico. Io, per il momento non avevo ancora visto nessun progresso. Non solo avevo ancora quel poco strato di adipe che mi ammorbidiva, ma dovevo riposarmi sempre a metà rampa tra una Casa e l’altra prima di ricominciare, non solo per via del sovra sforzo e del bruciore alle pareti interne delle narici, nonché dell’acido lattico ridestatosi improvvisamente con la prima salita. Anche adottare un’andatura più lenta non mi aiutava. Peccato che non ci fossero né scale mobili né ascensori. Avevo cominciato a lavorare tre giorni dopo le rivelazioni di Kiki. La voce non si sparse a giro e nessuno mi fece domande. Forse ero già passata di moda e, questo era una gran bella notizia per me. Anche perché non mi piaceva essere in primo piano. Anche se c’ero già, visto che ero vestita con un chitone di foggia greca che mi arrivava fino alle ginocchia e portavo un secchio e un mocio. Gli altri servi mi avevano assicurato che il resto l’avrei trovato nelle case, ma, chissà perché, il mocio era l’unica cosa che si finiva per non trovare mai.

La Casa dell’Ariete profumava di aria di montagna, pezzi di ferro, sale, ruggine e un vago odore di bruciato. Non avevo mai sentito un aroma del genere. Per il sale e la ruggine avevo una vaga idea di cosa potesse significare, ma, qualunque cosa avessi in mente, non aveva niente a che vedere con i ricordi di Death.
Stando alle mie mansioni (che mi ero appuntata su un foglietto per non scordarmele) per prima cosa avrei dovuto rassettare gli appartamenti privati della Casa dei Gemelli e, ci persi parte della mattinata. In parte perché non avevo mai visto così tanta polvere in tutta la mia vita. In parte perché c’era un assoluto bisogno di fare qualcosa e, anche se i Templi mi erano sempre piaciuti, questo aveva un non so che di spettrale.
Quando finii mi avviai alla casa del Cancro.
Mi era rimasto ancora qualcosa dei ricordi di Death, quindi ero più preparata di altri allo spettacolo offerto dalla sua tappezzeria. A dir la verità non era molto inquietante, diciamo che con Death avevo cominciato ad abituarmi al suo gusto dell’orrido. E, delle maschere che quando potevano ululavano e lanciavano lamenti strazianti da Casa degli Spiriti. Tralasciando i fuochi fatui che girovagavano per la dimora, ovviamente, ma che non riuscivo a scorgere per mancanza di doni medianici. Avevo appena messo piede dentro casa quando le maschere aprirono bocca e parlarono (avevo dimenticato che potevano farlo). Sobbalzai strillando e per poco non spiccai un balzo degno di Spider Man.
Il padrone di casa mi ritrovò rintanata sotto il tavolo della cucina verso le undici (lo so perché aveva un orologio appeso in quella stanza). E, quando mi vide scoppiò in una risata sguaiata. Prima di oggi non avevano mai urlato e, nei ricordi di Death, quella colonna sonora, che si sposava alla perfezione con Fortuny nei migliori film horror e i deliri da "Io sono il più forte di tutti i Gold!", l’avevo completamente dimenticata. Sghignazzò divertito per quasi cinque minuti, poi mi schernì, mentre mi aiutava a uscire dal mio rifugio. «Non pensavo che fossi così suggestionabile, non ho dovuto fare altro che espandere il mio Cosmo e farle gridare per farti fare un salto!»
«Ma brutto…! L’hai fatto apposta!» Feci smettendo di lisciarmi le pieghe della gonna nel tentativo di darmi un contegno.
«Scusami ma l’occasione era troppo ghiotta per lasciarmela sfuggire!» Continuò a sghignazzare con quella voce agghiacciante quando rideva. E, ‘sto stronzo si credeva pure un simpaticone! Come no, per Halloween funzionava sicuramente! Come potevo ridere con lui come se niente fosse dopo quello che (mi tornò in mente) mi aveva rivelato Kiki? Tuttavia, invece che concentrarmi su questo pensai che dovevo essere veramente ridicola. Un sorrisetto piegò la mia bocca e gli detti un pugno finto sul braccio e lui rise ancor di più prima di poggiarmi una mano sulla testa e farmi pat pat neanche fossi una bambina. Borbottai qualcosa di inintelligibile che lo fece sganasciare ancor di più e poi, quasi piangendo dalle risate, se ne andò.
Attesi qualche minuto per calmarmi.
Poi, uscii dalla cucina.
Le maschere si erano acquietate e un silenzio soddisfatto regnava nell’atrio. Feci un sospiro di sollievo, raccolsi il mocio e il secchio che avevo abbandonato nel corridoio e, proprio allora, mentre mi raddrizzavo, sentii un mugolio. Mi girai pensando che fosse una maschera e, invece, sgranai gli occhi. La vista di un tizio legato come un salame alla colonna era nuova. Che ci faceva lì? Aspetta, ma quello non era il ragazzo che aveva cercato di fermare Neera dallo spaccarmi la faccia? Quello strabuzzò gli occhi e fece delle smorfie come a dire: “Finalmente mi hai visto!” e cominciò a dimenarsi e mugolare con più foga, nel tentativo di liberarsi. Peccato che qualcosa mi trattenne dallo slegarlo, anzi, feci pure un passo indietro, spaventata. Voglio dire, se era legato, un motivo c’era, inoltre, io non avevo proprio idea da che parte cominciare per sciogliere o spezzare delle catene e dubitavo che ci fosse un piede di porco da qualche parte. Perciò mi avvicinai. Lui si zittì e mi osservò speranzoso. Solo che dissi in tono di scuse: «Scusa, ma non me la sento di liberarti, non so come potresti reagire».
Mi guardò stupefatto e borbottò qualcosa che, a causa del calzino bagnato di saliva, ficcato nella sua bocca, non capii e che non tolsi per disgusto: non ci pensavo neanche a toccare quell’affare. Mi limitai a promettergli che non avrei toccato la sua stanza. Però dovetti pulire per forza tutto il resto. Mi misi al lavoro, non senza qualche difficoltà.
Completai le pulizie dopo un paio d’ore e poi, giusto per pietà, riempii una bottiglietta vuota che trovai in cucina con un po’d’acqua di rubinetto e andai dall’incatenato: «Ascolta, vuoi un po’d’acqua? L’ho riempita adesso». Proposi accennando alla bottiglietta.
Quello mi fulminò con lo sguardo, però annuì. Aveva smesso di dimenarsi da mezz’ora per stanchezza e quel poco che gli restava della voce dovesse essersi esaurito, quasi come la saliva. In fondo aveva passato tutta la mattina a urlare e lamentarsi assieme alle maschere: «D’accordo, allora se ti tolgo il calzino non provare a mordermi, chiaro?» Contrattai.
Annuì di nuovo.
Nonostante che fosse meno orgoglioso di Death e Aphro, credo che in circostanze normali non avrebbe mai accettato, però era anche vero che queste non lo erano.
Gli lanciai un’occhiata diffidente e lui roteò gli occhi con un verso che stava dicendo: “E, che noia, dammi l’acqua”, poi cercò di abbozzare un sorriso di ringraziamento ma non ci riuscì per via del calzino. Mi domandai perché non lo avesse sputato, però lo accontentai.
Dovetti procurarmi uno sgabello per arrivare alla sua altezza. Eppure, anche così, riuscii comunque a bagnarlo per via della posizione scomoda. Mosse meno lamentele di quanto mi aspettassi.
Una volta dissetato mi ringraziò con sviolinate da ciclo bretone che avrebbero incantato moltissime ragazze. Ma non me. Lo vedevo benissimo che non aveva tutte le rotelle al posto giusto, non occorreva essere Heinstein per capirlo. Perciò scesi dallo sgabello, gli lanciai un’occhiata dispiaciuta e raccolsi il calzino. Solo allora s’interruppe per sgranare gli occhi, spaventato. «Che cosa vuoi fare con quell’arnese?»
«Non mi va di incorrere nelle ire di Death Mask, però...» Lo tirai e appurai la sua effettiva elasticità. Per quanto riguardava le mie mani, me le sarei ripulite dopo.
Lo guardai e lui scosse il capo.
Contrariamente a quanto aveva creduto mi limitai a usarlo come bavaglio. Fu quasi una lotta perché cercò di sottrarsi, ma appena mi urlò addosso, bloccandosi, ne approfittai e glielo legai saldamente dietro la nuca. Ma neanche questo bastò a zittirlo, che la sua voce ovattata continuava a permeare il corridoio di passaggio con le sue grida soffocate.
Mi scusai mentre quello mi urlava un po’più distintamente che ero una strega e un’imbrogliona e che si sarebbe vendicato.
Sperai che Death provvedesse a renderlo prima inoffensivo quanto prima, altrimenti chissà cosa avrebbe architettato.
Poi, affrontai le altre Case.

Alla Quinta mi persi un po’ad ammirare lo stile architettonico. Devo ammettere che mi piacevano davvero i leoni di fronte all’ingresso. Facevano un po’ cattedrale o duomo medievale. Io stessa avevo una foto in groppa a una delle statue che ornavano il duomo di Parma risalente ai miei tredici anni in gita con la scuola.
Anche se erano passati sette giorni non mi stancavo mai di ammirarli. Erano splendidi.
Qui, tra queste mura rischiarate da delle fiaccole che facevano molto fortezza alto medievale, ebbi modo di ritrovare Lythos. Anche se sulle prime non la riconobbi immediatamente. Fu lei, ad accogliermi, quando chiamai: «C’è nessuno? Dovrei passare». Galan mi aveva parlato di questa strampalata usanza. Non avevo idea di quale fosse la formula di rito da usare, ma sperai che andasse bene lo stesso. Dovetti provare almeno tre volte prima di ottenere una risposta. Solo alla quarta, quando mi ero quasi arresa, una voce femminile aveva domandato: «Chi è là?» Mi volsi in direzione della voce. Vicino a una colonna aveva fatto la sua comparsa una donna di mezz’età con i capelli corti, verdi chiari e il sorriso di una ragazzina. Era più bassa di me di pochissimo. «Oh, allora non mi sono sbagliata quando ho sentito una voce sull’ingresso. Eri proprio tu». Mi venne incontro per stringermi la mano tra le sue, subito dopo si scusò per il comportamento del fratello maggiore, in infermeria. «Sì», sorrisi, sfinita, mentre respiravo dal naso per riprendere fiato. «Lei è Lythos, giusto?» Salvo poi serrare la bocca, già, qui si usava dare del voi.
Fortuna che cominciavo a capire qualcosina di greco, a forza di parlare con Castalia.
In sostanza Lythos mi disse: «Certo, mia cara, non ricordi? Ci siamo già viste in infermeria qualche giorno fa. Ma dammi pure del tu». Sciogliendo la stretta. «Cielo, hai degli occhi splendidi, ancora di più quando c’è così tanta luce!» Esclamò poi quando incrociò il mio sguardo. In effetti, per essere ottobre, quella mattina c’era molta luce. Sorrisi e ringraziai.
«Il padroncino me lo diceva sempre che avevi degli occhi indescrivibili, però, ora che ci penso, si è molto rabbuiato ultimamente. Erano anni che non lo vedevo così. Galan mi ha riferito che sei diventata un’ancella anche tu. Mi dispiace, ma oggi qui non c’è niente da fare, ci ho già pensato io». Per scusarsi mi offrì qualcosa da bere e un panino che, a sua detta, mi vedeva disidratata. Anche se non era la custode della Casa, mi sembrò una scortesia rifiutare, perciò acconsentii. Mi condusse in cucina, molto diversa da quella di Death e della Terza.Per dirla in poche parole, non mi sarei mai aspettata di trovare un arredamento così dimesso e pareti e pavimento di legno, in un Tempio così grande. Neanche la casa di Indiana Jones era così rustica. Mi fece accomodare e mi servì quanto promesso che divorai avidamente e che, in poco tempo, mi restituì le energie. «Grazie, ci voleva». Dissi, asciugandomi la bocca con il polso. «Figurati, Astrid. Spero che tornerai a trovarmi, mi farebbe davvero piacere conoscerti». Avevo qualche dubbio ma risposi un: «Senz’altro, ah, avresti un elastico per capelli?»
«Un elastico? Mi dispiace, tesoro, non ce l’ho, però ho un nastro, ti va bene uguale?»
«Sì, va bene lo stesso».
«Vuoi che te li leghi io?» Disse di fronte alla mia indecisione quando me lo mise in mano.
«Sì».
Lei ridacchiò divertita dalla mia uscita e, mi accontentò. Mi sentii una perfetta idiota ma non potei farci niente.
Alla fine uscii da quella Casa con i capelli legati.

Approdai alla Sesta; che era un misto tra un tempio greco e un luogo di culto buddista, trovai Shun. Lui mi salutò con un buongiorno e un sorriso amichevole (anche se ormai era già pomeriggio), che, nonostante tutto, mi spaventò lo stesso. Lì per lì non capii che cosa ci facesse qui finché non mi ricordai che era il Gold Saint di Virgo. Il che significava che era il custode della Sesta Casa.
Ops, con tutto quello che era successo me ne ero completamente dimenticata.
«Non mi avevi detto che eri diventata un’ancella del Grande Tempio. Come stai? Tutto a posto?». Mi domandò.
«Non c’è male, bella casa… Un po’strana, ma bella». Mi ritrovai a dire, a proposito dell’arredamento.
«Ah, grazie, in realtà non l’ho arredata io, era già così quando l’ho trovata, ma sono indeciso se apportare o no dei cambiamenti». Ciò detto lasciò cadere il discorso e la frase restò a mezz’aria tra noi finché non mi decisi a rispondere alla domanda precedente. «In realtà sarei in prova, voglio provare a guadagnare un po’di soldi per tornarmene a casa». Rivelai.
Il dottore mi fece un sorriso comprensivo. «Mi sembra giusto, dopotutto sei nostra ospite». Se era così, perché sentivo di non potermi fidare del tutto? Perché, ovviamente, non avevo ancora dimenticato il modo in cui ero diventata loro ospite. Non mi era per nulla piaciuto. Non l’avevo mica scelto io. A proposito, mi ricordai come mi aveva chiamata la prima volta che ci eravamo visti: «Scusa se te lo chiedo, ma come avete fatto a scoprire il mio cognome se io non ve l’ho detto e, se la mia borsa è rimasta in Italia?» Che poi a quest’ora me l’avevano sicuramente rubata e buttata via.
«La fondazione Grado ha coperto tutte le tue spese ospedaliere e, grazie ai numerosi contatti ha potuto risalire al tuo cognome».
«Quindi se lo chiedessi a Lady Isabel lei potrebbe restituirmi tutto quello che mi serve per lasciare il Santuario?»
Un’ombra di dispiacere passò sul volto del Cavaliere ed io mi morsi la lingua. Ero stata veramente maleducata e indelicata. Però rispose, anche se, senza troppa convinzione: «Non saprei, Lady Isabel gestisce la fondazione Grado ed è anche la Dea Atena, è molto impegnata». «Ho capito, non ti preoccupare, se lei non può, mi rifarò tutto da sola».
«Va bene, come desideri. Vuoi passare?» Domandò con garbo, intuendo la domanda che forse il mio tentennamento e il mordicchiare insistente del labbro inferiore poteva suggerire. Ma appena udii quelle parole evitai addirittura di incrociare i suoi occhi. Era come se avessi un rospo in gola e non mi riuscisse sputarlo. D’altronde non mi scusavo mai per quello che pensavo o dicevo. Lui, nonostante le stranezze, mi aveva aiutato e si era dimostrato molto gentile con me. Che figura ci facevo a comportarmi così? Ora che ci pensavo, da quando mi avevano dimesso, non mi ero mai azzardata a fare caso a lui. Non sapevo, dove si allenasse o se sperasse davvero di rivedermi. Shun mi sorrise comprensivo e mi disse di non preoccuparmi, che per me le porte della Sesta sarebbero state sempre aperte.
Raccolsi le mie cose e lo superai. Lo sentii girarsi ed io lo guardai da sopra una spalla: «Un giorno di questi beviamo qualcosa insieme». Gli promisi sorridendo mentre mi avviavo verso l’uscita.
«Va bene». Mi sorrise a sua volta, anche se nessuno dei due ci credeva davvero.
Poi uscii.

Arrivai alla Casa di Shiryu di Libra, il quale giunse sulla soglia appena mi sentì domandare se ci fosse stato qualcuno: «In questa Casa ci sono solo io, mia moglie e mio figlio sono andati al mercato a fare la spesa». Mi sorrise gentilmente.
«Oh, capisco».
«Tu devi essere Astrid, non è così?» Disse.
«Sì, lei, cioè, voi, come…»
«L’accento. E’ più lieve di quello di Death Mask, somiglia a quello di Shaina, oltre voi tre non ci sono altri italiani, qui». Spiegò.
«In realtà sono italo norvegese». Dissi passando all’inglese (o, almeno, a quel poco che mi ricordavo, rispolverando velocemente i miei studi, maledetta ruggine). Avrei parlato in norvegese ma non ero sicura che conoscesse quest’idioma, che, per me, era la mia seconda lingua madre.
«Davvero?» Domandò stupito inarcando le sopracciglia, sempre in inglese.
«Di terza generazione, ho detto bene? Non sono molto brava con il greco».
«In effetti sei un po’ incerta, ma sono sicuro migliorerai». M’incoraggiò e sorrisi di nuovo, rassicurata.
Mentre parlavamo ne approfittai per osservarlo. Era alto e con i lunghi capelli neri lisci che gli sfioravano la vita. Aveva un timbro vocale profondo e piacevole. Nel complesso mi infondeva serenità e mi venne spontaneo sorridergli. Lui ricambiò il sorriso. Sebbene ricordassi perfettamente che, anche lui, era presente al primo fallimentare colloquio e, non solo.
Non ci avevo più pensato.
Non mi accorsi della sua cecità finché non mi accorsi della fissità del suo sguardo e della sua vacuità. Fu strano e imbarazzante, perché, da come si muoveva, non l’avrei mai detto. Eppure me lo sarei dovuto ricordare. Si vede che i ricordi di Death stavano cominciando a sbiadire. Da un lato era anche un bene.
«Tutto bene?» Mi domandò, accorgendosi del mio turbamento. Vorrei anche vedere se non se ne fosse accorto, avevo trattenuto il fiato rumorosamente e una delle mie mani era corsa a tappare la bocca.
La mano scivolò giù, scoprendo le labbra: «Sì è solo che… che i vostri occhi…» formulai incerta agitandomi la mano di fronte alla faccia, come se lui avesse potuto vedermi. Però capì lo stesso.
«Lo so, non ti preoccupare, è una vecchia ferita. Dicono che tu sia identica a Camus, l’ex maestro di Hyoga, è vero?» Domandò.
«Sì, solo che io sono bionda e ho gli occhi gialli, credo di essere più bassa di lui di», ripensai alla foto e all’altezza di Milo, «credo sette centimetri. Lei, cioè voi, avevate già perso la vista quando lo conosceste? Scusatemi per l’indiscrezione, è che qui non fanno altro che additarmi come sua figlia».
«Sì, però in Hades, durante la Guerra Sacra, ho potuto vederlo e Hyoga qualche volta mi ha parlato di lui. Diceva che fosse un tipo severo e molto esigente, a tratti glaciale, ma che ci teneva davvero che Hyoga completasse il suo addestramento».
«Era dell’Acquario, per caso?» Domandai.
Si accigliò, perplesso per la domanda: «Sì, il suo segno mi pare che fosse quello, perché?»
«Credo di essermi fatta un’idea, allora». Lui fece una smorfia interrogativa ma dissi solo: «Curiosità mia». Non mi andava di dirgli che mia madre mi aveva insegnato a riconoscere e a comprendere le persone dal segno zodiacale. Il che era imbarazzante, considerando che in ballo c’erano molti fattori, tra cui il suo vissuto. Ma, quello più importante, era che potevo interpretarli come i primi modelli psicologici della storia umana.
«Capisco, vuoi passare?»
«Sì, certo». La Settima Casa non figurava nella lista.
«Allora vai pure».
«Grazie». Dissi e mi avviai verso l’uscita. Lui mi seguì con i suoi occhi ciechi e sorrise: «No, grazie a te della conversazione». Lo salutai un’ultima volta e, poi uscii dalla Settima Casa.
Proprio in quel momento, mentre salivo le scale, la mia mente mi restituì le immagini di un vecchio sogno che avevo fatto prima del loro ritorno dalla Guerra Sacra contro Artemide. Ora che ci pensavo, contando quel sogno, quello sulla rupe, quello della pineta, mi ero sognata quasi tutti loro. Chissà perché. Che la mia mente fosse già collassata prima di incontrarli tutti? Possibile, nonostante tutto che mi era accaduto. Sapevo che era possibile fare sogni premonitori, almeno con quello dello Scorpione era stato così. E, soprattutto, non per me, che avevo incanalato quest’abilità nella lettura delle carte e che controllavo ormai alla perfezione da anni. Non che fossi così potente, facevo sogni premonitori come una persona normale. Ma gli altri? Gli altri non saprei dire che cosa fossero stati. Forse erano solo una coincidenza. Oppure un collegamento. Esisteva un collegamento tra me e loro? Non tanto come, che lo avevo capito dal momento che erano le stelle e il mio potere il collegamento, quanto piuttosto, perché? Perché esisteva questo collegamento?

Mentre ci pensavo mi recai alla Casa dello Scorpione con la speranza di non incrociare quell’antipatico sul mio cammino. Grazie al Cielo andò così e potei occuparmi del bucato in santa pace. Dovevo solo stirare i vestiti che un’altra serva aveva appeso allo stendino. Perciò, andai a cercare un cesto o una bacinella dove riporre il bucato e, la trovai nello stanzino delle scope, ove era riposta anche la tavola da stiro con tanto di ferro a… carbone? «Scherziamo?» Esclamai. Cioè, significava che qui non avevano neanche l’impianto elettrico? Giusto l’acqua corrente? Non era possibile. «Non ditemi che per scaldarsi di inverno ricorrono ancora alla padella con la brace da mettere sotto al materasso!» Esclamai allibita e scoraggiata, ricordandomi Pirati dei Caraibi, la maledizione della prima Luna. Guardai meglio per vedere se riuscivo a trovare un ferro da stiro moderno riposto sulle mensole ma non ne trovai nemmeno l’ombra. «No!» Mi lamentai. Raccolsi il bucato e dovetti usare le braci del caminetto che il servo aveva lasciato acceso dopo aver cucinato e, con le pinze (che trovai vicino al camino) riempii il vecchio ferro.
Mi feci il segno della croce, sperando di non bruciacchiargli nessun abito e poi stirai. Fortunatamente non bruciacchiai quasi niente (sperai che non si fosse accorto del buchetto all’angolo della maglia che per sbaglio avevo bruciacchiato con la punta del ferro). Poi, quando finii, lo svuotai, facendo attenzione a non scottarmi con il p. d. m. (speranza vana) e, borbottando accidenti su accidenti aprii il rubinetto e mi sciacquai la mano con l’acqua fredda. Avrei pensato in seguito a medicarmi la scottatura, tanto non era molto grave. Ficcai sotto al getto d’acqua il p. d. m. che fumigò e, quando fui sicura che fosse diventato abbastanza arrugginito, lo ricacciai al suo posto e piegai i vestiti. Quando finii mi accorsi che questo posto necessitava di un lavaggio ai pavimenti. Sarebbe anche stato il minimo, considerando che gli avevo distrutto il ferro da stiro e bruciacchiato una maglia.
«Per fortuna ti sei portata dietro il mocio». Mi dissi e mi guardai attorno nel tentativo di trovarlo. «Ma, dove l’ho messo?» Chiesi ad alta voce, non ricordandomi dove l’avevo messo. La ciliegina sulla torta del mio disagio. Perfetto. Rifeci il giro della Casa tre volte, prima di ritrovarlo. In compenso scovai in ordine, il salotto, il bagno, la camera da letto e una sala, dove si trovava una sorta di altare per una statua d’oro a forma di Scorpione.
Non ne avevo mai vista una prima così.
Mi avvicinai sorpresa e affascinata. Quella era la Sacra Armatura dello Scorpione quando non avvolgeva il suo proprietario? Non le avevo mai viste prima, separate dai loro padroni. I ricordi non valevano, era come vedere la Formula 1 in TV invece che dal vivo.
Spesso Death e gli altri che mi erano venuti a trovare in ospedale, vestivano abiti borghesi (per quanto si potessero definire così quelli di foggia del Santuario). L’unica volta che li avevo visti in Armatura era stato il giorno di ritorno della battaglia di Grevena. Mi avevano raccontato a grandi linee quello che era successo altri soldati, miei vicini di letto, per questo sapevo qualcosa sull’andamento dei fatti. Mi ricordavo perfettamente quel giorno.
Tornai al presente.
So che non avrei dovuto farlo, però la tentazione era fortissima. Per non parlare della bellezza di quella corazza. Non mi erano mai piaciuti granché i gioielli e le statue dorate, ma quella era, non so come dirlo, aveva qualcosa che non me la faceva sembrare affatto una semplice scultura. Anzi, qualcosa di vicino a me, essere vivo. Di fronte a me non c’era una Sacra Vestigia, c’era qualcosa che mi sembrava di conoscere molto bene. Era come se avessi qualcosa sulla punta della lingua, però non sapevo che cosa. Mi sentivo come se avessi avuto di fronte una vecchia amica che non vedevo da moltissimo tempo.
L’Armatura, dal canto suo, improvvisamente si ricoprì di un bagliore dorato. Non come quello che mi era parso di aver scorto il giorno della mia aggressione. Questo era più dolce, accogliente. Era come se mi chiamasse.
Tesi una mano per toccarla.
Le mie dita erano a pochi centimetri da quella superficie lucente, quando mi ricordai dove mi trovassi, a chi appartenesse e, mi fermai.
Non dovevo stare qui. Se l’arrogantone fosse tornato in quel momento e mi avesse visto, allora sì che avrebbe avuto una buona scusa per cacciarmi a pedate. E, io, proprio non ci tenevo. Non avevo neanche alcuna speranza di competere con una persona normale, figuriamoci con uno di quelli là.
Perciò chiusi la mano a pugno e la ritrassi.
Appena le mie dita si allontanarono dalla superficie dorata a forma di scorpione, essa smise di luccicare. “Che fenomeno curioso.” Pensai. Provai, così per gioco, ad avvicinarla di nuovo provocando lo stesso risultato.
La ritrassi e si spense.
A quel punto mi accigliai: «Ma, che c’è, un interruttore da qualche parte? Un sensore che s’illumina come in alcune stanze appena ci si mette la mano?» Domandai alla Vestigia dorata divertita e confusa, inarcando un sopracciglio.
Decisi che il gioco era durato abbastanza, perciò me ne andai davvero. Una volta uscita, richiusi la porta dietro di me e ripresi la ricerca.
Alla fine, dopo aver girato la Casa per mezz’ora, li ritrovai. «Oh! Finalmente!» Esclamai.
Finalmente riempii il secchio canticchiando tra me e me una melodia che piaceva tanto a mia madre. Non ne conoscevo il titolo, sapevo solo che era la colonna sonora di un film fantasy che le era piaciuto moltissimo. Poi, aprendo le ante sotto al lavello, trovai anche i detersivi e, armandomi di pazienza, cominciare a lavorare.
Mentre lavoravo, mi tornò in mente la faccia da schiaffi di quel disgraziato del padrone di casa. A parte lo scempio che avevo combinato al suo ferro da stiro, mi sarebbe tanto piaciuto lavare questo bel pavimento con l’acido muriatico. Peccato che non sapessi maneggiarlo e che lui, fosse uno dei miei datori di lavoro. No, decisamente, non mi conveniva.
Ne avevo conosciute di carogne, ma quello là le batteva tutte. Mi bastava il ricordo del nostro primo incontro per farmi venire in mente diversi modi per zittirlo. La cosa che mi faceva scoppiare a ridere, era che tutti i metodi che mi venivano in mente, erano quelli che avrei usato per zittire uno scorpione vero e proprio: passando dal vaipan allo zoccoletto della nonna diligentemente applicato sull’artropode. Rallegrata da questi pensieri, continuai la mia opera.
Una volta finito, vuotai il secchio fuori della Casa e, raccolto il mocio, mi diressi alla volta della Nona ripensando all’Armatura dello Scorpione. E, pregando che Milo non si accorgesse di niente.

Prima di diventare ancella non ero mai salita più su della Sesta Casa. E, come ho già detto, non era la stessa cosa che guardare questo posto attraverso i ricordi di Death. Anche perché, non ve l’ho detto (“Ancora a parlare al niente, Astrid? Dovresti farti curare, sai?” Mi rimproverai mentalmente. Accidenti a me che non ho fatto neanche uno spuntino prima di completare la salita).
Fortunatamente non c’erano svolte da nessuna parte, altrimenti mi sarei sicuramente persa. Mi guardavo attorno con aria smarrita cercando di schermarmi gli occhi come meglio potei dai raggi del sole riflesso dalle rocce e dal biancore del marmo delle Case e delle colonne decorative tra una Casa e l’altra. Eppure, il tragitto tra l’Ottava e la Nona Casa mi mise una strana inquietudine addosso. Mi guardai attorno più volte mentre percorrevo la salita anche perché era pieno giorno, il sole splendeva, però mi sembrò di percorrere un cimitero. Forse era dovuta alla forma strana delle rocce che contrastavano con il colore del cielo, creando incastri che facevano somigliare il paesaggio a un puzzle dai bordi irregolari e sfrangiati? Oppure a una felpa bianca dalla cerniera rotta cui mancavano dei denti e la zip per chiuderla, lasciando uno scorcio di un cielo vecchio e logoro. Come se non bastasse, c’era un silenzio assordante. Non c’era neanche il vento. Era come se tutto si fosse cristallizzato al mio passaggio. Come se avessi interrotto un ricevimento dell’alta società e tutti si fossero girati a guardarmi.
Abbassai lo sguardo e accelerai il passo, a disagio, mentre l’apprensione che a volte accompagnava i miei risvegli si ridestava in me. Come il principio del moto ondoso che presto si trasformerà in burrasca.
E, i pensieri sui miei genitori tornarono ad affacciarsi prepotentemente sulle soglie della mia psiche. Quella mattina la connessione non aveva funzionato e non ero riuscita a percepire né mia madre né il mio amico. Né non riuscivo a capire che cosa avessi e verso cosa io stessa mi tendessi. Non riuscivo ad afferrare quello strascico di ricordi e mi sentivo una fallita. Una fallita che non era riuscita neanche a usare in maniera decente il Potere dei Tarocchi.
Solo quando giunsi in vista della Nona Casa mi sentii invadere dal sollievo. Come se le ombre dietro cui mi ero rifugiata potessero proteggermi e nascondermi da quegli sguardi che erano rimasti poco più indietro. E, non appena misi piede sulla soglia del Tempio del Sagittario mi sentii molto meglio. Come se mi fossi salvata per un pelo. Ma fu solo un momento di sollievo prima dello tsunami. Perché l’ansia tornò più forte di prima, travolgendomi.
Lasciai andare il secchio e il mocio che caddero a terra con un tonfo che rimbombò ovunque. Persino il rumore andò a peggiorare le mie condizioni.
Mi portai una mano al petto, proprio sul cuore e respirai dal naso come se ciò avesse potuto rallentare i miei battiti cardiaci. Battiti che riconobbi immediatamente come un altro sintomo.
«No!» Mormorai sgranando gli occhi.
Mi appoggiai alla colonna e mi accasciai a terra, paventando un principio di attacco di ansia che cominciò a crescere a dismisura senza che potessi fare niente per fermarla. «No! In pieno giorno no!» Implorai come se l’ansia fosse stata una persona. Eppure fu proprio questo quello che accadde. Mentre l’ansia obnubilava le mie facoltà intellettive costringendomi al dolore e alla paura più neri.
«Aiuto», implorai mentre annegavo in me stessa.
Mi cinsi il busto con le braccia e mi portai le gambe al petto. Presi a tremare mentre l’ansia cominciava a farmi venire il mal di testa. Ed io non trovai una soluzione migliore che sdraiarmi a terra in posizione fetale. Poi chiusi sigillai gli occhi con tutte le mie forze, fino a che la mia ansia, come una corrente, non mi trascinò via.
Improvvisamente mi ritrovai in un bosco, ai piedi di una quercia con le fronde smosse dal vento. I raggi del sole che mi colpivano sembravano filtrati attraverso un retino di quelli usati dai mangaka. Mi misi seduta e mi scoprii di nuovo una bambina con la salopette e la maglietta rosa. «Astrid! Astrid!» Mi sentii chiamare dalla voce preoccupata della mia tata.
Mi misi seduta e la vidi accorrere trafelata con i grandi occhi viola chiaro sgranati: «Astrid!» Esclamò con quel vago accento tedesco che mi strappava sempre una risatina divertita.
«Tata!» Esclamai e la donna dalla chioma corvina che le copriva le scapole si gettò in ginocchio accanto a me e mi strinse a sé con forza. «Astrid! Mi hai spaventata a morte! Dove eri finita? Non lo fare mai più, Astrid!» poi si staccò da me per guardarmi e trasalì spaventata: «Sei coperta di graffi e tagli! Che cosa è successo? Chi è stato? Chi ti ha fatto questo?»
Solo allora feci caso al dolore delle ferite e scoppiai in lacrime. E, tra le lacrime cercai di spiegarle che qualcuno si era introdotto nel giardino ma che il mio amico mi aveva difesa. «Amico? Di quale amico stai parlando?» E, poi, per un attimo, ebbi la fugace visione di quella persona. Un uomo dalla lunga, indomabile chioma argentea. Poi tornai alla realtà e mi guardai attorno mentre la tata mi prendeva in braccio e mi riportava verso la villa di campagna che si intravvedeva tra le alte chiome verdi smosse dal vento estivo. «Dov’è? Dov’è andato?»
«Chi? Di chi stai parlando, Astrid?»
«C’era qualcuno qui, c’era un mio amico. Dov’è andato?» Mi divincolai dalla sua presa ma lei non mi lasciò, anzi, aumentò la stretta e alzò la voce: «Astrid!» Mi bloccai immediatamente la guardai. Le braccia ancora allacciate al suo collo: «Non c’era nessuno accanto a te!» La guardai incredula ma capii che stava dicendo la verità e, per questo mi ribellai: «No, non è possibile lui è qui, dev’essere per forza qui». Infine una mano maschile afferrò il mio polso e dicendo: «Svegliati!» Riuscii solo a vedere la sua chioma argentea e lunghissima. Costui mi trascinò via verso una luce bianca che si espanse fino a inglobare ogni cosa e quando riuscii a mettere a fuoco il paesaggio, mi scoprii a guardare un’immagine di una soglia di marmo con delle colonne e, di essere sdraiata su una lastra. La mano che la figura del sogno aveva afferrato era calda per via dei raggi del sole che adesso illuminavano la zona trasversalmente. Che ore erano? Doveva essere pomeriggio, a giudicare dall’angolazione della luce. Avevo dormito così tanto? Ma, soprattutto, come avevo fatto ad addormentarmi? Eppure la mia pelle conservava la sensazione di quella mano che si era allacciata alla mia.
Me la guardai come se fosse uno strano oggetto da esposizione e poi la cinsi con l’altra, portandomela al petto. Strinsi il labbro e mi guardai attorno ma non c’era nessuno. Com’era possibile che non ci fosse nessuno? Dov’erano finiti i Saint? E, gli altri servi? Le guardie? Perché non c’era nessuno?
Mi alzai rapidamente da terra, raccolsi il mocio e il secchio ed entrai nella Nona, cercando di non pensare a quello che era successo.
Una volta appurato che la Nona era pulita, uscii.
Anche se una lieve agitazione continuò a pervadere le mie membra e a riversarsi in ogni gesto compiuto. Agitazione che, però, piano piano scomparve quando mi concentrai di nuovo sul lavoro e mi diressi alla Casa successiva.
Varcata la soglia del tempio mi inoltrai nei suoi meandri e mi misi ad esaminarlo attentamente come avevo fatto con tutti gli altri. Dovevo farlo, dovevo memorizzare ogni angolo e ogni punto per iniziare a conoscere il posto. Forse era una stupidaggine che mi portavo dietro dai tempi in cui lavoravo al Kazablanc, eppure, così facendo avevo l’impressione di poter rimpicciolire di molto questi posti. Sostanzialmente era pulito anche questo. Devo dire che rimasi affascinata dal gruppo statuario in una delle stanze dalle pareti candide e i fregi dorati ai bordi del soffitto. Non mi aspettavo che avrei trovato un’opera d’arte in un posto così. In stile classico, raffigurava la Dea Atena che donava una spada a un Cavaliere inginocchiato. In nessun’altra Casa avevo visto una statua come questa. Avevo visto le maschere mortuarie della Quarta, gli appartamenti di Aiolia del Leone simili agli interni di una baita di montagna e l’arredamento in stile Tempio Buddhista della Sesta, ma questa somigliava quasi a un museo, persino più della reggia della Dodicesima, che sembrava una specie di riproduzione della Reggia di Caserta.
Mi avvicinai titubante al gruppo statuario e ne sfiorai i marmi candidi con la punta dei polpastrelli per verificare che ci fosse la polvere e non ce ne era. Shura di Capricorn doveva tenere molto a questa statua se la puliva. Almeno, pensavo che fosse stato lui.
Comunque il marmo bianco avrebbe brillato molto di più se avesse ricevuto una luce migliore. Andai a cercare le finestre e, come pensavo, le trovai sporche. Tutto quello che alla fine feci fu pulire i vetri, (capogiri e lievi perdite di conoscenza permettendo, che si presentavano ogni volta che alzavo le braccia) e, poi andarmene. Avevo appena raggiunto l’uscita, quando mi si rizzarono i peli sulla nuca.
Il cuore prese a battermi più velocemente per la paura mentre una sensazione strana, come se alle mie spalle ci fosse qualcuno, cominciò a serpeggiare dentro di me.
Poi sentii il rumore dietro di me.
Allora c’era davvero qualcuno! Il cuore cominciò a battere più velocemente per il timore. La schiena mi si era irrigidita e gli occhi si erano spalancati.
Lentamente mi girai, temendo di trovarmi di fronte qualcosa di spiacevole. Con mio grande sollievo, invece, non fu così. Dietro di me non c’era nessuno. Sospirai di sollievo e mi rilassai, portandomi una mano al cuore. Forse mi ero presa un colpo per niente. In fondo, ci stava che, nelle mie condizioni, fossi facilmente suggestionabile.
Finii di pulire i vetri e passai alla successiva quando mi accorsi di aver dimenticato il detersivo nell’altra stanza. Quindi tornai sui miei passi per recuperarlo. Fu allora che vidi un bagliore dorato uscire da un’altra porta aperta. Pensai che il padrone della Decima avesse lasciato la luce accesa prima di uscire. Anche a me succedeva, a volte, di scordarmela. Perciò andai a spegnerla. Non appena fui davanti alla porta sussultai e feci un passo indietro. Di fronte a me c’era un’ altra Armatura d’Oro, a forma di capra. Era questa a emettere quel brillio anomalo.
Restai a bocca aperta. Stavolta ero sicura di non essermi neppure avvicinata come a quell’altra, allora perché emetteva quella luce? Era normale o era una sorta di allarme per i loro proprietari?
Poi la vidi avanzare verso di me, minacciosa.
Arretrai spaventata.
Lei, come se mi avesse percepito come una nemica, continuò ad avanzare.
Solo a quel punto urlai per lo spavento e scappai.

Hyoga
Lo sapevi che era successo qualcosa, te lo sentivi. Senza farti notare né da Death Mask (che alla fine non aveva resistito ed era andato a controllare) né da nessun altro, avevi osservato sbalordito il gesto di carità di Astrid nei confronti di Lancelot e, poi, notando che non l’aveva liberato, te ne eri andato. Tra te e te avevi pensato sia che Death avesse ragione sia che quella ragazza fosse senza cuore. Per un attimo ti era tornato in mente il tuo soggiorno nelle prigioni Asgardiane. Se non fosse stato per Flare chissà quanto altro tempo ancora ci saresti rimasto. Ringraziasti la Vostra Dea che Flare avesse un carattere completamente diverso da quello di Astrid.
Poi, mentre la ragazza si occupava della Quarta, ne avevi approfittato per passare e tornare all’Undicesima dove avevi mangiato e te ne eri rimasto tranquillo fino ad ora a sfogliare i volumi della biblioteca del tuo maestro. Non ci avevi mai messo piede, prima di oggi.
La biblioteca era stipata in una stanza con vista sul mare. Dall’ampia finestra si poteva intravvedere l’Isola di Kanon, dove si diceva che Tenma, il predecessore di Seiya, si fosse allenato con Deuteros, il predecessore di Gemini, per sconfiggere l’incarnazione di Hades del tempo. Te ne aveva parlato Camus durante le lezioni di storia del Santuario, durante l’addestramento. Però era la prima volta che vedevi i volumi che ne parlavano di persona.
Invece, gli altri tre lati della stanza erano coperti da scaffali di legno di mogano, addossati alla parete. I tomi da essi custoditi con delle vetrinette, erano ordinati per genere. Ma, notasti che non c’erano volumi più antichi dei primi del Novecento. Non eri un esperto, ma dubitavi che Virginia Woolf o Anton Checov o Georg Orwell appartenessero al XVIII secolo, solo per citare alcuni volumi della sezione letteratura. Oppure Stephen Hawking o Alan Burdick, solo per l’astronomia. Come ti aveva spiegato uno dei paggi qualche tempo prima era perché, ogni cinquant’anni, i libri dei Cavalieri dell’Acquario venivano portati nell’Archivio della Tredicesima Casa e custoditi con cura nei sotterranei per meglio conservarli oppure, alcuni, venivano donati alla biblioteca nazionale di Grecia. Al centro della stanza c’era un tavolo rettangolare con il microscopio che ti avevano detto fosse appartenuto a Mistoria, il maestro di Degel. Ti ricordavi di Mistoria perché l’avevi affrontato quando eravate tornati indietro nel tempo per salvare Seiya.
Invece l’illuminazione era gentilmente fornita dalle numerose candele sparse a giro per la Casa. Chiunque fosse il paggio o la domestica che le portava, aveva un po’esagerato. In alcune parti della casa avevi faticato non poco per togliere la cera colata a terra o da alcuni mobili. Ti sarebbe tanto piaciuto sapere perché tutta questa rimolla di candele, ma sinceramente non era il primo della tua lista. O, meglio, sarebbe stato così se tu avessi avuto una lista.
Tornasti a esaminare i libri. Non che ti andasse di leggere, avevi solo voglia di ingannare il tempo nell’attesa che Natasha e Yoshino tornassero da Rodorio.
Improvvisamente avevi avvertito una perturbazione nel Cosmo degli altri Cavalieri e, un secondo dopo qualcosa aveva cominciato a picchiare contro una porta. Sulle prime avevi pensato che fosse un colpo di vento che aveva chiuso la porta. A volte capitava che i domestici lasciassero le finestre aperte per cambiare aria e se ne dimenticassero.
Ma questo non somigliava al rumore di una porta sbattuta, semmai a qualcosa che sta per sfondare una porta.
Lasciasti perdere l’esplorazione della biblioteca e corresti a vedere cosa stesse succedendo.
Proprio in quel momento la porta minacciò di cedere e tu la bloccasti erigendo un muro di ghiaccio. Ma la cosa dall’altra parte non si fermò e, anzi, cominciò ad applicare più forza ai colpi. Cercasti di capire che cosa stesse succedendo quando, attraverso il Cosmo, non percepisti nulla provenire dall’altra parte. O meglio, il Cosmo di nessun’altro. Non c’era nessun altro nella stanza oltre alla cloth. Non avevi mai visto una cosa del genere. Per un attimo pensasti di essere sotto l’influenza di Gemini o di Phoenix, perché solo loro potevano creare delle illusioni di questo tipo. Ma era reale, tutto reale e, tu dovevi fermarla non solo prima che spaccasse la lastra, ma prima che arrivasse tua figlia. Addirittura, l’Armatura, come se fosse dotata di coscienza propria, prese ad abbattere l’anfora sulla barriera come se fosse un rompighiaccio. Produceva persino lo stesso rumore, solo più forte e intenso.
Sgranasti entrambi gli occhi e, per un momento, temesti di perdere l’occhio di vetro.
Le prime crepe comparvero sul cristallo.
Tu sussultasti e facesti un passo indietro, spaventato: non pensavi che la cloth di Aquarius avesse il potere e la forza di spaccare il ghiaccio. Non volevi ricorrere allo zero assoluto per congelarla, anche se ti parve la scelta più sensata. Non avrebbe risolto niente e, anche sciogliendo il ghiaccio avrebbe solo rimandato il problema. E, quell’aura dorata. Era come se fosse il tuo stesso maestro a muoverla: «Maestro?» Tentasti, nella speranza di non esserti sbagliato. Ma la tua speranza fu disattesa che, in un ultimo colpo, il cloth riuscì a bucare la lastra che si infranse e schegge di ghiaccio volarono dappertutto a causa della foga e della potenza del cloth. Ti proteggesti la faccia con le braccia mentre i pezzi di ghiaccio atterravano sul pavimento e rotolavano un po’.
Abbassasti le braccia e cercasti di fermarla con gli Anelli di Ghiaccio ma anche quelli risultarono inefficaci. L’Armatura si girò verso di te e, il viso inespressivo del cloth ti parve più minaccioso di qualsiasi altra faccia nemica. Poi alzò le braccia al cielo e l’anfora abbandonò le sue mani, mettendosi a levitare a mezz’aria.
Trasalisti. Non voleva mica usare l’Aurora Execution su di te! Quello era il colpo di un Cavaliere, non del cloth! Eppure, fu proprio questo che accadde.
Tu riuscisti a evitarlo per non si sa quale miracolo ma la parte inferiore del tuo corpo rimase congelata e tu ti ritrovasti piegato. Annaspasti come uno scemo nel tentativo di ritrovare l’equilibrio e, quando ti raddrizzasti, reggendoti al ghiaccio, vedesti l’Armatura fluttuare via verso le scale che conducevano alla Decima, l’anfora di nuovo in spalla. Strabuzzasti gli occhi e provasti a spaccare il ghiaccio ma non avevi tempo. Allora, come ultimo, folle, ed estremo tentativo, la chiamasti a te tramite il Cosmo e questa, improvvisamente ammansita, si scompose e si dispose attorno alle tue membra. Con la forza dell’Armatura riuscisti a spaccare il ghiaccio, liberare le tue gambe e piegarti come se avessero dato un calcio dietro le tue ginocchia.
Recuperasti l’equilibrio e poi provasti a fare qualche movimento per verificare che non si ribellasse e ti abbandonasse. Poi corresti in soccorso del compagno più vicino.

Milo
Stavi poltrendo sul divano della Quinta (giacché non c’era Aiolia, Galan ti aveva invitato a pranzo, forse intuendo la tua solitudine) quando Lythos, che era andata in bagno, cacciò un urlo che ti fece fare un balzo. Uscisti dal salotto e trovasti la poveretta spiaccicata contro il muro, con occhi grandi come vassoi, mentre, dalla sala di fronte, fuoriusciva una luce dorata. Sgranasti i tuoi e poi, sentisti il Cosmo di Shura attraversare rapidamente le scale e la Quinta per precipitarsi alla sua. Non facesti neanche in tempo a fermarlo, che sentisti anche la tua Armatura.
Non era come con l’Eufonia di Sagitter, però era simile, mancava soltanto il suono.
Che cosa stava succedendo? C’era un nemico al Grande Tempio?
Corresti sulla scia di Shura che era uscito trafelato dalla Quarta e stava superandoti a gran velocità. Anzi, facesti anche di meglio: chiamasti la tua Scorpio. E, questa, si precipitò da te che, in poche falcate, avevi quasi raggiunto la tua Casa. Soltanto per provocare un acuto urlo di terrore femminile e scontrarti con qualcosa che ti fece inciampare e piombare lungo disteso sulle scale. Fortuna che rotolasti sui gomiti per ammortizzare la caduta. Maledetti, adesso anche i colpi bassi. Ah, ma non l’avrebbero passata liscia, parola di Cavaliere d’Atena.
Ti rialzasti con un balzo, l’Armatura dispostasi sul tuo corpo e, ti guardasti attorno girandoti rapidamente su te stesso.
Shun non c’era, era tornato al lavoro, ma anche lui doveva aver sentito ciò che stava succedendo.
Avevi già preparato la Cuspide Scarlatta e ti voltasti di nuovo nel tentativo di individuare il nemico solo per sentire il gemito di dolore provenire ai tuoi piedi. Abbassasti lo sguardo e, sedici gradini più in basso di te, vedesti la ragazza vestita con un chitone bianco e lungo fino ai polpacci che spuntava da sotto il poncho che, versando silenziose lacrime di dolore, si stava rialzando lentamente. Si portò una mano alla testa e tu riconoscesti quei capelli biondi legati in una coda.
«Astrid?» Domandasti stupito e perplesso rinfoderando la Cuspide. Poi ti avvicinasti per aiutarla. Lei trasalì e si girò verso di te, finendo seduta forse troppo di scatto perché sentisti il rumore che fece il suo sedere contro il marmo. Gli occhi gialli spalancati per il terrore e il dolore della botta che si era andato ad aggiungere alle altre. Era già tanto se non si era rotta qualcosa nello scontro. Se fosse stata un’altra persona saresti scoppiato a ridere. Ma con lei (anche se con le guance rigate di lacrime e le ginocchia sbucciate, segno che era già caduta almeno tre o quattro volte prima di essere travolta) no.
Si accorse che le stavi guardando le sbucciature e si affrettò ad abbassare l’orlo della gonna. Tu spostasti gli occhi indagatori sulla sua faccia. Ora come non mai la somiglianza con Camus si attenuò e tu potesti vederla per quello che era: soltanto una ragazza spaventata a morte.
T’inginocchiasti sul ginocchio destro e le domandasti che cosa fosse successo. «Non lo so. Giuro che non lo so, a un tratto hanno... hanno preso a luccicare e si sono mosse». Poi le sfuggì un gemito di dolore.
Assottigliasti gli occhi: «Chi? Chi ha preso a muoversi?» Le domandasti. Ma lei non rispose, era troppo sconvolta. Roteasti gli occhi e ti raddrizzasti e le tendesti una mano per aiutarla a rialzarsi. «Non userò la mia Cuspide Scarlatta». Promettesti roteando gli occhi di fronte alla sua faccia perplessa e diffidente. Allora lei la afferrò così la aiutasti a rimettersi in piedi (anche se continuò a guardarti con diffidenza. Forse temendo che avresti sfoderato la tua Cuspide Scarlatta a tradimento). Lasciasti andare subito la sua mano e lei restò in piedi da sola, nonostante la paura. Si portò una mano al fondoschiena e se lo massaggiò. Poi la accompagnasti alla Settima perché sapevi dove teneva le medicine Shiryu. O, almeno, pensavi che lui o Shunrei avrebbero potuto fare qualcosa. Mentre camminavate, lei smise di piangere e si deterse gli occhi con una mano. Anche se non la sopportavi, era pur sempre in difficoltà e, tutto si poteva dire di te, fuorché non fossi generoso. Lo sapeva tutto il Santuario.
«Cosa s’è mosso?» Le domandasti di nuovo, quando foste a metà rampa, sostenendola per il gomito. Era quanto ti sentivi di poter toccarla. Anche se in difficoltà, proprio non ti piaceva l’idea di toccarla più del necessario. Anche lei sembrava della tua stessa opinione, a giudicare da come aveva cercato di ritrarsi. Esitò nel risponderti, quasi che non ci credesse neanche lei: «Le Armature, hanno fatto tutto da sole». Strabuzzasti gli occhi per l’incredulità. Le Sacre Vestigia Dorate si erano mosse a causa sua? Perché mai avrebbero dovuto reagire così? A meno che... ti accigliasti. Forse avevi ragione nel pensare che non fosse ciò che sembrava. Probabilmente era veramente una nemica e le corazze se ne erano accorte. Di solito anche voi eravate in grado di percepire i Cosmi ostili, anche adesso stavi cercando di farlo, ma perché non sentivi niente? «Vuoi dire che non c’è nessun nemico? Non si è infiltrato nessuno?»
«No, io non ho visto nessuno. Stavo solo pulendo e a un tratto hanno preso a splendere e si sono mosse, quando mi sono vista arrivare la tua addosso ho temuto il peggio».
«D’accordo, va bene, adesso ti porto da Shiryu e ci pensa lui a sistemarti le sbucciature, d’accordo?» Dicesti vagamente scocciato, era mai possibile che avessi richiamato la tua cloth per un semplice spavento dell’ospite del Santuario? Questo era veramente il colmo. Se Camus ti avesse visto, ti avrebbe lanciato una delle sue lunghe occhiate oblique e imperscrutabili che tu sapevi, essere carica di disapprovazione.
«Che vergogna, non mi capitava dall’infanzia di sbucciarmi le ginocchia». Commentò lei amareggiata e tu la guardasti. “E, non solo quelli” Anche i gomiti stavano sanguinando e, quasi sicuramente i lividi stavano cominciando a fare capolino su altre parti del suo corpo. L’avevi notato quando l’avevi presa per il gomito. Se quello era ferito, allora, forse lo era anche l’altro, ma non era niente che non si potesse sistemare con un po’di disinfettante. E, anche una pomata per la scottatura sulla sua mano.
Sull’uscio foste investiti dall’urlo di Shunrei e dai rumori di lotta. Solo a udirli per poco la ragazza non si nascose dietro di te. Le dicesti di restare lì e andasti a vedere.
Sembrava che qualcuno stesse combattendo, o forse sarebbe stato più corretto, fermando la sua corazza. Shunrei ti corse incontro spaventata, il volto rigato di lacrime di terrore. «Cavaliere di Scorpio, aiutatelo!» Annuisti e ti raccomandasti di non avvicinarsi.
Proprio mentre il rumore si faceva sentire, più potente che mai. E, ti precipitasti in soccorso dell’ex Dragone. Lo trovasti accasciato contro la parete, che scuoteva la testa, istupidito mentre il figlio Ryuho cercava di contenere l’armatura con i suoi poteri. Se tu non l’avessi visto fronteggiare la sua stessa cloth, non ci avresti mai creduto. L’armatura stessa, poi, cercò di inchiodarlo al muro. Ma, prima che ci riuscisse, afferrasti Shiryu e lo portasti via da lì, il quale sobbalzò: «Shiryu». Lo chiamasti e quello si rilassò.
«Milo». Il suo volto assunse un’espressione sorpresa. «Dobbiamo fermarla», disse gemendo di dolore. Aveva i vestiti ridotti a brandelli perché il cloth non si era risparmiato e varie contusioni e tagli sul corpo. Sembrava molto provato oltre che sconvolto.
«Lo so».
Ti girasti verso l’uscio per verificare che non fosse accorso nessuno. Poi usasti il Restriction sul cloth di Libra, ma quest'ultima, dopo un secondo si rianimò e contrattaccò vanificando il tuo attacco.
Neppure l'intervento del figlio di Shiryu sortì qualche effetto, anzi, sembrò soltanto peggiorare la situazione. L'Armatura se ne liberò schiantandolo al muro con uno dei piatti della Bilancia.
Dopodiché cercò di avanzare ma un muro di ghiaccio si frappose tra lei e voi. Intanto che la temperatura si abbassava e piccoli fiocchi di neve cadevano leggeri. Vi voltaste e vedeste Hyoga, in armatura, dietro di voi. «Hyoga!» Esclamaste in coro.
«Presto Shiryu, indossala!» Gridò abbassando il braccio.
«Cosa?»
«La tua Armatura, chiamala a te e indossala! E’ l’unico modo!» Spiegò il Saint di Aquarius. Avevi capito il suo piano. E, avevi capito anche come mai la tua armatura non ti si era rivoltata contro. Era perché l’avevi richiamata che non l’aveva fatto. «Fallo, Shiryu!» Rincarasti convinto, mentre l’armatura della Bilancia era quasi riuscita a rompere la lastra di ghiaccio che vi separava. Il padre di Ryuho dovette leggere la fiducia e la convinzione nei vostri toni di voce perciò annuì, girò il viso verso la propria corazza, determinato e la chiamò a sé.
Tu ti scostasti.
Il cloth spaccò la lastra e scomponendosi in un lampo di luce, si ridispose sul corpo del suo legittimo proprietario. Il pericolo cessò immediatamente e, con esso l’energia che aveva manifestato.
Vi guardaste spaventati e sconvolti.
Shiryu si preoccupò immediatamente per il figlio. Si staccò dalla parete e andò da lui, seguendo il suono dei suoi lamenti: «Ryuho, stai bene?» Disse tendendo le mani verso di lui, che afferrò. Poi il fratello di Seiya aiutò il ragazzo a rimettersi in piedi.
«Non preoccuparti, papà, sto bene, ho solo battuto la testa». Fece massaggiandosi il capo dolorante, ma ancora un po’stordito dalle botte ricevute. Fu proprio il ragazzo a dare voce al pensiero che avevate scritto in faccia: «Cosa diavolo è successo?»

Cocteau
Ancora non ti capacitavi di ciò che era accaduto.
Stavi cercando Astrid, che l’avevi persa di vista dopo che era entrata nella Nona Casa e poi non ne era più riemersa. Avevi cominciato a preoccuparti quando l’avevi vista attraversare la rampa che collegava l’Ottava alla Nona Casa. Perché si era presa paura? Che avesse avvertito un nemico? Strano, eppure tu non avevi sentito niente. Allora perché reagiva così?
In ogni caso era corsa verso la sua meta e lì avevi atteso che si calmasse e pulisse. Invece che stare a osservare tutte le faccende domestiche, preferisti attenderla rintanato in uno dei frontoni del Tempio di Sagitter rivolti verso quello di Capricorn.
Non senza qualche indolenzimento, ovviamente. Stare sempre così accartocciato non ti piaceva e, sotto questo punto di vista, il tuo corpo non era diverso da quello umano. Anche tu ti stancavi. Ma neanche volevi prenderti il sole al massimo del suo picco sulla testa. E, poi, le rocce scottavano ancora, verso quell’orario, per cui figuriamoci le colonne decorative, che secoli addietro sorreggevano dei grossi bracieri che fungevano da illuminazione.
Avevi aspettato di vederla uscire per raggiungere la Decima, basandoti sull’angolazione delle ombre e il calore del sole, ti eri reso conto che mezzogiorno era già passato da un pezzo.
Anche se il tuo corpicino era quello di una civetta, le tue conoscenze restavano invariate La cloth dei Gemelli, custodita nella Tredicesima Casa aveva cercato di uscire dal Pandora-Box. Sulle prime avevi pensato che Kanon l’avesse richiamata. Ma a che scopo? Poi, quando ti eri reso conto che il tuo gemello stava lottando contro di essa, eri volato a vedere che stesse succedendo. Avresti voluto dire in suo soccorso, ma non riuscivi neanche a pensarlo.
Fortunatamente non eri troppo distante dalla Casa di Atena, perciò arrivasti in pochissimo tempo. E, proprio allora, l’Armatura, cessò di muoversi di botto, mentre Kanon sembrava sul punto di lanciare una Galaxian Explosion, dato che tutte le tecniche finora utilizzate per fermare il cloth non erano servite a niente.
L’Armatura cadde a terra ove si scompose e i pezzi rotolarono un po’ qui e un po’ là. Anche Kanon, ancora avvolto nei paramenti sacerdotali, cascò in ginocchio, stremato.
«Fratello! Che hai fatto?»
«Io niente, stavo solo cercando di fermarla». Si giustificò ansante.
Che cosa era successo? Chi era che si divertiva alle vostre spalle a questo modo?

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Annidato nelle Ombre ***


Annidato nelle Ombre



Milo
Quando tornasti sull’uscio, trovasti, insieme a una scossa e spaventata Shunrei, in ginocchio. Paradox accanto a lei, le teneva le mani sulle spalle a mo’ di conforto nonostante il palese disagio dipinto sulla sua faccia. In piedi poco più indietro c’era Astrid con le mani giunte al petto che ti fissava con occhi timorosi, come se stesse cercando di chiederti se fosse tutto finito ma non ci riuscisse. Occhiata che tu ricambiasti con una diffidente prima di cambiare atteggiamento e rivolgerti alla consorte del tuo compagno d’arme. «Shunrei», la chiamasti gentilmente e la donna alzò gli occhi su di te, mostrandoti il volto inondato di lacrime. «Che è successo? Ce l’avete fatta?» Ti domandò spaventata e tremante.
«Sì, ce l’abbiamo fatta, adesso potete rientrare». Ciò detto le porgesti la mano per aiutarla a rialzarsi, ma la donna si alzò da sola e corse dentro la Casa con una velocità e una prontezza incredibili. Restasti un attimo imbambolato poi rientrasti a tua volta e le due ragazze ti seguirono. Se all’interno del Santuario c’era una persona di cui ti fidavi ancor meno di Astrid, questa era proprio Paradox. L’ex Cavaliere di Gemini di Mars, che aveva saggiamente evitato lo scontro con l’Armatura d’Oro del proprio amato maestro. Tutti voi eravate a conoscenza dell’ossessione che la Sacerdotessa-Guerriero nutriva per Shiryu, tranne Shiryu, che era già tanto se aveva messo su famiglia. Anche se aveva perso la vista la sua cecità a quanto pareva, aveva radici ben più profonde che collimavano con la sua stupidità. Possibile che il vecchio Roshi non gli avesse insegnato nient’altro oltre che a combattere? Santa Atena, persino tu, durante il tuo addestramento, eri riuscito a costruirti una vita sociale attiva.
«Shiryu! Ryuho!» Esclamò spaventata Shunrei vedendo il marito con addosso l’Armatura, sostenuto dal malconcio figlio infilato anch’esso nella cloth rovinata del Dragone. Si staccò da te e corse loro incontro per stringerli entrambi in un abbraccio spaccaossa. «Shunrei». Rispose Shiryu e Ryuho protestò debolmente: «Mamma».
La donna iniziò a riempirli di premure e, i due uomini, soprattutto Ryuho (che era diventato rosso come un peperone) cercarono di calmarla senza successo. Lei non volle sentire ragioni e li guidò in cucina, li fece sedere su due sedie e prese la cassetta del pronto soccorso e li medicò entrambi come meglio poté. «Dammi una mano, Paradox». Disse alla giovane dai capelli azzurri e lisci che si mosse in automatico come una sorta di robot.
Tu ti guardasti intorno per individuare Hyoga, ma doveva essersene già tornato alla propria Casa perché non lo vedesti da nessuna parte. Poi, ti tornò in mente lo scontro e un campanello d’allarme scattò nella tua testa. E, se le Creature l’avessero percepito? No, se l’avessero percepito si sarebbero precipitate. Ti eri accorto che loro orbitavano attorno a luoghi dove una battaglia infuriava già da ore, non prima. Forse la loro ricezione del Cosmo aveva un limite: dovevano raggiungere una certa intensità prima che la percepissero e volassero a distruggerlo. Eppure, per quanto quest’intuizione fosse giusta non bastò a tranquillizzarti.
Infatti, continuasti a tenere le spalle rigide tutto il tempo. Però sentivi che non dovevi restare lì, dovevi andare a controllare. Tornasti a guardare la scenetta di fronte a te e vedesti Shunrei che, borbottando sottovoce in cinese gli stava bendando i tagli sulle braccia. Il marito cercava di rassicurarla dicendo cose come: «Amore, sta tranquilla, stiamo bene, abbiamo vissuto di peggio». Ottenendo soltanto di farla scattare: «No che non sto calma!» Ribatté infatti, lei. «Hai idea dello spavento che mi sono presa?»
Appena udisti quelle parole scambiasti un’occhiata con Astrid e capisti che pensavate la stessa cosa: cioè che cominciavate a credere di essere di troppo. Anche se c’era da dire che con tutta l’ansia e l’attesa snervante che la povera donna aveva dovuto sopportare nella sua vita, era una santa. Oppure era più forte di molte altre donne che conoscevi. Quasi nessuna di loro, infatti, avrebbe retto così tanto alle continue assenze e missioni suicide da parte del proprio amato. Figuriamoci poi anche del figlio quando era arrivato il suo turno.
Ed era quasi ovvio che a quel punto la piccola e dolce Shunrei che ricordavi avesse sviluppato un carattere forte per sostenere questo peso tutte le volte.
«Mamma, sul serio, noi ci siamo abituati. Diglielo anche tu, Paradox.» Ma la sorella gemella di Integra (che finalmente aveva potuto prendere il flaconcino di alcol e cominciare a occuparsi del Saint del Dragone) non rispose e si limitò a imbevere di alcol disinfettante un batuffolo di ovatta che poi passò sulla ferita al collo di Ryuho, in quale sussultò e poi sibilò di dolore. «Fai piano». «Non lamentarti troppo e togliti il cloth, devo vedere se ci sono altre ferite». Ribatté lei e tu, cercasti di ignorare il doppio senso a quest’affermazione. Avevi sentito dire che, durante la battaglia dei “Nuovi Bronze”, Paradox si era dichiarata a Ryuho facendo sfoggio di tutta la sua volubilità. Così almeno il ragazzo ti aveva raccontato il giorno che si era allenato con te, lontano da Paradox. Intanto la moglie del custode della Settima gli ingiunse di continuare a premere il fazzoletto che gli aveva dato sulla ferita e gli volse le spalle e cominciò a rovistare rapidamente nei cassetti della cucina per cercare una pentola (che, una volta trovata riempì d’acqua calda e mise a scaldare sul fuoco del caminetto acceso) e, poi, ago e filo.
«Aspetta, faccio io». Le dicesti e ti avvicinasti al tuo compagno. Poi, premesti il punto di pressione di Shiryu, arrestando immediatamente il flusso sanguigno. Infine procedesti a premere anche le altre sue seimei ten. A ogni Cavaliere venivano impartite queste lezioni di primo soccorso, oltre a quelle canoniche, per questo le conoscevi.
«Ecco», dicesti, «così potrai medicarlo senza problemi». Lei ti ringraziò e prese l’ago e il filo (conoscendo i pericoli dei due si era premunita portando con sé dalla loro casa ai Cinque Picchi anche questo).
«Piuttosto, occupati prima di questa ragazza che mi sembra sul punto di svenire». Disse volgendo gli occhi verdi su di lei. Doveva averla incontrata qualche volta per indovinare il suo nome al primo colpo.
La moglie dell’ex Dragone strinse l’ultima fasciatura (era diventata veramente rapida nelle medicazioni più lievi, mentre il marito si tamponava il sangue grondante da una serie di tagli più profondi sul costato che sembravano fatti dal tridente di Libra) si volse verso la ragazza e la guardò. Poi trattenne il fiato rumorosamente, come si fosse accorta che aveva ragione. Allora disse: «Oddio, è vero. Vieni qui, cara, siediti che ti prendo qualcosa da bere». Ryuho fece da traduttore alla povera bionda che vi guardava smarrita perché non capiva un accidente di quello che si stavano dicendo tra tutti. Tu prendesti tutto ciò come un punto a tuo favore. Almeno non avrebbe capito quello che vi sareste detti se aveste deciso di parlare in cinese. Che, per voi non era un problema giacché lo conoscevate. Inoltre, a forza di chiacchierare con la famiglia di Shiryu, in questi anni avevi perfezionato il tuo cinese e ora lo parlavi correntemente quanto il dialetto cicladico. Non era raro che foste poliglotti, al Santuario era normale imparare molte lingue per meglio svolgere le missioni in giro per il pianeta.
Astrid mosse qualche passo incerto (per via delle gambe rigide e un po’per la diffidenza) verso la signora coi capelli legati in una treccia. La quale, tendendo un braccio verso di lei, le faceva ripetutamente segno di avvicinarsi. Quando fu sufficientemente vicina le posò la mano sulla spalla e la guidò verso la sedia vicina a quella del marito, ove la fece accomodare. Subito si precipitò a recuperare un succo di frutta e un bicchiere. Aprì la bottiglietta e lo versò nel calice che porse alla ragazza, la quale ringraziò un po’incerta con un cenno del capo.
Allora tu dicesti a Shunrei che in realtà non stava per svenire, ma aveva bisogno di una piccola medicazione ai gomiti, alle ginocchia e una pomata per la scottatura sulla mano. Appena menzionasti quest’ultima la ragazza trasalì e si affrettò a nasconderla sotto al tavolo. “Che ho detto di male?” Domandasti neanche se quella mano fosse stata qualcosa di molto più osceno.
D’accordo che non ti stava simpatica ma sinceramente non ti aspettavi che avresti finito per investire quella poveretta e traumatizzarla. Perché era per questo che si comportava così, giusto? «Milo» intervenne Astrid con occhi bassi, le guance rosee per la vergogna, mentre cingeva il bicchiere con la mano, «potresti dirle per favore che posso pensarci da me e che non occorre che mi medichi? Mi basta solo che mi metta a disposizione qualche cerotto e un po’di disinfettante, le mie ferite non sono gravi».
«Come vuoi». E, traducesti a Shunrei.
«Grazie, Milo». Disse Astrid, riconoscente, accompagnando le parole a un garbato cenno del capo.
Tu annuisti e poi, dicesti a Shiryu: «Credo che sia il caso di parlare con gli altri».
«Un Chrysos Synaigen, dici?» Di solito era il Gran Sacerdote a indirli, ma dopo quello che eri successo non saresti stato affatto sorpreso se vi avesse convocato seduta stante o quasi.
«Sì, a giudicare dalle parole di Hyoga e dal turbamento nei Cosmi di tutti noi Gold, non sei stato l’unico a subire questo attacco».
«Bene, allora aspettiamo la convocazione ufficiale e ci vediamo alla Meridiana dello Zodiaco il prima possibile».
«D’accordo». Salutasti la famigliola e te ne andasti.
Passando sull’uscio della cucina, notasti Paradox che, mentre medicava il figlio di Shiryu, fissava interessata l’ancella. La quale non si era nemmeno accorta di lei mentre metteva da parte il bicchiere, e cominciava a rovistare nella cassetta del pronto soccorso alla ricerca dei cerotti.

Lancelot
«Tipino interessante questa Astrid, non trovate?» Dicesti ai Gold che, si erano riuniti al Tredicesimo Tempio per conferire con il loro Gran Sacerdote. Era stato indetto un Chrysos Synaigen in via del tutto straordinaria.
Non era la prima volta che partecipavi a un’Assemblea Dorata. Almeno in questa dimensione.
Sembrava, infatti, che il Gran Sacerdote avesse richiesto anche la vostra presenza per “avere pareri diversi su una stessa opinione”. O, almeno, era quello che avevi capito dalle parole di Mur, ma non ne eri sicuro al cento per cento perché di politichese non eri interessato, tanto meno edotto.
Il succo, però, sembrava essere questo.
Ancora una volta, ti ritrovasti a comparare le differenze e le uguaglianze tra le dimensioni con vago interesse. Pensavi che i Cavalieri di questa dimensione si riunissero comunque e sempre alla Tredicesima. Ma forse questo era dovuto all’urgenza che aveva impedito loro di indirne uno un po’più formale.
Ma, a quanto sembrava, non era poi così esclusiva: infatti, prima di entrare, avevi notato anche tu una figura seminascosta dietro una colonna. Sogghignasti, se voleva stare a vedere non c’era problema, non saresti stato certo tu a fare la spia. Non avresti mai immaginato, però, che il Papa del Santuario fosse l’attuale Cavaliere dei Gemelli. Forse non avresti neanche dovuto sorprenderti: solo chi sviluppava una grande potenza o sopravviveva tanto a lungo, poteva aspirare a una tale carica. Di solito non si doveva rinunciare al proprio ruolo di Gold Saint per accedere a tale potere? Mah, alla fine, avevi deciso, che non era neanche poi così importante. A parte i giochetti del tuo coinquilino, questa “vacanza” stava cominciando a prendere una piega veramente interessante. E, tu, che ti eri sentito frustrato perché non stava succedendo niente e ti eri domandato quando avresti potuto scusarti con Shura ed estinguere il ricordo della tua figuraccia tra voi. Non avresti neanche immaginato che questi Gold fossero un gruppo così unito. Non appena proferisti quella frase, ricevesti tutta una serie di occhiatacce che ricambiasti con uno dei tuoi tipici sorrisini beffardi. Possibile che non avessero ancora capito? Da Shura (reincarnazione del tuo amato re o no), non te lo aspettavi. Infatti, eri sicuro che stesse silenziosamente accumulando le informazioni e poi decidendo le strategie. Esattamente come un vero re. Non eri certo sugli altri, ma, almeno su di lui, ci speravi. Non erano come certi altri, che speculavano e s’interrogavano vicendevolmente. Ovviamente, non erano gli unici a porsi due domande. Anche tu te ne porgevi su di lei e, da molto tempo. Da quando avevi visto il suo spirito lasciare l’infermeria, la notte che Capricorn e Death Mask stavano tornando dalla missione.
Quella sera avevi avvertito un tremito nelle goccioline d’umidità che permeavano l’aria. Il tuo Cosmo era legato all’acqua, l’acqua era il ponte di collegamento tra i due mondi. E, sapevi riconoscere alla perfezione la presenza di uno spirito. Perciò avevi lasciato il tepore della Quarta Casa per capire di cosa si trattasse. Eri uscito e avevi rintracciato la presenza grazie al Cosmo.
In quattro balzi ti eri fermato su quel tempio in rovina e lì, sempre grazie al Cosmo, l’avevi vista uscire dal tetto.
Ti era parso che lei si fosse voltata verso di te.
Era stato il tuo primo incontro con Astrid. Sembrava che cercasse un modo per andarsene da lì, finendo però per perdersi.
Tu avevi sorriso e, alzando una mano, le avevi indicato il cielo con un dito.
Lei ti aveva guardato a lungo prima di decidere di seguire la tua indicazione. Poi, si era alzata in volo.
Tramite la telepatia l’avevi seguita e l’avevi vista volare via, verso il campo di battaglia. L’avevi vista compiere quel miracolo e poi, era tornata al Santuario, richiamata dalla sua stessa carne. Solo allora avevi sorriso, mentre i primi raggi del sole ti accarezzavano lateralmente la fronte e le ciocche dei tuoi capelli, ed eri tornato alla Quarta Casa.
C’era voluta un’ora intera prima che riuscissero a dominare le loro Armature. Non era mai successo nella storia del Grande Tempio. Ma neanche in quella del tuo Grande Tempio. Questa vacanza con debito da ripagare stava cominciando a piacerti.
Finora avevi lasciato che parlassero e mettessero in campo la possibilità, non tanto remota, che ci fossero degli infiltrati al Grande Tempio, qualche altro Angelo di Artemide in primis che fosse sfuggito, ma, poi, erano tornati a parlare delle Creature e di Astrid. Non si accorgevano di essere diventati monotematici o lo facevano apposta? Ti venne da sorridere ancora una volta. Soprattutto quando Kiki scattò, in coro con Aphrodite. «Che cosa vorresti insinuare, Lancelot?»
Alzasti le spalle. «Io, niente, solo quello che ho visto». Ribattesti con aria innocente, ma tu innocente non eri proprio.
«E, cosa avresti visto?» Volle sapere il Gran Sacerdote assiso sul suo trono. Tu che eri abituato ad avere a che fare con Aiolos ti faceva strano non poterlo guardare dritto negli occhi. Anche perché Aiolos usava soltanto una specie di retina dorata sulla parte superiore del viso, al posto della maschera. A volte ti dispiaceva non aver potuto conoscere quello di questa dimensione, chissà se era come il tuo.
Mettesti da parte questi pensieri per spiegarti meglio: «Solo che sono parecchie notti che ho visto il suo spirito volare via». Se le tue parole e il tuo atteggiamento erano paragonabili alla scintilla che accende la miccia, le reazioni che ottenesti furono paragonabili all’esplosione di una bomba; Cosmi compresi.
Shura sgranò gli occhi, lasciando trasparire il suo sgomento.
«Cosa?» Domandò Shiryu alzando le sopracciglia.
«Non può essere morta!» Scattò Kiki con apprensione e terrore nella voce.
«Che stai dicendo? Lei è viva e vegeta! Se fosse morta me ne sarei accorto!» esclamò Death Mask.
Leggesti lo smarrimento negli occhi di Shun. Aphrodite invece, si portò le mani alla bocca.
Aldebaran ti guardò stupefatto «Non può fare una cosa simile!» aveva obiettato.
«Te lo sei inventato!» Ti accusò invece Milo.
«Parla, bastardo, vuota il sacco!» Il più sboccato di tutti, ovviamente era Seiya.
Intanto che gli altri presero ad arrampicarsi sugli specchi su una possessione per opera di qualche nemico e, sul rapimento dell’anima di Astrid.
Death Mask parve prendere molto sul serio questa cosa, anche se continuò la solita scenata del burbero strafottente. Quello che ti sorprese di più fu Milo, che, pur non potendo soffrire Astrid per chissà quale motivo, adesso stavano elaborando un piano di salvezza che prevedeva l’invasione del Regno dei Morti; una buona scusa per restituire pan per focaccia ai tre Giudici Infernali.
Shun cercò di placare gli animi e Mur si lasciò cadere seduto fissando il pavimento con i suoi occhi color malachite.
Il loro Papa però si dovette stufare di tutta quella confusione, perché alzò la voce e li rimise tutti in riga.
Il piccolo Cocteau appollaiato sullo schienale del trono lo guardò.
Alzasti le mani in segno di resa: «Calmi, calmi. Non ho mai detto che è morta. Solo che non pensavo che fosse capace di utilizzare quella tecnica».
«Tecnica?» Ripeté Shiryu stringendo le mani sul manico del bastone. «Di che tecnica parli?» E, con quelle parole, ti ricordasti che il massimo che potevano concepire loro, era la Misophetamenos della loro amata Dea.
Incrociasti le caviglie appoggiando la schiena alla colonna. «Della separazione dell’anima dal corpo, un po’come gli Strati di Spirito che condividiamo io e il mio collega della Quarta. La differenza è che lei la può usare solo su se stessa e che, quando la usa, resta viva». Spiegasti.
Te ne aveva parlato la tua maestra e madre, la Dama del Lago ai tempi del tuo addestramento. Non avesti bisogno di essere spronato a continuare che li accontentasti: «E’una tecnica che viene tramandata dalle Sacerdotesse e dai Druidi di Avalon. Tutti coloro che sono in possesso di un Cosmo la possono usare, ma la maggior parte di costoro, se non adeguatamente addestrata, la scambia per un sogno molto realistico. I comuni mortali lo chiamano Viaggio Astrale». Girava voce che anche Lady Igraine l’avesse usata per mettersi in contatto con il suo amato Uther Pendragon, per metterlo in guardia da un’imboscata di Gorlois. Anche tua cugina Morgana la usò per salvare la tua amata Ginevra da un rapimento a causa del fratellastro. Ah, a cosa serve avere dei parenti che conoscevano la magia? Non l’avresti mai detto che alla fine ti sarebbero tornate utili anche queste nozioni. «Quindi era veramente lei quella notte?» Domandò il Cavaliere di Capricorn, diffidente.
«Sì, certo che era lei.» E, quest’affermazione rassicurò l’assemblea dorata, anche se solo per un istante, perché subito ripartirono le domande. «Perché Cocteau non l’ha vista e invece voi sì?» Domandò il Gran Sacerdote volgendo il viso verso il gufetto, che, non seppe che rispondere. Sapevi che prima di ogni altro, era proprio quel gufetto, la spia più silenziosa che potevano permettersi.
«Forse perché vedere gli spiriti, non è nella sua prerogativa, non essendo veramente un animale». Rispondesti. Sempre secondo le credenze della Tavola Rotonda, gli animali erano capaci di vedere gli spiriti. «Tuttavia è nelle piene facoltà di un Cavaliere che viaggia tra i due mondi, non è vero, Death Mask e Shun?» L’altro non ti rispose, ma si limitò a fissarti con il suo sguardo truce. Shun invece annuì.
«Un momento, se quel che dici è vero, com’è stato possibile che anch’io e Aiolia e Shura l’abbiamo vista, quando ci ha restituito il pezzo mancante dello scettro?» Obiettò lo svedese.
«Shura di Capricorn» Facesti una gran fatica nel pronunciare quelle parole al posto dei nomi e titoli con i quali chiamavi il tuo amato re «si trova in bilico tra questo e l’altro mondo, me l’ha dimostrato più volte durante i nostri duelli, per questo ci è riuscito. Death Mask non credo ci sia bisogno che vi ripeta che li vede in ogni caso, ops, l’ho detto». Ridacchiasti e tornasti vagamente serio. Vagamente perché un mezzo sorriso continuò ad albergare sul tuo volto.
Intanto che i Cavalieri vicini a Shura avevano cominciato a tempestarlo di domande sulla sua salute. «Per quanto riguarda voialtri bè, o, avete sviluppato capacità simili o affini, oppure, semplicemente, è stata lei a scegliere di farsi vedere anche da voi». Personalmente sceglievi la prima possibilità, dopotutto ti avevano raccontato di essere stati resuscitati più volte, era ovvio che qualcosa gli fosse rimasto. Guardaste tutti l’altro esperto in materia che, ci rifletté su prima di confermare con un cenno del capo: «Sì, lo possono fare, se lo desiderano».
«E, dove vanno questi viaggiatori?» Domandò Kiki un po’frastornato ma, ancora guardingo. Seiya bisbigliò a Ikki che non ci aveva capito un tubo e, il fratellastro, gli sussurrò di rimando che gliel’avrebbe rispiegato dopo.
«Dove vogliono.» rispondesti semplicemente. «Alcuni restano sul posto, vicino al proprio corpo, altri vanno dalle persone che amano, diversi ancora in capo al mondo e, certuni si perdono. Nessuno di essi, però, è così pazzo da cercare l’Altro Mondo, non sia mai che possano restarci incastrati». Li guardasti dall’alto delle tue conoscenze e superiorità e sogghignasti divertito. Che sciocchi, se non fosse stato per te, avrebbero continuato a brancolare nel buio ancora a lungo.
«Tu non hai mai provato?» Ti chiese Death Mask, e, il tono con cui lo pronunciò parve un invito.
«Fossi matto». E, ricevesti occhiate scettiche che tu non interpretasti. Non era che ti importasse così tanto della loro opinione. A parte una. L’unica persona che, speravi che avesse capito. Ci avresti messo la mano sul fuoco che era stato proprio così.
Per quanto riguardava la ragazza, bè, l’avresti tenuta d’occhio e studiata ancora anche a costo di farti legare un’altra volta alla colonna. Chissà quali altre sorprese aveva in serbo per voi.

Appena l’assemblea fu sciolta salutasti gli altri e andasti alla ricerca di Astrid.
Dovesti lasciare le Dodici Case e passeggiare qui e là per trovarla in una radura che stendeva il bucato. Canticchiava tra sé e sé e sembrava non esserti accorta di te, che ti stavi avvicinando.
Non eri certo un barbaro, e sapevi benissimo che non si sarebbe fidata se gli fossi comparso alle spalle. Perciò la salutasti da lì. Lei sussultò e si girò verso di te, si tranquillizzò immediatamente, notando la tua mano alzata in cenno di saluto e il tuo sorriso. Ricambiò e ti seguì con gli occhi mentre ti colmavi le distanze e le porgesti la mano: «Ciao. Non credo che ci abbiano presentati, io sono Lancelot». Per fortuna che ti eri presentato senza la tua Armatura, altrimenti dubitavi che ti avrebbe guardato in quel modo così aperto e incuriosito. Ti saresti quasi aspettato che distogliesse gli occhi e cercasse di evitarti, invece fece un passo avanti e ti strinse la mano. «Astrid». Aveva un bel timbro vocale.
«E’un bel nome». Sorridesti mentre lei cercava di ricordarsi dove vi eravate incontrati. Dalla tua avevi la fortuna che non ti conosceva. Non figuravi nei ricordi di Death Mask, era impossibile che potesse nutrire qualche sospetto su di te.
Ti osservò a lungo prima di capire dove vi eravate già visti, lo capisti perché i suoi occhi s’illuminarono. «Tu non sei quello che ha impedito alla psicopatica con la maschera di prendermi a schiaffi sulle scale?» Ti chiese accigliandosi.
«Sì, sono proprio io. Lo sai che mi hai molto colpito? Non mi sarei mai aspettato che qualcuno cercasse di tenere testa a Neera». «Immagino».
«Dovresti fare attenzione a chi pesti i piedi, sai? Non tutte le persone potrebbero prenderla bene». Le consigliasti, rammentandoti la rabbia e l’odio della Saint.
«Per me può odiarmi quanto le pare, vivo lo stesso». Rispose stendendo un altro panno, senza guardarti. Poi lo fermò con delle mollette. Notasti le croste fresche sui suoi gomiti e qualche livido sulla pelle candida e ti domandasti come se le fosse procurati. Poi rammentasti di aver sentito l’eco di un urlo di terrore poche ore prima, portato dal vento. E, capisti, che doveva essere successo qualcosa mentre gli altri lottavano contro le loro stesse corazze.
Ti mettesti a sedere sotto le fronde dell’olivo vicino. «Sei un tipo tosto, vero?»
La bionda si irrigidì per un attimo. Poi si rilassò e ti lanciò un sorriso mesto che lasciò intendere molte più parole di quante la sua bocca avrebbe potuto dirne.

Passasti tutto il tempo a chiacchierare con lei. Parlaste del più e del meno e di qualche cavolata e, piano piano, la bionda si sciolse un po’ nei tuoi confronti.
Poi, quando i panni finirono, restasti molto sorpreso nel vederla impugnare un bastone e, mettendosi il cesto vuoto sul fianco, risalire.
La seguisti. Ormai avevi capito che la tua presenza non le dava fastidio, anzi, sembrava davvero in vena di parlare con qualcuno. Un altro punto a tuo favore. Se poi Neera avesse davvero deciso di attuare un piano di vendetta molto più articolato di quello che ti era parso d’intuire, allora avresti potuto sfruttare la cosa a tuo vantaggio. Meglio sarebbe stato se ti fossi mosso prima della spia che avevi percepito nella Sala dei Chrysos Synaigen.

Fu per puro caso che scopristi che Seiya e i suoi fratellastri avevano indetto una piccola festicciola alla Nona, tre giorni dopo “La ribellione delle Sacre Vestigia Dorate”. Stavi oltrepassando la Settima Casa perché stavi cercando Neera. L’Aspirante Saint dell’Indus aveva l’abitudine di scomparire abbastanza spesso. Alcuni vociferavano che intrattenesse relazioni con alcuni compagni di Accademia, mentre alti che avesse messo gli occhi addosso al Cavaliere d’Oro dello Scorpione. Ma a questo punto le voci discordavano, dal momento che l’avevano vista spesso in compagnia anche degli altri Cavalieri d’Oro. Per te era solo un’arrivista che stava cercando l’occasione giusta per entrare nelle grazie del Gran Sacerdote. E, qui, te la ridevi perché le sarebbe bastato presentarsi alla Tredicesima, invece di fare tutto quell’inutile rigiro. L’importante era che girasse alla larga dal tuo amato re. Non avresti mai sopportato che un’altra mocciosa s’infilasse tra voi come in passato. Anche se, ammettevi con una nota di nostalgia e tristezza, che Ginevra in fin dei conti l’avevi amata davvero. Altrimenti non avresti mai fatto tutto quel casino per proteggerla.
L’aspirante Sacerdotessa-Guerriero non si trovava lo stesso, però. E, dire, che l’avevano affidata alle tue cure per perfezionare la sua tecnica. Te l’avevano affidata senza troppi complimenti e, tu, ti eri messo d’impegno come quando addestravi i cavalli del tuo amato re. Ma questo non era bastato perché ricevevi abbastanza lamentele da parte degli insegnanti della Palaestra sulla tua inadempienza. Effettivamente il tuo metodo d’insegnamento prevedeva di cacciarla nei guai e di farla danzare sul filo del rasoio, ma così o non sarebbe mai diventata Cavaliere. Di che si lamentavano? Tanto non era raro che alcuni apprendisti ci rimettessero le penne. Quasi tutti i fratelli di Seiya & co, erano, infatti, morti per questo.
Comunque, abitando al Santuario con Death Mask e gli altri, avevi scoperto la tragica storia dei cinque Gold e dei restanti Bronze loro fratellastri. Avevi quasi invidiato il defunto Duca Alman di Thule: cento maschi! Se fosse vissuto ai tempi della Tavola Rotonda avrebbe fatto invida persino al re Ban, tuo padre e gli altri Cristiani presenti a Camelot. Anche se, in realtà non era poi così importante, visto che, per la cultura celtica, erano le ragazze ad essere motivo di vanto e orgoglio, non i ragazzi. Infatti, erano le donne a governare i regni, voi uomini, al limite, potevate essere i loro dux bellorum. Le cose erano cambiate con l’avvento dei Romani prima e poi definitivamente con il Cristianesimo.
«Neera! Dove sei? Avanti, vieni fuori!» Chiamasti per l’ennesima volta poco prima di entrare nella Settima. E, la ragazza era diventata furba: prima di scomparire azzerava il suo Cosmo, rendendosi irrintracciabile.
Ti fermasti.
Un sorriso storto affiorò sul tuo viso: «Eh, quella maledetta sta diventando brava». Sogghignasti tra te e te mettendoti le mani sui fianchi. Stavi percorrendone il corridoio di passaggio e non avevi fatto in tempo ad annunciarti che li avevi sentiti delle voci uscire dagli appartamenti privati del Cavaliere di Libra.
Richiudesti la bocca e, avvicinandoti il più silenziosamente possibile, azzerasti il Cosmo per meglio udire quello che si stavano dicendo. «Adesso che la Guerra è vinta non c’è più motivo per noi di restare qui». Disse Hyoga.
«A parte una piccola vacanza». Disse Seiya, mettendo troppa poca convinzione nelle sue parole per essere veramente divertente. Oh, il raccomandato che faceva ironia? Allora la fine del mondo era vicina. Tutti voi eravate a conoscenza del complesso rapporto inespresso che legava il Sagittario a Miss Isabel di Thule. Neanche nella tua dimensione era mai successa una cosa simile. E, questo, era un motivo in più per canzonare quello stupido ronzino. Tra tutte le donne proprio la più inaccessibile. Che fesso!
«La Dea come sta?» Chiese Seiya, preoccupato e Shun gli rispose: «L’ho visitata oggi. A livello fisico si è ripresa completamente è a livello psichico ad essere ancora turbata. Ha insistito per riparare lo scettro con il proprio Cosmo ma l’abbiamo persuasa a non farlo». Già, il Cavaliere di Virgo era un tipo empatico ed emotivo, era ovvio che conoscesse così bene lo stato d’animo della Dea incarnata. «Dovresti ringraziare Koga, se non fosse stato per lui a quest’ora si sarebbe cacciata nei pasticci un’altra volta. Quel ragazzino ha un buon ascendente su di lei». Aggiunse. Il ragazzino stava appresso alla madre adottiva e aveva vegliato su di lei fino a questo momento assieme alle Saintie. «Per forza, quando diventi genitore la tua priorità assoluta sono i tuoi figli e Lady Isabel non fa eccezione». Disse Shiryu con l’aria di saperla lunga. Se tu non avessi saputo che Koga era il figlio adottivo di Lady Isabel, ti saresti messo a ridere.
«Quindi cosa facciamo?» Chiese Seiya dopo un lungo sbuffo.
«Il piano lo conosci».
«Sì, questo lo so che domani partiamo, intendevo, stasera. La festa la facciamo lo stesso?». Festa? Che festa?
«Sì, dai».
«Non mi sento molto in vena di festeggiare…» Aveva detto Shun a quel punto.
«Ma dai, Shun, non fare il guastafeste, non abbiamo neanche festeggiato la vittoria della Guerra Sacra! Ascolta, anch’io non vorrei, ma ne ho parlato con Lady Isabel stamattina. Sai che mi ha detto? Che non ci avrebbe mai impedito di divertirci un po'».
«Approva veramente?» Chiese stupito Shiryu in coro con un diffidente Hyoga.
«Sì. Anzi, ha esteso l’invito anche agli altri Gold per premiarci tutti del lavoro svolto, a patto però che restassimo nei confini del Santuario». Eh, dopo l’ultima volta che aveva concesso una vacanza ai Gold era successo il finimondo, per forza che metteva questa condizione.
Perché non ne avevi saputo niente? Dopotutto eri un Gold Saint anche tu! Anche tu avevi partecipato allo scontro! Sta a vedere che Death Mask aveva volontariamente omesso di dirtelo. Che gran figlio di buona donna. E, tu, che gli avevi anche dato tregua per riprendersi dal rituale di rigenerazione! Tu non avevi partecipato al rito ma, tramite il Cosmo avevi assistito alle loro operazioni. Che illusi. Avevano pensato che la loro forza sarebbe stata sufficiente per compiere quel miracolo. Purtroppo però, soltanto una divinità poteva infierire e influire sulle armi di un’altra divinità. E, questo Viviana te l’aveva insegnato.
Ogni volta che le due metà sembravano sul punto di ricongiungersi, l’energia esplodeva e li sbalzava via, lontano dallo scettro. E, tutte le volte, finivano schiantati contro le pareti dall’onda d’urto.
Gli inservienti ormai si stavano quasi abituando a spazzare via i pezzi di calcinaccio e la polvere che cadeva dal soffitto.
A un certo punto Kanon li aveva fermati: «Non ce la farete mai». Aveva detto, quel giorno che entrò nella stanza dopo l’ennesimo fallimento dei fedelissimi.
«Come fai a dirlo se non ci hai neanche mai provato?» Aveva ribattuto il ronzino dorato. «C’è ancora speranza, perciò non mi arrendo.» Aveva aggiunto con quell’insopportabile determinazione che precedeva una delle sue cazzate.
Ma l’ex Dragone del Mare aveva scosso il capo. La zazzera azzurra in netto contrasto con i paramenti scuri una volta indossati. Si era tolto l’elmo e la maschera sacerdotali per poterli guardare meglio negli occhi.
Alla fine aveva lasciato provare anche loro. I cinque avevano provato di tutto, persino a riflettere la luce del sole sullo scudo di Atena. Peccato che anche quel tentativo andò a vuoto perché da giorni non faceva che piovere. E, il Gran Sacerdote aveva impedito che ripetessero il miracolo del Muro del Lamento. «Non voglio che muoiano di nuovo!» Aveva detto.
Seiya aveva battuto un pugno sul pavimento per la rabbia. «Noi siamo i Saint di Atena, i guerrieri della speranza! Non accetterò mai questa sconfitta. Non dopo tutte le battaglie che abbiamo affrontato e i nemici che abbiamo sconfitto!» Aveva dichiarato alzando il viso per guardare il Gran Sacerdote, mentre gli altri fratelli si rialzavano.
«Seiya ha ragione». Aveva esclamato Shun. E, Shiryu, avanzando a fatica verso il tavolo, aveva fatto eco: «Noi non ci arrendiamo».
Il fratello minore di Saga li aveva guardati con compassione mentre i cinque si riavvicinavano al tavolo di pietra. Poi, aveva detto, in tono mesto: «Credete che non ci avessimo già provato?» E, sempre nello stesso tono, aveva aggiunto, scuotendo il capo: «Per oggi basta così, continuerete un altro giorno».
«Ma…!»
«E’ la volontà di Atena!»
«Mi arrenderò solo se lo dirà Lady Isabel!» Aveva urlato Seiya. T
u avevi schioccato la lingua contro il palato in un verso di disapprovazione. Con quelle ferite e il Cosmo ancora danneggiato? Neanche un miracolo gliel’avrebbe risistemato.
«Bravo, allora va a svegliarla e diglielo!» Urlò a sua volta Kanon. Perché in quel momento la Dea stava riposando nella sua stanza. E, quelle parole avevano tolto al Cavaliere del Sagittario tutta la voglia di imporsi.

In questi giorni avevi avuto modo di incontrare anche gli altri Saint. Aiolia sembrava quello che, più di tutti, aveva bisogno di svagarsi. A parer tuo ti sembrava troppo stressato. Aveva seriamente bisogno di sfogarsi un po’. Un giretto ad Atene non gli avrebbe fatto mica male. Anzi, magari si sarebbe svegliato in un letto diverso.
Poi li avevi sentiti alzarsi e ti allontanasti rapidamente.
Guadagnasti la soglia e, lì, appoggiandoti alla terza colonna a destra dell’ingresso, aspettassi che uscissero.
I primi a uscire furono proprio Shiryu e, dopo qualche secondo Hyoga. Nessuno dei due si accorse di te. Anche perché ti eri messo proprio dalla parte in cui (soprattutto Hyoga, non avrebbe potuto scorgerti. Shiryu non valeva nemmeno la pena di nascondersi).
Poi, quando i due erano scomparsi alla vista erano comparsi gli altri due. Il Cavaliere di Virgo proprio non lo capivi, dovevi essere onesto. Aveva smosso mari e monti per non far scendere il fratello in campo e, poi, si era ritrovato a doverlo rimproverare. E, quel ronzino dorato doveva averne subiti molti di rimproveri nella sua vita per guardarlo con quel cipiglio arrabbiato dannatamente infantile. Ti mordesti la lingua per non ridere.
Invece Shun non demorse, anche se per poco non scoppiò a piangere: «Perché sei andato in battaglia? Ti avevo vietato di non farlo! Le tue condizioni fisiche non sono ancora stabili!»
«Ma se dal colpo della resurrezione di Shiryu sono passati due anni!» Protestò l’altro esasperato.
«Non è mai abbastanza, e poi non prendi le medicine che ti prescrive il dottore!»
«Scusa ma non sei un dottore anche tu? E, poi, guarda che uso il Cosmo per mantenermi in piedi! Ma figuratevi se vi lascio da soli voi e Lady Isabel!»
Il medico alzò gli occhi al cielo prima di rispondere: «Sono un chirurgo e questo non c’entra niente! Potevi morire!» Esclamò con un tono a metà strada tra l’irato e il lamentoso.
«Non è successo, sono ancora qui, Shun!»
«Oh, Seiya…», aveva sospirato rassegnato il fratello di Ikki di Phoenix chiudendo gli occhi e pizzicandosi la radice del naso, scuotendo la testa, «sei veramente testardo».
«Vabbè, insomma, stasera vieni alla festa, sì o no?»
«Ma sì, tanto Shura ha detto che vuole vederci tutti». Ah, allora non era partita da Lady Isabel, l’idea. «E, tu lo sai che quando dice così significa che dobbiamo procurarci tutto il necessario».
«Questa è bella, sul serio?» Disse stupito il Cavaliere più vicino alla Dea di chiunque altro. Era raro che lo schivo custode della Decima si scomodasse per parlare con i compagni ma se lo faceva, voleva dire che era grave. «Sul serio, non sai quante volte due anni fa io, Hyoga e Shiryu abbiamo ricevuto un suo messaggio che ci diceva che voleva incontrarci da soli e, spesso, eravamo finiti per essere trascinati in posti che non ci saremmo mai aspettati da lui. Hyoga in una gelateria e Shiryu in un bagno pubblico. Io ho mangiato assieme a lui i ramen. Shura ha veramente uno strano modo di coinvolgerci». Però, se li chiamava tutti assieme, allora, la situazione era veramente grave. Shun aveva sospirato e aveva detto: «Per quello che mi riguarda basta che ci sia da bere perché ho bisogno di qualcosa di forte».
«D’accordo, dimmi cosa vuoi, che scendo in paese a fare la spesa».
L’altro gli lanciò un’occhiata di vago rimprovero e si mise le mani in tasca. Da dove eri lo vedesti benissimo.
Seiya sembrava stupito, come se non avesse mai visto il fratellastro così autorevole. Tra tutti sembrava effettivamente colui che poteva fare qualcosa di veramente concreto per la Dea e, questa doveva far alterare per l’impotenza il Saint tre gradini più in basso. Forse persino Koga era più utile di lui, anche se tutto quello che aveva potuto fare era portare dei fiori alla madre. Lo sapevi perché glielo avevi chiesto quando l’avevi visto oltrepassare la Quarta con quel mazzolino fresco di negozio di fioraio.
Il ronzino dorato si lanciò nella descrizione di quello che avrebbe potuto comprare.
«Vendono la birra a Rodorio?» Aveva chiesto Shun sorpreso, raddrizzando la testa.
«Adesso sì, durante il mio apprendistato no». Rispose Seiya.
«Sono cambiate molte cose da allora». Rifletté l’altro.
«Sì, ma a me non sembra sia cambiato poi tanto».
«La vivi con spensieratezza, eh?»
Il Saint di Sagitter alzò le spalle: «E’ l’unico modo in cui mi sento di vivere, poi lo sai che sono un tipo simpatico per natura». Sorrise. «D’accordo, fa scorta anche di quelle. Ci vediamo stasera». Decise alla fine Shun.
«Sta bene. A stasera». Poi si era girato e se ne era andato.
Solo quando il fratello scomparve, Shun, con un sospiro si schiodò da quel gradino e scese a sua volta. Proprio allora dicesti: «Un uccellino mi ha detto che stasera si festeggia qualcosa, dico bene?»
Il Gold Saint di Virgo trasalì e si volse verso di te, sgranando i grandi occhi azzurri.
Sorridesti affabile.
«Sì». Confermò l’altro, ancora a occhi sgranati.
Ti venne quasi voglia di sfotterlo. «Posso venire anch’io?» Chiedesti invece, senza troppi giri di parole.
«Va bene, non vedo perché no».
«Allora a che ora si comincia?»
«Verso le nove».
«Ci sarò. A stasera». Sorridesti, ti staccasti dalla colonna e scendesti le scale, mentre il poveraccio si riprendeva dallo spavento che gli avevi fatto prendere.

Quella sera arrivasti con Death Mask al seguito. Salutasti tutti i presenti, soprattutto Shura. Saluto che fu ricambiato con un’occhiata ombrosa e tagliente da parte di quest’ultimo.
«Perché è venuto anche lui?» Chiese Seiya sottovoce al Custode della Quarta. Il siciliano replicò, dopo essersi acceso una sigaretta. «Non è voluto restarsene a Casa. E, che volete farci, io non posso mica obbligarlo a rinchiudercisi; anche se non mi dispiacerebbe».
«Ehi, ti ho sentito!» Esclamasti fingendoti irato.
Death Mask rispose retorico: «Sai quanto me ne frega?» Poi fece altri tiri dalla sigaretta. In quel momento comparve Hyoga dalla cucina con altre birre fredde e tu ne acchiappasti una. Poi notasti le sue occhiaie e gli dicesti: «Che faccia! Che ti è successo?»
«Non ho ancora recuperato completamente le forze, secondo Shun abbiamo preteso troppo dai nostri Cosmi. Cercare di riparare un oggetto divino e al tempo stesso di guarire noi stessi è effettivamente troppo, poi Natasha non voleva saperne di andare a letto».
«Uh, bella rogna. L’importante è che tu riesca a raffreddare le birre, mi raccomando». Dicesti appioppandogli una pacca sulla spalla ed eri tornato a infastidire Death Mask. Mentre Hyoga giocava, la squillante voce di Aphrodite annunciò il suo ingresso alla Nona. Seiya lo andasti ad accogliere e quando fecero il loro ingresso in salotto lo vedeste in compagnia del Cavaliere dei Pesci, di Kanon e di Cocteau stesso, che andò ad appollaiarsi sulla spalla di Capricorn. I tre si guardavano intorno e il Cavaliere della Dodicesima costatò, neanche troppo a mezza voce, che Lythos e gli altri avevano fatto un buon lavoro, mancava solo Jabu che si improvvisava maggiordomo ed eravate a posto.
I nuovi arrivati si erano serviti e si erano appropriati rispettivamente di una poltrona, una sedia e il divano. Seiya si scusò con l’oracolo di Atena dicendo: «A te non so che dare, onestamente non so neanche se gli animali come te bevano». Mentre Shura, stava già bevendo un sorso dalla sua birra. Solo tu ti accorgesti dello sforzo che fece per non ridere quando la civetta replicò in tono adirato: «Non sono un animale!» E, i tre topolini sulla sua testa avevano fatto eco all’ultima parola, spezzettandola come un vero eco.
«Lascia perdere, Seiya». Aveva detto Shura dopo aver inghiottito. L’altro fece spallucce. Secondo te non aveva ancora compreso che cosa fosse quell’oracolo di Atena.
«Buonasera a tutti». Aveva salutato Shun in compagnia di Shiryu il quale, dopo avervi salutato a sua volta e sorriso, si sedette sul divano accanto al tuo re.
«Ti togli, grandissimo scassa palle a oltranza?»
«Ehi, qualcuno metta un po’di musica!» Si lamentò Milo quando fece il suo ingresso con Ikki, Kiki, Mur (neanche troppo convinto della scelta fatta) e Aldebaran. Poi tracannò la sua bottiglia.
«No, mi piace troppo infastidirti».
«Shun, dammi le tue catene!» Ma tu ti eri già dileguato.

Astrid
L’avvenimento che poi venne ribattezzato “La ribellione delle Sacre Vestigia Dorate” non passò inosservato. Tutti coloro che a Rodorio potevano percepire il Cosmo o che si trovavano nelle Tredici Case avevano sentito ciò che era accaduto e ne parlavano. C'era chi vociferava addirittura di un Chrysos Synaigen segreto, ma questo era difficile stabilire se fosse vero o meno.
Sognai di osservare il cielo stellato con il telescopio assieme a mio padre. Lui mi aveva appena indicato la costellazione dello Scorpione e poi, mi aveva lasciato guardare nel telescopio.
«E’bellissima!» Avevo pigolato. Ma quando avevo staccato l’occhio dalla lente avevo visto le stelle spegnersi una a una. «Che cosa sta succedendo, papà?» Avevo chiesto a mio padre spaventata e, mi ero resa conto di essere da sola e di nuovo adulta. Mi ritrovai a correre per un bosco in cui avevo giocato spesso nella mia infanzia e a chiamare qualcuno a gran voce che camminava quaranta metri più distante da me. Ma quest’ultimo non si voltò e continuò la sua avanzata. Lo chiamai e cercai di accelerare, però le mie gambe cominciarono a pesare sempre di più finché non riuscii più a muoverle. Cercai di liberarmele aiutandomi con le mani ma non ne vollero sapere.
Improvvisamente cominciò a spirare un vento gelido e, alzando gli occhi, vidi le creature avventarsi addosso a me. Fui svegliata dalla mano di Castalia, che mi scrollò. «Stai bene?»
Ero madida di sudore e dovevo essere spaventata. Il mio cuore pareva un uccellino incastrato nella gabbia toracica che batteva disperatamente le ali per liberarsi. «Sì, sì, era solo un incubo».
«Hai urlato, sei sicura di stare bene?»
«Sì, certo, scusami per averti fatta preoccupare». Dissi mettendomi seduta e posandomi una mano sulla fronte. Con l’altra mi tenevo la coperta al petto e mi coprivo le ginocchia. «Sei sicura di stare bene? Se vuoi dico a Galan che devi riposare».
«No, non ti preoccupare, va tutto bene. Dimmi cosa c’è da fare, così mi faccio una rapida doccia e vado.» Lei mi spiegò che i Gold avevano fatto baldoria la sera prima su alla Nona e che c’era da pulire. «Mh, mi sa che dovrò farmela dopo la doccia. D’accordo, allora mangio qualcosa e vado al lavoro».
Appena misi piede in cucina provai a cercare di ricordare l’uomo che compariva nel mio sogno. Sentivo di conoscerlo, ero stata felice di rivederlo, anche se di lui vedevo solo la sagoma dai lunghi capelli e le spalle. Ma, mentre mi preparavo la colazione, mi accorsi di non riuscire a ricordarmi neanche il modo in cui lo avevo chiamato. Chissà chi era.
Dopo colazione lavai la ciotola e la rimisi al suo posto. Poi andai in bagno, mi lavai, mi vestii, raccolsi le mie cose e mi recai al lavoro.
Per quel giorno avrei soltanto dovuto ripulire la Nona Casa e poi il resto della giornata l’avrei passato come meglio credevo, salvo eventuali incombenze.
«Ehi, Astrid», mi salutò Makarios, uno dei miei colleghi. Era biondo rossiccio con i capelli ricci e gli occhi azzurri. Anche se dimostrava diciotto anni aveva un anno meno di me. Lui e i suoi amici, Papios e Kyprianos, (due ragazzini, il primo con gli occhi azzurri e i capelli rossi e l’altro moro con la pelle scura (come ebbi modo di scoprire in seguito, sua madre veniva dal Senegal)) avevano cominciato a prendermi in giro per via del p.d.m. di Milo.
Avevo commesso l’errore di parlare con Zoi, un’altra collega, che si era accorta della mia mano fasciata. Nel giro di un’ora tutto il Santuario era venuto a conoscenza della mia sfiga. Ma che ne sapevo io che quella lì era la domestica più pettegola di tutta Rodorio? Ovviamente la notizia aveva raggiunto anche Galan. Il quale mi convocò prontamente nel suo ufficio per parlarne. Così dovetti spiegargli che era stato un incidente, che non sapevo usare quel tipo di ferro da stiro e che nessuno mi aveva avvisato, né istruito su come fare. L’avevo poi supplicato di non mandarmi subito via aggiungendo anche che, a causa della scottatura il ferro mi era scivolato sulla tavola e avevo rovinato un angolino della maglietta. Però neanche si notava.
L’uomo mi aveva tenuto sulle spine per un po’ e poi aveva deciso di darmi un’altra chance, avvisandomi che se il Cavaliere se ne fosse accorto lo avrei dovuto risarcire. Sia del ferro da stiro, sia della maglietta.
«Se hai bisogno di aiuto chiedi ai tuoi colleghi». Mi aveva detto prima di congedarmi.
«Come va con Milo? Non ti ha ancora scoperto?» Fece Makarios mentre i suoi amici alle sue spalle ridevano neanche troppo sottovoce e senza preoccuparsi che li vedessi. «Per fortuna no». Poi li salutai, mi armai di pazienza e salii le scale. Stavo cominciando a migliorare, adesso, almeno, ci mettevo due ore e mezzo per arrivare fino alla Nona, ma ero ancora ben lungi dal non avere più il fiatone.
Di Gold non ne trovai neanche l’ombra, ma di caos ne trovai tanto. Sembrava fosse passato un tornado.
Il manico del mocio mi cadde di mano per lo stupore e l’orrore: mi potevano avvisare che era così incasinata!
Borbottando imprecazioni che tirarono giù qualche parlamentare italiano, mi rimboccai le maniche e mi misi all’opera.
Arrivata a metà, mi presi un bicchier d’acqua e, rendendomi conto della vaga eco in questo luogo, cominciai a cantare. Non so come feci, ma la voce mi uscì limpida come non mi ero mai aspettata. A volte avevo cantato sul lavoro e, i miei colleghi mi avevano fatto la registrazione a tradimento per farmi sentire quanto facessi schifo. L’unica canzone che finora era stata alla mia portata era Boadicea, no? Per questo, quando le mie labbra si aprirono da sole e cominciai a cantare molto meglio di quando avevo diciassette anni, mi resi conto dell’enorme cambiamento che avevo subito. Se non ricordo male, ciò era dovuto al fatto che, una volta superata una certa fascia d’età, si acquisiva un controllo vocale molto più valido di quello precedente. Almeno questo, per chi aveva qualche nozione canora. Ce ne parlò un docente all’università per spiegarci il movimento delle onde sonore nello spazio e la “musica delle sfere”.
Mi fermai, stupita: allora non avevo perso tutte le nozioni che avevo assimilato. Questa scoperta mi commosse fino alle lacrime, avevo temuto che l’immobilità intellettuale in cui mi ero incastrata avesse cominciato a intaccare le mie conoscenze. Mi era sempre piaciuto cantare e lavorare (oddio, adesso che l’ho detto, mi sento Biancaneve, la differenza era che farlo mi rilassava). Peccato che non avessi con me un mp3, me la sarei volentieri scaricata la discografia di musica celtica. Ovviamente avrei evitato di farla sentire a Lancelot. Non mi piaceva granché quel Cavaliere, sarà stato per il nostro primo incontro? Per il sorriso beffardo o gli inquietanti occhi rossi o lo scherzo che mi aveva fatto? O tutte queste cose insieme? Fatto sta che avevo deciso di mostrarmi cordiale per non avere rogne. Se quelle fossero sopraggiunte allora sarei stata pronta a scappare. Ma, tanto non sarebbe mai salito, oggi, mentre passavo dalla Quarta non l’avevo incontrato, cissà dov'era finito?
Di solito non cantavo quasi mai quando c’era lui o qualcun altro, mi vergognavo moltissimo.
Ero arrivata a metà canzone quando una voce maschile m’interruppe: «La pianti di cantare? Ho mal di testa».
Lanciai uno strillo, mi girai con due occhi grandi così e trovai Milo, in borghese, sulla porta del bagno, che si massaggiava le tempie come se fossero l’epicentro del suo malessere. «Scusami, pensavo di essere sola».
«Bè, non lo sei, fattene una ragione». Poi si diresse in cucina senza tanti complimenti e si servì una sommaria colazione dopo aver frugato in dispensa.
Ricominciai a spazzare cercando di mordermi la lingua. Che avevo fatto a quello là per essere apostrofata in questo modo?
Il resto della mattinata passò tranquillo e lo Scorpione se ne tornò a casa propria verso mezzogiorno, quando avevo quasi finito.
Nei giorni seguenti, se mi rivolse la parola, furono per la maggior parte commenti ironici e volutamente provocatori. La settimana più lunga della mia vita, che andò peggiorando quando la Dea e i suoi fedelissimi se ne tornarono a Nuova Luxor. Stando alla versione ufficiale la Dea si era destata ed era tornata a Nuova Luxor per seguire gli affari urgenti di suo nonno, il defunto duca Alman di Thule. Stando ai pettegolezzi dei mei colleghi, sembra che fosse un piano d’emergenza in vista di una nuova invasione e che i Cavalieri avessero ritenuto più opportuno spostarla invece che farle correre questo rischio. Sempre stando a questa versione, la Dea aveva versato lacrime amare nel piegarsi al volere del Gran Sacerdote e dei suoi Sacri Guerrieri.
«Un’altra Guerra Sacra?» Domandai a Kelani, l’anziana signora che stava facendo la spesa con me, quel giorno.
«Secondo Annika, una delle domestiche del Cavaliere dei Pesci, sì. Sembra che sia stato rubato un prezioso libro di magia custodito al Monastero dei Cinque Picchi».
«Ma le indagini non erano state affidate a Kiki dell’Ariete?» Domandai mentre ci dirigevamo verso il bancone del pesce.
«Sì, però ha dovuto abbandonare l’incarico per affari più urgenti». “Tipo riparare lo scettro della Dea”. Pensai rifacendomi a quello sprazzo di sogno risalente al ritorno dei Cavalieri della Guerra Sacra che stavo sforzandomi di ricostruire. Ci avevo messo un po’ per capire come mai quasi tutti i Cavalieri d’Oro recassero una fasciatura al polso, finché Elio, uno dei domestici di Kiki, non mi aveva spiegato il segreto della riparazione dei cloth e, di conseguenza, anche il perché dell’odore che permeava la Prima Casa. Quando lo disse restai inorridita. A quanto sembrava, inoltre, avevano provato a usare lo stesso metodo per cercare di riparare lo scettro divino. E, io, avevo storto da subito il labbro. Se c’era una cosa che avevo notato oltre la fasciatura era il pallore di Death e degli altri, oltre che quest'odore.
Con un nodo alla gola sperai veramente che non fosse odore di sangue.

Domenica mi ritrovai a spolverare l’Undicesima di nuovo deserta. Anche lì avevo provato ad approfittarne per cantare.
Mentre pulivo, avevo scoperto la biblioteca. E, impressionata, avevo deciso di dare una scorsa ai libri. C’era di tutto, letteratura, filosofia, matematica, persino libri di fisica e astrofisica. Non erano molto aggiornati, anzi, sembravano risalire a tre decadi fa, però i titoli erano interessanti. Provai ad aprirne uno e restai a sfogliare per un po’. Era scritto in greco, ma le formule le sapevo leggere lo stesso perché la matematica è un linguaggio universale. Cambia il nome e la lingua con cui si parla ma uno è sempre uno e una formula di meccanica celeste è sempre una formula di meccanica celeste.
In breve, capii che quello che stavo leggendo era un libro di astrofisica avanzata. Provai a eseguire quei calcoli e scoprii di essere arrugginita, ma anche interessata e ancora brava. Grazie al Cielo l’area del mio cervello adibita ai calcoli non era stata compromessa. Se mi fossi data da fare, sarei tornata a eseguire calcoli con la stessa velocità e precisione di una calcolatrice. Lo so, sono un caso disperato, ma che ci posso fare se io e le discipline scientifiche andiamo a braccetto?
«Forte!» Sorrisi mentre giravo pagina e continuavo la mia lettura.
«Cosa ci hai tu qui?» Trasalii e richiusi di scatto il libro. Milo era comparso da dietro uno scaffale e, dopo aver contratto il volto in una smorfia di rabbia, mi aveva cacciata via in malo modo. «Chi ti ha detto di venire qui? Tu questa libreria non la tocchi, hai capito? Adesso vattene, ci penso io a questa Casa».
Di solito non me ne era mai fregato di persone come lui, perché non valeva la pena. Ma adesso esagerava. Cioè, ero sicura di non avergli mai fatto niente e mi faceva perdere le staffe e una giornata di paga? “Non esiste!” Pensai irata. Mi voltai dopo quindici gradini stringendo i pugni e sbraitai «Ma che problemi hai? Che cosa ti ho fatto?» Lui non mi rispose, si limitò a fissarmi a occhi sgranati come se si fosse appena reso conto di aver fatto qualcosa di sbagliato. Sulla sua faccia potevo leggere le parole: “Mia Dea che cosa ho fatto”, a caratteri cubitali. Avrei voluto saperlo anch’io che diavolo gli fosse passato per la testa. Invece, si ricompose, mi fulminò con lo sguardo e mi dette le spalle scomparendo dentro il Tempio. Sibilai un «Idiota» e me ne andai anch’io.
Come avrei voluto zittirlo, oh se lo avrei voluto, però non potevo: “Ricordati che è anche lui che ti paga, ricordati che è anche lui che ti paga”, cercai di usare questa frase come mantra, salvo poi scoppiare in un «Sarà anche uno dei miei datori di lavoro ma come si permette?» Pestai i piedi masticando imprecazioni che avrebbero stupito persino Death Mask.
Forse avrei dovuto cominciare a sbollire la rabbia nei confronti dell’arrogante Scorpione, che da quel momento ribattezzai Piattola (tanto i metodi di uccisione delle suddette bestie non variavano) o avrei finito per attuare le mie fantasie minatorie su di lui. Ovvio che mi rendevo conto che così mi sarei abbassata al suo livello e che avrei fatto ridere i polli, ma così non si andava avanti! Verso la fine della rampa sentii la risata di Lancelot. Mi volsi nella direzione da cui proveniva la risata e lo trovai accomodato su una roccia, che rideva divertito.
«Non ti ci mettere anche tu!» Sbottai furiosa.
Lui si tenne la pancia e si deterse una lacrima con un dito: «Scusa, non era mia intenzione» disse. Certo, peccato che scoppiò a ridere di nuovo.
Roteai gli occhi e bofonchiai che non avevo voglia di giocare, lo salutai e me ne andai. Lui mi urlò di aspettarlo ma non lo ascoltai. Mi raggiunse e cercò di mettere una pezza al suo comportamento: «Ok, non c’era molto da ridere, ma non stavo ridendo di te». “Se, ed io sono nata ieri”. Pensai.
Lui continuò: «Non te la prendere, quello è fatto male». Non era che era fatto male, era che me lo ricordavo comportarsi diversamente con le persone. Me lo ricordavo più generoso e tranquillo. Non era affare mio, ma rischiava di diventarlo, se avesse continuato a prendermi di petto. E, io nei problemi altrui non ci volevo mettere il naso. Avevo già abbastanza problemi di mio, non potevo sobbarcarmi anche quelli di altre persone! «Sai che facciamo? Ti do io i soldi che avresti dovuto guadagnare, d’accordo?» S’offrì Lancelot. Gli lanciai uno sguardo dubbioso mentre scendevamo verso la Decima.
Appena varcata la soglia della Casa vuota (il suo proprietario era sceso in arena ad allenarsi) lui domandò: «Allora è qui che è cominciato tutto?» Trasalii e mi volsi a guardarlo, il cuore che batteva più velocemente mentre la mia espressione rivelava il mio pensiero. Si era fermato qualche metro più indietro e mi scrutava come un predatore osserva la sua preda. Un brivido freddo mi risalì la schiena e domandai, con voce improvvisamente flebile e guardinga: «Tutto?»
«La questione delle Armature». Specificò, infilando le mani nella tasca della giacca verde salvia polverosa che indossava. Poi mi sorrise: «A me puoi dirlo, non lo dirò a nessuno». Mi sentii raggelare il sangue nelle vene. «Non so di cosa parli». Tentai di svicolarmi dal pasticcio. Lo sapevo che questo qua aveva doppi fini e, adesso ero in trappola.
«Vuoi che ti rinfreschi la memoria?» Propose, senza mutare espressione e tono di voce. Chi glielo aveva detto? Come lo sapeva? Eppure non avevo detto niente. Cominciai a indietreggiare, mentre lui mi ordinò suadente: «Avanti, fammi vedere come hai animato le Armature». E, quel tono mi spaventò più di ogni altra cosa. Deglutii cercando di togliermelo di dosso. «Vuoi che ti dia una mano più fisica? D’accordo!» Ciò detto alzò una mano per colpirmi e io, chiusi immediatamente gli occhi e lanciai un ululato agghiacciante e tagliente che rimbombò nella Decima Casa e rimbalzò fuori di essa per via dell’acustica. Lo stesso che lanciai la prima volta che vidi le Creature. Un urlo che mi lasciò la gola dolorante e raschiata, ero caduta a terra, ma ero ancora viva.
Guardai il Cavaliere dai capelli azzurri che era rimasto immobile. Le mani in tasca e la testa inclinata di lato, che mi guardava divertito, mordendosi l’interno della bocca, poi, incapace di trattenersi oltre, scoppiò a sghignazzare.
Mi accorsi di non provare dolore. Com’era possibile?
Mi accigliai mentre mi rialzavo in piedi e mi spolveravo la gonna. Che cosa era successo? Trasalii arrivandoci e lo trapassai con lo sguardo. «Stavo scherzando!» Mi rivelò, infatti, piegandosi in due, e tenendosi la pancia mentre si sganasciava. «Oddio, ci sei cascata con tutte le scarpe, quanto sei divertente, davvero divertente, erano anni che non mi divertivo così. Mi dai più soddisfazione te che Death Mask!» Cominciavo a capire perché Death Mask lo legasse alla colonna.
Nonostante il bruciore alla gola cominciai a tirar giù tutto il Parlamento Italiano e a mandare accidenti al collega di Death Mask. Il quale cercò di rimediare dicendomi che l’aveva fatto per farmi ridere, che gli sembravo troppo tesa. Peccato che non ci fosse niente di divertente. Emisi un ringhio e mi diressi in cucina per riempirmi un bicchier d’acqua.
L’altro mi seguì e si fermò sulla porta: «Avanti, stavo solo scherzando, sei sempre così seria?»
«Non farmi replicare, potresti restarci male». Borbottai mentre mi portavo il bicchiere alla bocca e bevevo, ottenendo soltanto un altro scoppio di risa di risposta. E, mi era andata bene che non mi fosse venuta alcuna crisi, quello sì che sarebbe stato peggio.

Non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata a bramare di lavorare, pur di fuggire all’ansia divorante dentro di me. Ma di libri non era che ce ne fossero molti, né alla libreria di Rodorio, né a casa di Castalia. Mi sarebbe piaciuto sfogliare quelli dell’Undicesima, ma il Cavaliere della Piattola me l’aveva impedito.
Mi sarebbe anche andato bene leggere qualcosa, qualunque cosa, anche l’orario del treno. Peccato che da quelle parti non passassero treni e che non avessi comunque soldi per pagarmi il viaggio. La paga che avevo percepito nella mia prima settimana di lavoro era buona ma a parer mio non era sufficiente per i miei scopi. Dopotutto dovevo tornare a casa mia, no?
In realtà sarei potuta scendere a Rodorio e usare un telefono, il problema era che io e il greco eravamo ancora due cose a parte, il mio inglese faceva acqua da tutte le parti. Se capivo un po’ i Cavalieri, era solo perché riuscivo a intuire i loro discorsi. Anche se Juan di Scutum e Georg di Northern Crux erano un buon allenamento. Era comunque strano, era come se il mio cervello avesse inserito il traduttore automatico, sebbene io il greco non lo avessi mai studiato. Aggiungiamoci non mi potevo certo ripresentare a casa vestita così e senza uno straccio di documento. Anche se grazie all’Unione Europea, adesso per circolare tra gli Stati bastava una carta d’identità, la mia era rimasta da qualche parte in Italia lo stesso. Forse l’unica soluzione... mi guardai le mani. Già, ma ci sarei ancora riuscita? Che ne sapevo che dal giorno dell’aggressione (mi morsi il labbro e mi sforzai di non pensarci per non cadere vittima di un’altra crisi) non avevo perso la mia capacità? Inoltre, non sapevo se sarei stata pronta a voler leggere la mano di un manipolo di soldati. Lì per lì avevo considerato solo quella fetta di popolazione, non ai civili che abitavano questo posto. Questo dettaglio me lo sarei ricordato in seguito.
Non pensavo più da qualche tempo, ormai, che mi avessero rapito, anche se i miei sentimenti in merito non erano ancora cambiati. Forse era anche questo a trattenermi qui. Se mi avessero rapita davvero forse avrebbero chiesto un riscatto alla mia famiglia, oppure sarei stata seviziata o sarei morta per mano loro. O, mi avrebbero venduto a dei trafficanti d’organi o chissà cos’altro. Invece, qui, si erano prodigati per curarmi e tenermi al sicuro e mi lasciavano molta libertà, tantissimi mi avevano spronato ad andarmene, dal momento che la guerra era finita. Ma a parte il denaro che stavo cominciando a guadagnare, cosa mi tratteneva?
Dulcis in fundo i rapitori di solito non si affezionano alle loro vittime. Lo so perché al liceo lessi un giallo che era basato su una storia vera, riguardante la Sindrome di Stoccolma e, intimorita e incuriosita sull’argomento, feci delle ricerche. In più, avevo potuto costatare grazie alla lettura di Death la verità, la loro lealtà alla giustizia e, che un vero rapitore non avrebbe mai reagito come Kiki quando lo smascherai. Perciò, avevo tutte le prove che mi servivano per capire che ero al sicuro. Inoltre, non mi era mai successo niente di male, a parte la sera della mia esplorazione.
Lythos mi aveva detto che il Santuario era protetto da una barriera eretta dalla Dea in persona ed io, quella sera, non solo perché non riuscivo a dormire, ero uscita per tracciare una mappa mentale dei confini e delle porte. Finendo invece per perdermi. Ancora ringrazio il Cielo che Shura si trovasse lì nei paraggi, altrimenti sì che sarei finita male. Quei quattro non appartenevano alla categoria degli ubriaconi innocui, ma a quella degli ubriaconi pericolosi. A causa del mio vecchio lavoro al Kazablanc avevo imparato a riconoscerli. Ci fu un periodo, infatti, in cui una delle nostre ex bariste fu molestata più volte da un habitué. All’ennesimo rifiuto in cinque minuti per l’ennesima volta, l’uomo aveva perso la pazienza e l’aveva aggredita. Se non fosse stato per il buttafuori prima e i carabinieri dopo, quello sarebbe ancora in circolazione. Ovviamente della nostra collega non si seppe più niente. Lei si licenziò, cambiò città e numero di telefono. Anche quella sera con quei quattro mi era accaduta la stessa cosa e, avevo riconosciuto i segnali.
Alzai gli occhi per incontrare il cielo azzurro sopra la mia testa. Uno dei pochi in questa stagione.
Mi strinsi nella giacca grigia che Castalia mi aveva prestato. Se non altro mi dava un po’di colore, anche se un po’smorto.
Ormai mi stavo abituando a portare le gonne e i vestiti, anzi, mi stavano pure piacendo. Non avrei mai pensato che avrebbero finito per piacermi questi abiti di foggia iliadica (perché, davvero, mi sembrava di essere finita nell’Iliade quando scendevo in paese per fare la spesa. Ormai ci potevo scendere da sola, avevo imparato a conoscere le vie. Per quanto riguardava il linguaggio, mi facevo intendere a gesti).
Mi passai il bastone nell’altra mano. Non ne avevo più bisogno, però me lo portavo dietro perché ormai mi ero abituata al punto che mi sentivo nuda senza e, poi, qui non ci faceva caso nessuno.
Da un pezzo a questa parte stava succedendomi qualcosa di strano. A volte mi venivano in mente dei ricordi della mia infanzia. Ricordi che avevano a che fare con la persona che avevo visto in quel sogno e che continuavo a rifare. Di quella persona però ricordavo solo la sagoma sfocata. Era un uomo, di questo ero sicura, che aveva un brutto problema con il parrucchiere a giudicare dalla chioma lunga, scompigliata e indomabile. Ogni volta che cercavo di capirne qualcosa di più, qualcosa che mi distraeva e tornavo al punto di partenza. Era come se avessi qualcosa sulla punta della lingua, solo che non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Ah, se solo avessi avuto le mie carte con me, forse sarei riuscita a svelare quest’arcano. Aiolia non era ancora tornato dalla missione e Lythos non ci aveva dato notizie. Anche se cercava di nasconderlo lo vedevo che era preoccupata. Però non glielo dissi mai per tatto.
Di solito non avevamo tanto lavoro da sbrigare, giacché in teoria noi collaboratori domestici eravamo chiamati solo nei fine settimana per (salvo rare eccezioni come guerre, assalti o qualcosa di più tranquillo come un festino) per rassettare e pulire. Per questo, per ammazzare il tempo, oltre che dare una mano a Castalia, avevo cominciato a uscire e gironzolare per il Santuario.
Martedì pomeriggio dopo pranzo, dal momento che era una bella giornata e che non volevo restarmene chiusa in casa a fare la muffa, uscii come al solito. Mi recai sulla collinetta degli ulivi. Uno dei pochi spiazzi erbosi che si poteva sperare di trovare in questo posto. L’erba qui cresceva a chiazze come se stesse evidenziando il passaggio di una fata dispettosa.
Oltre agli ulivi c’era un altro motivo per cui stavo lì, la vista sulle montagne. Anche se a pochi passi da noi c’era Atene, stare al Santuario era come trovarsi in due mondi sovrapposti e al contempo complementari. Una specie di Terra di Mezzo.
Stavo osservando le rovine del Santuario quando mi sentii tirare la manica della giacca. Abbassai lo sguardo e vidi una bambina di otto anni che sembrava una bambola con lunghi codini argentei che mi guardava. Aggrottai la fronte domandandomi da dove fosse sbucata.
Lei, per niente toccata dalla mia reazione mi domandò qualcosa in giapponese e, io non ci capii una mazza. Il mio traduttore automatico mentale evidentemente non contemplava le lingue orientali e, in quel momento, non mi riusciva attivarlo, anche se, la sua richiesta era evidente. Voleva giocare con me, perché mi lanciò la palla che teneva sottobraccio. La afferrai con una mano e gliela rilanciai. Non avevo ancora fatto in tempo a rispondere che era sopraggiunta una ragazza di diciassette anni dai capelli lisci castani e gli occhi purpurei.
«Ciao». Salutai. Lì per lì l'avevo scambiata per un'altra collega.
La ragazza mi guardò e si scusò per il comportamento della bambina tutta imbarazzata. O almeno credo che fossero scuse vista l’espressione a disagio sulla sua faccia. Io le sorrisi e le dissi che non importava. Lei restò molto sorpresa nel sentirmi parlare più in italiano che in greco. Tutto si sarebbe aspettata fuorché questo. Poi sgranò gli occhi e disse, nella mia stessa lingua: «Ma tu non sei la ragazza di cui parlano tutti alle Dodici Case? Astrid av Stjernene?»
Confermai, sorpresa e felice di aver trovato qualcun altro con cui esprimermi nella mia lingua natia. Poi Pensavo di essere passata di moda con l’ultima Guerra Sacra. Si vede che la faccenda delle Armature avevano ristabilito la mia popolarità. Strano, eppure mi pareva che il Gran Sacerdote fosse riuscito ad arginare le voci prima che causassero un disastro.
La bambina le domandò qualcosa in giapponese e lei rispose prima di farmi la traduzione. Anche la piccola aveva sentito parlare di me da suo padre e lei aveva appena confermato. Yoshino si rivelò fin da subito una ragazza molto simpatica, anche se ebbi come l’impressione che si fosse come sentita inferiore, rispetto a me. Me ne accorsi perché, mentre giocavo con Natasha, si era come rabbuiata, persa in chissà quali pensieri. A giudicare dalle occhiate che mi lanciava. Come se mi stesse esaminando. Ok che mi avevano paragonato spesso e volentieri a un’elfa e, alcuni soldati semplici, alla versione femminile e bionda di Camus, però ora si esagerava. Non ero neanche così formosa! Per quanto mi trovassi bella io stessa e sapevo di esserlo, non mi sentivo vanitosa a livelli patologici, nel giusto.
Le domandai se stesse bene e lei disse di sì, ma era ovvio che fosse una bugia. Perciò, d’accordo con Natasha, la coinvolgemmo nel nostro gioco. Natasha le spiegò le regole e lei annuì un po’perplessa prima di ripetermele nella mia lingua per vedere se erano giuste. Purtroppo, a causa delle mie gambe non potemmo correre più di tanto e, così, ci dovemmo limitare a qualche gioco. A un certo punto passarono di fianco alla radura Lancelot, che, vedendoci così, sorrise e passò oltre, e la madre di Yoshino. Ebbi così modo di conoscere Shaina dell’Ophiuco. Anche se mi ci volle un po’per riconoscerla. Ovviamente mi morsi la lingua per evitare di scoprirmi troppo (per via della lettura di Death). Ed ebbi il piacere di scoprire che era italiana anche lei. Per questo la figlia conosceva la nostra lingua. Scambiai con lei qualche convenevole prima che ci lasciasse giocare da sole.
Passammo la giornata a ridere a crepapelle e giocare con la bambina. Alla fine, eravamo madide di sudore ed io e Yoshino stanche morte ma eravamo felici. Non la smettevamo più di ridere ubriache di sole e di vita come non eravamo mai state. Natasha quasi non voleva lasciarmi andare e Yoshino, sebbene fosse dispiaciuta anche lei di lasciarmi, mi propose di rifarlo ed io accettai con molto piacere. Sapevo che quelle due avevano a che fare con i Cavalieri d’Oro, però nella giornata che passammo, ci lessi la sincerità. E, anche da questo, restai molto colpita. Era da molto tempo che non stringevo amicizia con qualcuno. «Oh, sta tramontando il sole». Commentai a un tratto, detergendomi la fronte con il dorso della mano.
«Tramonto? Oh, no, mi sono dimenticata che oggi cucino io. Accidenti, devo andare». Ribatté la ragazza e scattò immediatamente seduta. Richiamò la figlia di Hyoga e, salutandomi, se ne tornarono alle rispettive Case mano nella mano. Ricambiai. Io invece, restai seduta in quel posto un altro po’, a guardare il tramonto. Era da un pezzo che non mi concedevo di vedere un simile spettacolo. E, mentre osservavo quelle bellissime sfumature iridescenti e infuocate dell’astro che calava, mi presi tutto il tempo del mondo. In fondo, non era necessario che tornassi immediatamente a casa. Non mi ero mai sentita così in pace e in sintonia con il creato come in quel momento. Nei quattro giorni seguenti incontrai altre volte Yoshino e Natasha anche se non potei che trattenermi solo cinque minuti per via del lavoro.

Due pomeriggi seguenti la nascita di questa amicizia Aiolia fece ritorno al Santuario. Sembrava un po’malconcio e distrutto. Un velo di barba gli velava il mento e sembrava pensieroso mentre saliva le scale con il Pandora-box che mandava scintillii dorati sotto ai raggi del sole. Appena mi incrociò sulle scale tra la Terza e la Seconda mi fulminò con lo sguardo ma passò oltre, andando a fare rapporto al Patriarca. E, gli avevo solo detto: «Buonasera».
Solo dopo mi venne in mente che poteva essere tornato solo perché la sua Armatura aveva cercato di dare forfait. “Anche a distanza?” Mi domandai, dubbiosa. Forse sì.
Nei giorni seguenti non ci parlammo più e non ci incrociammo nemmeno per sbaglio. Meno male, non avrei sopportato di essere fulminata dal suo sguardo ogni volta. Invece, Milo continuò a tirare la corda, soprattutto quando non gli sbraitavo contro. Dal momento che poi non gli avevo più urlato in faccia si era sentito quasi in dovere di riprendere a stuzzicarmi. Stavo cominciando a perdere la pazienza con lui. Stavo veramente cominciando a spazientirmi...
E, il giorno che persi la pazienza arrivò.
Era vicino il mio compleanno, cioè il trenta novembre e, io decisi di farmi un regalo. La Nobile Piattola aveva ignorato il mio avvertimento a proposito del disordine che lasciava in bagno ogni volta che si faceva la doccia? Bene, la Nobile Piattola avrebbe ricevuto una lezione. Ma quale? Sapevo che mi sarei abbassata a dei giochi infantili ma cosa mi serviva per fargli capire di smetterla e al tempo stesso che non ero una minaccia? Dopotutto ai suoi occhi ero pur sempre una strega, una nemica del Santuario.
Ci pensai un giorno intero quando ebbi l’ispirazione. Avevo ripulito la vasca e i filtri per l’ennesima volta borbottando accidenti alla Camera dei Deputati.
I capelli della Piattola, infatti, andavano a intasare i filtri della vasca da bagno (che era di poco più piccola di quella piscina olimpionica che, sempre per sentito dire, c’era alla Tredicesima). All’inizio lo avevo pregato di fare attenzione, spiegandogli il problema e lui mi aveva promesso che lo avrebbe fatto. Ma poi se ne era dimenticato e io mi ero ritrovata a collezionare sì tanti capelli presi dal filtro e dalle pareti della piscina-vasca da bagno, che avrei potuto creare la copia esatta della sua capigliatura. Ma non ero così pazza e, quindi, mi limitai a chiudere il tutto nei sacchi della spazzatura e portarli al centro di smaltimento.
All’ora di pranzo, quando mi recai alla locanda dove io e alcuni conoscenti pranzavamo insieme, mi mandarono a cercare una nostra collega: Chrysafi. Questa somigliava vagamente a un porcellino d’india, era un po’maniaca ossessiva che nutriva una fissazione per il Cavaliere della Piattola. Come si fa, ditemelo voi (“Fatti curare, Astrid, dammi retta”, mi disse la mia coscienza). E, infatti, mi ero accorta che arrivava persino a frugare nell’immondizia per ritrovare quelle ciocche. Come stava facendo in questo momento. «Che diavolo…»
«Astrid!» Esclamò spaventata riemergendo dal bidone maleodorante. Se fossimo stati in estate avrei visto persino le mosche ronzarle attorno. «Ti prego, non è come sembra io…»
Ebbene, fu proprio pensando a quella maniaca che mi venne l’idea. Andai da lei e le spiegai che mi servivano le ciocche per uno scherzo. «Ma poi me le ridai?» Aveva chiesto, guardinga.
«Certo!» Avevo esclamato convinta. «Anzi, sai che c’è? Te ne procuro di nuove per la tua collezione!» Promisi entusiasta.
«Davvero lo faresti?» Mi chiese speranzosa con gli occhi improvvisamente luccicanti.
«Hai la mia parola». Affermai con sicurezza tendendole la mano.
«Grazie, grazie, grazie!» Mi fece tutta entusiasta scuotendomela tre volte, mentre dentro di me pensai “Che schifo…”
Nottetempo risalii le Dodici Case facendo attenzione a non farmi vedere, mi introdussi nella stanza della Piattola che russava della grossa e, riuscii a vedere i suoi tratti grazie alla luce della Luna che entrava dalla finestra vicina. Facendo attenzione a non fare rumore disposi le ciocche e poi me ne andai.
La mattina dopo, mentre pranzavo vicino al pozzo in compagnia di Makis, il fratello minore di Makarios, che era identico a lui ma dai modi più dolci, Chrysafi, Tabetha, Eugenios (che era sulla cinquantina) e Eusmenios (anche lui che andava per quell’età). Quella mattina la Piattola giunse da noi tutto incazzato brandendo le ciocche fetenti (i capelli che intasano lo scarico non profumavano mica) che gli avevo lasciato, alla stregua di un martoriato mazzo di fiori. «Che cos’ha Scorpio?» Domandò Makis (uno dei pochi giovani) e,Tabetha: «Perché sta venendo qui?»
I due anziani ci consigliarono di non provocarlo, che sembrava alquanto adirato. Lo accompagnai con lo sguardo sforzandomi di restare tranquilla, mentre il cuore mi batteva all’impazzata. Dovevo rispolverare il mio aplomb. Lo stesso che affascinava i miei vecchi clienti. Anche se fu molto difficile di fronte al Cavaliere della Piattola. Giuro che mancava poco che il fumo gli uscisse dalle orecchie neanche fosse una locomotiva. «Eccoti, finalmente, ti ho cercata dappertutto!» Esclamò adirato. Quando si era destato e si era alzato, vedendo le ciocche e sentendo l’odore, si era preso un accidente, forse pensando di esser diventato pelato tutto in un colpo.
Buttò a terra le ciocche.
«Oh, ma che gentile, vi siete degnato di portarmi la spazzatura?» Domandai ironica mentre gli altri servitori arretravano di un passo dalle loro postazioni, spaventati. «Per favore, non scherzare e vieni un attimo con me, dovrei parlarti». Disse, cercando di controllare il tono della voce e ammorbidire un po’il tono. Sapevo che, per legge del Santuario i Saint non potevano alzare le mani sui servitori a meno che costoro non avessero bisogno di un aiuto in arena. E, con aiuto si intendeva un sacco da boxe per l’allenamento. Me lo aveva spiegato il signor Galan il primo giorno. Sperai che la situazione non degenerasse né ora né dopo. Avvolsi di nuovo il panino nella carta stagnola e lo lasciai al mio collega più vicino. Poi seguii il Cavaliere. Appena svoltato l’angolo mi sgridò: «Che diavolo ti ha preso di lasciarmi i capelli sul cuscino? Dovevi buttarli non lasciarmeli!»
«Ma signore, io vedo ancora i vostri capelli sulla testa, sicuro di stare bene?» Chiesi fingendomi stupita.
Nessuno dei miei colleghi rise, anzi, si raggelarono.
La sua faccia cambiò colore in favore di un bel rosso che fece pendant con la sua maglietta: «Non farmi passare per mentecatto e rispondi!»
Alzai le spalle, fingendomi innocente: «Che vi devo dire? Mi sarò confusa…»
«Ah, ti sei confusa? E, io non ti pago per questa settimana». Mi ricattò. Poi, di fronte alla mia espressione di trasalimento si ammorbidì e cambiò idea: «Per questa volta lascio stare ma ti avverto, Astrid, sono serio». Poi, mi guardò con occhi cupi. Gli restituii lo sguardo minaccioso e pensai “Anch’io”. Poi, sai che paura, era l’unico Saint che non scuciva neanche un centesimo per i miei servizi.
Poi se ne andò.
«E, questo è solo l’avvertimento». Sogghignai quando fu fuori portata d’orecchio. Tornai dai miei colleghi e ripresi a mangiare e rispondere alle loro domande mentre la mia collega dava sfoggio della sua mania scagliandosi a raccogliere le ciocche che Milo aveva buttato a terra. Per contro, rese la sua Casa un vero e proprio porcile e richiese esclusivamente il mio servizio per ripulirla da cima a fondo. Ma, di questo non mi lamentai e, sperai che avesse imparato la lezione.

Il mercoledì della seconda settimana di dicembre (e, sì, nonostante l’incidente e lo scherzetto a Milo superai brillantemente la settimana di prova e fui assunta), dopo settimane di amicizia e frequentazione diurne, Yoshino mi invitò per un’uscita notturna a Rodorio. «Davvero? I tuoi te lo lasciano fare?» Domandai, beccandomi un’occhiataccia mentre caricavo la lavatrice della tintoria. La mia conoscente era venuta a dirmelo proprio in quel momento. Mi morsi la lingua, mi ero scordata che in Giappone tendono a responsabilizzare i figli già dalla più tenera età. Ma la figlia dei due Saint sorvolò: «Allora, vieni?»
Ero un po’diffidente all’idea ma se Yoshino mi garantiva che i suoi si fidavano, allora andava bene.
«D’accordo». Decretai e lei prese a saltellare e mi gettò le braccia al collo tutta contenta. Saltellai sulle punte un po’stupefatta da questa reazione. Quando si staccò da me mi domandò: «Che c’è? Ho fatto qualcosa di male?»
«No, niente, mi hai solo... colta di sorpresa». Lei dovette interpretare il mio discorso nel modo sbagliato perché disse: «Oh, mi dispiace, scusami, se ti da fastidio...»
«No, no, colta di sorpresa in senso positivo». Sorrisi commossa. Solo quando se ne andò ammisi a me stessa che era la prima volta dopo tanto tempo che qualcuno mi abbracciava e non per consolarmi. Avevo quasi dimenticato che cosa si provasse.
Quella stessa sera, dopo cena, mi vestii con un chitone lungo fino alle ginocchia, con le maniche lunghe che si allacciavano sulle spalle e sulle braccia con delle fibbie tonde. Ormai le ferite della caduta mi erano guarite e potei avviarmi senza problemi ai piedi della scalinata delle Tredici Case, che ci eravamo date appuntamento lì.
Lei invece preferì un abito corto fino al femore che le lasciava scoperte le spalle e una collana e stivaletti. Eravamo intonate e ridemmo di questa cosa. Per sicurezza mi portai dietro il mio bastone. Credo che lei sapesse quello che mi era successo, ma non mi chiese mai niente e, io gliene fui grata. Non mi sentivo ancora pronta per parlarne con qualcuno.
Rodorio di notte era molto bella. Non ci avevo più fatto caso, anche perché non ero più uscita dopo la molestia dei quattro. Cosa che avevo dimenticato dopo tre settimane.
Sia Yoshino sia io ci sorprendemmo di vedere la popolazione giovanile ed entrambe attirammo parecchi sguardi e molti ci domandarono se fossimo sole. Per quella sera li mandammo tutti in bianco, per niente interessate alle loro profferte. La figlia di Aldebaran sembrava più interessata a scattare foto e fare autoscatti assieme alla sottoscritta piuttosto che prestare attenzione ai ragazzi. Poi, approdammo in un’osteria e ci fermammo a bere qualcosa approfittando del fatto che ero maggiorenne. Io mi presi un barracuda e lei una capiroska alla fragola. Strano a dirsi perché visto il posto non l’avrei mai detto, eppure era come stare in un bar qualsiasi di qualsiasi altra città. La mia nuova conoscente accomodata di fronte a me disse: «Uh, è forte! Lo sai, è la prima volta che bevo un cocktail. Pensa che in Giappone, finché non si raggiunge la maggiore età ci è praticamente impossibile toccare qualsiasi alcolico».
«Davvero? Stai attenta allora, potresti non reggere». L’avvisai mezzo scherzando, non volevo che esagerasse, altrimenti i suoi parenti se la sarebbero presa con me. Lei rise tutta allegra e bevve un altro sorso dalla cannuccia. Poi mi domandò: «Tu bevi?»
«Qualche volta».
«Che cosa?» Mi domandò. Feci mente locale e mescolai il mio barracuda con la cannuccia: «Mah, di solito la vodka alla pesca o alla fragola, poi dipende da quello che capita, ma non sono mai arrivata ad ubriacarmi come una spugna». Inoltre, quello era il mio primo cocktail dopo mesi. Avevo cominciato a bere a sedici anni, per ingannare il tempo durante le serate o le giornate di magra passate a girarsi i pollici al tavolo del bar. Ad ora avevo bevuto quasi tutti i cocktail possibili e immaginabili ma il mio preferito era il barracuda; una miscela di quattro virgola cinque centilitri di Rum Oro, uno virgola cinque centilitri di Galliano, sei di succo d’Ananas, un cucchiaino di succo di lime fresco e prosecco decorato con una fetta di limone e ciliegina. Bevvi un sorso dal bicchiere e quasi mugolai di piacere: Dio, avevo quasi dimenticato il suo sapore.
«Hai mai provato il saké? E, lo ouzo?» Mi domandò Yoshino, incuriosita e un filino su di giri.
«Una volta al wok sushi della mia città. Lo ouzo non ancora».
«Hai mai fatto un’apericena?» Le domandai.
«No, che cos’è?»
«Sul serio non lo sai?» Le dissi stupita. Alla sua età ne avrò fatte almeno sette o otto. Poi glielo spiegai e quando finii lei disse, con occhi brillanti: «Sembra divertente, allora qualche volta lo facciamo!»
«Quando avrò il permesso di uscire da Rodorio sicuramente!» Le promisi. Volevo farlo ad Atene, non a Rodorio. In tempi abbastanza critici come questi i civili necessitavano di permessi speciali per lasciare il Santuario e il paese. Soltanto i Saint che partivano per delle missioni potevano lasciarlo. E, il Gran Sacerdote, solo pochi giorni prima aveva proclamato lo stato di massima allerta. Io non avevo ancora avuto il piacere di conoscerlo, l’ultima volta che era sceso tra i comuni mortali per la benedizione settimanale io stavo preparando il pranzo a Death Mask, che quel giorno toccava a me cucinare e l’avevo sorpreso con alcune ricette che avevo imparato comprando un mensile di cucina quando stavo ancora in Italia. Fortuna che avevo aumentato le dosi perché altrimenti facevano la dieta.
I due avevano gradito talmente tanto che avevano espressamente richiesto la mia cucina. Lancelot aveva addirittura voluto il bis di tutto.
A parte questo, io e Yoshino passammo tutta la serata a chiacchierare. In breve scoprii che aveva diciassette anni e che era la figlia adottiva di Aldebaran e Shaina, che faceva da baby sitter a Natasha e frequentava la seconda classe di un liceo artistico e che faticava ancora molto per lavorare la ceramica. «Invece Death Mask ci riesce con una facilità impressionante, lo sapevi?»
«Sì, diciamo che ho avuto modo di costatarlo di persona».
Quando ci stancammo di questo posto andammo a pagare al bancone. Mentre aspettavamo il nostro turno fui apostrofata da una voce femminile che conoscevo: «No, non di nuovo!» Mormorai. Poi mi voltai, mentre Yoshino domandava perplessa: «Quella chi è?»
Riconobbi all’istante quella maschera e quei capelli. La mia poco amata conoscente mi apostrofò in tono acido: «Allora sei ancora qui, non ti hanno sbattuto fuori».
«Scusa, Neera, ma non ho voglia di parlare con te». Dichiarai e mi portai di nuovo il bicchiere alle labbra ma quella batté il palmo sul tavolo e ribatté: «Io invece ho una gran voglia di spaccarti la faccia, strega». Lo urlò così forte che tutta l’osteria si fermò a guardarci.
«Ehi, lascia in pace Astrid!» Intervenne Yoshino cercando di difendermi.
«Tu stanne fuori!» Ribatté Neera, per niente impressionata.
Qualcuno si avvicinò a noi. Peccato che fosse un ubriacone, «Suvvia, ragazze, non è il caso di litigare per così poco, c’è birra a sufficienza per tutti» che fece l’errore di cingere le spalle dell’aspirante Sacerdotessa-Guerriero con un braccio e tracannare il boccale. Lei non gradì e lo ribaltò in un secondo. Il tonfo del corpo del soldato rimbombò in tutta la locanda come il colpo di un cannone in una vallata.
L’oste bisbigliò qualcosa a uno dei baristi che annuì e sgattaiolò via. Probabilmente l’aveva mandato a chiamare le guardie.
Cercai di non lasciarmi impressionare, che se con il Cosmo che le stava illuminando i tratti di un vago azzurrino, iniziai seriamente a temere per la mia vita. Come uscirne? Questa era allenata, mi avrebbe fatto fuori in due secondi. Non potevo usare il bastone perché me lo avrebbe dato in testa. Poi, mi tornò in mente Milo che mi apostrofava allo stesso modo e la sua reazione quando gli avevo chiesto se voleva sperimentare i miei poteri sulla sua pelle. Chissà se avrebbero funzionato?
Misi una mano sulla spalla della figlia di Shaina e le dissi: «Ha ragione, Yoshino, stanne fuori». La mia conoscente mi guardò sgranando gli occhi per la preoccupazione e le sorrisi con convinzione: «Non ti preoccupare, me la cavo benissimo da sola».
Intanto che gli avventori si erano già disposti attorno a noi nella speranza che ci azzuffassimo. Scorsi con la coda dell’occhio Death Mask con Aphrodite e Shura sedersi al bancone, pronti a intervenire. Non mi ero subito accorta della loro presenza. Feci l’occhiolino ai tre per dirgli che era tutto ok e ricevetti un’occhiata poco convinta da Death. Però mi lasciò fare. Tornai occuparmi della mia avversaria, la quale restò molto delusa e perplessa, quando mi vide accomodarmi al tavolo.
Gli avventori cominciarono a bisbigliare tra loro, confusi dalla mia mossa. Invece, si zittirono stupiti quando mi videro invitare la mia sfidante ad accomodarsi di fronte a me. Per un momento mi sembrò di essere tornata la vecchia Astrid. «Accomodati». Dissi anche, con lo stesso tono di quando lessi la mano di Death.
«Che cosa vuoi fare, braccio di ferro?» Chiese l’altra, divertita, senza accettare il mio invito.
«E, lasciarmi spezzare il braccio? Certo che no, la sfida che ti propongo è un’altra».
«E, sarebbe?»
«L’opportunità di dimostrare a tutti che sono veramente una strega come dici, voglio leggerti la mano. Se perdo, ti do carta bianca sul massacrarmi liberamente come, quando e quanto ti pare, ma se vinco», “e vincerò”, «tu non solo mi lascerai in pace ma farai le pulizie al Grande Tempio al posto mio per una settimana, ci stai?» Non che non mi andasse di lavorare, era solo che lei mi sembrava il tipo che non si sarebbe mai piegata a un’umiliazione come questa.
«D’accordo, ma se vinco io, ti ucciderò». Ciò detto scostò la sedia e si sedette di fronte a me. Per poi cambiare idea e delegare tutto a una sua amica, una rossa più bassa di me, che accettò incuriosita.
«Ciao, io sono Astrid av Stjernene», mi presentai con un sorriso cordiale, «Tu come ti chiami?»
«Akeleis del Tucano, piacere».
“Aspetta a dirlo”. Ampliai ancor di più il mio sorriso, certa di avere il coltello dalla parte del manico. Una persona o l’altra, a me non cambiava niente. «Va bene, dammi il palmo della mano con cui non scrivi…» la istruii.

Lancelot
I colleghi di questa dimensione avevano fatto il doppio turno, questa settimana. Stando alle ricerche di Aphrodite, c’erano dei teschi e dei corpi seppelliti in alcune aree vicine ad Atene. Ma non oltre. Meno male che Aiolia era tornato da un po’. Ti scocciava ammetterlo ma quell’impulsivo coi paraocchi ti stava simpatico, era così divertente vederlo inalberarsi quasi per un nonnulla. Oppure sapere che conferiva con Sirrah, ogni tanto. E, certo che conoscevi Sirrah, nonostante la sensazione di viscidume e unto (che ti faceva raccogliere sempre una marea di tovagliolini di carta, come se avessi potuto usarli per ripulirti dalla sua presenza) ti stava simpatico. Simpatico, certo, quanto poteva starti simpatica una pezza per i piedi e feccia come lui. Purtroppo l’unica persona a cui avresti mai portato rispetto, sarebbe sempre e solo stata quella che brandiva Excalibur. Neanche quell’aborto di Mordred avevi mai concesso la tua stima. Perché avresti dovuto farlo con Sirrah? Anzi, ogni due per tre, quando lo vedevi, escogitavi piani per toglierlo definitivamente di mezzo. Un po’come con Wadatsumi. Anche quello, povero scemo, desiderava tanto essere un eroe e guarda come era finito, rinchiuso in una palla di neve ed esaminato al microscopio dal Gold Saint di Virgo.
Anche tu, da quando avevi preso servizio presso Miss Tomoe come Cancer, sapevi quanto la ronda potesse essere noiosa, se passata da soli. Come se non fosse bastato, tu e il Cavaliere del Leone avevate dovuto interrogare i Black Saint e non ne avevate cavato un ragno dal buco. In parte perché a te non interessava («Potresti almeno darmi una mano». Aveva detto, esasperato e stanco, girandosi verso di te. Che te ne stavi stravaccato sulla sedia in bilico sulle zampe posteriori, le caviglie incrociate sul tavolo.
«Guarda che io lavoro per Miss Tomoe, non per Miss Isabel». Avevi ribattuto e quello se ne era uscito con un’occhiataccia e se ne era andato, lasciandoti lì a sogghignare). In compenso il capo dei Cavalieri Neri aveva richiesto un colloquio formale con il Gran Sacerdote (in mancanza della presenza fisica della Dea) e l’avevate accontentato. Sicché, adesso si ritrovavano dei malviventi a giro per il Santuario. Come si suol dire in questi casi, cavoli loro. Tu non c’entravi niente, ti eri solo limitato a esporre la richiesta di udienza del capo dei Black Saint. Per ora però stavano mantenendo la loro promessa. Anche se, secondo gli accordi, in caso di guerra, non avrebbero dovuto interferire. Sarebbero invece dovuti andarsene. Aveva passato il resto del giorno del rientro nella sua Casa. “Sempre un gran simpaticone, questo qui, eh?” Avevi pensato inarcando il sopracciglio mentre giocavi a dadi con un sottorango di cui, francamente, non ricordavi neanche il nome. Ne era riemerso solo la mattina dopo, quando era sceso in arena per gli allenamenti quotidiani.
L’idea di coinvolgerlo era stata di Milo dal momento che gli sembrava che Aiolia passasse troppo tempo in casa e stesse facendo la muffa. Ma eri stato tu a riuscire nell’opera di persuasione, con un aiutino in estremis di Lythos. «Va bene, vengo solo perché ho voglia di svagarmi, altrimenti», parole sue, «non mi sarei neanche mosso». Neanche il tuo amato re era mai stato così. Neppure quando era stanco morto e quasi sopraffatto dalle incombenze del regno.
Tornasti a concentrarti sulla sfida che si stava svolgendo di fronte ai vostri occhi. E, cioè, di Astrid che sputtanava allegramente la povera disgraziata che le stava di fronte. Non facevi che ridere come un matto. Oh, Dea, neanche i giullari di corte sapevano fare di meglio. Che spasso!
Anche Death Mask e Aphrodite ridevano come matti, accomodati sugli sgabelli al bancone. Persino il cupo Shura aveva la bocca piegata in un ghigno divertito e, a volte si lasciava sfuggire una risata sommessa, anche se dava le spalle alla scena, si vedeva che era divertito. Eri contento che se la spassasse un po’, non lo avevi mai visto ridere.
Il modo in cui leggeva la poveretta ti ricordò molto quello che era successo recentemente: ovvero, la dichiarazione di guerra avvenuta tra il Cavaliere di Scorpio e la giovane ancella.
Dichiarazione cui era susseguita il famoso episodio del mocio. L’avevi sentito dire per caso mentre girovagavi al mercato una mattina. Sembrava che la giovane ospite del Santuario avesse passato il cencio nel pomeriggio, mentre il Saint stava lavando i piatti (per Milo erano domestici, non schiavi, tu, onestamente, non vedevi la differenza) e, la ragazza aveva urlato spaventata. Scorpio si era allarmato ed era corso a vedere, solo per ritrovarsi con il culo per terra dopo cinque passi fuori della cucina, per essere scivolato sul pavimento bagnato. La (di già) leggenda narra che il rumore del suo fondoschiena sul marmo fosse rimbombato per tutto il corridoio di passaggio. Poi aveva trovato la ragazza che rideva come una matta a pochi metri da lui, per quello scivolone. Stando alle dichiarazioni di entrambi, lei giurava di essersi spaventata per un ragno che le era comparso davanti senza preavviso, lui giurava che lei lo avesse fatto apposta. Forse lei non se ne accorgeva neanche, ma l’altro, a modo suo, la stava stuzzicando a rivelarsi.
«Forse vuole attirarsi una maledizione tra capo e collo». Avevi detto a Sirrah, che, come te, si gustava questi momenti di divertimento all’interno del Santuario.
«Lo può fare?» Aveva domandato il tuo ex collega, ora becchino.
«In teoria sì».
Peccato che, nel suo piano Milo di Scorpio pareva regredito a uno stadio infantile. Oppure era sul piede di guerra. Forse quest’ultimo dal momento che ad Astrid aveva cominciato a ribattere per le rime, facendole lo sgambetto mentre passava dalla sua casa con il cesto dei panni sporchi. Poi, non era più successo niente.
O, forse, Milo si era solo fatto più furbo. Visto che ti aveva confidato (va bene, che avevi sentito tramite i tuoi pettegoli di fiducia), un pomeriggio che Aldebaran l’aveva invitato a bere un caffè a casa tua, che la ragazza aveva intenzione di farlo fuori come se fosse l’artropode che la sua cloth rappresentava. E, quando aveva elencato i metodi, tu e Aldebaran (ovviamente non nello stesso luogo e non nello stesso momento) eravate scoppiati a ridere senza ritegno. Come aveva poi fatto Sirrah con te, quando vi eravate fermati a chiacchierare.
La differenza era che il Saint del Toro si era beccato un’occhiataccia. Poi, avevi sentito dire che il padre di Yoshino aveva cercato di scusarsi ma non ci era riuscito perché la scena era troppo divertente, perciò aveva ripreso a sghignazzare neanche lo spirito di Death Mask si fosse impossessato di lui.
Il Custode dell’Ottava, dal canto suo si limitò a esternare una risata ironica, roteare gli occhi e portarsi la tazza di caffè alle labbra per la serie: “Meglio se bevo se no ribatto”. Era ancora del parere che Astrid dovesse levare le tende. Cosa che aveva cominciato a ripetere con più insistenza di prima. Tornasti al presente. La voce di Astrid, nel narrare tutti gli oscuri segreti della sua avversaria, sembrava quasi una melodia avvolgente e trascinante. In netto contrasto con le parole cariche di ironia che uscivano dalla sua bocca.
Mentre la cara Akeleis si faceva sputtanare e Yoshino si calmava progressivamente Aiolia, Aldebaran e Milo (parli del diavolo e ne spuntano le corna) fecero irruzione, paventando un chissà quale pericolo. Ma quasi nessuno, impegnato com’era a ridere, fece caso a loro, che si ritrovarono ad assistere alla scena più surreale della terra.
Per un momento ti mettesti nei loro panni, posando il bicchiere sul bancone per non farlo cadere. Eri talmente divertito che non sapevi nemmeno se saresti stato in grado di tenere il cocktail! Una folla vociante assiepata attorno a un tavolo faceva da cornice a due persone sedute una dinanzi all’altra. La prima era una giovane sacerdotessa dai lunghi capelli rossi, che sbraitava in preda a una crisi isterica contro Astrid, gonfiando pericolosamente il proprio Cosmo. La bionda, per parte sua, era il ritratto della serenità e continuava a parlare tranquillamente, come se l’altra non fosse neanche esistita. La stava accusando a gran voce di barare, mentre costei le leggeva placidamente la mano rivelando il suo passato, i suoi segreti a tutti i presenti. Quella scena ti lasciò di stucco. Che cosa stava succedendo? E, perché alla Saint mancava poco che le uscisse il fumo dalle orecchie mentre diceva: «Come fai a saperlo? Smettila! Questa è invasione di privacy! No! Non lo dire!»
Aldebaran spostò gli occhi dalla scena e individuò immediatamente Miss Yoshino dinanzi al bancone, dunque a qualche metro alla tua destra, semi nascosta da qualche cliente. L’Atena diciassettenne della tua dimensione osservava rapita le prodezze della sua nuova amica e, alla sua sinistra, Death Mask appoggiato al bancone in compagnia di Aphrodite e Shura, guardava tra il divertito e l’orgoglioso, la sua connazionale che faceva perdere la faccia alla sua sfidante. Shura si volse a osservare la scena con la sua inarrivabile compostezza, la bocca piegata in un sorriso. Aphrodite si tappò la bocca con la mano curata per non scoppiare.
Prima di sganciare l’ennesimo segreto della ragazza, Astrid cinguettò: «Tenetele ferme le braccia, grazie.» con un sorriso soddisfatto senza alzare gli occhi dal palmo tremante dell’altra. Alcuni clienti obbedirono e la bloccarono. Poi sganciò la bomba che fece scoppiare l’ennesima risata collettiva. Le sue amiche di quest’ultima confermarono tutto ciò che la chiromante diceva e altri piazzavano scommesse. Altri Saint e civili si stavano mettendo d’accordo su chi andare per primo quando Astrid avrebbe finito la lettura.
«Ma che…?» Chiese Milo mentre Aldebaran tirava un sospiro di sollievo e, insieme ad Aiolia, entravano, cercando di ignorare le occhiatacce dei vicini per la figuraccia. Miss Yoshino si accorse di loro e sgranò gli occhi mentre suo padre si avvicinava, cercando di non correre: «Papà, che ci fai qui?» Se non la abbracciò, non la riempì di baci (tu solo sapevi quanto fosse felice e sollevato di vederla sana e salva) e non la portò via da lì, fu solo per pura forza di volontà. «Abbiamo sentito l’esplosione di un Cosmo e poi ho sentito il tuo». Spiegò.
«Le latrine del Santuario ti aspettano, Neera». Canticchiò Astrid prima di terminare, richiudere la mano e restituirla alla sua sventurata proprietaria.
Solo allora alzò lo sguardo e intrecciò le mani sotto il mento.
«Brutta bastarda e, tu, brutta scema! Come hai osato farmi perdere così!» Sbottò la Sacerdotessa dai capelli neri, rivolta a quella tremante e sbigottita, seduta di fronte ad Astrid.
Il padre di Yoshino le chiese spiegazioni, che l’accontentò. Intanto che la rossa, invece di scagliarsi addosso a Neera balzò addosso ad Astrid quasi scavalcando il tavolo. L’avrebbe fatta a fette se Death Mask non avesse bloccato tempestivamente l’isterica. La quale prese a dimenarsi: «Lasciami! Lasciami andare! Quella smorfiosa ha barato! Mi hai spiato! Stronza! Come hai osato sputtanarmi così! Non ti perdonerò mai! Mai! Mai! Ti odio! Ti odio, hai capito? Ti odio! Lasciami! La vittoria non è valida!»
«Spiacente di essere latore di brutte notizie ma non ha barato, perciò accetta la sconfitta, abbassa la cresta e levati dai coglioni prima che m’incazzi e ti faccia diventare parte dell’arredamento di Casa mia». Ribatté Cancer con la sua migliore faccia minacciosa, mentre Astrid tirava un sospiro di sollievo e gli lanciava uno sguardo pieno di gratitudine.
Milo strabuzzò gli occhi mentre la rossa ringhiando si liberava dalla sua presa con uno strattone, si toglieva da lì aprendosi un varco nella folla con delle gomitate e, corse via emettendo un gemito di pianto. Invece, Neera urlò qualcosa d’inintelligibile e poi anche lei e il suo gruppo scomparvero nella folla.
Liberasti un’altra risata (e gli altri registrarono così anche la tua presenza) divertita.
Aphrodite era ormai divenuto paonazzo dietro la mano. Era quasi ridicolo mentre lottava per recuperare un po’di contegno.
Astrid fece per posare una mano sul braccio del siciliano ma la ritrasse perché lui disse aspro: «Non ringraziarmi, non l’ho fatto per te, ma per il Santuario; se tu fossi stata attaccata dopo tutti i turni degli inservienti, sarebbero crollati e nessuno mi avrebbe più pulito Casa». La giovane, dopo un attimo di smarrimento, annuì divertita come a dire: “Come no, ci crediamo tutti” e poi gli dette una pacca sulla spalla, prima di alzarsi e dire un «Ti voglio bene anch’io, Death.» che fece ridere a crepapelle tutta la locanda. Death s’irrigidì prima di borbottare qualche insulto e seguirla senza intenzioni malevole, le mani cacciate in tasca. Seguisti la biondina con lo sguardo mentre raggiungeva Yoshino, Aiolia, Milo e Aldebaran. Li salutò con un sorriso e un «Buonasera a tutti» che ricambiarono. «Uao, sei stata grande!» Esclamò Yoshino tutta contenta e ammirata. Gli occhi purpurei lucenti di ammirazione: «Ma come hai fatto?»
«Non è stato così difficile, ho avuto fortuna, in realtà». Si schernì la chiromante dagli occhi gialli. Era la prima volta che i Saint ne vedevano una all’opera, anche se i nuovi arrivati solo verso la fine. Ti avvicinasti alla ventenne e le facesti i tuoi complimenti prima di allontanarsi riprendendo a sghignazzare come un matto. Meno male non avevi bevuto niente, altrimenti avresti avuto un impellente bisogno di andare in bagno.
Se Aldebaran ti fulminò con lo sguardo, Milo sembrò sul punto di lanciarti un Restriction. Neanche quando aveva saputo che Yoshino era una delle due Atena di un altro mondo si era mai sbilanciato tanto. Tornò a guardare l’ospite del Santuario. «Che cosa è successo?» Domandò allora il Cavaliere di Scorpio in coro con Aiolia. Fu Aphrodite a raccontarglielo e tu sbuffasti divertito una risata che somigliò a una pernacchia. «Quando siamo arrivati, abbiamo visto quelle due sedute al tavolo. In un primo momento non abbiamo capito subito cosa stesse accadendo, ma non doveva essere un bello spettacolo. Se non fosse stato per Yoshino, non mi sarei mai azzardato a entrare in un posto così poco consono alla mia grande bellezza. Figuratevi la nostra sorpresa quando abbiamo visto Astrid demolire pezzo per pezzo la sua sfidante spiattellando al vento tutta la sua vita, i suoi segreti e paure più recondite per scommessa. Non ho mai visto tanta perfidia concentrata in una sola persona e una tale lingua tagliente e veloce come la sua. Mi dispiace, Milo, ma quella ti batte. Adesso a Neera toccherà di pulire tutte le latrine del Santuario per una settimana al posto suo. E, meno male, perché in caso contrario, Neera l’avrebbe ammazzata senza pensarci due volte. Ti avevo già vista all’opera in vacanza, ma non pensavo che avrei assistito di nuovo a questo spettacolo».
Il Cavaliere del Toro lanciò un’occhiata a Shura e, tu, seguendo il suo sguardo, lo vedesti tra il colpito e il pensieroso. Mentre tu ridevi a crepapelle.
Peccato che al miglior amico di Camus, di tutto il discorso gli restasse impressa una sola cosa: «Complimenti! E, adesso lei sa altri segreti del Santuario! Ma cosa vi dice il cervello?»
Death Mask e Aphrodite si scambiarono un’occhiata divertita e scoppiarono di nuovo a sghignazzare come iene, unendosi alla tua risata. Ecco, adesso cominciavi ad aver bisogno del bagno.
Aphrodite rideva più che sghignazzare ma non era molto lontano anche da quello. Il custode della Quinta cercò di raddrizzarli ricordando loro che era una cosa seria. «Se per segreti intendi che il vero nome della sua sfidante era Carolina Lunotti e non Akeleis del Tucano, che si tinge i capelli, che soffre di un complesso di inferiorità nei confronti di Neera, che ha i brufoli sul culo, le mutande rosa a cuori grigi e che è ossessionata da Aphrodite solo perché in realtà lei vorrebbe farsi la sua migliore amica che è esteta quanto lui, allora sì, gran bei segreti». Ribatté beffardo Death Mask accomodato vicino ad Astrid prima di bere il suo cocktail. La sua protetta si era fatta offrire un bicchier d’acqua perché aveva la gola secca.
Aldebaran scoppiò a ridere, guadagnandosi le occhiatacce del Leone e dello Scorpione.
«Non importa, non dovreste lasciarglielo fare! Lei è pericolosa e lo sapete». Esclamò Aiolia. «Ha ragione Aiolia, anche se devo convenire con Death, quelli non erano certo segreti di vitale importanza». Convenne a malincuore il cicladico in tono pensieroso.
«Oh, ne ha portati alla luce anche di peggiori». Fece il Custode della Dodicesima prima di scoppiare a ridere sguaiato, per poi ricomporsi subito, adducendo come scusa che una risata così rozza e sguaiata non era bella. Non per uno come lui. Mentre gli altri smisero di considerarlo quasi all’unanimità, tu lo guardasti interessato, cercando di spillargli altro. Ma l’altro fece scena muta.
«Sarà ma continua a non piacermi. Quella ha in mente qualcosa, te lo dico io». Continuò debolmente Milo.
Tu a quel punto non ce la facesti più e corresti al bagno.

Milo
Era giunto Natale. Non ti serviva guardare il calendario per capirlo, diciamo che nel tuo caso certi giorni si riconoscevano a pelle già da svegli.
Appena ti svegliasti ti girasti sul fianco e cercasti di fare del tuo meglio per non scoppiare in lacrime. Ecco perché detestavi questa festa. Era vero che avevi altri amici oltre a Camus, ma senza di lui non era la stessa cosa. Eravate stati talmente legati che eravate alla stregua di fratelli gemelli. Tu conoscevi ogni cosa di lui, ogni suo segreto e lui aveva saputo tutto di te. Natale era il giorno in cui, più di ogni altro, sentivi questa mancanza. Da piccoli tu e lui avreste festeggiato il Natale insieme. Ancora ricordavi e conservavi tutti i regali che vi eravate scambiati nel corso degli anni. Era sempre stato lui il primo a ricevere il tuo regalo. Ma, da anni, da parte sua non ricevevi più nessun regalo e, ti sentivi come se qualcosa si fosse rotto. Sembra infantile attaccarsi così a un regalo, ma tu non eri attaccato a questo quanto al fatto che era la vostra tradizione. E, anche questo era un vuoto. Un vuoto che avevi deciso di colmare accettando finalmente l’invito a pranzo di Aldebaran.
Andasti in cucina e ti facesti colazione. Quel giorno la servitù aveva il giorno libero. Poco male, da quando avevi ritrovato il tuo ferro da stiro di ferro ricoperto da una patina di ruggine, non ti dispiaceva più molto non averli tra i piedi. Era stato un po’ difficile scoprire il colpevole di tale scempio e, tuttora non c’eri riuscito. Quegli infami dei servi avevano fatto fronte comune e concordato tutti nel dire che si era rovinato di suo. Tu non eri un tipo violento, ma sinceramente non li capivi. Li pagavate, li difendevate e quelli non volevano dirti chi era stato. Tu non eri stato, non eri ancora rincoglionito fino a questo punto. Era ovvio che fosse stato uno di loro. Solo che non capivi chi e non volevi accusare Astrid perché se no ti davano un’altra volta del fissato. E, anche di questo, sinceramente ti eri stufato. Inoltre lei non era stata l’unica neo assunta, il giorno della ribellione delle Armature. E, poi, d’accordo che veniva da una realtà completamente differente dalla vostra, ma sicuramente non poteva essere così incapace da non saperlo usare, no? Vabbè, fatto sta che da oltre un mese stavi facendo la fortuna di una tizia che stirava abiti a Rodorio.
Sbuffasti e guardasti la tua sveglia analogica sul comodino segnare le undici.
Avevi poltrito anche troppo, perciò ti alzasti e andasti a prepararti la colazione.
Avevi aperto le imposte e ravvivato il caminetto. Poi avevi preparato il caffè e avevi preso la tazza. Solo allora ti girasti verso il tavolo e sgranasti gli occhi per la sorpresa. Sul tavolo di legno c’era un sacchetto con un biglietto indirizzato a te. Lo leggesti: «Mi dispiace per il p.d.m. e per la t-shirt, spero che questi bastino come risarcimento». Inarcasti un sopracciglio perplesso. Purtroppo non c’era la firma, perciò tu non capisti chi fosse il misterioso donatore. Poi p.d.m.? Che diavolo significava, p.d.m.? Pezzo di? Fino lì ci arrivavi, ma allora la m per cosa stava? Museo?
Apristi il sacchetto ci trovasti dentro una cinquantina di dracme, anche di più di quante servivano per comprare un ferro da stiro e una maglietta nuovi. E, comprendesti che il tuo misterioso donatore era la stessa persona che ti aveva rovinato questi due oggetti. Della maglietta nemmeno ti eri accorto, onestamente.
Ti ritrovasti a pensare di nuovo alla tua infanzia e, in un modo strano, ti parve di sentirti meno vuoto e solo. Era come se un sottile filo fosse andato a cucire questa ferita che ti portavi dentro. Non era ancora abbastanza per riunire i due lembi, ma per creare un ponte tra le due parti sì. Gli occhi ti si riempirono di lacrime. Se questi erano i presupposti, questo Natale si preannunciava decisamente diverso dagli ultimi che avevi passato.
Dopo esserti lavato e vestito prendesti i regali che avevi comprato ai tuoi amici e scendesti.
Alla Seconda le tue narici furono invase dal profumo del pranzo. Ad accoglierti appena facesti il tuo ingresso nella Casa del Toro furono Kiki e Shura. «Ehi! Eccoti! Stavo per salire a chiamarti!» Esclamò l’allievo di Mur con un sorriso.
«Ciao Kiki, eh, che vi devo dire, ieri sera sono andato a letto tardi». Sorridesti. «Tu non dovresti andare dal tuo maestro e Raki a festeggiare?» Domandasti a Kiki.
«Sì, infatti ci vado, volevo solo salutarvi tutti». Ribatté il lemuriano dai capelli rossi.
Poi Yoshino fece il suo ingresso sulla soglia e ti abbracciò augurandoti buon natale. Tu e lei andavate molto d’accordo nonostante sapessi che lei era comunque Atena. Ma era così facile dimenticarsene che non ti sentivi neanche troppo stupido a ricambiare il saluto e l’abbraccio. Poi si staccò da te e tornò dentro ad aiutare la madre e il padre a cucinare. L’accompagnaste con lo sguardo con un sorriso, prima di seguirla dentro. Shura ti fece gli auguri e Kiki ti passò un braccio attorno alle spalle e, dopo averti augurato buon Natale ti passò il suo regalo, cioè un panno nuovo per lucidare il tuo cloth e un intero set per prendersi cura della tua Armatura. E, tu gli passasti il tuo regalo, uno scalpello nuovo che quello vecchio si era rovinato e una bambola di pezza per Raki. Anche se era già grande, sapevi che aveva un debole per le bambole. Il vostro amico ti ringraziò, poi si lanciò in una disquisizione sul suo uso.
Tu e Shura raggiungeste il divano dove Aiolia ti salutò e ti regalò una nuova maglia. Ti accomodasti e lo ringraziasti. Invece lo spagnolo ti regalò quello che aveva l’aria di essere un grosso libro: «Uao, forte!» Avevi esclamato mentre ti giravi il pacchetto tra le mani. «L’amore ai tempi del colera?» Tentasti. L’altro sorrise con aria scaltra e allora tu capisti di aver toppato un’altra volta.
«Dai, aprilo». Ti esortò e tu l’accontentasti. «Il corsaro nero». Rispose mentre osservavi stupito la trilogia completa.
«Accidenti», sorridesti, poi ti mettesti il libro sottobraccio. «Sono l’ultimo?» Domandasti poi mentre Shura si accomodava accanto a te. «No, non preoccuparti, Kanon, Saga e Castalia non sono ancora arrivati». Rispose Aiolia guardandoti incerto con i suoi occhi verdi che, in queste occasioni sembravano ancora più scintillanti.
«Ah, meno male». Ridesti.
Poi prendesti a scherzare con il leoncino e, piano piano riuscisti a togliergli quell’occhiata strana. Era da quando eri entrato che ti guardava a quel modo. O forse era la tua immaginazione.
Ad Aphrodite regalasti una statuina di vetro di murano e a Death Mask un set di pennelli. Invece ad Aiolia un intero mazzo di carte di magic per portare avanti la vostra sfida. Che, finora avevate sempre giocato con le tue.
Dal Tredicesimo Tempio arrivarono Kanon e Saga.
Appena potesti andasti in cucina a fare gli auguri ad Aldebaran e lo vedesti cucinare insieme a Shaina e disquisire al telefono con il Grande Mur (oh, un'altra zona del Grande Tempio dove prendeva il telefono) a proposito di una replica di Cucine da Incubo di Gordon Ramsey. Fu allora che comprendesti cosa significasse quella sigla. Anche se nella puntata era riferito a un computer fossile. E, la “m” non stava per museo. Se non altro avevi un p.d.m. moderno che avresti potuto usare solo in città. Infatti, non avevate prese per la corrente al Grande Tempio.
Salutasti Mur (tanto era in viva voce) e te ne tornasti in salotto al caminetto acceso, dove Aiolia, in piedi, stava bevendo un sorso di coca cola e parlava con Death Mask di film horror.
Poi, comprendesti il perché dell’occhiata strana di Aiolia: cioè quando Astrid fece il suo ingresso seguita da Castalia. La fulminasti istantaneamente con lo sguardo mentre la ragazza salutava Yoshino, che aveva posato un piatto a tavola e si era precipitata a salutarla. Stringesti il braccio di Aiolia e gli domandasti: «E, lei che ci fa qui?»
«L’ha invitata Yoshino».
«Perché non me l’hai detto?»
«Perché sapevo che avresti reagito così!» Ti bisbigliò lui, ammonendoti con lo sguardo.
Death Mask andò a salutare Astrid e le disse: «Giusto te, cercavo!» e poi, se disse altro non lo sentisti per via del fitto chiacchiericcio nel salotto. Fatto sta che riuscisti a vederlo metterle in mano qualcosa, mentre Aphrodite regalò ad Astrid un set di trucchi che, fino a quel momento non avevi ancora visto. La poveretta non seppe cosa dire di fronte a questi regali. Tu, personalmente, non eri neanche stato sfiorato dal pensiero di fargliene uno. E, perché mai avresti dovuto? Non eravate amici, eravate a malapena conoscenti. «Chi te l’ha regalato questo?» Domandò Aphrodite notando il fiore colorato appuntato al lato della sua testa. Sembrava una ninfea dai petali fucsia che sfumavano sul rosa, con tanto di foglie finte verdi che si intonavano alla chioma della ragazza. E, ti venne istintivo avvicinarti perché avevi visto fiori simili soltanto sulle persone possedute da Eris, la Dea della Discordia. Ma ti fermasti dopo quattro passi, il tempo per comprendere che era un semplice fiore di stoffa. Te ne tornasti al caminetto a scaldarti simulando una nonchalance che in effetti non avevi.
Astrid non si era accorta di te anche perché guardava, rossa come un peperone per l’imbarazzo il fioraio del Santuario che cercò di strapparle qualche notizia succulenta: «Uh, allora hai fatto colpo! Dimmi chi è, dimmi chi è!» A te, al contrario venne la nausea al solo pensiero che qualche Saint si fosse invaghito di lei a tal punto da farle un regalo come quello. A proposito di Saint invaghiti… «Astrid!» Esclamò Kiki e si avvicinò a lei. Mancò poco che le facesse le feste come un cagnolino. Ecco spiegato perché non se ne era ancora andato. E, si fermò a chiacchierare con lei, interrompendo un Aphrodite altamente indispettito per questa intromissione.

Avevate passato tutta la giornata insieme, divertendovi al punto che eri persino riuscito a dimenticarti della presenza di Astrid. Kiki, dopo aver scambiato qualche parola con lei se ne era andato da Shion, Raki e il Grande Mur a festeggiare. Poi, quando la giornata finì ve ne tornaste tutti alle vostre Case. Avevi appena salutato Aldebaran e la sua famiglia quando ti sentisti mettere una mano sulla spalla. Ti girasti e vedesti Astrid. Scostasti la spalla con una mano e lei la ritrasse. Poi le dicesti, in tono un po’più dolce: «Buon Natale».
«Anche a te». Ti rispose, con voce un po’delusa, come se avesse voluto dirti qualcos’altro. Ti girasti e quando la guardasti vedesti la sua delusione e la sua indecisione. Provasti disgusto per te stesso per questi modi bruschi. Dopotutto neanche lei desiderava essere qui. Allora le dicesti, in tono più accomodante: «Vuoi dirmi qualcos’altro?»
«No, solo buonanotte».
«Buonanotte». Dicesti e, ancora una volta provasti quella stessa sensazione che avevi provato appena sveglio. E, non eri ancora così addormentato da dimenticarti questo piccolo particolare. Che ci fosse lei dietro? «Senti, per caso, sei stata tu ad avermi distrutto il ferro da stiro?» Le domandasti.
Lei abbassò lo sguardo, mortificata: «E’ stato un incidente, non era mia intenzione distruggerlo. Spero che quei soldi bastino per ricomprarlo». Restasti stupito dalla sua ammissione. E, quando ti riprendesti un po’dallo stupore dicesti: «Sì, bastano, per quanto riguarda la maglietta, non me ne ero neanche accorto, se il danno non è così grave basterà ricucirla, non temere, ti restituirò tutti soldi che non mi servono». La rassicurasti.
Lei annuì. Poi la salutasti un’ultima volta. Qualcosa, però ti diceva che la vostra neonata guerra personale non fosse ancora finita e che, quella, fosse soltanto una tregua natalizia. Mentre risalivi le scale pensasti: “Aspetterò con gioia la tua prossima mossa, Astrid”.

Cocteau
Era un periodo molto strano, per te. Ogni volta che chiudevi gli occhi per addormentarti, rivedevi gli occhi rossi di Arles e la sua possessione ad opera di Ares nel giardino dell’Eden di Eris. Poi, la stessa Eris si affiancava al fratello e ti sorrideva, carezzandoti il viso con la mano morbida dalle lunghe dita. Le unghie smaltate di nero. «Fratello, presto ci rivedremo». Ti diceva con un dolce sorriso che a te non fece altro che accapponare la pelle e staccarti da quella mano gridando: «No! Stammi lontano!» Poi ti svegliavi di soprassalto.
Era sempre lo stesso sogno, ma ogni notte si aggiungeva un dettaglio in più. Come, per esempio, tuo fratello che cercava di salvarti ma arrivava troppo tardi.
E, poi, il trono di Eris su cui, sedeva, stavolta, Astrid. Nel sogno sembrava quasi addormentata. Indossava un abito color grano maturo che le metteva in risalto il biondo della chioma. Quando ti avvicinavi, però rivelava due occhi da predatore e una mano con artigli dorati e affilati contratti nella posa di quella che immaginavi fosse di una vera strega.
Anche quella mattina ti eri svegliato di soprassalto. Ma, davanti a te, non c’era più Astrid, bensì il volto stanco di tuo fratello. «Non può andare avanti così». Ti aveva detto a mo’ di buongiorno.
Perciò eccovi qui, alla vigilia dell’ultimo dell’anno a risalire lo Star Hill e tu l’avevi accompagnato in volo.
Dallo scontro con Artemide dubitavi fortemente che la Dea della Luna vi avrebbe concesso di nuovo la sua benevolenza con una nuova profezia. Almeno, non Artemide. Fortunatamente, non era l’unica Dea che governava la Luna, esistevano, infatti, anche Selene ed Ecate. E, anche il tuo gemello lo sapeva. Ci aveva pensato tutto il giorno prima di fare qualcosa. «Non ho intenzione di rivolgermi ad Artemide, so benissimo che Ella non ci ascolterà». Aveva detto in tono risoluto durante la scalata.
«Vuoi tentare un’implorazione alla Strega della Luna? La Dea della Magia?»
«Sì».
«E’ una follia e, lo sai».
«Lo so, ma dobbiamo tentare». Non avevi detto altro, sapevi che quando tuo fratello si metteva in testa una cosa andava fino in fondo. Non era servito imprigionarlo a Capo Sounion per farlo desistere e, sicuramente, non si sarebbe fermato neanche adesso. Se non altro, adesso aveva capito qual era il suo posto e non avrebbe mai e poi mai tradito Atena. E, questo, per te, era sufficiente a rincuorarti.
Raggiungeste la cima dello Star Hill e rabbrividiste.
Tuo fratello era avvolto nel mantello pesante e nei paramenti sacerdotali ma tu no. Ti prese e ti infilò sotto ai propri vestiti, di modo che anche tu potessi scaldarti. Meglio, stavi cominciando a sentire la formazione delle stalattiti tra le tue piume.
Poi alzò la faccia al cielo.
La Luna quella sera non era piena e il cielo non era terso. Ma a voi non serviva che lo fosse. Serviva soltanto che la Dea trimorfa vi udisse. Kanon recitò sottovoce una preghiera. A causa del freddo vento che ululava neanche tu riuscisti a capire che cosa stesse dicendo, sapevi solo che non potevate restare al gelo così a lungo.
Sareste dovuti entrare nella chiesetta per ripararvi. Ma tuo fratello era un ostinato e, non si sarebbe schiodato da lì finché non avrebbe ricevuto risposta.
Presto si ritrovò in ginocchio, piegato dal freddo e dal vento che non aveva smesso neanche per un secondo di aggredirvi.
E, non avesti altra scelta che pregare anche tu. Forse, in due vi avrebbe udito più facilmente.
E, la risposta l’aveste. A un tratto una luce si propagò sotto di voi e i sassolini cominciarono a levitare, come se quella luce avesse il potere di sollevarli. Anche le vesti e i capelli di Kanon cominciarono a ondeggiare con quella luce. Ecate aveva raccolto la vostra preghiera e vi stava per ricevere.
Improvvisamente il paesaggio di fronte a voi cambiò e vi ritrovaste in un luogo completamente diverso. Il vento non soffiava più e c’era un bel tepore come se fosse di nuovo tornata la primavera. Questa era la strada che conduceva sul Monte Olimpo. Ne avevi sentito parlare da Shun di Virgo, che ci si recò assieme alla Vostra Dea per salvare la vita a Seiya, dopo i fatti di Hades.
Di fronte a voi si allargava una strada tra le rocce e all’orizzonte svettava una torre sormontata da una mezzaluna. La torre della Strega della Luna.
«Ce l’abbiamo fatta». Disse tuo fratello e tu gli facesti eco.
Come se la vista di questo posto gli avesse restituito la sua forza, Kanon si alzò e s’incamminò verso quella torre. Tu, coperto dai vestiti di tuo fratello, ti guardavi attorno girando la testolina da una parte e dall’altra, unica parte di te che spuntava dal colletto della giubba pesante sotto il mantello.
Neanche da Gran Sacerdote eri mai stato in questo luogo. In questo posto si respirava un’aura di rispetto e mistero. Come se mancasse poco che avreste potuto trovarvi di fronte a delle Divinità in tutta la loro potenza e splendore. Questo, era il loro territorio e, ogni cosa era pregna della loro energia e della loro sacralità. Di tutti loro e, ciò, non ti piaceva affatto.
Sentivi, ora come non mai, tutta la tua fragilità di essere umano. Fragile, debole formica in confronto a giganti che, se l’avessero desiderato, avrebbero potuto schiacciarti con un dito.
Che ingenuo che eri stato, ai tempi della tua supremazia a credere di poter combattere contro di loro e ucciderli tutti per non essere più una pedina nelle loro mani. L’amara verità era che non eravate altro che questo.
Stavi ancora pensando a questo quando tuo fratello si fermò.
Ti guardasti attorno e vedesti che eravate ai piedi della colonna. Ma non c’era nessuno e, di fronte a noi, si apriva un bivio. «E, ora da che parte dobbiamo andare?»
«Da nessuna parte». Rispose Kanon. «Ecate, Strega della Luna! Lo so che siete qui, fatevi vedere! Devo conferire con voi!»
«Non occorre gridare, signore, ci sento benissimo». Rispose una voce alle vostre spalle, facendovi sobbalzare entrambi.
Per poco non graffiasti Kanon.
Tuo fratello si girò e vedeste la donna. Aveva i capelli castani sciolti che le scivolavano lungo la schiena ed era vestita con un lungo manto nero che avvolgeva le sue forme. Nella sua mano destra reggeva un bastone nodoso.
«Voi, signora, siete Ecate?» Chiese il tuo gemello.
«In persona, vi stavo aspettando Gran Sacerdote e Oracolo di Atena». Disse salutandovi con un sorriso.
«E, noi siamo lieti che ci abbiate ricevuto». Rispose tuo fratello in tono formale, inginocchiandosi in segno di rispetto e sottomissione. Tu eri sbalordito, dopo tutti questi anni passati a oltraggiare le Divinità questo voltafaccia sembrava uno scherzo di pessimo gusto. Ma Ecate non ci fece caso. «Ero curiosa di conoscere il nuovo Portavoce di Atena in Terra. Ditemi, a cosa debbo la vostra visita nel territorio divino? E, badate bene che più in là di così non vi sarà concesso di andare». Vi avvisò.
«Non è nostro desiderio oltrepassare la vostra torre e profanare questo sacro luogo, Signora, nostro desiderio è porgervi una richiesta». «Sentiamo».
«Necessitiamo della vostra magia per avere accesso al futuro. Abbiamo modo di credere che la Somma Artemide non vorrà più aiutare i Cavalieri di Atena con le sue profezie, soprattutto dopo l’Ultima Guerra Sacra. E, non possiamo permettere che la Somma Atena resti priva di difese». «Allora ciò che si vocifera in giro sulla rottura dello scettro di Nike corrisponde a verità?» Domandò la Dea, preoccupata. Voi la guardaste e vedeste il suo labbro inferiore tremare. Lui annuì. «Va bene, per ripagare il debito che ho contratto con la vostra Dea molto tempo fa, vi aiuterò». Decretò la Strega della Luna battendo il bastone a terra, una volta. “Debito? Che debito ha con Atena, costei?” Pensasti, ma non glielo chiedesti.
La strega si rivolse a Kanon, dicendo: «Il Gran Sacerdote faccia pure ritorno allo Star Hill per il prossimo plenilunio e avrete quanto richiesto, alla prossima e, che le stelle siano con voi». Poi, batté un’altra volta il bastone a terra e, vi ritrovaste di nuovo nel cerchio di luce attraversato dal vento.
La luce svanì lentamente e i sassi smisero di volteggiare.
Il vento tornò a investirvi con tutta la sua forza, come se avesse voluto riprendere da dove eravate stati interrotti.
«Stai bene, Saga?» Ti domandò tuo fratello chinando il capo per guardarti. La sua premura ti pareva eccessiva. Eri pur sempre un uomo abituato a contare solo su se stesso, nonostante il tuo animo nobile e il tuo buon cuore e, attualmente anche il tuo aspetto.
«Un po’indolenzito ma sto bene. Andiamo o ci beccheremo una polmonite».

A Capodanno ne approfittasti per parlare in disparte con il Cavaliere dei Pesci.
Ti eri appollaiato sulla sua spalla mentre beveva un sorso di vino bianco. Per poco non gli era preso un colpo perché non se lo aspettava. «Cocteau!» Esclamò. «Mi hai fatto prendere un colpo!» Protestasti.
«Non urlare e andiamo fuori, devo parlarti».
«Va bene». Disse in tono incerto e, si alzò e usciste allontanandovi dai festeggiamenti. Quando foste sulla soglia della Seconda Casa si guardò attorno. Dopo essersi accertati di essere soli, volse di poco la bella faccia verso di te e ti domandò: «Allora? Di che volevi parlarmi?» «Delle indagini, come procedono?»
«Sono riuscito a fare dei passi avanti, rispetto a Kiki. Pare che la storia della setta satanica sia solo una copertura. Non si erano mai verificati attacchi di questo genere nella storia del monastero o di quella regione in particolare. Non figura nemmeno tra le mete di pellegrinaggio dei devoti cristiani. In compenso sono venuto a sapere che quel monastero è stato famoso, nel corso dei secoli per la caccia alle streghe e dei loro libri neri. Ma, soltanto nel XVI secolo i monaci, sotto la guida dell’abate Selargius, hanno cominciato a conservarli e ricopiarli, riconoscendo la loro importanza culturale e mistica, molto utile ai potenti del periodo».
«Le case reali d’Europa si affidavano alla magia?» Domandasti incuriosito. Neanche tu conoscevi questo volto dell’Europa Rinascimentale. Aphrodite annuì e si sfregò le mani l’una con l’altra per scaldarle. Anche se gli inverni erano abbastanza miti, da voi, era pur sempre inverno.
«Da che mondo è mondo, l’uomo si è sempre affidato alla magia. Caterina de Medici, per esempio, non era solo un’intellettuale o un’avvelenatrice, era una potente strega nera e spesso si affidava alle predizioni di Nostradamus. E, il nostro monastero è famoso proprio per la sua collezione di libri esoterici e, ho scoperto, che l’omicidio che l’ha scosso e, di conseguenza anche l’incendio che è stato appiccato alla biblioteca, siano soltanto una copertura per il furto di uno di questi manoscritti».
Il tuo cuore perse un battito. «Che libro era, questo?»
«I monaci non me l’hanno voluto rivelare, ma le piante sono state molto più loquaci di loro».
«E, che cosa hanno detto?» Una brezza gelida cominciò a soffiare, smuovendo dolcemente la chioma del Cavaliere della Dodicesima: «Innanzitutto ti devo avvertire che le piante che videro l’arrivo di quel libro al monastero sono morte da un pezzo, però i loro pochi discendenti raccontano che i monaci sotto la guida di Selargius non furono affatto convinti della scelta del loro abate e che operarono su di esso numerosi esorcismi. Forse credendo che avrebbe portato con sé il maleficio del Demonio».
«Ed era possibile?» Dopotutto l’avevate affrontato.
«Chi può dirlo? Molte volte non ha niente a che vedere con questi rituali prettamente umani. E, poi, sai bene quanto me che non è così facile che Lucifero in persona si mostri ai suoi adepti. Comunque è stato difficile da comprendere perché erano molto spaventate. Parlavano di cimiteri, di ossa, di omicidi rituali e del giardino più bello del mondo, che, presto, avrebbe trovato una nuova casa proprio qui, in un centro di potere terrestre». Fece aggrottando le sopracciglia.
«In che senso un centro di potere?»
«Non me l’hanno detto, ma ho pensato che si riferisse a un centro politico. E’ possibile che qualcuno stia cercando di evocare una divinità a noi avversa. Ho quindi motivo di pensare che, come ha già scoperto Kiki, la Guerra Sacra contro Artemide, sia stata soltanto un pretesto per indebolirci e distrarci in vista di un’invasione ben più grave».
«Eris». Mormorasti ricordandoti il viso allegro e sorridente della Dea della Discordia nelle spoglie di Kyoko di Equules comparso nel tuo sogno. E, ti tornarono in mente anche i ricordi della possessione di Arles, anzi no, di Ares, suo fratello gemello, che aveva quasi distrutto il Santuario e la stessa Dea Atena. Al solo pensiero la paura cominciò a serpeggiare dentro di te. Se era come temevi, allora la Dea della Discordia sarebbe tornata a prendere Ares per riportarlo dalla sua parte e riprendere il suo piano da dove le Saintie l’avevano interrotto. E, adesso che lo scettro di Atena era in frantumi e buona parte dei Saint non si era ancora ripresa completamente dalle ferite riportate dagli scontri, mentre altri non avevano ancora conquistato le proprie Armature, eravate nei guai. L’altro ti guardò: «L’ho pensato anch’io. Tu come fai a esserne sicuro? Potrebbe anche trattarsi di chiunque altro, come Dioniso o Demetra, anche loro hanno il controllo delle piante». «Non questo tipo di piante. Pensaci, una divinità che prenderebbe possesso di un centro politico e che ha al suo servizio una schiera di soldati con capacità legate alle piante. Chi altri seminerebbe discordia a questo modo se non Eris?»
«Però se non erro Eris era stata sconfitta trent’anni fa dalle Saintie». Rispose Aphrodite.
«Quella puoi sconfiggerla quanto ti pare ma è come la gramigna, non muore mai per davvero».
«Credi che ci sia un collegamento tra lei e tutto ciò che sta accadendo finora?»
«E’ possibile. Non mi sento di dire lo stesso per le cose che succedono attorno ad Astrid, ma per i teschi e gli scheletri che tu stesso hai trovato non ci sono dubbi. Hai trovato anche dell’erba di San Giovanni e delle lobelie, vero?»
«Sì, i fiori delle figlie di Eris, le loro risate malevole erano rivoltanti».
«E, i ragni? Che mi dici di loro?»
«Quelli erano gli unici ad essere spariti ma sono pronto a scommettere che Phonos dell’Omicidio abbia appiccato il fuoco per nascondere le tracce del loro passaggio».
«Astuti». Commentasti. Era evidente che volessero riprendersi il tuo corpo come ricettacolo per Ares.
«Già, quei bambocci stanno imparando». Commentò Aphrodite. Poi disse: «Darò disposizioni affinché quei tre ci trovino preparati».
«Sì». Poi ti levasti in volo.
«Buon anno nuovo». Ti augurò, anche se tu non gli rispondesti.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Libro secondo: Le preghiere della Luna ***


Libro secondo: Le preghiere della Luna

 

Al centro era raffigurata una giovane fanciulla, una sorta di novella Ifigenia, con dieci braccia. Troppo delicata per somigliare a Kalì la Dea della Morte, ma, al contempo, troppo forte per somigliare all'indifesa Polissena dell’Iliade.

***

Lei ti guardò: «No, per niente, voglio costruire un telescopio».
«Un telescopio? E, che roba è?»

***

«É... come guardarsi allo specchio, in un certo senso».

«In un certo senso»

 

***

«Perché leggi la mano?»
«Perché... perché mi piace».

***

La guardasti confuso: «Cosa? Milady, cosa dite?»
Lei sorrise e ti congedò dicendoti: «Vai dagli altri, Cavaliere, hanno bisogno di te».

***

Vi eravate sbagliati su tutta la linea.

I buchi neri non sono solo fenomeni astronomici. Persino il centro della nostra galassia è un buco nero.
Eppure, nonostante ciò, nessuno ha la più pallida idea di cosa siano davvero.
Per mio padre sono tutto ciò che resta di una stella, una deformazione nel tessuto spazio-temporale che risucchia tutto ciò che orbita al suo interno, uccidendolo.
Per mia madre sono la porta dimensionale attraverso cui gli spiriti giungono da un mondo all’altro. 
Personalmente continuo a preferire la teoria per la quale dall’altra parte dei buchi neri ci siano le fontane di luce.
Ma, come in molte storie, la verità sta nel mezzo, ed io lo so.
Ci sono finita dentro e sono approdata in un altro mondo, un mondo di Cavalieri, Santi al servizio di Divinità, la cui storia è profondamente intrecciata con la nostra. Una storia che pochissimi conoscono.
E di cui faccio parte anch’io a causa della Luce Ombrosa e del mio passato.
In realtà sono ancora infuriata con loro per il mio salvataggio poco ortodosso. Se ci penso, mi viene ancora da imprecare; però è anche vero che questi uomini mi hanno salvato la vita. Non posso andarmene senza ricambiare il favore, ora che sappiamo che è di me che hanno bisogno.
“Non posso lasciarmi sconfiggere così”, penso mentre i lapilli volano attorno a noi e la terra trema sotto i nostri piedi. 
Ho paura ma non posso più scappare e allora quello che puoi fare è voltarti e combattere. Combattere per sopravvivere agli Inferi di Hades, combattere per svelare i misteri sulla scomparsa delle stelle e quello che mi circonda.
Perché qui, se c’è qualcuno che può effettivamente fare qualcosa, quella sono io.
Anche se non sono un Cavaliere. 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Il Tempio della Giustizia, il Tempio della Vendetta ***


Il Tempio della Giustizia, il Tempio della Vendetta



Astrid
Ero avvolta dall’oscurità più totale. Non avevo paura, io e il buio eravamo una cosa sola, anche se ero illuminata da un fascio di luce. Improvvisamente un bagliore rossastro si espanse dinanzi a me. Ci misi un po’ a capire che era un incendio e che le scintille arrivavano fino a qui. Ma io ero al sicuro. 
Davanti a me comparvero tre figure, due femminili e una maschile che si avvicinarono.
«Andate via! Andatevene!» Gridai. 
La figura femminile centrale tese un braccio verso di me e mi minacciò dicendo: «Non puoi sfuggirci per sempre, noi ti troveremo».
Riemersi dal ricordo del sogno e alzai gli occhi al cielo terso sopra la mia testa.
Le giornate si erano visibilmente allungate dal Solstizio di Inverno. Il tempo era passato in fretta. Così in fretta che il Patriarca aveva cominciato ad anticipare la visita allo Star Hill per interpretare il moto degli astri. Eppure, dubitavo che questo comportamento avesse a che fare con il prolungamento delle ore di Sole.
In più, avevo anche imparato la nomenclatura dei Templi. Cosa che una volta non mi sarei neanche sognata di imparare. A forza di fare le pulizie avevo scoperto che, pur vivendo nel XXI secolo, i Templi qui seguivano lo stesso stile di quelli antichi, dando l’illusione di essere caduti nel passato. Sarebbe riuscita anche meglio, se non fosse stato per il corridoio di passaggio che li spezzava. 
Comunque la pianta era molto simile. Bastava estendere ciò che si sapeva sui Templi a tutto il Santuario.  L'edificio vero e proprio era per i Greci la casa del dio, oikos, collocata nella cella (naos). E questa era la Casa di Atena, dove c’erano i suoi appartamenti privati, oltre che la statua della Divinità. Proprio come in un vero Tempio antico, il Gran Sacerdote era l'unico ad averne accesso. Avevo sentito dire che, a eccezione di pochissimi inservienti nella Casa di Atena, solo lui poteva permettersi di farle visita alla cella.  Ma qualcosa mi diceva che in tempi di guerra questo permesso si potesse estendere anche ai Gold Saint.
Mi avevano raccontato che, anticamente, il culto si svolgeva su un altare situato davanti al Tempio all'interno del temenos. Ossia il recinto sacro in cui erano ubicati il Tempio e altri edifici connessi. Quindi le Dodici Case costituivano una sorta di temenos? No, perché a vederle sembravano più torrioni di una serie di cinte murarie medievali. Il santuario vero e proprio, cioè la Casa di Atena, ospitava una serie di costruzioni di uso pratico, come i "tesori" o thesàuroi. Non capii mai perché questo nome.
A loro volta ospitavano i doni votivi – preziosi o anche di terracotta – offerti dalle città o dai cittadini. Ma anche sale per banchetti dette hestiatòria e portici, che ricordavo dalle lezioni di filosofia del liceo, si chiamassero stoai. L'ingresso all'area sacra poteva essere protetto da propilei. Un porticato antistante la porta del Tempio.
Ora che ci pensavo tutti le Case avevano qualcosa di simile negli appartamenti privati ma in uno spazio più ristretto.  Quasi come se la Casa di Atena fosse prima passata da una Casa all’altra, prima di trovare la sua localizzazione finale.
Il tempio greco è sempre orientato Est-Ovest, con l'ingresso aperto verso Est. Io stavo spazzando il crepidoma, cioè i gradini dello stilobate. Ossia la piattaforma che elevava il Tempio rispetto al terreno circostante. 
Era caratterizzato dalle colonne. Avevo imparato anche che la loro disposizione determina la classificazione dei tipi di pianta. A parte l’Undicesima a tholos, ossia un tempietto circolare, l’Ottava era un Tempio diptero: il porticato quadrangolare presentava una doppia fila di colonne sui lati lunghi. Alcuni Templi erano stati restaurati in epoca romana, perché erano caratterizzati da una peristasi costituita da semicolonne o lesene addossate ai muri esterni della cella e da una fila aggiuntiva di colonne ma solo sui lati corti. La cella poteva in tal modo essere realizzata con una maggiore ampiezza. La Terza e la Decima erano un Tempio in antis in cui le pareti dei lati lunghi della cella (naos) si prolungano in avanti fino a costituire le cosiddette ante (antae) e delimitare lateralmente il pronao (pronaos). La Seconda invece era un Tempio pseudoperiptero. A differenza del periptero che ha un colonnato quadrangolare (peristasi) presenta, anche sui lati lunghi, una doppia fila di colonne. La Nona sembrava  tempio prostilo: di fronte al pronao è presente un colonnato antistante (prostòon); in tal caso può mancare l'intero pronao. Peccato che un po’tutti fossero anfiprostilo, ossia con la fronte e il retro con il colonnato. Me l’ero fatto anche spiegare, ma non avevo che imparato pochissimo.
Avevano subito tante di quelle ristrutturazioni che della forma originale non restavano che poche tracce. Come pezzi di un passato che costituiscono il nostro presente.
A seconda del numero delle colonne presenti in facciata, il tempio è inoltre definito come "distilo" ("con due colonne"), "tetrastilo", "esastilo", "ottastilo" o persino "dodecastilo" (rispettivamente con quattro, sei, otto o dodici colonne sulla facciata). Raro è il caso di un numero di colonne dispari che è un segno di arcaicità come nel tempio "ennastilo" di Hera a Paestum. E qui avevo già l’emicrania a causa di tutti i termini che avrei dovuto memorizzare.  
Non mancava neanche la matematica. Per non farsi mancare nulla, il numero delle colonne laterali è proporzionato a quello delle colonne in facciata, e può essere pari al doppio, al doppio più uno, o al doppio più due di esse. Per esempio un tempio esastilo potrebbe avere dodici, o più frequentemente tredici o quattordici colonne sui lati lunghi; raramente quindici o sedici. Paradossalmente avevo capito di più questo che tutto il resto.
I colonnati erano edificati utilizzando il sistema trilitico, cioè "a tre pietre": due sostegni verticali ed un elemento orizzontale, che copre lo spazio tra i due. Da questo vengono elaborati i diversi ordini architettonici, caratterizzati da precisi rapporti proporzionali tra i diversi elementi che lo compongono. La colonna era costituita da capitello, fusto ed eventualmente base sormontata da una trabeazione. Composta a sua volta da architrave, fregio e cornice. Peccato che ogni tempio presentasse troppi dettagli di troppe epoche per poterli riconoscere tutti. Alcuni forse erano orientali perché non li avevo mai visti. Sui lati corti, facciata e retro, gli spioventi del tetto determinano la presenza di un frontone, sul quale a sua volta poggiano - agli angoli e al vertice - sculture decorative generalmente in terracotta dipinta, gli acroteri. L’unica Casa che aveva qualcosa di simile era la Quinta. Tuttavia non mi erano sembrati di terracotta, ma di marmo.  
Se ripensavo che all’inizio neanche mi sarei sognata di saperlo, mi sentivo strana. Però temevo di parlarne, non volevo che mi ridessero dietro più del solito. Già secondo le malelingue ero strana, non volevo dare altre ragioni perché mi si sparlasse alle spalle.
Non ero mai stata oggetto di pettegolezzi, prima, anche per altre cose oltre che per la chiromanzia. Non sapevo come gestirmi. Anche la grandezza di Rodorio non mi aiutava: più il luogo è piccolo più le voci si spargono rapidamente. E qui c’era un’insana passione per i pettegolezzi. Ormai avevo capito perché c’era tutta questa passione per il taglia e cuci: non c’era davvero altro da fare. E, se da un lato giocava a mio favore per la lettura della mano, dall’altro neanche poi tanto. Cioè, se avessi letto la mano a troppe persone nello stesso giorno avrei avuto troppa pubblicità e, al tempo stesso, pochissima clientela. Se avessi letto la mano a pochissime persone, avrei rischiato di averne comunque di meno ai miei standard. Perciò dovevo stare molto attenta a esercitare il mio mestiere e a non farmi scoprire troppo.
Come avrei voluto che i miei problemi si fermassero qui. Non avrei saputo dire che cosa avessi mangiato che mi aveva fatto male, però la mia mente era funestata da incubi. In realtà non succedeva quasi nulla di strano, anzi, erano molto luminosi. Sognavo spesso di trovarmi nel parco della villa della mia tata. Era estate e io uscivo a giocare in giardino. A un tratto udivo  una bellissima voce femminile intonare una melodia. E l’erba attorno a me che cresceva e fioriva. Io da bambina che ridevo divertita di fronte a questa magia.
E poi il buio e dei bagliori fosforescenti che mi svegliavano di colpo. Oppure sognavo degli strani cavalieri in armature rossastre come foglie d’acero nascere dalle piante e venirmi incontro. Ma quando urlavo no, questi arretravano, scacciati dalle stelle fosforescenti. «Voi non potete passare!» Sbraitavo.  
Poi una grande mano adulta si posava sulla mia spalla e la voce del mio amico si complimentava con me: «Ben fatto, Astrid».
Ma non c’era solo questo: da quando ero qui stavo riscontrando un fenomeno curioso. Ogni cosa che riguardava il Santuario, scoprivo di conoscerla già. Ed erano fatti narrati dalla voce dei miei ricordi. Ne parlai con Death Mask un giorno, mentre pulivo il loggiato del suo Tempio. Lui mi ascoltava divertito, fumando una sigaretta. Non succedeva spesso che parlassimo. Non del Grande Tempio, almeno. Ma quel giorno era talmente bello e caldo (inusuale per questo mese) che mi sciolsi un po’. Forse, parlandone con un Gold Saint mi sarebbero tornati alla mente altri particolari.
«Tutto bene?» Mi chiese, infatti, accorgendosi dell’espressione che albergava sul mio volto. Quando mi perdevo nei miei pensieri tendevo anche a manifestare ciò che provavo. «Sì».
«Castalia mi ha detto che hai avuto degli incubi, ultimamente, è vero?» Indagò sedendosi sulle scale e lasciandosi scaldare la faccia dai raggi del Sole.
Dubitavo che gliel’avesse detto proprio lei. Secondo me l’aveva saputo da qualcun altro, però risposi lo stesso: «Sì, a volte mi succede». Poi non mi domandò nient’altro. Ma, lo vedevo che non chiedeva perché non sapeva come chiedermelo. Né, io sapevo che cosa dirgli per imboccarlo. E poi per quel che ne sapevo poteva anche aver pensato a qualcos’altro. Eppure sentii il bisogno di continuare a parlare: «Sai cosa rappresentano i due leoni di fronte alla Quinta? Goldie e Blondie, i due leoni corazzati di Kaiser di Leo, che adottò da cuccioli dopo che Dohko uccise la loro madre. Appartenevano alla specie di Nemea. Sapevi che questo Cavaliere aveva il cuore del leone, grazie a un trapianto? E, che la sua abilità era il Pugno di Luce, che erano pugni che scagliati a una certa velocità assumevano le sembianze di raggi luminosi. Invece Cain di Gemini possedeva due facce distinte, quella di Abel, un guerriero dedito al male che preferì passare dalla parte di Hades per interesse personale. E, quella del fratello Cain, il guerriero buono e con un grande senso di giustizia. Quando quest’ultimo appariva Abel scompariva e viceversa. Il cavaliere con due anime e due cervelli nello stesso corpo. Le sue tecniche erano pressappoco le stesse di tutti i Saint dei Gemelli, ma lui aveva anche la Kishikaisei, cioè la tecnica delle Stelle della resurrezione, detta anche delle Stelle del recupero. Con essa colpiva i punti del corpo disposti secondo la costellazione di appartenenza di un Saint in fin di vita, attivandone le stelle guida e così salvandolo dalla morte, guarendolo. Se guardi nella Terza Casa con attenzione, puoi ancora trovarne i resti di quella battaglia». Mi girai a guardarlo e lo vidi fissarmi tra il divertito e il perplesso. «Dove hai sentito queste storie?» Chiese dopo avermi fissato abbastanza a lungo.
«Me le raccontava qualcuno, quando ero piccola».
«Non è possibile». Decretò buttando via la cicca ormai finita. Scosse il capo chino sulla tasca interna della giacca viola, da cui estrasse un’altra sigaretta e un accendino. Si accese la seconda e fece un tiro. «Tu prima di incontrare me e Aphrodite non hai mai visto un Saint».
Gli lanciai un’occhiataccia. «Guarda che stai parlando dei miei ricordi». Ribattei leggermente offesa. Anche se soffrivo di ansia non ero mica pazza.
Andai a raccogliere il mozzicone e lo aggiunsi al mucchietto di sporcizia. Non recepii bene le ultime parole, perciò fu costretto a ripetermele. «No, questo non ha niente a che vedere con i tuoi ricordi».
Mi lanciò un’occhiata scocciata che mi ammoniva di dargli ragione. Allora mi impuntai e continuai, stavolta guardandolo dritto in faccia: «Mi ricordo di Écarlate, che poteva rendersi invisibile a causa di una malattia, la quale degenerò e le molecole del suo corpo rischiarono di cristallizzarsi. Era una brava persona e un guerriero coraggioso. Spesso si tormentava per la sua malattia, che gli causava grande infelicità ma non si era mai arreso e non aveva paura di chiedere aiuto se poteva servire a qualcosa».
«D’accordo, d’accordo, la storia di Écarlate, Kaiser e Cain è vera, ma l’avrai sentita stando al Santuario, o l’avrai letta da qualche parte». Ipotizzò, anche se sapeva che non ero ancora al livello di sostenere una conversazione profonda in greco. Molte volte chiedevo ancora come si dicesse questa o quella parola.  
Strinsi le mani sul manico della scopa: «No, se così fosse me lo ricorderei e te l’avrei detto, anzi, ti avrei chiesto se fosse vero».
«Come fai ad essere sicura? Non è che ti sei lasciata suggestionare?» Domandò prima di fare un tiro.
«No, non c’è alcuna suggestione. Ho ben chiara la differenza tra realtà e fantasia.» puntualizzai.
Soffiò fuori il fumo: «Se lo dici tu».
«Per esempio come saprei il modus operandi del Gran Sacerdote, la sua agenda e l’estensione del suo potere? Oppure il modo di comportarsi di Atena, che spesso vi lascia agire a briglia sciolta o lascia che disobbediate ai suoi ordini? O, anche, l’ubicazione di alcuni luoghi del Santuario che non avevo mai visto o storie sulle gesta dei precedenti Cavalieri di Atena di secoli e secoli addietro?»
Death Mask alzò le spalle: «Te l’ho detto, adesso vivi qui, avrai sentito queste storie da qualcuno».
Decisi di concederglielo, non avevo voglia di litigare. «Sì, forse è così. La domanda è: chi?»
«Te l’ho detto...» Ripeté infastidito alzando gli occhi al cielo ma lo interruppi con un secco: «Vabbè, lasciamo perdere» e la conversazione finì qui.
Non potevo essermi sbagliata. Nei miei ricordi questa persona mi diceva, “Alcuni di loro li ho conosciuti quando erano bambini, ma già allora il loro destino di diventare Cavalieri d’Oro era scritto nelle stelle”. E, rivedevo la sagoma di quella persona seduta accanto a me che mi narrava le loro gesta come se li avesse conosciuti e, in un certo senso sentisse la loro mancanza.
“Avresti voluto essere come loro?” Gli avevo chiesto, un giorno, sempre nei miei ricordi, girandomi a guardarlo ma intravedendolo e basta a causa del sole che mi batteva in faccia. Lui curvava le labbra in un sorriso enigmatico ma si chiudeva nel silenzio e non diceva nient’altro, se non un “Se fossi stato come loro sarei stato sicuramente più crudele. Essere troppo buoni a questo mondo ti frega. Ma non è il nostro caso, sai, piccolina?” Mi diceva in tono bonario scompigliandomi i capelli con la mano, strappandomi una risata “Forza, riprendiamo gli esercizi”, diceva sempre.
«Astrid? Stai bene?» Mi domandò Death Mask fissandomi preoccupato.
Lo guardai perplessa. Era successo qualcosa? «Sì? Scusa, mi ero persa nei miei pensieri. Cosa c’è?»
Lui mi fissò a lungo, sconcertato, prima di dirmi che: «Sono cinque minuti che ti chiamo e, per tutto il tempo sei rimasta immobile. Ho quasi temuto che tu fossi stata colta da un infarto fulminante o che ti fosse successo qualcos’altro».
«Sto bene».
«Se lo dici tu». Ripeté, poco convinto, guardandomi preoccupato. Strinsi il manico della scopa un po’ più forte e distolsi momentaneamente lo sguardo, prima di tornare a guardarlo e chiedere: «Volevi dirmi qualcosa?»
«No, me lo sono scordato».
Oscillai la testa in una parodia di un cenno d’assenso all’italiana, dopodiché ripresi a spazzare. Avevo imparato che in Grecia era bene non scuotere il capo. Significava sì, mentre il cenno d’assenso che conoscevo io era un no.
Così come a mettere le mani ad angolo verso il basso, significava che stavo ignorando il mio interlocutore. Non che l’avessi mai fatto, era un gesto che proprio non mi apparteneva. Come neanche quello dell’ombrello, molto famigliare anche qui. Ma anche fare l’altolà con la mano, simboleggiava un grande disappunto. Stando a Lythos è un gesto che risale addirittura all'antica Bisanzio, quando i criminali erano incatenati agli asini e fatti sfilare per le strade.
Non solo avevo questi problemi di cui raccapezzarmi, adesso anche la gestualità mi mancava. Me l’avevano perdonato in tanti i primi tempi, ma adesso non più.
Non che avessi intenzione di rimanere ma non volevo mancare di rispetto a nessuno.
Death Mask mi osservò impaziente.
Forse era perché stava per succedere qualcosa di più importante, che non voleva perdere tempo a parlare con me. Era già tanto che avesse trovato un minuto per fumarsi una sigaretta. Che era da quando era rinato per la quarta volta che aveva preso il vizio.
Non era mai stato un ottimo ascoltatore, ma era anche lui un tipo attento e sensibile; per quanto stronzo e pazzo fosse. Non sapeva spaccarsi in due altrimenti mi avrebbe prestato più attenzione. Da un lato ne ero contenta come se fosse Yule. Proprio il primo cittadino di Mattopoli doveva capitarmi? E, meno male che non gli era ancora preso lo sghiribizzo, non ci tenevo proprio a fare una gita nella Bocca dell’Ade. Dall’altro avrei preferito che fosse qualcun altro a passare il tempo con me. Con tutto il rispetto per Death Mask, ma i suoi precedenti mi facevano ancora paura.
Ad ogni modo sapevo che questi ricordi avevano a che fare con la mia infanzia, ma in che modo? Perché?
Death Mask si alzò, si spolverò il retro dei pantaloni e mi salutò dicendo che se ne tornava dentro. Ricambiai il saluto e pulii il resto del peristasi e dello stilobate. Poi mi fermai un momento per osservare il panorama. Anche se non ne parlava, lo vedevo dalle mura che circondavano Rodorio e il Santuario che stavano preparandosi a qualcosa. Mi morsicai l’interno della guancia: non ci voleva un genio per capire che era qualcosa di brutto.
 
La notte del cinque gennaio, feci un sogno molto strano. Mi trovavo nello studio privato del Gran Sacerdote, accomodata su un’ottomana ottocentesca. Alla mia sinistra c’era la scrivania e seduto alla scrivania, il Patriarca in persona che stava scrivendo qualcosa.
Il Patriarca si alzò e si avviò alle sue stanze private dove si tolse la maschera. Provai a vederne il volto ma non ci riuscii a causa della penombra. In compenso vidi che anche lui, a giudicare da come si muoveva, sembrava desideroso di spaccare quella cavolo di maschera che era costretto a indossare.
Poi la voce profonda del mio amico riprese a raccontare, in tono cantilenante come quella di un padre che legge una favola alla figlia: «Ogni notte di luna piena il Gran Sacerdote sale sulla cima dello Star Hill per consultare il movimento degli astri e ricevere i responsi del Cosmo». E, io mi ritrovai distesa a pancia in giù sul prato verde, all’ombra di odorosi tigli, con uno stelo d’erba in bocca. Mi svegliai di soprassalto nel letto, l’odore dei tigli impigliato nelle mie narici.
Guardai la sveglia sul comodino e scoprii che erano le sei. Sbuffai: mancava ancora un’ora prima di alzarsi. I servi si recavano al lavoro verso le otto. Mi lasciai ricadere tra le lenzuola e cercai di
riaddormentarmi ma non ci riuscii.
Mi alzai e andai a prepararmi la colazione. Dopo mangiato mi feci la doccia prima di recarmi al lavoro. Ancora un giorno e le vacanze sarebbero finite. Vacanze; da quando avevo finito il liceo, non mi ricordavo neanche più cosa fossero. A maggior ragione da quando avevo cominciato a lavorare. Se non altro ero in buona compagnia, qui al Santuario i Cavalieri non vedevano una vacanza da... mai? E l’ultima volta che gliel’avevano concessa non era andata molto bene.
Sospirai.
Dopo essermi asciugata e aver indossato la divisa, scrissi un biglietto a Castalia e uscii. Così non trovandomi non si sarebbe preoccupata.
Quando arrivai all’ufficio di collocamento mi accorsi che i miei colleghi erano in fermento. Una cosa abbastanza rara per questo periodo dell’anno. Il brusio agitato riempiva la stanza come il ronzio di api in una bottiglia. 
Chrysafi mi vide e mi venne incontro tutta agitata, con occhi brillanti: «Astrid, Astrid!» Prese le mie mani tra le sue, facendomi spalancare gli occhi e coinvolgendomi in una serie di saltelli sul posto. «Chrysafi, che è successo?» Le chiesi fermandomi un attimo. Non mi sembrava di aver ancora fatto granché.
«Il Gran Sacerdote è tornato alla Tredicesima». Annunciò tutta eccitata come ogni volta che le portavo nuovi capelli della Piattola. Mi separai da lei e mi avviai alla lavagna con le mansioni del giorno. 
«Perché, era andato via?» Domandai non capendo bene dove fosse la novità. Arrivai di fronte alla lavagna e osservai le caselle rimaste libere. Poi segnai il mio nome, prima che qualcun alto le prendesse. I primi tempi avevo dovuto segnarmi con una X  perché nessuno riusciva a leggere il mio nome in corsivo e ci mettevo troppo a scriverlo in stampatello, invece, l’acronimo del mio nome era escluso a priori.
Chiusi il pennarello e lo rimisi al suo posto, poi mi avviai, sempre accompagnata dalla mia conoscente. «Come, non lo sai che ogni notte di plenilunio il Patriarca sale sullo Star Hill e interpreta il volere degli astri?»
«No». Lì per lì me ne ero proprio dimenticata. Lei sgranò gli occhi e allargò le braccia in un gesto di stizza e stupore messi insieme: «Come, no? Santa Atena, vivi qui da un anno, ormai, lo saprai, no?» Strinsi le labbra ed evitai di ribattere “dimentichi che vivo qui ma non per mia volontà”. Non mi andava di battere di nuovo questo tasto con lei. Né di rammentarle che non era proprio un anno, ma solo pochi mesi. Tutti i miei colleghi sapevano del mio rapimento. Persino Makarios evitava sempre di tirarlo in ballo, quelle volte che non mi canzonava. Ma Chrysafi era proprio stupida da non arrivarci. E, di stupidi mi bastava già la Piattola, non avevo bisogno anche della sua Stalker.
«Scusa, Chrysafi, è che mi sono appena svegliata, non connetto molto bene». Mi giustificai, tagliando così il discorso. Lei si rabbonì immediatamente. «Capisco. Però, sei migliorata con il greco». Commentò osservando il mio nome scritto sulla lavagna. «Grazie.» diciamo che le lezioni di Castalia davano i loro frutti, anche se mi dovevo far dettare da lei e correggere ciò che volevo scrivere (come nel caso del biglietto della Piattola, che poi mi aveva restituito i soldi in eccesso).
Credo che il lato negativo di essere il Patriarca fosse proprio l’attesa della realizzazione delle visioni che riceveva. Doveva essere croce, condanna e al tempo stesso balsamo e delizia per la sua povera anima. E, io questo peso lo conoscevo molto bene. Chissà se anche i suoi predecessori si erano sentiti così.
Facemmo un tratto di strada insieme. La mia conoscente mi riferì che sembrava che il Patriarca temesse la comparsa di un gruppo di stelle denominate “Stelle della Discordia”. Cioè, se avevo capito bene, le stelle che precedevano la rinascita di Eris e delle sue schiere. 
Me ne parlò un po’più approfonditamente Kiki quando tornò il giorno dopo, mentre gli cucinavo il pranzo, perché glielo chiesi. Fortuna che non fece battute a sproposito sui domestici in perfetto stile La ragazza con l’orecchino di perla. Ma qui neanche sapevano che cosa fosse, perciò potevo stare abbastanza tranquilla.
Dopo un attimo di esitazione mi raccontò tutto quello che riusciva a ricordare. Fortunatamente il Santuario e Atena stessa potevano contare sull’aiuto delle Saintie, che erano guerriere esperte per quanto concerneva le battaglie sacre con la Divinità della Discordia, sorella gemella di quella della Guerra.
«Sono tanto forti?» Chiesi, preoccupata, smettendo di cucinare un momento per guardarlo.
Lui era appoggiato al piano cottura con aria preoccupata e pensierosa. «Non ti so dire, ogni Divinità con il suo esercito è forte, ma stabilire chi sia il più forte è difficile, a quell’età ti sembrano tutti forti, ma anche da adulto è arduo comprendere la forza del proprio avversario, alcuni possono sempre regalare delle sorprese».
Ripresi a mescolare la pasta. «Capisco».
Anche se i Saint sembravano prepararsi al peggio, continuai ad affidarmi ai giornali per avere notizie dal mondo esterno e per vedere le Creature. Era impossibile che i giornali da qualche parte non ne parlassero. Non avevo dimenticato quegli spettri neri e i Saint e gli Specter li temevano. E poi volevo capire che cosa fosse quel potere che avevo manifestato. Mi ero comportata come se avessi sempre saputo che fare, era stato molto strano. Dovevo saperne di più. 
E poi, in mancanza di altri mezzi su cui fare affidamento ero tornata ai vecchi manipolabili mass media.
Come ogni altro Paese del mondo, anche nei bar e nelle locande di Rodorio il giornale veniva consegnato e distribuito. Ogni mattina l’edicolante faceva il giro per ritirare le copie vecchie e consegnare quelle nuove che il corriere lasciava di fronte alla barriera. Ci pensavano i soldati semplici a ritirarli. Lo devo anche a lui se riuscii a imparare un po’più rapidamente, visto che fu da lui che comprai un bignami italiano greco. Castalia non fu l’unica che si offrì di aiutarmi, potevo contare anche sull’aiuto di Juan di Scutum e di Georg di Southern Crux, che trovavo spesso al bar la mattina.
Da quando avevo cominciato a prestare servizio li incontravo sempre nello stesso bar alla stessa ora, tutti i giorni, salvo festivi e giorno di chiusura. A volte li guardavo e loro guardavano me di rimando. Poi distoglievo lo sguardo. Soprattutto quando era Georg a guardarmi, aveva un volto talmente serio e impassibile da mettere in soggezione. Juan in confronto sembrava un ragazzino pestifero, ma era molto più accogliente e solare.
Un giorno mi ritrovai seduta accanto a loro al bancone e li sentii chiacchierare. Ripetevo tra me e me le parole che si dicevano per familiarizzare con la lingua quando: «Ma tu non sei la ragazza della Meridiana dello Zodiaco?» Aveva chiesto lo spagnolo e da lì avevamo cominciato a parlare. Quella mattina vollero sapere come me la passassi e si scusarono per non essere passati a trovarmi dicendo di avere delle missioni. Si erano anche chiesti dove fossi finita. Per il coraggio addirittura sostennero che ero pari a loro, che non si sarebbero mai aspettati che fossi una fantesca. La cosa che mi aveva sorpreso di più era che avevano cercato di mettermi a mio agio, per prima cosa. Le loro domande e i loro gesti non erano mai stati sconvenienti o volgari. Non erano esagerati, da dire: “Ci provo”, erano normali.
Da lì la nostra conoscenza si era trasformata in un’amicizia che cresceva giorno dopo giorno. All’inizio mi dava un po’ fastidio la nostra differenza di età, ma poi col tempo e a forza di parlare non l’avevo più sentita. Proprio come quando lavoravo ancora al Kazablanc.
S’istituì pure una specie di tacita tradizione. Ogni volta arrivavo al bar, ordinavo la colazione se non l’avevo già fatta. Se l’avevo già fatta mi sedevo al tavolo e basta. Poi mi leggevo le copie in italiano e in greco sul tavolo. Se avanzavano spiccioli a volte le compravo dall’edicolante in persona. Avevo scoperto che ogni Saint aveva l’abitudine di comprare due copie del giornale, uno nella loro lingua madre e una in greco, tranne i greci. Era una buffa abitudine dei Saint che aveva permesso loro di diventare poliglotti, visto che poi alcuni insegnavano la propria lingua agli altri. Ma ora come ora non m’importava apprendere altre lingue. Erano stati loro due a spiegarmelo, quando li avevo visti fare la mia stessa manovra ma con un quotidiano spagnolo e uno in una lingua nordica che non mi ricordavo mai quale fosse.
Ero lieta della loro compagnia, li ritenevo più affidabili di Death Mask. Almeno erano a posto con la testa e non mi tenevano d’occhio come falchi. A proposito, ma perché i Gold erano così fuori di testa? I Silver e i Bronze mi sembravano tutto sommato assai più equilibrati. Allora perché proprio l’èlite del Santuario sbarellava?
Tornando a noi, questa mattina in particolare, lessi che le stelle di un’altra galassia, stavano scomparendo. Leggendo appurai che mi ricordavo di questo sistema stellare: era stato scoperto appena l’estate scorsa. La Nasa stava progettando di inviare una sonda, mentre la osservavano con il telescopio spaziale Ubble. Non figurava ancora nelle mappe astrali, quindi non si sapeva niente di preciso.
Ci restai male per gli astrofisici.  
Ma non era l’unica cosa strana che stava succedendo: faceva caldo. Era come se la primavera fosse arrivata in anticipo. La Natura stessa sembrava essersene accorta. Soprattutto dentro al Santuario. Fosse esistita una Gazzetta di Rodorio probabilmente ne avrebbero anche parlato.
I miei due amici erano preoccupati da questa impennata fuori stagione. Lo sentivano che non era normale, ma non sapevano dire se fosse stata provocata da un Cosmo o no: «Avrà a che fare con quegli esseri?» Domandò Juan sporgendosi sopra la mia spalla per guardare meglio mentre sfogliavo il giornale per trovare la pagina della notizia.
Georg seduto all’altro lato del tavolino quadrato, si portò la tazzina di caffè alle labbra e, rispose: «Chi può dirlo?» Era un tipo laconico, molto serio e stakanovista, non l’avevo mai visto sorridere e quando parlava si poteva star certi che non sparava cavolate. 
Finii di leggere il trafiletto in prima pagina e lo andai a cercare all’interno del quotidiano. Quando trovai l’articolo che mi interessava sgranai gli occhi: era la spiegazione con tanto d’intervista dell’astronomo Arild Jesper av Stjernene del centro di ricerche di Bologna. C’era persino la sua foto.
Il cuore mi batté più forte tra le costole e sentii gli occhi inumidirsi. Non poteva essere, non potevo richiedere un regalo di Natale in ritardo più grande.
Sfiorai la foto con dita tremanti. Rivederlo mi riempì gli occhi lacrime di gioia.
Era invecchiato molto da quando ero scomparsa. La sua faccia traspariva tutto il suo dolore per avermi persa.
«Qualcosa non va, Astrid?» Domandò preoccupato il moro, notando i miei movimenti e il luccicone che, dopo avermi solcato la guancia era piovuto sul foglio di carta stampata.    
Anche Georg mi guardò con i suoi occhi seri. Poi si sporse per dare una rapida letta. Mi guardò e domandò con delicatezza: «É tuo parente?» Asserii ripetutamente con il capo mentre chiudevo gli occhi, facendo debordare altri lucciconi. «É… è mio nonno». Spiegai con voce sottile. Temevo che se avessi parlato più forte si sarebbe spezzata e sarei scoppiata in lacrime.
Sul finire dell’intervista il giornalista gli chiese come procedessero le indagini sulla mia scomparsa. Aggiunse anche che da quando la polizia aveva archiviato il caso come un mistero irrisolto, la mia famiglia aveva cominciato a muoversi in prima persona. Infatti il nonno rispose che per ora le loro indagini personali non stavano portato a niente. Ma qualcosa mi diceva che quelle della mamma e della nonna fossero riuscite laddove quelle del nonno e di papà stavano fallendo. Appunto, il giornalista infame, gli domandò anche di mia madre. Mia madre era diventata famosa per il matrimonio con mio padre. Matrimonio che suscitò non poche perplessità, qualche risata e scherno all’epoca. Prima di allora nessun astronomo aveva mai sposato un’astrologa. E, ogni volta che lo intervistavano, i giornalisti non facevano che porgergli anche questo tipo di domande. Ogni volta il nonno rispondeva che preferiva non esprimersi e anche qui mantenne lo stesso riserbo. Però si sbilanciò nel dire che sperava con tutto sé stesso che io fossi sana e salva. E, aggiunse che se avesse saputo dove mi trovassi, sarebbe venuto a prendermi di persona. A quel punto mi nascosi il viso tra le mani, presto bagnate dalle mie lacrime. La mia famiglia non aveva mai smesso di cercarmi.
«Tuo nonno deve volerti molto bene». Costatò in tono gentile, posandomi una mano sulla spalla, a mo’ di conforto. Credo che avesse capito che stavo piangendo per la gioia. Questo acuì in me la voglia di trovare un telefono e di avvertirli. Eppure, se anche l’avessi trovato, non avrei potuto uscire da qui, non finché la prossima battaglia non si sarebbe conclusa. Oh, se solo ci fosse stato un modo per mettermi in contatto con loro. Cosa non avrei dato per rivederli. Dovevo sbrigarmi a racimolare in fretta i soldi e poi me ne sarei andata. Non mi mancava molto. Al diavolo l’affitto del mio vecchio appartamento! Volevo solo tornare a casa mia.      
Appena finita quest’ennesima Guerra Sacra mi sarei recata ad Atene, mi sarei rifatta i documenti, avrei comprato un telefono nuovo, sarei tornata a casa mia e vaffanculo Grande Tempio. Per Castalia, Yoshino, Juan e Georg non c’era problema, mi sarei tenuta in contatto con loro tramite i social. Anche se odiavo ammetterlo, ad alcuni mi ero veramente affezionata e mi sarebbe davvero piaciuto continuare a sentirli. Anche se sarei morta per l’ansia tutte le volte e la mia mente non avrebbe fatto altro che pungolarmi con le parole: Sindrome di Stoccolma. E, ogni volta che ci pensavo, mi veniva da sbattere la testa contro un muro. “Non ho la Sindrome di Stoccolma! Nessuno ha flirtato con me, nessuno mi ha violentato e, io non mi sono immedesimata in nessuno di loro e non ho fatto mia nessuna delle loro cause!” Mi sgridavo mentalmente dandomi dei pugnetti sulla fronte tutte le volte. Questa era la mia decisione e non avrei cambiato idea.
Presi una manciata di tovaglioli di carta e mi asciugai le lacrime e mi soffiai il naso.
«Ti presto il cellulare, così li avverti». Si offrì Juan passandomi il suo telefono. Io lo guardai sbalordita poi lo presi e, composi il numero di mamma, che era quello che ricordavo meglio. Però appena l’ebbi composto non seppi che cosa scriverle. C’erano talmente tante parole, tante cose da dire che finii per bloccarmi.
Ma se poi non mi avessero creduto? Se avessero pensato che fossi solo un’approfittatrice? Improvvisamente ebbi paura e misi giù il telefono. «Perché ti sei fermata?» Mi chiese di nuovo Juan. Non seppi neanche cosa dirgli.
«Se è per i soldi non preoccuparti, ho fatto una ricarica consistente. Se vuoi scrivo io per te». Si offrì di fronte al mio silenzio e la mia indecisione. Annuii quasi in automatico però gli afferrai il polso e lui si bloccò. Mi guardò interrogativo e io sostenni il suo sguardo alla ricerca di qualcosa da dire ma mi uscì solo un: «Va bene, dille che tornerò presto». Il Silver Saint digitò il messaggio e lo inviò. Tempo pochi secondi che mia madre stava già chiamando e io mi ritrovai a parlare con lei. Dopo aver avuto la prova che ero veramente io, le raccontai tutto.
Contrariamente a quello che avevo temuto mi credette immediatamente. Mi riempì di dichiarazioni di affetto e io mi sentii come se mi stesse abbracciando e baciando di persona. Anch’io ricambiai facendo quasi imbarazzare i due miei amici. Non ci fu neanche bisogno di farle domande perché mi raccontò che erano tutti in pena per me, che papà non aveva mai smesso di cercarmi e che le stava vicino. E, mi parve di intuire che si stessero riavvicinando. Mi disse anche che il nonno gli aveva impedito di fare causa allo Stato, quando aveva saputo dal detective privato, di Death Mask e Aphrodite. Poi mi raccontò che la nonna aveva scoperto la presenza delle Creature e, di riflesso anche quella dei Cavalieri d’Oro e degli Specter e, ne aveva parlato con il nonno. Che le aveva creduto subito.
Anche mamma e papà si erano ricordati di aver sentito parlare dei Cavalieri del Santuario.
Mamma aveva parlato, non convinta con la mia vecchia tata, che era anche la sua migliore amica. Quest’ultima aveva confermato la loro esistenza e l’aveva aiutata a scoprirne la storia grazie ai giornali. «Persino la tata?» Feci eco sbalordita. Non la vedevo da dieci anni. 
Disse pure che sarebbe venuta di persona a prendermi ma io la fermai dicendole che sarei tornata da me il venti gennaio. A quel punto mi domandò, colta da un sospetto, se mi fossi allontanata davvero di mia volontà dalla clinica, come dicevano i poliziotti che se ne occuparono. Io negai però mi sentii in dovere di dirle che, se quelle persone non mi avessero portata via, a quest’ora sarei morta davvero. «Che significa? Mi stai mettendo paura». Si spaventò mia madre.
«Quella notte i miei aggressori, hanno pensato di completare…» balbettai rabbrividendo al ricordo. Se c’era una cosa che avevo capito era che dovevo dire subito la verità. «Però i miei salvatori mi hanno portato in un posto dove ho ricevuto tutte le cure per riprendermi e mi hanno protetto finora. Adesso stanno cercando di aiutarmi a tornare a casa ma non è facile». A salvatori il viso mi si contrasse in una smorfia di disappunto. Nel mio caso lo erano, ma era il metodo a lasciare molto a desiderare. 
«Perché non è facile?»
Esitai un attimo prima di rispondere: «Ci sono dei problemi in Grecia».
«Problemi? Che genere di problemi?»
«Ci sono stati dei tumulti e delle proteste che sono sfociati in vere e proprie repressioni». Mi inventai. Ma lei non ci cascò: «Mi stai facendo il riassunto di V per Vendetta
«A dir la verità attualmente mi sembra più di essere L’ultimo samurai», scherzai con una risatina nervosa e tirai su con il naso. 
«Quindi le carte avevano detto il vero?» Chiese incerta. Anche mamma sapeva usare il Potere dei Tarocchi, solo che lei doveva agire subito dopo aver ricevuto il responso, come una persona normale. Le bastava un piccolo gesto legato alla profezia ricevuta e lei avrebbe alterato il corso della sua esistenza, a patto, però che non ci pensasse più dopo. Ma, avevano un raggio d’azione assai più limitato delle mie. Per me invece, non era necessario, mi bastava desiderarlo con tutta me stessa. E poi non sempre la mamma riusciva a capire o a interpretarle bene. «Mamma, sapevi che ti avrei mandato un messaggio?» Chiesi stupita e sia Georg che Juan inarcarono le sopracciglia, sorpresi. Avevo dimenticato che a mia mamma non sfuggiva mai nulla.
«Sì! Dove sei, Astrid? Il telefono mi dice che ti trovi in Grecia e anche le carte e il tema natale confermano! In che città sei? Non riesco a capirlo e di chi è questo numero?»
«É una lunga storia».
«In questi mesi non ho fatto che consultare le carte per te, dicono che hai combattuto, che significa? Sei stata rapita da dei terroristi? Ti hanno costretto a diventare un’assassina? Sei dentro un traffico malavitoso? Che cosa sta succedendo? Dimmelo amore mio, ti prego, dimmelo!» Mamma non credeva molto alle carte della nonna.
Guardai i due Silver Saint vicino a me e loro mi esortarono a continuare.
Presi un respiro profondo e dissi: «Mi trovo al Grande Tempio di Atena, per la precisione dentro un bar di Rodorio, il paesino ai piedi delle Tredici Case e, questo numero è di un Silver Saint». Guardai il proprietario del telefono che mi fece cenno di continuare. «Juan di Scutum, ed è proprio qui con me, assieme a Georg di Southern Crux, altro Silver Saint, scusa se non ho potuto chiamarti prima ma ci è voluto un po’per completare tutte le cure». 
Per tutta risposta ricevetti solo il silenzio dall’altra parte. Al punto che pensai che fosse caduta la linea. «Mamma?»
«Quindi è vero? É tutto vero?» Chiese infine spaventata. «Anche le Guerre Sacre?» Serrai la bocca. Se le avessi detto la verità si sarebbe spaventata ancor di più, ma se le avessi mentito sarebbe stato assai peggio, ma non c’erano altre scuse a giustificare la mia mancanza di contatti. Aphrodite me l’aveva detto tante volte che se avessi voluto mi avrebbe prestato il telefono per chiamare casa, nei mesi precedenti. Adesso mi sentivo una cretina per non averlo fatto. «Sì, mamma, è tutto vero». Dissi alla fine. Avevo davvero temuto che fosse caduta la linea. Solo dopo realizzai che aveva detto: «Guerre? Da quando sono qui ne hanno combattuta una sola». Dissi poi, confusa e intimorita.  
«Ce ne è un’altra».  M’informò con il tono di voce semi mistico di quando faceva il tema natale ai suoi clienti.
«Un’altra?» Il mio cuore perse un battito e mi sentii ghiacciare il sangue nelle vene. Era questo che si stava avvicinando? I due Saint si avvicinarono per sentire meglio e io misi il vivavoce. «Le carte dicono di sì, ti prego, stai attenta». 
«Quando?»
«Non lo so, non sono chiare, anche il contenuto del messaggio è molto confuso. Ti prego, stai molto attenta e torna presto, torna presto, piccola mia!» Mi implorò con urgenza e paura nella voce. «Io non posso aiutarti, sei troppo lontana, ti prego, stai attenta».
«Lo farò, ci vediamo presto mamma».
«Ti voglio bene, piccola mia, non vedo l’ora di riabbracciarti».
«Anch’io ti voglio bene, mamma, ci vediamo presto». Promisi. «Ti voglio bene e tornerò tra due settimane». Annunciai.
La sentii trattenere il fiato rumorosamente per la felicità e la sorpresa ma la interruppi prima che potesse dire qualcosa. «Ho già prenotato il biglietto aereo e il volo, tornerò in Italia con il primo volo per Firenze». Avevo potuto fare tutto ciò a dicembre grazie ad Aphrodite che mi scortò ad Atene a svolgere tutte le pratiche necessarie. I Gold non avevano bisogno di permessi per lasciare il Santuario e, i loro accompagnatori neppure.
Un paio di problemi erano sorti al municipio quando avevo dovuto rifarmi i documenti d'identità e saltò fuori che ero straniera e senza permesso di soggiorno. Ma il mio amico si era inventato che ero qui in vacanza e che mi avevano rapinato, per questo non fu necessario. 
Io e mamma restammo a parlare un altro po' e ad aggiornarci. Volle addirittura parlare con Juan e Georg che confermarono ogni parola. Soltanto quando si ritenne soddisfatta attaccò. 
I due Saint chiesero spiegazioni a proposito della nuova Guerra Sacra. Anche loro sapevano che sarebbe giunta a breve, a Rodorio lo sapevano tutti. Quello che li sconcertava era che un’estranea potesse accedere a queste informazioni. Mi toccò spiegargli della mia famiglia e che buona parte delle conversazioni che avevo con mia madre erano tutte così. Anzi, di solito era anche peggio di così. Questa era stata persino più normale del solito, per i nostri standard.
Poi mi commossi un’altra volta e scoppiai di nuovo in lacrime.  
Quando mi fui calmata, cioè verso le undici e mezza, mi sciacquai la faccia e mi recai alla Dodicesima, che Aphrodite aveva richiesto espressamente i miei servigi. Come se non avessi imparato a conoscerlo in queste settimane di servizio. Mannaggia a me che per educazione gli davo corda. In quanto mio protettore voleva sapere come stessi e quindi, quando andavo a trovarlo perché mi chiamava, perdevo metà della giornata come minimo, tra lavoro e chiacchiere unilaterali. Da parte sua, io quasi non avevo diritto di parola. Mi ci volle un po’per andare oltre il suo modo di fare attraente e carismatico da sirena ammaliatrice.
In quelle settimane che mi mandò a chiamare (che distribuì anche questi incontri nel corso del tempo, il bastardo), imparai ad accompagnare uno scongiuro tipo: “Miei Dèi, aiutatemi voi” al mio ingresso nel suo Tempio. Ma mi sa che anche gli Dèi erano in vacanza perché nessuno di loro mi ascoltò.
Anche la sua Casa rispecchiava la sua personalità, sembrava che ci avesse messo mano un architetto barocco e avesse cercato di riproporre Versailles.
Molte volte le nostre conversazioni si riducevano a un soliloquio. Se provavo a dire la mia era come se dovessi chiedere udienza al Papa: o venivo guardata con sufficienza o venivo ignorata o corretta. Lo stratega del Grande Tempio, signori. Era un miracolo che se la fossero cavata bene in queste battaglie. Non faticavo a capire Death Mask ad avere a che fare con uno così. Adesso mi veniva voglia di dargli una pacca sulla spalla per solidarietà. Mi era venuta voglia molte volte di fare un salto alla Quarta e implorarlo di prestarmi corda e bavaglio oppure di prenderlo a bastonate con tutte le mie forze. Mi ero trattenuta perché anche Aphrodite era un mio datore di lavoro.  
Per questo dopo queste “sedute” mi sfogavo con Death Mask alla Quarta. La prima volta che mi vide arrivare così spaventata e allucinata pensò che mi avessero fatto qualcosa. Soprattutto quando mi gettai in terra e baciai il pavimento, ringraziando di essere ancora viva. Quando cominciai a elogiare la sua parlata genuina da scaricatore di porto, inframmentizzata da intercalari italiane e minacce di morte, mi sentii subito meglio. «Oh, sì, per favore, continua».
Il poveraccio mi aveva guardato sconcertato prima di infuriarsi. «Ma io ti scateno contro i morti se non ti togli dalle palle!»
«Tutto, fa quello che ti pare, ma salvami da quel mostro imbellettato egomaniaco alla Dodicesima!» Lo implorai aggrappandomi alle sue gambe per la disperazione. Lui mi scostò con poca delicatezza e scoppiò in uno dei suoi soliti sghignazzi da iena. Quando mi guardò sogghignò divertito: «E così il pesciolino ha rivelato i suoi denti da piranha e non sei caduta nella sua rete, eh? Va bene, resta qui con me quanto vuoi, ti coprirò io con gli altri; dirò che hai avuto una delle tue crisi e non avranno problemi a credermi, ma in cambio cucini tu». Credo, ma non sono sicura, di aver guadagnato punti ai suoi occhi. E non di sutura, fortunatamente per me. Poi si cacciò le mani in tasca e si allontanò, scomparendo nei meandri della Quarta, ghignando.
«Va benissimo!» Esclamai.
Altre volte non mi nascondeva il suo senso di superiorità e le sue critiche, mancava poco mi correggesse persino sull’italiano. Sul mio abbigliamento e il mio modo di pulire le aveva già mosse. Se qualcosa non gli andava bene (di solito tutto) scaricava spesso e volentieri la colpa su di me. In particolare quando ruppi per sbaglio uno specchio e lui fece una scenata come se gli avessi ammazzato l’amore della sua vita. Infatti il giorno dopo era depresso e a pezzi. Gli altri servitori che facevano a gara per consolarlo e, finalmente ebbi l’idea di cosa parlasse Death Mask. Alla faccia dei lecchini, mi guardavano male e mi tenevano il broncio come il Gold Saint che servivano.  
All’inizio ci ero anche rimasta male, ma poi avevo capito che, in quanto narcisista, lo faceva per gratificare il suo ego. E lo sapevo, perché ero una delle persona abbastanza belle e nuove del Grande Tempio. In pratica: orecchie fresche che non avevano mai udito le sue gesta! Certe volte uscivo talmente intontita da aver bisogno dell’aspirina. Già potevo leggere tra i sottintesi che sentiva di perdere una nuova estensione di sé stesso. Perché era così che mi vedeva, quella specie di piovra scema.
Appena varcai la soglia lo chiamai e lui uscì da una porta laterale il corridoio di passaggio: «Astrid! Era ora che arrivassi, stavo cominciando a preoccuparmi... Che ti è successo?» Domandò accigliandosi quando mi venne vicino e vide i miei occhi rossi. Pronto a sparare una delle sue critiche sul mio aspetto.
«Nulla ho solo, rivisto mio nonno, sul giornale». Feci cancellando un’ultima lacrima con un fazzoletto di carta prestatomi da Juan. Ogni volta che ci pensavo e lo dicevo mi scoprivo ad avere ancora tante lacrime da versare. Peccato che il suo interesse fosse meno genuino di un fiore artificiale e più effimero della brina al sole. Lo diceva solo per gratificare il suo ego del cavolo, lo diceva. E poi si sorprendeva se ero acida. Come se Mister Perfezione non c’entrasse nulla.
«Ma è fantastico!» Esclamò sorridendo smagliante come un divo da copertina. Ma era un sorriso da “lodami, avanti, lodami, che aspetti? Su, lodami”. Invece di criticarmi in qualche modo come al solito. gli occhi azzurri brillanti di felicità e in tinta con le meches dalle punte verdi chiare. Io lo guardai spiazzata mentre continuava: «Quindi è per questo che hai fatto tardi? Allora le tue erano lacrime di gioia! Meglio, meglio, non è bello piangere, se proprio si deve allora è meglio che siano lacrime di gioia quelle da versare». Dichiarò prendendomi le mani tra le sue in perfetto stile Chrysafi. Gli occhi cerulei forse più accesi e brillanti di curiosità. «E, dimmi, dimmi tutto, come è stato?»
Gli raccontai quello che voleva sapere, mezzo a disagio e mezzo rassicurata. Una volta soddisfatta la sua curiosità disse tutto felice: «Sono sicuro che quando tornerai a casa saranno felicissimi di rivederti e, a proposito, ancora mi dispiace per tutto quello che hai passato a causa nostra, non deve essere stato bello e per niente facile, per te, qui». Aggiunse, più serio.
Mi aveva lasciato le mani da quando avevo cominciato il racconto. Però avevo ancora la sensazione che me le stesse tenendo e che quelle ultime parole gli fossero uscite con un certo sforzo. Tuttavia,  sulle mie labbra affiorò un sorriso e annuii. Solo dopo mi ricordai che stavo parlando con lui e il mio sorriso si afflosciò come se avessi fatto una gaffe.
«Allora, che cosa posso fare per te oggi?» Domandai poi cercando di distogliere la sua attenzione. Meglio le critiche e la seduta depurativa da Death Mask dopo che un minuto di più a indugiare con lui sulle mie emozioni. Chissà cosa si sarebbe inventato questa Piovra se fossi rimasta troppo tempo deconcentrata. Mi affrettai a fargli subito un complimento sui capelli e lui «Oh grazie tesoro, oggi sono più belli del solito, non trovi anche tu? Ah, già sì giusto il lavoro, ti ho chiamato perché ho tanto bisogno di una mano».
Mi guidò in cucina (nelle cucine, come amava dire lui). Avrei dovuto lucidare l’argenteria intanto che si sarebbe occupato delle sue preziose rose. Una volta istruitami mi lasciò sola e io mi misi al lavoro. Preparandomi spiritualmente per la prossima udienza non richiesta. Dove la trovavano la forza di andare avanti a leccargli il posteriore lo sapevano solo loro.   
«Quando hai finito ti preparo un bel tè e ce lo beviamo nel mio giardino!» Mi promise tutto contento mentre spariva nella serra che s’intravedeva da una delle porte della cucina. Si fidava ciecamente a lasciarmi sola con i suoi averi o dovevo aspettarmi un controllore da qualche parte? Poi bello, davvero generoso da parte sua. Sapevo già che il tè gliel’avrei dovuto preparare io, narcisista di ‘sto…
Mi guardai attorno e trovai un vaso con delle splendide rose rosse recise. Sì, decisamente, mi aveva messo un controllore. Ironicamente mi domandai se parlando con le rose avessi parlato direttamente con lui come al telefono. Dopotutto stavo cominciando ad abituarmi alle assurdità. E, non mi sorprendeva di trovarle lì, era pur sempre argento quello che stavo lucidando.
Sorrisi lo stesso, benevola: «D’accordo».
Dopo qualche secondo la sua voce mi arrivò attutita per via della lontananza. A forza di non lavorare più in discoteca e non avendo più il mio lettore mp3, anche il mio udito era tornato a livelli parzialmente normali. «Spero che ti piaccia il tè alle rose, mia dolce amica!» Ah, ecco perché mi aveva chiamata.
Stavo ancora lucidando le posate quando sentii dei passi, proteste e la voce di Aiolia: «Camminate, forza!»
Che stava succedendo? Uscii dalla cucina e mi ritrovai di fronte ad Aiolia, che spingeva due malconci Black Saint verso la scalinata che dava sulla Tredicesima. Aphrodite comparve qualche porta più in là, a sinistra. «Aiolia! Che cos’è questo trambusto?» Domandò.
«Questi due hanno violato il patto, li sto scortando dal Gran Sacerdote». Patto?
«Perché? Che hanno fatto?»
«Hanno cercato di uccidere un allievo della Palaestra». Rispose e li spinse di nuovo. I due quasi inciamparono, protestando leggermente e sibilando per il dolore. «Noi non abbiamo fatto niente, sono stati loro…»
«Tacete e camminate!» 
Trattenni il fiato rumorosamente e mi portai la mano libera alla bocca. Il Cavaliere di Leo mi guardò sprezzante con i suoi freddi occhi verdi. Sembrava quasi ammonirmi di non rubare niente dalla Casa di Aphrodite. Incrociai lo sguardo di quest’ultimo e lo vidi farmi cenno con la testa di rientrare.
Obbedii all’istante.

«É normale questo caldo?» Domandai ad Aphrodite qualche ora dopo, osservando i vetri sopra di noi. Era da poco passata l’ora di pranzo (già che c’eravamo, lui mi invitò anche a mangiare un boccone. Ovviamente preparato da me. poi ci eravamo spostati in “giardino” mentre altri servi lavavano i piatti. Almeno questo me l’aveva concesso, ma lo sapevo che stavano sparlando alle mie spalle: «Eh, ora tocca a lei, ma solo perché è nuova», «Non è poi questo granché», «Aspettate che se ne renda conto e vedrete come la tratterà». Ai quali una volta risposi cortesemente di andare in culo tra le righe).
Eravamo seduti sulle eleganti sedie da esterno che davano sulla sua grande serra-giardino dove stavamo sorseggiando il tè. Le rose multicolori facevano da cornice perfetta al nostro ritrovo. Il profumo delle rose era inebriante e intenso, saturava l’aria quasi fino a farla marcire e imputridire. Non avrei mai pensato di dirlo di questi fiori, che prima mi piacevano molto. Nella mia mente cercavo di separarli più che potevo da Aphrodite. Lui non era i suoi fiori e quei fiori non erano lui.  Alcuni boccioli erano tanto grandi da sembrare cavoli e se ne annusavo uno sembrava di annusare la gamba di una ballerina di teatro. Sì, come nel Gattopardo. Ed era stato questo più di ogni altra cosa a sconcertarmi. Era tutto troppo.
Però Aphrodite tendeva a prendere quelli che non erano più grandi della sua mano. Le altre neanche le considerava. Anzi, se poteva le regalava, piuttosto che buttarle.
La luce filtrava attraverso le fronde delle rose rampicanti dando l’impressione di trovarci in una foresta incantata. Mi sembrava di essere finita in una favola o in un sogno. Se non fosse stato per l’innaturale calma, il silenzio, il profumo e se non avessi visto le impalcature di ferro e vetro, avrei giurato di trovarmi davvero all’aria aperta.
Gli unici momenti in cui l’udienza era concessa più di altri era quando Aphrodite mangiava. Come questi.
Avevo rotto il silenzio dopo qualche minuto per chiedere spiegazioni sulla scena a cui avevo assistito. «So che non è compito mio, ma tu sei tanto buono e bello…» A questa lode aveva tentennato un po’ ma decise di non rispondermi. Ma parecchio. Narcisista sì, ma scemo no: certi segreti li sapeva mantenere. Eccome se li sapeva mantenere. Dipendeva da ciò che gli si dava in cambio. E conoscendolo, non osavo immaginare che cosa gli desse in cambio il Grande Sacerdote. Scommisi anche che la vacanza che li portò a incrociare la mia strada gliel’avesse strappata Aphrodite stesso per chissà quale favore.
Bevve un sorso di tè prima di rispondere alla domanda più innocua: quella iniziale. «La mia serra è sempre un po’calda, ma devo convenire con te; il caldo di questo mese è innaturale, persino per gli standard del riscaldamento globale». I Saint, come detto, non erano stupidi, anche loro si tenevano aggiornati persino sulle condizioni climatiche.
Mi girai sulla sedia verso di lui, il braccio appoggiato sulla cima dello schienale, le gambe piegate di lato: «Ha forse a che vedere con Eris?» Domandai timorosa. Non ne ero certa, anzi, mi sembrava assurdo, però dovevo verificare.
Lui si irrigidì e mi guardò sospettoso. I suoi occhi cerulei mi trapassarono e per poco non arretrai. Gli occhi azzurri avevano questo potere intimidatorio e lui li sapeva sfruttare molto bene: «Tu come lo hai saputo?»
Alzai le spalle e risposi, sempre con lo stesso tono: «I miei colleghi parlano, io ascolto. É vero quello che dicono? Che c’è una nuova Guerra Sacra alle porte?»
Lo svedese mi squadrò a lungo prima di rilassarsi e ribattere, con un sospiro e posare la tazzina sul tavolino basso davanti a noi: «Non è niente di certo. Per quel che ne sappiamo potrebbe essere chiunque, ma questo resti tra noi».
Annuii. «Non so riconoscere l’influsso di una Divinità, altrimenti vi darei una mano». Mi scusai ripensando ai poteri che avevo dimostrato di possedere. Anche se lì per lì Aphrodite non comprese immediatamente: «Come ci daresti una mano? Tu non... Ah, già giusto». E, si zittì.
Poi mi gettò un’occhiataccia. Non aveva dimenticato che la sua vita la doveva a me. Credo anche che non sopportasse che le mie gesta nel loro piccolo si avvicinassero di molto alle sue.
Non li avevo più usati dall’attacco di Artemide dal Santuario, che anche lui se ne era scordato. Li usavo talmente poco spesso che era facile scordarsi di averli, per loro. «Quando sarà il prossimo attacco?» Domandai ancora, intimorita con voce sottile.
«Hai paura?»
Feci un sorriso mesto e risposi, con lo stesso tono: «Non dovrei?»
Lui mi gettò uno sguardo di pietà e allungò la mano per carezzarmi dolcemente la testa, guardandomi dritto negli occhi finché non mi dimenticai ciò che mi stava intorno. Quando faceva così sapeva essere ipnotico. Poi disse, in tono caldo e rassicurante, quasi melenso: «Non averne mai, finché sarai al Santuario sarai sempre al sicuro, fidati di noi. Non lascerò che qualcuno ti faccia del male, resta sempre al mio fianco e vedrai che andrà tutto bene, io ti proteggerò sempre».
Sorrisi, sentendomi scaldare il cuore dalle sue parole. Anche se erano finte per metà: non avrebbe mai permesso che la mia bellezza sfigurasse. Ecco cosa gli importava davvero di me.
Ma per un momento, soltanto per un bel momento, mi crogiolai di questo calore e nell’illusione della sua sincerità.

Erano passati nove giorni e non era ancora successo niente di rilevante, a parte che il povero Juan ormai mi faceva da centralinista per le chiamate di mia madre, dei miei nonni e, quelle di mio padre. Fortuna che mamma non aveva allertato i giornalisti o la polizia. Chissà perché.
Invece, aveva dato il numero di Juan a mio padre, facendosi promettere che non avrebbe spiattellato niente ai giornalisti. Quando sentì la mia voce ed ebbe l’effettiva conferma che fossi io, non riuscì più a trattenersi e mi inondò di parole d’affetto e di gioia anche lui. Quando riuscii a raccontargli tutto quello che era successo fino a questo momento, se ne uscì dicendo: «Dopo questa col cavolo che vado a dire qualcosa ai giornalisti, mi prenderebbero per mentecatto». Il suo accento era di poco più marcato del mio e ora che lo risentivo, mi accorgevo sempre più di quanto mi fosse mancato.
Mi raccontò che aveva parlato con la tata e che anche lei mi aveva mandato una serie d’e-mail per rintracciarmi. Per fortuna potei accedere al mio account sui social per leggerla e anche lì piansi altre lacrime di gioia. Ormai Juan si stava abituando a passarmi i pacchetti di fazzoletti, poveretto. Io al suo posto mi sarei già rotta da un po’.    
L’unica cosa degna di nota era che il clima si era stabilizzato sui diciotto gradi, una temperatura decisamente marzolina. E, io che mi sarei apprestata a lasciare finalmente il Grande Tempio. Sapendolo, Aphrodite mi aveva regalato un telefono di ultima generazione che era andato a comprare ad Atene dal momento che ero impossibilitata ad andarci. Con gran sollievo di Juan. «Consideralo un regalo di compleanno in ritardo». Disse il Cavaliere dei Pesci stringendosi nelle spalle quando feci per dirgli che gli avrei restituito i soldi. «Dopotutto mi hai detto di essere nata il trenta novembre, no?»
Gli avevo sorriso, commossa. 
Solo dopo mi ricordai che stavo parlando di Aphrodite e che quel cellulare nuovo di zecca e che per il suo avrebbe preteso come minimo la notte degli Oscar. Mannaggia.
Altro che notte degli oscar, notte in gattabuia, lo avrei denunciato come minimo, se mi fosse tornato a cercare. Lui e Death Mask. Una volta fuori in culo Grande Tempio e Gold Saint del cavolo!  
Il mio permesso, che mi era stato rilasciato dopo grande fatica, molte latrine pulite e un aiutino in extremis da parte di Galan (che si era ripreso dall’ultimo raffreddore) e, aveva messo una buona parola per me con il Grande Tempio, valeva solo per il venti gennaio. Cioè l’indomani.
Anche i miei amici del lavoro erano dispiaciuti nel sapere che me ne sarei andata. Però capivano.  Dalla scenetta di Carolina e Neera avevamo legato moltissimo.
Yoshino era già caduta in depressione, anche se stavo solo preparando le valigie e ora mi chiamava a studiare per ogni singola materia. Invece, i guerrieri erano un po’più realistici e meno emotivi. Infatti, anche se si comportavano più o meno normalmente a causa dell’ansia da attacco imminente (e ne soffrivano tutti, chi più chi meno e lo nascondevano benissimo), sapevano che ero ancora qui. Ogni volta notavo dagli sguardi dei miei amici, che mi guardavano come se cercassero di imprimersi nella memoria ogni mio singolo dettaglio o parola. Che parlassimo di filosofia con Mur e Kiki (anche se con quest’ultimo era più facile parlare d’altro) o scherzassi con Death. Persino Aiolia sembrava quasi dispiaciuto. Quasi. Sua sorella lo era già di più.
Eppure quel giorno i pensieri mi corsero a quel povero Cristo del Gran Sacerdote. Ero sicura che avesse appena ricevuto il rapporto settimanale da Death Mask su di me. Forse stavo diventando paranoica o forse Aphrodite mi contagiava, ma ormai avevo capito che se un Saint veniva convocato ufficialmente alla Tredicesima, allora doveva presentarsi con indosso il Cloth.
Almeno una volta a settimana i miei due conoscenti lo indossavano e si recavano alla Casa di Atena. Se mi incontravano, o cercavano di mentire o evitavano il mio sguardo, imbarazzati, neanche fossi chissà chi. Se era il Custode della Quarta se la risolveva con un finissimo: «Non rompere le scatole e fammi passare».
Quindi, mettendo insieme le due cose, il Gran Sacerdote si teneva informato e sapeva che mi stavo riavvicinando ai Cavalieri. Solo mi veniva da domandarmi che faccia avesse fatto se avesse saputo che doveva ringraziare quella piaga di nome Neera e una certa Carolina Lunotti. E, che cosa dovesse pensare per le facce che sicuramente faceva Death Mask al solo pronunciare questi due nomi. Sicuramente il poveraccio non capiva che cosa ci trovasse di così divertente da ridere. E, neanche che dovesse avere Death Mask da sghignazzare se mai avesse chiesto spiegazioni.
Questo lo dico basandomi su quello che conoscevo di lui. 
Ultimamente il Papa aveva mandato in missione alcuni Silver per occuparsi di un problema in Giappone su precisa richiesta dell’Imperatore. Mi domandai se c’entrasse con lo stato d’allerta in cui vertevamo da quasi un mese. Ormai non credevo più che ci fosse una minaccia all’orizzonte. Voglio dire, se ci fosse stata veramente che aspettavano ad attaccare? 
Poi, quello spione di Makis (che aveva come hobby quello di leggere la posta altrui, compresa quella del Gran Sacerdote) aveva sparso la voce di un importante dispaccio dal regno sottomarino. Lo stesso che, a quanto mi raccontò, il Gran Sacerdote attendeva con ansia. Stava, infatti, tentando di stipulare un’alleanza anche con l’esercito di Poseidone. E, quella era la risposta.
Stando a Makis che aveva letto la lettera, i Generali degli Abissi Marini sarebbero giunti in primavera per firmare il patto. Si levò un coro da stadio e una serie di applausi e festeggiamenti che mi lasciarono frastornata.
Mentre i miei colleghi inservienti applaudivano ed esultavano, io, una volta riavutomi dallo stupore, pensai: “Ah, quindi dopo il Tempio sulla Luna anche Atlantide sotto le acque dell’Oceano? E, i prossimi chi sono, gli alieni?” Chiusi gli occhi e sospirai, portandomi una mano alla fronte. «Dovrò andare in terapia. Me lo sento, di questo passo dovrò andare in terapia». Borbottai tra me e me con un principio di emicrania, scuotendo il capo per via di tutte queste assurdità. E dubitavo che una capatina alla Quarta mi avrebbe aiutato.        

La giornata proseguì senza intoppi e le ore di luce scivolavano ogni giorno più lentamente in quelle più buie. La severità dell’inverno stava trasformandosi lentamente nel dolce sorriso della primavera. 
Kiki mi aveva invitato a pranzare con lui alla Casa del Montone Bianco (“Non ci credo ancora che il suo nome sia questo”, pensai) e a fermarmi un po’, tanto era il mio giorno libero. Di solito uscivo con Yoshino, ma quel giorno era in biblioteca ad Atene a studiare. Lei frequentava uno dei licei artistici della capitale. I genitori l’avevano iscritta appena cominciato l’anno nuovo e la mia amica aveva superato brillantemente gli esami d’ammissione. 
Stavamo giocando a carte quando Kiki fu richiamato all’ingresso da una voce femminile con un vago accento dell’Est. «Aspettami qui». Aveva detto, alzandosi.
Tornò dopo pochi secondi, si risedette e riprese in mano il mazzo che avevo sbirciato, mentre il rumore di tacchi si allontanava.
«Chi era?» Domandai incuriosita mentre pescavo un’altra carta.
«Katya di Corona Borealis, una delle Saintia di Athena». Mi rispose distrattamente.
«Saintia?» Domandai confusa. Non mi ricordavo se avevo visto qualcosa in merito tra i ricordi di Death.
«Un sottogruppo dell’esercito di Atena composto da sole donne che non devono rinunciare alla loro femminilità per servire la Dea. Per molto tempo si è pensato che fossero solo una leggenda, tanto poco le si vedeva». Spiegò.
«Quando dici rinunciare alla propria femminilità che intendi?»
«Indossare la maschera e vestirsi per fare aerobica come le Saint». Tradusse. Inarcai un sopracciglio, ricordandomi dell’Armatura e l’abbigliamento in generale delle Sacerdotesse-Guerrieri che avevo intravisto durante la fisioterapia. «Avete una strana concezione di rinuncia della femminilità, voi». Per non parlare del maschilismo imperante in questo posto. Ma questo lo tenni per me. 
Kiki scoppiò in una risata amara. «Già». Dopo di ciò riprendemmo a giocare. Vinsi soltanto una partita (quella dove gli sbirciai le carte), tutte le altre le vinse lui. «Ma come fai a vincere sempre?» Mi lamentai a un tratto. 
«Mi sono allenato con Death Mask». Chiarì con un vago sorriso.
«Prego?»
«Lui gioca d’azzardo, se non fosse diventato Cavaliere d’Atena probabilmente avrebbe fatto il giocatore di poker professionista. Ogni volta che giochi con lui puoi stare certo che ne uscirai senza più il becco di un quattrino. Quando sfiora le carte sembra che si sottomettano a lui quasi come delle amanti, per assecondarlo in tutto. Sai, penso che sarebbe interessante vedervi giocare, voi due». Ah, ecco come faceva ed essere così bravo. Anche se in questo gioco bisognava avere la fortuna dalla propria parte o essere dei bari sopraffini e, Kiki non stava barando. Neanche era così bravo a mescolare come me, che manipolavo le carte, come mi dissero una volta. «Anche a Death piacerebbe vedere come te la cavi con le carte». M’informò in tono distratto.
«Te l’ha detto lui?» Chiesi titubante. Non si sapeva mai dove cominciava e dove finiva il loro concetto di comunicazione. Sebbene non fossero un gruppo particolarmente intelligente o unito come volessero far credere. «Sì. Se t’interessa, adesso è alla Quarta Casa che sta spennando Shaina e Lancelot».
«Magari un’altra volta». Declinai stirando le labbra in un sorriso tirato. Col cavolo che mi sarei lasciata spennare da Death. Se proprio avessi dovuto giocarci, avrei usato qualsiasi altra cosa, ma sicuramente non il denaro. Mi sarei anche abbassata a mettere in palio la mia cucina o il mio appuntamento semi giornaliero con Aphrodite, piuttosto che il mio denaro. Mica ero così scema da rischiare! Se poi avesse perso lui, bè, avrebbe cucinato lui per me per una settimana. Dubitavo, infatti, che gli sarebbe piaciuto cucinare per tutti i Gold, o magari ci stavo andando troppo leggera? Nah, Aphrodite era una tortura sufficiente.
«Perché?» Mi lamentai, sbuffando. Avevo perso l’ennesima mano quando arrivò Lythos. Salutò il padrone di Casa e chiedere di me quando mi vide. «Oh, eccoti qui, Astrid, ti ho cercata dappertutto».
«Lythos!» Esclamai sorpresa alzandomi a mia volta. «Che è successo?» Le domandai. 
«Ascolta, avrei bisogno che tu scendessi in paese a comprarmi queste cose. Normalmente ci avrebbe pensato Galan ma non si sente tanto bene e non me la sento di lasciarlo solo. Puoi farmi questo favore?» Domandò porgendomi un foglietto.   
«E, Aiolia?» Domandai.
«Non vuole lasciare Galan e io non posso permettere che lo avveleni nel tentativo di curarlo». Perché se Lythos era famosa per aver mandato in ospedale Aiolia per intossicazione alimentare almeno quattro volte, Aiolia era famoso per non saper distinguere le aspirine dalle supposte. 
«Non preoccuparti, ci penso io. Scusa, Kiki, il dovere mi chiama». Mi discolpai dispiaciuta, guardando il Cavaliere d’Ariete ancora in piedi che mi guardava con aria smarrita. «Capisco, vai pure, non ti trattengo». Disse contrito. “E, ci credo, ti stavi divertendo come un bambino a spennarmi”.
Gli posai la mano sul braccio e gli sorrisi, cercando di confortarlo. Mi faceva quasi pena quando si abbacchiava così: «Riprendiamo quando torno».  E, per allora, avrei fatto in modo di mescolare le carte come se avessi dovuto leggerle.
Death Mask sarà anche stato l’Amante delle carte, ma io ne ero la Sovrana e comprendevo la loro magia, il loro potenziale e sapevo come farmi obbedire. Anche da quelle da gioco, nonostante fosse dalla terza liceo che non giocavo più. “Preparati a ricevere carte tremende, Kiki”. Pensai risoluta.

Stavo scendendo le scale quando la terra prese a tremare violentemente. Se ci penso adesso, a posteriori, mi ricordo confusamente alcuni dettagli di quell’inizio del finimondo. Come il terremoto, la voce di Kiki quasi in lontananza a causa del frastuono, che mi urlava di fuggire. Poi le crepe che si aprirono lungo i fianchi delle rocce e le radici che, come zampilli ne fuoriuscirono sovrapposte e intrecciate tra di loro come terminazioni nervose. Facendo cadere pezzi di roccia, sollevando polvere, distruggendo i gradini e facendo crollare parte delle Dodici Case.
So che inciampai nei miei stessi piedi e ruzzolai fino a metà della prima rampa.
Mi rialzai ignorando il dolore e scappai proteggendomi la testa braccia, facendo attenzione a non finire infilzata dalle spine del roseto demoniaco di Aphrodite, che, spuntando dal terreno nella direzione opposta alle radici, diede loro battaglia.
Cercai di non inciampare e finire vittima di quelle piante e dagli attacchi dei nemici che piovevano dal cielo assieme ai colpi.
A un tratto la strada mi fu sbarrata da una siepe e, dal legno e le sue fronde, vidi nascere una donna formosa dalla chioma scura e le grandi orecchie a punta. Urlai di terrore, la voce ancora più stridula dal baccano e fuggii. Sorpassai la siepe maledetta arrampicandomi rapidamente su un pezzo di muro caduto e mi lasciai scivolare dalla parte opposta grazie al tetto di legno che era caduto di modo che formasse uno scivolo.
Mentre fuggivo mi accorsi che il paesaggio attorno a me cambiava. Era come se un’altra immagine stesse lottando per sovrapporsi al Santuario e Rodorio stessi. Attorno a me, infatti, le case sembravano quasi inglobate dal paesaggio fatto di ampi boulevard di marmo, circondati da splendidi colonnati decorati con statue e fregi dorati, scintillanti di una luce che non c’era.
Dietro di essi si potevano scorgere splendidi Templi dal tetto spiovente dai candidi colonnati e le lamine rosse come il sangue.
Più volte inciampai a causa delle repentine apparizioni e sparizioni di una scalinata che spezzava qui e là il dolce rettilineo di marmo con la realtà della battaglia e del Santuario. Questo effetto flash da epilessia mi confondeva e destabilizzava. A quel punto mi volsi verso il Grande Tempio e strabuzzai gli occhi trattenendo rumorosamente il fiato. Al suo posto l’immagine di un altro Santuario assiso su un’altra montagna che ricordava moltissimo il Purgatorio Dantesco, cercava di sovrapporsi a quello che conoscevo, accendendosi e spegnendosi come una lampadina difettosa.
Questo Tempio era assiso sulla montagna pressappoco all’altezza della Dodicesima e la scalinata compiva una virata che le dava la forma di una lisca di pesce. Proprio nel punto di congiunzione stavano due Templi a forma di C posizionati rispettivamente a destra e a sinistra del resto della scala. Nello spazio c’erano dei resti di altri tempietti minori. E, dietro di essi, una lastra incorniciata da due possenti colonne doriche. Sul lastrone, era raffigurato in oro il simbolo del nemico.
La Casa di Atena era scomparsa. Al suo posto c’era un mastodontico albero che sembrava un incrocio tra un frondoso, fiorito melo e un baobab di dimensioni abnormi.
Attorno a me pochi civili corsero a dare man forte ai soldati semplici e ai Saint contro gli invasori, il resto della popolazione scappava urlando da tutte le parti.
Le rose che lottavano contro le radici e i rami dell’albero gigante sembravano i tentacoli di due piovre affamate.
Arretrai repentinamente e alla fine gli volsi le spalle e ripresi la mia fuga. Non so neanch’io come mi accorsi della voce femminile si propagava in ogni dove come se fosse trasmessa attraverso un impianto audio da far invidia al Kazablanc. Cantava soavemente e, con sgomento, vidi le piante e lo splendido Santuario estraneo diventare a mano a mano sempre più reali e consistenti. Ne schivai una per miracolo. Che diavolo stava succedendo?
A un tratto la cantante fece la sua comparsa e mi fermai di botto mentre le persone continuavano la loro corsa, spintonandomi più o meno violentemente. Sembrava una mia coetanea. Anche da qui riuscivo a vedere la pelle candida vestita con un peplo bianco fermato in vita da un corsetto di metallo rosso, che lì per lì sembrava una ferita aperta sull’addome. Anch’essa aveva mossi capelli biondi che si intravedevano appena da sotto il lungo velo che portava. Un grosso serpente si avvinghiava attorno alla sua persona e le sue spalle mentre cantava. Emanava una delicatezza e una grazia che non avevo mai visto da nessuna parte. L’impressione generale era comunque quella di una Madonna Guerriera, a giudicare dal corpetto metallico dell’armatura che le stringeva la veste in vita.
Sussultai. Io conoscevo questa voce! Io l’avevo già vista! Un ricordo avanzò nella mia mente. Mi rividi da piccola che giocavo nel parco con i tigli con delle farfalle. Improvvisamente una voce femminile cominciò a intonare una canzone. “Di chi è questa voce?” Mi chiesi e, incuriosita lasciai perdere le farfalle e andai a cercarla. “Non andare di là. Aspetta qui. Astrid, aspettami”. Disse una voce maschile. Ma io non l’ascoltai, tanto ero incuriosita, non avevo mai sentito una voce più bella e armoniosa di questa. Seguendola finalmente la vidi, in un angolo remoto del giardino. La stessa donna tra due giovani in armatura rossa come il sangue. “Eccola qui, avevi ragione, Harmonia, il nobile Ares sarà fiero di te”. Sorrise quello più alto avvicinandosi a me. Capii di essere nei guai e provai a scappare ma una mano mi fermò: “Dove credi di andare?”
“Astrid!” Urlò la voce maschile di prima e poi il mio carceriere strillò di dolore e mi lasciò andare. Dissi un nome, ma non mi ricordai quale. Il suo tentativo di aiutarmi fu vano, che altre mani mi afferrarono. Non riuscii a vedere chi fosse stavolta ma mi ritrovai in ginocchio. “É inutile che ci provi, con me non funziona”, sogghignò una voce maschile più squillante e giovanile di quella di Death Mask.
“Ma guarda, avremmo dovuto aspettarcelo che avesse un guardiano.” sogghignò il secondo guerriero. Un ragazzino sui tredici anni con i capelli appuntiti lunghi fino alle spalle e l’armatura rossa. “Ti ha colto di sorpresa, eh, Deimos?” Fece rivolgendosi al primo.
“Sta zitto, Phobos”. Sibilò l’altro mentre io mi divincolavo. Improvvisamente mi vidi una lama rossa sotto al naso: “Non ti muovere, piccoletta, non voglio farti del male”, mi avvisò la voce maschile, mentre con l’altra mano mi bloccava, adesso stringendomi al suo corpo. La sua faccia accanto alla mia. Era una sensazione sgradevole. Non mi stava toccando, ma mi stava annusando come se avesse fame. Il mio respiro accelerò e la mia paura si accrebbe.
“Astrid!” Esclamò la voce maschile del mio salvatore, ma io cercavo di tenere d’occhio il mio aguzzino.
“Non puoi mangiarla, Phonos, lei ci serve”. Fece la donna, Harmonia, avvicinandosi. Gli occhi socchiusi. Mi guardava attraverso le ciglia, sembrava cieca e per questo faceva ancora più paura. M’importava solo che qualcuno mi salvasse. E i miei occhi non mi avrebbero salvato ancora a lungo. Si erano fermati dal farmi del male solo per questo. “Ha degli occhi splendidi”.
Io cercai di divincolarmi e di usare i miei poteri, ma non ci riuscii. Phobos sorrise: “Non è un granché come guerriera, il Sommo potrebbe anche decidere di risparmiarla”. Ma l’altro, Deimos replicò: “É questa la ragazzina? Non sembra un granché”. 
“Eppure questa ragazzina ha sconfitto metà del nostro esercito”.
Uno degli uomini fece una smorfia divertita: «Non può averlo fatto tutto da sola». 
Tornai al presente, alle grida e alla confusione. A un certo la donna punto s’indispettì e aprì gli occhi: «Avete spaventato gli animali e le piante, non posso permettervi di continuare oltre! Breath of Paradise!» Comandò e una luce si espanse dal suo corpo. Tutti coloro che ne furono colpiti si trasformarono in fiori che caddero dolcemente al suolo di fronte ai miei occhi sgranati per il terrore.
Se mi salvai fu perché mi rifugiai dietro un cassonetto che divenne definitivamente una colonna. Poi la battaglia scomparve. Ma cosa diavolo stava succedendo?
La donna intanto continuò con voce più gentile: «Non temete, non lascerò che veniate calpestati, vi trapianterò insieme agli altri boccioli del giardino dell’Eden». Promise e ricominciò a cantare. A quel suono i fiori si alzarono da terra, galleggiando a mezz’aria. E, io, percepii tutta la loro paura e la loro richiesta di soccorso. Non c’era nessuno che potesse udirli e salvarli, tranne io. Con un impeto di coraggio misto a stupidità balzai fuori del mio nascondiglio e urlai: «Lasciali stare!»
Lei smise di cantare. «Oh, una sopravvissuta, non mi ero proprio accorta della tua presenza». Commentò desolata per questa sua mancanza, mentre i fiori galleggiavano pigramente a mezz’aria attorno a noi, continuando a saturare l’aria del loro terrore. Eppure con quella voce dolce e carezzevole che aveva, mi era impossibile detestarla, anche se era una nemica. Questa non era più guerriera di me. Per certi versi sembrava persino più eterea della sottoscritta che, al confronto, era un caterpillar lanciato a tutta birra su una strada in discesa. «Lasciali stare!» Sbraitai di nuovo.
«Non gridare, spaventi le creature viventi di questo giardino». Mi ammonì con dolcezza.
«Non me ne frega niente di chi spavento, riportaci tutti indietro e libera i cittadini di Rodorio».
«Mi dispiace ma non posso farlo, hanno infranto la legge del Sacro Eden di cui io, la Maga Harmonia, sono custode e guida e, per questo devono pagare».
«Non mi importa un fico secco di chi sei e cosa fai, liberali e basta!» Strinsi i pugni per la rabbia.
Si accigliò, ma mi domandò, rilassando i tratti del volto, come se comunque sapesse di essere in vantaggio: «Che persona fastidiosa, chi sei?»
«Non ha importanza, liberali subito!» Urlai di nuovo. 
«Non vuoi proprio smetterla di urlare, eh? D’accordo, allora ti manderò in un posto dove non potrai turbare la quiete di questo luogo», alzò una mano verso di me ma si fermò notando che avevo alzato al cielo una delle mie mani, che, avevano cominciato a scintillare della luce dei Gold Saints.
«Che cosa…?» Non fece in tempo a finire la domanda che la mia furia, che finora avevo concentrato e cercato di trattenere, esplose con il mio ruggito di rabbia.
Improvvisamente, tutto attorno a noi comparvero dei bagliori fosforescenti di varia grandezza. I più piccoli erano grandi quanto l’unghia del mio trillice, i più grandi come il pugno della mia mano. Questi bagliori non dissimili dalle lucciole, volteggiavano qui e là disegnando mulinelli e correnti luccicanti come stelle della Via Lattea, pulsando come inquietanti globi di luce.
La mia gonna e i miei capelli sventolavano al ritmo di una brezza inesistente.
La donna perse tutta la sua compostezza e si guardò attorno spaventata e confusa. «Non è possibile! Quell’accento, queste luci, tu!» Esclamò, riconoscendomi. Urlò di nuovo il suo incantesimo ma i bagliori, seguendo il movimento delle mie braccia, che posi a X di fronte al volto, si frapposero tra me e la sua magia, facendola esplodere a mezz’aria. Sciolsi la posa e tornarono a volteggiare pigramente attorno a noi.
«Tu!» Strillò indicandomi con l’indice, adesso tremante. Mi parlava come se mi avesse appena riconosciuta. «Non è possibile! Dovresti essere morta! Non era rimasto nulla!» Esclamò.
«Morta sarai tu se non annulli immediatamente il tuo incantesimo!» La minacciai offesa. Mi ricordavo di lei, l’avevo già incontrata molto tempo prima. Era una donna molto delicata, ma che già allora sembrava soffrire di una sorta di complesso dell’inutilità, accanto a Phobos di Defeat, che mi aveva rinchiuso in quel labirinto spaventoso da cui il mio amico mi aveva tratta in salva.
A un certo punto, mentre io piangevo avevo sentito la sua voce chiamarmi ed ero corsa da lui, gridando e frignando. 
Anche se non avevo visto il resto del ricordo, intuivo come era andata a finire e, l’avrei rifatto un’altra volta. 
Alle sue spalle comparvero dei soldati vestiti con delle corazze somiglianti delle foglie, avvolti in corti drappi neri stracciati e rami di rovi che si muovevano come tentacoli sulle loro schiene. 
«Harmonia, mia Signora, state bene?» Domandò uno di essi, dall’armatura più elaborata, poi, a voce più alta, rivolto ai subordinati: «Catturatela, Ghost Saint!»
I soldati scesero rapidamente le poche scale che ci separavano. Digrignai i denti e mi misi in posizione, come un pugile. Era strano, ma assumere di nuovo questa posa, sentire l’adrenalina in circolo e rivedere quelle luci fosforescenti mi era famigliare. Era come riprendere una vecchia attività fisica praticata per molto tempo e scoprire di non aver ancora perso la forza e l'elasticità. La sensazione di famigliare automaticità e la sicurezza che provai erano proprio quelle. Anche se non ricordavo dove avessi imparato. Ma non potei fare granché che subito davanti a me comparvero due Bronze Saint. «Non vi permetteremo di avanzare oltre, Ghost Saint!» Dichiarò un ragazzo dai capelli rossi con indosso la Cloth di Pegasus e, al suo fianco un altro con la Cloth del Leone Minore.
«Due Bronze Saint», commentò l’uomo dai lunghi capelli bianchi accanto alla Madonna Guerriera. Lui, a differenza di lei sembrava una sorta di Fantasma dell’Opera. Ma si vedeva che era un guerriero a tutto tondo e non uno che ci andava tanto per il sottile.
«Non avrei mai creduto che qualche altro sprovveduto avrebbe cercato di sbarrarci la strada».
I due guerrieri non si fecero intimorire e passarono all’attacco con mosse come il Pegasus Ryuseiken o il Pegasus Senkōken, quello in bianco e in rosso. E lui da solo dette del filo da torcere agli avversari, i quali, nel frattempo, si erano materializzati sottoforma di ombre nere. «Souma! Pensaci tu!» Urlò accorgendosi di loro. «Sì! Flame Desperado!» Urlò a sua volta scagliando il suo colpo ma le ombre nere, completamente diverse dalle Creature, non ne risentirono minimamente.
Souma si accorse di me soltanto quando i bagliori si mossero e ricacciarono indietro i nostri aggressori. Mi guardò sbalordito da sopra una spalla, che ansimavo per l’adrenalina. «Allora quelli sono tuoi! Continua così!» Annuii e lasciai che loro due combattessero mentre le ombre cercavano di forzare le mie difese.
Poi comparve di nuovo Phobos di Defeat. A differenza del nemico con la maschera da Fantasma dell’Opera, questo sembrò un folletto dispettoso. «Che tipi stravaganti abbiamo qui, perché non li portiamo a giocare da un’altra parte?» Propose, sorridendo furbo.
«Che cosa vorresti dire?» Chiese quello con la Cloth di Pegasus sulla difensiva.
«Lo vedrete con i vostri occhi». Promise.
«Fratello Phobos, fermati, non torcere un capello alla ragazza». Si raccomandò la Maga Harmonia ed entrambi la guardarono. «Perché? Chi è?» Chiese quest’ultimo.
«É la bambina di dieci anni fa!» I due la guardarono sorpresi e i due Saint perplessi. Poi mi guardarono rispettivamente da sopra una spalla e girato di tre quarti verso di me. «Non può essere, se ne erano perse le tracce dopo la battaglia».
«Vi dico che è lei, non toccatela, non fatele del male».
«E sia, allora mi limiterò a giocare soltanto con loro due». Così Phobos smaterializzò sé stesso e i due Bronze, lasciandomi di nuovo sola con Harmonia e il Fantasma dell’Opera.
Non seppi mai che cosa accadde al Saint del Leone Minore, né lo rividi mai più.   
Le ombre sempre attorno a noi, pronte a scattare. «No! Fermi!» Comandò il cosplayer di Erik versione Ghost Saint (?) Difficile dirlo, la sua armatura era rossa. Non come le foglie d’acero bruciacchiate dei miei ricordi ma rossa come il sangue. Dello stesso colore di quello delle ferite aperte. Colori simili ma non proprio uguali.
Mi guardai attorno alla ricerca di eventuali vie di fuga e per tenerli d’occhio. «Catturatela». Comandò di nuovo lui e poi se ne andò, asserendo che il suo compito era finito.
Il drappello mi si avvicinò scivolando tra i bagliori. «Non feritela!» Si raccomandò agitata.
Fu una pessima mossa.  
Aprii i pugni e, muovendo le mani come se spingessi qualcuno, le lucciole serrarono i ranghi disponendosi a raggiera. Poi si scagliarono con forza addosso ai Ghost Saint, abbattendoli immediatamente. L’unica che restò in piedi fu la Strega dell’Eden. Solo noi due, come allora, ma stavolta non ci sarebbe stato un ninnolo da salvare. Perché fu per ritrovare il mio ciondolo preferito che mi avevano attirato in quella trappola. Ma non solo per questo, c’era dell’altro che mi stava sfuggendo.
«Liberali e risparmio la vita a te e al tuo bel giardino!» Continuai, sempre fissandola in cagnesco. Il petto che si alzava e abbassava velocemente. Non ero neanche certa di aver ucciso quei soldati e, francamente, in quel momento non m’importava.
Annaspò per il terrore ma poi i suoi lineamenti si indurirono e replicò con voce secca. Ossia, di poco più dura del tono delicato che aveva usato in quel momento: «Giammai». Il suo stesso portamento cambiò, ricordandomi quello di uno dei soldati del Grande Tempio, poi mi lanciò un altro incantesimo che venne deviato un’altra volta.
«Deduco quindi che sia un no. Molto bene, allora lo farò io». Ciò detto alzai le braccia come se stessi per dire il Padre Nostro e le luci inglobarono i fiori che una volta erano persone al loro interno ed esplosero in una marea di scintille che lasciarono cadere a terra le persone, di nuovo vive e spaventate.
«No! Che cosa hai fatto?» Urlò la Maga dell’Eden muovendo un passo avanti ma arretrò immediatamente quando i bagliori si disposero tra lei noi, creando uno sbarramento. Non avevo ancora finito. Perché feci in modo che i globi si insinuassero dentro i Ghost Saint. Le loro corazze e i rovi scomparvero, sì come successivamente anche i loro corpi, diventando polvere.
Improvvisamente quest’illusione mi sembrò fragile come vetro di murano. Sarebbe bastato veramente pochissimo per mandarla in frantumi.
I cittadini di Rodorio sembravano più indecisi se temere me o lei. In ogni caso non si avvicinarono a nessuna delle due. Fecero però un passo indietro trasalendo quando alzai un pugno e, chinandomi di colpo, lo abbattei sulla scalinata. L’immagine in cui eravamo stati catturati si riempì di crepe che si allargarono con un sinistro scricchiolio sotto ai nostri piedi e attorno a noi. Infine si infransero, restituendoci alla realtà del Santuario di Atena.
«Andate via! Scappate!» Urlai rialzandomi mentre i bagliori scomparivano e questi obbedirono. Alcuni mi urlarono ringraziamenti, altri benedizioni e altri ancora si raccomandarono di fare attenzione. I Saint che accorsero invece mi ordinarono di andare con gli altri.  Erano altri Bronze, credo. Cercai di dirgli cosa fosse successo, ma non mi ascoltarono.
Solo uno mi ascoltò, Ryuho del Dragone. «Va bene, adesso ci pensiamo noi, adesso scappa». Poi seguì i compagni.
Li accompagnai con lo sguardo, per un momento. Così mi attardai.
I pugni sempre stretti e bene in vista, pronta a distruggere di nuovo quest’immagine se fosse ricomparsa. Attesi pochi secondi prima che anche l’ultimo del gruppo fosse scomparso. Infine corsi via dietro di loro.
Ripresi a fare lo slalom tra guerrieri, attacchi e detriti ma anche così finii per perdere di vista gli altri civili. Invece, i Saint e i soldati tornarono indietro a combattere i nemici che, più volte ci sbarrarono la strada. Neppure io so come mi liberai di alcuni di loro, non me lo ricordo.     
So che a un tratto mi separai dal gruppo. Ero riuscita a scorgere i confini del Santuario, se fossi riuscita a varcarli sarei potuta scappare. E, quale occasione migliore di questa? Mi guardai indietro pensando: “Mi dispiace, ragazzi” e, attuai i miei propositi.
A pochi metri dalla barriera qualcosa cadde a terra con lo stesso impatto di una bomba, sbalzandomi cinque metri più avanti. Poi, mentre mi rialzavo con le orecchie che fischiavano, qualcosa mi si avvinghiò addosso, imprigionandomi. Poi mi sollevò in aria. Era una grossa radice nodosa e contorta. Gridai e scalciai invano per liberarmi.
La radice maledetta mi lanciò via dopo avermi agitato come una bottiglia di spumante. Feci un volo di qualche metro urlando a squarciagola per poi essere afferrata da un’altra radice e sballottata di qua e di là un’altra volta. Ancora una volta mi ribellai mentre tutto a me infuriava il finimondo e la vista mi si offuscava per la paura e il dolore.
A un certo punto udii un urlo e un attacco distrusse la radice, facendomi cascare a terra. Mi rialzai a sedere con la testa che girava e il mondo sottosopra. Di fronte a me, a pochi passi di distanza trovai Neera, con tanto di protezioni di cuoio tipica degli apprendisti.
Mi portai una mano all’orecchio e poi la spostai al resto della testa per massaggiarla.
«E, così stai tentando davvero la fuga?» Domandò con tono perfido, incrociando le braccia.
La guardai spaventata: che volesse prendersi la vendetta per aver perso la sfida?
Cercai di rialzarmi per correre via, ma non riuscii neanche a mettermi in ginocchio, tanto ero ancora troppo stordita. Perciò ricaddi al suolo. Lei ribatté con quello che, dal tono intuii essere un sorrisetto compiaciuto: «Prosegui dritto fino a destra, gira a sinistra, poi sempre dritto; dovresti trovare l’uscita senza problemi».
La guardai stupefatta. «Perché me lo dici?»
«Mi sembrava di essere stata chiara: non mi piaci e non voglio più vederti. Approfittane finché puoi, Astrid». Consigliò caldamente con una voce che non lasciava presagire niente di buono se non l’avessi ascoltata. Successivamente spiccò un balzo per raggiungere un tetto e da lì, con un’acrobazia tuffarsi di nuovo nella battaglia.
Fortunata che il mondo tornò dritto e la testa smise di girarmi dopo qualche secondo. Ebbi un conato di vomito e lo ricacciai indietro e seguii il suo consiglio.
Mentre correvo mi tornarono in mente i miei amici: Kiki, Yoshino. Non potevo lasciarli da soli in questa situazione. Dovevo aiutarli in qualche modo. Ma come? Io da sola non potevo farcela. Mi servivano dei Saint, ma quelli che c’erano erano già impegnati e “Un momento!” Pensai, avendo un’idea. “I Black Saint!” Era rischioso, ma dovevo provarci. Perciò deviai e andai a cercare le prigioni.
Mentre correvo cercando di schivare attacchi e pezzi di case, macerie e persone che volavano dappertutto, finii per inciampare e fui presto circondata da tre Ghost Saint ridanciani. «Guardate che abbiamo qui», «Ehi, è carina», «Pare un uccellino».
Balzai immediatamente a sedere guardandoli alla stregua di belve feroci mentre dicevano: «Con quegli occhi splendidi sarà una Dryad perfetta».
Proprio in quel momento dal cielo presero a cadere delle piccole stelle cadenti. Una di loro proprio sulla mia traiettoria e si arrestò a mezz’aria proprio davanti alla mia faccia. Non era normale e non ricordavo che i Saint avessero un’arma simile.
Provai a scappare ma quelli mi afferrarono e mi costrinsero in ginocchio. «No, lasciatemi!» Cercai di ribellarmi ma uno di loro mi costrinse i polsi dietro la schiena e un altro mi tenne ferma per le spalle impedendomi di alzarmi: «Aha, dove credi di scappare, Occhi Gialli? Non sta bene rifiutare il dono della salvezza».
Quello che mi teneva per le spalle mi afferrò un braccio, liberandolo dalla stretta del compare, mentre il piccolo meteorite luminoso (?) galleggiava placidamente, in attesa. «Cosa volete fare? Lasciatemi! Lasciatemi!» Gridai cercando di opporre resistenza e ritraendo il braccio. Presi a urlare e divincolarmi con tutte le mie forze.
Riuscii solo a farli ondeggiare sul posto. «È forte!» Commentò con una punta di divertimento nella voce quello che lottava affinché io toccassi quella cosa. Ma bastò impiegare un po’ più forza per farmi tendere il braccio. Mi afferrò il polso, strappandomi un grido di dolore e insinuò con forza il pollice nel palmo costringendomi ad aprire le dita. Poi, avvicinò la mia mano alla luce. «No!» Gridai a squarciagola.
Improvvisamente la luce attorno a noi si tinse di viola. Alzammo gli occhi al cielo e la vedemmo comparire sopra le nostre teste. Era una donna molto simile all’Acquario. Improvvisamente una voce maschile gridò: «Diverse Spade!» E, una raffica di spade di Cosmo piovve dalla figura femminile su di noi. I tre mi mollarono immediatamente e se la filarono. Io mi rannicchiai in terra e mi protessi la testa con le braccia. Quando la raffica terminò abbassai le braccia e mi rialzai a sedere sgomenta. I miei aguzzini erano stati spazzati via. Poi, avanzando tranquillamente come se fosse in gita di piacere, il mio salvatore mi venne incontro: «Guarda un po’chi si rivede». Sorrise beffardo a mo’di saluto.
Alzando gli occhi li sgranai quando incontrai il volto del mio conoscente dagli occhi rossi infilato nella cloth di Cancer. Un momento, questa era diversa da quella di Death Mask. Non aveva quelle zampe sui fianchi e quel lungo mantello nero. Eppure ero sicura che fosse la corazza del Cavaliere del Cancro. Chi diavolo era questo? Ricacciai indietro l’ennesimo conato e ansai prima di esclamare, sorpresa: «Lancelot!» Subito dopo la polvere sollevata dalla battaglia mi entrò nel naso e presi a boccheggiare e tossire.
Si pose le mani sui fianchi. «Di solito non mi faccio opinioni sulle persone, ma devo dire che tu sei una continua sorpresa. Cosa ci fai nel bel mezzo della battaglia?» Mi domandò, così, tranquillamente, come se fossimo seduti al tavolino di un bar e stessimo amabilmente conversando di fronte a una tazza di caffè.
Gli attacchi e i vari avversari sullo sfondo alle nostre spalle.
«Devo andare alle prigioni!» Urlai per farmi sentire in mezzo a quel caos. L’altro si accigliò: «Le prigioni? Perché?» Chiese incuriosito.
Gli spiegai la mia idea e Lancelot alzò un sopracciglio azzurro: «Ti rendi conto che potrebbero approfittarsene per liberarsi e ucciderci tutti?»
«Sì!» Risposi senza esitazione. Nonostante le probabilità erano la nostra unica speranza.
Il suo sorriso si ampliò e scosse il capo turchino con fare divertito: «Cara mia, sei tutta matta! Mi piace! Su, andiamo». Mi tese una mano che afferrai. Lui mi tirò in piedi e mi tenne stretta a sé. «Aspetta, vuoi dire che mi dai una mano?» Domandai stupita.
«Certo!» Esclamò con convinzione e un pizzico di spacconeria. Poi, teletrasportò entrambi alle prigioni di Capo Sounion. Una volta lì mi lasciò andare, sicché potessi staccarmi da lui: «Qui ci sono le prigioni? Ma io non vedo niente». Dissi guardandomi attorno alla ricerca di qualcosa vagamente simile a un carcere. Anche se non ne avevo mai visto uno, prima.
«Infatti, sono laggiù». Mi indicò le scogliere lambite dall’acqua che saliva per effetto della marea. Trasalii spaventata, portandomi le mani alla bocca. Non pensavo che Capo Sounion fosse così.
Lancelot mi guardò e, mi pose le mani sulle spalle. «Su con la vita, stanno benone».
Alzai gli occhi per guardarlo in faccia e lui continuò: «Da qui posso pensarci io, non credo che tu sappia come si comanda un esercito, sbaglio?» Accompagnando la frase con uno studiato inarcamento di un sopracciglio.
«In effetti no». Ammisi distogliendo gli occhi per un attimo. Lui rivolse il suo dritto verso le prigioni e parlò sia a me sia ai Black Saint con la mente. Si presentò e spiegò loro che cosa stava accadendo. Poi chiese se avessero voluto combattere insieme a noi in cambio della libertà. Alla risposta favorevole dei prigionieri, li avvisò che li avrebbe liberati. Tuttavia promise anche  che se uno solo di loro avesse tradito, li avrebbe uccisi tutti.
Quando lo disse il suo volto assunse un’espressione maniacale che mi fece dubitare seriamente della sua sanità mentale.
“Noi non vi tradiremo”. Rispose uno di loro e, tutti gli fecero eco. «Bene, vi teletrasporterò tutti in mezzo al campo di battaglia e vi terrò d’occhio». Ciò detto eseguì. Non pensavo che i suoi poteri, pardon, il suo Cosmo, fosse così potente.
Solo allora ebbi un conato di vomito più forte degli altri, che mi costrinse a piegarmi in due e vomitare. Fortuna che l’altro non commentò e che si scostò in tempo. Vomitai tre volte e, solo allora mi si riavvicinò: «Forse è il caso che tu resti qui». Propose in tono incerto e leggermente disgustato.
«No». Dissi tergendomi la bocca col dorso della mano. Gli occhi lacrimanti e il fiato corto. «Non posso restare qui». Lui aprì bocca per obiettare ma lo interruppi immediatamente: «Io vengo con te». Dichiarai risoluta girando la testa e lo guardai da sopra una spalla.
«Pazza fino in fondo, eh?» Commentò soltanto. Cercai di curvare le labbra in un sorrisetto: «A quanto pare».
Mi aiutò a rimettermi in piedi, mi porse uno straccio per pulirmi la bocca (ricavato da un pezzo del mantello) e riportò entrambi al punto di partenza in pochi secondi.
Poi ci separammo. Lui corse in una direzione e io in un’altra. Il resto dei ricordi è un po’confuso. So solo che a un tratto mi trovai a correre nei pressi dell’infermeria e che nel tentativo di evitare un attacco deviato da un avversario e, una radice mi passò sotto al braccio. Persi l’equilibrio e mi ritrovai inchiodata al muretto per la paura. Avevo visto vagamente Shun cercare di opporre resistenza agli avversari con le catene di Cosmo e, poi, fui tratta in salvo da quello che, capii essere Ikki, il fratello maggiore di Shun.
Alcuni Ghost Saint si lanciarono al nostro inseguimento. Non avevo emesso un fiato tutto il tempo, tranne quando il mio salvatore fu colpito alla schiena con così tanta forza che perse l’equilibrio e rovinammo a terra. Mi strinse a sè per proteggermi dalla caduta, ma non ci riuscì più di tanto, perché fui più io che lui ad ammortizzare l’impatto e, credetti di essermi rotta qualcosa. Urlai di dolore, non solo perché ero rimasta schiacciata sotto al suo peso. «Astrid!» Esclamò rialzandosi quel tanto che bastava per guardarmi. Emisi un gemito di dolore mentre lui sollevava la parte superiore del mio corpo da terra. Feci un enorme sforzo per trattenere le lacrime.
Il fratello maggiore di Shun mi chiese se stessi bene, preoccupato. «Sì, non ti preoccupare e, tu?» Cercò di sorridermi per rassicurarmi. Io annuii ma non trovai la forza di ricambiare, anche perché fummo investiti dalla risata della Dryad e poi dalla sua voce, beffarda: «Ma guarda chi si è unito alla battaglia, il potente Cavaliere di Phoenix».
Intanto il Cavaliere di Phoenix cercò di rialzarsi e, al tempo stesso, di continuare a proteggermi.
Girò la testa per guardarlo e anche lui lo vide. L’uomo infilato in una corazza a piastre levigate a foglie, sorrideva beffardo al nostro indirizzo. Avevo già visto prima qualcosa di simile nei ricordi di Death Mask ma non mi tornavano in mente. Dal suo corpo uscivano rovi dalle spine affilate e la sua armatura ricordava moltissimo delle foglie. Sotto ai suoi piedi si agitavano delle possenti radici di un albero dall’aura maligna. Attorno a noi altre radici del medesimo che ondeggiavano come tentacoli.
Trasalii e cercò rifugio tra le forti braccia di Phoenix come se fossi una bambina piccola. Lui mi strinse di nuovo.
«Sì, è così, con chi ho il piacere di parlare?» Rispose, continuando a fissare l’avversario.
«Nessuno in particolare».
«Andiamo via! Andiamo via!» Piagnucolai all’orecchio di Ikki, aggrappandomi alle sue spalle. Ma lui non mi ascoltò, forse credendo che quello fosse solo un bellimbusto che potevi sistemare in quattro secondi. Ormai conoscevo abbastanza i Saint per dire che non poteva permettere che un tale essere imperversasse ancora sulla faccia della Terra. Anche il nostro aguzzino sembrò essere del suo stesso parere, perché obiettò: «No che non andrete via. Non sono certo così stupido da lasciarvi andare. Evil Seed!» Ci lanciò addosso dei semi che, fino a quel momento si era rigirato nella mano.
Ikki mi afferrò rapidamente e saltammo via. Durante il salto si girò tenendomi con una mano per lanciargli con l’altra delle scaglie delle code della sua Armatura e il Fantasma Diabolico.
Atterrò sul muretto in piedi e senza vacillare. Peccato che fu il muretto a non reggerci e a sfaldarsi sotto al nostro peso, così perse l’equilibrio e ci ritrovammo di nuovo nella polvere dopo un iniziale spavento. Poi mi lasciò lì e si rizzò di nuovo in piedi per affrontare il Ghost Saint, credendo che sarei stata più al sicuro nella polvere che qui.
La terra tremò sotto la mia guancia e mi scostai rotolando sul fianco, giusto in tempo per evitare che la radice che ne uscì mi perforasse la faccia da parte a parte.
Urlai terrorizzata mentre mi rendevo conto di non riuscire a muovermi a causa del panico paralizzante.
Le radici dell’albero si frapposero tra il colpo di Ikki e il nemico, sicché andò a vuoto. Poi si ritrassero mentre quello rideva «Credevi che un colpetto potesse nuocermi? Adesso ti faccio vedere io». E, stavolta lasciò che fossero i suoi rovi a ferirlo.
«No! No! Basta!» Urlai terrorizzata.
L’altro non fece in tempo a spostarsi o a bruciare il Cosmo della Fenice perché costretto ad arretrare. Inciampò su di me ancora stesa ai suoi piedi e rintronata per la botta di poco prima e l’orrore. Eppure, non so come feci ma trovai la forza di mettermi in ginocchio. Rialzai la testa e vidi Ikki rialzarsi immediatamente mentre gemevo di dolore.
«Morite!» Urlò l’altro e io gridai: «Ikki!»
Il nostro avversario lanciò altri rovi ma io, con l’adrenalina finalmente in circolo, mi mossi più rapidamente e mi frapposi tra lui e l’avversario, prendendomelo in pieno. Ciò nonostante non fu sufficiente perché gli arrivarono comunque altri rami contorti e spinosi. Se non altro la sua Armatura lo protesse. I rovi mi si avvinghiarono attorno al petto e alle scapole, costringendomi a girarsi.
«Astrid!» Esclamò Ikki.
Cercai di togliermeli, aprendo così altri buchi e altri tagli scarlatti sulla mia pelle. Gemetti di dolore mentre le lacrime uscivano copiose dai miei occhi e nella mia bocca si spandeva il sapore del sangue. A ogni mio movimento e tentativo di liberarsi ottenni solo che mi entrarono in profondità nella carne, facendomi lanciare ululati di dolore sempre più acuti.
«No! Astrid!» Strepitò di nuovo mentre il nostro avversario se la rideva. Credo.
Crollai in ginocchio e il fratello di Shun si abbassò a sua volta. Afferrò i rovi e si adoperò per strapparmeli dalla carne con l’altra mano, schizzandosi di sangue e lasciando dei pulsanti buchi scarlatti su parte del petto e della schiena.
Le mie vesti e le sue mani si riempirono di sangue: «Avrei preferito prendere te, ma mi accontenterò di lei». Lo sentii dire mentre gemevo di dolore.
Ikki cercò di tamponare le mie ferite come meglio poté, ma il sangue continuava a sgorgare. Gemetti di dolore e lui mi strappò un pezzo della gonna per ricavare una fasciatura d’emergenza, con la quale arginò l’emorragia, stringendomela così forte da bloccare il flusso sanguigno.
Persi i sensi.
Fino a quel giorno non mi ero mai chiesta che cosa provasse la terra ad essere percorsa dalle radici dei nuovi semi. Fu strano e parecchio inquietante sentirsi scavare dentro repentinamente da quei punteruoli acuminati. Sentii persino il rumore prodotto dalle radici che lacerarono la carne, fecero il giro del costato, quasi avvinghiandosi alle mie ossa con forza inaspettata. Quando capii andai nel panico e spalancai gli occhi e, urlando terrorizzata, presi ad artigliarmi il petto proprio sopra la ferita, da cui si agitava, contorcendosi una piantina.
L’afferrai e cercai di tirarla via ma quella si avvinghiò a me ancor più saldamente. Non volevo che quella cosa germogliasse dentro di me! Non la volevo! «Aiuto! Toglietela! Toglietemela! Aiuto!» Poi le mie grida divennero disarticolate. Cominciai a scalciare e divincolarmi, come se ciò avesse potuto aiutarmi, ma invano. Le sue radici, infatti, si stavano facendo ancor più strada nella mia carne e nelle mie ossa.
Non volevo quella cosa dentro di me!
L’immagine della Dea della Discordia fece capolino nella mia testa. Era una donna sulla trentina con gli occhi gialli truccati e la chioma di un nero quasi blu. Indossava un fermaglio dietro l’orecchio a forma di orecchio di drago occidentale, un collare d’oro terminante con dei rombi di smeraldo, orecchini della stessa foggia e dello stesso materiale e un corpetto d’oro con le medesime decorazioni smeraldine. Invece il chitone dagli orli sfrangiati che le fasciava le membra formose era nero. Un sorriso dolce le curvava le belle labbra sottili.
Urlavo come un’ossessa mentre quell’altro combatteva e, nessuno mi udiva. Credo di aver quasi perso conoscenza un’altra volta, mentre gli occhi offuscati di lacrime di dolore mi rimandavano l’immagine delle Creature.
Qualcosa s’insinuò nella mia mente già destabilizzata e cercò di piegarmi al suo volere, imprigionandomi. Era ancora peggio che subire il mare in tempesta delle crisi. «No! No!» esclamai piantando le unghie in terra, nel tentativo di aggrapparmi a qualcosa di reale.
Mentre il mio lato oscuro prendeva il sopravvento e dentro di me nasceva un amore sconfinato per la Dea Eris, la madre di questi individui.
“Mia madre”.
Appena lo pensai mi ribellai e mi alzai a sedere prendendomi la testa tra le mani. Mi stava letteralmente scoppiando.
No; quella non era mia madre! Non ero una delle sue figlie, non volevo diventare un mostro!
Sentii i miei capelli accorciarsi sotto le mie dita e rientrare dentro il cranio e le membra gonfiarsi mentre la mia pelle si induriva e cominciava a cambiare. «No! No! Basta! Non voglio!» Urlai e la trasformazione si arrestò.
“Ma i mostri fanno parte della Natura umana.” Mi sussurrò suadente una voce all’orecchio, una voce del tutto simile alla mia e, al contempo, l’immagine di Eris con un’espressione tra il beffardo e il benevolo dipinta in volto.
Dietro di lei un grosso melo millenario carico di bellissimi fiori rosa.
La donna dai lunghi capelli neri tese una mano dalle belle unghie laccate verso di me.
«No. Mai!» Urlai e nella mia testa comparve il viso della mia vera madre, circonfuso di luce.
Ma il seme malefico non aveva intenzione di lasciarmi andare.
«Sorella.» mi chiamarono delle donne dai capelli corti, dalle iridi gialle con dei rami che uscivano dai loro corpi per abbarbicarsi alle loro membra formose e seminude. «Vieni con noi, sorella».
«Non ti lascerò fare di me quello che vuoi!» Urlai, mentre nella mia testa saltava di nuovo fuori l’immagine di Eris. Stavolta parlò: “Ma cosa stai dicendo, piccola mia? Mia piccola Dryad? Hai forse fatto un brutto sogno? Vieni qui, vieni da tua madre, sei al sicuro, vieni, i tuoi desideri più profondi saranno esauditi”.
Come fomentato dalle sue parole, le radici nella mia schiena presero ad agitarsi. Premettero contro la carne per uscire, strappandomi altre strida di dolore. I rami avevano cambiato tattica: piuttosto che continuare a uscire dal petto, dove sapevano che li avrei strappati, si erano infilati sottopelle, passando sotto le braccia, lacerandomi. Ora so cosa provano le vittime delle possessioni demoniache, ma, sinceramente, avrei preferito non saperlo. 
Ma la trasformazione più radicale stava avvenendo soprattutto nella mia mente. Mi tornò in mente l’incubo con la minaccia che mi aveva fatto svegliare. “No, io ho giurato di combattere” Pensai e improvvisamente mi ricordai che quella era la mia mente. Mia e di nessun altro.
“Andate via!” Cominciai a sibilare.
“Come?”
“Andate via!” Urlai e dalla mia proiezione mentale si sprigionò una luce che fece arretrare la Dea.
“Cosa? Che cos’è questa luce?”
“Vattene via!” Ululai con tutta la forza dei miei pensieri. Sì tanto che mi dolé la testa come se l’avessi battuta da qualche parte. Poi dalla luce emersero le Creature che le si avventarono addosso. L’estranea strillò ancora più forte, terrorizzata.
Tesi una mano e la spazzai via urlando: «Non sei tu mia madre!»
Improvvisamente aprii gli occhi e riacquistai la percezione del mio corpo. E urlai a squarciagola, la faccia rigata di lacrime.
Come se quella pianta mi avesse schiacciato al suolo, crollai di nuovo supina, mentre un grosso peso mi immobilizzava.
Stavo per arrendermi quando dal cielo buio sopra di me discesero in picchiata con la loro solita flemma. Riconobbi le loro dita grigie, lunghe e appuntite tese verso di me. 
Prima di tutto sentii il freddo che congelò le spire della pianta e poi, il calore. Più che la scottatura fu la sorpresa a farmi urlare. Ero abituata a farmi il bagno a temperature molto elevate, ma questo non era neanche lontanamente paragonabile a quello che avvenne dopo. Due lunghi aghi infuocati s’infilarono nella ferita e si chiusero attorno alla pianta che lottava per nascere dalla mia carne.
È una cosa che non augurerei a nessuno, soprattutto quando la estrassero e, la gettarono via, ormai neutralizzata.
Infine se ne andarono a spargere terrore tra le fila avversarie, lasciandomi sul terreno con il volto inondato di lacrime di dolore, sangue e le ferite aperte e pulsanti. Corti respiri uscivano dal mio petto, ero prossima all’iperventilazione. La vista annebbiata dalle lacrime che mi scorrevano copiose lungo le tempie. Chiusi gli occhi.
I capelli mi si allungarono di nuovo, tornando alla loro lunghezza originaria e le mie membra tornarono normali, per contro ero madida di sudore e molto indebolita. Non so come, eppure, mi parve di percepire degli incoraggiamenti. C’erano delle emozioni tutto attorno a me che m’incoraggiavano ad alzarmi. E, le sentivo vorticare attorno a me. Battei le palpebre per liberarle dalle lacrime e tirai su col naso, deglutii. Ma il sapore di sangue non se ne andò. 
Udii le grida e il rumore della battaglia tutto intorno.
Sotto le dita e il resto del corpo, la terra mi restituiva il rimbombo dei corpi e delle strutture che crollavano tipo cassa dell’impianto audio in discoteca o dolby surround del cinema.
Poi udii un grido più potente degli altri e qualcosa crollò a terra non troppo lontano da me.
Sussultai e il mio cuore prese a battere più rapidamente.
Non avevo la forza di muovermi ma dovevo andarmene, altrimenti sarei morta. E, io non volevo. Forte di questo pensiero aprii gli occhi e mi ritrovai a guardare un vortice nero sopra di me che emanava un dolce tepore.
Provai a rialzarmi ma fui colta da un capogiro e franai di nuovo a terra.
Sforzandomi di respirare dal naso e di inghiottire le lacrime di pianto, provai a rialzarmi, stavolta più lentamente, step dopo step. Prima sui gomiti, poi sulle mani, infine seduta.
Respirai più volte e, più volte tossii, poi scorsi il cadavere carbonizzato di un Saint vicino a me. E, c’era solo una cosa che poteva ridurli così.
Costui doveva aver usato il proprio Cosmo per proteggermi. Ne vidi le tracce della costellazione e, eseguendo la stessa operazione di parecchi mesi prima, lo riportai alla vita.
L’uomo, tossendo, si rialzò, mi guardò stupefatto. Stava per dire qualcosa quando delle fiamme caddero molto vicine a noi e io sgranai gli occhi mentre il sangue gelava nelle mie vene. «Mettiti in salvo!» Si raccomandò prima di correre via. Poi corse dai nemici.
Provai ad alzarmi sollevando per ultimo il capo onde evitare capogiri e altri svenimenti. Ci riuscii, anche se barcollai lì per lì nel tentativo di reggermi in piedi.
Mi accorsi si avere più freddo e libertà di movimento alle gambe e ricordai di avere la gonna strappata. Inoltre, quando mi portai la mano al petto, scoprii dove era andata a finire. Ne restai sorpresa, poi rinsavii: «Le Creature!» Esclamai.
Alzai lo sguardo e le vidi fluttuare tutte attorno a me. Alcune mi volteggiavano attorno come squali. Però non sembravano intenzionate a farmi del male, piuttosto ad accompagnarmi. Perché si mossero con me come una sorta di ali protettrici.
Ripercorsi i miei passi mentre il nugolo di Creature mi accompagnava. Allora, quello che avevo vissuto sull’aereo non era un’allucinazione fino in fondo.
Che fossi diventata una sorta di pesce pilota per gli squali? Non importava, sembravano decisi a seguirmi, perciò, tanto meglio.
Mi accorsi di essere tornata alle scale e che il mio bastone era rotolato poco più in là del roseto. Lo raccolsi facendo una fatica del diavolo per piegare le ginocchia senza provare dolore. Mi sorressi ad esso e guardai le rose.
Le Creature percepirono il mio desiderio e si lanciarono contro la barriera vegetale bruciandola, liberando così la via e, distruggendo i nostri avversari. Quasi mi parve di udire l’urlo di dolore di Aphrodite, perché lui e le rose erano una cosa sola.
Sperai che Kiki e gli altri se ne fossero accorti.
Avrei voluto fare le scale di corsa, ma debole com’ero non ci riuscivo. Perciò, un po’ansimando, un po’facendo leva sulla forza di volontà, riuscii a guadagnare la cima delle scale ed entrare nel primo Tempio. Per arrivarci e dimenticarmi del dolore, pensai tutto il tempo a Wilde rose dei Faun, una canzone che, come ritmo ci stava. E, poi, da un lato preferivo pensare a quella che concentrarmi sul suono della battaglia, anche se mi era necessario per capire chi era morto e chi no.
Se non svenni fu soltanto per l’adrenalina in circolo, che attenuò un po’ gli effetti della perdita di sangue.
Le Creature non si arrestarono di fronte al Muro di Cristallo di Kiki e Mur. Anzi, lo oltrepassarono, sciogliendolo con il loro passaggio, esattamente come la barriera divina di Atena.
E, Mur se ne accorse.
Il lemuriano coi capelli lillà, che fino a quel momento aveva lottato strenuamente per impedire la discesa dei nemici, avanzò trascinandosi verso di noi, percependo i miei pensieri. Alzò la testa e mi vide ansimare di fronte a lui mentre le Creature ci volavano intorno con la loro flemma.
«Astrid!» Esclamò come se si fosse aspettato che io mi trovassi lì, quando riuscì ad aprire un occhio malachite: il sangue che usciva da una ferita sulla testa gli impediva di aprire l’altro. «Cosa ci fai qui? Vattene via! Non è posto per te, questo. Non lascerò che tu corra rischi inutili!»
Non l’avevo mai visto così scosso.
Se non mi teletrasportò altrove, fu perché si accorse delle Creature e gli tornò in mente quello che potevano fare se solo si fosse azzardato a usare anche un briciolo di Cosmo.
Per un momento mi vidi come dovevo apparire ai suoi occhi, dovevo somigliare più che mai al fantasma della Dama Bianca delle leggende. I capelli e i vestiti a brandelli che ondeggiavano nella brezza della sera, facendomi venire la pelle d’oca subito cancellati dal calore delle Creature. Una specie di raggio di sole tra le tenebre, ecco a cosa dovevo somigliare. Oppure a una specie di Atena dei poveri. Strano che la mia proverbiale ironia si ripresentasse proprio in un momento come questo. Forse perché mi sentivo al sicuro con le Creature che si libravano nelle immediate vicinanze?
«Non posso, avete bisogno di aiuto!» Ribattei dissipando l’impressione che dovevo avergli dato.
«Astrid, questa è una battaglia, tu non sei una guerriera, sei solo una persona normale. Vattene al sicuro!» Mi biasimò recuperando la sua compostezza, anche se il viso restò contratto in quella smorfia di dolore e rabbia.
Le Creature scivolavano silenziose vicino e attorno a noi.
Un Ghost Saint sbucò da dietro una colonna e si lanciò addosso a noi con un grido, i rovi che vorticavano attorno a lui. Non fece in tempo a toccarci che una Creatura lo afferrò a mezz’aria e lo ridusse a un cadavere carbonizzato. Poi lo lasciò cadere a terra come un bambino che si stufa di un giocattolo rotto.
Mur scattò indietro con uno sforzo sovrumano, a giudicare dalle ferite. Il Cosmo lo pervase e le Creature fecero per lanciarsi addosso a lui, però alzai prontamente il braccio e alzandolo loro si raddrizzarono e tornarono mansuete.
Il maestro di Kiki mi guardò stupefatto mentre io abbassavo il braccio (sempre cercando di non svenire) e le Creature se ne restavano lì attorno a noi. Lo guardai di nuovo e solo allora parve ricordarsi che le Creature si nutrivano di Cosmo, perciò lo azzerò di nuovo, eliminando ogni pericolo a priori.
«So che non ti fidi di me in questo momento e hai ragione, ma non c’è tempo per spiegare. Potrei essere la vostra unica speranza e penso che questo tu lo sappia già. So che se volessi potresti teletrasportarmi altrove, magari in Tibet o nello Jamir, come so anche che ti diverti a mettere alla prova i tuoi interlocutori e a osservarli attentamente prima di giudicare. Per favore, dammi la possibilità di aiutarvi, se non per voi, almeno per il Santuario. Se proprio non ti fidi a lasciarmi andare da sola, allora vieni con me, accompagnami fino alla Tredicesima! Ma ti scongiuro, non spedirmi da nessuna parte».
Lui soppesò la mia richiesta senza staccare lo sguardo prima di annuire e affiancarmi. «E, sia; ma se finirai infettata dagli Evil seed non esiterò a colpirti». Mi avvisò con voce incrinata, cercando di mantenere l’espressione neutra che gli conoscevamo tutti. 
Deglutii a vuoto per la paura ma asserii con il capo, cercando di mostrarmi determinata: «Naturalmente».
In quel momento anche Kiki ci raggiunse, ferito ma vivo: «Maestro, la barriera di spine è… Astrid! Cosa ci fai qui?» Esclamò. Poi, come il maestro, fece per dire qualcosa ma si bloccò quando vide le Creature. Sgranò gli occhi viola e incrociò lo sguardo del suo predecessore, che, lo guardò serio.
Mi ci volle un po’per capire che stavano comunicando telepaticamente.
Poi Mur mi disse: «D’accordo, veniamo con te».
Riprendemmo la nostra avanzata facendoci aprire la via dalle Creature.
Il precedente Cavaliere dell’Ariete aveva adattato il suo passo al mio e, spesso, mi lanciava occhiate tra il perplesso e il preoccupato. Fortuna che si prese la libertà di avvisare tutti gli altri del nostro arrivo e di azzerare il Cosmo, anche se, credo che se ne fossero già accorti, dato l’odore di piante bruciate e le grida dei Ghost Saint e i Dryad venivano catturati e uccisi dalle implacabili Creature.
«Incredibile». Mormorò Kiki osservandole mentre ci aprivano la via, debellando ogni possibile minaccia.
Appena alla Seconda vedemmo Shaina correrci incontro. Il custode della Seconda era sparito chissà dove. Sanguinava a un fianco e parte della sua tuta era stracciata. Sembrava non sentire dolore. «Astrid!» Chiamò a gran voce. «Cosa sta succedendo?»
«Sto cercando di aiutarvi». Risposi solamente prima di essere assalita da una fitta al costato che mi strappò un gemito di sofferenza. Mi portai la mano alle ferite e le sentii grondare altro sangue. Le ginocchia mi si piegarono e Kiki mi sorresse prontamente.
Mur domandò: «Dov’è Aldebaran?»
«A Rodorio ad aiutare Aphrodite. Astrid! Sei ferita, non muoverti!» Acchiappò ciò che restava di un drappo bianco e lo usò per fasciarmi meglio le ferite, raccomandandosi di tenerlo per tamponarmelo. «Ti ha dato di volta il cervello? Vattene via da qui!» Mi disse dopo. 
Strinsi la presa sul bastone e, quasi lo piantai in terra per stabilizzarmi, sibilando tra i denti replicai: «No».
Lei cercò di opporsi ma non mi smosse neanche di un millimetro dalla mia decisione.
«Statemi dietro». Mi raccomandai soltanto e, staccandomi da Kiki, ripresi la mia avanzata. Non m’importava che mi seguissero o meno, sapevano cosa fare per sopravvivere alle Creature. «Ferma!» Esclamò e mi afferrò il polso con una stretta ferma ma gentile. Mi bloccai, volsi il viso sopra una spalla e vidi la sua maschera. Lei disse «Non puoi! Le Creature ti uccideranno!» Quasi urlò per la preoccupazione.
Liberai il braccio con uno strattone e oscillai un po’ prima di trovare stabilità sulle gambe: «No, invece»; le sorrisi, nonostante la mia sofferenza, «non temere per me, andrà tutto bene. Vai da Aldebaran, qui ci pensiamo noi». Ciò detto mi diressi verso l’uscita, mentre loro restarono lì chiamavano e mi urlavano di tornare indietro.
Sull’uscio mi dovetti fermare a riprendere fiato.
Le Creature continuarono a volare attorno a me, fermandosi quando mi fermavo io, mentre un altro gruppetto ci apriva la via.
Con un enorme sforzo di volontà per vincere il dolore. Non so nemmeno come successe, forse fu l’adrenalina, perché, improvvisamente sentii le mie membra alleggerirsi e il dolore scomparire, così potei velocizzare la mia andatura. Mi sembrò quasi di non toccare terra, come se stessi levitando o mi stessi muovendo con la stessa leggerezza del vento.
Alla Terza Casa non trovammo nessuno, se non i cadaveri di chi era perito per mano delle Creature e della lotta.
Riportai in vita i pochi Saint e Black Saint che trovammo e, mi raccomandai con loro di mettersi in salvo, poi la oltrepassammo.
Alla Quarta scovammo Death Mask accasciato contro una colonna che si teneva un braccio sanguinante. La sua Armatura era danneggiata in più punti e, agitando un braccio, cercava di allontanare da sé le Creature che lo avevano accerchiato e lo osservavano incuriosite.
Le maschere mortuarie urlavano a squarciagola la loro vendetta e il loro terrore.
Appena mi avvicinai, le Creature si allontanarono da lui, il quale volse il viso nella mia direzione, rivelando il sangue e l’occhio pesto che si ritrovava, oltre che a numerose altre ferite. Dapprima sobbalzò e si schiacciò ancor di più alla colonna, poi mi guardò meglio e sbottò, abbassando il braccio: «Che minchia ci fai qui? Ti sei bevuta il cervello o hai deciso di farmi incazzare? Vuoi che ti spedisca nello Yomotsu Hirasaka?»
Ignorai quel colorito benvenuto e mi limitai a tendergli una mano.
«Che cosa diavolo vuoi che ci faccia con quella mano? Sei impazzita completamente? Vattene via, non è posto per ragazzine indifese come te, questo!» Mi urlò e io cercai di non lasciarmi impressionare dal suo linguaggio sboccato.
Mossi le dita e lui, roteando gli occhi, sbuffò e l’afferrò masticando insulti e moccoli in siciliano, così che potei tirarlo in piedi con un po’di fatica per via dell’Armatura e per le mie ferite, che si aprirono un po’di più e altro sangue mi bagnò.
Le Creature continuarono a svolazzare attorno a noi. In un certo senso sembrava di stare dentro la vasca degli squali, ma anche se non c’erano gabbie, non si azzardavano a toccarci.
Mi schiacciai la mano con cui lo avevo aiutato a rialzarsi sulla ferita, tamponando il sangue con una smorfia di dolore.
Lui se ne accorse e sbraitò: «Ma tu sei ferita! Mi spieghi che cazzo sta succedendo? E, che cazzo ci fai qui?»
«Non lo so ma se t’interessa, gli altri sono alla Seconda».
«E, tu perché cazzo non sei con loro?»
«Perché sto andando alla Tredicesima».
«Così?» Domandò indicandomi dall’alto in basso con un dito e il sopracciglio buono inarcato. Poi scoppiò a sghignazzare sguaiato, come se avessi fatto la battuta del secolo. 
«Sì, problemi?»
Tornò serio: «Parecchi, Mur non stava scherzando, allora». Solo molto tempo dopo afferrai il senso di quelle parole, per il momento mi limitai a sottoporgli la stessa proposta che avevo fatto al Cavaliere dagli occhi verde malachite: «Puoi venire con me, se vuoi».
Lui si accigliò di nuovo, emise un verso vagamente somigliante a un “al diavolo” e decise di accompagnarmi e sostenermi quando sembravo vacillare. Anche se le mie membra erano leggere ero ferita lo stesso.
Sulla rampa che conduceva alla Quinta ci scontrammo direttamente con Aiolia, Milo e Shura.
I tre erano stati costretti ad arretrare, trovandosi in notevole difficoltà, non solo per via delle Creature, ma anche per via delle ferite e delle radici in fiamme dell’albero nemico e del roseto di Aphrodite, che spandevano fumo che faceva lacrimare gli occhi.
Il primo a individuarci fu il Cavaliere del Leone, il quale avvertì il Cosmo di Death e si accorse del cambiamento nelle Creature, che li oltrepassarono.
Sgranò gli occhi e il suo ruggito irato ci investì: «Vattene via!» 
Shura invece abbandonò la sua compostezza per girarsi verso di noi dopo aver atterrato un Ghost Saint che aveva capito il trucco per non farsi toccare dalle Creature. «Death Mask! Astrid!» Urlò confuso e spaventato.
Milo si volse verso di noi e sgranò gli occhi cerulei «Che diavolo ci fa lei qui?» Urlò al compagno d’arme, poi a me: «Vattene via, è pericoloso! Non sei in grado di abbatterlo, i tuoi poteri non servono a niente, qui!» Ordine al quale risposi alzando una mano e muovendola come a scacciare una mosca molesta e, allontanando così da loro alcune delle Creature troppo vicine.
I tre percepirono il calore abbandonarli e trasalirono. Volsero la testa in quella direzione e, poi, presero a guardarsi intorno sconvolti, intanto che i loro occhi si illuminavano di una specie di consapevolezza.
«Cosa succede?» Domandò Milo confuso nel vedere le Creature obbedire al mio gesto. Gesto che, nella sua semplicità, mi costò una serie di fitte al costato e mi fece vedere le stelle e boccheggiare. Mi portai una mano alle ferite sanguinanti, intanto che i miei occhi continuavano a versare lacrime e io respiravo il fumo. Cominciai a tossire, peggiorando il dolore.
«Incosciente, perché non l’hai riportata indietro? Non lo vedi che è ferita? E, se morisse o se perdesse il controllo delle Creature?» Gli urlò Leo mentre io, cercando di smettere, lo guardavo di traverso. Perdere il controllo delle Creature? E, quando mai l’avevo avuto?
«Smettila di urlarmi in faccia! Credi che non ci abbia provato, pezzo di idiota? Non mi ascolta! Dice che può aiutarci». Ribatté Cancer per le rime.
«Come può farlo se è più di là che di qua? Perché l’hai lasciata venire? Vuoi forse ucciderla?»
Mentre i due litigavano, la Piattola scelse una via più pacata: «Astrid, apprezziamo molto il gesto ma non occorre che tu metta a repentaglio la tua vita. Che considerazione hai di te stessa? Vattene via, lontano da qui, se non vuoi morire, ci pensiamo noi a sistemare Eris e le sue armate».
«Io non me ne resto con le mani in mano!» Sbottai a quel punto, infliggendomi da sola altro dolore, infatti, lo sforzo mi fece male e terminai la frase con un sibilo tra i denti. Stupendo non poco i quattro.
«Milo ha ragione, Astrid». Tentò Shura, ma io lo seccai dicendo: «Non se ne parla neanche. Ho un conto in sospeso con lei». Non so neanch’io da dove mi uscirono quelle parole, fatto sta che appena le dissi ebbi l’assoluta certezza della loro veridicità.
I due mi guardarono esterrefatti. Persino Shura sgranò gli occhi: «Un conto in sospeso? Ma di che parli?» Domandò.
«Non lo so». Ammisi.
«Non lo sai?»
Mi rivolsi ai due: «Ehi, Aiolia? Aiolia!» Esclamai alzando la voce. 
I due si fermarono. «Death Mask, è vero che Astrid ha un conto in sospeso con Eris?» Domandò la Piattola al compagno.
«Cosa? Di che accidenti vai parlando? Da dove te la sei levata, questa?»
Il Leone, La Piattola, il Capricorno e il Cancro mi guardarono contrariati, mentre dicevo: «Non lo so, ma sono qui per chiederti il permesso di oltrepassare la tua Casa».
«Non se ne parla!»
«Invece passerò. Che ti piaccia o no tu non puoi comandarmi e non puoi obbligarmi a fare ciò che non voglio!»
Sentii il fischio ammirato di Death seguito dal suo sghignazzo nervoso e il commento: «Uao, il fegato non le manca di sicuro», ma lo ignorai.
Milo invece riprese la sua tirata a senso unico: «Non fare la stupida, Astrid, una ragazza intelligente e assennata come te non può…»
«Posso. E, lo farò, dovessi anche affrontare tutti voi insieme. Ma lo farò! Ho un conto in sospeso con Eris, non so quale, ma ce l’ho e devo chiuderlo…»
«Tu ci hai appena dichiarato guerra? Come ti permetti, ragazzina?» Interruppe il custode della Quinta, accigliandosi.
Digrignai i denti poi, risposi: «O mi lasci passare o passo lo stesso, io non me ne vado, se hai capito l’antifona taci e ringrazia». Ciò detto lo superai. Non appena gli passai accanto mi agguantò il braccio, allora mi rivoltai come una biscia e cercai di colpirlo con il bastone, ma lui mi bloccò il polso con l’altra mano, stringendo per far cadere l’arma improvvisata, levandomi un gemito di dolore.
«Tu non vai proprio da nessuna parte». Ribadì autorevole.
Milo trattenne rumorosamente il fiato, Shura esclamò: «Aiolia!»
Death Mask; «Ehi, che ti piglia? Giù le mani se ci tieni alla testa!» ciò detto cercò di caricare il Leone ma Milo lo bloccò. «Levami le mani di dosso se non vuoi che te le stacchi!» Ma il Cavaliere di Scorpio non lo ascoltò, anzi, minacciò di usare il Restriction se non se ne fosse rimasto buono. Poi, estese la minaccia anche a me. «Levati dalle palle, non ho voglia di iniziare una Guerra dei Mille Giorni con te, Milo!» Sbottò ancora Death.
Io invece sibilai un «Provaci» che mi fece guadagnare un’occhiataccia da parte del Cavaliere di Leo. 
Ma non avevo paura, perché sapevo di non essere sola. A levarci dalla situazione di stallo, infatti, ci pensarono di nuovo le Creature, le quali si abbassarono per librarsi minacciosamente a pochi centimetri dalla testa dell’idiota che mi ostacolava. Quest’ultimo se ne accorse, spostò lo sguardo su di loro, di nuovo preoccupato e intimorito, anche se solo per un secondo, poi tornò a guardare me.
Anche le altre possibili controversie si risolsero immediatamente con la loro silenziosa minaccia.
Però così non si poteva andare avanti.
Guardai il custode della Quinta dritto negli occhi verdi in cui si riflettevano le fiamme. In quel momento percepii tutte le sue emozioni e le mie labbra si aprirono da sole. E, quando parlai, fu come se stessi recitando una formula magica: «Tu, Cavaliere di animo nobile che ti ergi in difesa dei deboli e dei bisognosi, scendi dal piedistallo e guarda in faccia la realtà; adesso siete voi quelli che hanno bisogno di aiuto. Non farti accecare dall’orgoglio e dal tuo ruolo, questo è quello che posso fare e lo farò, perché è normale ricambiare e farvi capire che anche quelli come me possono proteggere quelli come te. Ficcatelo in quella testaccia dura che ti ritrovi e lasciami andare».
Udendo quelle parole spalancò nuovamente gli occhi e allentò la presa, colpito.
Io mi liberai definitivamente con uno strattone che mi fece gemere di dolore.
Death mosse un passo in sincrono con Milo e Shura credendo che stessi cadendo. Alzai una mano e l’agitai per fargli capire che stavo bene e si fermarono. Poi, mi chinai, raccolsi il bastone e, raddrizzatami, mi sostenni ad esso respirando profondamente per darmi una calmata, prima che un attacco di ansia prendesse il sopravvento.
Avevo già avuto a che fare con la forza di un uomo e non mi era piaciuto. Credevo di averlo dimenticato almeno in parte, ma non era così. Di quella degli Specter ricordavo la violenza e il terrore che mi infuse e, con gli altri, non ci avevo fatto caso. Ma solo perché non avevano mai provato a opporsi con fermezza.
L’espressione del biondo cenerino si fece di nuovo accigliata e furente: «Va bene! Fa come ti pare, ma ricordati che io non ti seguirò!» Mi avvisò quasi urlando. Io pensai che stesse facendo una scenata.
«Non t’ho mai chiesto di seguirmi!» Ribattei allo stesso modo, stupendolo di nuovo.
Death Mask si staccò con uno strattone da Milo e mi seguì mentre gli altri tre restarono indietro a fissarmi strabiliati. «Aspetta!» Sentii chiamarmi da Aiolia.
Mi volsi e lo vidi raggiungerci. Poi usò il proprio Cosmo taumaturgico su di me, approfittando dell’ascendente che avevo sulle Creature. «Questo fermerà il sangue per un po’». Mi spiegò con voce secca e uno sguardo duro come l’acciaio.
Lo ringraziai con un cenno del capo, poi io e i miei accompagnatori riprendemmo l’avanzata. 
Sentii i loro sguardi sulla schiena finché non scomparimmo oltre la soglia della Quinta.
A un tratto, accompagnato dal rumore che credevo producesse un sacchetto di monete tintinnanti, qualcuno ci raggiunse e ci affiancò: era Milo. «Il Gran Sacerdote è ferito e io non sono stato abbastanza rapido da giungere in suo soccorso. Non so cosa sei ma se ci tradisci non esiterò a usare le quindici punture dello Scorpione». Promise per poi trapassarmi con lo sguardo, come se avesse voluto evidenziare la sua promessa. Gli occhi rigati di lacrime per via del fumo che c’era stato fino a quel momento, mentre oltrepassavamo le altre Case ancora devastate dalla lotta e i segni del passaggio delle Creature. 
«Accomodati». Ribattei con voce incolore.
«Non azzardati a resuscitare nessuno!» Si raccomandò Death Mask che, fino a quel momento, non aveva più aperto bocca.
“Questo non posso promettertelo”, pensai, anche se dubitavo fortemente che anche qui si potesse parlare di stelle. Questi avversari, più che da stelle e affini erano sostenuti da ben altra forza che andava oltre le mie capacità e conoscenze.
Improvvisamente una voce conosciuta ci fece trasalire: «Era ora che arrivaste, cominciavo a sentirmi inutile, soprattutto se i Black Saints muoiono così facilmente e se Aphrodite tarda a farsi vedere». E, davanti a noi comparve Lancelot nella sua cloth di Cavaliere del Cancro. Non mi ero ancora abituata all’idea che anche lui fosse un Gold.
Solo allora capii a chi appartenessero i cadaveri anneriti sulle scale e i cocci color ossidiana.
«E, tu cosa ci fai qui?» Intervenne Milo, contrariato.
«Faccio quanto in mio dovere per proteggere Miss Yoshino, che domande. Non preoccupatevi, l’ho portata subito al sicuro non appena è iniziata la battaglia. Astrid! Che bello rivederti, la tua idea ha avuto successo». M’informò poi con il suo solito sorriso maniacale, ignorando le mie ferite e la mia spossatezza per sorridermi con la sua aria beffarda e strafottente al tempo stesso. “Grazie per averlo urlato ai quattro venti”. Pensai fulminandolo con gli occhi mentre Death Mask e Milo voltavano il viso di scatto verso di me. «Cosa?»
«Non ve l’ha detto?» Domandò innocentemente il Cavaliere d’Oro che mi stava aiutando a salire le scale, mentre gli altri due si erano fermati tre gradini prima. Sembrava che le suole delle loro Sacre Vestigia fossero rimaste incollate ai gradini. «Sei stata tu a liberare i Black Saint?» Domandò Death sbigottito.
«Sì, certo». Mormorai mentre li guardavo servendomi dei miei poteri alla ricerca di eventuali costellazioni da risanare. Ne trovai solo tre, però. Le mie dita si illuminarono di nero, mentre, sorretta da Death e Lancelot, risanavo i cadaveri.
Milo fece un passo indietro, sconvolto mentre questi tornavano alla vita. «Li affido a te, Lancelot.» dissi poi, mentre mi allontanavo.
«Conta su di me». Promise mentre i tre si rialzavano e si guardavano attorno, confusi.
Il Cavaliere della Piattola si riprese e ci seguì senza proferire parola, ma lanciandomi diverse occhiate preoccupate. Forse rendendosi conto di quanto fosse effettivamente esteso il mio potere. 
«Ma sei impazzita?» Sbottò poi riprendendo il filo del discorso.
 «E, che problema c’è? Tanto li possiamo rimettere in prigione, no?» Bofonchiò Death.
«Ha infranto la legge ecco che…»
«Non abbiamo tempo! Mi rimprovererete dopo, ora andiamo!» Li zittii e Lancelot mi appoggiò con un «Ben detto!» Urlato da lontano.
Proprio allora ebbi un mancamento e rischiai di cadere all’indietro ma il collega di Death della Quarta (accorso prontamente) mi afferrò «Oh, oh, stai attenta, Astrid». Disse ridanciano e, mi rimise in piedi mentre lottavo per dissipare le tenebre che offuscavano il mio sguardo. "Ma non ti avevo detto di fare altro?" Pensai.
«Smettila, basta così, hai perso troppo sangue!» Esclamò la Piattola. «Dobbiamo riportarti indietro!»
«No!» Obiettai.
«Se continui morirai!» Mi avvisò in pena per me. 
«Io non muoio! Stringetemi le fasciature, invece». Ordinai serrando le dita sul bastone con ancora più forza.
Death Mask serrò la mascella e obbedì dopo essersi scambiato uno sguardo preoccupato con la Piattola. Come se stessero effettivamente temendo che avessi osato troppo.
Anche se potei percepire tutto il loro sconcerto, il loro biasimo e il loro dubbio, non mi lasciai influenzare da loro. “Hanno ragione, Astrid”. Disse la voce del mio amico che veniva a trovarmi tutte le sere. Proprio adesso aveva deciso di farsi risentire? “Torna indietro, questa battaglia non ti riguarda più da tempo”.
“Ma una volta sì, vero?”
L’altro non rispose.
“Non mi fermerò finché non avrò trovato le risposte che mi servono”.
“Non hai bisogno di mettere a repentaglio la tua vita per averle”.
“Allora cosa devo fare?”
“Devi volerlo, devi volerlo ricordare, tutto qui. Per favore, Astrid”, mi supplicò preoccupato, “torna indietro”.
Mi morsi il labbro per soffocare un gemito di sofferenza, mentre prendevo la mia decisione. E, lui la sentì. “Astrid!” Lo sentii urlare poi lo chiusi fuori della mia mente.
Oltrepassammo la Casa di Aphrodite con un balzo.
Anche grazie all’aiuto delle Creature, le rose erano bruciate e la via era libera, ma non potevamo perdere tempo a salire i gradini, né io potevo concentrarmi sui problemi di Aphrodite. Non mentre le Creature si lanciavano verso le fronde dell’albero e cominciavano a incendiarlo. 
Death Mask mi prese in braccio raccomandandosi di tenermi stretta e poi saltammo di roccia in roccia, di rovo in rovo, per arrivare a metà rampa. Tanto avevano capito che potevano usare il proprio Cosmo se c’ero anch’io.
Mentre saltavamo delle radici si sollevarono e ci si scagliarono addosso. Io e Death riuscimmo ad evitarle. Milo venne colpito ma con una serie di capriole riuscì ad ammortizzare la caduta fino ad atterrare di nuovo in piedi. Sospirai di sollievo nel vederlo rialzarsi, infuriato e pronto per fronteggiare il nuovo nemico.
«Dove credete di andare?» Domandò una voce femminile palesandosi all’ingresso della Casa di Atena. Era una donna dalla lunga chioma nera e gli occhi rossi. La pelle candida come uno yogurt messa in risalto da una corazza che sarebbe stato meglio sfoggiare in occasioni più intime. Completo di lungo mantello nero foderato di rosso. A vederla mi sentii a disagio per lei. «Ate! Come è possibile? Dovresti essere morta!» Esclamò Milo e Death Mask mi mise giù.
«Ate? No, io non sono Ate, lei è morta tempo fa, uccisa dall’Eccelsa Madre, io sono nata dalle sue ceneri, mi chiamo Lìmos della Carestia».
Quando la guardai la mia memoria mi restituì un flashback di questa donna altezzosa.
Il corpo del serpente cadde a terra e io urlai il suo nome: «No! No! Snakye, no!» Urlai dimenandomi mentre il mio serpentello veniva ridotto a brandelli dai crudeli fendenti della mia avversaria. Ma i soldati mi tennero ferma e non potei fare altro che piangere e urlare di dolore.
La donna avanzò verso di me e si chinò. Poi mi afferrò per il mento e costrinse il mio volto a guardarla in faccia, strappandomi un gemito di dolore.
«Patetico». Commentò soltanto e io tornai al presente mentre Milo e Death combattevano contro di lei.
Crollai in ginocchio e scoprii il volto rigato di lacrime mentre i ricordi del mio serpentello tornavano alla luce. E, la sua promessa prima di morire: “Non ti lascerò mai, le mie spire saranno sempre avvolte al tuo braccio, il mio spirito, sarà sempre nel tuo cuore e tu sarai nel mio”.
I due Cavalieri finirono al tappeto: «É troppo tardi!» Urlò Ate, trionfante alzando le braccia al cielo. Non si era ancora accorta dell’incendio, tanto era grosso, quest’albero.
I due si rialzarono doloranti. A causa delle ferite e della presenza delle Creature non potevano combattere con tutta la loro vera forza.   
La donna si mise le mani dalle lunghe unghie smaltate sui fianchi scoperti.
«Snakye…» Sussurrai mentre i tre combattevano. E, quella bastarda lo aveva ucciso. Alzai lo sguardo furente e urlai «Ate!» a squarciagola.
La Dryad mi guardò leggermente stupita: «Oh, ce ne è un’altra?» Disse inarcando il sopracciglio. Poi scese i gradini, arrivando davanti a me. Non mi mossi, nonostante le membra tremanti. Un ringhio mi saliva dal profondo della gola.  
«No, Astrid!» Esclamò la Piattola.
«Lasciala stare, vecchia megera!» Urlò Milo sei gradini dopo che li superò. Lei si fermò come se fosse stata una modella che, mentre sfilava, le avessero fatto un gavettone.
«Astrid?» Ripeté confusa. Poi si illuminò e sorrise, affilata e batté le mani una volta sgranando gli occhi rossi: «Astrid. Ma certo, adesso ti riconosco, avrei dovuto capirlo subito, soltanto tu potevi essere capace di tutto questo meraviglioso Chaos». 
E, colmò la distanza tra noi scendendo gli ultimi gradini. In quel momento ero talmente inferocita che sfruttai la somiglianza per vendicarmi ancora di più. La rabbia mi incendiò il petto.
«Tu», sibilai fremendo di rabbia mentre le mie mani si illuminarono di nuovo. Lei mi guardò ancora con quel malefico, splendido sguardo, cui si accompagnava quel sorriso appena accennato sulle labbra rosse come ciliegie.
«Io?» Domandò confusa e curiosa, invitandomi a proseguire.
«Snakye». Sibilai di nuovo e lei mi guardò senza capire: «Il mio serpente, il mio Snakye» le ricordai, furiosa e lei capì e scoppiò in una risatina divertita: «Ce l’hai ancora con noi per quello?» Chiese.
«Astrid!» Urlò Milo.
«Non guardarmi così, quegli occhiacci rovinano il tuo bellissimo viso. E io sto cercando di trattenermi per non toccarti, non voglio rovinare il tuo bello, giovane, volto». Mi consigliò, ma io non smisi di fissarla in cagnesco. Neanche quando cinque Creature si abbassarono e raggiunsero la nostra altezza, disponendosi a cerchio attorno a lei. Due di loro accanto a me. 
Lei percepì il calore e si guardò attorno, improvvisamente impaurita. Poi le Creature tesero una mano in perfetta sincronia e la posarono sulle sue membra, bruciandola viva tra urla di agonia che per me furono come una musica. «Fermali! Fermali! Fermali!» Urlò ma io non li fermai, mi limitai, invece, a fissarla con occhi implacabili. 
Alla fine di lei non rimase nemmeno la cenere.
Le Creature si librarono di nuovo in volo e io salii le scale, raggiungendo la Piattola e Cancer, i quali mi guardarono sbalorditi e intimoriti.
In pochi secondi arrivammo alla Tredicesima Casa. Lì ci separammo; Death Mask andò a salvare i civili e i servi intrappolati mentre Milo si avviò verso la Sala del Trono. Mi intimarono di restare sulla soglia ma non li ascoltai, così, seguii la Piattola, ammonendolo di non contraddirmi con lo sguardo.
La nostra avanzata fu abbastanza veloce grazie all’aiuto delle Creature.
Milo sembrava indeciso se anticiparmi o restarmi al fianco.
Arrivammo alle porte scardinate dalle radici e lì, fu di nuovo come contro Harmonia. Solo che questa volta l’immagine era persino più solida e non sfarfallava.
«Quindi non vuoi proprio dirmi dove avete nascosto la Luce Ombrosa? L’unica cosa che può fortificare l’Utero del giardino dell’Eden?» Domandò una voce maschile. Grazie all’acustica le parole mi arrivarono forti e chiare.
«Non so di cosa parli, cosa è successo all’Albero del Conflitto?»
«Sta marcendo, ecco che cosa sta succedendo, bifolco!» Marcendo? Non mi sembrava. Io e Milo ci scambiammo un’occhiata confusa e, poi, tornammo ad ascoltare.
«Anche Artemide la cerca, vi siete alleati?» Domandò cercando di strappargli qualche informazione in più.
«Allearci? Noi? Con lei? Non dire assurdità, vogliamo solo continuare a vivere, non abbiamo certo intenzione di mescolarci a gente del genere! Speravamo più che altro di indebolirvi mettendovela contro, approfittando della presenza di quelle… come le chiamate? Oh, sì, Creature».
Trattenni il fiato rumorosamente. Ecco il perché della prima Guerra Sacra!
Milo mi pose una mano sulla spalla e mi guardò come a dire: “Tu resta qui”. Sentii chiaramente queste tre parole nella mia testa. 
«Non so cosa sia questa Luce Ombrosa!»
«Mia madre me ne parlò molto tempo fa, è la più alta fonte d’energia e Cosmo esistente sul pianeta. L’unica cosa che permette al Cosmo di essere tale, se la mettessimo nell’Albero del Conflitto, saremmo invincibili e vendicheremo l’affronto subito quarant’anni fa».
«Sei sicuro, Phonos?» Domandò la Piattola, oltrepassando finalmente la porta.
Il Dryad si girò, un sorriso divertito stampato sulla sua faccia. «Oh, chi non muore si rivede, come stai, Scorpio?» Salutò tronfio dall’alto della loro posizione.
Lo Scorpione ricambiò, senza sorridere. «Arrogante come sempre, vedo. Non hai ancora imparato niente dall’ultima volta che ci siamo affrontati?»
A quel punto feci il mio ingresso nella sala e avanzai silenziosamente qualche passo.
«Oh, gentile da parte tua ricordarti di me, ma non ti andrà così bene come quella volta».
Milo fece un piccolo scatto con la testa e alzò una mano, preparando il suo attacco. «Ne sei sicuro? Allora hai dimenticato che gli scorpioni sono i predatori naturali dei ragni. Che peccato, dovrò rinfrescarti la memoria». Ribatté in tono beffardo. 
Battei il bastone a terra e il colpo risuonò nella stanza, facendo girare tutti verso di me. «E, tu che ci fai qui? Ti avevo detto di andartene!» Esclamò Milo, mentre l’altro, cioè Phonos, sorrise: «Ma bene, mi hai portato un regalino. Non dovevi disturbarti Scorpio, anche se mi sembra un po’ malconcio, che cosa le è successo?» 
«Non sono il regalino di nessuno». Sbottai mentre quello stronzo di Scorpio mi urlò di andarmene.
«Vattene tu!» Ribattei.
Avrebbe volentieri usato le sue micidiali punture se non fosse stato per la presenza delle Creature.
Il moro mi fissò come incantato. «Non è possibile, dicevano il vero». Si volse verso di me, gli occhi sanguigni sgranati. «Ma sei solo una fragile ancella! Non è possibile! Siete caduti così in basso da schierare in campo la servitù?»
La Piattola si sentì ferito nell’orgoglio, ma mi urlò lo stesso di restare indietro. 
Per tutta risposta le mani mi si illuminarono di nuovo della luce dei Gold Saint e alzai il bastone. I due mi guardarono confusi. Poi lo abbattei con forza sul pavimento di marmo della Sala dell’Utero. Le crepe si propagarono dal punto in cui avevo colpito la pavimentazione e si allargarono fino a risalire persino le pareti e il colonnato e tutto il palazzo di Eris.
Tutti si guardarono intorno.
Battei il bastone un’altra volta e il Santuario di Eris si polverizzò, lasciando al suo posto la Casa di Atena danneggiata dalle fiamme e dal fumo dell’incendio.
Il Gran Sacerdote, la Saintia, la Piattola e il ragno mi guardarono stupefatti mentre si rendevano conto di ciò che era successo.
«Ha infranto l’incantesimo!» Esclamò la donna in coro con il Patriarca. «Com’è possibile?» domandò poi quest’ultimo. «Come hai fatto?» esclamò invece Milo perdendo il cipiglio minaccioso per guardarsi attorno spaventato. 
Il ragno si accigliò: «Questa luce, questa forza, quest’accento, ragazza, ci siamo già incontrati?»
«Perché non lo dici tu a me?»
Prima che potesse rispondere, il Gran Sacerdote gli lanciò il Fantasma Diabolico. Ma il ragno se ne accorse e lo schivò. Si girò a guardarlo da sopra una spalla con un sorriso di trionfo. Approfittando di quel momento di distrazione, un Black Saint malconcio che non avevo visto prima, si alzò dal pavimento e lo afferrò per la gola, stringendo la presa più che poté. Però, sottovalutò le unghie di Phonos con le quali lo trapassò, uccidendolo.
«Astrid!» Urlò Milo ma le Creature si frapposero tra noi separandoci.
«Porta in salvo gli altri!»
«Astrid!»
«Fa come ti dico!» Sbottai e fui piegata in due da altre fitte. «Vai! Lasciami provare!»
Milo strinse le labbra ma obbedì. «Torno subito», promise e aiutò la Saintia e il Gran Sacerdote a uscire.
Tornai a guardare i due che lottavano. Il Black Saint gli tenne testa per un po’, ma sottovalutò le lunghe, affilate, unghie di Phonos con le quali lo trapassò, uccidendolo.
Strabuzzai gli occhi sussultando.
Il Cavaliere Nero esalò l’ultimo respiro e Phonos se lo tolse di torno, disgustato. «Che seccatura». Commentò soltanto mentre osservavo il tutto sconcertata e, con un urlo incastrato in gola.
Il figlio della Dea della Discordia si volse verso di me e si scostò i capelli dal collo con un sorriso ancora più ampio del precedente. «É un peccato, un vero peccato, sai? Sei veramente una splendida donna». Poi mi leccò la guancia, facendomi rabbrividire. Per tutta risposta gli mollai una bastonata negli attributi che lo piegò in due e mi lasciò libera. Rialzò la testa per guardarmi, dolorante e sibilare qualcosa ma me lo tolsi definitivamente di torno piantandogli il medio sulla fronte e spingendolo indietro.  
Solo allora si accorse delle Creature. 
«Cosa sono? Cosa fanno?» Domandò spaventato, nel vederle incendiare l’Albero del Conflitto. Aveva provato a fermarle scagliando contro di loro il suo veleno e le sue ragnatele ma, così facendo, ottenne soltanto di attirare la loro attenzione. Infatti, quelle si avviarono lentamente verso di loro con la flemma che li contraddistingueva. 
«Non ti avvicinare! Fermati! Guardami!» Urlò Phonos alle Creature. «Non ho ancora finito con te!» Ribatté e, cercò di colpirmi con i suoi artigli velenosi. Non ci riuscì perché le Creature, attirate dalla preda ben più appetibile che era, tesero le mani verso di lui.
Distolsi il volto, serrando gli occhi. Sentii solo il suo ultimo grido mentre mi dirigevo verso ciò che restava del Santuario di Eris.
L’Albero del Conflitto.
Ai miei piedi giacevano dei corpi carbonizzati e altre Creature mi scivolavano attorno. Pezzi di albero infuocati che cadevano intorno a me come un’inquietante, pericolosa pioggia.
La Dea era una sfera di luce circondata dalle radici dell’albero che si innalzavano a formarne il tronco. Anche se non aveva occhi, sentivo che mi guardava ed era inquietante: era come essere fissati da un teschio.
Un brivido di terrore risalì la mia schiena e per poco non vacillai. Ma con l’aiuto del bastone mi ressi in piedi.
Proprio in quel momento la voce della Dea mi parlò: «Maledetta! Come osi farmi questo? Come osi distruggermi? Tu, insulsa, corruttibile umana! Tu… Tu! Sei tu! Ti ho trovata! E, così, saresti tu la fautrice di cotanta bellezza? Oh, è una notizia meravigliosa, in te sento tanto Chaos e tanto desiderio, nutrimento per me, ancora più di quanto immaginassi, sei una meraviglia della Natura, una gemma da aggiungere alla mia collezione».
La luce si affievolì e mi mostrò il contenuto della sfera. Ecco perché avevo avuto la sensazione di essere scrutata: c’era una donna al suo interno. «Tu sei Eris?» Domandai con un misto di incerta curiosità e disgusto, guardando la donna dalla lunga chioma e le ali piumate scuse sospesa dentro la bolla. Ebbi un flash di Alien.
Poi cominciai a tossire e gli occhi lacrimarono di nuovo per via del fumo.
«In persona, bambina, sto parlando direttamente alla tua coscienza, per questo mi senti. Perché hai rifiutato la salvezza offertati? Sei ferita gravemente, non ti resta ancora molto da vivere». M’informò, con tono di materna preoccupazione che mi sorprese. Come poteva una Dea tanto spietata sfoggiare un tono così premuroso? No, non poteva, era una finta, come i sorrisi le parole mielose di Aphrodite. Opposi i ricordi di Aphrodite a quella voce e l’effetto delle parole della donna si attenuò di molto.
«Rispondi alle mie domande e io risponderò alle tue». Negoziai tossendo. La voce tacque e io continuai: «É vero che ci siamo già incontrate?»
«Sì».
«Perché i tuoi figli mi attaccarono, da piccola? Cosa volevano farmi?»
«All’inizio non eri tu il nostro bersaglio, ma era l’uomo accanto a te. Credevamo che fosse lui la fonte del potere che percepivamo. Una sola goccia di quel Cosmo mi avrebbe rinvigorita per millenni. Volevano reclutarlo tra le nostre fila, tesoro mio. Sfruttare al meglio quel suo meraviglioso potere, ma i tu e i tuoi amici vi metteste in mezzo. E fu allora che capimmo che eri tu e non lui. Il tuo amico si offrì di passare dalla nostra parte e di lasciarti libera. Accettammo, ma per poco non ti uccisero nello scontro che ne era venuto. Tu per ripicca uccidesti metà del drappello che fu inviato a prenderti. La prima volta. La seconda mandammo direttamente i Phantom, oltre che ai miei figli». Ed erano quelle che ricordavo. Sì, stava dicendo la verità.    
«Perché avrebbero dovuto?»
«Perché ti mettesti in mezzo, solo dopo capimmo che il nostro bersaglio eri tu».
“Snakye…” Pensai.  Poi domandai: «Che fine ha fatto lui?»
«Ci ha dato la caccia fino a ora per sterminarci e poi, a un tratto è scomparso. Ci ha mentito e, così, siamo tornati a cercare te. Pensavamo che mettendoti in pericolo sarebbe accorso un’altra volta a salvarti». Rispose. «Non avevamo calcolato la presenza di quei due fastidiosi insetti dorati».
«Quindi, quei tre che mi hanno aggredita quasi mesi fa non erano Specter?»
«Oh, sì che lo erano. Non eravamo mica gli unici a cercarti ma, mentre loro ti hanno scelta come bersaglio per farli uscire allo scoperto, noi ne abbiamo solo approfittato per seguire lo sviluppo degli eventi».
«Sempre per via delle Creature?»
«Esatto. A pensarci adesso, forse avremmo dovuto concentrarci esclusivamente su di te, invece che su di lui. Dopotutto sei giovane ma prometti molto bene».
«Scusami tanto allora, se a me non interessa». Chiusi gli occhi mentre mi preparavo ad alzare il braccio per indicare la via alle Creature. 
«Che vuoi fare?» Domandò la voce, perdendo tutto il tono sorridente con cui aveva parlato finora.
«Astrid, maledetta, lo sapevo che non dovevo fidarmi di te!» Urlò la voce di Aiolia, spaventandomi. Sussultai riaprendo le palpebre, mi girai verso di lui e strabuzzai gli occhi. Urlai di rimando «Vi avevo detto di andare via!» mentre le Creature volteggiavano prima di scagliarsi addosso a pezzi di legno che tentava ancora di ribellarsi.
«Brucia, mio Cosmo!» Urlò invece l’altro, con occhi spiritati e mi si scagliò addosso per colpirmi. Nello stesso momento l’Albero del Conflitto cercò di attentare alla vita del fratello minore di Aiolos. Ikki lanciò le Ali della Fenice per distruggerlo ma l’Albero deviò il colpo verso Aiolia. Forse in virtù dell’adrenalina, riuscii a vedere tutto questo e afferrarlo. Sfruttando il suo slancio lo girai e lo protessi con il mio corpo, prendendomi le Ali della Fenice sulle scapole. Liberai un urlo di dolore agghiacciante mentre cadevo a terra e Aiolia finiva sbalzato più in là.
Caddi sulla pancia con la schiena e i muscoli in fiamme, piangendo di dolore. Le lacrime uscivano copiose dai miei occhi sigillati. Non osai neanche provare a mettermi una mano dietro la schiena per toccarmi le ferite. In quel momento sentii tutta la spossatezza e la stanchezza piombare su di me come un blocco di cemento su un pezzo di legno.
Aprii gli occhi soffiando tra i denti e vidi le Sacre Vestigia del Leone fronteggiare il loro proprietario nella loro forma leonina. Li sgranai e alzai la testa. Il vestito e le fasce bruciate che mi pendevano dal corpo perché danneggiate proprio all’attaccatura delle spalline. Spostandomi sul fianco me le strinsi al petto sia per coprirmi sia per fermare l’emorragia. 
Non sapevo che le Armature d’Oro potessero fare una cosa come quella.
Incrociai i suoi occhi verdi scuri colmi di odio e di rabbia.
Ikki urlò di nuovo: «Aiolia aspetta, stai prendendo un granchio!»
Il Cavaliere d’Oro cercò di caricarmi.
Lanciai un gemito di dolore e cercai di ripararmi con l’altro braccio. Ma il colpo non arrivò.
«No, non posso colpire una persona che non è nemmeno in grado di difendersi». Lo sentii dire. Lo guardai e vidi che aveva abbassato il braccio.
Proprio in quel momento le Creature calarono su di lui con un’elegante giravolta.
«Aiolia!» Urlai e l’Armatura si lanciò in soccorso del suo padrone, avvolgendolo nuovamente.
Con uno sforzo sovrumano mi alzai anch’io e mi gettai addosso a lui, facendogli da scudo con il mio corpo ferito appiccicoso di sangue.
Le Creature ripresero quota immediatamente, allontanandosi.
Aiolia barcollò ma non cascò mentre io mi aggrappai a lui per reggermi in piedi, soffiando di nuovo tra i denti.       
Con le mie ultime forze alzai la testa verso l’Albero che continuava a urlare e contorcersi nel tentativo di liberarsi dalle Creature.
Mi separai dal Cavaliere e, barcollando, avanzai verso la pianta, ignorando i richiami di tutti gli altri e le vesti pendenti sul mio corpo ferito.
Le Creature mi seguirono e si lanciarono nel cuore del tronco, esattamente nell’Utero. La donna dalle ali nere al suo interno prese a urlare a squarciagola e a dimenarsi: «Spegnile! Spegnile! Spegnile!» Le fiamme persistettero e lo spirito nell’Albero cambiò registro. «Spegnile, ti prego! Astrid!»
A quel punto la vista cominciò ad offuscarsi e caddi bocconi a terra.
Le Creature appiccarono altre fiamme, facendo ululare di dolore l’Albero e la Dea al suo interno.
Crollai sdraiata sul fianco, gemendo di dolore e boccheggiando, cercando di tapparmi le ferite con le mani.
Proprio allora, parte dell’Albero e del soffitto crollarono.
Solo allora le Creature se ne andarono davvero, innalzandosi verso il cielo.
Le fiamme furono tagliate da un lampo e poi sentii Aiolia urlare i nostri nomi. Qualcuno mi prese in braccio. Poi chiusi gli occhi.
Sentii solo una forte raffica di vento e poi, ebbi la sensazione di cadere.
Percepii il tonfo dei piedi del mio salvatore atterrare su un acciottolato che si crepò e scivolò, facendolo barcollare ma riprese subito l’equilibrio aggiustando la presa su di me per non farmi cadere.
A questo rumore a cui ne seguirono altri.
Udii dei profondi colpi di tosse.
Con le ultime forze sollevai le palpebre quel tanto che bastò per vedere ed ebbi la visione del Tredicesimo Tempio crollare tra le fiamme. Il fumo dell’incendio si sollevava alto nel cielo ormai arrossato dalle fiamme, poi non ce la feci più e persi conoscenza.     

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Chrysos Synaigen ***


Chrysos Synaigen


Shura
Shun e gli altri medici avevano organizzato a tempo di record degli ospedali da campo di emergenza, dove, con l’aiuto dei superstiti, medicarono i feriti.
Anche Aeson di Crateris, il Silver Saint della Coppa, si era attivato immediatamente per aiutare quante più persone possibili con l’acqua miracolosa della sua Armatura. Si diceva che l’acqua della Coppa avesse proprietà curative e profetiche. Secondo una leggenda gli stessi Shion e Doko, due secoli e mezzo addietro, avevano potuto vedere il proprio futuro in quell’acqua. Fortuna che Hades lo aveva purificato dall’influsso di Eris e, riportato in vita dopo che perse la moglie Olivia, l’ex leader delle Saintia.  
Eri riuscito ad arrivare da Aeson, che si era accampato in mezzo a Rodorio, ma era così impegnato a curare tante persone, che non c’era tempo per aiutare anche voi due, così eri corso a cercare Shun. E, lo avevi trovato alla Sesta.
Avevi la vista a pallini e lottavi con tutto te stesso per non svenire mentre l’adrenalina cominciava a scemare, assieme al tuo Cosmo. Cercare di sostenere te stesso e la ragazza ferita che stringevi tra le braccia era un’impresa quasi titanica. Anche perché, ti accorgesti, che il tuo Cosmo non era sufficiente. E, non perché eri stanco, ma perché lei stessa sembrava succhiare la tua energia con la stessa voracità di un neonato che succhia il seno della madre. E, sarebbe stata anche una bella immagine, se non fosse che, in qualche modo, ti sembrava anche che non ti volesse lasciar andare, ricordandoti improvvisamente un vampiro. Più la guardavi, perché spesso l’avevi guardata per accertarti che la sua pelle stesse riprendendo colore, più la vedevi bianca e fredda.   
Chiamasti aiuto non appena varcasti la soglia della Sesta, che, non si sa per quale motivo, fosse ancora in piedi.
«Nobile Shura! Che è successo?» Ti chiamò allarmato un servitore, munito di un kit di pronto soccorso, correndoti incontro. «Venite! Venite». Ti fece, posandoti una mano sulla spalla e guidandoti verso un cantuccio libero, ti fece mettere seduto e ti visitò e ti fece una fasciatura d’emergenza alla testa, ignorando le tue proteste. «No, curate prima lei, sta morendo».
«Che le è successo?»
Glielo dicesti e quello sgranò gli occhi: «Continui a infonderle la sua energia, allerto immediatamente il Cavaliere di Virgo». Dichiarò, poi corse via, facendo lo slalom tra feriti e dottori che infestavano il corridoio di passaggio e altre zone della Sesta.
Sperasti che facesse in fretta.
Proprio allora sentisti una serie di colpi di tosse vicini a te. Girasti il viso in quella direzione e vedesti Aiolia, su una barella, riprendere conoscenza mentre un paio di medici gli ricucivano una ferita sul braccio. «Aiolia!» Esclamasti sorpreso ma anche contento di saperlo vivo. Non avevi mai dubitato di lui, ma era comunque piacevole sapere che eravate usciti vivi entrambi da questa battaglia.  
«Shura!» Esclamò a sua volta e si accorse di quello che stava succedendo.
I medici gli intimarono di non muoversi, che avevano quasi finito. Lui chiese spiegazioni e uno gli rispose che era stato portato lì dal Cavaliere di Phoenix.
Poi vide anche il fagotto tra le tue braccia. Il biondo ti guardò dapprima dubbioso e poi infuriato. Come osavi frapporti tra lui e il suo obiettivo? Non poteva saperlo perché era svenuto a causa dell’inalazione dei fumi dell’incendio nella Sala del Trono.
Ti domandasti quanto ci volesse prima che quel servo tornasse. Stavi ancora cercando di tenere in vita Astrid, ancora tra le tue braccia per mancanza di giacigli e barelle. E, il pavimento non ti era parso affatto il luogo più igienico dove lasciarla. Erano infatti, finite le barelle.
Anche se c’era da dire che anche il tuo mantello affumicato sui bordi e sporco di fuliggine, con il quale l’avevi avvolta, non era esattamente l’ultimo grido in fatto di igiene. Sempre meglio del pavimento.
Inoltre, se avessi smesso di infonderle la tua energia e di tamponarle le ferite con la tua forza, sarebbe morta davvero. Tu avevi già combattuto contro una mummia dotata del potere del fuoco, ma eri addestrato per questo e sapevi come schivare le fiamme. Lei no.
A peggiorare la situazione c’era che sapevi che, così facendo, in realtà, le stavi prolungando l’agonia. Non era mai una buona idea tamponare delle ustioni, specie se gravi come le sue. Ma non avevi altra scelta, era inevitabile. 
Se tu fossi stato più ligio agli insegnamenti del bushido di Izo l’avresti aiutata a fare harakiri. Peccato che le idee di ucciderla e aiutarsi a uccidersi le aborrivi completamente. Qualcosa dentro di te ti urlava di non farlo e, non si trattava di senso del dovere. 
Il vostro compagno, ancora infilato nell’Armatura di Leo, si era sporto e aveva allungato una mano verso di lei contratta come per ghermirla, delirando «É corrotta è corrotta». Come se fosse stato sufficiente per spiegare tutto, anche quegli occhi spiritati che si ritrovava e la rabbia con cui proferiva quelle parole. 
«Aiolia!» Esclamasti tra il confuso e l’indignato. Di cosa stava parlando? Che cercava di fare? Perché non si accorgeva che era ferita? Lui che si era sempre preoccupato di avere scontri leali.
«Non vedi che è ferita?»
«Sì! Ma è anche una Ghost Saint!»
«Se vuoi scontrarti con lei falla almeno curare! Non può sostenere uno scontro diretto con un Cavaliere d’Oro, ricordi?»
Fortunatamente questo bastò per farlo tornare in sé. Ti guardò spiazzato, come a chiederti se fossi veramente tu. Poi ribatté, «Sbattila in gattabuia finché non si riprenderà, allora!» In quanto Ghost Saint poteva sfidarla senza problemi, peccato soltanto che lei non fosse mai diventata una servitrice di Eris. Ma in quel momento pensasti che fosse meglio dargli corda. 
«Sì, magari dopo, eh?» Poi l’allontanasti ulteriormente con una lieve torsione del busto. A quel gesto sgranò gli occhi verdi e ti guardò confuso. Poi, un lampo di comprensione passò nei suoi occhi e ricominciò a urlare, come un ossesso: «Shura, lasciala! È corrotta!» E, tu che speravi che avesse capito, invece, quel tontolone aveva capito fischi per fiaschi un’altra volta.
Proprio in quel momento tornò il servo di prima seguito a ruota dall’erede di Aiolia, che lo riprese: «Cosa farnetichi, Aiolia!»
 Il Leone continuò mentre mulinava la mano a vuoto ghermendo l’aria nel tentativo di prenderla. «Vi dico che è corrotta! É corrotta!» Urlò e ti sembrò quasi indemoniato mentre Ikki lo tratteneva e cercava di farlo tornare in sé e tu, affidavi Astrid alla cura del servo e degli altri medici. «Siamo pronti per operarla». Aveva detto come a convincerti a lasciargliela e, tu l’avevi fatto.
Solo allora ti liberasti della Gold Cloth con quel po’ di Cosmo che ti restava e rispedendola, sempre con lo stesso mezzo, alla tua Casa.  
Mezz’ora dopo il servo tornò da te, mentre Shun e altri chirurghi si occupavano di Astrid. «Fortunatamente», decretò il servo, «avete solo riportato qualche frattura e una lieve intossicazione da monossido di carbonio. Purtroppo però la dobbiamo operare lo stesso perché le fratture non sono composte e rischiate che le ossa si aggiustino male». Ti aveva avvisato. Forse questo servo non era veramente un servo, per aver buttato lì una diagnosi esatta dopo solo una fasciatura di emergenza. «Va bene, sai a che punto è Aeson di Crateris?» Gli domandasti.
«No, ma se serve, posso mandare qualcuno a chiamarlo per voi».
«No, grazie, non è necessario». 
Il resto era un po’ confuso. Ma eri quasi sicuro che, a causa della stanchezza e della forza che avevi infuso ad Astrid, avessi perso i sensi.
Ti eri svegliato qualche ora dopo nel letto della tua Casa a fissare la polvere illuminata dai raggi del sole che danzava a mezz’aria di fronte al tuo sguardo.
«Ben svegliato padrone». Ti aveva salutato il nipote di Dino comparendo nella tua visuale.
«Makis?» Avevi tentato, incerto.
«Quasi, Makarios». Ti aveva corretto con un sorriso che mise in mostra il suo apparecchio. Poi era tornato serio e ti aveva domandato come ti sentissi.
Invece di rispondere, avevi chiesto notizie di Astrid.
Il ragazzo dai capelli mossi ti rispose che Shun era riuscito a ricucire le ferite della sua collega e che aveva reperito Milo per una trasfusione d’emergenza. E, che si era scatenato un mezzo bisticcio con Aphrodite per la donazione di sangue. Litigio che Shun aveva sedato ricordandogli che il veleno di Milo stava solo nella Cuspide, non nel sangue. Lo stesso Milo aveva confermato e aveva donato il sangue. Disse anche di aver sentito dire che tu stesso, anche nell’incoscienza, non avevi mai smesso di infonderle la tua forza e che, a un tratto, lei stessa te l’avesse restituita, creando una sorta di vaso comunicante energetico.
Poteva essere un problema, ma fintanto che restava in vita, avresti procrastinato volentieri.
La notizia peggiore però fu quando lui t’informò timidamente, che buona parte dei Bronze e dei Silver che militavano prima del vostro ritorno erano stati trucidati senza pietà. Si era salvato solo Kouga di Pegasus, il figlio adottivo della Divina. Questa non ci voleva per il Grande tempio. Inoltre non avevate più notizie dei Saint mandati in missione da mesi.
«Scusate, signore, dovrei mettervi seduto e lavarvi». Ti avvisò il ragazzo, le guance rosse per l’imbarazzo, riportandoti alla realtà. Annuisti e ti lasciasti prendere per le ascelle e sollevare un po’, poi ti svolse le bende e ti lavò con un panno bagnato le ferite. 
Lo lasciasti fare, dal momento che avevi un braccio fuori uso e che, in quel momento, si stava occupando di quello ancora integro.
Occupasti il tempo cercando di riflettere. In effetti sentivi una forza diversa circolare dentro di te, attraverso la tua costellazione. Giusto! La costellazione! Ecco cosa ti aveva impedito di onorare gli insegnamenti di Izo. La tua costellazione da un lato aveva pensato di usarle quella misericordia estrema che non avevi mai usato per nessuno. Ma dall’altro si era bloccata, anche grazie al tuo buon senso. Eri una brava persona, non un assassino seriale, tu. Non avresti sopportato di sporcarti le mani del sangue di colei che vi aveva salvato.   
Non ti intendevi di oroscopi e, sinceramente, non credevi nelle stelle e nell’influenza degli astri, però ti domandasti che cosa fosse stata quell’ondata di disperazione e sentimenti positivi che ti aveva invaso quando l’avevi tratta in salvo. Eri sicuro che non si trattasse del tuo demone e neanche di te stesso. Sapevi riconoscere le tue emozioni con una lucidità e una freddezza impressionanti, ma questo sembrava provenire da oltre te ancora. Come se le stelle del Capricorno, attraverso di te, avessero manifestato la volontà di volerla salvare a tutti i costi, valutando più mezzi possibili.   
Ti domandasti se anche Death Mask e Aphrodite avessero provato la stessa cosa quando la salvarono la prima volta.
Poi, tornasti a pensare a Milo. “Interessante, devo chiedergli se sia riuscito a comprendere qualcosa di lei”, pensasti. Lo conoscevi abbastanza per fidarti delle sue capacità analitiche, di certo superiori alle tue, che comprendevi e conoscevi i tuoi avversari durante i combattimenti. Però chissà se anche lui era giunto alle tue stesse conclusioni? Doveva essere sicuramente riuscito ad analizzarla un po’ meglio, anche se non doveva essere stato facile considerando la mancanza di quella componente guerriera che riconoscevate nei vostri avversari.
«Tu sei andato a trovarla?» Domandasti mentre Makarios ti lavava le ferite sulla schiena.
«Sì, prima di venire qui». Fece con voce incolore e i suoi occhi si velarono come se stesse ricordando qualcosa di spiacevole. Erano tanto gravi le sue condizioni, da spaventare persino questo ragazzino? 
«E, come ti è sembrata?»
«Fragile e pallida, sembra quasi un cadavere, avvolta com’è in quelle bende». Raccontò con voce sottile, quasi avesse timore di parlarne.
«Capisco».
Stavolta tu avevi qualche vertebra fuori posto, una lesione al midollo spinale e una cerebrale che Aphrodite aveva risanato con gli ultimi boccioli di rose sopravvissuti, assieme alle cure congiunte di Shun e, qualche cicatrice in più da ustione su collo e braccia, nei punti scoperti delle Cloth.  «Le lesioni alla colonna vertebrale e al midollo spinale te le ripariamo così per mancanza di tempo». Aveva decretato Shun, che, una volta tolta l’Armatura, che ti aveva sostenuto fino a quel momento, aveva riconosciuto tutti i sintomi «tutte le altre dovrai fartele guarire da solo».
«Mi sta bene». Avevi detto, prima che la tortura cominciasse.
Smettesti di pensarci. 
Almeno stavolta non ti avevano colpito agli occhi, dovevi ancora fare le operazioni per il nuovo innesto del cristallino di entrambi gli occhi, che avevi perduto in un vecchio scontro. Per questo portavi gli occhiali, non solo per addolcire il tuo sguardo, spesso troppo diretto e troppo fiero.
Settimane che voi che avevate trascorso nei vostri letti nelle Case ancora in piedi per riprendervi dalle ferite, sperando che le precedenti non si fossero aggravate. Perché non eravate guariti completamente da quelle dello scontro con Artemide. Il Cosmo vi aveva rimessi in piedi in fretta, ma il corpo necessitava lo stesso un periodo di riposo per recuperare appieno. Il lato negativo di questo potere taumaturgico era che accelerava sì la guarigione, ma le cellule continuavano a percepire il dolore come se le ferite fossero ancora lì. Per questo venivate trattati come infermi a tutti gli effetti. Avevate sopportato di peggio nelle vostre vite, ma due Guerre Sacre una dietro l’altra, eh, sì, Eris si era fatta furba. Avevate davvero temuto di essere spacciati. Persino tu, che non ti spaventavi tanto facilmente. Ma questo era tutto quello che sapevi. Per evitare di stressarti, sembrava che tutti avessero deciso di non riferirti cosa accadesse al di fuori delle mura della tua Casa. E, sì, che l’avresti preferito, piuttosto che pensare ai tuoi problemi. Compreso quello che da un po’ ti impediva di dormire tranquillamente. Non era facile convivere con quel vaso comunicante energetico che si era stabilito tra te e Astrid. Sentivi sulla tua carne tutto ciò che provava lei a causa delle sue ferite. Non sapevi neanche tu come riuscivi a sopportare tutto questo e al tempo stesso a sforzarti di parlare normalmente con i tuoi interlocutori, quando qualcuno ti veniva a trovare o i tuoi servi ti assistevano. Cosa ancora più difficile a causa delle continue anestesie cui era sottoposta e, che ti intontivano persino di più di tutti gli anticoagulanti e tutte le medicine che avevi in circolo.
Nel giro della prima settimana avevate subito sei operazioni, buona parte solo per l’ustione di quarto grado sulle sue scapole. Ormai potevi quasi parlarne al plurale. E, a causa di queste sensazioni, anche i tuoi sogni erano influenzati. In questo caso, sognasti il cielo stellato. Riconoscesti la Costellazione della Coppa e, la vedesti sbiadire, come se le sue stelle si stessero affievolendo, come fiori che appassiscono sotto i raggi del Sole.
Ti svegliasti di soprassalto, madido di sudore, girato sulla pancia e, non potesti fare altro che restare ad ascoltare quel pianto silenzioso cui la ragazza, si lasciava andare. Non potevi neanche confortarla perché quel vaso comunicante funzionava solo per le vostre energie e nient’altro.  
A causa di quelle sensazioni, non ti era nemmeno difficile immaginare in che posizione dovesse essere costretta e quanto dolore provasse. Perché spesso, la ragazza si svegliava nel bel mezzo della notte e piangeva perché non sentiva più niente sulla schiena e, perché, probabilmente, neanche Aeson sarebbe mai riuscito a fare qualcosa. Le sue ferite erano troppo gravi e abbastanza estese, le probabilità che sopravvivesse erano veramente scarse e, questo, ti impensieriva.    
Una sera di sei giorni dopo, che faticavi a prendere sonno, improvvisamente, avvertisti una spessa onda di energia curativa infilarsi dentro di lei come una lama di luce, a cui rispose la sua che, si tese verso questo fiotto e si mescolò ad essa per esplodere ed espandersi quasi con violenza.
Quest’onda d’urto spazzò via il vaso comunicante e la tua energia tornò a essere solo tua. L’unico dolore che percepivi, al di là dello sconcerto, fu solo quello delle tue sole ferite, di gran lunga più sopportabile delle sue. 
Ti girasti supino facendo attenzione a non farti del male. «Che cos’ è successo?» Domandasti a te stesso guardando il soffitto. Non poteva essere morta. Tu avevi subito sulla tua pelle la morte. Sapevi e ricordavi ancora che si provasse, per questo dicevi che quella non era una morte. Dove aveva trovato tutta quell’energia? Che fosse già insita in lei stessa? Era possibile? Ma un simile miracolo poteva operarlo un Cavaliere, non una persona normale. 
L’indomani chiedesti spiegazioni a Makarios, che venne per quello che ormai era diventato quasi un rituale e, rimase molto sorpreso nel vedere il tuo palese miglioramento. Eri riuscito, infatti, a metterti seduto e vestirti da solo.
«Nobile Shura ma questo, questo è un miracolo!» Aveva balbettato sconvolto sgranando gli occhi azzurri, vedendoti.
Concordasti con lui, anche se non mostrasti affatto il tuo stupore.
Fino a quel momento non avevi mai pensato che forse la causa del rallentamento della tua guarigione, fosse proprio quel vaso che non c’era più. Chiedesti informazioni al giovane che ti accompagnò in cucina e ti preparò la colazione. «Sei andato a trovare Astrid?» Gli domandasti, come oramai tutte le mattine.
«No, non ancora, a causa dei lavori è franata parte della scalinata tra la quinta e la sesta e quella zona è stata resa inagibile».
«Io non ho sentito niente, quando è successo?»
«Stanotte, verso le tre mezzo, le quattro, circa, dovete avere il sonno molto pesante per non esservene accorto». Scherzò. In effetti dopo che non l’avevi più sentita ti eri addormentato quasi istantaneamente. «Perdonate, non volevo offendervi». Si corresse poi il giovane, subito dopo, mentre ti serviva.
«Non fa niente». 
Cominciasti a mangiare. A un tratto dicesti al ragazzo di mandarti su Shun.
Il giovane eseguì e, tornò da te dopo tre ore, scusandosi dicendo che il Cavaliere di Virgo si era liberato solo in quel momento.
Il tuo compagno d’arme esibiva due borse sotto gli occhi e aveva l’aria di uno che non toccava il letto da giorni. «Scusa il ritardo, ho dovuto lavorare finora. Mi volevi vedere… Shura!» Esordì mutando la domanda in un’esclamazione, quando si accorse che stavi in piedi sulle tue gambe. «Cosa, come è possibile? Sapevo che eri inchiodato al letto!»
«Lo credevo anch’io e invece eccomi in piedi. Ascolta, per caso è successo qualcosa con Astrid?»
Lui ti guardò stupito da questa domanda. «Cosa? Astrid? Perché me lo chiedi?»
«Siediti, ti spiegherò». Gli dicesti. Lui obbedì, prendendo posto sulla sedia più vicina al tavolo e tu lo imitasti sedendoti dall’altra parte.
Makarios servì da bere al tuo ospite poi uscì raccomandandosi di chiamarlo, lasciandovi parlare in pace.
A fine del racconto i suoi occhi azzurri, se possibile, erano ancora più sgranati di prima. «Non dovrei parlarne per via del rapporto professionale tra medico e paziente, ma dopo questo, penso che sia giusto che tu sappia. Sì, è successo qualcosa ad Astrid. Stamani dovevamo operarla di nuovo per le ustioni sulla parte superiore della schiena ma, quando sono andato a prenderla, le sue ustioni erano migliorate nel giro di una notte. Che tu ci creda o no, adesso sulle sue scapole c’è solo un’ustione di primo grado e, anche le altre sue ferite sono quasi guarite».
“Ecco cosa le è successo”. Pensasti. «Quindi è fuori pericolo, adesso?» Domandasti.
«Non è niente di certo, anche le ustioni di primo grado possono essere molto pericolose, perché non si sa quanto siano effettivamente estese sotto la pelle. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere rimasta lo stesso molto profonda. Anche se Astrid adesso ci garantisce di percepire di nuovo tutto, sulla schiena».    
«Tu pensi che menta?»
«No, ma penso che sia anormale». Confessò. Poi si affrettò ad aggiungere: «Non fraintendermi, sono contento di saperla fuori pericolo, anche se la terrò sotto osservazione ancora a lungo, ma, non è normale che una persona guarisca così da sola da un giorno all’altro».
«Non credo che abbia fatto tutto da sola. Ho sentito che qualcuno l’ha aiutata a guarire».
«Qualcuno? Intendi Aiolia?» Ti chiese, sconvolto mentre stringeva il bicchiere di succo d’arancia che Makarios gli aveva servito poco prima.
«No, non mi sembrava il Cosmo di Aiolia e neanche quello di Aphrodite». 
«No? E, allora di chi?»
«Non lo so. So che per un momento, mi è parso che Astrid avesse manifestato lo stesso tipo di Cosmo curativo della persona che l’ha curata».
«Un tocco taumaturgico superiore a quello di Aiolia?» Domandò stupefatto il medico chirurgo.
«É probabile».    
«Ma al Santuario l’unica persona che può operare un miracolo come questo è solo Lady Isabel».
«Però non abbiamo avvertito il suo Cosmo divino, dico bene?» Dicesti tu, cercando di mascherare l’incertezza delle tue parole dietro al sospetto. E, per fortuna, Shun parve non accorgersene.
«Sì e non mi risulta di aver percepito il suo Cosmo ieri sera».
Ma se non era stata la vostra Dea e, se fino a poche ore prima, Astrid aveva fatto leva sul tuo Cosmo per sopravvivere, fino a quell’intervento esterno allora…  Vi guardaste entrambi e nei suoi occhi vedesti la tua stessa conclusione.
«Vado ad avvertire le guardie!» Dichiarò Shun balzando in piedi. «Grazie per l’aranciata, tornerò a trovarti appena avrò un momento libero». Promise uscendo rapidamente.

Erano passate tre settimane dalla battaglia.
Stavi ascoltando Astronomy domine dei Pink Floyd. Tenevi gli occhi chiusi, sdraiato sul letto in camera tua. Le braccia e il collo fasciati alla stregua di una strana mummia.  
Poche volte ti concedevi di ascoltare un po’ di musica. Al Santuario era raro sentire della musica risuonare lungo la scalinata delle Dodici Case, ma quella mattina ne avevi avuto voglia per ammazzare il tempo in modo diverso. Quindi, con la mano ancora intera, eri riuscito a sistemarti gli auricolari dell’mp3 e, trasportato dalle melodie che si susseguivano, avevi chiuso gli occhi e lasciato vagare la mente. Una delle rare volte che ti concedevi questo svago.  
Sospirasti e affondasti di nuovo la testa sul cuscino, guardando il soffitto.
Il Tempio del Capricorno si teneva in piedi proprio per miracolo e, forse, anche grazie al tuo stesso Cosmo. Che i Templi cambiavano in base a ciò che i loro proprietari desideravano. Ciò che ti impensieriva di più era proprio il gruppo statuario e i danni strutturali subiti, nonché la presenza delle radici che civili e servitori dabbasso, stavano cominciando a togliere. 
Girasti la testa di modo che la tua guancia fosse poggiata sul cuscino.
Ma, il tuo miglioramento era stato solo momentaneo. Il resto di quelle settimane, mentre i soldati pattugliavano il Santuario e Rodorio alla ricerca dell’intruso, le avevi passato inchiodato al letto a causa della febbre. Purtroppo ti eri beccato anche quella a causa di un’infezione. Avevano aspettato troppo per curarti e che il vaso comunicante, fino a quel momento, aveva bloccato. Meno male che ci pensò Aeson, che, finalmente, riuscì a venire a trovarti per darti la sua acqua sacra. Così le fratture, l’infezione e la febbre migliorarono. Eppure, avevi sentito dire che la sua acqua riusciva a guarire ogni malattia e ferita, che persino Mayura della Costellazione del Pavone, fosse sopravvissuta a quel modo, molti anni prima. Ma allora, perché l’acqua della Coppa si era limitata a migliorare le tue condizioni e basta? Che fosse ancora per il vaso comunicante energetico? Non poteva essere, era scomparso. Chiedesti spiegazioni al Silver Saint ma neppure questi riuscì a darti una risposta soddisfacente.     
Makis e Makarios si alternavano a portarti i pasti, cambiarti le bende, aiutarti a lavarti e aiutarti a raggiungere il bagno. Anche se, per sfortuna, le radici avevano danneggiato l’impianto idraulico e non ti arrivava più l’acqua in Casa. Fortuna che neanche questo scoraggiò i due ragazzi e che trovarono un sistema alternativo, ovvero, i cari vecchi secchi d’acqua e la tinozza da riempire in caso d’emergenza. Era comunque sempre meglio di niente.
Quando fosti di nuovo in forze e completamente autosufficiente, andasti a trovare Aiolia alla Quinta. Il dottore si era raccomandato di non fare sforzi eccessivi e, una passeggiata fino alla Casa del Leone non ti sembrava questo granché come sforzo.    
Ti fece piacere vedere il tuo compagno d’arme seduto sul letto discutere animatamente con la sorella. La quale, quando ti vide ti disse, a mo’ di saluto: «Signor Shura! Diteglielo anche voi che è troppo presto per alzarsi dal letto!»
«Ma se lui è già in piedi, perché io non posso?» Protestò il giovane leone dalla chioma scompigliata.
«Perché le mie ferite non erano tanto gravi, Aiolia». Almeno non più del solito. A forza di combattere, il vostro concetto di gravità si era leggermente innalzato assieme il livello di sopportazione del dolore. Come se fossero un tutt’uno. Di pari passo però era avanzato anche il rincoglionimento da botte da orbi che vi prendevate. E, per riprendersi mentalmente dalle ferite occorreva ancora più tempo. E, due Guerre Sacre una dietro l’altra non erano mica noccioline.
Avevi saputo da Makarios che a Galan era venuto un infarto durante l’attacco, ma Lythos era riuscita a far ripartire il suo cuore e, a trasportarlo, con difficoltà al sicuro.
Lanciasti un’occhiata al fratello maggiore della donna; quest’ultimo ti disse, senza mutare espressione, che comunque era contento di vederti di nuovo in salute, nonostante le fasciature.
Poi il tuo compagno d’arme cercò di alzarsi nuovamente ma Lythos gli cinse le spalle con le braccia e lui si bloccò quasi istantaneamente. Se non lo avessi conosciuto bene avresti giurato che fosse arrossito. Ammorbidì i lineamenti del volto e ricambiò la stretta battendole impacciato la mano sull’avambraccio. Poi ti guardò da sopra la sua spalla e ti domandò: «Perché non me l’hai lasciata sbattere in prigione?» Ti ci volle un po’ per capire di cosa stesse parlando. Solo dopo capisti che stava riprendendo il filo del discorso di qualche settimana prima.
«Perché non è una Ghost Saint». Rispondesti quieto.
«Come no? Non hai visto l’aura nera che la pervadeva?» Domandò cercando la parola giusta per definire quel Cosmo non Cosmo che l’aveva avvolta quando l’aveva affrontato.
“Aura?” «Non c’era nessuna aura attorno a lei e non è mai stata una nemica. Forse ti sarai confuso per via del fumo». Ribattesti in tono secco facesti per aggiungere altro ma lui ti anticipò.
«Non c’era fumo, ti dico che abbiamo visto la sua aura». Normalmente avreste usato la parola Cosmo ma nel suo caso non era possibile.
Scrollasti le spalle: «Non so che dirti».
Lythos si staccò dal proprio padrone e gli intimò di prendere le medicine che mandò giù assieme a un bicchiere d’acqua. Se non fosse stata Lythos, Aiolia le avrebbe pure scoccato un’occhiataccia che stava a dire: “Contenta?”.
Invece, preferì sorvolare. Tra tutti e due, bisognava ammettere che era la signora ad avere il senso dell’ospitalità. Infatti, fu lei a domandarti se volessi qualcosa da bere o da mangiare e tu negasti con un cenno del capo e un cortese: «Sono a posto così, grazie».
Lei annuì. «Allora io sono in cucina, se avete bisogno di me chiamatemi pure».
«Ma certo», dicesti tu. «Sicuramente». Disse Aiolia e l’accompagnaste con lo sguardo finché non lasciò la stanza.
Poi tornaste a guardarvi: «Galan come sta?» Domandasti, cambiando discorso.
«É in ospedale ad Atene». Rispose il biondo e, nei suoi occhi scintillò la preoccupazione: «Ha avuto un secondo infarto un paio di settimane fa e un altro cinque giorni fa. Adesso è ancora sotto osservazione. Lythos va a trovarlo tutti i giorni». E, da quelle parole comprendesti che avrebbe voluto andarci anche lui. Se non fosse stato per l’assoluto riposo cui l’aveva costretto il medico, a quest’ora si sarebbe già recato dal suo fedele servitore e tutore. Chinasti il capo come a dire: “Riposati, non c’è bisogno di parlarmene se non te la senti”.
«Hai sentito anche tu quello che è successo alla Sesta?»
«Cosa?»
«Il miracolo di Astrid». Spiegò con una smorfia. Non credeva che quella ragazza fosse capace di tanto da sola. Era troppo per una semplice ancella. Inoltre, anche a lui non era sfuggito quel via vai.
Ritenesti più saggio proferire soltanto un: «Sì». Però poi pensasti che magari Aiolia poteva aver percepito qualcosa di più. «Quella sera, tu hai sentito qualcosa di strano?»
Aiolia ti guardò come a dire “Dove vuoi andare a parare? Non dirmi che quello che penso è reale”. Ma domandò, insolitamente cauto: «Cosa intendi?» Era raro, infatti, che tu gli ponesti questo tipo di domande.
«Hai percepito un Cosmo estraneo nella Sesta?» Specificasti.
Aiolia asserì con il capo, «Ma non era estraneo, non completamente. Ricordo di averlo già sentito da qualche parte solo che non mi ricordo dove. Non so cosa sia, ma qualunque cosa sia non mi piace. É anche per questo che sto cercando di convincervi a rinchiuderla da qualche parte». Lo guardasti un po’ sorpreso. Ci teneva davvero così tanto ad avere il suo scontro leale con lei? Perché non si arrendeva all’evidenza?  
«Non è quello di Zeus, vero?» Indagasti, giusto per essere sicuri.
«No». Se Kyoko, come anche Shun, Julian Solo e Saga, erano diventati ricettacoli di una Divinità, anche Aiolia aveva subito lo stesso trattamento, però per opera di Zeus. Fortunatamente, anche grazie all’intervento di Hades e delle due Atena di questa dimensione, eravate riusciti a salvarlo. «Questo era diverso, non era così forte, come quello di Zeus, ma era molto potente, quasi come quello della Divina Atena».
Poi chiudesti la bocca, ricordandoti che tu se non stavi attento in battaglia, venivi posseduto da Baphomet in persona. Persino Lancelot lo aveva riconosciuto. Purtroppo questo ricordo dal vostro scontro ti era rimasto e, ne avevi una giusta paura.    
Il tuo compagno d’arme ti lanciò uno sguardo che tu sostenesti con il tuo. Vedesti una domanda balenare nelle sue iridi verdi, ma non sapesti mai che cosa volesse chiederti perché non la esternò. Poi anche dai suoi occhi scomparve come se ti stesse dicendo: “No, fa conto che io non ti abbia mai detto niente”. Preferì invece cambiare discorso: «Come abbiamo potuto essere così ciechi?»
«Hai sentito anche tu, Kiki e Aphrodite, no? Ci siamo fatti distrarre da problemi più grandi». Se lo sapevate, era anche grazie ai vostri servitori e a Ichi di Hydra, che avevano infoltito la versione dei due Gold.
Aiolia incrociò le braccia. «Già, quelle Creature, che nessuno sa cosa siano». 
Tu annuisti e cacciasti le mani in tasca. «Ed Eris ne ha approfittato per aizzarci contro Artemide. Kiki dice che hanno trovato i resti dei suoi messaggeri». Ma evitasti di dirgli che stavano dando loro degna sepoltura per evitare altri discorsi macabri. Avevi chiesto ai servi di tenerti informato.  
«Credi che l’avesse fatto apposta per spezzare lo scettro di Nike?»
Scuotesti la testa: «Non credo, la rottura dello scettro è stata solo una coincidenza, che lei, le sue Armate e i Fantasmi di Ares hanno sfruttato». Fortunatamente che avevate messo a punto il piano di emergenza in caso di un eventuale ritorno della Dea della Discordia. Meno male che eravate riusciti a farlo funzionare.
«E, delle Creature cosa ne pensi?» Ti chiese il ragazzo seduto sul letto.
«Penso che dobbiamo proteggere il Santuario. E, penso che quello che abbiamo visto quella notte, non fosse una coincidenza. Hai visto anche tu come le obbedivano, no?» Anche per questo l’impulsivo Leo non si sarebbe mai azzardato neppure per scherzo a salvarla. Se aveva quelle Creature a sua disposizione allora poteva cavarsela benissimo da sola e, per lui, era una prova sufficiente della sua pericolosità. Per Aiolia la ragazza era una nemica e basta.
E, per te?
Per te era pericolosa, ma non sapevi ancora in che modo e se fosse possibile debellare questa minaccia. Però, era anche vero che era meglio non formulare giudizi affrettati e, tu, potevi dirlo meglio di chiunque altro, dal momento che avevi condiviso il suo dolore per così tanto tempo. Non ti era mai sembrata malvagia. Neanche una volta. Avevi provato a scandagliare la sua psiche tramite le energie che vi eravate scambiati, ma non avevi avuto accesso né ai suoi pensieri, né ai suoi ricordi. Però avevi potuto sentire le sue emozioni e, avevi sentito l’orrore verso sé stessi, ma anche il sollievo, la tristezza, per ciò che aveva fatto e poi l’ansia che era stata tenuta a bada dalle anestesie.
Non eri uno psicologo, ma non eri neanche sicuro al cento per cento che, una persona completamente malvagia, stesse così male dopo aver ammazzato qualcuno. Però era anche vero che dovevate essere il più obiettivi possibile. 
«Concordo». Dicesti.
Il giovane leone annuì con un convinto, secco cenno del capo. Sapeva che se dicevi una cosa allora era quella, non era come Milo che si perdeva nei suoi stessi discorsi e nelle sue elucubrazioni.
«Adesso dov’è?»
«Alla Sesta, assistita da Shun e le infermiere, si riprenderà presto e, non temere, non è da sola, Aphrodite, Lancelot e Death Mask sono con lei. Anche Yoshino è salita poco fa a trovarla. Mi ha chiesto di salutarti qualora ti fossi svegliato».
«Yoshino non dovrebbe passare il suo tempo in compagnia di quella ragazza, è troppo ambigua per i miei gusti». Commentò contrariato, neanche fosse suo padre, cosa che non facesti tu. Ti limitasti invece a scoccargli un’altra occhiata.
«Shura», iniziò l’altro, poi ti guardò in faccia, dubbioso, «secondo te Astrid è una nemica?»
«Non lo so, non sono riuscito a comprendere fino in fondo la sua natura».
«Vuoi provare a darle una possibilità?» Domandasti, più come a chiederti di darti una mano (cosa che non avresti mai fatto, nonostante che il tono che ti uscì fu quello) che a chiedere la sua opinione.
«Io mi atterrò al verdetto della giuria e agli ordini del Gran Sacerdote, lo sai». Avevi decretato in tono tagliente, lavandotene le mani. Poi te ne andasti, ma sulla soglia lo guardasti da sopra una spalla e ti raccomandasti: «Non dimenticare di presentarti domani mattina alle nove alla Sesta». Portasti il viso dritto e uscisti accompagnato dalla sua risata sarcastica e da un: «Certo che non me lo dimentico».      

La mattina seguente vi recaste tutti alla volta della Sesta per la prima di una lunga serie di riunioni sul tradimento di Astrid.
Mentre scendevate le scale, si erano già formati i primi gruppetti. Aphrodite camminava un gradino dietro al tuo, stranamente in silenzio. O forse non così tanto, considerando che era un sostenitore di Astrid. Hyoga invece discuteva con Seiya poco più avanti. In teoria un processo simile non avrebbe dovuto aver luogo. Non era un’abitante del Santuario, però era un’ancella, una lavoratrice stipendiata da tutti voi. E, se una piccola parte, quasi insignificante come gli attendenti disertava, allora cosa sarebbe successo al resto? E, nella peggiore dell’ipotesi? No, non potevate lasciare che questa insubordinazione restasse impunita. Neanche tu, per quanto battagliero fossi, ti eri mai ribellato al Santuario o al volere della tua Dea.
Appena entrati nella Sala del Loto che una volta fu di Shaka, trovaste Kanon e Cocteau parlare con Shiryu e Milo, Aldebaran poco distante, pensieroso. Kiki che cercava di far ragionare Aiolia, il quale lo guardava di traverso ma se ne stava zitto e a braccia conserte. Shun, invece, guardava i due, forse presagendo una rissa. Hyoga accanto al fratello che li teneva d’occhio. Death Mask fu l’ultimo a entrare, portandosi dietro la solita nuvola di fumo e la solita cicca tra le labbra. Almeno durante le riunioni se la poteva risparmiare e invece no.  
Appena foste tutti Kanon diede il via alla prima riunione.
«Cavalieri, vi dò il benvenuto nella Sala della Sesta, gentilmente concessaci da Shun di Virgo. Spero che queste settimane vi siano state utili per riflettere sull’accaduto…» Iniziò.
Riflettere. Ci avevi pensato pochissimo, la verità era proprio lì davanti ai tuoi occhi e, persino Cocteau era d’accordo. Ti era venuto a trovare qualche volta alla Decima e ne avevate parlato. Non l’avevi visto molto spesso perché aveva ricominciato a sorvegliare Astrid, con più cura di prima. Soprattutto da quando avevate percepito quel Cosmo anomalo. E, anche questo era un bel problema. 
Il suo era alto tradimento, non c’erano scappatoie per quante ne cercassero. La liberazione di quei prigionieri era un atto troppo grave per restare impunito. Stavolta neanche il Grande Sacerdote avrebbe potuto fare qualcosa per ribaltare il verdetto. Anzi, eri quasi sicuro che Kanon avesse già preso una decisione. Come tutti voi, del resto. Il difficile sarebbe stato trovare un accordo tra le parti. Sarebbe bastato un semplice sbilanciamento a far pendere l’ago della bilancia.
E, la parola del Gran Sacerdote era legge inoppugnabile. 
Ed eravate andati avanti così per un’altra settimana.
Sbuffasti, mancavano ancora delle ore al prossimo ritrovo con l’Assemblea. Alla fine eri giunto a una decisione e ti eri schierato con la fazione Contro-Astrid. Così come avevano deciso anche Seiya Hyoga e Aiolia. Solo Shiryu si era opposto, considerando i vostri giudizi affrettati, unendosi così a Kiki, Death Mask e Aphrodite. Ma non potevate tacere quando le prove erano tutte contro di lei: il Gold Cloth di Leo che si ribellava, la chiromanzia con cui aveva messo a soqquadro il Santuario, la resurrezione dei tre Giudici Infernali, la sua capacità di fare viaggi astrali, non ultimo, la liberazione dei Black Saint. Certo, aveva anche salvato Death Mask e Aphrodite dalle Creature e, vi aveva aiutati ben due volte, prima contro Artemide e poi contro Eris, ma le sue buone azioni si fermavano lì. Purtroppo non c’era niente da fare. Se Astrid si fosse rivelata per quello che paventavate, allora tanto valeva eliminare il problema alla radice, anche se una parte di te si opponeva con fermezza alla tua stessa decisione. Strano, no? Ogni volta che anche solo pensavi di ucciderla, qualcosa, nel profondo di te stesso e, ancora più indietro, si ribellava con forza. A questo punto ti domandavi se saresti arrivato addirittura a salvarla come Lancelot fece ai suoi tempi con Ginevra.
E, non eri l’unico. Parecchi Silver e Bronze si erano avvicinati a voi Gold in quei giorni. Soprattutto ad Aiolia per chiedergli se fossero vere le voci riguardo l’Assemblea Dorata. Tu che eri sempre un passo dietro di lui per proteggerlo, lo sapevi.
Lui aveva confermato con un cenno del capo, in una tua perfetta imitazione di quando non avevi voglia di parlare, a tutto ciò che domandarono.
«É vero che state processando la chiromante?» Cenno affermativo.
«Ma alcuni di voi saranno contrari alla decisione che prenderanno gli altri?» Lo guardò dritto negli occhi per fargli capire che aveva osato troppo. Alla fine costui abbassò i suoi.
«Niente potrà farvi tornare sui vostri passi?» Era intervenuto allora un altro Silver; Ptolemy della Freccia. Anche tu eri rimasto sorpreso, pensavi che fosse morto da un bel pezzo.
Aiolia aveva di nuovo asserito con il capo. Poi li aveva lasciati lì a cuocere nel loro brodo. Tu ti eri defilato prima che si accorgessero di te.
Ma anche lui si era accorto di una cosa dell’aria di tensione e aspettativa che si respirava. «Aspettate, nobile Aiolia, devo parlarvi!» Lo richiamò il Silver della Freccia, sorpassandoti. Ti girasti per vedere se gli altri lo avrebbero seguito e, invece, se ne tornarono ai propri posti.
«Cosa c’è?» Sentisti dire al tuo compagno d’arme. Ma a quel punto non sapevi più il resto perché avevi incontrato Lancelot sulla tua strada. «Che ci fai qui?» Gli avevi chiesto confuso, vedendolo con indosso il suo ingombrante cloth. Teneva la schiena appoggiata al muro e le braccia e le caviglie incrociate. Avevate ritenuto giusto interpellare anche lui, dal momento che aveva aiutato Astrid nel suo atto di insubordinazione, liberazione di prigionieri e dichiarazione di guerra a un Saint, con tanto di aggressione.
Se non fosse stato un Saint di Miss Tomoe probabilmente anche lui sarebbe stato nei guai. Poiché non apparteneva alla vostra giurisdizione, non poteva essere processato. Né Miss Tomoe aveva ancora saputo. Il Lost Saint dal sorriso facile ti domandò, stranamente serio: «Cosa volete farle?» Non era necessario che specificasse per capire a chi si stesse riferendo.
«Quello che è giusto per il bene del Santuario.» rispondesti laconico quasi senza guardarlo.
«Sarebbe un’ottima e una pessima idea al tempo stesso, a mio modesto parere»..
Tenesti la voce ferma più che potesti pe ribattere: «È nostro dovere».
«Uccidere un innocente?»
Quella domanda a bruciapelo ti irrigidì come se ti avessero fatto un gavettone d’acqua fredda fuori stagione.
«Non sappiamo se sia veramente un’innocente». Ribattesti in tono secco, celando il rammarico che quelle parole ti procuravano. Anche se battagliera e disobbediente (ma guarda, la pensavi quasi alla stregua di una bambina. E, in effetti, era proprio così, se comparata a voi tutti), la giustizia doveva essere applicata ed era inflessibile.
«Come fate a dirlo, Cavaliere? Che cos’è che ve lo fa dire?» Domandò l’altro.
Tu avevi stretto le labbra, cercando di far fronte alla tua stessa agitazione.
Era come se ti stesse accusando di cecità. Ma tu eri nel giusto (per quanto poco ti piacesse ricordarlo, in questo caso) e lo sapevi. Erano tutti gli altri a essersi sbagliati. Tu sapevi sempre (ok, la maggior parte delle volte) da che parte stesse la giustizia, ed eri più che certo che anche Atena fosse d’accordo con voi.
Per questo gli rigirasti la domanda: «Piuttosto, tu, che cosa stai cercando di dirmi?»
«Che al momento la nostra giovane amica è ancora innocente», calcò bene l’accento sul verbo essere, «ma se Ionia dovesse arrivare a lei, quello sì che sarebbe un problema».
«Ionia?» Domandasti e lo guardasti, dandogli così tutta la tua attenzione e, scopristi che non stava mentendo.
«Il vostro predecessore, si chiama così, no?» Domandò l’altro. Dunque alla fine era accaduto ciò che avevi temuto: Ionia l’aveva notata. Lancelot continuò: «Saranno almeno quattro notti che sgattaiola dalla Tredicesima Casa fino alla Sesta e si trattiene troppo a lungo nella stanza di Astrid. E, tutte le volte, si sente il suo Cosmo espandersi. Mio re, lasciate che vi dia una mano. Lasciate a me la questione, se non vi fidate delle mie parole, fidatevi almeno dei fatti; stanotte venite con me. Se verrete, mi troverete sulla rampa tra la Settima e l’Ottava un quarto alle dieci».
«Non so se riesco». Dicesti. Non erano più i tempi della Guerra delle Spade Sacre, stavolta potevi anche lasciarlo perdere.
«Capisco, in ogni caso, se deciderete di venire, mi troverete lì, i miei rispetti, mio re». Ti aveva detto disegnando un lieve inchino. Poi si era raddrizzato e se ne era andato.
Avevi passato tutta la giornata a riflettere sulla proposta del collega di Death dell’altra dimensione. Avevi tutte le ragioni del mondo per non fidarti, ma anche tutte le ragioni per proteggere un innocente. E, fu proprio questo a farti prendere la tua decisione, quella sera.
Con un sospiro allontanasti la sedia dal tavolo, ti alzasti e ti avvolgesti nel mantello. 
 
«Siete venuto, dunque». Sorrise Lancelot, quando lo raggiungesti sul luogo dell’appuntamento. Una nuvoletta di fiato usciva dalle vostre bocche ogni volta che parlavate.
Lo guardasti. Aveva smesso i panni di Cancer in favore di una maglietta azzurra sotto una giacca verde salvia e pantaloni neri. Non esattamente la tenuta di una spia che deve confondersi tra le ombre della notte e passare inosservato. «Prego, seguitemi». Faceste il giro della Casa e, vi ritrovaste nel giardino della Sesta. Non sapevi che esistesse un pertugio dal quale passare. Non ti guardasti neanche intorno, nonostante i cambiamenti che vi aveva apportato Shun. Dovesti fare molta attenzione a causa dell’oscurità. Fortuna che spesso Lancelot ti chiamava per comunicarti la sua posizione, sicché tu potessi raggiungerlo.
La vostra destinazione non fu lì, bensì un po’ più in alto. Vi fermaste sulle rocce che davano su una finestra al primo piano e Lancelot si accomodò. «Prego, sedetevi, l’attesa sarà un po’ lunga. No? Non volete? Vabbè, io vi ho avvertito».
Ti sentisti un guardone e, ringraziasti la notte di novilunio che nascose il tuo disagio e il tuo rossore. Tante cose si potevano dire di te, tranne che tu fossi un guardone. Neanche da ragazzino ti eri mai azzardato a spiare il campo femminile dei Saint come invece avevano fatto Death Mask, Aphrodite, Milo e qualche altro adolescente.  Ma cosa ti restava da fare dal momento che non riuscivi a percepire i Cosmi altrui, se non fidarti di Lancelot?
«Ma non ti senti a disagio?» Ti sfuggì a un tratto.
«Mi sentirei più a disagio se entrassi dalla finestra e la facessi mia contro la sua volontà. Ho il sospetto che lei non gradirebbe e io sono pur sempre un Cavaliere. Uomo sì, barbaro no. E, poi vi ho detto che siamo qui per impedire a Ionia di renderla sua schiava. Ovviamente non sono né un guardone né un maniaco; ho scoperto tutto perché stavo cercando quella perdigiorno della mia allieva Neera, l’aspirante Sacerdotessa-Guerriero dell’Indiano, avete presente? No? Alta, capelli scuri, pelle pallida, una maschera inespressiva d’argento in faccia con decorazioni blu come quella di un indiano che va in guerra nei western? Niente? Neanche se vi dico che sembra che abbia fregato la vernice a Braveheart per pittarsi la faccia di azzurro? Neanche? Vabbè; dicevo, con tutto il casino che è successo ci eravamo messi d’accordo di spostare gli allenamenti di notte. Ma, come al solito non si è presentata. La stavo cercando quando mi sono accorto che Ionia si aggirava furtivo per i corridoi della Sesta Casa e si era infilato in una delle camere secondarie. Pensavo che avesse un amante che risedeva qui o comunque negli alloggi dei servi ma, quando l’ho visto nella stanza dell’Incantatrice, mi sono insospettito. Non fate quella faccia, so che è la sua perché l’ho chiesto in giro. E, così, ho scoperto che ogni mezzanotte va da lei e cerca di svegliarla e ipnotizzarla con il Domination Language. Io sono qui per impedirglielo». Ti spiegò con un tono che ti fece pensare a un che di cavalleresco. Ma non nel senso che era un Cavaliere, nel senso che risvegliò in te alcune memorie sopite di alcune letture di romanzi medievali.
Mettesti le mani in tasca e lo guardasti stupito, anche se la tua discrezione, come al solito, non ti fece manifestare quest’emozione. «Allora hai anche tu un codice morale?»
«Certo! Perché, credevate che non l’avessi?» Era strano considerare che persino il collega della Quarta di Mur avesse una coscienza un po’sonnacchiosa, bizzarra quanto lui, ma pur sempre presente.
Dopo due ore la luce della tecnica di Ionia illuminò la stanza come la luce di una abat-jour. Lo vedeste in piedi accanto al letto, il libro del Domination Language aperto e, il corpo di Astrid, dormiente e ignaro di tutto. La scena ti ricordò vagamente una di quelle dei film sugli esorcismi.
I tuoi muscoli guizzarono sotto la pelle e ti alzasti per precipitarti nella stanza (anche a costo di sfondare la finestra) per suonarle a quel depravato. L’avresti anche fatto se l’uomo dai capelli azzurro polvere non ti avesse trattenuto afferrandoti il polso e scuotendo il capo. Poi ti fece cenno di osservare bene.
Ti accovacciasti, ma restando comunque pronto a scattare.
 Solo allora Lancelot lasciò andare il tuo polso.
Guardasti verso la finestra. Assottigliasti gli occhi e notasti che i fuochi fatui svolazzavano già nella stanza, invisibili agli occhi di Ionia, ma non ai tuoi. Pronti (come te) a scagliarsi addosso all’ex Capricorn al primo cenno del Gold Saint seduto al tuo fianco.
Vedendo che Lancelot aveva già pensato a tutto, ti rilassasti un po’ e, ti rimettesti completamente seduto.        
«Cosa pensavi di fare?» Domandò suadente a un tratto. Lo guardasti e ti parve ancora più inquietante con quel lieve sorriso dipinto in faccia. Ti ci volle un po’ per capire che si stava rivolgendo a Ionia.
Dal canto tuo restasti molto sorpreso nel costatare che anche l’ex Gladiatore aveva un codice morale.
Ti domandasti con che coraggio la Dea lasciasse che un simile depravato con un distorto concetto dell’amore continuasse a insegnare e a vivere all’interno del Santuario? Santa Dea, era persino più pazzo di Saga!
“E, se ci scoprisse?” Pensasti, per poi ricordarti dove vi trovavate, che stavate trattenendo entrambi i vostri Cosmi e che le tenebre vi nascondevano alla perfezione. Senza contare che passavate persino più inosservati di quell’armadio a due ante che si spacciava per insegnante. Che begli insegnamenti che dava ai suoi allievi.
Purtroppo con questo qui, la stessa parlantina di Lancelot, che vi consegnò Wadatsumi (l’ex capo dei Senza Volto), non avrebbe sortito alcun effetto. Se ci avesse provato si sarebbe ritrovato con la testa conficcata nel terreno come minimo e, di sua spontanea volontà, per effetto del Domination Language. Te lo aveva spiegato lui stesso, che l’aveva saputo da Integra con la quale aveva un flirt. Anche se a parer tuo era più interessato a svelare il mistero che circondava Astrid, più che a portarsela a letto, nonostante la bellezza. Però col cavolo che avreste permesso a quel vecchio di avvicinarsi un centimetro di più.
Ve ne restaste nascosti nell’ombra e osservaste, attenti. Era la prima volta che lo vedevi all’opera.
«Svegliati». Ordinò facendo leva sulla sua tecnica.
La ragazza non si mosse.
«Svegliati, ti ho detto». Ripeté, ottenendo soltanto che lei si girasse supina.
«Devi svegliarti, rivelami il tuo segreto». Ma quella emise soltanto un respiro più profondo.
L’uomo la osservò perplesso e anche tu.
Lancelot invece ghignava, come se la cosa lo divertisse da matti. «Di solito questa tecnica funziona sempre, vero?» Domandò inarcando il sopracciglio. Ormai la vista ti si era abituata abbastanza per vedere al buio e, la luce del Domination Language, ti aiutava moltissimo. 
Quello non si arrese e provò di nuovo: «Svegliati!»
A quel punto vedesti lo spirito di Astrid mettersi seduta e guardarlo. I capelli fluttuanti, con gli occhi a mezz’asta sullo sguardo vacuo. Non avevi bisogno di avvicinarti per essere certo che fosse così, perché. tutte le volte che l’avevi vista, aveva quell’espressione che rivaleggiava con le maschere impassibili delle Sacerdotesse-Guerriero. 
Affinasti di nuovo il tuo e ti ritrovasti a pensare che, certo, funzionava sì, ma non se il soggetto non ti voleva ascoltare. E, non se la tua vittima non era nel suo corpo.
Lancelot accanto a te, piegò la bocca un sorrisetto divertito, mentre la vedeva mettersi seduta nel suo stesso corpo addormentato.
«Ti dà fastidio, vero?» Domandò e lei volse la testa verso di voi. Tu sgranasti gli occhi e ti sfuggì dalle labbra un preoccupato: «Astrid?» come se tu le stessi chiedendo che cosa stesse cercando di fare che se ci stessi vedendo bene. 
A differenza di te, Lancelot curvò le labbra in un sorriso cortese e compassionevole. «Sapete, mio re? Parlare agli spiriti è come parlare a una donna. Bisogna saper pronunciare le parole giuste per far sì che si fidi di te». E, guarda un po’Astrid era sia una donna sia uno spirito, almeno in questo momento. «Ma, soprattutto, per parlare agli spiriti bisogna conoscerne la lingua e, io la conosco».
Le fece cenno di avvicinarsi e lei si alzò e obbedì.
Passò attraverso la finestra come se fosse stata un ologramma e vi raggiunse con passi leggeri, quasi senza toccare terra, come alcuni maestri d’arti marziali in alcune pellicole.
Né il freddo della sera invernale né la gelida brezza che soffiò in quel momento e che vi carezzò le chiome bastò a farla rabbrividire o fermare. Era come se fosse insensibile agli agenti atmosferici. Sapevi che respirava, vedevi il suo petto alzarsi e abbassarsi, ma dalla sua bocca non usciva la nuvoletta di fiato cui eri abituato. Eri pure sicuro che non proiettasse alcuna ombra. 
Intanto, Lancelot sistemò meglio la schiena contro le rocce.
Si fermò di fronte a voi.
 Ti guardò un momento e poi tornò a guardare il Lost Saint, il quale aprì le braccia e la invitò a raggiungerlo con un sorriso. Lei gli si sedette in grembo di traverso, adagiandosi delicatamente sul suo corpo, come se avesse avuto paura di fargli del male. Gli posò la testa sulla spalla. La guancia sul suo petto e chiuse gli occhi. L’altra mano posata sul suo cuore.
Il Cavaliere del Cancro dell’altra dimensione la strinse a sé come se fosse una bambina, badando che stesse comoda. Adesso capivi come mai si era sistemato meglio.
Se Lancelot la guardò con un sorriso pieno di dolcezza e le carezzò delicatamente la chioma (un po’ meno fluttuante a causa della posizione assunta) con la mano, tu li guardasti sbigottito. Era così che impediva a Ionia di schiavizzarla? Non ti saresti mai aspettato che il tuo subdolo, folle, ex avversario fosse capace di questa inquietante amorevolezza. Era come la poesia di Lewis Carrol, Jabberwocky cantata da Erutan, che avevi scoperto per caso l’ultima volta che avevi girovagato su Internet. Era la poesia più insensata dell’intera storia della letteratura inglese. E, la sensazione che ti dava questa scena surreale era proprio questa. 
Soprattutto al pensiero che per quella sera sarebbe stato lui il suo rifugio. Almeno finché non se ne sarebbe andato Ionia.
“Perché lo fa?” Pensasti assottigliando lo sguardo, continuando così a fissare l’ex amante di Ginevra. Lancelot non faceva mai niente per niente. Non portava rispetto per nessuno che non brandisse la Sacra Excalibur, a parte Miss Tomoe, i suoi ideali erano distorti e, sicuramente, lo stava facendo a suo vantaggio. Ma era solo vantaggio o aveva in mente anche dell’altro?
Questa situazione non ti piaceva, piuttosto che lasciare che due pazzi, avessero a che fare con lei, ti saresti messo a sorvegliare la porta di Astrid tu stesso, come una vera e propria guardia medievale.    
«Cosa sta facendo?» Chiedesti, a disagio.
«Dorme, ecco cosa fa. Ora fate silenzio, mio re, o la sveglierete». Bisbigliò di rimando, più per rispetto del suo riposo che per evitare di essere scoperti.
Non parlaste più per quasi mezz’ora, intenti com’eravate a guardare gli sterili tentativi di Ionia.
A un tratto ti tornò in mente la Guerra delle Spade Sacre. Per te era quasi inevitabile pensarci, dal momento che, quel losco figuro che ti stava accanto, l’avevi incontrato proprio allora e, che fu lui stesso a invitarti a partecipare. Ammesso che affrontare tutti i suoi compagni Gladiatori, che poi si erano rivelati Gold Saint, corrispondesse a un invito. «Potresti dirmi che posizione ricoprirebbe Alice nel tuo mondo?» Gli domandasti incuriosito. 
«Ah, lei, sarebbe il Cavaliere d’Oro dell’Acquario. Perché questa domanda?» 
«Niente di particolare, solo curiosità».
«Avete ripensato alla Guerra delle Spade Sacre, non è così? Bè, vi do una mano, Roland è il Cavaliere d’Oro dei Gemelli, Sigurd è il Cavaliere d’Oro dello Scorpione, poi c’è quello grosso che è il Cavaliere d’Oro del Toro, Aiolos che è l’ex Sagittario e che avete già avuto il piacere di conoscere, poi Shaka, che ricopre il ruolo di Virgo, Mur che è ancora l’Ariete, io che sono il Cancro, Mordred è il Leone, Artù è il Capricorno e Paracelsius è il Cavaliere dei Pesci. Se ho dimenticato qualcuno, perdonatemi, ma non me li ricordo tutti». Ridacchiò sommessamente e lo spirito di Astrid ebbe uno scatto involontario nel sonno. A quel movimento un sorriso quasi paterno si disegnò sulla bocca del Lost Saint. Le carezzò dolcemente il volto per rassicurarla, come se fosse una bambina e lei si rilassò di nuovo. 
Distogliesti lo sguardo. Anche se era un gesto innocente, quella dolcezza così anomala ti ricordava tanto le spire di un serpente.     
Preferisti tornare a concentrarti su Ionia. Eri d’accordo sul voler proteggere lo spirito di Astrid, ma non si poteva mai sapere fin dove si sarebbe spinto quell’altro maniaco, con il suo corpo. Non potevi permettere che accadesse. Anche se ricordavi che aveva affermato di amare castamente la Dea Atena, da quando la vide in fasce per la prima volta. Al solo pensiero dovesti reprimere un tale conato che ti sorprendesti di te stesso per esserci riuscito, considerando poi quello che ti aveva raccontato Shiryu sul conto del tuo predecessore.
Amare al punto da voler uccidere. Quale amore era mai questo? Non lo sapevi. Non eri un esperto e, il massimo che concepivi era l’amore fraterno. A dir la verità non ti eri mai innamorato in tutta la tua vita. Non c’era stato tempo neanche per pensarci.  Però eri più che sicuro che se amavi qualcuno, la sua morte sarebbe stata l’ultima cosa che avresti voluto per l’oggetto dei tuoi sentimenti. La misericordia che Ionia aveva cercato di usare ad Atena era la stessa che si dava alle bestie, quando non c’era più niente da fare.
Come l’Aiolos dell’altra dimensione fece con il fratello posseduto da Zeus.
Anche tu avevi ragionato in maniera simile a quella di Ionia, in passato e, non l’avevi più fatto, dopo lo scotto e il dolore. Ti eri reso conto che era sbagliato e, se avessi potuto tornare indietro per impedirlo, l’avresti fatto. Per questo, quando Aiolos e Aiolia si erano di nuovo ritrovati faccia a faccia, avevi preferito evitare che il tuo compagno d’arme si macchiasse le mani del sangue del suo sangue. Se tu, Saga e Death Mask eravate usciti vivi dallo scontro con l’Antipapa, lo dovevate solo a Kanon e a Rhadamantys, che erano giunti in vostro aiuto. 
Tornasti alla realtà e il disgusto s’impossessò di te. Già vi credeva dei rapitori e complici di rapitori,
non doveva subire oltre.
Ti alzasti sotto lo sguardo stupito di Lancelot e te ne andasti. Ti recasti alla Sesta più rapidamente che potesti, cercando di reprimere il tuo Cosmo e andasti a cercare Shun. Lo trovasti che stava dormendo nella sua stanza. Gli posasti una mano sulla spalla e lo svegliasti. Il ragazzo ti riconobbe appena: «Shura? Che c’è?»
«Non parlare, trattieni il tuo Cosmo, Ionia è qui».
Il giovane medico sgranò entrambi gli occhi cerulei e si mise immediatamente a sedere: «Qui? A quest’ora? Perché?»
«Non lo so, credo che voglia fare qualcosa ad Astrid».
Il giovane scostò le coperte; allarmato e si alzò. Fortunatamente era in pigiama. «Vado subito a controllare, grazie per avermelo detto». E scomparve oltre la porta, diretto alle camere dei pazienti. Tu uscisti dall’ingresso che dava sulla Settima e tornasti velocemente sulle rocce.    
Da lì, vedeste Ionia colto di sorpresa da Shun. Il vecchio si girò verso di lui, dissolvendo la tecnica, anche da lì riusciste a immaginare tutto quello che stava dicendo Shun. Ionia cercò di discolparsi ma il vostro collega lo scacciò. Così il professore della Palaestra non ebbe altra scelta che andarsene.
Shun lo accompagnò con lo sguardo finché non fu sicuro che si fosse allontanato, poi si precipitò a controllare che non avesse abusato di lei.
«Visto che la minaccia è sventata, riporto questo spirito alla sua proprietaria».
«D’accordo, ah, Lancelot, la prossima volta che succede una cosa del genere, cerca di intervenire subito invece di fare il voyeur». Non eri mai stato tanto a disagio come in questi momenti passato sulle rocce. «Agli ordini mio re». Sogghignò il Saint di Cancer prima di alzarsi. Poi vi separaste andando in due direzioni diverse. Tu precedesti Ionia.   
Ti cacciasti immediatamente a sedere tra due massi che, nella loro conformazione, simulavano una poltrona con poggiapiedi e schienale reclinabile. Peccato che non fosse altrettanto comoda.
Incrociasti le braccia, poi ci ripensasti e le spostasti dietro la testa a farti da cuscino. Poi alzasti gli occhi verso il cielo stellato.
Quando ti passò accanto gli domandasti, in tono distratto: «Il tour è stato di tuo gradimento?»
L’uomo sussultò e si girò verso di te con un ossequioso quanto falso: «Cavaliere di Capricorn».
Lo guardasti in tralice. «Devo trarre le mie conclusioni da solo?» Domandasti con calma disincastrando le braccia per spostarle sul petto e incrociarle di nuovo. La minaccia appena sibilata nella tua voce dura e aspra.
«Non so di cosa parliate». Mentì ricambiando la tua occhiataccia, la voce a malapena trattenuta.
«Una mossa falsa», lo avvisasti senza spostare le mani da dietro la tua testa, «una mossa falsa e io non avrò pietà».
«Questo è da vedere, Cavaliere, buona serata». Poi se ne andò e tu lo accompagnasti con lo sguardo.
Che dicesse quello che gli pareva. Tu lo avevi avvisato e, il tuo avviso lo si poteva intendere come una dichiarazione di guerra. Tu eri pur sempre il legittimo portatore della Spada Sacra. Mentre lui di quella Spada si era privato in favore della creazione di questa nuova tecnica. “Niente potrà mai spezzarti”, aveva detto il tuo vecchio maestro.
C’era un motivo se proprio tu eri stato addestrato per ricoprire il ruolo di Capricorn. C’era un motivo se neanche Arles era mai riuscito a piegarti davvero e, c’era un perché se eri il Cavaliere d’Oro da non sottovalutare più di chiunque altro. Se quell’uomo fosse stato un po’più intelligente ci sarebbe arrivato anche lui.      
In quel momento ti arrivò un sms. Controllasti: era di Shun. Ti ringraziava ancora e che Astrid stava bene, fisicamente.
Curvasti la bocca in un sorriso soddisfatto.

Aldebaran
La prima cosa che vi aveva chiesto Yoshino fu sapere cosa stesse succedendo e se stavate bene. Anche lei aveva visto dall’esterno ciò che era successo. E, aveva avuto paura. Molta paura.
Si era precipitata subito all’Acropoli in vostro soccorso e, i due Silver Saint che erano venuti a prenderla e scortarla a casa avevano fatto molta fatica a fermarla. I capelli di vostra figlia erano diventati di quel viola chiaro che contraddistingueva le Dee Atena e il suo Cosmo era esploso per la rabbia tu stesso ce l’avevi fatta a malapena a calmarla, con l’aiuto congiunto di Cocteau.
E, la tua bambina si era calmata. Si era spaventata quando aveva visto le Creature calare in picchiata sul Grande Tempio e poi la Dea Eris era stata sconfitta.
Dopo aver visto la mamma che si stava medicando la ferita che si era procurata in battaglia, Yoshino aveva voluto sapere di Astrid. Non avevi mai visto un affetto più forte di quello che legava quelle due ragazze. Era come se tra loro fosse stato un colpo di fulmine d’amicizia.
Con il passare dei giorni le condizioni fisiche dei Cavalieri migliorarono. Shaina si dimostrò piuttosto irrequieta, adesso che era costretta a girare con una stampella (la sua ferita comprendeva il fianco, una frattura all’anca e una lesione al muscolo della coscia. In sostanza secondo Shun, nella battaglia il nemico le aveva ridotto in poltiglia il muscolo). Vostra figlia cercava di aiutarla come poteva. Un po’ donandole Cosmo, anche se in piccole quantità onde evitare il ritorno di quelle Creature e perché non era ancora così brava a usarlo. Usarlo le ricordava il periodo trascorso al fianco di Tomoe. Inoltre, ogni volta che lo usava i suoi capelli cambiavano colore, diventando di quel lillà tanto simile a quello della Divina Atena. E, la vostra bambina non ne era affatto entusiasta.
Dal canto suo, tua moglie non diceva niente. Anche lei era cresciuta qui, non era la prima volta che veniva ridotta male. L’ultima fu quando fece scudo a Seiya dalla freccia di Sagitter, che Poseidone aveva respinto.
Castalia era venuta a trovarla appena le temperature erano tornate normali. Ora che la minaccia di Eris era debellata, l’innaturale primavera che aveva avvolto il Santuario alla stregua di un’altra barriera, era sparita, lasciando che l’inverno greco si riversasse anche sulle Tredici Case e Rodorio.
La Sacerdotessa-Guerriero dell’Aquila non aveva partecipato alla battaglia perché era impegnata a radunare e soccorrere i feriti. A detta sua l’infermeria aveva terminato le scorte dei medicinali e le bende. E, i rifornimenti erano in ritardo. E, questo aveva costretto mezza Rodorio a essere sistemata in alcuni hotel (coloro che avevano perso la casa) e negli ospedali della capitale greca (i feriti).
Della cittadina che conoscevate poche strutture si erano salvate. Neppure l’astanteria era stata risparmiata. Per non parlare poi delle piantagioni e degli orticelli di Rodorio, che erano state invase dalle radici dell’Albero Malefico e da quelle della Profusione floreale di Aphrodite. Il quale era diventato fonte di gioia e ringraziamenti ma anche nuova fonte di malcontento e accidenti da parte degli sfortunati contadini.
Se non altro, era riuscito a estirpare le radici delle sue rose dalle piantagioni, ma, per quelle dell’albero del Conflitto, non c’era altra scelta che estirparle alla vecchia maniera.     
A volte la osservavi e sapevi che rivedersi ridotta in uno stato così pietoso non era stato piacevole per tua moglie. Se da giovane aveva lasciato che Cassios si prendesse cura di lei, adesso era fermamente decisa a riprendersi al più presto per prendersi cura di voi. Il suo istinto materno unito al suo carattere forte le impediva di godersi la convalescenza.
Alla fine avevate capito che quello che potevate davvero fare per lei era cercare di facilitarla spostandole la sedia o liberando la sua strada dagli ostacoli. Se solo le rose di Aphrodite fossero ricresciute un po’ più in fretta a quest’ora non ci sarebbe stato bisogno di tutto questo. Anche se, come Aiolia, Aphrodite era ancora più testardo e inamovibile. Essendo che lui e le sue rose erano un tutt’uno, non concedeva la sua benevolenza così facilmente. Almeno Aiolia era meno egoista. Già, ma come aveva fatto Astrid a conquistarsi i favori del Gold Saint di Pisces? Stando a quello che aveva berciato una sera in osteria Death Mask, Astrid aveva ricevuto l’aiuto gratuito del vostro collega.
L’unica volta che l’aveva fatto, fu per risanare le ferite di Aiolia durante la Titanomachia, quando quest’ultimo andò a riprendersi Lythos.  Avevi provato a chiederlo al tuo stesso collega, qualche giorno fa, ed era stato come svegliarlo, in un certo senso. Anche se ti aveva risposto che era suo dovere in quanto Saint, di proteggere gli innocenti, era evidente che, prima di quel momento, neanche lui si era mai posto quella domanda. Quella domanda ebbe l’effetto di aprire un altro mondo al custode della Dodicesima. Il quale si era alzato dallo scalino e, scusandosi «Devo rifletterci, se vuoi scusarmi, Aldebaran», se ne era andato, con una faccia dubbiosa.
E, non l’avevi più rivisto per tre giorni, prima dell’inizio del primo Chrysos Synaigen.     
Prima di quel giorno sia Aphrodite che Death Mask pensavano che le Creature se la fossero data a gambe per averli visti tornare in vita, più infuriati e agguerriti di prima, non perché temessero, anzi no, obbedissero ad Astrid. Tu neanche l’avevi immaginato che quella ragazza fosse così potente. Un paio di sospetti ce li avevi avuti ma non avevi ancora realizzato pienamente le sue capacità.
Eri stata tu a trarla in salvo dalla sala mentre le Creature incendiavano l’Albero del Conflitto.
Fortunatamente Aldebaran era riuscito a portare in salvo Saga per tempo, prima che Phobos, Deimos, gli altri figli di Ares e la Dea della Discordia stessa, lo trovassero. Temevate che infine sarebbero riusciti a uscire dal Santuario quando la barriera si era dissolta per la seconda volta e, invece, qualcosa aveva cominciato a distruggere il Tempio della Discordia, che si era sgretolato come un vaso di terracotta caduto al suolo. E, con esso, anche i vostri nemici si erano letteralmente polverizzati davanti ai vostri occhi. Almeno quei pochi ancora in piedi dopo l’intervento delle Creature.
Del crollo della barriera, tuttora, ne pagavate le conseguenze.
Le voci che Saga ti aveva riferito dicevano che all’esterno tutto ciò che fu percepito fu soltanto una serie di scosse sismiche molto intense.  Come per esempio, un’altra manipolazione dei mass media, che fecero passare il crollo della barriera e, la conseguente “scoperta” dei nuovi templi, come un crollo strutturale di qualche tempio dell’Acropoli. Stando ai servitori che ti fecero da infermieri ci pensò Mur stesso a insabbiare tutto grazie alla telepatia e a tenere fuori dal perimetro i civili. Non che qualche pazzo si fosse addentrato dentro al Santuario in un momento simile, ma non si poteva mai sapere.
Dopo che la battaglia finì e le Creature se ne andarono, la vostra Dea si era materializzata sul Tempio tramite il Cosmo, aveva spento l’incendio e innalzato nuovamente la barriera. Kanon, Jabu e Kiki avevano dovuto, poi, conferire con i parlamentari greci per spiegare loro la situazione e convincerli ancora a fornire il loro prezioso sostegno per mascherarvi. Tutti ad Atene sapevano della vostra esistenza, alcuni vi avevano anche visti uscire dalla barriera, ma era meglio continuare a far credere al mondo il contrario. Anche se il mondo stesso si stava già infiltrando nel Santuario. Tu non avevi paura dei cambiamenti, anzi, la modernità ti piaceva, il problema erano i conservatori come quella palla al piede di Ionia che, guarda un po’, era sopravvissuto anche stavolta.  
Non avevi potuto muoverti subito per partecipare ai funerali. Ma avevi saputo dalla famiglia del tuo ex servitore, che i sopravvissuti e gli inservienti avevano fatto la conta dei morti e preparato i corpi per i riti funebri. Questi riti al Santuario non erano cambiati quasi per niente dai tempi del mito. 
Dopodiché avevano predisposto le pire per i soldati semplici che li avrebbero trasportati nel Paradiso dei Cavalieri.
I Cavalieri deceduti sarebbero stati tumulati presto. A sorpresa, persino ai Cavalieri Neri fu concesso quest’onore, «Per aver contribuito alla difesa del Santuario.» aveva detto Kanon, magnanimo. Ma, secondo Death Mask, che era stato uno di quelli ad aver riportato meno ferite, era solo per impedire che la puzza appestasse l’aria. 

Ma se gestire questo, tua moglie e i vostri compagni più o meno acciaccati, era stato difficile, la parte ancora più complicata, era stato spiegare ai genitori di Astrid l’accaduto. Ci avevate parlato tu e il Gran Sacerdote. Che, fino a quel momento, non aveva idea che i parenti della giovane avessero il numero di un Silver Saint. Infatti i due avevano insistito per parlare con Juan di Scutum, che confermò così le vostre affermazioni.
Tu, parlando da genitore a genitore eri riuscito a tranquillizzarli momentaneamente, ma sul farli giungere al Santuario Kanon era intervenuto. Aveva spiegato che al momento non era possibile. Non poteva permettere che degli estranei avessero a che fare con questi luoghi. «Il Santuario è uno dei luoghi più sicuri e al tempo stesso più pericolosi del mondo, attualmente. Credetemi quando vi dico che ci dispiace davvero che vostra figlia abbia scelto di restare ad aiutarci». Spiegò. 
«Ha scelto lei di restare?»
«Sì, signora, per la battaglia, s’intende. È stata una sua scelta, se non fosse stato per lei molti di noi ci avrebbero rimesso la vita, adesso il minimo che possiamo fare per lei è curarla».
«Ma ora a rimetterci è lei e noi non possiamo vederla!»
Kanon aveva chiuso gli occhi e aveva detto: «Cercate di comprendere la mia posizione. Non posso rivelare così facilmente l’ubicazione del Santuario di Atena al primo che passa. Comprendo che siate in pensiero per vostra figlia ma...»
«Ci state impedendo di vederla, sapete cosa significa questo? É sequestro di persona! Io la denuncio! La denuncio e faccio chiudere i battenti del suo Santuario o qualsiasi altra cosa lei gestisca!»
«Signori, non vi sto impedendo di farlo, potete anche denunciarmi se ciò vi farà stare meglio, il problema è che se lasciassimo andare Astrid nelle condizioni in cui versa, morirà. Non è capace di sopportare il viaggio. Ne è uscita gravemente ferita e.…»
«Poche storie, lei non m’incanta! Si trovi un buon avvocato signor Kanon e anche la sua presunta Dea!» Poi aveva attaccato.
Tu e il Gran Sacerdote vi eravate scambiati uno sguardo preoccupato. Poi, Klaus, il suo segretario, si era fatto avanti e aveva tossicchiato per attirare la sua attenzione. Kanon ti aveva congedato e Juan, riprendendosi il telefono, se lo era messo in tasca ed era rimasto nella sala assieme ai due. 
Ma se il padre dell’amica di tua figlia aveva minacciato il Santuario per vie umane, fu la madre a mettervi seriamente i brividi. Una sera che stavi facendo la ronda sentisti una perturbazione nel Cosmo. Tendesti i tuoi sensi in allerta e scopristi un nuovo Cosmo aggirarsi nei pressi della barriera che proteggeva il Santuario. Non era molto potente, non raggiungeva neppure quello del più debole Bronze Saint del Santuario, era appena più forte di quello di un comune civile. E sembrava che, qualcosa battesse ripetutamente sulla barriera, come una mano che batte su un vetro. Ti avvicinasti alla barriera e tendesti l’orecchio. Poi sentisti il colpo. Voltasti completamente la faccia verso la barriera ma non vedesti nulla. Sentisti un altro colpo, proprio davanti a te. Poi una serie di colpi intervallati da delle pause. Ma che diavolo stava succedendo?
Ci mettesti un po’ per capire che, dall’altra parte, qualcuno di invisibile, stava colpendo la parete, riproducendo una precisa sequenza di colpi e pause. «Colpi e pause, colpi e pause, perché mi è famigliare?»
«Magari perché è il codice morse?» Domandò una voce maschile ironica alle tue spalle che ti fece sussultare. Ti girasti e vedesti Sirrah, in piedi, dietro di te. «Sirrah, cosa fai qui? Ti credevo morto!»
«Facevo un giro, sai com’è». Rispose con un tono che ti piacque poco. Lui ignorò la tua gaffe.
Non ci avevi mai parlato prima, anche se sapevi chi era.
«No, non lo so». Riprendesti il filo, accigliato mentre il becchino avvolto nel suo mantello bianco si avvicinava. Per la cultura orientale il bianco era il simbolo della morte. Era divenuto il colore per eccellenza delle spose quando la Regina Vittoria indossò un abito di quel colore. Per voi, in Grecia, non era che dicesse molto, anche la Divina lo portava.
«Comunque la tua interlocutrice sta dicendo di farla entrare e, mi sembra anche piuttosto stizzita, sebbene dica addirittura per favore ah, tra le altre cose, mi sapresti dire che parola è questa? Ho capito che inizia con la I, è seguita da una D, un’altra I, poi una lettera che non conosco, una T e una I, ma mi sfugge».
Ci pensasti un po’: «Non ho capito, nemmeno io, secondo te che lingua è, questa?»
«Non lo so, aspetta, adesso sta dicendo». Ti ripeté il discorso. Facesti mente locale. «Sembrerebbe italiano, il problema è che io non lo parlo». Decretasti alla fine. Lo conoscevi un po’grazie a Shaina, che l’aveva insegnato anche a Yoshino. Ma tu non avevi la stessa padronanza della lingua che avevano loro due. «Però tua moglie e tua figlia sì». Disse Sirrah, che non era all’oscuro delle origini italiche della tua consorte.
«Non posso svegliarle e… che picchia, ora?» Chiedesti udendo altri bussi.
«Ah, non guardare me, io non ho mai avuto occasione di studiarlo, ho solo cominciato ad ascoltare quei pochi italiani presenti al Santuario. Comunque non dice niente di che, non sopporta di essere ignorata». Sogghignò sotto ai baffi e tu decidesti di non indagare oltre. 
«Tu la vedi? C’è davvero qualcuno di là? Chi è?» Gli domandasti. L’ex Cancer non si scompose. Anzi, ti si avvicinò e disse, con un sorrisetto divertito: «Guarda tu stesso».
Ti mise una mano sulla spalla e t’inglobò nel suo Cosmo. Dopo la battaglia avevate scoperto che Sirrah, pur avendo combattuto, non era stato toccato dalle Creature. Ne avevate dedotto che la sua condizione lo rendesse “invisibile”.  
Non immaginavi che avesse anche la capacità di trasmettere le sue doti a terze persone.
Così, tu potesti vederla e non solo lei. Non pensavi che il mondo apparisse così agli occhi dei Guardiani della Quarta Casa. Sgranasti gli occhi, sconvolto: non avresti mai pensato che la notte pullulasse di spiriti e fuochi fatui. Ti perdesti un momento a osservarli mentre s’inseguivano tra loro, intrecciandosi in mulinelli o fluttuando come fiocchi di neve trasportati dal vento. E, che, in mezzo a loro, ci stesse una signora con le mani premute contro la barriera e i piedi staccati dal suolo. Aveva lunghi capelli mossi e neri che fluttuavano come sollevati da una brezza inesistente, la stessa che le faceva ondeggiare l’abito.
I seri occhi gialli spiccavano nell’incarnato abbronzato. Le zampe di gallina e le rughe attorno agli occhi ferini e alla bocca rivelavano la sua reale età e arricchivano la sua espressione. Ma la cosa che cogliesti immediatamente, fu la ferocia che il suo sguardo suggeriva. Quello era lo sguardo di una madre venuta a riprendersi la figlia, mettendo a ferro e fuoco il Santuario, se necessario. Ma a parte gli occhi e l’espressione della bocca non somigliava per niente ad Astrid
Era ancora molto bella nonostante il vestito a fiori con lo scollo a barca stretto in vita da una cintura e il foulard fucsia drappeggiato attorno al collo. Indossava due vistosi orecchini d’oro a cerchio e dei braccialetti ai polsi scoperti che normalmente avrebbero tintinnato a ogni suo movimento.  Lì per lì l’avevi scambiata per una zingara. Restasti profondamente colpito dalla ferocia e dalla determinazione che sprigionava: erano talmente intense che persino i fuochi fatui le stavano alla larga. Doveva essere sicuramente questo ad allontanarli, perché il suo Cosmo non era questo granché.
Ti fulminò con lo sguardo e scese a terra, continuando a tenersi accanto alla barriera. Dopodiché, continuando a poggiare una mano sullo scudo energetico, come se fosse una ringhiera, si allontanò.
«Ehi, aspetta, dove vai? Aspetta!» Esclamasti, alzando istintivamente un braccio come a cercare di fermarla, ma quella ti ignorò. La seguisti ignorando a tua volta i richiami di Sirrah. Non avevi tenuto conto che però, appena ti saresti staccato da Sirrah, anche gli effetti della sua tecnica sarebbero cessati. Infatti scomparve alla tua vista. Ma non importava. Se riuscisti a starle dietro e a percepirla fu grazie al suo Cosmo, che ti fece quasi da lanterna in mezzo alla notte. 
Per essere uno spirito era incredibilmente veloce. A un tratto dovette accorgersi di te accelerò l’andatura fino a scomparire. Ti fermasti. «Dov’è andata?» Ti domandasti perplesso guardandoti intorno, come se avessi potuto realmente scorgerla. Normalmente ti saresti fermato lì, ma qualcosa ti diceva che non avresti dovuto fermarti. Quella donna era più ostinata di quanto pensassi.
Mezz’ora dopo, in un’altra zona a ridosso della barriera, accanto agli orti di alcuni cittadini di Rodorio, trovasti Death Mask parlare con qualcuno al di là della barriera. Era la signora di prima. A quanto pare stava cercando di convincere il tuo compagno d’arme. Senza molti risultati, a giudicare dalla faccia e dai gesti stizziti di Cancer, che sembrava prossimo allo sfinimento.
Proprio allora sentisti la voce di Sirrah raggiungerti. «Eccoti! Ci ho messo un sacco di tempo per ritrovarti, certo che sei rapido». Esclamò e, ti permise di nuovo di vedere attraverso i suoi occhi. Stavolta sentisti addirittura.
«Voi dovete essere i Cavalieri della Dea Atena, non è così?» Domandò lei. Aveva una voce dolce e materna eppure l’urgenza e la determinazione ne smorzavano la gradevolezza in favore di un tono tagliente e secco. 
Da come era girato Death Mask, quando buttò la sigaretta a terra, capisti che si era fermato lì da poco. «Sissignora e lei chi è?» Domandò in tono più cortese possibile, anche se ai tuoi occhi quel comportamento apparve leggermente derisorio e scocciato. Pure la sua faccia, anche di profilo, esprimeva lo scazzo che provava; sembrava dire: “Ma levati dalle palle!”
«Sono Aida Foscavalle, la madre di Astrid e sono qui per riprendermi mia figlia. Lei dov’è?»
«Come avete fatto ad arrivare qui? Padroneggiate anche voi la tecnica della separazione dell’anima dal corpo?» Chiese invece Death Mask incuriosito.
Ma la signora lo investì con un secco e affilato: «Si chiamano Viaggi Astrali e non è una tecnica, ci riuscirebbe anche un bambino se gli si spiega come fare!» C’era un insulto masticato tra i denti da qualche parte, dopo l’ultima parola. Ma, anche se non fu pronunciato ci pensò l’espressione della donna a comunicarlo.
Death Mask la fissò in cagnesco.
Poi lo spirito si dette una parvenza di calma e aggiunse: «Come ho fatto non v’interessa, voglio mia figlia, dov’è?»
«Si calmi, signora, la prego di calmarsi». La fermò Death Mask mettendosi le mani in tasca. Udire quel tono fermo e semi rispettoso ti fece sgranare gli occhi per la sorpresa. Non avresti mai pensato che un uomo come lui potesse rivolgersi così a una donna come quella che avevate di fronte.
A eccezione della Dea Atena, ovviamente.
Ovviamente poi Death Mask si era perfettamente accorto di voi e lo sapevate. L’italiano, che non era in vena, optò per un’altra tecnica: «Non so come ci sia riuscita ma pare che lei non si sia fatta mangiare dai fuochi fatui. I miei complimenti, non è da tutti, chi siete?» Chiese, tentando di rabbonirla, ma Aida non ci cascò: «Sei sordo anche tu, ragazzo-non-ragazzo? Chi sono e cosa voglio ve l’ho già detto; dov’è mia figlia?»
«Sta riposando al Santuario». Rispose lui, poi girò completamente il corpo verso di lei, di modo che fossero l’uno di fronte all’altra. Tu non sapevi con quale coraggio la signora non fosse arretrata, di fronte allo sguardo fulminante e l’atteggiamento intimidatorio di Cancer. Era come se sapesse che non aveva nulla da temere, che Death Mask fosse il più debole di voi dodici.
«Fatemi entrare, voglio vederla!» 
«Non so se le sarà possibile, signora, la barriera della Dea Atena dovrebbe essere impenetrabile anche per gli spiriti».
Neanche questo la scoraggiò, che esclamò nuovamente: «Allora ci sarà un altro modo!»
Dal canto tuo non sapevi cosa pensare. Come sapeva che non dimostravate le vostre reali età?
Il siciliano si grattò la testa e parve riflettere sulla sua richiesta. Alla fine aprì bocca e cercò di ponderare la questione: «L’unico modo sarebbe passare attraverso lo Yomotsu Hirasaka, ma glielo sconsiglio perché è molto pericoloso». Ponderò il Cavaliere del Cancro. Una nuvoletta di fiato condensato uscì dalle sue labbra a ogni sua parola.
«Non m’interessa se è pericoloso o no! Per riavere mia figlia con me sarei disposta ad attraversare anche l’Inferno!» Sbottò la donna, scattando in avanti e batté le mani sulla barriera, come se fosse vetro.
Strano, perché la figlia poteva attraversarla tranquillamente e la madre no?
Il siciliano (prossimo a esaurire la pazienza) e la signora restarono a fissarsi in cagnesco per un po’. Alla fine fu il primo a rispondere: «Mi dispiace, ma temo che non sia possibile».
«Perché? Cosa ti impedirebbe una richiesta simile? Hai forse paura che non mi sappia difendere da sola?» Lo provocò. Non sapesti dire se fosse molto sicura di sé o se fosse molto incosciente. Anche se ti ricordò moltissimo la figlia, la signora Foscavalle sembrava persino più forte e selvatica di lei.
Quando Death Mask parlò di nuovo lo fece scegliendo le parole con molta cura: «Il fatto è che lo Yomotsu Hirasaka è il fiume del Regno dei Morti e il crocevia delle anime. C’è il rischio di morire per davvero se non si è preparati a dovere a un simile viaggio, ed io non me la sento di mettere in pericolo un’innocente come lei, anche se per una buona causa. Esistono delle Creature che divorano il Cosmo di noi Cavalieri e di tutti coloro che ne hanno uno anche a malapena un po’ sviluppato. Se queste Creature ci attaccassero nella Valle della Morte, vi posso assicurare che non sopravvivremmo».  
«Conosco già queste Creature, me ne hanno già parlato le carte». L’interruppe la donna assottigliando lo sguardo. «Non mi fanno paura». Decretò, ancora più determinata di prima e tu non potesti fare a meno di ammirarla. Aspetta, che cosa aveva detto?
«No, è lei a non avere idea di che cosa io stia parlando. Avere paura di quelle cose è riduttivo, io so cosa si prova a finire tra le loro grinfie e le posso assicurare che non è divertente nemmeno per uno come me». La donna continuò a fissarlo e Death Mask si sentì in dovere di continuare. «É stata sua figlia a salvare me e il mio collega quella volta e anche la seconda volta. Non so per quale motivo ma lei la rispettano e obbediscono al suo volere e…».
«Portamela qui». Ordinò con voce secca, interrompendo il divagare quasi a ruota libera. Il suo connazionale batté le palpebre stupito e anche un po’ offeso: «Come?»     
«Ho detto: portamela qui». Ripeté la donna sporgendo la testa verso la barriera, senza mutare la sua espressione arcigna. «Sbrigati o dirò ai miei amici di far breccia nella barriera ed entreremo. Perché quella faccia sconvolta, Cavaliere? Credevi sul serio che sarei venuta da sola? Io non ho la forza sufficiente ma loro sì». Come se avesse appena dato un segnale, Rhadamantys della Viverna, Minos del Grifone e Aiacos di Garuda uscirono dall’ombra e si fermarono tre passi indietro la schiena di Aida, che aveva alzato le mani all’altezza delle spalle.
I tre Specter non avevano paura di essere visti. E, tu non avesti alcun dubbio che fossero veramente loro.
Anche se poi ti ricordasti che il sindaco della città aveva chiuso momentaneamente l’Acropoli per “problemi strutturali” causati dal “terremoto” e, finché gli esperti non avrebbero dichiarato il complesso di nuovo agibile i turisti non sarebbero potuti rientrare.
Tu facesti per correre in aiuto al tuo orgoglioso compagno d’arme, trascinandoti dietro Sirrah, che protestò.
Death Mask fece un balzo indietro sconcertato.
Ti fermasti e Sirrah ti inciampò addosso, per poco non perse la presa su di te.
Ora che li guardavi bene, i tre non sembravano affatto intenzionati ad attaccare.
«Voi! Quelli sono i tre Giganti Infernali, come hai fatto?»  Esclamò Death Mask, abbandonando le buone maniere. Puntò l’indice destro contro di loro, come se si stesse preparando a lanciare il suo colpo.   
La donna sogghignò malefica e rispose, enigmatica, ma con voce ancora calma: «Adesso credo che sia il caso che tu faccia quello che ti ho chiesto: porta qui mia figlia».
E a Death, non restò altra scelta che obbedire.
Tempo pochi minuti ed era già di ritorno con Astrid (avvolta in un piumone) tra le braccia e Yoshino che gli correva accanto? Cosa ci faceva Yoshino con loro? A quel punto non ci vedesti più e li raggiungesti solo per essere fermato di nuovo, stavolta da Sirrah, che ti afferrò per le spalle e ti strattonò indietro con entrambe le mani. Per essere un mezzo spirito era eccezionalmente forte: «Non così in fretta, amico mio, non voglio rimetterci i denti».
«Già, non possiamo rischiare incidenti diplomatici». Si aggiunse un’altra voce maschile in falsetto e, ti ritrovasti di fronte un quarantenne con una fluente chioma rossa che faceva invidia a La sirenetta di Hans Christian Andersen, vestito di viola. «Scusa, io sono DeathToll, il maestro di Death Mask». Si presentò con garbo, accorgendosi del tuo sguardo vagamente perplesso. Poi ti riprendesti. «Liberatemi! Devo correre da loro». Sbottasti.
«Spiacente, non possiamo, ci è stato detto di impedire che eventuali scocciatori interferiscano».
«Da chi? Chi ve l’ha ordinato?»     
«Segreto». Rispose Sirrah in tono viscido. «Ti permetteremo di osservare tutto, ma zitto! Suvvia, non vorrai impedire che una madre parli a sua figlia.» ti ricordò.
Già, almeno questo glielo dovevate. Anche se stavate processandola.
E, costretto da quei due, non avesti altra scelta. Non potevi neanche liberartene con il Cosmo per prima cosa per non farti scoprire, per seconda cosa per via delle Creature e terza cosa, non sapevi se i due ex Gold fossero ancora così forti da poter sostenere uno scontro diretto con te. Avevi combattuto gli Specter e i Fantasmi, ma gli spiriti non sapevi certo come trattarli.
Vedesti Astrid, avvolta in un giaccone pesante sostenuta da Yoshino, sedersi a terra e Death Mask arretrare di un passo. Nonostante volesse aiutarla avevi l’impressione che se si fosse avvicinato, Aida l’avrebbe sbranato. Da come la ragazza era appoggiata a tua figlia comprendesti che in realtà stesse ancora dormendo.
I tre Specter retrocessero tra le ombre fino a scomparire.
«Death Mask, ma qui non c’è niente». Protestò la bionda con voce impastata. Avevi creduto che finora dormisse.
«Non la vedi? Oh…» Borbottò qualche imprecazione, «Aspetta».
Tua figlia si inginocchiò accanto all’amica, che continuava a tenersi aggrappata al collo di Death. La vedesti fare la spola con lo sguardo tra quest’ultima e la madre. Lo capisti dai movimenti che faceva con la testa. Purtroppo vi dava le spalle.
Aida nel frattempo si era inginocchiata senza staccare gli occhi dalla sua bambina. Sembrava che stesse per scoppiare in lacrime, lo vedevi dalla rigidità della sua schiena e dal modo in cui stava sforzandosi di non scagliarsi contro la barriera. Se avesse potuto però l’avrebbe fatto e avrebbe preso la sua bambina e, mormorandole rassicurazioni l’avrebbe stretta a sé e portata via.
La sua sofferenza la conoscevi bene, come anche il suo dolore. Non doveva essere stato facile per lei sapere… Improvvisamente realizzasti che tutti voi eravate colpevoli. Non avendo mai fatto nulla in concreto per il reato di Death Mask e Aphrodite, eravate di fatto diventati complici. Ma era anche vero che se non l’avessero fatto, Astrid sarebbe morta molto tempo prima. E sarebbe stato anche peggio.
Improvvisamente Astrid esclamò: «Mamma! Sei davvero qui! Mamma!» E capisti che Death le aveva permesso di vedere.
Cancer le spiegò la situazione.
Da dove ti trovavi non riuscivi a vedere le sue espressioni, ma eri sicuro che fosse trasalita.   
«Mamma…» Chiamò solamente Astrid a fine racconto.
«Può sentirti e puoi parlarle, se vuoi». Le disse Death Mask, cercando di modulare la voce affinché suonasse meno infastidita. Astrid si staccò dalla sua stretta, e Death si raddrizzò. Poi le pose una mano sulla spalla per non interrompere il contatto.  
La ventunenne tacque per un po’, poi prese un bel respiro profondo e cominciò: «Scusami, non ho mantenuto la promessa, sarei dovuta tornare a casa molto tempo fa e invece c’è stato un contrattempo e…»
«Lo so, quando torni faremo i conti. Ma che cosa sta succedendo?»
Death Mask, dopo essersi acceso una sigaretta e fatto un tiro, cercando di estraniarsi da questa scena commovente, ma Astrid lo riacciuffò.  
«Non lo so, davvero non lo so». Rispose la figlia di Aida.
A quel punto prese parola Yoshino, che guardò verso lo spirito, o, almeno, dove credeva che fosse: «Signora le posso assicurare che tutto quello che sta dicendo sua figlia è vero. C’è stato davvero un attacco, non è mai stata intenzione del Santuario trattenerla qui più del dovuto».
«Cosa ne sai tu? Chi sei?» Domandò Aida, seccata dall’intromissione.
Tua figlia non fece una grinza. «Io sono Yoshino Hino, attuale reincarnazione di una delle Dee Atena di questa dimensione e sono un’amica di sua figlia. La prego, mi creda, fino a poche settimane fa era così contenta di tornare a casa».
«Perché allora non è tornata prima?»
«Perché… mamma, c’è bisogno di chiedermelo ancora dopo tutti questi anni?» Scherzò amara Astrid, guadagnandosi le vostre occhiate perplesse. Passò qualche secondo dove restaste a guardarla ancora con quell’espressione, prima che Aida cominciasse a sbottare come una scaricatrice di porto. Persino il suo Cosmo dette una piccola esplosione.
Death la osservò per qualche secondo, poi si tolse la cicca di bocca. Sembrava un po’ sconvolto: «Mi sta venendo il diabete al pensiero, ma devo ammettere che tua madre ha carattere». Affermò infine scuotendo il capo, disgustato.
«Perché?»
«Non ho mai sentito una signora sbraitare tanto in vita mia, non avevo mai sentito tanti insulti in fila uno dietro l’altro prima. Alcuni neanche li conoscevo». Strano, visto che Death sapeva fare anche di peggio della signora Foscavalle. La quale concluse con un: «E allora quando diavolo è che tornerai a casa?» Poi attese la risposta, mentre prendeva fiato.
«Non lo so». Rispose Astrid in imbarazzo per la sgridata.
«Te lo ripeto, sei sicura che non vuoi che ti riporti a casa? Usciamo, ci teletrasportiamo lì e fine della storia».
«No, Death, no. Non sprecare il tuo Cosmo per questo».
«Tua madre sembra sul punto di sbraitare di nuovo». L’avvisò per tutta risposta. Effettivamente…
«Lo so». Rispose la giovane con un sorriso divertito.
«É per via dei ricordi di cui mi hai parlato l’ultima volta che vuoi restare?» Domandò Aida.
«Che ricordi, Astrid? Gli stessi di cui mi hai parlato?» Domandò incuriosito accigliandosi. «Sì».
«Allora erano veri?» Chiesero entrambi.
«Certo».
«Quali ricordi?» Domandò Yoshino, dando voce anche alla tua domanda. Ma la ragazza non rispose perché Aida l’anticipò, continuando a riportare le parole della donna al di là della barriera: «Oh, Astrid, ne abbiamo già parlato tante volte e che non c’è alcun ricordo, non ricordi cosa ha detto lo psicologo? Era solo una fantasia che ti ha portato quasi alla morte. Pensavo che avessi smesso».
Sospirò la signora, con aria delusa. Ma tu non ti lasciasti ingannare. Quella tecnica la conoscevi bene.
La bionda ci mise un po’ per rispondere e, quando lo fece, cercò di usare un tono il più pacato possibile nello spiegare le sue ragioni: «Anch’io credevo che fosse solo una fantasia, ma non è così. Il giorno dell’ultimo attacco ne ho avuto la prova. Era reale, è tutto reale, mamma. Non so cosa sia, ma è tutto reale, ho persino ritrovato i ricordi riguardanti il mio Snakye e le estati che passavamo in Germania dalla tata, ti ricordi?»
Death Mask lanciò prima un’occhiata alla ragazza e poi un’occhiataccia allo spirito interdetto, che ribatté: «E, tu credi davvero che queste persone ti aiuteranno?» Certo che la signora non aveva peli sulla lingua. Eppure avevi l’impressione che Death Mask le stesse nascondendo qualcosa. «Chi è Snakye?» Le domandò invece, accigliandosi.
Lei sorrise e Death Mask sgranò gli occhi. E, così, tu comprendesti che le aveva letto nel pensiero. 
«Hai fatto tutto quel casino per vendicare un animale?» Chiese allibito, se non fosse stato circondato da signore sarebbe anche esploso. Bè, forse dal nome avreste dovuto capirlo.
La ragazza confermò con un cenno del capo. 
Sotto quel punto di vista, comprendesti che come la madre era disposta a lottare per le persone e gli animali che amava. Però non ti risultava che Death Mask o Milo ne avessero mai parlato. E dire che anche Milo era stato interrogato sulla sua scelta di lasciarle affrontare.
«Dunque cosa vuoi fare?» Domandò Death Mask, in coro con la signora.
«Tornerò a casa quando avrò capito cosa è successo undici anni fa, va bene?»
«D’accordo, qualsiasi cosa chiamami, ti prego». Replicò la madre, arrendevole.
La ragazza allungò la mano e appoggiò il palmo sulla barriera e promise: «Tutti i giorni, anche videochiamate, se vorrai».
«Le pretendo, ti voglio bene amore mio».
Il disgusto del siciliano raggiunse vette altissime, a giudicare dalla sua faccia. Ma tutte lo ignorarono. Se non stava facendo smorfie o boccacce, come quando Camus chiese a Natasha di vederlo come suo nonno, fu solo per via della presenza degli Specter, di cui nessun altro, a parte te, si era accorto. A proposito, ma dove erano finiti? Che qualcuno stesse nascondendoli? Non avvertivi neanche il loro Cosmo e… un momento, ma tu non avevi mai avvertito i loro Cosmi.  
«Lo so, anch’io te ne voglio».
Aida scomparve e Death Mask si staccò da Astrid dicendo: «É andata via».
Astrid lasciò cadere la mano e restò a fissare la barriera ancora per un po’. Infine decretò, con un tono secco, quasi che lo usasse per sforzarsi di non piangere: «Riportatemi dentro, sto cominciando ad avere freddo».
Si alzò in piedi e Death Mask la prese sulla schiena borbottando che così stava più comoda. Poi s’incamminò sulla via del ritorno, seguito da Yoshino. La quale cominciò a tempestare la sua amica di domande dopo una ventina di passi.
«Ok amico, sei libero». Dichiarò Sirrah e tu ti sentisti di nuovo le membra più leggere. Ti guardasti attorno ma non vedesti più nessuno spirito, neanche DeathToll. Era tutto così tranquillo che ti domandasti se quello che avessi visto non fosse stato altro che un sogno.
   
Astrid

Mentre tornavamo alla Sesta Casa, io aggrappata a Death e Yoshino che camminava al nostro fianco, ripensai al nostro incontro e alle emozioni che mi aveva suscitato. Oh, se solo avessi avuto un po’di forza in più. 
Rivedere mia madre a quel modo era stato strano, però era stato bello. Era cambiata moltissimo. Non pensavo che anche la mia energica mamma arrivasse a tanto. Lei me lo diceva sempre che se avessi avuto bisogno mi avrebbe raggiunta ovunque. «Dovunque tu sia, chiamami e io ti sentirò». Mi aveva promesso una sera che avevo avuto un incubo e mi ero rifugiata nel suo letto, poggiandomi la mano sul cuore.
«La stessa cosa vale per me!» Aveva esclamato la tata che era apparsa sulla soglia con già indosso la camicia da notte. Aveva sentito anche lei il grido del mio risveglio travagliato. Avevo teso le braccia anche verso di lei e lei si era avvicinata per stringere entrambe. Poi restando così ci eravamo messe a ridere come bambine.
Riemersi dal ricordo. Lei mi aveva cercato tutto il tempo.
Ero consapevole che avesse sofferto da cani fino a questo momento. Solo il suo carattere forte e il sostegno della tata e della nonna, uniti alla sua determinazione e alla sua forza di volontà dovevano averla spinta ad andare avanti. Tra lei e papà era sempre lei la più forte. Non solo perché aveva avuto la forza di credere in qualcos’altro oltre alla realtà pura e cruda così come si presentava, ma anche perché non si piegava mai. Mio padre si vergognava di mia madre proprio per questo. Quando mia madre aveva cominciato a guardarlo con gli occhi della ragione invece che con quelli dell’amore, se ne era accorta.
Nonostante questo, lui non aveva desistito, non era riuscito a farle cambiare idea e l’aveva persa. Si era sempre pentito di aver agito così stupidamente. Anche se per orgoglio non si era mai più riavvicinato a lei. Se lo fece, fu soltanto per me, che ero comunque sua figlia e meritavo un’infanzia normale. Per cui, quando fui più grandicella, cominciammo a fare viaggi in giro per l’Europa solo noi tre. A casa di mia madre dovrei avere ancora gli album fotografici di quelle gite. 
Da piccola credevo che papà lo facesse per la mamma, ora penso che facesse quei viaggi con noi al grido di: «É per la bambina che lo faccio». Allora ero troppo piccola per capire come stessero davvero le cose, per questo, quando vedevo altri genitori baciarsi o scambiarsi altre carezze in pubblico, mi domandavo perché anche i miei non lo facessero e, cosa fosse tutta quella freddezza tra loro. A me riservavano amore e tenerezza, ma perché tra loro no? Neppure il mio amico seppe spiegarmelo bene.
Da adulta, riuscii a comprenderlo perfettamente.
Soprattutto riguardando i ricordi della mia infanzia. Ne conservavo di sbiaditi della mamma sepolta sotto le coperte e sempre piangente, i primi due anni dopo il divorzio. Ma erano gli unici che ricordavo del periodo, dopo la telefonata che ci fece trasferire in Germania, dalla tata. Era la migliore amica di mia madre. L’aveva chiamata per passare un po’ di tempo insieme, che era dalla mia nascita che non si erano più viste e, quando aveva saputo, ci offrì di venire a vivere da lei.
Mia madre, dopo un po’ di rimostranze aveva accettato e, le aveva fatto bene. Io stesse avevo fatto l’asilo in Germania. Ma per ricordare qualcosa avrei avuto bisogno delle foto, che ero sicura conservassero da qualche parte.  
Lei e la tata si erano conosciute quando mia madre frequentava l’università e andò in Erasmus a Berlino. Allora studiava per diventare giornalista.
Si erano conosciute in un pub. Quella sera la mamma era con un gruppo di amici quando aveva visto la zia seduta a un tavolo da sola e tutti che la evitavano guardandola malissimo.
«Le facevi scappare a gambe levate». La prendeva scherzosamente in giro la mamma quando ricordavano il passato, cingendole le spalle. «Ma non facevo niente di che!» Protestava la zia, che scherzava così, ma ora capivo che ci soffriva.
Gli amici della mamma avevano cominciato a prendere in giro senza pietà quella sconosciuta.
Così lei si era arrabbiata e aveva cominciato a intimorirli con lettura di mano e carte. Lasciandosi mandare a cagare e farsi sfottere tranquillamente.  Mia madre ribatté sorridendo e facendogli ciao ciao con la mano.
Invece la zia rimase colpita da questa ragazza che faceva le carte e non si preoccupava di intimorire la gente. Con il tempo sbocciò quell’amicizia che fece diventare la sua amica. Ogni estate quando poteva, la mamma tornava a trovarla e passare del tempo insieme. Per il resto si tenevano in contatto tramite delle lettere prima e quando la tecnologia si evolse, anche con i computer e il telefono.
Addirittura la invitò alla sua tesi di laurea e la zia non rifiutò.
Neanche il fidanzamento e il matrimonio della mamma distrussero quest’amicizia. Addirittura le chiese non solo la mia madrina, ma anche la mia tata. Era lei che si occupava di me, soprattutto d’estate, quando mamma aveva più da fare di prima con il giornale. A causa del lavoro che trovò a un quotidiano locale fu costretta ad affidarmi spesso alle sue cure. Ovviamente, senza sapere dell’aiuto che le dava il mio amico e dei pericoli che correvo.
Estati che mi domando con che coraggio rimossi.
Ci vollero sei anni alla mamma per riprendersi dal divorzio, esattamente il tempo che servì a me per crescere e cominciare la prima elementare. Allora ci trasferimmo di nuovo in Italia. Secondo la mamma mi avrebbe fatto bene conoscere il mio paese d’origine. 
Piansi quando lasciammo la tata, anche se ci tenemmo in contatto per tutti i mesi a venire e ogni estate potei tornare da lei fino a quel giorno che avevo appena ricordato.
Sapevo però che mia madre era una donna che non si sbilanciava quasi mai nelle decisioni che prendeva. Come sapevo anche che il mio rapimento doveva averla sconvolta moltissimo. Altrimenti non si sarebbe mai spinta fino a questo punto. L’amore che mi portava era impressionante. Fino a questo momento non avevo mai compreso quanto fosse immenso. Non avevo mai sentito il cuore così traboccante di gioia e, a ogni battito spingeva l’emozione sempre più forte neanche volesse ricreare il mascheretto dentro di me. Ma l’unica cosa che ottenne, fu che prima due lucciconi e poi un inarrestabile fiume di lacrime mi inondasse il viso. Se avessi potuto l’avrei abbracciata. Invece, tutto quello che potei fare fu poggiare una mano sulla barriera, trasparente e sottile come un vetro al tatto e all’apparenza, dove sapevo che lei avrebbe poggiato la propria, cercando di infondere in quel gesto tutto quello che provavamo.
Sapevo e sentivo anche che avrei dovuto spiegarle moltissime cose, ma per quel momento, solo per quel momento, preferii bearmi del pensiero che lei fosse proprio qui. Solo questo e nient’altro. Niente magia, niente di niente, soltanto mia madre che potevo vedere solo con gli occhi delle emozioni che ci legavano.
«Ora non dirmi che ti metterai a piangere». Mi fermò il siciliano, infastidito, riportandomi alla realtà.
Mi tamponai le lacrime con il palmo della mano. Yoshino invece commentò: «Certo che sei proprio insensibile, possibile che riesci sempre a rovinare tutto?» Se necessario non si faceva problemi a picchiarlo, non so con che coraggio, io non ci sarei mai riuscita tanta era la paura che mi metteva il pensiero. Anche se Death mi considerava quasi un’amica non volevo rischiare troppo. Eppure doveva ricordarlo anche lei che cosa significasse veramente essere il custode della Quarta Casa. Aveva per forza dovuto indurirsi, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. 
Ma forse, lei se lo poteva permettere in quanto incarnazione di una Dea. Il pensiero di avere accanto una Dea e di averla trattata come una ragazza normale mi mise un po’ di soggezione. Ora come avrei dovuto comportarmi con lei? La guardai intimorita.
Se io avevo questo problema, il mio connazionale non ebbe dubbi a guardarla malissimo poi mi consigliò, con ripugnanza: «Guarda se nelle tasche della tua giacca c’è un fazzoletto e soffiati quel naso».
Solo allora mi rinvenni e feci come aveva detto. Con il braccio libero frugai nelle mie tasche, lo trovai e mi ripulii. Fortunatamente camminando così riuscii a fare tutto senza problemi. In realtà sarei anche potuta scendere e camminare con le mie gambe, ma non mi andava molto, perciò me ne approfittai un po’, sperando che non se ne fosse accorto. 
A un tratto Yoshino cercò di intavolare una conversazione: «Però Astrid non ci hai mai detto di...»
«Un’altra volta, per favore, sono stanca». Le dissi in tono forse troppo brusco, di cui mi pentii subito e serrai la bocca quasi istantaneamente per l’imbarazzo.
Yoshino chiuse la bocca. Mi dispiaceva troncare così questa discussione ma ero veramente stanca e non me la sentivo ancora di parlarne. Appoggiai la testa sulla spalla sinistra di Death e chiusi gli occhi, non prima di aver detto: «Grazie, Death, per avermi svegliata».
Lui non disse niente, invece si limitò a borbottare qualcosa. In seguito, domandò, più chiaramente e incuriosito: «Piuttosto, tu che cosa ci facevi nella stanza di Astrid?»
«Non è come credi, mi sono soltanto fermata a dormire da lei, dopo che abbiamo passato la giornata insieme». Rispose Yoshino in imbarazzo e con voce agitata. Temeva che Death se ne potesse uscire con una di quelle prese di giro maliziose come Shura. Mi aveva raccontato di quando il Cavaliere di Capricorn la prese bonariamente in giro domandandole quando avrebbe sposato Aiolia, dal momento che convivevano.
A questa notizia c’ero rimasta così perché quel corvino inquietante, tutto sembrava fuorché capace di uscite come questa. Anche se poi, aveva ammesso che lui a un tratto non l’aveva più schernita e si era come rintanato dietro a un vetro fatto di servile rispetto e formalità. Le avevo consigliato più volte di dirglielo che questo atteggiamento le dava fastidio, ma lei aveva scosso il capo rassegnata : «Va bene così». Diceva sempre. O forse mi sbagliavo e questa ragazzina era più attaccabrighe di quanto desse a vedere.
Tornai a pensare a mia mamma.
Poi chiusi gli occhi, sopraffatta dal sonno e cullata da questa dolce andatura, mi addormentai.
 
Mi ritrovai di nuovo davanti alla pineta soleggiata. La stessa dove avevo visto la Piattola per la prima volta, quando ero stata di nuovo libera di sognare. Era tutto così reale, così vivido, il canto degli uccelli, lo stormire delle foglie degli alberi più bassi. Il profumo dei tigli, degli aghi di pino e delle erbe aromatiche, il vento che soffiava tra le fronde. Conoscevo quest’odore, ma non ricordavo dove l’avessi già sentito.
Abbassai lo sguardo per guardarmi e scoprii di essere ancora vestita con la mia divisa da domestica, solo che stavolta sulle mie spalle c’era adagiato un gilet semitrasparente, quasi un velo. E, che  qualcosa in quella foresta mi chiamava. «Vieni, vieni, coraggio, vieni con noi!»
«Dove siete? Non vi vedo».
«Vieni, Astrid. Vieni».
Il sogno cambiò di nuovo e mi ritrovai in un altro boschetto, di fronte a una marea di serpenti sibilanti di varie specie e dimensioni. Sussultai e mi aggrappai alla gamba del mio amico, quasi nascondendomi dietro di essa: «Non aver paura». Mi rassicurò, poi lo chiamò per me. Il serpentello si staccò dalla fila disse, la voce bianca da bambino e le parole allungate: «Ai vostri ordini, padrone».
«Vedi questa sacra bambina? Da oggi tu sarai il suo fedele compagno e dovrai proteggerla». Ordinò.
Il serpentello volse il capino verso di me e la sua lingua biforcuta guizzò un momento fuori delle fauci. Fino a quel momento questi animali mi avevano sempre disgustato, invece, con Snakye, fu diverso. Era un colubro leopardino con uno splendido dorso giallo chiaro a macchie e strisce brune bordato di nero.  Aveva degli splendidi occhi rossi e mi guardava incuriosito con le sue pupille tonde. Avevo sempre pensato che i serpenti avessero la pupilla esclusivamente verticale, non pensavo che ne esistesse uno con le pupille tonde. Dopo una piccola esitazione si era avvicinato. Provai ad arretrare da seduta ma il mio amico mi fermò posandomi le grandi mani sulle mie spallucce come avrebbe fatto mio padre se fosse stato lì. «É tutto a posto, non ti farà del male». Mi garantì poi, rassicurandomi. «Avanti, prendilo».
«Non posso», balbettai spaventata.
«Non aver paura, tendi le mani, non ti attaccherà, gli ho detto di non farlo». In seguito scoprii che non era abitudine di questo serpente né mordere né attaccare. Se si sentiva minacciato preferiva scappare.
Girai il viso verso di lui e tentai una timida protesta. «Ma se…»
«Non lo farà, promesso». E io mi fidai.
Feci come aveva detto, tremando un po’e, avvicinai le dita al suo muso. La biscetta mi lambì le dita con la sua lingua umida e sibilò. Poi alzò il capino e lo posò sulle mie dita. Un piccolo verso spaventato mi uscì dalla gola mentre il serpentello si inerpicava sulla mia mano e si avvolgeva dolcemente al mio polso, ove posò la testa, guardandomi con i suoi occhi gialli incuriositi. Il battito del suo cuore sulla mia mano.
Per la prima volta mi accorsi che aveva tanta paura quanta ne avevo io. E, mi sembrò di rivedere me stessa in quello sguardo. Improvvisamente non ebbi più paura.
«Bene!» Esclamò con un sorriso il mio amico. Lo guardai e gli domandai: «Posso dargli un nome?»
«Ma certo, adesso lui è tuo».
Tornai a guardare il serpente che continuava a studiarmi. «Allora ti chiamerò Snakye, ti piace? Snakye». Lui batté le palpebre sorpreso. Solo dopo scoprii che ero stata la prima a dargli un nome proprio. A pensarci ora gli avrei dato un nome decisamente diverso, ma avevo appena finito la prima elementare, che diavolo ne sapevo che non gli sarebbe più andato bene, crescendo?
Con il tempo mi abituai a lui e alla sua compagnia estiva.
Non mi seguiva mai dentro casa. Era il nostro segreto: né lei né la mamma dovevano sapere quello che facevo quando andavo a giocare nel parco della villa.
Quando uscivo in giardino era sempre lui quello che mi veniva incontro, come se mi avesse aspettato tutto il tempo. Poi, insieme, ci avviavamo dal mio amico, che attendeva nel folto della proprietà.
Ed era difficile per me scorgerlo. «Aspettami Snakye, non ti vedo! Non potresti fare qualcosa per farti vedere? Che so, saltare?»
«I serpenti non saltano, non siamo mica tutti come quel Ser Bis che ti piace tanto». Gli avevo raccontato della trasposizione disneyana di Robin Hood. Aveva voluto provare anche lui ma non c’era proprio riuscito. Come ogni bambino, aveva dato la colpa di questa mancanza a me e non ci eravamo quasi più parlati per una settimana. 
Con il tempo imparai a conoscere i serpenti a fondo, proprio grazie a lui, almeno la sua specie. Fortuna che sapeva provvedere a sé stesso, perché per i primi tempi non mi entusiasmava molto dare la caccia ai topi di campagna e alle arvicole campestri.
All’inizio si limitava a strisciarmi accanto. Poi, quando prendemmo un po’ più di confidenza prese ad attorcigliarsi attorno al mio polso. Dovette smettere quando nel giro di un anno raggiunse la lunghezza di un metro. E, quando me lo ritrovai davanti l’anno seguente nel parco della villa della tata, non lo riconobbi subito. L’avevo chiamato per mezz’ora quando giunse da me. «Astrid». Mi salutò con la sua voce sibilante e molto più profonda. Poi mi si avvicinò e sollevò leggermente la testa verso di me.
«Non ci credo sei cresciuto in fretta». Lo salutai, stupita.
«Eh, già, tu invece, sei ancora una bambina come l’anno scorso». Asserì lui, orgoglioso.
«Non è vero, sono cresciuta! Adesso sono alta un metro e trentatré!» Esclamai fiera, cercando di sembrare più alta. Altezza che lui raggiunse immediatamente strisciando sul muretto e, arrivando così all’altezza della scritta azzurra stampigliata poco sotto il mio collo. 
«Cosa c’è?» Domandò poi notando il mio broncio.
Mi asciugai una lacrima dal viso con il polso e gli dissi: «Adesso non ti potrai più attorcigliare al mio braccio».   
«No, però potrò fare molte altre cose». Come, per esempio farmi ridere esibendosi nell’imitazione di Snake: cioè facendo un percorso geometrico utilizzando lo spazio tra le mattonelle. Mia nonna assuefatta da decine di migliaia di puntate di Paperissima, avrebbe chiamato quest’imitazione “serpente geometra”.
«Vedo che vi siete già ritrovati». Ci accolse la voce maschile dell’uomo che mi aveva affidato Snakye.
Mi girai verso di lui, lo vidi, lo chiamai e gli corsi incontro per abbracciarlo tutta contenta. Anche se il massimo che riuscii a stringergli furono le gambe. Si chinò un po’ per posarmi le mani sulle spalle in un gesto delicato e mi ritrovai sommersa dai suoi lunghissimi capelli come sotto una cascata. In realtà non avevo mai provato ma immaginai che fosse simile. So di averlo guardato in volto e di averne visto gli occhi verdi sorridermi. Avevamo deciso che lui sarebbe rimasto qui e che ci saremmo rivisti soltanto d’estate quando sarei venuta in Germania. So di averlo chiamato in qualche modo, ma non riuscivo a ricordarmi come.
Comunque il primo giorno lo passavamo sempre a raccontarci come erano trascorsi questi nove mesi. Lui diceva sempre di non aver fatto niente di che, solo qualche gita all’estero. Un paio di volte gli avevo chiesto dei souvenir ma non me ne portò mai. Diceva sempre che non ne aveva occasione e non era giusto perché io ero riuscita a fargli vedere le foto dei viaggi con i miei. Lui invece neanche quello. In compenso mi parlava del Santuario ancora e ancora. A me non dispiaceva, anche se quando lo faceva sembrava quasi che volesse risentirmi storia, piuttosto che raccontarmi come aveva trascorso quei mesi. Se ripensavo a questi giorni passati, mi sentivo veramente una stupida ad aver messo in pericolo la mia vita a quel modo.
Aprii gli occhi e mi ritrovai a fissare il soffitto. Cominciai a giocherellare con le coperte.
Non mi ero mai sentita così stanca e assonnata in tutta la mia vita. Per un momento, mi tornarono in mente le domeniche passate a lottare per alzarsi e avviarsi al bar di Corrado. E, per un istante, mi parve di essere di nuovo a casa. Una piacevole finzione da cui mi dovetti distaccare.  
Mi alzai e mi diressi alle cucine dove trovai Shun, Ikki e Yoshino che facevano colazione.
«Buongiorno a tutti». Salutai con uno sbadiglio.
Ikki ricambiò con un quasi apatico: «Buongiorno», Shun ci mise un sorriso smagliante. Come faceva a essere così allegro e carico a quest’ora era per me un vero mistero.
Yoshino, che di solito era sempre contenta di vedermi, mi salutò con un sorrisone che si afflosciò quasi subito, a causa di ieri sera. Un’ombra passò sul suo volto quando le strinsi una spalla per rassicurarla.
Anche se ero appena sveglia mi accorsi subito di questo cambiamento e pure il mio sorriso stiracchiato si spense. “Ho fatto qualcosa di male?” Pensai mentre mi accomodavo accanto a lei e mi servivo con quello che c’era in tavola. Ah, già, era comunque Atena, anche se non capivo bene che cosa intendesse. Avrei dovuto farmelo spiegare prima o poi.
Lei tornò la solita Yoshino allegra e sorridente che conoscevo come se non fosse successo nulla.
«Dormito bene?» Chiese Shun e io annuii con un sorriso. Poi il Cavaliere di Virgo si rivolse a Phoenix, che distolse lo sguardo da me: «Fratello, ne vuoi ancora un po’?» Domandò posando sul tavolo la sua tazza di caffè latte.
«No, grazie, sono pieno, mi passeresti quella mela?» Chiese invece. Poi tornò a guardarmi mentre inzuppavo un biscotto nella mia tazza di caffè.
«Come vanno le tue ferite?» Mi domandò poi mentre la sbucciava.
«Non fanno più male, grazie, anche se Shun si è raccomandato di non fare movimenti bruschi per un po’». Minimizzai. Non volevo farlo sentire più in colpa di quanto già non fosse. Le ustioni che mi aveva provocato erano di quarto grado, cioè quello più grave. Era un miracolo che fossi sopravvissuta a Shura, perché nel suo tentativo di arginare il sangue, aveva compresso la ferita sulla schiena con il mantello ove mi aveva avvolta, complicando non poco il lavoro dei medici. A causa della necrosi delle strutture epiteliali intradermiche, che hanno la capacità di rigenerare la pelle, il danno a carico dei tessuti sottocutanei determina una significativa compromissione funzionale della zona colpita. Il mio decorso pertanto fu caratterizzato da diversi interventi di ricostruzione chirurgica.
Così mi avevano detto Shun, i dottori e il mio amico. Ero stata due volte fortunata.
Normalmente, mi aveva spiegato Shun, la riepitelizzazione avrebbe dovuto essere coadiuvata dall’impianto di innesti cutanei sintetici o dall’autotrapianto di tessuto epidermico.
Fortunatamente tre volte, l’ustione non ricopriva una grossissima percentuale di superficie corporea coinvolta e, non era profonda a tal punto da scoprirmi le ossa e i miei organi interni. Ma, grazie al Cosmo del mio amico, non c’era stato bisogno.
Durante la notte tra la sesta e quella che avrebbe dovuto essere la settima operazione ero riemersa momentaneamente dall’incoscienza ed ero di nuovo in dormiveglia. Shun mi aveva spiegato che queste ustioni erano inoltre caratterizzate da carbonizzazione e assenza di dolore.
A un tratto il dolore, così dal nulla, era tornato e mi aveva fatto spalancare gli occhi nel buio e trattenere il primo di una lunga serie di gemiti di pianto. Ed era tornata una crisi d’ansia che portò con sé anche la paura della morte e il delitto di cui mi ero macchiata per proteggere il Santuario.  
Allora avevo sentito la presenza del mio amico vicina a me e poi la sua voce: “Non riesci ancora a padroneggiare la tecnica di rigenerazione? Come darti torto, sono stato via così a lungo che è normale che tu te la sia dimenticata. Non ti preoccupare, rilassati, ci penso io”. Disse abbassando il lenzuolo fino a lasciare scoperte le ferite. Con il senno di poi mi sarei anche sentita mortalmente a disagio ma in quel momento la sofferenza prendeva tutta la mia attenzione. Eppure il solo averlo vicino bastò per annientare la crisi e riportarmi alla realtà.
“Fa male”.
“Va tutto bene, Astrid. Lascia fare a me e vedrai che starai di nuovo bene”. Fece veramente male. Il dolore si intensificò al punto che mi sembrò che la schiena stesse ardendo, come se mi avesse dato fuoco.
Strinsi i denti, mentre recuperavo con sofferenza il senso del tatto e della percezione sulla schiena. Sentendo così anche le mani del mio amico, premute sulla zona lesa. Nella mia mente urlavo: “Fa male, fa male, smettila! Ti prego, smettila!” 
Ma lui si concentrò sull’operazione di rigenerazione. Io cercai di divincolarmi, ma tutto quello che riuscii a fare fu artigliare le lenzuola e stringere i denti, soffocando i gemiti di sofferenza. 
A un tratto le sue mani abbandonarono la mia schiena e il dolore scemò e restò soltanto una pulsazione ritmica che, alla lunga, divenne quasi piacevole. Solo allora parlò di nuovo: “Ho ridotto il danno fino a fartelo diventare un’ustione di primo grado, dimmi, senti dolore?”
“Sì.” risposi con voce sottile battendo le palpebre per liberare gli occhi dalle lacrime.
“Senti la mia mano?” Chiese e la posò sul nuovo strato di pelle.
“Sì”.
“É un buon segno, significa che l’operazione è perfettamente riuscita”. Mi rassicurò, poi continuò, “Ho controllato anche le vie respiratorie e non hai lesioni da inalazione, ma le hai congestionate a causa delle sostanze che hai respirato. Te le ho liberate, adesso non dovresti avere problemi con polmoniti, frequenza cardiaca e respiratoria e pressione arteriosa, saturazione di ossigeno. Meno male che eri già arrivata a un buon punto, altrimenti rischiavi lo shock da ustione, mentre per le cicatrici te le ho risanate internamente. Adesso non dovresti avere più tanti problemi come prima anche a muoverti”. Lo shock da ustione è uno shock ipovolemico non emorragico (shock da diminuito volume di sangue circolante non determinato da emorragia) che si verifica quando il paziente è sottoposto ad ustione di ampie zone del corpo; spiegò.
Girai la testa a sinistra e chiusi gli occhi con un sospiro di sollievo. “Grazie”. Esalai già più tranquilla mentre le scapole si alzavano e si abbassavano di nuovo al ritmo del mio respiro. Sentii di nuovo il freddo, ma anche il dolore urente ma sopportabile che le pervadeva. Lui non disse niente, anche se dalle emozioni che percepii mi parve che mi stesse sorridendo.
Solo allora mi tornò in mente quello che mi aveva detto poco prima e che i miei neuroni avevano continuato a segnalarmi in mezzo alla nebbia di dolore che li avvolgeva. “Sei ancora qui?”
“Sì”.
“Hai detto che sono capace di rigenerarmi? Com’è possibile? Pensavo che fossero stati i Cosmi di Yoshino e degli altri ad aver accelerato la guarigione. Un momento, se era così allora anche in Italia io...”
“É una tecnica che ti insegnai molto tempo fa. Non so se ricordi già anche questo”. M’interruppe il e tacque, in attesa. “No, non credo”. Mormorai ancora stupefatta più a me stessa che a lui, portando le mani sotto al mento. Appoggiai la guancia sui dorsi incrociati sotto il mento.
“Ricorderai”. Mi garantì con lo stesso tono di quando si dice: Non c’è fretta, pensa solo a rilassarti, posandomi una mano sulla testa e carezzandomi delicatamente i capelli più corti con fare paterno. Le Ali della Fenice avevano bruciacchiato quella parte di chioma che mi copriva le scapole e, adesso, li avevo lunghi fino alle spalle. Se non altro, potevo sfoggiare un nuovo taglio di capelli. Chrysafi era stata davvero brava a riuscire a rimediare al danno, qualche giorno dopo l’operazione del mio amico. La mia collega era riuscita a venire a trovarmi e, mi aveva chiesto se avessi voluto fare qualcosa per la mia chioma. Sulle prime avevo declinato l’offerta, ma lei mi convinse dicendo di aver frequentato un corso per diventare parrucchiera, ma non aveva mai esercitato per mancanza di fondi. Però, la sua ossessione per i capelli di Milo non nasceva dallo smodato desiderio di acconciarglieli come avevo sperato.
Così me li aveva pareggiati.  
“É frustrante non ricordarsi quasi niente”. Borbottai tra me e me, distogliendo la mia attenzione dai capelli. Mi sentivo come se fossi stata un libro a cui sono state strappate delle pagine. Sbuffai mentalmente e mi rilassai. “É per questo che sono sopravvissuta finora a tutto quello che mi è capitato, allora? É per questo che non sei mai voluto tornare?” Domandai poi, godendomi la sensazione di calore e affetto delle sue carezze. Aveva le mani grandi, dalle dita lunghe un paio di centimetri più delle mie. Non mi dava fastidio e non avevo paura, solo non capivo perché non si manifestasse apertamente, come quando ero piccola. Perché non poteva? Eppure (mi ricordai) apparteneva a questo posto. Appena rammentai questo, ricordai anche la sua risposta alla mia domanda: irrigidiva la schiena e cambiava argomento, quasi come se non volesse parlarne. Se insistevo, i suoi occhi cominciavano a virare sul giallo e che le sue pupille andavano affilandosi come quelle di un rettile. “Non me lo chiedere mai più”. Diceva sempre in tono imperioso e, finora, non c’avevo più nemmeno pensato. 
Anche ora la sua reazione fu la stessa di quella volta, ma non ebbi bisogno di voltarmi per verificarlo. Bastò la sua mano a comunicarmelo. Infatti si fermò un momento, le falangi improvvisamente rigide. Poi le rilassò e tornò a carezzarmi: “É che non mi piace parlarne, adesso pensa a dormire”.
Tornai al presente e sorrisi rassicurante a Ikki. Il quale mi indirizzò un vago sorriso e disse: «Mi fa piacere saperlo».
Stiracchiai la bocca in un sorriso e annuii, poi mi occupai di nuovo della mia colazione.
Anche Shun si era accorto dell’operazione compiuta dal mio amico ed era rimasto di stucco. Allora mi era toccato spiegargli quello che avevo rammentato. «Credo che sia questo che mi ha permesso di sopravvivere finora». Avevo concluso pensierosa spostandomi una ciocca dietro l’orecchio, cercando di ignorare gli occhi sgranati all’inverosimile del mio interlocutore. Avrei dovuto immaginarlo che non fosse un clamoroso colpo di fortuna come quelli di Seiya.
Nelle settimane successive a questo miracolo io e Shun ne avevamo anche parlato ed ero giunta alla conclusione che avessi usato fin da subito quel potere, anche se a livello inconscio. Altrimenti una volta in coma avrei dovuto respirare grazie all’ausilio di un respiratore e, avrei dovuto avere le piaghe da decubito per l’immobilità cui ero costretta e lesioni ancora più gravi di quelle che avevo riportato dallo scontro con gli Specter e con Eris. Con tutto il sangue che avevo perso in battaglia era veramente un miracolo. 
Poi aveva detto insegnato, perché me l’aveva insegnata? E, riguardando tutto ciò che finora ricordavo, come aveva fatto a domare tutti quei serpenti nel mio ricordo? E, perché mi aveva affidato Snakye?   
Ecco cosa pensavo mentre facevo colazione. Tornai al presente.  
Guardai la mia amica, che mescolava i suoi cereali con la coda dell’occhio. Mi dispiaceva di essere stata così brusca con lei ieri sera. Solo che non sapevo come dirglielo, voglio dire, come ci si rivolge a una Dea seduta accanto a te? Come dovevo fare per non offenderla? Voglio dire, era pur sempre un’autorità e una Divinità che aveva mandato definitivamente a quel paese il mio scetticismo e scatenato una serie di ragionamenti a sostegno della mia fede. Voglio dire, se gli Dèi esistevano davvero, allora anche quello che faceva mia madre funzionava veramente? Cioè, voglio dire, come se non avessi mai avuto prove a sufficienza per comprendere che era tutto reale fino all’ultimo.
Con questo non intendo dire che non avevo mai creduto subito. Essendomi avvicinata tardi alla religione, il dono della fede me lo ero dovuto conquistare partendo dalle basi. E non ero neanche sicura che mi fosse stato concesso.
Prima, mossa dalla curiosità e dal vago richiamo che essa attraeva, avevo cominciato a sperare e, solo dopo a credere e non era stato neanche un percorso facile, perché avevo dovuto abbandonare tutto quello in cui avevo creduto fino a questo momento. A volte avevo persino i dubbi, ma adesso che dubbi potevo avere? Avevo ricevuto le prove che aspettavo a conferma di ciò in cui credevo, lasciandomi una sensazione di annichilimento e meraviglia.
Fin qui niente di anormale, peccato che, come mia madre e la tata, io credessi negli Dèi Olimpici, per la precisione. E, ora, eccomi qui, a fare colazione con una delle Divinità del mio Pantheon.
Sia in Italia sia in Germania avevamo avuto non pochi problemi per questo, soprattutto con il parroco e alcune mamme bigotte di alcuni miei ex compagni di elementari e medie.
Eppure, mi ritrovai anche a considerare che, se non fosse stato per Yoshino, che ieri sera mi aveva mezzo svegliato e aiutata a vestirmi, non avrei neanche rivisto mia madre. Alla fine, proprio come avevo pregato, gli Dèi, o meglio, questa Dea, ero stata esaudita.
Finita la colazione, Shun mi visitò e medicò l’ustione, poi andai a lavarmi e me ne tornai nella mia stanza. Era stato categorico: niente sforzi fisici. Per sopperire alla noia mi avevano portato il mio telefono e avevo cominciato a seguire un tutorial di canto che avevo scovato su Youtube e che avevo scaricato per intero una settimana prima l’attacco. Almeno avevo qualcosa da fare, anche se ero costretta a tenere la porta chiusa per non disturbare gli altri pazienti.
A venirmi a trovare nel pomeriggio, a parte Kiki, Death Mask e Aphro e Mur, qualche volta, quando non erano impegnati con il Chrysos Synaigen di cui assolutamente non scucirono neppure una parola, era il mio psicologo. Questo era un regalo di Galan.
Due settimane prima di Natale, l’ex tutore di Aiolia mi aveva chiamato perché aveva bisogno di aiuto per la spesa. Lythos era occupata, perciò aveva chiamato me.
In quel periodo anche lavorare era un modo per scappare dalle crisi. Se rimanevo ferma e immobile era un disastro senza precedenti: gli attacchi di ansia se ne approfittavano per martoriarmi e, non volevo essere guardata di traverso. Dopotutto questa era gente avvezza alla guerra, agli assalti eccetera eccetera, temevo che la loro pazienza fosse molto più limitata del previsto. O, forse, era solo il mio carattere a distorcere la realtà.
Una volta fatta la spesa Galan aveva tagliato per una zona di Rodorio che non avevo ancora visto: «Dove stiamo andando?»
«Prendiamo una scorciatoia e ne approfitto per scambiare due chiacchiere con un amico».
«Ah, va bene». Avevo ribattuto. Così l’avevo seguito e, dopo dieci minuti ci eravamo fermati davanti a una casetta a due piani. Galan aveva salito le scale e aveva bussato, poi mi aveva guardato e fatto cenno di raggiungerlo. Cinque secondi dopo la porta si aprì e comparve il suo amico. I due si erano salutati e si erano scambiati qualche convenevole. L’uomo era più giovane del mio principale di una trentina d’anni, aveva i capelli castani, la barba e un aspetto ben curato. Si chiamava Anassimene ed era uno psicologo. Stando a quello che mi disse Galan aveva trovato un corso universitario di specializzazione a Pisa, conseguito la laurea magistrale, frequentato stage, tirocini, un dottorato di ricerca ed era tornato a Rodorio per aprire uno studio. Incredibilmente era molto richiesto e apprezzato in città, sebbene nessuno avesse preventivato questo successo.
Quando costui aveva domandato: «A cosa devo la tua visita, amico mio?» Galan mi aveva indicata e presentata e aveva spiegato la faccenda. «Pensavo che tu potessi aiutarla, sempre che tu lo desideri, Astrid». Forse mi sarei dovuta indispettire per questa invasione di privacy, dopotutto non era mio padre, però riuscivo a vedere il gesto e le intenzioni: mi stava aiutando. E, io ne avevo davvero bisogno.
Per questo avevo accettato. Anche se dovetti frenare il mio entusiasmo: «Aspettate, ma la parcella?» Gli domandai guardinga. Dalle mie parti gli psicologi si facevano pagare, perché qui doveva essere diverso?
Ripensare a quel momento mi tornò in mente il percorso che avevo fatto per seguire le orme di mio padre e quasi mi sentii male.
Mi venne istintivo cercare il bastone con cui avevo affrontato la salita. Anche se non ne avevo veramente bisogno mi mancava perché mi dava un senso di sicurezza e stabilità, per me era un appiglio in più alla realtà. Ma capivo bene le direttive di Shun nel togliermelo. Dovevo imparare a cavarmela da sola per guarire.
A ben vedere non ero sola, c’era ancora Cocteau. Anche se era solo una civetta delle dimensioni di un gufo elfo, sapere che era lì mi rasserenava lo stesso. Devo ammettere però che mi dispiaceva lasciarlo fuori della porta o della finestra. Avevo quasi l’impressione che non amasse molto restarsene fuori. La stessa civetta che era appollaiata sulle rocce fuori della finestra. Se credeva veramente che non mi fossi accorta della sua presenza era una civetta ben strana. Compariva solo dalle nove e mezzo in poi e scompariva verso le diciotto e mezzo, neanche avesse avuto un orario da rispettare.
Aspettavo sempre che si avvicinasse un po’ di più per farle uno scherzetto. Solo che per conquistare un animale ci voleva tempo e, meno male che per questo la pazienza non mi mancava. In effetti ero un tipo veramente paziente. Abbozzai un sorrisetto divertito. Sperai solo che fosse abbastanza leggero da non farlo schiattare. Né lui né i tre topolini sulla sua testa, compreso quello che adesso mi guardava con quei luccicanti occhi rossi che non mi dicevano niente di buono.       
Poi, come se i pensieri e i ricordi fossero collegati, mi domandai come stesse Galan. E, il mio sorrisetto si afflosciò. “A che pensi?” Mi chiese il mio amico, osservandomi mentre guardavo le rocce arrossate dai raggi del tramonto. Non mi spaventai, anzi, era stato talmente discreto e delicato da non farmi neppure paura: “Sto pensando a Galan, il servo di Aiolia del Leone, potresti aiutarlo, per favore? So che è ricoverato in un ospedale ad Atene”. Spostai lo sguardo sul mio riflesso sul vetro e vidi la sagoma del mio amico dalla chioma indomabile un metro dietro di me. “Non so, ci sono tanti ospedali ad Atene”.
“Ti prego”.
“Ci proverò”.
Curvai la bocca in un sorriso e chinai il capo. “Grazie”.
Poi mi girai verso di lui, le mani sul davanzale ma non vidi nessuno. La mia stanza era vuota e non avvertivo neanche più la sua presenza. Doveva essere già andato via. 
 
Le giornate si susseguirono tutte uguali, se escludevamo, ovviamente, gli agenti atmosferici. Adesso sembrava veramente l’inverno che non era stato. Mite, ma non per questo meno gelido. Così per la prima volta ci avevano rifornito dei vestiti invernali e avevano riscaldato le stanze.
Non amavo restare in panciolle. Mi ricordava troppo quei mesi passati in Astanteria. Solo che stavolta avrei potuto risparmiarmi la fisioterapia.   
Anche i miei amici Georg e Juan vennero a farmi visita. Erano usciti abbastanza indenni dalla battaglia. Era stato il secondo a informarmi per primo su quello che stava succedendo nell’èlite del Santuario. Solo che non aveva avuto accesso neanche lui a molte informazioni, perciò tutto quello che sapevo, era che i Gold si riunivano quasi tutti i giorni da quando si erano potuti alzare dal letto
per discutere di cosa, però non lo sapevo.
Tuttavia lo si poteva benissimo immaginare. Ci arrivai dopo tre giorni. Ovvio che quello che avevo fatto richiedeva spiegazioni. Se erano abbastanza paranoici e guerrafondai come mi era parso, come minimo mi avrebbero convocato. Shun mi aveva fatto capire abbastanza chiaramente che non mi era permesso lasciare la Sesta Casa e non solo per le ferite. Poi Castalia, Juan e Georg avevano confermato quella che per me era stata solo un’impressione.
Mi dispiaceva davvero per il mio amico Silver, dal momento che era tornato a farmi da centralinista e da corriere non retribuito, in quanto il mio telefono si era rotto proprio durante la battaglia.
Georg era impegnato a ricostruire il Santuario con tutti gli altri. Castalia invece mi veniva a trovare tutti i giorni, quando era in pausa. C’erano ancora molte persone che dovevano fare fisioterapia. Alcuni probabilmente avrebbero dovuto cedere la Cloth per via delle lesioni al midollo spinale.  
Invece, Shun era prodigo di notizie come un muro con il proprio interlocutore e, io, alla lunga, ero quasi tentata dal leggergli la mano per strappargli le informazioni che volevo sapere.
Se c’era una cosa che ormai avevo imparato, era che i Gold erano gelosissimi dei loro segreti.
Kiki mi accontentava un po’ di più, comprendendo bene la mia frustrazione. Anzi, secondo lui ero fortunata, almeno non mi trovavo nello Jamir sola e con un’Armatura d’Oro. Poi si era contraddetto dicendo che in realtà non era stato davvero solo, perché con lui c’era il Sommo Shion.
Mi aveva raccontato anche di cosa aveva dovuto patire per completare il suo addestramento. Cosa il Venerabile avesse sacrificato per aiutarlo a conquistare il Settimo Senso e a proteggere la Terra due anni fa. A quel punto lo interruppi: «Ricordo quel momento. Ricordo che stavo prendendo il sole, sai la famosa tintarella invernale?» Scherzai, poi tornai seria e continuai, «Quando improvvisamente cominciarono a cadere le meteore. Mi accorsi che c’era qualcosa di strano perché non era previsto. Pensavamo tutti che fossero pezzi di satelliti, stazioni spaziali e telescopi e uno shuttle che si fosse disintegrato a contatto con l’atmosfera. Ma non era solo questo. Poi furono ritrovati i resti, ma a causa di questo il mondo si è quasi bloccato per mesi. Allora non mi saltò in mente di capire che cosa stesse succedendo tramite le carte, avevo troppa paura e, poi ero da poco andata a vivere da sola. Non puoi immaginare il panico che avete scatenato. Quindi sei tu il fautore di quello scudo di energia che ha avvolto il pianeta?» Gli domandai con un sorriso grato e vidi le sue guance imporporarsi mentre cercava di spiegarmi che non era solo merito suo, che anche il suo maestro e Shun avevano dato una mano. Ciò non cancellò il sorriso dalle mie labbra, se quella volta eravamo sopravvissuti lo dovevamo a lui e alla sua generosità.
Gli presi la mano tra le mie e gli dissi un sentito «Grazie» tuffando i miei occhi nei suoi. Lui si zittì e si limitò a sgranare i suoi nemmeno lo avessi baciato.
Improvvisamente si alzò di scatto, sfilando la mano e accampò una scusa non scusa in fretta e furia: «Scusami, devo andare.» così lasciò la stanza a gran velocità per non tornare che qualche giorno dopo, verso le tre del pomeriggio. Stavolta recava con sé un piccolo giglio, preso da un fioraio di Atene. «Non sarei dovuto scappare via così, mi dispiace». Si scusò tendendomelo. Mi fece una tenerezza che non avrei mai immaginato. Grande e grosso com’era ed era timido, che carino. Gli sorrisi e presi il vaso dalle sue mani per posarlo sul comodino. Era la prima volta all’infuori della famiglia che qualcuno mi regalava un fiore.     
Quel giorno si accomodò sulla poltrona accanto al mio letto, dove ero seduta e mi aggiornò. Fu così che scoprii che Milo era stato interrogato a causa della sua scelta di farmi affrontare Eris da sola.
Mi raccontò che la Piattola sapeva analizzare le persone con un’unica occhiata: «Qualcosa di te deve avergli ricordato Shoko di Equuleus, forse è per questo che te l’ha lasciato fare». Ipotizzò.
«Ah, io pensavo che fosse per via delle Creature e che avesse pensato che tanto poteva tornare alla velocità della luce, se necessario». Come infatti era successo. Avevo ripensato molto spesso a quei fatti, grazie all’aiuto di Kiki durante questa convalescenza.
«Impossibile, è un tipo molto ligio al dovere».
Distolsi lo sguardo e lo puntai sulle mie mani. Restai assorta per un po’ nei miei pensieri, poi lo guardai di nuovo. «Come andò a finire poi con Shoko di Equuleus, seppe sfruttare la sua possibilità?» Chiesi.
«Non al primo colpo; per questo siamo rimasti tutti sopresi nel vedere che Milo aveva commesso di nuovo lo stesso errore. Valutando bene la situazione posso dire che invece ha fatto molto bene». Ma solo perché avevo questi poteri e avevo già affrontato questi Ghost Saint, Phantom e Dryad.
A proposito, sembrava che i Phantom di Ares e ciò che restava dei Dryad di Eris si fossero ritirati dopo le ferite e le ingenti perdite.
Avevo scoperto che si chiamavano proprio Phantom i sottoposti di Ares. Phantom come fantasmi insanguinati e assetati di vendetta e guerra. Ma per ora non mi avevano ancora detto altro.
«Come sapevi che la Dea Eris si trovava proprio lì?» Chiese poi Kiki, tornando a guardarmi.
«La struttura del Tempio sembrava la stessa del Santuario, perciò ho dato per scontato che si trovasse proprio in cima». Spiegai. Lui mosse la testa di lato come a dire: “Ha senso”. Kiki credeva ancora che non mi fossi accorta che spesso gli chiedevano di interrogarmi perché non si fidavano. Non gli davo torto, la mia memoria si stava rivelando molto più assurda di quanto sembrasse.
Ma non gli avevo ancora raccontato che in passato li avevo già affrontati. Né l’avrei fatto tanto facilmente. In realtà mi guardavo molto bene dal pensarci quando lui o Death Mask erano nei paraggi.  
«Poi che ne è stato dei due Saint che mi hanno aiutato?» Chiesi e lui parve cascare dal pero. Così glieli descrissi. Nel suo sguardo balenò un lampo di riconoscimento. «Ah, Kouga di Pegasus e Souma di Lionet. Kouga è ancora in infermeria, è stato trovato privo di sensi e coperto di ferite su una delle cinte murarie del Santuario, mentre di Souma si sono perse le tracce». Sul suo volto lessi uno scorcio di preoccupazione. Stavolta fu lui a distogliere il proprio e carezzarsi una mano con l’altra.
«Mi dispiace, li conosci bene?» Chiesi abbracciandomi le ginocchia.
«Sì, abbiamo combattuto insieme nella Guerra contro Mars e Pallas». Raccontò.
Mi misi a sedere a gambe incrociate, interessata. «Questa non l’avevo ancora sentita, dalle mie letture ho avuto più che altro scorci. Però mi piacerebbe ascoltarla». Lui mi osservò a lungo e poi mi accontentò, narrandomi i fatti della Guerra di Mars prima e dei Palassiti poi. Al contrario di quanto mi aspettassi, il racconto fu noioso e legnoso. Non aveva proprietà di linguaggio sufficienti per catturare la mia attenzione. Ovvio poi che a volte lo fermavo per tradurmi alcune parole che non capivo in italiano e poi in greco per assimilarle meglio.
Fu solo per rispetto del suo impegno che cercai di non distrarmi.
Non pensavo che sette anni prima la mia nascita Mars, il Signore del Pianeta Rosso, decise di sferrare un attacco alla Terra. Purtroppo Kiki non riuscì a spiegarmi chi diavolo fosse questo tizio. Cioè, non capii se fosse proprio il Signore della Guerra Romana, il Dio della Guerra dei Greci o un povero disgraziato con manie di potere. Mi parlò dei Martian e di come Seiya non poté proteggere né la Dea né il Santuario. E mi raccontò anche perché, ossia che era rimasto gravemente ferito nella scorsa Guerra Sacra contro Hades.
«La cosa strana, però è che tutti noi avvertimmo il Cosmo di Seiya e vedemmo Seiya stesso scendere in campo con indosso la Gold Cloth di Sagitter e proteggere la Dea durante uno dei primi attacchi. Solo in un secondo momento ci ricordammo che era rimasto tutto il tempo sulla sedia a rotelle, in coma. Pensavamo che fosse una trappola, ma la Dea ci convinse che era veramente lui e così ci limitammo a nascondere il nostro amico sulla sedia a rotelle e… Perché mi guardi così?»
Lo stavo guardando confusa: «No, scusa, ma ti rendi conto che è assurdo? Cioè, o mi stai raccontando la trama di Terminator o Seiya ha un fratello gemello di cui nessuno conosce l’esistenza, cioè, te ne rendi conto?»
«Sì, perfettamente, nessuno di noi sa come fu possibile, ma non ti credi anche la scorsa Guerra Sacra conto il Gran Dio Zeus ha riservato non poche sorprese». Decisi di accontentarmi di questa spiegazione sommaria. Mi raccontò che nel tentativo di proteggere Atena e il piccolo Kouga, che poi la stessa Dea adottò e battezzò, scomparve dopo aver indebolito il nemico. Il quale aveva trovato ricovero su Marte.
Attaccò nuovamente la Terra tredici anni dopo e rapì la Dea. Fu Kouga, con a combattere per salvarla. Secondo Kiki fu come rivivere una seconda dominazione di Arles (mi chiese pure se sapessi cosa fosse e io dissi di sì. I ricordi di Death Mask in merito erano molto affascinanti).
Ma non avrei mai immaginato che stavolta avrebbero combattuto i Saint del Leone Minore, dell’Aquila e del Lupo insieme al Primo Cavaliere della Dea. Lo scopo suo e di sua moglie Medea era quello di tramutare una semplice ragazzina umana  nella "Nuova Atena". A questa parte scoppiai a ridere come una matta e anche Kiki rise divertito, contagiato dalla mia risata.
«Ma era completamente scemo o cosa? Non pensava che il Santuario avesse potuto scoprirlo?» Feci quando tornai seria.
«No, perché», mi spiegò la faccenda dei Cosmi di Luce e Tenebre e degli Elementi e delle ClothStone. Infine, disse che lui non aveva potuto ribellarsi ai tempi perché era solo un ragazzino e anche i Saint Leggendari erano ridotti male. Già allora Seiya, Ikki, Shun, Shiryu e Hyoga venivano chiamati così.
«E non hai ancora sentito la parte più divertente, tutto questo per cosa? Trasferire il Cosmo della Terra su Marte, restituendogli la vita». Scoppiammo di nuovo a ridere, sguaiati al punto che uno dei collaboratori di Shun, di passaggio, fu costretto ad ammonirci di fare silenzio.
Dovette anche andare a prendere da bere perché a forza di ridere e prendere per i fondelli quel pazzo, ci venne la gola secca.
Dopo aver bevuto mi raccontò della Dea Pallas, sorella di Atena. E di come Seiya, le viene inviato contro per eliminarla, ma nel momento decisivo esita, permettendo a Titan, il più potente e devoto dei guerrieri di Pallas, di condurla via. Pallas radunò l'esercito dei suoi seguaci, i Palassiti (che ribattezzai subito Parassiti). Kiki mi lesse nel pensiero perché approvò: «Non ci sei andata lontano; in effetti erano in grado di rubare il tempo alle persone, come un parassita succhia il sangue alla sua vittima». Ovviamente anche lei attaccò il Santuario. Ancora a difenderla combatterono nuovamente i Bronze sopraccitati più alcuni dei Gold rimasti dopo la battaglia contro Mars.
Durante l'attacco alla base del nemico (la città di Pallasbelta, devo dire che Pallas si trattava bene, addirittura una città), Kouga e i suoi amici scoprirono che lei stessa era manipolata da Apsu. Ossia il Dio Mesopotamico delle Falde Sotterranee, che rivoleva i diritti sulla sua Creazione. E che l'unico modo per vincere la battaglia fu raggiungere il livello Omega del Cosmo.
A questa veramente mi trattenni molto a fatica dallo scoppiargli a ridere in faccia. Sembrava che mi stesse raccontando di Dragon Ball più che una Guerra. Concluse dicendo che dopo ciò le due Dee, di comune accordo, sigillarono questi livelli per la sicurezza di tutti e Zeus li annientò durante la Guerra Sacra contro il Mondo Perduto. Questa parte la conoscevo perché rammentavo i ricordi di Death Mask legati al conflitto. E poi Lancelot me ne aveva parlato, lodando il suo Re.
Ad ogni modo la Dea aveva disposto di tornare in Giappone e di far ricoverare il figlio adottivo in una struttura della Fondazione Grado.
Se da un lato mi faceva piacere essere messa a parte di questi segreti, dall’altro avrei preferito non saperlo. Loro erano abituati a uccidere gli Dèi mentre io no. Mi sentivo una terribile blasfema.   

Era un pomeriggio dopo pranzo di due giorni dopo, quando seppi il motivo della mia reclusione.
Shun aveva appena tagliato il filo con cui aveva ricucito le mie cicatrici sul torace, ormai completamente guarite e risanate e lo aveva sfilato. Chissà perché Odysseus non aveva risanato anche quelle a livello superficiale.
Mi ero appena rimessa il peplo quando Aiolia ci fece l’onore della sua visita. Sarebbe stato alquanto imbarazzante, se fosse comparso molto prima.
Ci salutò entrambi (me con disprezzo) e chiese a Shun di risistemargli il braccio, che si era ferito in arena. Disse di essere sceso in arena per allenarsi e si era ferito a seguito di una brutta caduta. Era venuto alla Sesta perché l’Infermeria era intasata. Fortunatamente la Dea aveva mandato un’intera fornitura ospedaliera per la Sesta Casa e le strutture dei medici da campo improvvisate in un altro palazzo di Rodorio.
Disse anche che aveva finito la bottiglietta di acqua ossigenata e non se la sentiva di usare l’alcol per disinfettare la ferita. Anche se non era niente di che.
Shun lo medicò senza problemi. Si vedeva che amava il suo lavoro. Quando lavorava i suoi occhi risplendevano; era come se fosse nella sua dimensione.  
Le parole di Aiolia però non m’incantarono. Anche se avevo già avuto modo di testare il suo caratterino focoso, ormai ero abituata ad Aphrodite. Perciò non mi ci volle molto per capire che così mi teneva d’occhio. L’ambiguità di questi uomini era qualcosa di impressionante.
«Come procede la ricostruzione?» Chiese Shun mentre lavorava.
Il Leone rispose che procedeva a rilento e, stando a quello che mi raccontavano, era come essere di nuovo ai tempi post Guerre Sacre. Si racconta infatti, che quella di due secoli fa fu così devastante che soltanto pochissimi Templi del Santuario rimasero in piedi e che, i Saint superstiti: Shion, Dohko e Teneo del Toro, si adoperarono per la ricostruzione. Stando ai racconti, quest’ultimo dovette interrompere i lavori per recarsi in Sicilia e sigillare i Giganti nell’Etna.
Io ormai cominciavo ad accettare passivamente tutto questo.
«A proposito, come sta Aphrodite?» Chiesi. Non si era ancora ripreso completamente dalla distruzione del suo amato roseto. «In tanti anni di onorato servizio, mai le mie amate rose avevano preso fuoco». Aveva detto, ancora sconvolto, prima di ricomporsi e tornare a raccontare, quelle due volte che era venuto. Era come se in cuor suo avesse deciso che stavo bene e quindi non avessi bisogno delle sue continue visite con lode alla sua persona annesse. Possibile che neanche in queste situazioni il suo narcisismo non lo abbandonasse?
Shun finì e Aiolia si allacciò di nuovo il bracciale al polso. Fu in quel momento che mi comunicò che l’indomani sarei stata processata. Sgranai gli occhi e mi bloccai mentre mi alzavo: «Processata? Per cosa?» 
Il cuore mi batté forte in petto per il terrore. Un conto era paventare, un conto era sapere e mi sentivo tremendamente scoperta. Aiolia decise di ignorare la mia espressione sgomenta e spiegò tranquillamente: «Insubordinazione perché hai disobbedito agli ordini di un Gold Saint, tentata violenza ai danni di un Gold Saint, liberato i Black Saint, tradimento e aver messo a repentaglio il Santuario». Avevo quasi l’impressione che darmi questa notizia non gli avesse fatto né caldo né freddo. Poi concluse con un «Mi dispiace» di circostanza. Sempre con quel tono duro e secco che significava solo: “Sii forte, ne avrai bisogno”.
«Ma io non ho mai tradito il Santuario, Aiolia!» Protestai.
«Da quel che ho visto non direi proprio, potrai anche aver ingannato Milo, ma non me».  
«Ma se ti ho salvato la vita!» Protestai incredula, senza trovare niente di meglio a cui aggrapparmi.
Lui assottigliò gli occhi: «Noi Saint ci difendiamo benissimo da soli, per quel che ne so stavi facendo il doppiogioco. Hanno riferito in tanti di averti visto parlare con i nemici come se li conoscessi. Lo stesso Death Mask ci ha riferito che cosa ti ha spinto».
«Aiolia, basta così». Lo ammonì Shun ma il ragazzo lo ignorò e continuò a infierire spiegandomi per filo e per segno tutti i reati di cui mi ero macchiata e quelli di cui ero sospettata. Disse anche che esigeva una prova per sé, per quanto si fidasse dei referti medici di Shun. Ma riconosceva anche lui che il mio recupero, tutto ciò che mi circondava fosse anomalo. Perciò voleva accertarsi che non fossi una nemica. «Quale che sia la tua sorte, esigo di sfidarti lealmente in arena».
«Ma io sono un’ancella!»
«Non mi risulta che tu sia solo questo».
«Aiolia!»
Oltre che interferenza nella battaglia.  
Mi lasciai ricadere sulla sedia: «Aiolia». Sibilò Shun, contrariato. «Se non la smetti immediatamente sarò costretto a chiederti di uscire». Minacciò avvicinandomisi, pronto a sospingerlo fuori, ma il greco non si lasciò intimorire. «Qui non siamo in ospedale. Aspetta, vuoi dire che non l’hai ancora avvertita? Perché non l’hai fatto? Ha tutto il diritto di sapere». Ribatté. Non sapevo se essere più stupita da quest’inversione di marcia o per tutta questa crudeltà.
L’avevo messo in conto che sarebbe stato grave, ma a quel punto contavo già di essermela data a gambe ed essere al sicuro.
Feci la spola dall’uno all’altro con lo sguardo. Ben presto mi resi conto che non stavano scherzando. Guardai il pavimento davanti a me, sotto shock.
Solo quando lo sentii riprendere parole lo guardai di nuovo: «Ormai noi Gold ci siamo ripresi completamente e anche tu, non c’è più ragione di aspettare». Continuò controllandosi i bracciali di cuoio. Era come se parlasse più a loro che a me. Poi mi guardò di sottecchi, come a voler verificare la mia espressione e riportò le braccia lungo i fianchi.
«Il processo inizierà adesso?» Chiesi.
«No, nel corso di queste settimane abbiamo raccolto prove e ti abbiamo interrogato senza che te ne accorgessi. Delibereremo domani mattina dinanzi a te, vogliamo che tu sia presente, per una questione di giustizia e formalità. Comunque questo non m’impedirà di avere il mio duello leale.» mi avvisò. “Non ci credo”. Non pensavo che…
Mi schiacciai la faccia tra le mani e piansi. E, io, che avevo creduto che avrebbero apprezzato il mio gesto. Pensavo che avessero capito, che mi ringraziassero. Io volevo solo aiutarli, non avevo mai pensato che la prendessero così male. Che ingenua che ero stata. Non pensavo che mi avrebbero ripagata a questo modo.
D’accordo, sì, l’avevo fatto anche per vendicare il mio Snakye, però non era giusto, ecco.
Mi alzai e corsi nella mia stanza. Shun mi richiamò indietro ma non lo ascoltai.
Mi chiusi nella mia camera e mi gettai sul letto, dove piansi a dirotto.  Fu un pianto liberatorio e pieno di dolore, che presto sfociò in una crisi che spaventò la povera Yoshino. La Dea venne a trovarmi proprio quel pomeriggio, al tramonto.
Sulle prime non seppe che fare, ma poi scivolò seduta accanto a me e mi abbracciò. E, mi tenne stretta a sé come se fossi una bambina, sussurrandomi parole di conforto senza senso. Mi aggrappai a lei come se avesse potuto salvarmi da un baratro.
Le lavai una spalla con le mie lacrime, ma alla fine riuscii a trovare una qual certa stabilità e anche il mio respiro tornò normale. La Divinità incarnata mi discostò per guardarmi, poi mi passò un fazzoletto che usai per asciugare gli occhi e soffiarmi il naso. Mi scusai per averla sporcata e per la mia condizione ma lei sorrise e disse: «Non fa niente».   
In quel momento volevo che fosse ancora la mia amica e non la Dea Atena. Ma era difficile, la sentivo lontana nonostante che fosse qui con me. Se fosse stata una persona normale dubitavo che i suoi le avrebbero permesso di venire a trovarmi. Forse anche come Atena, ma il fatto che Shun fosse qui e che potesse raggiungerla immantinente in qualsiasi momento neutralizzava la possibilità.
Restò con me fino a sera. «Dimmi una cosa, Astrid, perché l’hai fatto? Perché hai liberato i Black Saint? É vero quello che sostiene Aiolia, che l’hai fatto per trucidarci?» Mi chiese poi, angosciata.  
A lei glielo raccontai. «No, sapevo che erano gli unici che potessero aiutarvi e poi anche se sono stata io ad avere l’idea, è stato Lancelot ad attuarla e guidarli. Sapevo che c’era una cinquanta e cinquanta di possibilità che vi attaccassero, con Lancelot abbiamo evitato che la situazione giocasse a svantaggio del Santuario. Non era che ci speravo, ma ne ero quasi sicura».
«Perché non glielo hai detto?»
«Io glielo ho detto, però  tutto quello di cui mi hanno accusato è vero; ci arrivo anch’io a comprendere le loro ragioni; ma so anche di essere nel giusto, per questo non scapperò». E lo avevo detto tempo prima anche a Castalia, Juan e Georg. Solo con i Gold me l’ero tenuto per me. Anche se allora non avevo ancora idea di cosa mi accusassero.  

Fu Yoshino ad aiutarmi a prepararmi, la mattina dopo colazione. Non che avesse fatto moltissimo, si limitò solo a farmi compagnia a colazione e spazzolarmi i capelli quando fui pronta. Evitai il suo sguardo tutto il tempo, sentendomi inadeguata. Avrei dovuto essere io a servirla, non il contrario.
Eppure non provavo niente, mi sentivo svuotata come non mi capitava da tempo.  
Anche se mi intrecciò una ciocca con dietro l’orecchio e la fermò con un nastrino roseo. Quando finì mi tenne le mani sulle spalle. Poi prese coraggio e pronunciò le prime parole della giornata, intrise di preoccupazione: «Forse posso convincere il signor Shura e il signor Aiolia a ritrattare, c’è ancora tempo se mi sbrigo. Oppure potrei anche infiltrarmi e dire la mia, dopotutto i Saint hanno un’altissima considerazione di me, non solo per via di mio padre». La osservai attraverso lo specchio del bagno e lei tacque.
Distolse lo sguardo, imbarazzata, come se si fosse resa conto di aver detto troppo. 
Coprii una delle sue mani con la mia e le sorrisi mesta: «Ti ringrazio». Le dissi soltanto e lei capì. Richiuse la bocca e annuì. Poi uscimmo.
Il cuore cominciò a battermi all’impazzata quando raggiungemmo la Sala del Loto che per quel giorno avrebbe funto da Sala delle Udienze. Ad attenderci al portone c’erano il Saint dell’Acquario e quello del Sagittario, che interdirono l’ingresso a Yoshino e mi presero in custodia. I due fecero di tutto per non guardarmi mentre mi legavano le mani dietro la schiena.
La sofferenza sul volto della Dea era la cosa più tremenda che ci fosse, per questo evitavo accuratamente di guardarla.
Cercò di muovere qualche protesta, ma i due la rassicurarono dicendo che da lì in poi ci avrebbero pensato loro.
Poi aprirono la porta e mi scortarono dinanzi al Gran Sacerdote, badando che non cadessi. La porta fu richiusa alle mie spalle.
Guardai il Portavoce della Dea. Era di nuovo nascosto dalla maschera e avvolto nella tonaca nera. Al collo i paramenti sacerdotali ma le mani libere dalla corazza che gli avevo visto durante l’assalto. I due Saint mi sospinsero in ginocchio di fronte all’Assemblea e io non ebbi il coraggio di guardarli.
Tutto quel poco che avevo trovato era sparito di nuovo.
«Dichiaro aperta la riunione. Astrid Micheila av Stjernene, sei stata convocata di fronte all’Assemblea Dorata per rispondere dei tuoi crimini di spionaggio, insubordinazione, dichiarazione di guerra, tradimento e liberazione illecita di prigionieri. Avremmo dovuto farlo prima, ma le tue condizioni non erano tali da permetterti di sopportare il processo».
Sentivo lo sguardo dei Saint, lucenti nelle loro Gold Cloth, aperti in due ali ai lati del Loto su cui si stagliava il Patriarca. Non guardai in volto nessuno di loro, ma sentii i loro sguardi bruciare sulla mia pelle.
Cercai anche dal trattenermi dal cercare il signor Shura con lo sguardo. Non so perché, ma cercavo di trattenermi, non volevo incrociare quegli occhi neri dallo sguardo tagliente come la lama affilata. Mi mettevano paura.
Eppure qualcosa in me scalpitava per farmi alzare lo sguardo e incrociarlo con il suo. Sapevo che mi guardava, lo sentivo.
Ma neppure potevo  
Non risposi. Non potevo credere che stesse davvero succedendo. 
«Adesso le due fazioni decideranno il tuo fato: esilio e cancellazione dei ricordi in caso di assoluzione o prigionia a vita natural durante in caso di colpevolezza». Annunciò serio.
Il cuore continuò a battermi forte il cuore per la paura, il dolore e la tristezza. Ringraziai la cortina di capelli che impediva a tutti i Saint di guardarmi in faccia. Avevo la sensazione che se avessi incrociato lo sguardo di uno di loro, non sarei riuscita a sopportarlo. Inoltre, stavo lottando per non avere un’altra crisi.
«Parli Kiki dell’Ariete». Ordinò il Gran Sacerdote. La voce del chiamato in causa si levò a sinistra.
«Non colpevole».
«Perché?»
«Perché la qui presente Astrid Micheila av Stjernene non è una spia né un soldato delle forze oscure, io ho avuto modo di guardare nel suo cuore e di conoscerla, non ho mai visto tanta luce in una persona sola».
Sgranai gli occhi per la sorpresa e alzai la testa per guardarlo. Lui mi fece un sorriso rassicurante: era dalla mia parte e mi sentii già un po’più sicura.
«Sei sicuro che non ti abbia infinocchiato?» Domandò una voce maschile che conoscevo bene, a destra: Milo dello Scorpione. Lo guardammo e lo vedemmo a braccia conserte, lo sguardo guardingo.
Il mio amico lo fulminò con lo sguardo: «Certissimo».
L’altro fece un verso e disse: «Bah, non ci credo, è risaputo che tu tendi sempre ad affezionarti a tutti».
«Non sono più un bambino, Scorpio». Ribatté Kiki con una punta di durezza nella voce tranquilla, dal tono oserei dire formale con cui gli si rivolse. Ma lo conoscevo abbastanza per dire che era troppo maturo per ribattere in modo diverso.  
Il loro capo riprese immediatamente il controllo della situazione: «Basta così, non mi ricordo di averti concesso il permesso di intervenire, Scorpio».
«Chiedo perdono, vostra eccellenza». Ribatté il Gold chinando il capo in segno di rispetto, dopo un istante di silenzio.
Il Patriarca rivolse il viso all’imponente padre di Yoshino, davanti a Kiki. «Si esprima Aldebaran del Toro». Decretò.
Con la Cloth del Toro indosso sembrava ancora più grosso. Mi dava l’idea di una cassaforte che cammina, più che di un Cavaliere medievale. Stava leggermente indietro, per non nascondere il parigrado.
«Non colpevole».
«Perché?»
«Ho avuto modo di conoscerla un po’ e ho visto solo una grande bontà e compassione, se ha agito a quel modo era solo perché credeva di aiutarci».
«Eppure in osteria non mi è sembrata tanto buona». Commentò di nuovo Milo e stavolta un altro Gold Saint mi difese, in tono minaccioso. «Era stata attaccata ingiustamente e doveva difendersi. Quello era il solo modo che conosceva». Spiegò Death Mask, facendo sentire la propria voce nella Sala. E, quella voce, mi fece prendere un colpo. Lo guardai confusa e frastornata, ma lui non ricambiò il mio sguardo. Non mi sarei mai aspettata che mi difendesse nonostante tutto. E sì che me ne aveva anche cantate quattro quando era venuto a trovarmi qualche tempo prima. Allora non me l’ero immaginato quel suo «Per quello che vale sono contento che tu stia bene» bisbigliato a mezza voce mentre se ne andava.
La voce del Patriarca mi riportò al presente e lo guardai. «Per i Gemelli ci esprimeremo io stesso e l’oracolo di Atena. Il mio parere è contrastante in quanto non ho potuto appurare se quanto affermato dai nostri compagni Saint finora è vero o no, io mi attengo ai fatti: tu hai liberato dei criminali e rischiato di peggiorare la situazione del Santuario. Questo è un reato molto grave e non posso passarci sopra, pertanto ti dichiaro colpevole. Saga?».
«Colpevole». Rispose una voce maschile a cui fecero eco altre tre vocine. Però non riuscii a rintracciarne la fonte da nessuna parte.
«Si esprima…»
La mia bocca si aprì da sola come quando ero al liceo. «Un momento.» interruppi. La mia voce risuonò come un colpo di cannone, spezzando l’atmosfera di sacra gravità che gravava sulla mia testa come una spada di Damocle.
Il Gran Sacerdote si zittì e tornò a rivolgere il volto verso di me. Mi dava l’impressione di guardare un sarcofago egizio. La differenza era che l’uomo dietro quella maschera era vivo e vegeto e poco contento della mia interruzione.
«Come osi interrompere l’Assemblea?» Chiese Milo, offeso, mentre Aphrodite, Aldebaran e Death Mask esclamarono: «Astrid!» Ma io l’ignorai, anche se divenni subito conscia della gravità del guaio in cui mi stavo cacciando così facendo. Ma non potevo farci niente, ero fatta così. 
Se dovevo essere giudicata, che almeno potessi ascoltare tutte le motivazioni prima di dire la mia e, magari, cercare di oppormi fino alla fine. Come con Neera e con l’Albero del Conflitto.
L’ignorai e cercai qualcosa da dire. Me ne uscii con un rapido: «Perché al Saint di Gemini non chiedete pareri?»
«Perché Saga è l’Oracolo di Atena. Ma oggi non è qui in questa veste, si esprime a sua volta per i Gemelli». Spiegò con voce fredda e metallica. La voce di chi è abituato a comandare e a non fermarsi mai di fronte a niente e nessuno. Scattai leggermente indietro, infastidita. Possibile che la mia empatia dovesse ripresentarsi proprio in un momento come questo? Ero investita da tutti i loro sentimenti e non avevo barriere di alcun tipo per difendermi. Era una cosa frastornante e, questo posto, sembrava amplificare tutto ciò come non mai. Chiusi gli occhi come se ciò avesse potuto aiutarmi a isolarmi un po’da questo mare di emozioni. «Capisco». Ma non funzionò, perciò li riaprii. 
«Ci terrei solo a dire che non ho mai tradito il Santuario come mi si accusa».
«Astrid…» Mi ammonirono le voci di Kiki, Death Mask e Aphrodite. Non mi lasciai intimorire, dovevo dire la verità: «Non nego gli altri reati, ma quello di cui mi accusa il Gold Saint del Leone sì. Non ho mai tradito nessuno».
Shiryu posò una mano sulla spalla di Aiolia come a trattenerlo. Il Saint di Leo sembrava sul punto di aggredirmi verbalmente. Almeno era questo che mi suggeriva il suo cipiglio.
Il Patriarca mi fissò a lungo prima di domandare, in tono pacato: «Hai altre domande o vuoi interrompere di nuovo l’Assemblea e mancarci di rispetto, compromettendo ancora di più la tua posizione?»
«No, signore, ho finito.» mormorai abbassando il capo e tornando a guardare i piedi dei Saint davanti a me.
«Parli ora Death Mask del Cancro».
Il cuore perse un colpo solo al sentirlo nominare. Chissà cosa avrebbe detto lui, che, era uno dei miei controllori e, uno dei Saint più spietati. Non credevo, infatti, che la nostra amicizia sarebbe bastata a salvarmi, anche se sperai il contrario.
«Non colpevole e il motivo è molto semplice: lei ci ha salvato la vita tre volte, sull’aereo prima, durante la battaglia contro Artemide liberandoci dal vaso dove ricorderete che eravamo stati rinchiusi e quasi un mese e mezzo fa scacciando le Creature, altrimenti saremmo tutti estinti».
A quelle parole trasalii e lo guardai dritto negli occhi, turbata. La mia bocca si aprì prima che connettessi al cervello ed emisi un verso di stupore sopra al Gran Sacerdote, che mi domandò che cosa avessi, adesso. Boccheggiai incredula cercando di formulare una frase di senso compiuto e, al tempo stesso, conferme negli occhi di Death, che ricambiò allo stesso modo, come a dire: “Allora tu sai” oppure “Anche tu?”
Molti Gold aggrottarono le sopracciglia e si scambiarono mormorii e sguardi. «Non dimenticare però che ha anche riportato in vita degli Specter e anche alcuni sottoposti di Eris». Intervenne Aiolia guardandolo.
«Non l’ho dimenticato».
«Allora perché non ti esprimi?»
«Perché siamo in pace con loro».
«Essere in pace con loro non significa che non siano nostri nemici, le alleanze durano poco e, chi ci garantisce che lei non sia una di loro camuffata?» Disse con livore. Però i suoi sentimenti erano strani, era come se stesse restituendo loro pan per focaccia oltre che accusandomi. «Adesso basta, Aiolia!» Esclamò l’uomo alle sue spalle facendomi prendere un colpo. «Esporrai il tuo verdetto quando sarà il tuo turno, non prima. Sono stato chiaro?»
«Sì, Sua Santità». 
«Death Mask, sei consapevole che devi riportare una testimonianza dei motivi per cui la ragazza va condannata o salvata e non in merito alle sue gesta?»
Il siciliano scoppiò a ridere sguaiato, ma nessuno si unì a lui: «Ci ho provato». Poi dette quella vera, confermando che i reati che mi erano stati appioppati erano veri tutti tranne il tradimento. Non era presente. In quel momento era andato nella Bocca dell’Ade per impedire ai Driadi di tornare, richiamati dal Cosmo della Dea della Discordia.
«Ragazza», mi chiamò Shiryu, distogliendo l’attenzione dall’infervorato Cavaliere e io lo guardai: «Sai di cosa sta parlando? Quello che ha riportato prima della testimonianza?» Mi chiese, come se avesse percepito il mio sguardo sulla sua pelle.
«Non è possibile, è solo una coincidenza». Risposi ancora incredula. Cominciavo a stare male così in piedi. Spostai il peso su una gamba.
«Quindi Lancelot aveva ragione, tu sei capace di viaggiare al di là delle barriere e del tuo corpo». Concluse il maestro di Paradox accigliandosi. Scossi il capo e solo dopo mi ricordai dell’errore insito in quel gesto: «Non lo sapevo. Non so neanche cosa significhino queste parole». Risposi sincera. Shiryu aggrottò la fronte, sospettoso.
Il Papa lo fermò: «Hai qualcos’altro da dire, Cavaliere della Bilancia?»
«No Sua Santità».
«Bene, si esprima adesso il Cavaliere del Leone». Al solo nome il mio corpo di raffreddò istantaneamente, come se la temperatura nella stanza si fosse raffreddata ulteriormente.
Quando incrociai i suoi occhi acquamarina colmi di rabbia e disprezzo il mio sangue si gelò nelle vene. Mai come allora, con la luce che colpiva i suoi capelli mossi, lo trovai così simile alla belva della sua Costellazione. Gli occhi parevano fiammeggiare nel suo incarnato bronzeo: «Colpevole. Accuso l’imputata di essere causa della rivolta della mia e delle altre Armature d’Oro di qualche tempo fa, di aver oltrepassato la barriera che circonda il Santuario e quella di rose delle Dodici Case approfittando delle Creature e dell’ascendente che ha su di loro, disobbedendo agli ordini precisi di un Cavaliere d’Oro, ribellandosi e aprendo un varco per i nemici, di aver dichiarato guerra a noi Gold Saint e di aver tradito il Santuario prima liberando i Black Saint e poi complottando con Eris».
«Ma se ti ho salvato la vita».
«Non mi risultava che fossi in pericolo».
«Parli adesso il Cavaliere della Vergine».
Shun sostenne una commovente difesa. Peccato che non fu quasi ascoltato. «Ho avuto modo di conoscere Astrid fin da subito, vi posso garantire che è una ragazza normale il cui unico desiderio è quello di tornare a casa. Se a volte sembra strana è per via del forte shock che ha subito e la sua mente ne risente ancora, credo che molti di voi abbiano avuto a che fare con le crisi che le sono rimaste. Ma è anche vero che lei, ammesso e non concesso che abbia dei poteri e, che quello che dice Lancelot di Cancer sia vero, non li usa a fin di male. Lei è di animo nobile, io lo sento».
«Certo, come Sorrento di Syren». Commentò qualcuno, sarcastico.
«No, come noi. Essere d’animo nobile non significa subire passivamente i colpi degli avversari, significa anche difendersi. E, lei si è solo difesa e ha difeso tutti noi. Per questo non è colpevole». Ed eravamo tre a quattro per i non colpevole.
«Il Cavaliere della Bilancia si esprimerà per ultimo». Decretò il Gran Sacerdote. Poi diede la parola a Milo. Il ragazzo puntò i suoi impietosi occhi su di me e parlò: «Accuso la qui presente Astrid av Stjernene di essere una spia, di tradimento per aver disobbedito agli ordini, aver cercato di rubare un’armatura, di ribellione nei confronti di un Gold Saint», non era vero ma non fui ascoltata «di essere conoscenza di tutti i segreti del Santuario tramite Death Mask e che, con le sue capacità è la fonte certa di tutte le disgrazie che  ci sono piombate sulla testa. È da quando è giunta qui che ha manifestato strani poteri. Oltre che la liberazione dei Black Saint. Colpevole».
tre a cinque.
Poi fu la volta di Seiya, che, arroccando una difesa simile ma aggiungendo che avevo messo in pericolo la vita dei suoi amici, d’insubordinazione nei confronti di un Cavaliere, e di essere venuta meno al rispetto e la fedeltà per la Dea. Anche se io non ero davvero un Cavaliere e non avevo obblighi verso di loro.
Hyoga si accodò alla versione di Milo (perché era questo ciò che sentiva di dovere a qualcun altro, ma non compresi a chi) e quindi fummo sei a quattro per i “colpevole”.
Shura disse soltanto un laconico: «Colpevole». E, poi, parlò della notte tra il diciannove e il venti gennaio, quando le Creature bruciarono l’Albero del Conflitto, andando a sostegno della tesi di Aiolia.
tre a sette.
Infine Aphrodite che si schierò con Death Mask.
A quel punto fu la volta di Shiryu a esprimersi. Prima che potesse farlo, una voce maschile dal fondo della Sala urlò «Non colpevole!» Facendoci prendere un colpo. Ci girammo tutti a guardarlo. Fu così che scorsi un uomo fare la sua avanzata, annunciato più dall’eco dei suoi passi sul pavimento che dalle parole stesse che pronunziò. A causa della lontananza non lo riconobbi subito.
Invece il Gran Sacerdote sì perché tuonò indignato: «Silver della Freccia, chi ti ha dato il permesso di interrompere un’Assemblea Dorata?»
Il nuovo arrivato ignorò la sgridata e ripeté, con più sicurezza di prima: «Non colpevole». E la sua voce rimbombò ancora, più potente di tutte quelle che si erano levate finora, tanto era determinata. Avanzò ancora arrivando a un metro di distanza da me; solo allora si fermò.
«Come osi interferire con il Sacro Processo?» Ripeté ancora il Gran Sacerdote. 
Il Saint di Sagitta s’inginocchiò sul ginocchio destro, pugno a terra e replicò: «Non voglio interrompervi, sua Santità, sono qui solo in veste di messaggero e questo che avete udito pochi secondi fa era il messaggio».
«Messaggero? E, di chi?» Chiese il Patriarca, confuso.
«Della Divina Atena».
«Stai scherzando?»
I Saint presenti cominciarono a mormorare.
«Affatto, qui fuori c’è la Divina Atena in persona.» dichiarò e io sgranai gli occhi per lo stupore.

Aldebaran
Ti dispiaceva davvero per Astrid. A dispetto di tutto quello che era accaduto, era pur sempre una ragazza e, la stavate processando alla stregua di un criminale di Stato. Il tuo sguardo si posò su Saga e notasti che neppure lui la stava guardando. Sapevi che doveva pensare a quel processo che lui non sostenne mai a causa della sua infermità mentale e della vostra prematura morte.
Sapevate benissimo come vi chiamavano: la Generazione Corrotta. La stessa cui la Dea aveva concesso una terza possibilità, per proteggere la Terra e adesso anche Yoshino. Eri ancora convinto che fosse lei la ragione per la quale eri risorto. La stessa bambina che quella mattina era venuta da te e ti aveva supplicato di aiutare la sua amica.
Sapevi che per lei non doveva essere facile tutto questo. Nessuno dei suoi amici si era ritrovato nei guai fino al collo come Astrid. E, che lei stessa ne era spaventata. Ti eri accorto anche che, dalla sera in cui lei era rimasta alla Sesta a dormire da lei, il rapporto tra le due si era incrinato. Adesso non ti sembrava più entusiasta come prima, ma sempre in preda a dubbi ed esitazioni, quando tu o sua madre le ponevate domande come: «Oggi non vai a trovare Astrid?» E, rispondeva sempre, distogliendo lo sguardo da voi, neanche fosse imbarazzata: «Magari un’altra volta, ora devo studiare».  
Tu non le avevi mai chiesto spiegazioni per ciò che avevi visto qualche sera prima, ma avevi come la sensazione che lei lo avesse intuito. Però, eri sicuro che la causa di tutto risiedesse proprio in quella sera. 
Dopo di ciò eri tornato al presente e le avevi risposto, contrito: «Non dipende solo da me, tesoro». Poi le avevi posato una mano sulla testa. I suoi occhi purpurei si erano riempiti di lacrime e aveva abbassato lo sguardo, ma tu avevi visto lo stesso una lacrima solcare la sua guancia.  
“La Divina Atena in persona? Non è possibile. Ptolemy sta sicuramente scherzando”. Pensasti incredulo, perché la Divina Atena era alla sua villa a Tokyo.    
Lo guardasti meglio e comprendesti che non solo era serio ma che c’era effettivamente il Cosmo Divino di Yoshino Atena fuori della porta. E che non era neanche il solo.
Che cosa avevano in mente? Kanon ordinò ad Aiolia di farla entrare. Il Saint del Leone andò a vedere e scortando con sé Yoshino. I capelli rosei sembravano quasi risplendere nella fioca luce che illuminava l’ambiente. Il vestito azzurro sotto la giacca invernale blu con la pelliccia sintetica viola metteva in risalto la sua chioma e la sua carnagione. E, nella bellezza del suo Cosmo, la tua bambina combattiva non aveva niente da invidiare a Lady Isabel.
Si fermò proprio accanto ad Astrid che la guardò a occhi sgranati.
«Nobile Yoshino Hino!» Esclamò Kanon sconvolto. Poi ritrovò una parvenza di contegno e le domandò: «Siete venuta per assistere al Sacro Processo?»
Aiolia nel frattempo lasciò il braccio di Yoshino e, indirizzandole un piccolo cenno del capo come a dire “prendo congedo” ricambiato con un altro cenno della testa, tornò al suo posto.
Poi la ragazza si rivolse al Patriarca, guardandolo dritto nelle orbite della maschera. «Non esattamente, sono qui per prendere sotto la Mia ala protettrice Astrid av Stjernene». E, con queste parole, si guadagnò gli sguardi stralunati di tutti i presenti.
Ptolemy sottolineò le parole di Yoshino affermando: «Mi dispiace, nobili Gold Saint e Gran Sacerdote, ma non possiamo permettere che avvenga un’altra ingiustizia nella dimora terrena della Dea».
«Perché vorreste prendere questa ragazza sotto la Vostra ala?» Domandò di nuovo Kanon alla tua bambina.
«Perché è la cosa giusta. Voi siete Saint di Atena, smettetela di spaventare questa ragazza. Io voglio credere nella sua innocenza, che non abbia fatto niente di male, ha solo cercato di salvarvi tutti. Mi hanno raccontato come sono andate le cose e non credo proprio che Astrid abbia agito a discapito del Santuario. In questi giorni non ho fatto altro che sentir parlare solo del coraggio e dell’abnegazione della mia amica. Lei ha salvato parte dei cittadini di Rodorio da Eris e anche alcuni di voi, è dunque questo il modo di ringraziarla? Mi rifiuto di crederlo».
Il Patriarca fece un respiro profondo prima di replicare: «Astrid ha rinunciato al diritto di ospitalità nel momento stesso in cui è stata assunta come ancella, pertanto questo Processo può avere luogo ed è più che legale».   
Guardaste tutti Kanon che non mostrò segni di emozioni. Ma tu eri certo di sentirlo fremere. Era sadico, ma non poteva farci niente.
«Yoshino, basta così per favore». La zittì Astrid con fare quasi materno. Eppure nonostante il tono dolce, le sue parole suonarono quasi come un ordine all’orecchie di tua figlia. La quale la guardò allibita, incontrando solo la sua espressione di dolce rassegnazione e speranza. «Astrid!» Esclamò, ma la sua amica la prevenne con un mesto sorriso dipinto in faccia: «Va bene così, non sei obbligata a difendermi a tutti i costi».
«Non dire così, stai subendo un’ingiustizia bell’e buona, tu non hai fatto nulla di male, hai salvato le vite di moltissimi al Santuario e questo non può essere ignorato».
«Certo, ma non posso ignorare il fatto che abbiano ragione. Anche se li ho salvati sono perfettamente consapevole di essere andata contro la volontà dei Saint per ben due volte. Inoltre non hanno tutti i torti nel definirmi una minaccia, non so di cosa io sia effettivamente capace e non ho mai giurato fedeltà ad Atena né come ancella né come civile. Dubito fortemente che lo farò come Saint dal momento che non lo sono. Non sono altro che una ragazzina che ogni volta che si muove distrugge qualcosa e non si rende conto che troppo tardi di ciò che fa. Non so da dove nascano le mie capacità né conosco appieno il mio vissuto, ma sono sicura che tuo padre non vorrebbe mai che tu ti ficcassi nei guai per me, Dea o non Dea che tu sia. Fallo per lui, per favore». La saggezza con cui proferì quelle parole contrastava ampiamente con la gravità della sua situazione. Si rendeva conto di quello che diceva?
La tua bambina cercò di protestare: «Ma, Astrid…»
L’altra scosse il capo. «Mi rimetto all’Assemblea, la decisione spetta a loro». Dichiarò guardando il Papa da sopra una spalla. Il quale la guardò stupefatto dietro la maschera. 
Death Mask sbottò facendo sussultare Aiolia, Shun, tu, Kiki e Milo: «Cosa stai facendo? Sei forse impazzita? Yoshino ti sta offrendo una via di fuga e tu rifiuti? Brutta scema che non sei altro, Madonnina infilzata dei miei stivali, ti sei bevuta il cervello?» Persino Aphrodite, che di solito roteava gli occhi a queste uscite, si mise a urlare anche lui e a cercare di convincerla a ritrattare, ma non ci fu verso. Ovviamente questa reazione scatenò quelle di voialtri. Milo si mise a urlare agli altri di tacere, Kiki si accodò a Death Mask e Aphrodite, Hyoga e Seiya cercarono di controbattere alle parole dei custodi della Quarta, della Prima e della Dodicesima. Shiryu si rivolse a Shura ma nel bel mezzo della cacofonia che esplose nel tempio non riuscisti a capire cosa urlasse, anche perché tu stesso eri impegnato a cercare di tenere fermo Kiki sia con una mano sulla spalla, sia con le parole, che, sembrava sul punto di scattare in piedi da un momento all’altro. Se Shaka fosse stato ancora vivo vi avrebbe zittiti tutti con un tembu horin.
Gli unici ancora in silenzio erano Astrid, Ptolemy, Yoshino, il Gran Sacerdote e Saga. Anche se le due ragazze e il Santo della Freccia vi guardavano rispettivamente vagamente spaventate e in allarme. Sembrava infatti, che dovesse scoppiare una Guerra dei Mille Giorni da un momento all’altro e doveva proteggere la Dea e la sua amica.
Milo a un tratto balzò in piedi e cominciò a berciare contro Aiolia che ricambiò e mancò poco che si attaccassero a vicenda, supportati da Death Mask e Seiya.  A placarli tutti fu la voce di Kanon che strillò di finirla con quanto fiato aveva in gola: «Non sentite niente?» Urlò poi. Eravate così presi a battibeccarsi che non vi eravate accorti delle grida dalla scalinata. E, della massa di Cosmi radunata lì, a pochi metri dallo stilobate, l’ultimo gradino del crepidoma della Sesta. Cosmi di guerrieri, ma anche di civili. Da quando Astrid aveva usato le Creature nella Battaglia si era sparsa la voce che potesse anche  
«Ah, sono arrivati». Commentò Ptolemy sollevato guardando verso la porta. Anche Yoshino parve tranquillizzarsi visibilmente.
«Arrivati? Chi? Di chi stai parlando?» Domandò Kanon in coro con Milo che, stranamente, non fece alcuna battuta di condimento. «Altri invasori?» Domandò poi, sfoderando la Cuspide Scarlatta.
«Sapevo che non sarebbe bastato, perciò ho portato i rinforzi». Spiegò il Saint della Freccia, girandosi di nuovo verso Kanon, con aria tranquilla, come se avesse tutto sotto controllo. «Qui fuori c’è quasi tutto il Santuario». 
“Quasi tutto il Santuario? Non era possibile. Ptolemy sta sicuramente scherzando”. Pensasti incredulo. E, invece no. Il Cosmo di tua figlia prima e la litigata dopo, vi avevano distratto dall’invasione. Adesso percepivate chiaramente gli altri Cosmi di tutti i superstiti, delle reclute e degli allievi della Palaestra, di Lancelot, Ionia, Mur, tua moglie Shaina, Castalia, di Juan e di Georg e di altri Silver, dei Bronze e dei servi, dei Black Saints, dei civili e soldati semplici riuniti fuori della Sesta. Persino i fantasmi come Sirrah erano dalla sua parte.
Potevate persino sentirli tutti urlare a gran voce: «Non colpevole!», «La ragazza è innocente». Comprendesti ciò che aveva in mente Ptolemy e lo guardasti a occhi sgranati. Era incredibile che un Silver Saint da solo fosse riuscito a fare tanto. Non poteva essere un’illusione. Per quanto il suo Cosmo fosse potente non sarebbe mai arrivato a eguagliare quello di un Gold. Inoltre, sempre tramite il Cosmo, non solo aveste una visuale della folla urlante fuori della porta, ma anche dei loro ricordi. Quelli della battaglia, dove la giovane aveva riportato in vita Ptolemy e molti altri. Sempre tramite i ricordi vedeste i flash della punta delle sue dita brillare d’argento mentre ricreava la costellazione del Cavaliere della Freccia, salvandolo dall’estinzione di cui parlava Death. Il rispetto che le Creature nutrivano per lei e di come lei le avesse spronate a decimare i nemici, benché fosse ferita e debole a sua volta.
Tra tutte quelle persone, sentiste alcuni Cosmi avanzare e fare il loro ingresso nella Sala. Ti voltasti e vedesti Ikki, Lancelot e il nuovo Capo dei Black Saints, il Cavaliere Nero di Andromeda.
«Ikki!» Esclamaste.
Incuriositi dall’invito, vi avviaste alle porte del Tempio e li vedesti lì, urlanti, alzando i pugni in aria. Appena vi videro uscire da lì e la folla si divise tra chi vi applaudì e vi invocò a gran voce in quanto Santi d’Oro della Dea e chi cominciò a fischiarvi contro e urlarvi di liberare la poveretta.
Yoshino, Ikki, Mur, Lancelot e Andromeda Nero si misero in prima fila.
Tra la folla riconoscesti alcuni dei fratellastri di Hyoga e sottoposti di Kiki, come Ichi dell’Hydra.
«Non è possibile». Era stato il commento sbalordito di Shura e Kanon mentre Milo borbottava rapidamente qualcosa in dialetto cicladico. Tu li osservavi spaesato mentre Death Mask, Aphrodite e Kiki erano talmente stupiti da non volerci credere. Ma niente batteva l’espressione basita di Astrid, che rivaleggiava tranquillamente con quella del vostro Patriarca.  
Kanon li zittì con un imperioso gesto della mano e la folla tacque all’istante.
Aiolia si volse verso Ptolemy, che vi aveva raggiunti con un sorriso soddisfatto stampato in faccia: «Come hai fatto?»
L’uomo lo guardò e poi rispose: «É una lunga storia che, se permettete, vi racconterò. Come sapete, io dovevo essere morto, anzi no, estinto per mano delle Creature, ma quella ragazza, non so come, mi ha riportato indietro. Non ci volevo credere, pensavo fosse un sogno dato da una botta in testa. Ma poi dopo i funerali ho sentito uno stralcio di conversazione del Cavaliere dell’Ariete con il suo predecessore e ho capito che era tutto reale. Mi sono avvicinato a loro e gli ho chiesto di raccontarmi quello che era successo. In seguito ho sentito che molte altre persone erano state salvate a questo modo e oltre da questa coraggiosa giovane donna. Ed è stato così che mi sono convinto che dovevo ripagare il debito che avevo con questa ragazza. Però sapevo bene che da solo non ce l’avrei fatta. Dopotutto, io sono solo un Silver, ma, qualcosa mi diceva che voi Gold non mi avreste ascoltato o, comunque, sarebbe finita male. Forte della mia convinzione ho cercato di radunare quante più persone possibili potessero aiutarmi. Parlando con i miei parigrado mi sono ricordato di un cavillo: assoluzione da tutti i peccati e condono della pena per volontà popolare, altrimenti detta assoluzione per acclamazione. Così ho cercato i miei colleghi più carismatici e, quando gli ho illustrato il piano, si sono offerti di aiutarmi seduta stante. Persino i Cavalieri di Cancer, di Phoenix e i Cavalieri Neri hanno accettato. Con il loro sostegno, quello di Shaina e Castalia e di qualche Bronze, sono riuscito a spiegare agli abitanti di Rodorio che cosa stesse succedendo e cosa avesse davvero fatto per noi la signorina av Stjernene. Sulle prime mi hanno ignorato, ma non mi sono arreso. Dopotutto il tempo era agli sgoccioli. Ma quando mi hanno chiesto perché avrebbero dovuto farlo, non ho saputo che rispondere, finché non mi è tornato in mente cosa ha fatto lei per tutti noi. Allora le parole erano venute da sé, inoltre il signor Lancelot di Cancer e Miss Yoshino Hino, con i collaboratori domestici, hanno dato una mano in extremis, attirando ancor più persone».
Guardaste tutti Kanon che non mostrò segni di emozioni.
Era vero che erano civili, ma era anche vero che il potere vero e proprio apparteneva a voi delle armate di Atena. Ma, se Atena stessa si dimostrava dalla parte dell’imputato e, con lei tutto il grosso dell’esercito, allora voi diventavate automaticamente la minoranza e il vostro giudizio perdeva ogni valore.
«Lo possono fare?» Domandasti speranzoso e Yoshino ti guardò con gratitudine. 
«Sì, la legge è ancora valida». Confermò quasi a malincuore.
A quel punto prese parola Lancelot: «Io c’ero quando la qui presente Astrid ha avuto l’idea. Ma non è stata lei a liberarli e a comandare i Black Saint. Sono stato io, lei si è solo limitata a riportare in vita quelli uccisi dalle Creature che ha trovato sul suo cammino».
«Confermo tutto ciò che ha affermato il signor Lancelot». Intervenne il Black Saint di Andromeda. E, tu ne vedesti la sincerità. «E, se lei ce lo chiedesse, saremmo pronti a giurarle fedeltà». Aggiunse chinando il capo e portandosi una mano sul cuore. I Black Saints redivivi dietro di lui lo imitarono. «Anzi, è proprio quello che abbiamo intenzione di fare». Ciò detto le nere schiere s’inchinarono sulle scale davanti ad Astrid. Ginocchio e pugno a terra, il viso rivolto verso il basso.
La vostra imputata dal canto suo sgranò gli occhi incredula al pari dei cinque ex Bronze che li avevano affrontati.
Kiki osservava l’amica di tua figlia con preoccupazione ben celata dietro quello sguardo calmo. Sapevate tutti che erano solo una banda di approfittatori assetati di potere. Una volta poteva anche starci che vi aiutassero, ma ora giurare fedeltà a un’ancella, per quanto potente fosse, no. C’era puzza di bruciato. E, Death da ex imbroglione assetato di manie di potere, aveva fiuto per queste cose. Ti bastava guardarlo per capire che si era accorto che qualcosa non andava.
Per un momento temeste tutti che lei accettasse, ma la bionda ti parve parecchio a disagio da questa sottomissione gratuita. Infatti disse: «Potreste rialzarvi, per cortesia? Non occorre giurarmi fedeltà, io non sono interessata ad essere una leader, non so neanche da che parte cominciare a comandare qualcuno, figuriamoci a gestirne così tanti. Mi dispiace, ma non è nella mia indole. Io sono questo, mi dispiace».
«Non importa che non lo siete, vi seguiremo ovunque andiate». Dichiarò di nuovo il capo dei Black Saints. Stavi per intrometterti e zittirli dicendo che le loro parole non sarebbero bastate per convincerla, dal momento che lei era padrona del suo destino e delle sue scelte, ma lei, impallidita, si schernì dicendo: «Davvero, non c’è bisogno, non so neanche se questo potere che ho sia permanente o solo temporaneo, davvero, non ne vale la pena». Mosse persino una mano come a volerli scacciare come a dire: “Sciò”.
«Siete sicura?» Chiese a quel punto Andromeda  Nero, guardandola dritta in faccia. Presto imitato dagli altri compagni. 
«Più che sicura, io voglio solo tornare a casa mia, niente di più».
«Come desiderate». 
Ikki invece si rivolse direttamente ad Aiolia, che lo guardò: «Quando ha affrontato Eris e i suoi seguaci, ricordi cosa ha fatto la tua Armatura?»
«Naturalmente».
«Perdonami Aiolia, ma credo che tu abbia bisogno di ricordarti che cosa sia accaduto». Decretò il suo erede.
Il tuo amico si mise in posizione di difesa, presagendo un attacco.
Astrid sgranò gli occhi e trattenne rumorosamente il fiato. Aiolia la sentì e la guardò perplesso.
Poi tornò a guardare il fratello maggiore di Shun. «Vuoi lanciarmi il Fantasma Diabolico? Perché ti avverto che lo fermerò, io sono pronto». Dichiarò assottigliando gli occhi verde smeraldo, pronto alla battaglia, stringendo i pugni.
«No, non ho intenzione di cominciare una Guerra dei Mille Giorni con te. Ti chiedo solo di ricordare cosa è accaduto davvero quella notte nella Sala della Tredicesima Casa».
Ancora una volta lui lo guardò sorpreso ma si riscosse e tornò ad aggrottare la fronte, nella sua solita espressione minacciosa: «Di cosa stai parlando?»
«Del tuo salvataggio. Se non fosse stato per Astrid le Creature ti avrebbero ucciso e, se non fosse stato per lei, saresti stato colpito dalle Ali della Fenice. Come puoi essere così cieco? Lei si è presa il colpo al posto tuo». Aiolia sgranò gli occhi e la guardò come a chiederle se fosse vero, lei ricambiò il suo sguardo e annuì con un piccolo sorriso. Ikki continuò, riportando l’attenzione del Leone su di sè: «Non te ne sei accorto? Era questo il motivo per cui è venuta da voi, per evitare che moriste. Ero presente anch’io quando si è ritrovata di fronte all’Albero del Conflitto e alla Dea della Discordia. Io ho lanciato le Ali della Fenice contro l’Albero, ma Eris ha deviato il colpo verso di te, che in quel momento eri vulnerabile. Ho visto chiaramente Astrid farti scudo con il suo corpo. Persino la tua Armatura ha capito e ha cercato di proteggerla, agendo di testa propria, ma non ha mai smesso di proteggere anche te, altrimenti non potresti più indossarla».
Guardasti l’incredulità impossessarsi dei tratti di Aiolia. «Stai mentendo!» Lo accusò poi.
A quel punto fu Yoshino a parlare con voce implorante e mani giunte al petto come in preghiera: «Ikki sta dicendo la verità, Aiolia. Anche tu lo sai, le sue parole hanno lasciato spazio al dubbio. Ma tu ce li avevi già questi dubbi, non mentire a te stesso, ti prego».
Shun intanto si affiancò a Ikki e vi guardò come se con gli occhi avesse potuto confermare ogni parola detta dal fratello.
Non era mai accaduto in tutta la storia del Santuario, ma questa legge esisteva davvero. Lo sapevate voi come lo sapevano tutti i vostri predecessori e precedenti ex Gran Sacerdoti. Ptolemy, Yoshino e tutte le persone che conoscevano la ragazza o che avevano un debito con lei, o che erano soltanto attratte dal suo potere, ci si stavano aggrappando con tutte le loro forze.
«Quindi cosa volete?» Domandò Kanon, con un certo sforzo per mantenersi calmo.
«Assoluzione. Vogliamo l’assoluzione per lei». Dichiarò Yoshino più determinata di prima, forte del sostegno della folla alle sue spalle. Guardaste tutti Kanon, che, sicuramente, stava digrignando i denti dietro la maschera e, stava domandandosi se fosse la cosa giusta da fare.
«Fatemelo sentire». Dichiarò dopo un istante che parve durare un’eternità, rispettando il protocollo. La Dea lo aveva importato direttamente da Sparta ai tempi del mito, quando ebbe modo di conoscere i suoi guerrieri e imparare qualcosa sulle loro usanze. In realtà gli Spartani usavano l’acclamazione per eleggere i propri generali e rappresentanti. Ma la patrona di Atene aveva pensato di usare questa formula in altri modi, li stessi che, in seguito, avrebbe usato la Chiesa per eleggere i suoi pontefici fino all’ottavo secolo dopo Cristo e l’elezione della Papessa Giovanna. Pratica in seguito abbandonata dalla comunità cristiana onde evitare altre elezioni femminili.
Nel vostro caso era dai tempi dell’Antica Grecia che non venne mai eseguito e, tu non avevi ricordi di vite precedenti cui aggrapparti per verificarlo.
Poi lo urlò di modo che tutti lo udissero.
Foste investiti di rimando da un potentissimo: «Assoluzione! Assoluzione!» che vi fece fischiare le orecchie e, per poco, non vi fece arretrare. Neanche una carica di Specter vi aveva mai colto così alla sprovvista come quelle persone. Urlavano tutti con una potenza di polmoni e una convinzione tali che per poco non raggiunsero la stessa potenza dell’Atena Exclamation.
Ma, a quel punto, fu Saga a fermare tutto: «Non colpevole». Dichiarò e, voi tutti lo guardaste.
«Che cosa stai dicendo, Saga?» Esclamò Seiya contrariato.
«Non colpevole. La ragazza è assolta». Ripeté Saga. 
«Se l’oracolo di Atena e il Cavaliere della Bilancia proclamano la sua innocenza, allora la ragazza è innocente». Decretò.
La folla ululò la propria approvazione e scoppiò in un applauso fragoroso.
Kanon li zittì di nuovo e poi rivolse la faccia mascherata verso il Cavaliere della Bilancia. «Shiryu». Disse soltanto.
Quest’ultimo dichiarò, diplomatico: «Non colpevole, però ritengo giusto che passi almeno due mesi a svolgere servizi socialmente utili per ripagare almeno in parte, i danni da lei stessa causati». E, la folla proruppe in altri applausi e altre grida di giubilo al Papa stesso per la sua magnanimità.
Yoshino sorrise felice di sentirlo, Astrid sorrise e s’inchinò al Cavaliere della Settima Casa. Anche se Shiryu non poteva vederla le sorrise lo stesso. Poi si rialzò e si lasciò abbracciare e stropicciare da tutte le persone che la conoscevano.   
Kanon fu il primo ad andarsene, presto seguito da Milo, che esibiva una faccia tutt’altro che felice, Shura, Hyoga, Ikki e Seiya. L’ombroso spagnolo non degnò neppure di un’occhiata la scena che si stava lasciando alle spalle. Invece Hyoga continuava a borbottare con Seiya che stavano prendendo. Ikki decise di aver fatto il suo dovere, perciò scese le scale dall’altra parte senza degnare di uno sguardo nessuno.
Non eri una persona religiosa o molto credente, ma non potesti fare a meno di notare una certa somiglianza tra un episodio del Nuovo Testamento, cioè la scelta degli Ebrei tra Barabba e Gesù e, quello che era appena successo. Era strano, perché in questo caso non c’erano nessun Barabba e nessun Gesù, ma solo una ragazza. 
Vedesti Ptolemy stringere la mano alla bionda e poi andarsene ridiscendendo la scalinata delle Dodici Case. Yuna dell’Aquila e gli altri studenti della Palaestra restarono a saltellarle un po’ attorno, adducendo come scusa che le merende che portavano lei erano le migliori e, che dava delle ottime ripetizioni di materie comuni. Fino a quel momento non pensavi che quella ragazza si fosse data da fare così tanto. Dovevi chiedere spiegazioni a Yoshino. 
Ti avvicinasti alle due amiche dopo che Astrid venne lasciata andare da Castalia. Yoshino continuava a sorridere con le lacrime agli occhi e Astrid abbassò ancor più la testa. Sia come ringraziamento, sia per l’imbarazzo. Non ti eri mai reso conto prima d’ora quanto Astrid fosse più alta di tua figlia. E, non solo per via dei gradini.
Ti tenesti un po’ indietro e, vedesti Astrid guardarla: «Grazie».
«Non c’è di che». Ci sarebbe stato bene un abbraccio, ma nessuna delle due mosse un passo verso l’altra. Forse era ancora troppo presto per loro, per riavvicinarsi. A quel punto anche tu ti avvicinasti e Yoshino ti ringraziò.
Mentre scendevate le scale in compagnia degli altri festeggianti che, cominciavano a sciamare via, tua figlia propose all’amica di cenare insieme alla Seconda. Stasera stessa. Ti chiese persino se per te c’erano problemi e tu scuotesti il capo e curvasti la bocca in un sorriso che Astrid ricambiò con uno un po’ meno convinto e una faccia che stava a dire: “Se lo dite voi mi fido”.
«D’accordo. Vado ad avvisare Castalia e vi raggiungo in tempo per la cena». Aveva promesso la ragazza. Poi si era defilata giù lungo la rampa. Mentre stavate preparando la cena Yoshino non faceva altro che guardare l’orologio. «Non capisco, è sempre stata puntuale, anzi, quasi in anticipo, allora perché ci mette tanto?»
«Amore mio, è successo qualcosa che non so?» Le domandasti preoccupato.
«No, non è successo niente».
«Sei sicura?»
«Sì, papà». Facesti per domandarle altro ma fu lei stessa ad anticiparti con un sospiro. «In realtà, non va tutto bene». Ammise, triste.
Rimettesti il coperchio sulla pentola dell’arrosto con patate e le domandasti, guardandola preoccupato: «Perché dici questo?» Sembrava quasi che stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro. «É successo da quando Astrid ha incontrato sua madre».
Quasi avesti paura di ciò che avrebbe potuto dirti e, cioè, che lei aveva dei genitori biologici che l’avevano sempre cercata. Scacciasti questo pensiero, Yoshino sapeva perfettamente che, in quanto Atena, non aveva genitori biologici e che per lei voi eravate la sua vera famiglia. Che, poi, si era allargata con l’arrivo degli altri Cavalieri d’Oro. Ancora adesso, quando poteva, prima delle Guerre Sacre, era uscita con Shura spesso e volentieri e si accapigliava ancora con Death Mask.
La tua bambina si deterse una lacrima con il dorso della mano: «Quella sera io, io ho detto ad Astrid chi sono davvero, da allora i rapporti tra noi si sono raffreddati».
Vedesti Shaina comparire sulla soglia della cucina ma, appena vide la vostra bambina in lacrime tu le facesti cenno di stare zitta. Per quanto potesse essere una madre severa, non sopportava di vedere vostra figlia piangere. Lei si zittì e, anche se le costò tantissimo, se ne tornò in salotto cercando di fare meno rumore possibile. Le avresti raccontato tutto dopo, come sempre.
Posasti una mano sulla testa della tua bambina e la traesti a te. «Io, ho cercato di rimediare però mi sembra di non aver fatto abbastanza».
«Ssh, non ti preoccupare, non è niente, non è facile per lei, lo sai. Non è colpa tua, davvero, non lo è.» dicesti, cercando di rassicurarla. Lei ti guardò e tu ti accorgesti che stava sforzandosi di trattenere le lacrime. «Sul serio?»
«Sì, prova a metterti nei suoi panni, anche se è più grande di te di quattro anni dev’essere stato difficile per lei abituarsi prima al Santuario e ora anche a questo. Dalle un po’ di tempo. Su, ora asciugati le lacrime, se viene, non vorrai mica farti vedere così, no?» Lei ridacchiò e sul suo volto sbocciò un sorriso: «Hai ragione».
Proprio in quel momento sentisti tua moglie salutare Astrid. «Scusate il ritardo». Fece la bionda dopo aver salutato la madre di Yoshino. «Non sono troppo in ritardo, vero?» Domandò Astrid, impensierita.
Guardasti tua figlia con un sorriso che stava a dire: “Visto? Che ti dicevo?” E lei ricambiò con uno ancora più grande e andò in salotto a salutare l’amica. «Ma questi, dove li hai trovati?» Le domandò meravigliata mentre sua madre cercava di rispondere alla poveretta: «No, sei in perfetto orario, cara, stavamo per metterci a tavola».
A questo punto anche tu facesti il tuo ingresso sulla soglia e la salutasti.
Astrid aveva legato i capelli ma non si era cambiata d’abito. «Signor Aldebaran, buonasera». Ti salutò tendendoti la mano che stringesti, dopo essertela pulita al grembiule, mentre Shaina ti mostrava l’ampolla con i gladioli al suo interno dicendo: «Hai visto che bel pensiero?»
«Meno male! Ho girato mezza Rodorio per portarvi un presente. Non potevo venire a casa vostra senza nemmeno un pensierino». E, fulminò Yoshino con lo sguardo e tua figlia avvampò, imbarazzata. «Me l’avesse detto un po’ prima avrei portato con me qualcosa di meglio». Si scusò poi.
«Ma che dici, sono bellissimi». La rimbeccò allegramente Shaina posandoli su un mobiletto vicino alla parete.
«Scusate se non mi trattengo, signore, ma le pentole mi chiamano». Dicesti sempre sorridendo e te ne tornasti in cucina mentre Yoshino faceva accomodare Astrid e, quest’ultima s’informava sulle condizioni della gamba di Shaina.      
 
Shura
Quella sera mentre mangiavi, Saga ti raccontò che Ikki se ne era andato quasi subito dopo l’assoluzione di Astrid.
«Sai che la Fenice ha promesso di tornare?»
O stava prendendo troppo sul serio l’incarico che si era imposto da solo, o si stava trasformando in una comare pettegola formato civetta. Lo guardasti e assottigliasti gli occhi nel notare uno dei tre topolini esibire degli inquietanti occhi risplendenti di rosso.
Non l’avevi mai visti prima così. Che ci fosse lo zampino di Arles anche in forma animale? In tal caso saresti stato pronto. Tanto ormai tra Ionia e Arles ci eri abituato. Non come quei geni di Seiya e Ikki che non si erano neppure accorti del cambiamento di Cocteau quando li incitò a prendere quella spada al santuario shintoista, spacciandola per la volontà di Atena. “Nessun essere umano dovrebbe mai elevarsi al rango di un Dio”. Era questa l’amara lezione che spettava a voi Saint, per questo combattevate a mani nude, perché altrimenti avreste potuto spodestare tutti gli Dèi e sostituirvi tranquillamente a essi. E, una blasfemia come questa era inconcepibile anche per te. Ma per Astrid? Quella ragazza si stava dimostrando veramente potente, se mai fosse diventata una Saint, che grado avrebbe potuto raggiungere? Se avesse avuto un’Armatura, quale avrebbe indossato? Una di Bronzo ma avrebbe fatto miracoli come Seiya, o una d’Argento e sarebbe diventata come Castalia? Oppure ancora una D’oro e sarebbe diventata più potente persino di Kanon? Le probabilità c’erano tutte, considerando che da sola era riuscita a salvarvi (perché sì, era questo che aveva fatto) da Eris e dalle sue Armate.    
«Davvero?» Non avevi un rapporto molto stretto con Ikki, semmai l’avevi con Shiryu, ma questo era un altro discorso. Sapevi che il fratello maggiore dei Bronze aveva il vizio di sparire e ricomparire in caso di necessità. Neppure la Dea Atena in persona era mai riuscita a piegarlo al suo volere e imporgli qualcosa che non volesse fare. Per questo era tanto sconvolgente che promettesse una cosa simile: «L’avrà promesso a Shun». In Giappone avevi anche conosciuto quest’aspetto del Cavaliere della Vergine, quando lavoravi come bar tender nel bar di Hyoga. Non lo avresti mai detto, a giudicare dalla forza e dalla determinazione che impiegò quando sconfisse quel Senza Volto nell’ospedale dove lavorava. Te l’aveva confessato Hyoga un giorno, tanto per chiacchierare un po’ nell’attesa che il locale si riempisse.
«É qui che ti sbagli, l’ha promesso ad Astrid». Rivelò Arles Saga o forse tutti e due.
Smettesti di mangiare per guardarlo strabiliato. Saga continuò: «La ragazza si è accorta che era scomparso e l’ha cercato per tutto il Santuario, l’ha trovato vicino all’arena e allora l’ha fermato. Gli ha chiesto dove stesse andando e quando lui le ha risposto l’ha ringraziato per aver detto la verità, poi gli ha chiesto perché se ne stesse andando. Ikki le ha risposto che aveva voglia di andare via. Lei gli ha chiesto se non avesse voluto fermarsi a cena e lui ha declinato l’invito. Allora lei gli ha augurato buon viaggio e che spera di rivederlo».
«Non mi sembra che abbia formulato nessuna promessa». Poi mangiasti un altro boccone.
«L’ha fatto, ha detto: un giorno ritornerò».
Inghiottisti. «Quindi tu pensi che ad Astrid piaccia Ikki?» Domandasti con un filo di curiosità. Nessuno lo avrebbe mai detto vedendoti, ma eri molto curioso. Soprattutto quando si trattava del più misterioso dei cinque ex Bronze. E, poi, diciamocelo, se c’era occasione, anche tu sapevi essere malizioso.  
Se Saga avesse potuto alzare le spalle l’avrebbe fatto: «Non so, sicuramente c’è un debito tra di loro».
«Un debito?»
«Tu non passi molto tempo con lei, ma osservandola ho capito che non le piace sentirsi in debito con qualcuno. Poi credo anche che dipenda dal debito; se è una cosa leggera se ne infischia ma se è una cosa grande, come quello che aveva nei confronti di Aphrodite e Death Mask, fa di tutto per annullarlo. Penso che sia per questo motivo che sia venuta ad aiutarvi al Tempio della Luna».
«Mi ricordo. Sei già andato a fare rapporto a Kanon?» Gli chiedesti poi mentre raccoglievi con la forchetta gli ultimi bocconi rimasti nel piatto.
«Sì, giusto poche ore fa, però c’è qualcosa che non mi convince lo stesso».
«Non sei d’accordo con il verdetto?»
«No. Yoshino è molto giovane, non sa ancora ragionare obiettivamente».
«La divina Atena era ancora più giovane quando fece ritorno al Santuario. Poi aveva diciassette anni quando affrontò Hades, dovresti ricordatelo bene». Lo ammonisti portandoti la forchetta alla bocca e mangiasti.
«Mi ricordo perfettamente, ma come Dea Atena non si è ancora destata del tutto, preferisce continuare a vivere come una persona normale piuttosto che prendere pieno possesso del suo fardello e del suo ruolo».
«A me invece sembra giusto così». Dicesti tu dopo aver inghiottito ed esserti pulito la bocca con il tovagliolo.
«D’accordo, ma ha dichiarato Astrid sotto la sua protezione, l’ha fatto in quanto Atena, non possiamo farle niente altrimenti rischiamo un’altra Guerra Sacra con il Santuario dell’Antipapa».
«Non si può negare che non abbia imparato qualcosa dalla sua permanenza sul trono di Grecia con la sorella». Commentasti.
Ti alzasti, sparecchiasti e cominciasti a lavare i piatti. Mentre li lavavi riprendesti il discorso: «Ovviamente neanche io sono favorevole a questa decisione. Stando a Shun Astrid avrebbe dovuto già essere morta da un bel pezzo. La ferita sulla schiena era molto grave e non si sa come è guarita del tutto. Anche le cicatrici lasciate dal germoglio malefico sono scomparse come se non fossero mai esistite. I ricordi che dice di avere di cui mi hai parlato e tutto il resto, non so, mi fa pensare che ci sia qualcosa che ci nasconde, qualcosa in più oltre ai poteri che ha dimostrato di possedere finora».
«Credi davvero che esista un legame tra lei e le Creature?»
Preferisti tenere per te il pensiero che in realtà anche Saga lo sapesse e dicesti: «Ne sono certo e credo che lo sappia anche lei, sebbene non abbia ancora capito di che natura sia». Lo stesso che l’aveva fatta riconoscere a quel modo dall’Albero del Conflitto e dai figli di Eris e dai Fantasmi di Ares. «In quanto oracolo di Atena, tu cosa pensi che Astrid sia?» Gli chiedesti mentre sciacquavi.
«Non sono più certo che sia ancora colpevole, il verdetto è sempre stato incerto nonostante la mia opinione. Speravo che voialtri riuscite a far pendere l’ago della bilancia. Ma neanche voi ci siete riusciti. Riconosco che sia dotata di poteri che vanno oltre la nostra comprensione, ma sono anche preoccupato, perché non sappiamo che cosa abbiamo davvero introdotto entro i confini del Santuario. Potrebbe anche celare un pericolo o un nemico ben più grande di quello che paventiamo, eppure al tempo stesso voglio sperare con tutto me stesso di essermi sbagliato».
«Vorresti darle una chance?»
«Sai che non credo nelle seconde occasioni; la mia speranza è che non finisca per essere travolta dai suoi stessi poteri e che non diventi un mostro con manie di grandezza come quella bestia».
Chiudesti l’acqua e ti mettesti ad asciugare i piatti senza dire niente. Sapevi che Saga aveva ancora i sensi di colpa per via dell’operato di Arles. Soprattutto nei tuoi confronti, dopotutto avrebbe dovuto aiutarti a crescere, non piegarti al suo volere alla stregua di una marionetta.  E, per questo, non avrebbe mai finito di chiederti perdono. A te e ad Aiolia. «Tu cosa pensi di fare?» Ti chiese poi.
«Vediamo come va. Se è una nemica agiremo di conseguenza».   
«Bè, allora dobbiamo sperare che non se ne vada. Ha ancora in programma di andarsene».
Ti appoggiasti al piano cottura e dicesti: «Da un lato sarebbe meglio che se ne andasse, almeno non incorrerebbe più nei pericoli del Santuario e delle nostre vite, ma dall’altro sarebbe meglio che restasse».
«Pensi anche tu che potrebbe essere un ottimo acquisto per il Santuario?»
«Veramente penso che se uscisse dalla barriera potrebbe incorrere in pericoli persino più grandi di quelli cui normalmente incorre la Nostra Dea».
«Può darsi, a meno che lei stessa non sia un pericolo per noi».
«Che vuoi dire?»
«Succedono troppe cose strane attorno a lei, ma quello che mi preoccupa è stato l’enorme Cosmo che ho sentito qualche settimana fa, quello che le rigenerò le ferite».
«Ti riferisci a quel Cosmo?» Domandò Saga, vagamente intimorito e speranzoso al tempo stesso.
«Sì, stando a Shun è stato sentito nell’ospedale di Atene dove era ricoverato Galan, il giorno dopo il servo di Aiolia è tornato al Santuario». Ma per sicurezza, Aiolia l’aveva tenuto a riposo finché non fosse stato sicuro che stesse bene.
Già, cose strane succedevano attorno a quella ragazza, troppo strane persino per te.
Qualcosa ti diceva che non fosse il caso di lasciarla andare subito. Ma, ancora una volta, ti ritrovasti a domandarti se fosse la tua volontà o una volontà superiore a volerla trattenere qui.
Non potevi percepire i Cosmi altrui, ma era come se il Santuario stesso ti stesse ancora parlando.  Ogni pietra, ogni spiffero e ogni colonna, ogni cosa parlava e cercava di convincervi a farla restare. Ma perché? 
Tanto l’indomani saresti salito alla Sesta per farti togliere le bende. L’avresti chiesto direttamente a Shun. E magari avresti rivisto Astrid. Forse saresti anche riuscito a chiederle che cosa stesse cercando di dirgli durante l’Assemblea.
Avevi ignorato il suo sguardo, ma ne avevi studiato la gestualità, non potevi sbagliarti.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Una macchia mediterranea di smeraldi ***


Una macchia mediterranea di smeraldi




Castalia
Astrid non era stata l’unica paziente a fare un salto la prima volta che aveva visto la tua maschera, ma solo la prima di una lunghissima lista. A volte la detestavi di tutto cuore. Avresti voluto mostrare il tuo volto rassicurante ai pazienti invece di spaventarli a morte. Ma ne andava del tuo onore, eri stata educata così e non sentivi il bisogno di uccidere un Saint o diventare la compagna di qualcuno. L’amore romantico non ti interessava.
Ma non avresti mai immaginato che proprio tu alla tua età ti saresti ritrovata di nuovo in missione. Con Shaina, per di più. Era successo tutto nella notte del sei di gennaio. Stavi finendo il tuo turno in astanteria. Ancora un modulo da compilare e avresti finito, ma ti eri fermata quando avevi sentito il trambusto.
Non era raro che succedesse qui, però non ci avevi ancora fatto l’abitudine, era più forte di te, soprattutto quando poi bussavano alla porta del tuo ufficio chiamandoti a gran voce. Come era successo il diciannove di dicembre dell’anno prima. Un’infermiera si era aggrappata allo stipite e aveva ansimato: «Presto, Castalia, vieni!»
Ti avevi alzato immediatamente in piedi: «Perché, cosa c’è?»
«Ci serve qualcuno che trasporti la barella!» Ti aveva risposto l’infermiera e tu eri scattata in loro aiuto. Il ragazzo che piagnucolava sopra la barella aveva tutte e due le gambe rotte e la cloth piena di crepe.
«Che cosa gli è successo?» Domandasti preoccupata mentre quel ragazzino, che non poteva avere più di Seiya la prima volta che scese in campo per Atena. Il ragazzo era il giovane Bronze Saint di Apus.
I chirurghi del Santuario lo portarono immediatamente in sala operatoria. Solo dopo che furono trascorse delle ore uscirono. Lo andasti a trovare e lo trovasti addormentato dopo l’operazione. Lo avevano sedato, ovviamente. Ma a giudicare dallo stato delle sue gambe, era lì che i dottori avevano messo le mani. Lui si svegliò di soprassalto e si spaventò vedendoti.
«Calmati, va tutto bene, sei al sicuro».
«Nobile Castalia?» Chiese riconoscendoti.
«Sì e tu sei Paradise di Apus, giusto?»
«Sì».
«Che cosa ti è successo? Chi ti ha ridotto così?»
«Non lo so, ricordo che il Gran Sacerdote mi aveva mandato in missione per trovare le ClothStone. Ne avevo individuate due a Rio de Janeiro in Brasile e sono rimasto lì finora. I Black Saint le stavano cercando. Io e la mia squadra stavamo dando la caccia a dei ribelli che si spacciano per Black Saint». Annuisti ma la verità era che non ne avevi mai sentito parlare. Non era compito tuo sapere determinate cose. Certe informazioni erano di dominio del Gran Sacerdote, del suo segretario, del Silver di Ara e del Saint cui veniva assegnata la missione. Avevi sentito parlare anche tu delle ClothStone ed eri stata d’accordo con la Dea nel distruggerle per rimettere le vostre Cloth nei Pandora-Box. Era anche un modo simbolico per distruggere la dominazione di Mars e integrare le nuove generazioni sotto al suo comando, sotto Atena. E poi non era male che le nuove generazioni si facessero la schiena trasportando questo peso.  
Ma le ClothStone avevano molte potenzialità che i nemici potevano sfruttare a loro vantaggio. Per questo il Gran Sacerdote aveva emanato l’ordine di rintracciarle, raccoglierle e riportarle al Santuario per distruggerle. Che i Lemuriani avevano sviluppato un metodo per separare la Cloth dal suo contenitore e rimetterle nel Pandora-Box originario.   
Fino ad ora non sapevi che questo ragazzo fosse stato assegnato alla missione. Ti raccontò che si era separato dal resto dei compagni per seguire una pista. Anche gli altri si erano separati e alcuni non erano rientrati. Stando ai rapporti del Santuario per via delle Creature, che erano arrivate prima dei messaggi. Paradise era l’unico sopravvissuto. Gli altri erano Haruto del Lupo e Argo del Pesce Volante.
«C’era il fuoco, faceva caldo, molto, molto caldo… Non so neanch’io come ho fatto a sopravvivere e poi c’era lei».
«Lei?»
«Quella donna, la Dama».   
«Una donna? Chi? Parla per favore». Lo spronasti ma il ragazzo era troppo stanco. Lottò contro la sonnolenza per riferirti le ultime parole per quel giorno: «La Dama degli Smeraldi, aveva una tiara e degli orecchini di smeraldi, c’era il fuoco tutto attorno, ma gli smeraldi brillavano di luce verde. Non l’ho vista in faccia».
Con il passare dei giorni, Paradise migliorò sensibilmente e, quando fu pronto, decideste di aiutarlo a spostarsi in sedia a rotelle. Ma dovevi prepararlo sia a questo sia al fatto che non avrebbe più vestito la cloth e combattuto per Atena. Non poteva fare granché un Saint sulla sedia a rotelle. Soprattutto in tempi come questi.
Avevi scelto di parlargliene tu perché eri riuscita a conquistarti la sua fiducia. E lui ti aveva raccontato tutto quello che riusciva a ricordarsi. «La mia memoria è molto confusa». Aveva iniziato e, per quel giorno avevi lasciato perdere per dargli il tempo di recuperare appieno. E ciò avvenne due giorni dopo, che lui chiese di te a una dottoressa che poi venne a cercarti. La prima cosa che ti disse quando stette un po’meglio, fu chiederti che giorno fosse. E restò molto stupito quando realizzò che eravamo già nel Duemiladiciannove. «Non è il diciotto dicembre del Duemiladiciotto?»
«No, è febbraio ormai, sei arrivato qui solo due settimane fa». Forse si era confuso e voleva dire gennaio. Il ragazzo sollevò un braccio e se lo portò alla fronte come per massaggiarsela. Chiuse gli occhi.  
«Che strano, eppure avrei giurato che fosse ancora dicembre». Fece Paradise sconvolto. Se avesse riportato una commozione cerebrale l’avresti trovato sulla sua cartella clinica, ma le analisi che avevano effettuato non avevano evidenziato niente di tutto questo. Che fosse semplicemente confuso dallo shock? No, non era possibile, altrimenti lo psicologo che gli avevano assegnato l’avrebbe rilevato. Vero che esisteva il segreto professionale tra dottore e paziente, ma questo esulava dal Cosmo e lo psicologo non sapeva controllarlo abbastanza da nascondere il suo turbamento interiore a livello spirituale.
Anche il Cosmo di Paradise evidenziava quest’anomalia di cui parlava. Era come se qualcuno gli avesse sottratto la memoria cosmica, oppure, come se effettivamente stesse dicendo la verità. Ma non la verità di cui si convincono i pazzi. I suoi occhi erano sani e limpidi, più di quelli di Astrid.
«Non ti preoccupare», l’avevi rassicurato, «raccontami tutto quello che ti viene in mente». Gli avevi detto rassicurante e con voce sorridente. Lui ti aveva guardato negli inespressivi occhi della maschera e ti aveva raccontato tutto.  
Lui era addestrato a non lasciarsi sopraffare. Si vedeva che stava combattendo e che era convinto di ciò che diceva e ricordava. Avresti avuto bisogno di un lettore di menti per avere l’opportunità di verificare che tutto quello che diceva corrispondesse a verità. E c’era qualcuno che potesse fare una cosa simile senza tuttavia essere invasivo.
«Shun». Il medico alzò la testa dai documenti che stava sfogliando e ti invitò a entrare. Ti accomodasti sulla poltrona davanti alla sua scrivania: «Sì, Castalia?»
«Avrei bisogno di un favore».
«Dimmi tutto». Meno male che era disponibile. Ti sorprendesti del sollievo con cui accolse l’incipit. Fino a quel momento non ti eri mai considerata una persona impaziente. Avevi avuto anche tu i tuoi momenti di impazienza, ma di solito riuscivi a controllarti molto bene. Stavolta però era diverso. L’urgenza e il timore che ti muovevano avevano radici più profonde. Gli sottoponesti la tua richiesta e il giovane Gold Saint di Virgo si rabbuiò. «Sei sicura di quello che mi stai chiedendo?» Era stato lui a operare Paradise e sapevi che ci era rimasto male nel fallire l’operazione di trapianto di tendini e che stava cercando di non crogiolarsi nella sua rassegnazione. Sapeva perfettamente che non tutte le operazioni vanno a buon fine e che alcuni pazienti ci muoiono sul tavolo operatorio.
«Non so se sia fattibile».
«Shun, qui non c’è niente che ti possa bloccare, quello che ti sto chiedendo va oltre il rapporto paziente dottore. Potrebbe essere l’unico modo per scoprire che cosa gli sia successo davvero».
Il fratello di Seiya sospirò: «E sia, guarderò nei mondi».
Si mise subito al lavoro. Il suo sguardo cambiò, te ne accorgesti perché, sebbene fossi davanti a lui, i suoi occhi azzurri guardavano oltre te. Il Cosmo cominciò ad agitarsi attorno a lui come fosse una nebbiolina, che si materializzò immediatamente. Tu non potevi neanche sognarti di eguagliare il suo potere. Qualsiasi cosa stesse vedendo però, capivi che lo turbava.
E a un tratto cominciò a raccontarti quello che vedeva: «Vedo Paradise, che sta facendo la ronda nel museo in Brasile. Non lo conosco, non l’avevo mai visto prima, sembra tranquillo, non ha paura del buio, si sa orientare anche grazie alla luce che filtra dalle finestre. Ora è scattato, ha percepito qualcosa al piano di sopra e corre a vedere. É un uomo», Shun si accigliò e tu stringesti le mani attorno ai braccioli della sedia, trepidante. Il cuore che ti batteva forte per la paura. Avevi il presentimento che fosse successo qualcosa di terribile quella notte: «É ferito, è inginocchio e chino su sé stesso e si agguanta il busto con le braccia, come se stesse cercando di trattenersi. Non riesco a vederlo bene, ha i capelli lunghi come i miei, ma sono scarmigliati ed è strano. È troppo grosso per essere normale. Non è una persona comune, indossa un’Armatura anche lui, con le corna e ali di drago».
«La Viverna?» Ne avevi sentito parlare anche tu ed era l’unico che conoscevi a portare un’Armatura che corrispondeva a questa descrizione.
«No, la Viverna è molto diversa da quest’uomo. Questo non sembra neanche indossare un’Armatura. Sembrava, ma ora che Paradise si avvicina capisco che non ha indosso nessuna protezione. Quelle sono corna e sono ali. Non è normale, lo sente anche Paradise. Ecco, ha girato la faccia verso Paradise: tende la mano verso di lui e gli intima di non avvicinarsi. Il suo Cosmo ha qualcosa che non va, balena attorno a lui con lampi di rosso e di nero come fiamme. Paradise pensa che sia un ladro, non crede alla sua messinscena». Ti tornarono in mente le parole del giovane Bronze. “Credevo che fosse un ladro, avevo sentito dire che alcuni vandali s’infiltravano nei musei per fare scempio dei reperti e delle opere esposte”. «Paradise gli intima di andarsene, ma l’altro sta male. Gli rigira la sua stessa minaccia, dice che non riuscirà a trattenersi ancora per molto. Paradise non capisce e gli ripete di andarsene dicendo che per una volta chiuderà un occhio e farà finta di non averlo visto. Forse pensa che così quello obbedirà o si calmerà. O mia Dea. Non ho mai sentito un Cosmo tanto potente, neanche quello di Atena è così!» Esclamò a un tratto Shun sgranando gli occhi. Il colore abbandonò la sua faccia. Da che avevi memoria non l’avevi mai visto impallidire. «Le onde d’energia che smuove fanno scattare l’allarme e sventolano le tende. Ogni cosa prende fuoco! Paradise non arretra, resta invece a fissare sgomento l’uomo trasformarsi in un grosso drago dalle squame rosse e le corna nere! Le sale sono abbastanza grandi per contenerlo. Il Drago ruggisce e Paradise attacca ma il Drago lo respinge con una zampata. Le sue squame stanno scurendosi, non è un effetto della luce delle fiamme, sta veramente diventando nero e le corna stanno diventando rosse. Paradise si rialza, si deterge una goccia di sangue che gli cola dal mento e si lancia di nuovo all’attacco. Ha intenzione di respingerlo fino all’ultimo. Il Drago scuote la testa, che ha? Sembra che non stia bene. Non capisco, nemmeno Paradise capisce ma non gli importa o forse neanche ci fa caso. Pensa che sia più giusto usargli la misericordia dei moribondi. Sta per colpirlo quando improvvisamente qualcosa lo afferra e lo blocca a mezz’aria. C’è un altro Cosmo e questo è di poco più potente del suo». “La Dama degli Smeraldi?” Ti chiedesti, temendo di averci azzeccato. Non avevano paura di attirare le Creature? Da quel che avevi capito, tra voi Saint girava voce che fosse anche a causa loro che il museo era stato ridotto in cenere e Rio, poi era stata evacuata dopo essere stata rasa al suolo come altre città del mondo. «Fermati se non vuoi finire male, lo minaccia. Non so come sia possibile, ma la sua voce risuona forte e chiara anche qui, mentre tutti gli altri suoni sono attutiti, persino il crepitio delle fiamme non si sente. Perché non si attiva l’allarme antincendio?» Si chiese Shun angosciato, dopo aver contratto la faccia in una smorfia di dolore. Tu, che avevi visto la notizia online a suo tempo, lo sapevi: era guasto e non l’avevano ancora riparato. «Paradise ribatte che deve lasciarlo andare, che non può permettere che quella creatura distrugga tutto. Ma la nuova arrivata s’impunta. Da dove è, Paradise può vedere i Black Saint e i ribelli che corrono accanto a lei. Sembrano uscirle dai fianchi. Si erano fermati e ora stanno scappando nella direzione opposta. La chiamano, ma non capisco il nome. Paradise brucia il suo Cosmo e si libera dalla sua presa. Non fa in tempo a fare niente che lei ricompare davanti a lui e gli sbarra la strada tra lui e il drago rosso. Paradise le grida di allontanarsi. Anche se è una nemica non vuole ucciderla né vederla uccisa. Ma lei si avvicina al Drago e tende una mano verso il suo muso che l’animale china continuando a ringhiare e sbuffare fumo dalle narici. Riprendiamo il nostro discorso, gli dice e Paradise vede delle catene d’oro comparire sulle braccia e le gambe di lei, che si legano agli arti dell’animale! Non sono come le mie sembrano più delle catenine come di ciondoli! Non sente quello che dice, ma l’animale sì. Non ne sono sicuro, ma sembra che abbia sgranato gli occhi come fosse stupito. Qualsiasi cosa abbia detto, le sue squame tornano rosse e le sue corna nere. Lei resta appoggiata al suo muso ancora per un po’, poi le catene di energia scompaiono e Paradise richiama la sua attenzione; le dice di scostarsi che non è lei il suo bersaglio. Lei lo guarda da sopra una spalla ma non si muove. Il Palazzo sta bruciando e crolla a pezzi». Shun tacque, guardando angosciato la scena.
«Che succede?»
«Lei si stacca dal Drago che resta a guardare poi avanza verso Paradise: Ti avevo detto di fermarti, adesso finirai male. Lo avverte minacciosa. Lui ribatte che lei non è nessuno per dirgli cosa fare, che si deve allontanare e che la ringrazia per l’aiuto che gli ha dato, ma ora deve finire l’intruso. Lei si oppone e combattono. Paradise…» deglutì a vuoto, «scopre subito che lei non è una persona normale. Non la vede mai in faccia, vede le sue gemme. Sa combattere, è più svelta di lui, il fumo e le fiamme e il calore dell’incendio non la tangono neanche. L’unica cosa che lui riesce a mettere a fuoco con precisione, soprattutto quando lei da le spalle alle fiamme, sono la tiara con lo smeraldo e i suoi orecchini dello stesso prezioso materiale. Improvvisamente si abbassa e afferra a una a una le gambe di Paradise e…» Anche se non potevi vedere, l’urlo di dolore straziante del ragazzo lo potevi immaginare. Rabbrividisti anche tu «Gli ha lasciato credere di essere in vantaggio, ma era lei a esserlo davvero. Lei si china su di lui che crolla a terra e gli chiude gli occhi con la mano. Quando Paradise viene soccorso dai pompieri, i ribelli, il drago e la donna non ci sono più». Shun smise di scrutare tra i mondi e ti guardò. Tu ricambiasti lo sguardo parimenti angosciato.

«Paradise era stato assegnato a una missione: recuperare le ClothStone che sono andate perdute durante la Guerra Sacra contro il Dio Apus». Spiegò Shun quando vi prendeste un caffè alle macchinette, la mattina dopo. Ti aveva promesso che avrebbe indagato in proposito. «Il Patriarca deve aver pensato di mandare qualcuno che avesse avuto a che fare più di noi con queste Cloth, piuttosto che scomodare qualcuno che non le ha mai viste. Visto che i Bronze Saint si sono dimostrati parecchio abili, ha pensato di affidare a loro questo compito. Il punto è che da quando aveva scoperto che alcune ClothStone erano finite in musei sparsi in tutto il mondo, lui e i suoi compagni si sono divisi per recuperarle più in fretta».
«Sai anche dove erano?»
«Non tutti, so che una si trovava i Brasile e una per esempio è in Uzbekistan, ma di più non so dirti, perché improvvisamente hanno cominciato a scomparire».
«Scomparire?»
Shun scosse il capo e poi bevve un sorso. «Qualcuno le rubava».
«Le rubava? Chi?»
«Una setta di ribelli di tutti i Santuari esistenti: so che ci sono Black Saints, Marines,  aspiranti guerrieri divini e altri che non sono riuscito a riconoscere. Era contro di loro che i nostri Bronze stavano combattendo con fatica anche collaborando con i guerrieri di altre Divinità». Spiegò.
Non ne sapevi niente, ma era giusto così. A parte cose eclatanti come il dubbio sull’usurpazione di Arles al Santuario si tendeva a tenere per sé i propri incarichi. Se ne parlava tra colleghi, ma non tra colleghi appartenenti a caste diverse. Era una tacita usanza del Grande Tempio.  
«Sei riuscito a vederla in faccia questa Dama degli Smeraldi?» Domandasti a tua volta prima di bere. Avevate deciso di tenere il soprannome di Paradise.
«No, non sono riuscito a trovarla neanche guardando attraverso i mondi». Che era una prerogativa del Gold Saint di Virgo. Questo buco nell’acqua era ancora più angosciante di quanto immaginassi. Lo manifestava appena, ma si vedeva che questa storia non gli piaceva. «In nessuna dimensione, è come se non esistesse neanche. Né lei né il suo Cosmo. Non era mai successo prima. Ho anche guardato più volte la scena al Museo di Rio, ma è l’unica volta dove ho sentito il suo Cosmo».
«Che cosa ne pensi?»
«Non lo so. So che le nostre spie sono riusciti a reperire la gerarchia di questa setta. Se lei è abbastanza potente da mettere KO Paradise, allora è sicuramente uno dei pezzi grossi della Setta, forse il loro alfiere».
«Un alfiere?»
«Stando ai rapporti sembra che una donna in particolare si sia distinta durante le varie imboscate e abbia dato parecchio filo da torcere ai nostri compagni. Nessuno è mai riuscita a catturarla o ferirla e ha sconfitto facilmente tutti i suoi avversari. In compenso siamo sempre riusciti a catturare qualcuno e farci dire il resto. Lo so perché ero stato assegnato io a capo di questa missione». Ah, quindi il fatto che tu ti fossi rivolta proprio a lui era un caso bello e buono. Almeno avevi il quadro completo della situazione.
«Cosa vuoi fare, Castalia? Ti ho detto tutto questo perché so che hai in mente qualcosa e mi fido di te, però te l’ho detto anche per metterti in guardia».
«Penso che tu l’abbia già capito». Rispondesti alzandoti. Buttasti la tazzina vuota nel cestino.
Il Gold Saint di Virgo non ti fermò né ti disse niente.
Uscisti dall’Astanteria e ti recasti al Santuario. Salisti la scalinata mentre tutti lavoravano attorno a te. Arrivasti alla Sesta Casa, dove, poco prima del portone d’ingresso, le Guardie ti sbarrarono la strada incrociando le lance. «Chiedo udienza al Gran Sacerdote». Annunciasti.  
Le lance si ritrassero e tu potesti fare il tuo ingresso. Il Patriarca ti ricevette subito: «Castalia dell’Aquila, desiderate riferirmi qualcosa?»
T’inginocchiasti al suo cospetto e gli esponesti la tua richiesta con il cuore che ti batteva forte tra le costole. «Grande Sacerdote, desidero ereditare il compito di Paradise di Apus».            

Shura
Avevi parlato con Shun a proposito della sicurezza dei suoi pazienti quella sera che eravate usciti insieme ad Atene. Avevi pensato, che potesse essere una buona idea farlo uscire un po’. Ti sembrava più angosciato del solito.
Guardandolo adesso che si stava rilassando, ti eri convinto che avevi fatto bene. In realtà avevi esteso l’invito anche a Hyoga ma lui non aveva voluto venire. Disse che doveva aiutare Natasha con i compiti e che voleva passare un po’di tempo con lei. Tra lui e Shun era stato forse più impegnato di lui. Era lontano quando la Dea Eris aveva attaccato. Se Natasha era ancora viva lo doveva proprio a Shun. Aveva avuto così paura di perderla che da allora passava sempre molto più tempo con lei.
Era stato difficile convincerlo. Avevi capito di avercela fatta quando aveva sospirato stancamente e ti aveva rimproverato dicendo che era impegnato. Allora tu avevi messo le mani avanti dicendogli che avresti chiesto a Kiki, al Grande Mur e ad Aiolia di fare un salto a controllare. Solo allora aveva accettato e i tre avevano acconsentito, quando glielo avevi chiesto.
Apprezzavi molto la compagnia del fratellastro di Hyoga, era un buon ascoltatore e la sua gentilezza ti invogliava a confidarti. Ispirava una calma naturale.
Era stato a lui che avevi confidato i tuoi dubbi e i tuoi timori, ed era sempre stato a lui a sapere che volevi crearti un kokeshi, ossia, un registro famigliare in Giappone. Anche se quest’idea ti ronzava in testa da un po’da quando lui, Hyoga e Natasha erano diventati una famiglia e poi si era aggiunto anche Camus.   
Come al solito gli avevi dato appuntamento nella Plaka per le sette e mezzo. Non gli avevi detto perché. Per questo quando ti raggiunse restò di stucco nello scoprire le tue reali intenzioni. Ossia svagarvi un po’, come quando eravate a Tokyo. Ora che avevi visitato il Giappone avevi voglia di vedere Atene. In questi anni e anche in passato non l’avevi mai girata seriamente. 
«Scusa, ma per cosa pensavi che ti avessi chiamato?» Gli chiedesti inarcando un sopracciglio.
«Ah, non lo so, pensavo, niente lascia stare».
«D’accordo. Andiamo?»
«Sì». 
La Plaka è uno dei quartieri più antichi e caratteristici di Atene. Quel posto ti piaceva per la sua alta concentrazione di taverne, ristoranti e gli animati caffè, oltre che per gli innumerevoli negozietti di souvenir.
Il corso principale è Odos Adrianou che si snoda proprio nel cuore del quartiere ed è diventato il più caratteristico centro del cuore di Atene ad alta intensità turistica. In pratica, i turisti si ammassavano lì per la movida. Anche se la movida era più estiva che invernale, a te non dispiaceva. Se sai dove cercare, le persone le trovi e poi Atene era pur sempre la capitale della Grecia.
Inoltre è apprezzata anche perché si possono scoprire squarci di Atene antica (che tu conoscevi anche troppo bene) e moderna, comunque lontani dal caos della metropoli.
Adesso non vedevi l’ora di vedere e vivere tutto questo.
 Se tu avessi fatto questo scherzo a Yoshino ti avrebbe sbranato.
Il secondo padre di Natasha ti aveva seguito un po’ preoccupato, poi, però si era rilassato soprattutto da quando aveva cominciato a bere gli aperol spritz e mangiare gli stuzzichini.
Avevate attirato numerosi sguardi da parte della clientela, come sempre tutte le volte che uscivate, però non ci avevate fatto caso più di tanto. In parte perché a te non interessava e Shun aveva un qualcosa con June di Chamaleon, che serviva presso Villa Thule come maggiordomo. Chiamavi “un qualcosa” il loro legame perché non capivi bene se fosse amicizia, stima, rispetto reciproco o qualcosa di più. Almeno era questo ciò che traspariva quando te ne parlava, anche se non era esattamente il genio delle relazioni sentimentali della compagnia. Perciò ci stava benissimo che non si fosse accorto dei sentimenti della Bronze Saint nei suoi confronti. Ma neanche tu, del resto; il massimo che facevi tu buttare lì qualche battuta piccante ogni tanto. L’erede di Shaka non arrivava neanche a quello.
Peggio di lui c’era solo Shiryu, che, avevi sentito, non era cieco solo fisicamente.
«Va meglio?» Gli chiedesti dopo un po’quando finalmente lo vedesti rilassare le spalle. Avevate passato la serata a chiacchierare del più e del meno.
«Sì, grazie. Scusami per prima è che sono molto stressato. Non riesco a perdonarmi il fatto che Ionia sia riuscito a… Non voglio neanche pensarci». Fece, disgustato chiudendo gli occhi. 
Cercasti di rassicurarlo: «Non è colpa tua».
Paradossalmente voi Saint sopportavate fatiche disumane e soccombevate a quelle più umane. La vostra carne aveva dei veri e propri tracolli se non si usufruiva spesso del Cosmo. A volte era talmente stanco da crollare addormentato alla sua stessa scrivania, quasi istantaneamente. Scherzando amaramente, aveva detto che ormai cominciava a trovarla più comoda del suo stesso letto.
Più volte si era sentito un imbecille, dopotutto i pazienti erano pur sempre sotto la sua responsabilità. E, a niente erano servite le tue consolazioni. Non eri bravissimo con i conforti ma almeno ci avevi provato. Per questo ti offristi di aiutarlo, prendendo domicilio nella sua Casa per un po’, sicché la notte avresti fatto la guardia tu. Tanto non era che avessi granché da fare. A dirla tutta ti piaceva stare sveglio fino a tardi.  
Gli occhi azzurri del tuo amico si illuminarono e ti ringraziò.
«Poi sei più tornato dietro un bancone?» Ti chiese mentre consumavate l’apericena.
«No». Bevesti il tuo cocktail. Ovviamente c’erano delle cose che avevi imparato e che, prima di quel lavoro, non avresti mai immaginato. Tipo che i cocktail più aspri si bevevano prima di cena, quelli più dolci dopo cena. E, molti aneddoti sui cocktail stessi. Certo, non avresti mai immaginato che Yoshino volesse già assaggiare alla sua età gli alcolici. Lei era cresciuta in Giappone e, come avevi tristemente imparato a tue spese durante la Guerra delle Spade Sacre, i minorenni non bevono. Di provare a presentare dei documenti d’identità, però, ti era passato per la testa solo alla fine di tutta questa storia. Vabbè, ormai era tardi.
«E, ti manca?» Domandò incuriosito.
Annuisti la testa. Ormai a forza di stare qui avevi assimilato anche alcuni aspetti della cultura greca, tipo questo: «Direi proprio di no, stare dietro a un bancone può essere più snervante di una Guerra Sacra, però, se Hyoga ha bisogno, ci torno volentieri». Dopotutto eravate compagni d’arme, non si lasciava mai un compagno in difficoltà. Fortuna che adesso che avevi recuperato il tuo vero aspetto da ventiquattrenne. Adesso potevi di nuovo bere e onorare i defunti. Era l’unica ragione per cui bevevi e il tuo modo di pregare per loro.
Questa era la rassicurazione più grande. “Maestro”, pensasti osservando un momento il bicchiere prima di posarlo sul tavolo.
Poi dirottasti la mente su altri pensieri.
C’era da dire che dopo l’assoluzione di Astrid l’aria di tensione che avevate respirato fino a questo momento, si era dissipata completamente. Tuttavia non significava che il pericolo fosse passato. Ionia non era l’unico che orbitava attorno a quella ragazza. «Si sa niente del nostro intruso?» T’informasti, mentre sbocconcellavi il tramezzino nel tuo piatto.
«Ancora niente, è come se si fosse volatilizzato. Sai, in questi giorni ci ho riflettuto molto e sono giunto a una conclusione: e, se in realtà, Astrid somigliasse a noi più di quanto pensiamo?»
Lo guardasti confuso e inghiottisti: «Che vuoi dire?»
«Pensaci un attimo, il sangue freddo che ha dimostrato, la forza che ha sprigionato e i ricordi legati al Santuario che a volte ci racconta. Non ti suonano famigliari?»
Finisti di mangiare, ti pulisti la bocca e intrecciasti le mani in grembo: «Non saprei, tu cosa pensi che sia?»
«Pensavo che si trattasse di una qualche forma di reminiscenza».
«Intendi una sorta di collegamento tra questo e gli altri Sei Mondi?»
«Veramente pensavo a qualcosa di un po’più difficile». Si sporse leggermente verso di te e ti mise a parte dei suoi sospetti con voce accalorata: «e se Astrid fosse il ricettacolo di un Saint o di una Sacerdotessa-Guerriero che in passato viveva qui e che sta ricordando tutto?»
Poi si ritrasse e bevve un po’ del prosecco che si era fatto portate.
«Perché un Saint e non una Divinità?» Domandasti perplesso.
«Perché stando a quello che Death Mask mi ha riferito, i suoi non mi sembrano i ricordi di una Divinità; le Divinità sono un po’più» cercò il termine adatto «Vivaci di così». Sorridesti sarcastico poi ti ricordasti con chi stessi parlando e, ti affrettasti a porgerGli le tue scuse.
Shun abbozzò un sorriso «Non ti preoccupare, non fa niente, ormai ci siamo abituati e poi, non ti credere, si fa vedere meno spesso di quanto pensi». Bevve ciò che restava del suo cocktail, poi si pulì la bocca al tovagliolo di carta rosso e disse: «Sai, a volte credo che anche Lui sappia qualcosa di tutta questa storia che non so».
«Che intendi?»
«Sin da quando Astrid ha resuscitato i suoi Giudici Infernali, si è interessato a lei. Non so, credo che stia macchinando qualcosa».
«Pensi che voglia farle del male?» Domandasti in topo cupo.
«No, altrimenti penso l’avrebbe fatto già da tempo». Se proprio dovevate dirla tutta, era stato l’Hades della dimensione dell’Antipapa a resuscitarvi, non questo, perciò non potevate sapere quanto fidarvi completamente. «So soltanto che ha manifestato interesse nei suoi confronti, altro non saprei proprio, non è il tipo da confessarti tutti i suoi segreti». Spiegò.
Tu scuotesti il capo. Shun prese un respiro profondo e disse: «Comunque, non penso sia così, mi riferisco ad Astrid, non abbiamo mai sentito parlare di un Saint talmente potente da tener testa all’Esercito di Eris tutto da solo. Neppure Saga sarebbe mai capace di un simile miracolo».
Ci stava anche che le voci avessero gonfiato un po’gli avvenimenti. Accadeva spesso in battaglia. Non era effettivamente detto che ci fosse riuscita completamente da sola. «Hai ragione. Non ci avevo pensato. Però Aiolos riuscì a sconfiggere l’esercito di Apopi tutto da solo e, Aphrodite a distruggere l’Isola di Andromeda… oh, scusa, non volevo». Ti zittisti di fronte all’occhiata penetrante che ti lanciò. Ti eri ricordato troppo tardi che si era addestrato là e che considerava quel postaccio la sua seconda patria. Alzò le spalle, decidendo di sorvolare. In fondo i suoi compagni d’addestramento erano ancora vivi, per quanto stronzi fossero, almeno June. Ora che ci pensavi, non gli avevi mai chiesto altro degli altri allievi di Daidaros di Cepheus. Avevi sempre pensato di rispettare questo silenzio per evitare di farlo soffrire nel ripensarci.     
Dopo questa epica figuretta, un silenzio pieno di disagio cadde tra voi. Distoglieste lo sguardo l’uno dall’altro, ognuno assorto nei propri pensieri.
Ti mettesti a giocherellare con il bicchiere. Forse dovevi bere un po’ meno per ricordarti di fare meno figuracce con i tuoi interlocutori. Meno male che non ti imbarazzavi per così poco. Sicuramente, non ti saresti aspettato che Shun riprendesse il filo del discorso: «Lo so che noi Cavalieri d’Oro siamo capaci di cose straordinarie, ma quello che ha fatto Astrid, davvero noi ci saremmo riusciti? E, senza far evolvere l’Armatura?»
Forse no, forse sì, non avevi combattuto troppo con i Ghost Saint e i Dryad della Dea della Discordia, non potevi dirlo con certezza. A essere onesti, neanche Shun ci aveva mai combattuto, ma per altri motivi: all’epoca c’era ancora Arles sul trono di Grecia.
Ti girasti il bicchiere nella mano. Poi lo posasti e ti pulisti gli occhiali con il panno che tenevi in tasca. Fu proprio quel gesto a darti l’idea. Prendesti un respiro, prima di iniziare il discorso, ancora in forma semi embrionale nella tua testa. «Pensavo e, se stessimo guardando tutto dalla prospettiva sbagliata?»
Lui ti guardò e domandò: «Cioè?»
«Non sono bravo quando si tratta di investigare, però voglio fare un tentativo». Qualcosa, però, ti diceva già, che non eri né a livello di Aiolia, ma neppure a quello di Sherlock Holmes.
E, l’ultima volta che ti eri posto qualche domanda, il tuo ragionamento ti aveva portato tra le braccia di colui che portò alla luce il tuo demone interiore. Per questo eri così restio a investigare, non solo perché non avevi la più pallida idea di come cominciare, ma perché l’investigatore tra voi era Aiolia. Sempre che si potesse chiamare investigazione addentrarsi nella terra dei Titani per riprendersi la sorella e massacrare il primo Titano che capitava a tiro per dimostrarsi degno definitivamente della propria Cloth.
A ben pensarci, la prima volta che incontrasti Yoshino, tu non avevi neanche immaginato che potesse trattarsi di un’Atena incarnata. Avevi pensato che fosse solo una ragazzina che aveva avuto la sfortuna di trovarsi sulla tua strada ed era stata rapita dalla mummia di fuoco. 
Aiolia in seguito allo scontro con Alice, ti aveva confessato che lì per lì aveva pensato che fosse un oracolo di Atena anche lei. A te, invece, non importava più di tanto conoscere la vera identità dei tuoi protetti o dei motivi per cui venivano aggrediti.
E, a quanto sembrava, Aiolia era l’unico che ogni tanto si poneva due domande, quando accadevano dei misteri. Ma una domanda in particolare non la smetteva di pungolarti il cervello: «Perché tu non hai sentito quel Cosmo?»
«Eh?» Fece Shun, guardandoti.
«Posso capire io, che non riesco più a percepirli da tempo, ma tu? Perché tu e gli altri non avete percepito prima quel Cosmo? E, neppure quello di Ionia?»
«Sinceramente non so. All’inizio pensavo che fosse perché dormissi. In effetti ultimamente dormiamo tutti molto bene e, molte altre persone stanno usufruendo dei benefici di questo tipo di sonno ristoratore. Forse Hades ha deciso a mia insaputa di permettere a Hypnos di curarci. Lo sai che il Santuario ha ancora degli sbalzi da quattro anni fa. Il potere non è ancora stato ristabilito e ci sono ancora portali su altre dimensioni che interferiscono con la corretta percezione dei Cosmi e...»
Serrasti le labbra pensieroso, dopodiché ti portasti entrambi i dorsi delle mani sotto al mento: «No, non penso che questo abbia a che fare con il portale fuori dell’atmosfera». Portale che, appena finita quella storia, si richiuse da solo. Per te le cause erano molto più vicine, ma non avevano a che fare con un’altra Divinità, bensì ma con una persona. Una persona dagli occhi gialli, capace di alterare la percezione dei Cosmi con delle barriere: «Paracelsius». Dichiarasti e guardasti Shun negli occhi. Il quale ti guardò di rimando, sorpreso. «Chi?»
«É un ex Gladiatore che incontrai tre anni fa e che visitò me e Natasha, sono sicuro che ci sia il suo zampino dietro tutto questo». Un lampo di riconoscimento passò negli occhi del tuo interlocutore.  «Ma Paracelsius collabora con il Santuario per via del giuramento di Ippocrate». Obiettò.
«Esatto».
Stavi per dire qualcos’altro quando foste interrotti da una voce famigliare: «Scusate, qualcuno ha visto Neera?»
Shun salutò il vostro collega dell’altra dimensione, tu neanche ti girasti a guardarlo. Invece, ti limitasti a domandargli: «É scomparsa di nuovo, Lancelot?»
Il Cavaliere del Cancro fece il giro del tavolino e si accomodò al vostro tavolo, chiedendo permesso con un cenno. Fortuna che a te la sua presenza non diceva quasi niente.
«Purtroppo. Quella maledetta sta diventando brava a nascondersi». Prese uno stuzzicadenti dalla saliera e cominciò a giocherellarci.
«E tu pensi di trovarla qui ad Atene?» Domandasti inarcando un sopracciglio. L’altro quasi si afflosciò sulla sedia e ti parve imbarazzato mentre rispondeva, smettendo per un attimo di giocherellare: «In effetti no, ma se fossi rimasto a Rodorio un altro po’ sarei uscito dai gangheri».
«Hai provato a vedere nelle Dodici Case? Ultimamente passa un sacco di tempo appiccicata a Milo e Aiolia».
«E a Death Mask». Aggiunse Lancelot. Secondo te era in preda a violente tempeste ormonali, al punto che ci provava con i più affabili della compagnia. Anche se non sapevi neppure tu quanto potesse esserlo Death Mask. Considerando che la giovane aspirante Sacerdotessa, ti avevano detto, anche sbavava dietro a lui da quando gli aveva fatto da supplente.
Riprendesti il bicchiere e giocasti a riscaldare il liquido con la mano.   
Invidia, Shura? “Macché” mi rispondesti “è che non voglio grane e non sono interessato”. In effetti il gioco a cui stava giocando era piuttosto pericoloso: rischiava di compromettere i Gold.
«Già fatto, ma nessuno sa niente. Ho anche chiesto alle guardie; stesso risultato».
«Hai provato a chiedere a Death Mask? Per quel che ne sappiamo potrebbe averla spedita in gita nello Yomotsu Hirasaka». Ipotizzasti. 
«Death Mask non è così esaurito». “Non l’hai conosciuto ai suoi tempi d’oro”, pensasti sarcastico roteando gli occhi e nascondendoti dietro il tuo bicchiere, bevendo. Decidesti di tenerti tutto ciò per te.
Fatto sta che questo assenteismo era disdicevole. Se adesso marinava le lezioni cosa avrebbe fatto durante una Guerra vera e propria? Avevi sentito dire che si era particolarmente distinta, ma non era indice di affidabilità.
Non sapesti dire se ti fece più strano difendere Death Mask o tutta la faccenda in sé.
«Non riesci neanche a rintracciarla tramite il Cosmo?» Chiese invece Shun.
«Magari».
«Potrebbe essersi rifugiata alla Palaestra, ho sentito dire che in questo periodo c’era un festino». Suggeristi ricordandoti di aver sentito alcuni ragazzini parlarne, mentre passavi da Rodorio quella mattina.
Non ti sentivi di biasimarli, era giusto che si divertissero dopo tanti orrori. Anche tu al loro posto l’avresti fatto.  
Gli occhi rossi di Lancelot si illuminarono: «Davvero? Grazie mille, mio re. Ah, Ionia poi non ci ha più riprovato, sembra che la vostra minaccia abbia sortito l’effetto desiderato».
«Ci credo che non ci prova più, ormai ho quasi preso domicilio alla Sesta. E penso di restarci ancora un po’ considerando che le radici hanno fatto saltare l’impianto idraulico, che metà della mia Casa è crollata e l’altra metà è ancora pericolante. Non ti dispiace, Shun?» Chiedesti poi.
L’altro annuì.
Non sapevi se riderci o se piangerci. Nel dubbio optasti per  proferire tutto ciò nel tono cupo che, poi, si rifletté anche nel tuo umore. Eri un tipo molto paziente, ma sperasti che la situazione si risolvesse presto: la Sesta Casa la preferivi quando profumava di fiori di loto e incenso, invece che di disinfettante e ospedale.
«Accidenti e noi che stiamo giù alla Quarta abbiamo dovuto direttamente traslocare a Rodorio in una delle casette ancora in piedi per l’inagibilità. Già, il Quarto Tempio è ridotto allo stato di rovine e i lavori sono pure a rilento. Ho sentito che, vicino alla Seconda è franato un pezzo di montagna, è vero?»
«Sì». Per muovervi ormai usavate i sentieri dei servi anche voi. Alcuni di voi aveva qualche problema a usare quelle strettoie che si inerpicavano su per la montagna, ma non c’era altra scelta.
Tu ti eri perso almeno una decina di volte. Non brillavi molto per orientamento se dovevi visitare posti nuovi o prendere nuove strade.
Se non fosse stato per i domestici e gli operai che ti avevano aiutato, saresti ancora sul monte.
Sicuramente, solo per quei sentieri e la gentilezza dimostratavi dai servitori, si erano guadagnati la tua ammirazione. Adesso comprendevi davvero quanto fosse difficile il loro lavoro.   
«Pensate che ce la faremo a rimettere il Santuario a nuovo prima dell’arrivo degli ambasciatori di Poseidone?» Domandasti, tanto per cambiare discorso.
«Se non ci saranno altri imprevisti e se la Dea vorrà, sì».   
Lancelot si alzò. «Speriamo che allora sia clemente. Ora vado, ho percepito il Cosmo di Neera nei pressi dell’Ottava Casa. Se la prendo le faccio vedere i sorci verdi. Voglio dire, mi sto spaccando la schiena per farle conquistare l’Armatura a cui punta e mi dà buca così? Oh, ora mi sono davvero stufato». Dichiarò crocchiando minacciosamente le nocche. La sua faccia determinata la diceva lunga sullo stress che stava accumulando a causa di quella scansafatiche. Poveretto, non lo compativi affatto.
Se non ricordavi male le selezioni per la prossima Cloth sarebbero cominciate tra poco.
Non avevate alcun diritto di chiedergli delucidazioni sul suo metodo d’insegnamento. La verità era che i maestri non potevano permettersi troppa delicatezza. Formavano guerrieri capaci di spaccare le vette, pretendere troppo era d’obbligo. Forse Lancelot era troppo buono e lei se ne approfittava. Dopotutto ti ricordavi che fosse un po’svogliato.
In ogni caso aveva tutta l’aria di chi cominciava a pentirsi di aver scelto questo percorso. Ti fece quasi pena, anche se non lo esternasti affatto.
«Buona serata».
«Vacci piano, oppure non riuscirà mai a conquistare l’Armatura dell’Indiano». Ti raccomandasti.
«Non garantisco niente, mio re». Disse minaccioso, gonfiando pericolosamente il suo Cosmo, mentre usciva a grandi passi dal caffè.
Se Neera trovava sfiancanti gli allenamenti per diventare Silver avrebbe dovuto provare quelli per diventare Gold. In confronto eri quasi sicuro che i suoi fossero una passeggiata.
 
Aldebaran

Il buio s’increspò davanti a te. Comprendesti di guardare dell’acqua scura arricciata da alcune rare gocce pioventi da sopra la tua testa. Alzasti la testa e scopristi di esserti incantato a guardare l’acqua di un pozzo. Davanti a te c’era Astrid con i gomiti appoggiati alla pietra, le mani a sostenere il viso, che ti guardava con un’espressione infantile.
Poi la scena cambiò e ti ritrovasti nuovamente circondato dall’oscurità. Improvvisamente l’oscurità fu squarciata da un lampo di immagini e vedesti i tre Giudici Infernali. Poi l’immagine scomparve sostituita dalle Creature. Vedesti quattro lampi di luce colorata: bianco, rosso, uno nero-viola, blu e poi qualcosa di violetto. Infine una figura sfocata avvolta in vesti non troppo diverse dai paramenti sacerdotali. Ma non era il Gran Sacerdote, era come le Creature, solo che il manto fluttuante era blu e le mani erano normali e femminili. In ogni caso il viso di costei non si scorgeva, eppure eri certo che ti stesse guardando. Essa alzò il dito verso di te e t’indicò. Poi i lampi di prima di ripresentarono a intermittenza e lei disse: «Diglielo».
Tu non capisti un accidente.
Di nuovo quei cinque colori e di nuovo quella voce: «Diglielo». Stavi per aprire bocca e chiedere spiegazioni quando… «Sveglia, dormiglione!» Ti strillò la voce allegra di Yoshino nelle orecchie, spezzando così il sogno. Strizzasti gli occhi ancora chiusi, ti schiacciasti il cuscino sulla faccia e mugolasti qualcosa di inintelligibile. Purtroppo per te fosti strappato al tuo dolce sonno dal cinguettio degli uccellini fuori della finestra e dal rumore della sveglia del telefono, che prese a suonare adesso.
«Ancora cinque minuti». La sera prima non avevi dormito moltissimo, dato che eri stato tenuto impegnato da Shaina. A proposito, dov’era tua moglie, adesso? Non la sentivi accanto a te. Yoshino indovinò i tuoi pensieri perché disse: «Mamma si è già alzata da un pezzo».
«Oh, ok, mi alzo anch’io». Poi sbadigliasti. «Ma tu non avevi scuola?» Le domandasti pungolato da un dubbio.
«Oggi no, papà. È domenica».
«Allora non dovresti studiare?» Ti seccava trattarla così, ma avevi ancora voglia di riposare. Alzarsi significava andare a ricostruire e non ne avevi tantissima voglia.
«No, oggi riposo e, poi, sono migliorata moltissimo, ormai». Già, ma ancora adesso chiedeva aiuto a Shaina per le materie come biologia, anche se non erano importantissime per il liceo che aveva scelto. Tua moglie, essendo un’ex maestra doveva saperne qualcosa e, infatti era così; le aveva anche consigliato di recarsi alla biblioteca dell’Undicesima, perché l’ex custode aveva una vera e propria libreria di testi scientifici. Testi che studiava assieme ad Astrid, che glieli faceva approfondire, spiegandoglieli come se si trovassero all’università. Alla fine Astrid si era rivelata davvero un’ex studentessa universitaria. Infatti, grazie a lei Yoshino era stata capace di comprendere anche qualche rudimento di fisica, impresa non facile.
Yoshino si stava abituando al liceo artistico in Grecia, si era già fatta dei nuovi amici. Peccato che al momento faticasse ancora moltissimo per creare anche solo una semplice tazza di terracotta. Ancora ricordavi bene di quella volta che ti aveva raccontato mogia di come Death Mask fosse stato più bravo di lei, modellando addirittura una brocca con tanto di manico in pochi secondi. Fino a quel giorno non sapevi che il burbero custode della Quarta fosse anche un artista. Pensandoci bene però forse non era così scontato come sembrava, era perfettamente in linea con il personaggio. Qui al Santuario non era neanche l’unico, dopotutto era risaputo che Seiya suonasse la chitarra. Bè, nel suo caso era un parolone, diciamo che faceva del suo meglio. Appena ci pensasti ti sovvenne di avere un vago ricordo della festa alla Nona di qualche mese prima. Nel ricordo sbiadito, c’era uno sfatto Seiya seduto sul tavolo che suonava una chitarra al contrario e cantava a squarciagola alternando un singhiozzo, un rutto, un sorso di birra a una stecca. Come fosse riuscito a far produrre un suono a quel povero strumento musicale era ancora un mistero. “Forse suonava con la pancia”. Tu ricordavi soltanto di essere stato riportato a casa a braccio da Shaina e da Kiki, che era barcollato più in là, fino alla Prima. Invece, tutti gli altri erano rimasti alla Nona e, che era stata la mattina dopo il vero problema. Se aveste avuto un po’di forza in più avreste festeggiato anche la vittoria contro Eris.
«Va bene ah, mamma mi ha detto di dirti che tra poco saliamo da Shun per il gesso».
Ah, già, era il giorno in cui gliel’avrebbero tolto.
«D’accordo, ci si vede dopo». 
Ti togliesti il cuscino dalla faccia e restasti a fissare il soffitto crepato della tua dimora a lungo prima di decidere di alzarti, lavarti, infilarti qualcosa e andare a fare colazione.
Yoshino era uscita subito e, tu facesti colazione da solo. Questa solitudine in un certo senso questo ti riportò al passato, alla tua giovinezza e, costatasti, di non essere più abituato a sopportare il silenzio di queste mura muffite e polverose. Quel tempio aveva visto veramente dei giorni migliori. Anche se avevi idea che sarebbe durato ancora per poco. Presto, infatti, sarebbero passati gli operai diretti alla Tredicesima, per ricostruirla. Per fortuna era l’unico Tempio a essere interamente crollato, anche se i vostri avevano subito parecchi danni. La Dodicesima e l’Undicesima erano state dichiarate inagibili, mentre la Decima era pericolante. Anche un’ala della Seconda era crollata a causa del terremoto e delle radici. Peccato solo che non tutte fossero state bruciate, quelle nel sottosuolo e poche altre si erano salvate. Le dovevate estirpare e purificare completamente onde evitare la nascita di un altro Albero del Conflitto.
Ti alzasti e ti trascinasti in bagno soltanto per ricordarti che l’impianto idraulico non funzionava e che dovevi lavarti con il vecchio sistema, ovvero la tinozza. Arrancasti in cucina, ti riempisti un bicchiere d’acqua e, poi, ti recasti al pozzo ove cominciasti a riempire il primo della lunga serie di secchi. Dopo sette viaggi potesti finalmente lavarti.
Stavi cominciando a pensare che forse avresti dovuto accettare la proposta di Shaina di trasferirti nella sua vecchia casetta di Silver Saint, ma non te l’eri sentita di abbandonare queste mura. I tuoi piedi non erano riusciti a scollarsi da quel pavimento che conoscevi così bene. Avevate litigato, ma alla fine lei si era arresa e vi eravate riconciliati.
Poi ti ricordasti che quel giorno avresti dovuto lavorare e quindi, con un sospiro, scartasti l’idea del bagno.
Quando fosti pronto raggiungesti gli altri al lavoro. Ti eri fatto indicare il posto dove c’era più bisogno di te e ti avevano indicato la Prima Casa, che c’era bisogno di qualcuno che andasse ad aiutare a raddrizzare le colonne e riparare il tetto.
«Buongiorno». Salutasti sorridente i tuoi amici che davano una mano agli operai.
«Buongiorno, Aldebaran». Ti salutò Mur fermandosi un momento. Sia lui sia Aiolia erano già madidi di sudore.
«Aldebaran». Ti salutò quest’ultimo con un sorriso, tergendosi la fronte col dorso della mano. L’altra appoggiata alla colonna. Per fortuna che eravate tutti dotati di forza sovrumana, altrimenti sarebbe stato un lavoraccio. Anche tu avevi qualche muro di casa da rattoppare, ora che ci pensavi. Ma avevi visto gli operai che stavano già provvedendo sotto le direttive di un Saint che conoscevi di vista.
Delle corde oscillarono vicino alla testa dei due Saint. E, tu comprendesti come avevano fatto per rialzarle, oltre che affidandosi alle capacità telecinetiche dei due Cavalieri dell’Ariete. In teoria tutti voi eravate capaci di sfruttarle e vi sarebbe bastato fare leva sui vostri Cosmo per rimetterle in sesto. Ma con la minaccia delle Creature sembrava solo uno spreco.
E, poi i migliori in tal senso, erano proprio Kiki e Mur. Death Mask non era al loro livello.
Il quale sudava un po’ ma ti sorrise lo stesso. Chissà quanto aveva esercitato quella capacità soltanto in quelle poche ore. «Era ora che arrivassi, questa colonna pesa tantissimo, e, ne abbiamo altre da sistemare, va a sentire Galan, lui saprà dirti meglio di me quello che c’è da fare». Anche perché era risaputo che il fratello minore di Aiolos non fosse proprio Renzo Piano. Fortuna che c’erano parecchie persone intelligenti a Rodorio, che erano state chiamate per ricostruire il Grande Tempio.
«Tutto bene? Ti vedo un po’smarrito». Ti chiese il Maestro di Kiki. Anche se sapevi benissimo che non era il Mur di questa dimensione, quello era sempre il tuo amico. E, il lemuriano dai capelli lillà, pareva essere dello stesso parere, dal momento che non ti aveva mai dissuaso dal pensarlo.
«No, solo un sogno strano».
«Vuoi parlarne?» S’offrì Mur.
«Magari più tardi, Mur, adesso abbiamo tutti da fare». Declinò Aiolia perentorio, riportandolo presto sulla retta via. Si era accorto di come Mur stesse cercando di trovare la scusa perfetta per non lavorare e lo aveva riacciuffato in tempo. Il maestro di Kiki non si scompose, anche se era chiaro che gli dispiacesse: «Non preoccuparti, Mur, magari a pranzo ne parleremo con calma, adesso vado da Galan, sapete dirmi dov’è?»
«Dovrebbe essere alla base delle scalinate con i progetti e tutto il resto». Aveva ribattuto Aiolia.
«Grazie, vado subito. Ma che hai?» Domandasti notando la sua espressione vagamente furente. Non che ne avesse una molto diversa, normalmente.
«Stamani l’Artropode mi ha consigliato di tenermi lontano dall’impianto elettrico in riparazione, ma dico io, si può essere più stronzi?» Era sbottato il biondo, dando così sfogo al suo risentimento e, facendo voltare qualche testa verso di lui.
Mur lo guardò come se avesse dichiarato di indossare le mutande a cuoricini sopra i pantaloni. (Non sarebbe sembrato stranissimo, visto che in Giappone aveva una felpa fucsia con le orecchie di coniglio sul cappuccio e le scarpe con le stelline sui bordi. Te lo aveva confidato Shura quando ti sfidò a chi finiva più ciotole di riso, una settimana prima del ritorno tra i Vivi di Camus. E, tu avevi pensato che non poteva essere vero).
«Suvvia Aiolia, lo sai che Milo scherza». Cercasti di rabbonirlo.
«Non me ne frega niente se scherza o è serio, quell’artropode millantatore deve starmi lontano e…» aveva iniziato, poi la sua voce, invece che salire di qualche decibel, si era spenta in un borbottio irato e se ne era tornato al lavoro scuotendo la testa.
«Non ti preoccupare, c’è già Astrid che ti vendica». Lo rassicurasti, avvicinandoti. L’altro si fermò e ti domandò: «Davvero?»
«Sai che tra loro non corre esattamente buon sangue, no? Se ho capito qualcosa dell’amica di mia figlia è che non lascerà correre così facilmente questa sua mancanza di rispetto».
«Quale mancanza di rispetto?»
«Credo che si riferisca al processo e anche prima, durante la Guerra Sacra. Da quel che ho capito, ha disobbedito ai suoi ordini e gli ha soffiato la preda, se così possiamo definire Phonos e, dulcis in fundo, ha testimoniato contro di lei lo stesso e, Milo, è l’unico di noi abbastanza imbecille da causare qualche disastro». Anche se c’era da dire che se li causava li causava con la compostezza tipica degli adulti, non dei ragazzini in preda alle tempeste ormonali. Però, sebbene non fosse più un ragazzino, come un ragazzino, si abbassava facilmente al livello altrui. Quanto ci avresti scommesso che Astrid stesse aspettando la prima mossa falsa dell’Artropode per cominciare a rendergli la vita un Inferno?
Sperasti soltanto che non iniziasse lui. 
«Astrid è veramente così vendicativa?» Domandò Aiolia, vagamente intimorito. Vi scambiaste uno sguardo che parlò da solo.
Dalla faccia pensierosa che fece il fratello minore di Aiolos pensasti che forse non era stato del tutto un male l’intervento del Santuario in favore della bionda. «Bene, allora io scendo, mi aspettano giù». Dicesti. «Ci vediamo dopo».
«A dopo».
«Ci si vede a pranzo».
        
C’era da dire che le vostre Case non erano mai state così piene di vita come in questo momento. «Acqua, ci serve altra acqua». Urlò una voce che venne quasi sovrapposta da un’altra: «Qualcuno vada a prendere delle assi». Alcuni servi sfrecciarono tra di voi per portare l’acqua o il necessario agli operai.
«Chi ha visto la cazzuola?» E, anche se avevi vissuto per anni in montagna in Giappone, ti scappò un sorriso nel ritrovarti immerso in questo formicaio brulicante di vita e formiche operaie. Che gran cambiamento! Considerando che solo fino a poche ore prima erano stati tutti in paese a festeggiare il salvataggio della piccola chiromante.
«Ehi, Nobile Aldebaran!» Ti urlò un Silver dalle scale della Seconda. Ti girasti e lo salutasti affabile mentre questi si avvicinava facendo attenzione a scansare gli operai e i vari lavoratori all’opera: «Buongiorno».
«Buongiorno». Ribatté un inchino quasi cerimoniale e parlò in tono formale. 
«Dimmi». Lo invitasti.
«Nobile Aldebaran, sono stato mandato a cercarvi perché necessitiamo il vostro aiuto per rimuovere una radice dalla Decima Casa».
«Bene, vengo subito». Ciò detto lo seguisti fino alla Decima. La giornata non era neanche cominciata che già ti avevano requisito.  

Death Mask
L’odore dell’appartamento che avevate affittato era fastidioso. Non avresti saputo dire se fosse per via del fatto che aveva riportato qualche lieve danno strutturale, come la caduta dei calcinacci o la polvere. Fatto sta che non riuscivi a dormire.
Non era per via della mancanza delle anime intrappolate nella Quarta. Per niente.
Avevi dormito in altre stanze d’albergo, prima.
Il problema era molto, molto diverso.
Era una fastidiosa, petulante ragazzina con la maschera e i capelli rossi, adesso seduta sul tuo letto:
«Cherie». Salutasti non senza nasconderle il tuo fastidio, quando uscisti dal bagno dopo la doccia. L’accappatoio indosso e allacciato in vita. A forza di vedere gli spiriti eri diventato molto geloso della tua privacy.  
Era la tua ex compagna di addestramento. Era più grande di te di soli due anni quando conquistasti l’armatura, solo che per lei l’adolescenza sembrava essere arrivata un po’ prima. Il suo corpo, infatti, dimostrava tredici anni contro i suoi undici.
Lei morì nel tentativo di conquistare la Cloth che poi andò a te. Te la ricordavi molto bene: ti infastidiva sempre perché era “innamorata” di te. Solo perché tu non ti arrendevi nonostante che fossi il meno promettente dei due.
Non l’avevi mai vista in faccia, anche se lei avrebbe tanto voluto, allora. Indossava la maschera delle Sacerdotesse-Guerrieri ed era di origine francese. «Ciao, Death Mask». Ti salutò.
Incrociasti le braccia e la fissasti ostile. «Vedo che il maestro ha deciso di ricorrere alle maniere forti».
«Credimi, neanche io sono tanto felice di vederti». Era morta proprio a causa tua, che l’avevi spintonata. Lei era inciampata in un sasso ed era caduta nella lava. Non era rimasto niente di lei. Non era neanche riuscita a bruciare in tempo il Cosmo per salvarsi. Se vogliamo vederla così, lei fu la tua prima vittima. Con quel gesto avevi dimostrato di essere riuscito a interiorizzare gli insegnamenti di DeathToll. E scoprire il potere della Cloth ti aveva inebriato a tal punto da renderti quello che eri.
E non avevi ascoltato DeathToll che molte volte aveva cercato di metterti in guardia e riportarti con i piedi per terra.
Riemergesti dai tuoi pensieri e la osservasti. Pensavi che anche dopo la morte avrebbe continuato a nutrire un’ossessione per te. Ma non era così. Ne fosti lieto. «A cosa devo l’onore?»
«Il maestro mi manda a dirti che abbiamo bisogno di te nello Yomotsu Hirasaka».
«Puoi dire cortesemente al maestro che sono un po’ impegnato e che non sono affari miei quello che succede. Al momento ho altro a cui pensare». Tipo guarire dalle tue ferite. E che diavolo, senza Cosmo ci mettevano un’eternità. Solo verso Natale eri guarito da quelle collezionate in Italia e durante la Guerra Sacra contro Artemide. Non ti sentivi così rottame dai tempi dell’addestramento.
La ragazzina balzò in piedi indignata. «Come ti permetti? È un ordine del maestro!» Sbottò, i pugni stretti. Ma tu la trovasti soltanto ridicola. Era pure la metà di te.
«E io ti ho detto che sono ancora ferito, non lo vedi!» Facesti indicando le bende che spuntavano dall’accappatoio.
«Ma fammi il piacere! Sei sopravvissuto a ben altro».
«E tu lo sai bene perché mi spiavi. Se hai finito io mi vorrei cambiare».
«No, non ho finito, ho il compito di portarti con me».
«Mi dispiace per te, ma non puoi obbligarmi. Aria, prima che ti faccia sparire io».
«Non credere che sia finita qui». Ti minacciò prima di imboccare la porta e passarci attraverso.       Ti pareva che non saltasse fuori un’altra seccatura? Evidentemente Aphrodite non era una punizione sufficiente. Mentre ti vestivi ci pensasti: chissà dove era finito? Decidesti che saresti andato a cercarlo dopo colazione.
Se la memoria non t’ingannava non era mai stato tipo da sfaticate, sudate e polvere. Per uno come lui, poi, ohibò, che orrore! Rabbrividiva come se Camus (pace all’anima sua) fosse riuscito ad abbassare la temperatura attorno a lui dall’Hades. Strano, dal momento che il tuo collega si era addestrato in Groenlandia. Anche lì, mistero della vita per far crescere le rose. Non eri un esperto, ma avevi sentito dire che fosse la Bulgaria il paese delle rose.
Avevi deciso di recarti ai cantieri perché avevi sentito dire che fosse lì. Era sicuramente lì. Non ti risultava che avesse già finito.
Il pensiero si fermò ancora un momento su Camus. A volte te lo chiedevi se vegliasse su di voi come la costellazione e l’Armatura che aveva passato in eredità all’allievo. Non ci avevi mai parlato moltissimo al di fuori dei Chrysos Synaigen, nonostante la più che encomiabile intelligenza. Ma d’altronde, tu con chi avevi mai parlato? Quando era vivo non eravate amici, anzi, eravate proprio estranei. Invece, con la papera artica eccome se ci avevi parlato. Persino tu ti eri stufato del suo atteggiamento di autocolpevolezza. Sempre a prendersi la colpa della morte di tutti sulle spalle. Meno male che eravate riusciti a salvargli la mocciosa, altrimenti chi lo sentiva più, questo!
Anche se, sotto sotto, c’era da dire che la mocciosa stava simpatica anche a te. Ma non l’avresti mai ammesso neppure sotto tortura.  
Il giorno che avevi visto Aphrodite al lavoro avevi pensato: “Piove?” E ti eri avvicinato per chiedergli che ci facesse in mezzo agli operai e vestito come te. Il tuo amico e compare te lo aveva raccontato con il tono lamentoso che pretendeva la tua compassione. Com’era che aveva detto? “Guarda come sono combinato, sono orribile, neanche chi mi vede” oppure “La mia bella chioma costretta sotto questo cencio. Questi vestiti non mi donano neanche un po’. Adesso sembro te”. Non che tu fossi da buttare via, però per poco non gli scoppiavi a ridere in faccia. Ciò non lo aveva esentato dalle numerose occhiate ammirate e lussuriose che le persone gli avevano scoccato. Non occorreva certo un genio per leggere tra le righe.
Però bastava pochissimo per pensare che i più audaci gli avessero scoccato baci e occhiolini, prima di inchinarsi in segno di rispetto come tutti. E, sicuramente, su un paio aveva fatto un pensierino. Ma l’aveva comandato il Gran Sacerdote, quindi le sue lamentele presso di lui erano andate a vuoto; non era un cretino. Delle lamentele di Aphrodite non gliene poteva fregare di meno.
Anche lui lo sapeva. Ma gli ordini non si discutono e, così, anche tu eri stato costretto alla faticaccia della ricostruzione. Subito dopo la lauta e sana colazione che si era fatto, ovviamente. Come se ciò avesse potuto ritardare la sfacchinata che gli sarebbe toccato. Anche se vestito come un pezzente, come vi chiamava, continuava a fare l’imitazione di Re Luigi XVI e si faceva ancora servire e riverire dai suoi lacchè.  
Non ti sorprendeva che Astrid andasse molto più d’accordo con te che con lui. Addirittura quando aveva saputo che il cellulare le si era spaccato le aveva dato la colpa. A quel punto Astrid, con sommo orrore di Aphrodite, aveva perso la pazienza e gli aveva fatto il gesto dell’ombrello. Facendoti scompisciare.
Prima per la sua incredulità e poi perché le aveva rinfacciato tutto. La ragazza aveva ribattuto che sapeva difendersi benissimo anche da sola, che era stanca di lui e che non ne poteva più delle sue pretese. Che poteva insultarla quanto voleva sulla sua bellezza, del suo aspetto non le era mai importato molto: “Per me quello che conta sono il cervello e i talenti e sotto questo aspetto io ho molto di più da offrire di te! Quindi insultami pure sulla mia bellezza, paragonami ancora a te, che sei un uomo e fammi ancora sentire in colpa, io sono comunque più vera di quanto lo sia tu! E per quanto riguarda quel telefono per cui mi fai la predica è stato un incidente. Non me ne importa niente se mi fai terra bruciata e se i miei colleghi ti vanno dietro, le tue parole per me non valgono niente”. Aveva ribattuto, ormai completamente andata. Aphrodite l’aveva guardata completamente allibito. Tempo poche ore che già tutto il Grande Tempio lo sapeva.
E qui tu eri completamente scoppiato nella risata più sguaiata di cui eri capace. Ti eri tenuto la pancia e le lacrime avevano offuscato il tuo sguardo.
Astrid non aveva idea del guaio in cui si era cacciata, ma sembrava che non le importasse. Probabilmente affrontare Eris doveva averle dato alla testa. Se era ancora viva doveva ringraziare la maturità di Aphrodite, che si era scostato i capelli dalla spalla con un gesto di stizza e aveva alzato il mento con fierezza. Prima di decretare che non avesse avuto bisogno delle sue lodi per vivere.
Poi le aveva dato le spalle.
Alcuni lacchè del tuo collega le si erano scagliati contro, ma lei aveva riservato loro lo stesso trattamento del padrone e li aveva rimessi tutti a cuccia.
In quel momento l’avevi ammirata, veramente, non avresti saputo dire se fosse pazza quanto te o estremamente stupida. Poi si era girata verso di te e ti aveva fulminato con lo sguardo. Ma tu ti eri calmato, ti eri asciugato le lacrime che avevi versato dal gran ridere e le avevi fatto i complimenti.
“Scusa ma quando ci vuole ci vuole, ho rischiato la vita anche troppo per continuare a essere umiliata da lui!” Aveva esclamato, furibonda.      
Ad ogni modo, Aphrodite non si era ancora ripreso, anche se si era consolato, da quel che avevi sentito dire. Non solo aveva torturato ancora di più i suoi lacchè ma era andato a spassarsela ad Atene quella sera stessa.
Eppure, ogni volta che vedeva Astrid diventava improvvisamente più freddo e neanche le rivolgeva la parola. Dal canto suo lei sembrava molto più rilassata. Avresti voluto dire lo stesso. Perché, era come se Cherie si fosse cambiata di posto con il Saint di Pisces. Quando non veniva a cercarti lei, ci pensava l’altro a romperti le scatole. Ancora sulla bellezza. Ecco, questo era un motivo per cui ringraziava di essere rinato in quest’epoca, le nuove bellezze. Anche se aveva rimorchiato tanto e lo stesso quando si fingeva una modella in Giappone. Secondo te gli era pure piaciuto travestirti e giocare un po’.
Sotto questo frangente ti fregava meno.
Ancora meno quando asseriva che non avrebbe mai dimenticato la tua faccia quando lo vedesti prima di sbolognargli Yoshino. Ancora ti prendeva in giro senza pietà. Poi si soffermava a pensare anche a lei e si rabbuiava. Ancora non comprendeva perché fosse così giù finché non si era presentato l’ennesimo Senza Volto che aveva attentato alla sua vita. Sinceramente sotto questo frangente ti fregava ancora meno.
E dire che era molto intelligente. Peccato che il suo narcisismo offuscasse la sua intelligenza. Non che tu fossi da meno, solo che il tuo orgoglio ti rendeva parecchio testardo. Non ricordavi chi, ma se era vero allora l’unico episodio significativo di tale testardaggine erano il salvataggio e il tuo istinto di protezione nei confronti della giovane bionda.
A proposito, giacché avevate appurato che non era così indifesa non occorreva più proteggerla come prima, no?
Ne avevi parlato anche con lui. Anche il pesciolino era rimasto molto sorpreso nel saperla scesa in campo. Anche se aveva temuto per la sua bellezza, non si era aspettato che, stavolta, sarebbe stata lei a pestare i nemici. E voi che, fino a quel momento, avevate pensato che le Creature vi temessero da dopo l’intervento di Astrid. Le dovevate la vita per la seconda volta. Accidenti a questo stra maledetto orgoglio, stava procurandovi più debiti che altro, ormai. 
Lo vedesti e lo raggiungesti. Dopo i convenevoli tornò al suo argomento preferito: lamentarsi del Patriarca.
«Non comprendo l’insistenza del Gran Sacerdote. Ha espressamente richiesto che io partecipi alla restaurazione del Grande Tempio. Che cosa ho fatto di male?» Ormai questa storia la conoscevi talmente a memoria che avresti potuto recitarla per filo e per segno. “Non era un lavoro degli abitanti di Rodorio? Solo perché le mie rose avevano contribuito a minare la stabilità delle rovine che vi ospitavano da generazioni non era un valido motivo. Certo che Kanon era veramente diventato insopportabile da quando la Tredicesima era crollata. Sembrava tornato l’ex manipolatore bastardo che menò per il naso la Divina Atena e il Dio dei Mari. Solo che stavolta sembrava avercela con lui. Posso sapere, vostra eccellenza, perché? Gli aveva chiesto con tutto il garbo e rispetto possibili.
Perché le tue carissime rose, nel tentativo di spezzare e soffocare l’Albero del Conflitto, hanno invaso e contribuito a distruggere la Casa di Atena, devo forse aggiungere qualcos’altro o hai già inteso da te? Aveva sibilato con il suo tono bastardo e gelido, mentre Cocteau, appollaiato lì vicino, vi guardava senza dire niente. Gli era quasi venuto da dire: E, lui? Non gli fai fare niente? Tanto per cacciarti nei guai, anche se non era nel suo stile, non era mica un bambino delle elementari.
In quel momento esatto l’aveva visto levarsi in volo e andare via per tornare subito dopo e riferire un messaggio da una delle Dodici Case. Così aveva scoperto che l’oracolo di Atena faceva da messaggero, a volte pure da staffetta. Solo allora si era accorto di come lo guardava furioso al di là dei candidi paramenti sacerdotali e la maschera e si era arreso”.
Kanon sarà anche stato stanco, ma rimane sempre un gran sadico bastardo manipolatore. Lo sfidante perfetto per una partita a scacchi e lui, eccellente stratega, se ne era accorto da un pezzo. Atena in confronto poteva lustrargli le scarpe. Lo svedese concluse il racconto con un: «E, allora gli ho detto: Ditemi cosa devo fare. Non l’avessi mai detto».
«Eh, che vuoi farci, quando Kanon ci si mette ne sa una più del diavolo». Ti eri ritrovato a dire, perché era l’unico modo per contrastare la freddezza e il sadismo di Kanon senza peggiorare la propria situazione e non prenderla in quel posto (come dicevi tu in termini meno aulici).
Eppure, chissà come stra cavolo aveva fatto, in soli cinque minuti ti aveva affidato quella mansione così degradante per la tua persona: ricostruire al suo posto ciò che le sue adorate, bellissime rose avevano distrutto.
Fortuna che c’erano molti giovani volenterosi e desiderosi di aiutare quello stronzo di Aphrodite (oltre che di entrare nelle sue grazie). Non avresti mai pensato che la sua bellezza androgina potesse essere usata allo stesso modo di quella delle donne.
“Devi costruire un muro che non gli caschi in testa, devi costruire un muro che non gli caschi in testa, devi costruire un muro che non gli caschi in testa. Altrimenti Atena chi la sente.” era diventato il tuo mantra per quel giorno. Roba che se Shaka fosse stato ancora vivo, ci sarebbe rimasto così dallo stupore. Perché diciamocelo, non eri tu il santone indiano del Santuario.
Ma la tentazione di far crollare un altro muro su quella bella testa bionda fresca di permanente di Aphrodite era forte. E, ti disegnava un ghigno malefico in faccia.
Così ti eri ritrovato a spostare mattoni, ricostruire muri, impastare malta e cemento (perché non avevate l’impastatrice ma le sue braccia erano sufficientemente forti per rimpiazzarla senza problemi) raddrizzare colonne e passare decine di passate stucchi per rattoppare le crepe della Casa che era stato mandato ad aiutare a riparare. La sua (“Accidenti a te, Aphrodite”) era rimasta intatta perché le rose l’avevano sostenuta e mantenuta intera, avvelenando le radici dell’Albero. Anche questo non doveva essere andato molto giù a Kanon.      
In quanto alla ristrutturazione delle Dodici Case, bè potevano pensarci prima, quando assaliste il Grande Tempio per conto degli Specter nell’ultima Guerra Sacra. Ormai eri dell’idea che gli abitanti di Rodorio fossero abituati ai nemici che distruggevano il tempio e loro a ricostruirlo, a giudicare dalla celerità con cui, si erano messi all’opera per ripristinare le Case.
Scendendo dalla tua Casa ti eri fermato all’Undicesima. Non l’avevi mai vista così mal ridotta neanche durante la scalata dei Bronze. Adesso il pavimento era pieno di crepe, le mattonelle sporche erano divelte o spezzate in più punti e attraversate da radici che volenterosi operai stavano estirpando a colpi di vanga e zappa. Poi, quando ne avevano liberato un considerevole pezzo, qualcuno lo afferrava e tirava via, almeno i pezzi che riuscivano a tirare. Arrivati a un certo punto, arrivava un soldato con la spada che, con un fendente, tagliava la radice laddove si faceva più spessa e ricominciavano l’operazione. Finché non avrebbero tolto tutte le radici non sarebbero cominciati i lavori veri e propri. Salvo poi scoprire che alle Case più in basso questi lavori erano già iniziati proprio perché le radici erano state incenerite per la maggior parte e, le poche rimaste, erano state tolte in pochissimo tempo.
Nelle Case più alte invece, non era stato possibile perché era da lì che erano diramate ed erano più spesse e fittamente intrecciate tra loro. Geotropismo positivo, lo chiamavano, o almeno, così ti aveva detto Natasha quella volta che era venuta a trovarvi alla Dodicesima (per non dire, scappata dalle cure di Yoshino e aveva incontrato anche te che cercavi di seccare le rose di Aphrodite). Tu ti domandavi se per caso le sue rose velenose non avessero potuto rivelarsi estremamente utili anche in questo frangente.
Mentre passavi udisti una voce melodiosa e vibrante intonare «Quindi credi! Non abbiamo bisogno di correre» dalla biblioteca. Non era perfetta, tuttavia, ciò che la rendeva speciale, era che era la prima volta che qualcuno cantava nelle Dodici Case. Orpheo della Lyra non valeva, lui suonava e basta, ma nessuno cantava. Ovvio che qualche volta vi eravate radunati tutti in arena per ascoltare i concerti del famoso Cavaliere d’Argento che si diceva fosse potente quanto un Gold Saint. risuonare per tutte le Case dello Zodiaco. Tuttavia il modo in cui cantava trasformava quelle parole in una promessa.
Ti accorgesti di aver perso il controllo sul tuo Cosmo solo sulle scale, quando lo vedesti aleggiare attorno a te come un alone dorato e luminoso danzante al ritmo di quelle parole. Ti guardasti stupito mentre la voce ti rimbombava ancora nelle orecchie. Prima di scoppiare, ovviamente, in una serie di improperi ai danni dei malcapitati che ti guardavano esterrefatti. Arrivasti in virtù di molte imprecazioni al più piccolo ostacolo e altrettante sigarette alla Prima Casa.
Dovevi andare a chiedere a Kiki a che punto fosse con la riparazione delle Armature.
Ovvio che anche lui aveva sentito la voce di Astrid. Quando avevi sentito la gioia pervadere il  Cosmo del flemmatico ariete, non avevi resistito alla tentazione di sapere. Per pura curiosità ti eri azzardato a sbirciare e avevi sentito. Per poco non ti eri dato una martellata sul pollice.
Ringraziò che Raki, la sua apprendista, non fosse lì. Quella bambina lo avrebbe preso in giro senza pietà.
Per curiosità ti mettesti a spiare nella sua mente.
Stava pensando alla mocciosa della sua apprendista. Non aveva paura di lasciarla da sola nello Jamir. Era una ragazzina assennata per la sua età.
Aveva compiuto da poco tredici anni, se non ricordavi male.
Non l’aveva più riportata al Santuario, anche se eri sicuro che lei sarebbe voluta tornare. Quella volta che gliene avevi parlato ti aveva assillato di domande, saltellandoti attorno. E, lui, si era ritrovato a pensare: “Ma ero così fastidioso anch’io alla sua età?” Prima che, ovviamente, cominciasse a stare appresso ai Cavalieri di Bronzo e ad aiutarli nel Regno di Poseidone.
Ma meno male che se ne era accorto! 
Poi tornò a soffermarsi sulla voce della vostra protetta.
Tu superasti la Prima Casa, ormai alla stregua di un vero e proprio cantiere e, seguendo la scia dei suoi pensieri arrivasti alla tenda dove gli Arieti si erano stabiliti e lavoravano.
Non sapeva come spiegarsi la sensazione che ti portava a sorridere così. Erano anni che non sorrideva così apertamente. Persino il suo maestro gliel’aveva fatto notare, mentre riparavano le Armature.
E, questa gioia, pareva riflettersi persino sulle Armature. D’un tratto gli sembravano più lucide e più belle di quanto già non fossero.
Eppure non poteva impedirsi di sperare. Sì, stava concedendosi il lusso che la loro amicizia non fosse andata completamente perduta.
Ti scappò una risatina.
Ma senti il giovane Ariete che sentiva la carne turbarsi di fronte alle forme di Astrid. Chi l’avrebbe mai immaginato. 
Solo quando aveva sentito Mur riprenderlo si era destato ed era tornato alla realtà.
Poi riprese a lavorare cercando di concentrarsi, ma continuava a sentire (perché tu ti eri rotto le palle e avevi chiuso le comunicazioni cosmiche con quella voce) la ragazza esercitarsi.
Mentre lui quella voce sarebbe rimasto ad ascoltarla per sempre.
Com’era possibile che una semplice ragazza gli facesse quest’effetto? Si domandava.
“Si chiamano ormoni, bello mio”, pensasti sarcastico.  
Però era vero che il legame che vi univa era molto profondo.
Non era come quando Atena cantava per voi, questa era una sensazione ancora più forte. Com’era stato possibile che quella ragazzina si fosse infilata sotto la vostra pelle e vi avesse trovato rifugio fino a questi punti?Al punto che persino tu (che sopportava le donne entro un certo limite) e Aphrodite (inguaribile narcisista) scendeste in campo per proteggerla? Aldebaran per istinto paterno, Lancelot e i Black Saint per approfittarsene, Kiki e Shun per amicizia e gli altri per tenerla d’occhio.
Certo, il suo carattere misterioso non aiutava certamente. Non eri proprio un genio nell’individuare le persone, ma qualcosa ti diceva che nascondesse molto di più di quanto non avesti già captato. Ma in fondo, quale uomo ha la pretesa di scrutare nel cuore e la mente di una donna e pretendere di capirci qualcosa? Nessuno. E, voi, non eravate così sciocchi da impelagarvici. Il Santuario intero poi, salvo alcuni oppositori, che, alla fine erano stati mossi più dal desiderio di vederla morta che viva. In un certo senso era come se vi foste catalizzati tutti su di lei. Se stavi dimenticando qualcuno non te lo ricordavi.
«Stai bene, Kiki?» Gli aveva chiesto il suo maestro per l’ennesima volta
«Sì, maestro».
Bene un corno, perché un secondo dopo riuscì a darsi una martellata sulla mano e a vedere le stelle. Fischiasti ammirato per la sua destrezza prima di scoppiare a ridere sguaiato, annunciando così la tua presenza.
Il giovane Ariete lasciò cadere il martello cercando di trattenere i gemiti di dolore, fissandoti malissimo. «Non sei l’unico ad essere sovrappensiero oggi». Commentò Mur prima di rivolgersi a te e domandarti il motivo della tua visita, una volta che smettesti di sghignazzare, è chiaro.
Schioccasti la lingua contro il palato e borbottasti una serie di battute a Kiki che, si limitò a fulminarti con lo sguardo finché non smettesti e spiegasti il motivo della tua visita. 

Astrid
Avevo chiamato mia madre prima di mettermi al lavoro. Mi erano rimasti i soldi che non avevo speso per il viaggio e così mi ero comprata un telefono nuovo, tanto era in offerta. Ovviamente avevo dovuto richiedere il permesso al Gran Sacerdote per uscire.  
La mia fortuna era che le spese mediche erano gratuite e ci pensava il Santuario a pagarle per tutti. Se no a quest’ora avrei avuto un debito grande come una casa con l’astanteria e Shun.
Mia madre e io avevamo chiacchierato a lungo e poi aveva attaccato, che doveva andare dal dentista. Allora io mi ero recata all’Undicesima per riparare i libri.
Stavo lavorando quando sentii qualcuno schiarirsi la gola. Alzai gli occhi e vidi la Piattola, in abiti civili, sulla soglia. Sulla mia faccia si dipinse una smorfia di disprezzo quasi istantaneamente. «Deponi un attimo l’ascia da guerra, non sono qui per discutere del fatto che ti trovi qui, anzi, apprezzo che tu stia cercando di fare qualcosa, voglio solo parlare».
Socchiusi gli occhi e decisi di mostrarmi più scema del normale, anche se non so se con lui avrebbe funzionato. Che brutta cosa abbassarsi agli stereotipi sulle bionde, ma se serviva per infinocchiare qualcuno, ben venga, almeno per me valeva così. «Non è che mi vuoi fare uno dei tuoi scherzi?» Che ce ne eravamo scambiati molti da quando gli avevo distrutto il ferro da stiro all’invasione. Domandai, guadagnandomi un’occhiata di disprezzo e un più quieto: «No, mi manda Shun».
«E, perché non è salito lui?» Domandai stupita.
«Ha da fare e ha chiesto a me e io ho accettato di fargli questo piacere». Sembrava sincero, perciò dissi: «Ok, spara».
Mi guardò incuriosito, anche se dall’espressione quasi sempre accigliata era difficile dirlo che fosse curiosità. Solo quando parlò ebbi la conferma che lo fosse: «Non te l’ho mai chiesto prima, ma di che segno sei?» Sviò.
Di tutte le domande che poteva farmi, questa non me l’aspettavo. Inarcai un sopracciglio: «Perché?»
«Perché ti cacci spesso nei guai e ho pensato che se magari sapessi la tua costellazione guida, potrei attivare le tue seimei ten e guarirti un po’ prima».
«Tipo fermandomi il flusso sanguigno? Già, perché Shura non ci ha pensato l’altra volta?»
«Le tue ferite erano troppo gravi perché le sole seimei ten bastassero». Spiegò la Piattola. «Neppure facendo leva su altri punti avremmo potuto salvarti, eri veramente a un passo dalla morte».
«Come fai a saperlo?»
«Sono stato io a donarti il sangue».
«Ok, sì, ma come fai a sapere in che condizioni ero ridotta dopo?»
«La donazione di sangue sono riusciti a fartela nello stesso momento in cui ti ricucivano, non chiedermi altre spiegazioni, non so neanch’io come abbiano fatto, non sono un medico».  Dopodiché tacemmo entrambi.
«Sono nata il trenta novembre».
«Quindi sei Sagittario».
«Sono Sagittario». Feci eco e serrai immediatamente la bocca. Era vero, anche se mia madre e mia nonna insistevano nel dire che il mio vero segno fosse un altro. Un segno segreto e che pochi riconoscevano ma che in Giappone era riconosciuto ufficialmente.
Se avessero saputo che poi al Santuario esisteva davvero un Saint recante l’Armatura di quel segno poi sarebbero diventate assillanti quanto mio padre. Mai e poi mai le avrei raccontato della mia sorpresa il giorno che lo scoprii.
A volte ci pensavo ma la conclusione era sempre la stessa: “Nah, è solo una coincidenza, dopotutto i Saint recano solo l’Armature delle costellazioni. Raramente coincidono anche col loro segno zodiacale”. Ripensare ai segni zodiacali mi fece, inevitabilmente pensare anche alle feste durante il corso dell’anno. Per il resto devo dire che non vado particolarmente pazza per Halloween. Al Santuario poi, ero anche sicura che non lo festeggiassero neanche. Ma che mi preoccupavo a fare? Tanto non ero più una guardarobiera. Non dovevo prepararmi per nessuna serata in vista. Ora che ci pensavo, avevo persino perso l’abitudine di stare sveglia la sera. Avevo recuperato dei ritmi di sonno veglia più normali di quelli che facevo prima che la mia vita cambiasse.  
«Io sono dello Scorpione». Buttò lì.
«Come se non si fosse capito». Ribattei sarcastica, guadagnandomi un’occhiataccia da parte della Piattola. Peccato soltanto che lui apparteneva alla fazione dei contro.
Certo che avevo capito che l’aveva detto tanto per fare conoscenza. Peccato soltanto che avesse cominciato con il piede molto sbagliato e che io non dimenticavo così facilmente. «Cosa voleva Shun?» Chiesi poi, tornando a guardarlo. 
«Ah, sì, giusto, mi ha detto di dirti che tra due giorni hai le analisi». A causa dell’ansia c’erano giorni in cui non mi ricordavo neanche gli appuntamenti con Shun.
«Va bene, grazie».
«Ciao, buon lavoro».
«Anche a te». E mi lasciò sola.    
Quando fui sicura che la Piattola se ne fosse andato cominciai a canticchiare tra me e me.
Avevo insistito per dare una mano, andando incontro alle ovvie proteste di Shun. Non lo facevo così lamentoso. Con i suoi fratellastri e suo fratello non lo era più di tanto, con me invece sì. Forse perché non avevo un Cosmo con cui sostenermi. Però non volevo lo stesso sentirmi inutile o viziata, come invece cercava di fare il capo dei Black Saint. Se non fosse stato per la presenza di Lancelot, probabilmente il comportamento di costui sarebbe rassomigliato tantissimo a quello di uno stalker. Fortuna che un minimo se ne accorgeva e un po’ Lancelot lo fulminava con gli occhi rossi come il sangue. Di solito lo trovavo una grande seccatura, ma ora lo ringraziavo tra me e me, anche se avevo l’impressione che lo sapesse.
Non avevo ancora il coraggio di cantare di fronte a lui, anche se a volte me lo chiedeva. Oggi, purtroppo, non ero riuscita a cantare in pace per due motivi, il primo: Lancelot. Riuscì a essere talmente silenzioso che non mi accorsi di lui e che solo alla fine della canzone, batté le mani divertito, facendomi prendere un colpo. «Lo sapevo che avevi una bella voce. Lo sapevo, oh, se fossimo ancora ai tempi del mito saresti stata una cantrice perfetta! Sai quanti cuori avresti sciolto solo con quella voce?» Poi scoppiò nella sua solita risata folle. Le cantrici erano la versione femminile degli aedi e dei trovatori medievali.
Io intanto ero diventata di un bel color fragola matura che stonava visibilmente col colore dei miei capelli. Lo so perché mi sentivo il viso rovente per l’eccessiva affluenza di sangue. «Non ti preoccupare, canta ancora, mi piaceva». Cercò di tranquillizzarmi, smettendo di sghignazzare.   
«Dai, Lancelot, non scherzare». Gli dissi. Poi distolsi lo sguardo, spostandomi una ciocca dietro un orecchio, che era sfuggita alla mia treccia a spiga di grano. «Non sono così brava». 
Anche Yoshino aveva trovato qualcosa da fare: mi stava dando una mano a raccogliere i libri dell’Undicesima e spostarli altrove. Non potevamo lavorare finché le macerie ingombravano quel posto. Ed era stato proprio in quelle macerie che avevamo trovato alcuni libri ancora intatti e, avevamo riempito una carriola per spostarli. A causa dell’assalto alcuni scaffali erano caduti e altri volumi, invece, erano proprio andati distrutti. Per fortuna che le pagine si potevano incollare e i libri si potevano aggiustare. Ciò restava comunque un gran peccato. Forse era anche per questo che Lancelot mi ronzava intorno, per via di Yoshino, anche se non avevo capito che cosa legasse quei due. 
Per quanto riguardava il mio rapporto d’amicizia con Kiki, perlomeno, stavo aspettando che facesse una mossa. Death Mask e gli altri l’avevano già fatta e, a parte Aphrodite stavano riavvicinandosi a me, ma Kiki era quello più ostico. Forse per via del suo carattere flemmatico e pacifico. Credo però che si fosse sbilanciato moltissimo a regalarmi quel fiore che faceva ancora bella mostra di sé nella mia stanza da Castalia. 
Fui distratta per un attimo da un frullo d’ali. Mi volsi e vidi il gufetto che sembrava un peluche (in seguito venni a sapere che era una civetta, “Pardon, non sono un’ornitologa”) che mi guardava in silenzio appollaiato sulla finestra della biblioteca.
L’Undicesima Casa mi piaceva molto, se devo essere onesta. Anche se era un tempio circolare era molto bello e aveva una buona acustica, l’ideale per cantare. La prima volta che venni qui, mi dette l’impressione di trovarmi in un mausoleo alla memoria di qualcuno. Impressione confermata dal suo guardiano, cioè la Piattola. Davvero, non comprendevo che cosa avesse contro di me, ma sperai davvero che non fosse per l’infelice somiglianza tra me e Camus, perché se no voleva proprio dire che era stupido.
«Tu che ne pensi?» domandai all’animaletto appollaiato lì. Il quale si limitò a fissarmi con i suoi grandi occhi gialli e intelligenti. «È un bel disastro, no?» Dissi accennando all’ennesimo libro che stavo aggiustando con un po’di colla, ago e filo. Chrysafi mi aveva insegnato a prendermi cura dei libri e mi aveva spiegato come maneggiarli e aggiustarli senza errori. Fino a quel momento pensavo che Chrysafi fosse solo una persona con una grave ossessione per i capelli della Piattola e, una parrucchiera mancata. Non mi sarei mai aspettata che nascondesse molto altro.
Il difficile, qui, era stato trovare la colla. Avevo girato mezza Rodorio finché non avevo trovato il negozio del rigattiere e mi ero fatta dare tutto il necessario al modico prezzo di qualche dracma. Poi mi dovevano spiegare come diavolo facessero la riconversione in euro da quando la Grecia era entrata a far parte dell’Unione Europea.
Posai il libro di fisica a terra.
Presto, avrei imparato perfezionato il mio greco, a leggerlo e a scriverci, poi saremmo passati a quello arcaico. Era stata una mia idea. Questa mattina, li avevo sentiti parlare così mentre si riposavano un attimo dalla sfacchinata e mi ero unita a loro. Che strano vedere Aphrodite vestito quasi come una persona normale. domandato se qualcuno di loro avesse potuto insegnarmi. Mi avevano guardato con occhi grandi come palle da tennis. Non tanto per il fatto che ero lì, quanto per il fatto che glielo avessi chiesto. «Perché?»
«Perché ho bisogno di fare qualcosa, qualcosa che tenga impegnata la mia mente. Capite?» I due si erano guardati spiazzati e confusi. «Ho bisogno di capire se posso ancora o se quei tre…» “hanno danneggiato irrimediabilmente qualche area del mio cervello”. Pensai intimorita ma non riuscii a dirlo. Dalle analisi precedenti pareva di no, ma avevo bisogno di saperlo io non di sentirmelo dire, al diavolo tutte le rigenerazioni.
Normalmente mi sarei affidata ai complicatissimi calcoli astronomici e astrofisica ma la mia mente era arrugginita e avevo bisogno di ricominciare da capo. Peccato che gli unici testi che avessi trovato, fossero in greco, perciò ero di nuovo punto e a capo.
«Forse conosciamo la persona giusta per questo.» così mi avevano portato da Aiolia. Immaginate (e basta, non c’è nessuno qui!) il mio terrore quando me lo ritrovai davanti.
Al richiamo dei compagni si staccò dal suo posto di lavoro e ci venne incontro. Appena fu vicino le mie narici colsero l’odore di sudore che l’avvolgeva e si univa al suo profumo maschile. “No, ormoni, non ora”. Pensai. Molti altri al mio posto si sarebbero sentiti in imbarazzo o eccitati, circondati da questo ben di Dio, ma avendo bene impresse le loro prodezze sul campo di battaglia, purtroppo, mi veniva alla mente più facilmente quello che la loro bellezza. E, ciò smorzava di moltissimo i miei ormoni.
Come se non bastasse percepii ancor più chiaramente l’odore di Aiolia, altra ennesima mazzata ai miei ormoni. Mi ritrovai a pensare: “Non vi ci mettete anche voi!” Con una tale enfasi che mi sentii idiota. Con Death, Kiki, Aphrodite e Mur, avevo fatto una fatica del diavolo per riuscire a smettere di considerarli solo e soltanto come macchine da guerra invece che dei semplici uomini. Ma gli altri eravamo ancora ben lontani da ciò.
Li aveva salutati e poi aveva appreso il motivo mi aveva guardata dritta negli occhi, trapassandomi da parte a parte. «Ma questa ragazza il greco lo conosce già». Obiettò. A quel punto scossi il capo e spiegai: «Non tanto, per capire molte cose sono andata a senso».
Death Mask scoppiò a sghignazzare beffardo e poi se ne uscì con un: «Mi prendi in giro?» Mentre Aphrodite solo con uno stupito, «Scherzi?»
Invece Aiolia mi mise direttamente alla prova, declamando qualcosa in greco.
Non ci capii una mazza. Ma quando qualcuno lo chiamò e gli disse che mancavano chiodi e martello e lui non comprese per la confusione, lo illuminai io: «Ti ha chiesto dove può trovare altri chiodi e il martello». Grazie a Castalia, Lythos, Galan, Juan, Georg e molti altri ero riuscita a immagazzinare alcuni termini, frasi e modi di dire che il mio intuito traduceva. Non lo trovavo neanche così difficile e differente dall’italiano, ma quando andavo da qualche parte dovevo ancora esprimermi a gesti e usare le liste già scritte. Credo che a Rodorio mi avessero presa per cretina per questo. Vorrei dire sordomuta, ma sorda non ero, muta neanche, ero solo svogliata e non era che conversassi chissà quanto al di fuori di Death, Yoshino e tutti coloro che conoscevano l’italiano.
«Cosa?» Chiese passando di nuovo all’italiano, mentre i miei amici mi guardavano stupefatti.
«Ti ha chiesto chiodi e martello». Ripetei.
«Che storia è questa? Riesci a comprendere se qualcuno ha bisogno di chiodi e martello e non una poesia?» Disse girandosi completamente verso di me. Le braccia incrociate e lo sguardo interrogativo. Avesse disteso un po’i lineamenti del volto non gli avrebbe nuociuto affatto. Sia esteticamente che nelle relazioni intrapersonali. 
Alzai le spalle: «Te l’ho detto, vado a senso. Non so spiegarti come faccio, so solo che lo faccio». Erano rimasti tutti di stucco quando avevano capito che fino a quel momento, tranne quando parlavano italiano o inglese per farsi capire, con le lingue di matrice indoeuropee ero andata a senso. Mi ero dovuta affidare alle lezioni di Aiolia. Mi avevano detto che se ci fosse stato Saga, ci avrebbe pensato lui, ma lui non era reperibile da un po’. Non avevano aggiunto nient’altro e io non avevo fatto domande. Con il senno di poi avrei dovuto farle.
«E, così, vorresti perfezionare il tuo greco?» Ripeté a sua volta il sudato Gold Saint del Leone dedicandomi un’occhiata truce. Quasi rimpiansi la mia decisione, sembrava volesse sbranarmi.
Mi ero sforzata, perciò, di sostenere il suo sguardo e di confermare con convinzione. «Sono qui da mesi, ormai, sarebbe ora che lo perfezionassi anch’io. Per favore».
«D’accordo, allora quando abbiamo un momento libero cominciamo».
«Quando?»
«Ti farò sapere». Promise. Poi, se avrebbe mantenuto la promessa sarebbe stato tutto da vedere. In caso mi premurai di scendere in paese a comprarmi un manuale di greco.     
Riemersi dal ricordo e sospirai, portandomi la mano sotto al mento.
Guardai davanti a me senza vedere quello che c’era davvero. Ormai mi ero accorta di essere cambiata, prima ero molto più lineare e precisa nei pensieri e adesso, invece, erano ingarbugliati come un groviglio di rovi. Molti non avevano neanche senso e mi sembrava di annaspare nella mia stessa mente. Non volevo essere così.
Strinsi il pugno sulla mia gamba e mi morsi la lingua per evitare di urlare. Non volevo strepitare, proprio non lo volevo, anche se ne avevo tutti i motivi.
Ricacciai indietro il groppo anche se ero relativamente da sola e mi imposi di calmarmi. Maledetta sia l’ansia e chi l’ha inventata.
Guardai di nuovo quel buffo animaletto. Era ancora lì che mi fissava.
«Astrid.» mi chiamò una voce femminile. Sussultai e mi volsi verso l’entrata della porta. «Eccomi.» risposi senza pensarci.
Mi alzai, mi spolverai la sottana e la raggiunsi per sentire cosa volesse. Però, appena uscita non la vidi da nessuna parte, in mezzo a tutte le persone che lavoravano. «Strano», mormorai tra me e me guardandomi intorno, «eppure avrei giurato che…», proprio in quel momento la voce mi chiamò di nuovo.
Guardai la civetta, che se ne restò immobile sul davanzale come se fosse impagliata. Strano anche questo. Di solito quelli volavano via spaventati da certi scatti. Questo no. Oppure era a scoppio ritardato, visto che aprì le ali in quel momento e volò via.
Intanto, continuavo a percepire quella voce che mi chiamava.
Mi portai le mani alle tempie per capire se fosse uno scherzo della mia immaginazione.
La sentii di nuovo, stavolta dall’altra parte del corridoio di passaggio: «Astrid».
No, non era uno scherzo.
La seguii.
Uscii dall’Undicesima, passai la Dodicesima e accanto alla Tredicesima percorrendo il sentiero dei servi che in questi mesi precedenti avevo imparato a conoscere e andai oltre.
Avevo un po’di freddo per via del vento che aveva cominciato a soffiare in quel momento. Rabbrividii e mi detti della sciocca: perché non avevo indossato una giacca più pesante prima di uscire?
Riconobbi che il mio corpo si fosse irrobustito per sopportare quelle rampe e un ritmo più normale. Però oltre la Tredicesima non ero mai salita e, soprattutto, dovevo essere indebolita a causa del tempo passato sotto le cure di Shun alla Sesta. Invece, forse per merito delle tecniche di rigenerazione che il mio amico mi aveva insegnato, ero quasi in forma.
Se pensavo che i Saint potevano saltare di picco in picco mi sentivo male, ero una lumachina in confronto a delle lepri.
«Astrid». Mi chiamò di nuovo la voce.
E, il mio sangue rispose ribollendo, mentre il mio cuore batté un colpo più profondo come una gran cassa. Da quel momento in poi il mio battito cardiaco fu proprio così, profondo e rumoroso proprio come una gran cassa.  
Mi volsi in quella direzione, scostandomi i capelli dalla faccia e scorsi un sentiero che non avevo ancora visto.
Forse sarei dovuta tornare indietro, ma non lo feci. Mi sentivo strana, era come se la parte istintiva di me fosse improvvisamente emersa allo scoperto, precipitandomi in uno stato simile a una trance ipnotica.
Le mie gambe presero a muoversi da sole, seguendo la voce come un cobra segue la melodia dell’incantatore di serpenti.
Mi sembrò quasi di trasformarmi in qualcosa di etereo e leggero, ma al tempo stesso forte e resistente mano a mano che abbandonavo la Tredicesima per seguire quella voce e addentrarmi tra le montagne che circondavano il Santuario. Non avrei mai creduto che coprisse un’area così vasta. 
Mi sembrava quasi di volare mentre la mia pelle si abituava alla temperatura e i brividi cessavano gradatamente.
Con le sottane che mi frusciavano sulle gambe, le mani che sfioravano le rocce e, i piedi che procedevano con sicurezza, non mi sembrava nemmeno di trovarmi a una considerevole altezza, mi sembrava di camminare tra le nuvole che sfioravano il sentiero, neanche nascessero dalle rocce stesse.
Più mi allontanavo dalle Case, più mi sembrava di tornare libera, più mi sentivo dissolvere per tornare ad essere parte del Tutto. Ed era una sensazione meravigliosa che volevo prolungare a tutti i costi. Una sensazione famigliare, la stessa che avevo provato nei miei ricordi che stavo riscoprendo.
E, ciò, mi accese una gioia indescrivibile nel petto. Le mie labbra si curvarono in un sorriso e proseguii spedita mentre la voce e il vento mi sospingevano dove volevano che andassi. Il mio viso disteso in un’espressione rilassata. Mi sembrava quasi di danzare, eppure non stavo volteggiando ma la sensazione era quella. Era come se andassi a tempo di una melodia scandita dal profondo della mia anima.
Oltrepassai degli abitanti di Rodorio che andavano dalla parte opposta, cercando di ripararsi dal vento sferzante come meglio potevano. Quello stesso vento che sembrava disegnare un paio d’ali dietro la mia schiena, che assecondavo come una vela e che, mancava poco mi avrebbe rapita e portata via con sé, come accadeva alla Psiche della fiaba di Apuleio. Non mi sarei nemmeno sorpresa se da un momento all’altro mi sarei librata in volo, sostenuta da quelle ali che il vento mi aveva gentilmente donato. Però non ero in balia del vento, io ero con il vento, sentivo di essere diventata un tutt’uno con lui, nonostante che continuassi a mantenere la mia identità, adesso relegata in un angolino minuscolo della mia mente e del mio essere. Niente di più e niente di meno che un granello di sabbia nell’immensità che stavo diventando.
Tutto sembrava così semplice e lontano che ogni dolore sembrava essere scomparso. Non ricordavo neanche più per cosa stessi soffrendo. Ma, se avessi continuato così, sentivo che avrei persino dimenticato chi ero. E, la cosa non mi spaventava per niente. Chi non ha mai vissuto una sensazione simile non può capire. C’era solo la felicità, una felicità selvaggia che non nasceva dal niente, sempiterna e perennemente in movimento, esattamente come la luce e il vento che mi accompagnavano e mi rivestivano in quel momento. 
Percepii appena gli sguardi allibiti che mi lanciarono nel vedermi e ampliai ancor più il mio sorriso mentre il sentiero si srotolava di fronte a me come un tappeto rosso in mezzo ai sassi bianchi, quasi lucenti sotto i raggi del sole, in contrasto con il caldo azzurro del cielo. Improvvisamente quel colore che si raffreddava sempre più con il susseguirsi dei giorni e l’arrivo della stagione fredda, ti sembrò di nuovo caldo come a giugno.
Il mio corpo cominciò a scaldarsi e non sentii più il freddo tocco del vento che mi sfiorava.   
Qualcosa mi sfiorò le braccia nude più volte, come dita carezzevoli cui sfuggivo con la stessa facilità del fumo tra le dita. Improvvisamente compresi di non essere più sola però la cosa non mi spaventò. Anzi, mi diede la spinta per andare avanti e raggiungere la mia mèta. Era un tempio in rovina incastrato tra le rocce.
Mi fermai e mi guardai attorno. Ero circondata dalle rocce e l’aria era carica di salsedine.
I miei piedi affondavano nella sabbia. Come diavolo ero finita qui? Quando ero scesa? Non ricordavo di essere mai stata in questo posto, prima. Non c’erano dubbi che fosse un tempio, anche se era diverso da quello che mi aspettavo di trovare e, dagli altri che finora avevo imparato ad apprezzare.
Passai sotto le colonne e oltrepassai la soglia, finendo per immergermi nell’oscurità più totale. I polmoni presto si riempirono di polvere e cominciai a tossire. E, questo mi risvegliò dal mio stato di trance. Mi guardai attorno mentre cercavo di mettere tutto a fuoco. Fu così che mi accorsi della lieve fonte di luce che proveniva dall’alto e le mie orecchie si riempirono del suono dell’acqua di una fontana. E, mi accorsi che sulle pareti del tempio scorreva un velo d’acqua uniforme che stava allargandosi sul pavimento. Se non fosse stato per il leggero incresparsi dell’acqua avrei giurato che fossero delle lastre di vetro. Un po’come quelle fontane moderne che si potevano ammirare nelle capitali artistiche.
Alzando gli occhi mi accorsi che il posto era circolare e che sulla sommità delle rupi c’erano delle colonne diroccate. Il cielo azzurro si stagliava sopra di me. Poi abbassai di nuovo lo sguardo sulla pozza. Incuriosita mi avvicinai, ma mi fermai a due centimetri dall’acqua.
Mi chinai e ci immersi un dito, scoprendola gelida.
Mi portai il dito alle labbra e sgranai gli occhi, «È dolce.» esclamai togliendomele di bocca, poi mi guardai di nuovo intorno.
«Com’è possibile? Un momento.» osservando meglio l’acqua, mi accorsi della sua trasparenza e del fondale basso, invece di vederci qualche pesciolino come mi aspettavo, liscio come una pavimentazione. Provai toccarla, immergendo la mano e gemendo per le fitte date dal freddo. Con mia grande sorpresa capii che c’era solo uno strato di acqua e niente di più.
«Dove sono finita?» Mi domandai alzandomi per guardarmi meglio intorno, meravigliandomi dei giochi di luce riflessi dall’acqua sulla parete della grotta e, di come, la luce, nonostante tutto sembrava quasi non avere il coraggio di entrare più del dovuto, come se avesse temuto e al tempo stesso rispettato questo posto. Nonostante il buco che dava sul cielo azzurro, soltanto un timido e sottile raggio di luce entrava e si gettava in acqua. Come se ci fosse stata una cupola che impediva al resto dei raggi di passare. Il problema era che questa cupola non c’era e, che buona parte della luce, oltre che dal filo luminoso, veniva dai lati della grotta circolare, proprio dove le cascate si univano al laghetto senza tuttavia turbarne la placidità.
In compenso questo posto pullulava di energia, molta energia. Ancora una volta mi sentii circondata, come se con me ci fosse molta altra gente. Però ogni volta che mi guardavo attorno, non percepivo nessuno neanche con la coda dell’occhio o con gli altri sensi.
Mi rialzai in piedi, mi spolverai le mani sulla sottana e provai ad esplorare la grotta.
Non andai molto lontano perché scoprii che oltre quella lingua di terra non potevo proseguire. C’erano solo le cascatelle e l’acqua.
Allora provai ad avanzare, sollevando la gonna per evitare che si bagnasse l’orlo. E, con mia grande sorpresa, scoprii che era veramente così come si era presentata al mio tocco. Era come camminare a pelo dell’acqua. Mi venne in mente un astruso paragone con Gesù Cristo. «Forte». Mormorai sorridendo, mentre mi guardavo attorno e facevo attenzione a non muovermi troppo bruscamente: non  potevo sapere se le mattonelle sarebbero sprofondate nel terreno. E, poi, mi accorsi di un altro fenomeno che mi fece trasalire: quelle che avevo scambiato per mattonelle, in realtà, erano solo giochi di luce che si riflettevano sul fondo immobile e scuro, talmente scuro da sembrare nero.
Solo allora realizzai a pieno quello che stavo facendo. «Non ci credo…» Bisbigliai incredula e anche un po’spaventata intanto che la mia voce rimbalzava sulle pareti della grotta e tornava indietro in una dolce eco. Com’era possibile? Gli esseri umani non dovrebbero camminare sull’acqua, andava contro ogni legge della fisica e le umane possibilità! Persino per un Cavaliere d’Oro. Allora come era possibile che io ci riuscissi? Fede? Ma così tanta? E, chi diavolo ero, San Pietro? D’accordo che fede e ragione convivevano in me al punto da non capire più dove iniziava una e dove finiva l’altra, però adesso si stava esagerando.
Mossi qualche passo avanti e poi altri ancora con maggior sicurezza. La cosa mi strappò una risata divertita che rimbalzò sulle rocce. E, fu proprio questa risata a scatenare un fenomeno che mi inquietò ancor più di quanto non fossi. Cominciai a udire dei bisbiglii talmente sommessi che pensai provenissero dal centro della mia testa. 
Arrivai proprio a tre centimetri dalla luce, che mi costrinse a socchiudere gli occhi.
Ma anche allora i bisbiglii non si attenuarono, anzi, aumentarono, come se più voci parlassero tutte insieme e, con essi, aumentò l’intensità. Proprio allora, sentii un tonfo nell’acqua. Mi volsi di scatto e vidi l’acqua ribollire poco prima da dove mi trovavo.
«Chi c’è?» Domandai, spaventata, girandomi completamente per vedere che succedesse, mentre brividi freddi mi scuotevano la colonna vertebrale. Per tutta risposta sentii declamare questi versi:         
«Nate dall’acqua, con tocco di fuoco
Esse distruggono
La terra partorisce ma la fiamma scolpisce.
Bagne le carni, pesci fuor d’acqua
 sferzanti di bende nere!
Ecco, il loro elemento!
Il resto è il nostro tormento,
raccolto, dispersi nel vento…
»           
«Chi c’è? Chi è che parla? Fatevi vedere!» Urlai, adesso sull’orlo del terrore e la grotta mi restituì la mia eco.
Proprio allora dall’acqua emerse una delle Creature.
Impallidii e sgranai gli occhi, terrorizzata nel frattempo che essa si levava a mezz’aria e si volgeva verso di me.
«Stammi lontano!» Esclamai alzando una mano.
La Creatura, invece, si avvicinò.
«Ho detto stammi lontano! Vai via!» E, con quest’urlo, le mie mani si illuminarono di colpo.
La Creatura si fermò e alzò la propria e mi graffiò la pelle del braccio con i suoi artigli affilati. Gemetti di dolore e mi afferrai il braccio ferita con l’altra mano, stringendomelo al petto. Poi passai sotto la Creatura e corsi via, il più veloce che potei, verso l’imboccatura, le lacrime che mi offuscavano la vista. Non mi guardai neanche indietro per verificare di essere seguita. Non m’importava, volevo solo salvarmi la pelle.
Risalii il pendio, sentendo le membra improvvisamente stanche e scivolando in dietro un paio di volte sui sassi, sollevando un po’di polvere. Ma questo non mi fermò.
Avevo appena svoltato una roccia quando sentii delle voci maschili che conoscevo: «Andiamo a casa, questa zona è deserta».
«Eppure ti dico che qui non abbiamo ancora controllato».
Mur e Aldebaran. Grazie agli Dèi!
«E, che vuoi che ci sia da controllare, vedrai che sarà sicuramente… Astrid!»
I due uomini sembravano delle macchioline sfocate all’orizzonte alla mia vista offuscata di lacrime. Gemetti, colta da un’altra fitta alla ferita.
Mi fermai soltanto quando le loro ombre m’inghiottirono. Due grandi mani si posarono sulle mie spalle e mi sorressero: «Astrid! Cosa ti è successo? Che hai fatto?» Domandò Aldebaran spaventato, mentre Mur notava la ferita: «Amico mio, guarda, il suo braccio. Che cosa ti è successo?»
Cercai di spiccicare un discorso, ma ero troppo sconvolta e spaventata per parlare, perciò mi uscì solo un balbettio sconnesso: «Io, io ero là dentro e poi, sono, c’è qualcosa, là dentro, là dentro c’è qualcosa!»
«Mur, sta delirando». Evidenziò preoccupato Aldebaran.
Alzai il viso e lo vidi volgere la testa verso di me, mentre l’altro mi si avvicinava per praticarmi una fasciatura d’emergenza non so neanch’io con cosa. Non so cosa dissi, so solo che scossi il capo e cercai di sottrarmi alla loro presa, in preda a una crisi isterica.
«Portiamola via». Decretò il Cavaliere dai capelli lillà.
Sempre tenendomi per le spalle mi riportarono al Santuario.
Io scorgevo solo la bianca distesa illuminata da caldi rossi raggi del tramonto. Ma sulle prime non compresi. Che storia era questa? 
«C’è qualcosa, c’è qualcosa, là dentro c’è qualcosa». Mi uscì dalle labbra tremanti tra un singhiozzo e l’altro.
«Non c’è niente là» Obiettò il Cavaliere del Toro ma Mur lo interruppe mentre la vista mi si faceva a pallini e i colori divennero all’improvviso troppo carichi. Come se un bambino dispettoso si fosse divertito a ripassarli e ripassarli al punto di renderli insopportabili alla vista: «Sì, c’è qualcosa. Adesso andiamo via».
Inciampai nei miei stessi piedi ma Aldebaran mi sorresse. Poi persi i sensi.       

Quando rinvenni scoprii di essere distesa su qualcosa di morbido e caldo. Aprii gli occhi mugolando e mi ritrovai a mettere a fuoco il soffitto della casetta di Castalia, nella mia stanza.
«Astrid». Esclamò una voce femminile e, nel mio campo visivo, entrarono i visi di Castalia, Kiki, Aphrodite, Death, Aldebaran e Mur. «Astrid». Esclamarono maestro e allievo curvando le labbra in un sorriso. Quello di Kiki era più espressivo e i suoi occhi viola esprimevano più chiaramente i suoi sentimenti. Invece, quello di Mur era troppo tranquillo anche in quella situazione, ma non mi dispiaceva.
«Ragazzi…» Mormorai sigillando un attimo gli occhi per poi riaprirli di nuovo, per metterli meglio a fuoco. C’era troppa poca luce qui dentro. 
«Grazie ad Atena, ti sei svegliata». Esclamò Aphrodite aprendosi in un sorriso meraviglioso. Quando sorrideva toglieva il fiato.
«Ti sei ripresa?» Chiese Death, cercando di mascherare il sollievo nel vedermi sveglia. La solita cicca pendente tra le labbra scomparsa. Sapere che fino a quel momento era stato in pena per me mi sorprese e, da quello che sentii quando le sue emozioni mi investirono, capii che non avrebbe sopportato di perdere anche me. Quasi mi sembrava di sentirlo ringraziare la Dea.   
«Cosa è successo?» Domandai perplessa mentre Castalia mi detergeva il sudore dalla fronte con un panno bagnato. «Perché mi sento come se avessi percorso decine di chilometri tutti a piedi?» Domandai mentre lei cercava di zittirmi.
«Ehi, calma, calma, non ti agitare troppo se no svieni di nuovo!» Esclamò il mio connazionale, notando che mi stavo rialzando a sedere, ignorando deliberatamente Castalia. «Ha ragione Death Mask, non fare sforzi inutili».
«Ma, che cosa è successo?» Domandai, in preda a un vuoto di memoria. «Ahi, perché mi fa male il braccio?» Lo sollevai per guardarmelo e restai sotto shock nel ritrovarmelo fasciato dal gomito al polso da una candida benda bianca.
«Distenditi che cercheremo di raccontarti tutto, d’accordo?» Negoziò Kiki, inchiodando i suoi occhi viola nei miei, gialli. 

Death Mask
Mur e Aldebaran le raccontarono ciò che era accaduto. Lei ascoltò tutto con gli occhi luminosi sgranati. Alla fine sbottò: «Ma io non posso essere stata via così a lungo, saranno passati appena cinque minuti».
«Astrid, tu sei stata via per quasi otto ore da quando sei uscita dall’Undicesima a ora». Fece Kiki, posandole le mani sulle spalle. La ragazza scosse il capo e mormorò: «Non è possibile… io… non può essere passato tutto questo tempo».
«Cosa ti ricordi?»
«Ricordo una voce, ricordo di averla seguita e poi un posto».
«Un posto?»
«Una grotta».
«Dove?»
«In riva al mare, credo. Ho sentito odore di salsedine e lo sciabordio delle onde». Poi vi fece la descrizione precisa.

Quella sera dopo cena, tu, Aphrodite e Shura, vi recaste sul luogo che vi aveva descritto. Non era stato facile raggiungerlo. Vuoi perché non avevate potuto usare il Cosmo, vuoi perché avevate dovuto farvi luce con delle fiaccole. Shura si era offerto di farvi da guida per trovare la strada, dal momento che era riuscito a seguirla per un tratto considerevole. Voi avevate accettato.
Adesso erano passate quattro o cinque ore, non eri sicuro, dalla partenza. «Quanto manca ancora? Mi sembra di camminare da anni». Si lamentò Aphrodite in coda al gruppo.
«Non lo so». Gli rispose Shura, qualche metro avanti. Grazie ad Atena non tirava vento. Quella sera era già abbastanza gelida di suo, adesso ci mancava solo il vento, oltre all’umidità delle rocce. Seguendo il sentiero avevate percorso qualche chilometro. E, tu, non avevi neanche potuto fumare una sigaretta.
Adesso vi trovavate in una spianata di terra battuta e ghiaino bianco e quasi luminescente sotto ai raggi della mezzaluna crescente.
Ti guardasti attorno: «Aspettate un attimo, conosco questo posto». Dicesti. Tendendo l’orecchio potesti cogliere lo sciabordio delle onde, la salsedine e il raro stridio notturno dei gabbiani. Con le narici percepisti l’odore dei pini marittimi ed erbe aromatiche della boscaglia poco distante oltre i massi tondeggianti su cui era cresciuti qualche ciuffo d’erba e qualche albero adesso spoglio.
«Lo conosci?»Ti domandò Aphrodite.
Se i tuoi sensi non t’ingannavano, da lì in poi, verso sinistra, sarebbe cominciata quella sorta di macchia mediterranea piena di piante odorose, acquitrini, ontani, tigli, canneti e pini marittimi scolpiti dal vento. Un luogo che di giorno sembrava magico, capace di trasportarti in un altro mondo soltanto con la sua bellezza e che di notte incuteva rispetto. Un rispetto che ti spinse a mollare in tasca il pacchetto di sigarette sul fondo della tasca, che avevi afferrato con la mano libera.
Anche se non c’eri mai stato di notte, la sola vicinanza di quel loco ti influenzava. E, non eri il solo: anche gli altri due sembravano risentire in qualche modo dell’influsso della boscaglia. Lo avvertivi nella vibrazione del loro Cosmo. Era come se gli occhi della foresta vi osservassero placidamente. Ma non era solo una questione di sguardi, era una questione di sensi, era come se dentro la foresta ci fosse qualcosa che vi spingeva ad addormentare la ragione, invogliandovi a una libertà, a una pace talmente intense da spaventarvi.  
«Ci sono passato ogni tanto quando ero sulla spiaggia. Non sapevo si potesse raggiungere anche da qui».
«Aspetta, mi stai dicendo che dalla Tredicesima Casa, seguendo le montagne, siamo riusciti a raggiungere il mare? Ma saranno dieci chilometri come minimo». Esclamò il Cavaliere dei Pesci. «Come è possibile?»
«Non me lo chiedere».
Shura si limitò a guardarsi intorno, poi domandò: «E, adesso che si fa?»
«Adesso cerchiamo la grotta di Astrid, lasciate fare a me».
Ti portasti alla testa del gruppo e, dopo mezz’ora, trovasti l’imboccatura. Ti domandasti come avesti fatto a non notarla subito.
Chiamasti gli altri due che corsero subito da te, facendosi luce con le torce. «L’hai trovata?» Ti chiese Aphrodite.
«Sì, dev’essere questa». Confermasti, poi entrasti. Gli altri due ti seguirono.
L’imboccatura di tre metri vi permise di camminare a testa alta.
Vi ritrovaste nel luogo descritto da Astrid e restaste a bocca aperta. Era come essere entrati davvero in un altro mondo. Fu così che vedeste anche voi la pozza d’acqua irrorata dalle sorgenti che scorrevano, levigando la parete della caverna. E, alzando gli occhi, vedeste, a dodici, forse sedici metri d’altezza, la volta stellata, con una facilità che non avreste mai dimenticato. Da nessuna parte avevate mai visto il cielo così. Neanche nelle zone più cupe del Santuario e, non con la fievole luce della luna crescente. Anche quella, in questa zona sembrava essere amplificata. In virtù della lieve nebbiolina dell’umidità serale, poteste vedere i raggi lunari tuffarsi nella conca. La luce delle torce cominciò a darti fastidio e a sembrarti aliena, quasi blasfema, in un posto come questo.
Perciò le spegneste e così poteste vedere la volta celeste riflettersi nella pozza, strappandovi altri versi di meraviglia. Soprattutto allo svedese. 
Le colonne in rovina si ergevano vicino ai bordi della volta, sembravano dita spezzate ed erose dal tempo, colte nell’atto di tendersi verso il cielo e cercare di afferrarlo. Erano i sostegni del tempio di cui ti aveva parlato Astrid.
Non avresti saputo dire a che epoca risalissero, però avevi il sospetto che fossero molto antiche, forse persino più antiche della Grecia stessa.  
Shura osservò il posto meravigliato, senza proferire una parola. Non pensava che a due passi da casa esistesse un luogo come questo.
«Per Atena, esisteva un posto simile così vicino al Santuario e non ce ne eravamo mai accorti?» Mormorò Aphrodite guardandosi attorno con occhi sgranati, colmandosi gli occhi di meraviglia. 
«Non sentite anche voi qualcosa?» Disse a un tratto Shura.
«Qualcosa? Cosa?» Domandò Aphrodite.
«Non so, è come se in questo posto aleggiasse una melodia, ma è talmente bassa che non riesco a udirla bene». Spiegò.
«Ora che me lo fai notare, in effetti mi sembra anche a me di sentire qualcosa,» rispose Aphrodite, perplesso. «Ma non sono le piante, è come un rumore di sottofondo, come quando si è in mezzo a Piazza Syntagma gremita di turisti e sentiamo una canzone in un bar. Eppure, questo rumore, non riesco a capire bene, ma sembra quasi che stia innalzandosi, come un crescendo. O almeno, percepisco qualcosa di simile. Non so come descriverlo, so solo che è quasi ipnotico, ecco».
«Davvero? Io non sento niente».
«Sul serio?»
«Sicuro». In altre occasioni il tuo linguaggio sarebbe stato assai meno forbito di così, ma quel posto, ancor più delle Tredici Case, ti incuteva rispetto e un vago senso di timore. Eppure, a parte le colonne, era una fortezza completamente naturale. Forse era proprio per questo che ti suscitava questa sensazione che ti legava la lingua. Proprio tu, che eri il più sboccato tra tutti loro messi insieme.
Se Aphrodite fosse stato un po’ meno pieno di sé ti avrebbe anche canzonato, ma anche lui era succube di questo fascino che aleggiava nel posto. Perciò si limitò a scoccarti un’occhiata e a tornare a osservare la zona.
A un tratto usciste dalla grotta e vi metteste a esplorare questa macchia mediterranea.    
Restaste in contemplazione del luogo ancora per un po’. Poi, a malincuore, lo lasciaste e tornaste indietro, verso le Dodici Case.    
  
Aldebaran
I lavori procedevano a rilento anche a causa della scarsità di materiali, ma Atena vi aveva promesso nuovi materiali entro la fine della prima settimana di novembre. Avevate cominciato a ricostruire anche la Tredicesima, ma ci sarebbe voluto un po’.
Quel pomeriggio dopo pranzo stavi aiutando gli operai a spostare i sacchi di cemento. Passasti accanto ad Aldebaran e Aphrodite (strano che il Cavaliere dei Pesci stesse ancora resistendo, di solito alle parole “lavoro manuale” se la dava a gambe. Si vede che il suo orgoglio l’aveva presa come una sfida personale) stavano parlando di un sogno. Ti avvicinasti incuriosito e gli chiedesti di raccontare, dopo aver chiarito che non stavi origliando, «Magari posso aiutarti».
«Sì, forse può darsi».
E, ti raccontò di questa donna abbigliata in un mantello blu sfrangiato con cappuccio, che lasciava vedere solo le mani, che imponeva ad Aldebaran di riferire un messaggio. «Sì, peccato che non ho compreso quale».
«Sei sicuro che non abbia detto niente di niente?» Indagasti appoggiandoti al muretto. Il gigantesco custode della Seconda alzò le spalle e fece una faccia confusa. La stessa espressione che gli vedesti anni prima, quando Alcor e Mizar di Hilda di Polaris lo sconfissero.
«Sicuro, è da un mese che faccio questo sogno ricorrente ormai, e, credetemi, le ho provate tutte, non so più che pesci pigliare». Figurarsi te. Però: «So che il Gran Sacerdote ha proibito la telepatia, però, lasciami dare un’occhiata ai tuoi sogni, Aldebaran».
«Sei sicuro?»
«Sicurissimo».
Così tu potesti vederlo e comprendesti. «Il messaggio è chiarissimo. La donna si riferisce a una persona, Astrid, questo caso. Il testo del messaggio sono quelle luci a intermittenza. Ma io ho potuto vederle chiaramente, non sono luci, sono stelle; una rossa, una bianca, una gialla, una blu e una nera. Il messaggio può essere interpretato così, dille che ha bisogno di queste cinque stelle».
«Sì, ma per fare cosa? E, dove le trova cinque stelle? Voglio dire, non sono mica come gli zaffiri dei precedenti guerrieri divini di Odino, che servivano per evocare la sua spada, no?» Anche voi conoscevate la storia dell’impresa dei Bronze. Li avevate tenuti d’occhio e, tu in prima persona, ti eri recato in quelle terre gelide. Chi meglio di te lo sapeva? «In effetti questo non lo so.» Ammettesti.
«Bè, sicuramente senza di te sarei ancora rimasto a brancolare nel buio». Decretò Aldebaran con un sorriso grato e tranquillo mentre Aphrodite commentava, cingendosi gli stinchi con le braccia, in quella posa annoiata che lo caratterizzava e gli dava ancora più fascino: «E con questo siamo a sette».
«Sette cosa?»
«Sette cavalieri che hanno a che fare con Astrid».
«Oggi parli come Mur, che cosa intendi, Aphrodite?»
Prima che uno dei migliori amici di Death Mask potesse parlare, una voce alle vostre spalle lo interruppe «Parlate di Astrid?» Domandò. Vi giraste e vedeste Milo arrivare. Anche lui aveva legato i capelli onde evitare di sporcarli più del necessario. E, anche lui, puzzava di sudore come una fogna a cielo aperto, aveva delle occhiaie da record i vestiti sporchi e le braccia infilate fino al gomito in una polvere grigia che ti ricordava una specie di pirata metropolitano che si era dato all’arte selvaggia e aveva infilato le braccia fino al gomito nel cemento fresco. Roba che se lo avesse Death lo avrebbe preso in giro senza pietà per una settimana intera. Qualcosa ti disse che Kanon si stava prendendo una sorta di vendetta inconscia sulle quattordici punture che gli aveva inflitto durante la Guerra Sacra contro Hades. Anche perché sapevate tutti che lo aveva ringraziato per la redenzione concessagli. Ma si, sa, stavi pur sempre parlando di Kanon, quando mai non perdeva occasione di esercitare il suo innato sadismo? L’ira per essersi ritrovato a fare il vigile urbano alla Sesta gli doveva aver fatto dimenticare i suoi sensi di colpa. Sperasti per il bene di tutti che, una volta ricostruito il Grande Tempio, fosse tornato il Portavoce della Dea benevolo che conoscevate.
«Sì, esatto.» confermò Aphrodite un po’perplesso e guardingo, poi materializzò dal nulla una delle sue rose: «Posso unirmi anch’io alla conversazione, allora?»
«Certamente, immagino che tu voglia parlare di quello che sta succedendo». Tentò di indovinare Aphrodite. A volte parlare con lui era come giocare a scacchi, per come misurava le parole e sceglieva quello che dovevi sapere e quello che non dovevi sapere. Forse perché era uno stratega nato, quasi al pari di Saga e Kanon, considerando poi che Milo faceva parte della fazione dei No, era anche più che giustificato. Anche tu a volte eri stato trattato con la sufficienza per come ti eri approcciato al veterano, le prime volte. Però ti eri accorto di essere cambiato, anche se restavi molto più loquace ed espressivo del tuo Maestro eri comunque più vivo. Anche se non ai livelli della tua infanzia. La cosa che più ti sorprendeva era che nonostante lo scompiglio non vi foste ancora divisi: la vostra fratellanza restava in piedi. Però era un bene che finalmente vi metteste a ragionare e parlare tra di voi: dai tempi di Asgard e dai Fatti Senza Volto non vi eravate mai posti nessuna domanda. Anche perché sapevate cavarvela da soli, e, l’investigatore del gruppo era Aiolia. Anche se quella più intelligente era Shaina. Se non fosse stato per lei, neanche tu avresti mai capito che il tuo Maestro dell’altra dimensione e l’ex Saint della Vergine stavano attaccando la Terra per salvare qualcuno. Forse era il caso di chiamarla, o forse l’avresti messa a parte delle tue riflessioni in separata sede.
Ora che ci pensavi era strano. Succedeva sempre qualcosa in tempo di Guerra. Però era la prima volta che sembrava che la guerra fosse quasi avvenuta in funzione di qualcos’altro. O meglio, qualcun altro. Dopo mesi ti tornarono alla mente le parole gridate dalla Dea della Caccia: «Atena! Dove la nascondi, maledetta?»
«Che hai, Kiki? Ti sei incantato?» Ti richiamò Aphrodite.
«Stavo riflettendo». Mormorasti.
«Su che cosa?»
«Le parole urlate da Artemide durante l’assalto a Grevena, ricordate?»
«Come dimenticarle». Commentò Milo, poggiando le mani sul muretto. Il viso rivolto verso di te. Sembrava quasi un barista appoggiato al bancone. Anche se la maglia rossa gli dava più l’aspetto di un pirata. «Io pensavo che si riferissero a una persona, per essere precisi al Custode della Luce Ombrosa». Vi confessò. Era la prima volta che mettevate le informazioni in vostro possesso tutte insieme. Il festino di Shura non contava, avevate passato più tempo a divertirvi che a parlare di cose serie.  
«Sì, ma chi è questa persona? Perché tutti la cercano? Che cos’è mai questa Luce Ombrosa? Ecco, io questo mi domando». Chiese Aphrodite, ritrovando la sua parlata semi aulica.
«Io penso che possa avercela Astrid». Disse Milo. Lo guardaste tutti. E, Aphrodite lo rimbeccò: «Ma non dire assurdità, lei non può essere la custode della Luce Oscura…»
«Ombrosa» lo correggesti in un sussurro e questi replicò, stizzito senza neanche guardarti: «É uguale. Non può essere lei, per me tu, Shura, Aiolia, Seiya e Hyoga vi siete fissati su di lei. Non può succedere niente che le date sempre la colpa. Tu specialmente, si può sapere che cosa ti ha fatto? Ti ha persino aiutato a salvare Kanon dall’Albero del Conflitto. Non è che non le hai ancora perdonato il fatto di essere così simile a Camus?» Aphrodite doveva essere uscito di senno per parlargliene così apertamente. Infatti, fu strano che Milo non gli avesse mollato un cazzotto in coda al Restriction. «Camus non c’entra niente con questa storia!» Ribatté in tono secco, l’espressione minacciosa e i muscoli irrigiditi. Aldebaran li rimbeccò in tono fermo e paterno che vi ricordò come mai nessuno mancava mai di rispetto al custode della Seconda Casa: «Buoni, non mettetevi a litigare, non è il momento». 
Milo riprese, cercando di darsi un contegno. Non stava bene che voi Cavalieri bisticciaste come bambini, anche se riconoscevi, che, sotto questo punto di vista, Milo e Aiolia erano i più vivaci tra voi: «Anche se è vero che le diamo la colpa di un mucchio di cose, non significa che oggi la stessi accusando. Cosa credete, che mi piaccia battere sempre sullo stesso tasto? Io punzecchio, mica irrido».   
«Sì, sì, Milo, la conosciamo tutti la tua proverbiale ironia». Commentò Aphrodite roteando gli occhi. Le braccia incrociate.
 Il vostro collega assottigliò gli occhi chiari prima di dire: «Farò finta di non aver sentito. Dicevo, io mi sono fatto l’idea che Astrid c’entri qualcosa con questa storia. Voglio dire, abbiamo aumentato la sorveglianza nelle zone dove sappiamo essere custodita una reliquia della Titanomachia ma non sono neanche state toccate, né durante la Guerra né dopo. Poi Eris che si ripresenta dopo quasi trent’anni e per di più ci invade e quasi ci distrugge dall’interno? Dal cuore stesso del Santuario? No, secondo me qui c’è qualcos’altro in ballo, qualcosa di più grosso».
«Il ragionamento non fa una grinza. Tu che dici che possa essere?»
«Onestamente non ne ho la più pallida idea».
«Anch’io penso che la nostra amica c’entri qualcosa».
Appena la parola amica uscì da quelle belle labbra, lo fissaste come se avesse bestemmiato: prima di Shura e Death non aveva mai incluso nessun altro nella sua cerchia di amicizie. Astrid per lui era passata da conoscente a protetta e ora persino amica? Cosa stava succedendo? Fortuna che nessuno di voi glielo fece notare perché vi sareste scontrati con la sua ostinazione. «Voglio dire, le Creature che la temono, le sue mani, la sua persona, i suoi poteri. E, prima di giungere qui, le stelle che scompaiono e scompaiono ancora. Poi le Armature che si muovono e si ribellano a noi, i loro legittimi Cavalieri. Death Mask e io che siamo stati resuscitati da lei, Shura e Aiolia che giurano di aver visto il suo spirito restituirgli lo scettro di Atena, Aldebaran che fa un sogno ricorrente da quasi un mese su di lei, Kiki e Mur che si schierano dalla sua parte come me e Death. E ora anche il suo canto e il luogo che abbiamo trovato». Solo a te non era sfuggita l’espressione di Milo, quando il Cavaliere dei Pesci aveva proferito la parola sogno.
No, forse ti sbagliavi. Non era possibile.
Eppure la sua faccia era tornata ad essere quella di sempre.
«Allora l’avete visto anche voi?»
«Sì ed è stato strano, era come se quel luogo fosse impregnato di Cosmo».
«Una colonna di Cosmo?»
«No, era come se lì il Cosmo avesse deciso di far nascere quella boscaglia».
«Sarà la solita boscaglia dove si rifugiano i drogati e gli immigrati la notte, Aphrodite, non è niente di particolare». Disse Milo.
«Ti sbagli, in quel posto oltre a noi non c’erano altri esseri umani, o meglio, la vita c’era però era come essere finiti in un altro mondo, uno di quelli delle leggende sui boschi, ecco». 

Shura
Tornaste più volte a quella boscaglia, aspettandovi di vederla scomparire da un momento all’altro. Ma quella era sempre lì.
Cosa cercavate di preciso? Non lo sapevate neppure voi. Quel posto, nella sua aspra bellezza e nella sua salata dolcezza, aveva la capacità di farvi dimenticare i vostri propositi. Proprio come le terre incantate degli spiriti di cui conoscevi le leggende.
Se l’andata dava la stessa sensazione di partire per un’avventura, di quelle che si leggono nei libri, rincasare era quasi come tornare da un altro mondo dopo anni di lontananza.
Non come quando risorgeste come Specter per opera di Pandora, questo era diverso, era come uscire da un cerchio fatato. Non credevi per principio che esistessero, ma tu eri un Cavaliere di Atena, no? Allora chi eri tu per dire che fosse impossibile? Anche perché rilevaste un curioso fenomeno che i tuoi compagni attribuirono alla distorsione temporale: ogni volta che tornavate scoprivate che erano passate quasi dodici ore. Eppure vi sentivate come se ne fosse appena passata una.

Mentre i tuoi compagni sbadigliavano, senza neanche accorgersi dell’aurora imminente, tu guardasti il tuo orologio da polso e lo scopristi bloccato a quella che presumevi fosse l’ora in cui eravate entrati nella grotta.
Ti guardasti indietro girando la testa sopra una spalla e lanciasti lo sguardo verso le montagne. “Che diavolo sta succedendo?”
Che si stesse approssimando un’altra calamità naturale o ci fosse di nuovo lo zampino di un’altra Divinità? L’istinto ti diceva che c’entravano gli Dèi. Sì, ma chi? 
 
Castalia
Eri stata mandata in missione in via del tutto straordinaria.
Il tuo lavoro di fisioterapista era molto importante per il Tempio, ma il Gran Sacerdote non aveva voluto sentire ragioni. Il motivo per cui aveva scelto te era molto semplice, non eri soltanto una grande guerriera e una maestra di Saint. «Sei stata la prima persona a cui ha rivolto la parola a causa dello shock. Tu sola sai cosa sia successo, non c’è nessuno meglio di te per ereditare questo compito».
Nonostante le parole carezzevoli del Patriarca (che tendeva a usare questo tono mellifluo con tutti) non te l’eri sentita di andare da sola. Con tutti i danni che avevate subito, il ricordo delle ferite di Paradise sarebbe stato meglio non essere soli.
Rabbrividisti nel rammentarle. La Dama degli Smeraldi era un avversario da non sottovalutare. Così l’aveva soprannominata il Gran Sacerdote quando vi aveva affidato questo compito. Addirittura ti aveva sorpreso sapere che lui teneva già d’occhio quella setta da tempo e che aveva già udito voci in merito alla presenza di questa misteriosa persona.
In ogni caso tu avevi dalla tua l’esperienza e l’intelligenza; eri una veterana di guerra e una dei pochi superstiti a non aver riportato ferite durante lo scontro con Artemide ed Eris. 
Anche Shaina si era salvata. Ed era anche per questo che l’avevi scelta come compagna di missione. Dopo Mayura del Pavone e Orpheo della Lyra, era la più forte Silver Saint in classifica. Era una novità che era stata introdotta durante la dominazione di Mars, probabilmente per tenere meglio sotto controllo i Saint.
Se non fosse stato per la vostra esperienza sul campo probabilmente avrebbero mandato qualcun altro. Avevate fatto il bilancio ed era peggio di quanto immaginaste. Non solo Souma di Lionet e altri Saint erano scomparsi nell’Attacco e Kouga era ancora ferito, ma eravate stati decimati. Molti altri della Palaestra erano morti.
Non era mai successa prima una cosa del genere nella storia del Santuario.
Sapevate che le vostre vite sarebbero state brevi e che avreste dovuto perderle, prima o poi, ma non così. Così era spaventoso e sleale. Persino alcuni degli ex Gold Saint dell’usurpazione di tre decenni prima erano decimati. Ormai restavano Fudo e le Gemelle Paradox e Integra. Ed era stato impossibile salvarli per svariati motivi, non tutti imputabili alle Creature. 
Da poco ti era giunta voce che Kouga avesse ripreso servizio da poco apposta per Lady Isabel. Avevi ammirato l’allievo della tua compagna d’arme: pur sapendo di essere solo un sostituto di Seiya non aveva mai fatto una piega. Anzi, quando Seiya si era svegliato dal coma e aveva chiamato a sé la Bronze Cloth di Pegasus, Kouga non aveva esitato a restituirgliela. Era stato solo così che si era salvato dalla Guerra Sacra di quattro anni prima, insieme a tutti i superstiti della battaglia contro Mars e i Palassiti.

Avevi salutato Astrid e Seiya prima di andartene. Il dispiacere per averla lasciata sola non se ne andava. Avevi visto benissimo il suo turbamento e la sua fragilità. Aveva cercato di fingersi forte, quando non lo era per nulla. Per questo avevi chiesto a Shun di passare a trovarla e tenerle compagnia. Forse con una presenza amica si sarebbe sentita meglio.
Fortuna che la tua casetta non aveva subito danni rispetto alle Tredici Case ed era rimasta in piedi. Shun aveva assentito e quasi ti eri pentita di averlo chiesto a lui: aveva anche Natasha di cui occuparsi. L’ansia di Astrid era una brutta bestia.
Avevi temuto che le venisse una crisi e invece ti aveva augurato buona fortuna.
Con Seiya avevi speso un po’ di tempo a proposito di Kouga.
Stavi ripensando alla vostra conversazione e c’era qualcosa che continuava a non tornarti. Eravate già in volo per la Turchia quando l’avevi capito: lui sosteneva che Seiya lo avesse accudito finché non era stato catturato da Mars. Quando tu sapevi benissimo che, finché un giorno non si era alzato dalla sedia a rotelle e se ne era andato, lui non aveva più messo piede al Santuario o a Villa Thule. Aveva preferito essere dimenticato da tutti finché non si erano presentati i nuovi nemici in Giappone con il ritorno di Shura e degli altri Gold del passato.
Anche tu eri diventata una domestica della Dea in quel periodo. E ricordavi anche che stava versando Ichor per permettere agli universi di restare uniti. 
Secondo Shun probabilmente aveva sentito l’influsso delle dimensioni che si stavano unendo e da lì aveva tratto nuova forza. Ma il fatto che fosse successo anche questo, delle ferite del Cosmo Oscuro di Mars che non avevi mai visto… No. C’era qualcosa che non andava. Anche gli altri Bronze e Silver dei primi Duemila raccontavano una storia completamente diversa da quella che sapevi. Poteva anche essere perché avevi passato questi anni a fare da maggiordomo e guardia del Corpo della Divina, insieme a Jabu, a June e altri. Ma non per questo dovevi escludere tutte le ipotesi. L’assurdo era il tuo pane quotidiano per definizione, altrimenti saresti stata tutto fuorché una Saint.
Tuttavia eri sicurissima di ricordare che dal ritorno della battaglia contro l’Ophiuchus, che aveva seguito i Saint e la Dea in questo tempo, che Lei ne fosse uscita ferita.       

La vostra missione vi portò in Uzbekistan al museo Amir Timur dedicato a Tamerlano, signore della guerra, politico e riformatore, patrono della scienza, l'istruzione, il commercio, la cultura e l'artigianato, così diceva il dépliant pubblicitario.
Eravate arrivate a Sharisabz quella mattina stessa. Una città distante solo ottanta chilometri dalla celebre Samarcanda. E ti sorpresa anche sapere che la Dama degli Smeraldi era stata avvistata qui, nella cosiddetta Città Verde e verde lo era davvero.
Secondo Internet è una delle più antiche città dell’Asia Centrale e fu qui che Alessandro Magno incontrò la moglie Rossane nel trecentoventotto trecentoventisette avanti Cristo. Non era strano che proprio qui si trovasse il museo dedicato al condottiero mongolo: questa era la sua città natale e il suo corpo riposava nel cimitero della città.
Tra i suoi monumenti c’erano le rovine del palazzo di Aq Saray, il palazzo estivo di Tamerlano e il Complesso di Hazrati Imam con la tomba del figlio prediletto del condottiero e la Tomba di Timur. Altro nome di Tamerlano, scoperta nel Millenovecentoquarantatré si sa che è sua perché furono rivenuti bare e monolitici blocchi di pietra sui quali le iscrizioni rivelano la destinazione d0suso di sarcofagi per Tamerlano. In realtà l’emiro fu sepolto a Samarcanda nella Gur-e Mir.  
Ti venne da pensare che ti trovavi molto vicina al Kazakistan, dove Aiolia incontrò per primo le Creature. Pensasti immediatamente che non fosse normale che un altro Saint fosse stato spedito qui.
Sollevasti gli occhi sull’edificio, mentre Shaina mangiava un panino accanto a te. Ormai si era abituata a indossare la maschera solo se doveva combattere o era al Santuario. Avresti voluto avere la sua stessa disinvoltura.
E anche indossare qualcosa di verde, data la moltitudine di alberi che la città recava.
La città aveva attuato dei piani di fuga per sfuggire alle Creature e i superstiti della prima ondata stavano cercando di salvare il verde pubblico piantando più alberi. Restava solo da vedere se avrebbero attecchito o no. Per te era un grosso spreco, con le Creature in circolazione sarebbe stato meglio aspettare la fine della probabile Guerra Sacra.
Cominciavi a pensare che Astrid non fosse inficiata a caso in tutto questo. Se aveva il potere di controllare (tanto per citarne uno) le Creature e si erano manifestati guerrieri come la Dama degli Smeraldi allora un’altra Divinità stava per fare la sua comparsa. E difficilmente avrebbe chiesto aiuto al Santuario.
Da quando le dimensioni si erano unite, non potevate sapere che cosa avreste dovuto aspettarvi.
Avevi condiviso i tuoi dubbi con Shaina durante il volo e il tragitto in autobus. Le linee turistiche erano state spostate in quanto vigeva la legge marziale.
In Uzbekistan avevano deciso di usare direttamente l’artiglieria pesante. Se la memoria non t’ingannava sapevi anche che erano in trattative con la Cina per l’acquisto di nuove armi da usare contro le Creature.
Nessuno dei capi di Stato aveva voglia di attendere la Divina Atena per risolvere questa crisi. Così, dopo i primi litigi tra per decidere se le Creature fossero una qualche sorta di arma chimica progettata da chissà chi. Anche se il Presidente degli Stati Uniti d’America fornì discorsi uno più contraddittorio dell’altro, dove asseriva che fossero sue e che poteva venderle al miglior offerente, il web si era già mobilitato per smontarlo e dimostrare che in realtà il Presidente degli USA non aveva niente in mano. Supportati dal ministro della difesa in persona, le polemiche avevano trovato una loro conferma ed era stato proclamato lo stato d’emergenza.
Cavalcando quest’onda, molti stati americani, spaventati dal genocidio, avevano revocato la pratica dell’aborto, facendola diventare illegale con la scusa di “salvare future vite”. La cosa che ti sorprendeva di più era che molti cittadini ci fossero cascati. Così, mentre l’America si metteva nei guai da sola l’Onu e la Nato arrivavano alla conclusione che le Creature non appartenevano a nessun governo e che erano impossibili da studiare, figuriamoci da catturarle.
Addirittura era stato mandato proprio il Silver Saint di Ara a spiegare alle Nazioni Unite e alla Nato che cosa fossero. Dopodiché aveva conferito anche con i Capi Religiosi, che avevano afferrato un po’ più rapidamente il concetto, nonostante i pregiudizi. Ovviamente anche qui alcuni sacerdoti di varie religioni avevano cavalcato l’onda per fare il bello e il cattivo tempo ed erano sorti nuovi “culti” proprio sulle Creature.
Quello che davvero ti preoccupava erano le sette. Chissà loro cosa si sarebbero inventati. Ma se Contact ti aveva insegnato qualcosa, allora avreste dovuto aspettarvi altri pazzi.  
Atterraste dopo
Anche all’aeroporto, prima in Grecia e poi a Samarcanda avevi avuto non pochi problemi a causa della maschera. Per fortuna avevano accettato la tesi secondo cui tu fossi rimasta sfigurata a causa di un’operazione andata male.
Poi quando avevano perquisito i vostri bagagli e avevano scoperto che eravate due Saint della Dea Atena vi avevano lasciato passare scusandosi, addirittura per il disturbo. Alcuni poliziotti si offrirono addirittura di offrire la loro scorta. Ma tu rifiutasti per entrambe in inglese asserendo che ve la sareste cavata egregiamente.
In realtà eri abbastanza stupita perché non pensavi che dai fatti di tre anni fa sareste stati così presi in considerazione.
Di solito non te ne fregava nulla del tempo, ma ammettesti che viaggiare come una persona normale ti destabilizzò. Anche scoprire che in Uzbekistan il fuso orario era più avanti di due ore rispetto ad Atene era destabilizzante. Guardasti Shaina, sembrava più a suo agio di te. Mentre tu avevi bisogno degli analgesici. Meno male che al viaggio aveva pensato lei, perché tu eri abituata a correre e superare le frontiere e le montagne quasi come se non esistessero. Queste cinque ore di volo erano state una tortura. Anche i passaporti e tutte le scartoffie burocratiche lo erano.
Avevate fatto colazione all’aeroporto e avevate preso l’autobus e, incuranti delle occhiatacce dei passeggeri, eravate arrivate a Samarcanda. Fortunatamente le persone se ne accorgevano che non eravate due semplici turiste in visita e vi stavano naturalmente lontane. Un po’come i bambini si tengono lontani dalle stanze buie.   
Questo fu un gran vantaggio.
In poco tempo arrivaste a Shahrisabz. In realtà avreste voluto entrambe fermarvi in un hotel e riposare un po’, ma visto che non era nel vostro stile e non eravate così stanche, decideste di mettervi subito al lavoro. Avevate sopportato fatiche peggiori di qualche ora di volo e qualche minuto di autobus.
Perciò vi recaste subito al Museo Amir Timur, da cui era partita la richiesta di aiuto. A vederlo sembrava il battistero di Raffello più schiacciato, ma con un candido portico circolare. A vederlo sembrava un grosso, elaborato sombrero dalla cupola azzurra. Sempre secondo i mass media, questa somigliava a quella del mausoleo Gur-i Amir a Samarcanda. Non era un caso: l’edificio era stato edificato secondo le tradizioni dell’architettura medievale. Tuttavia custodiva al suo interno moderni macchinari, cinquemila reperti di cui oltre duemila esposti.
In particolare la genealogia di Amir Temur, così era il vero nome di Tamerlano, la sua venuta al potere, le campagne militari di Sahibkiran, le relazioni diplomatiche e commerciali, di lavorazione, di miglioramento della città e del paesaggio, della scienza e dell'educazione allo sviluppo, e anche reperti relativi ai rappresentanti della dinastia Timuride: mappe, armi, monete di rame e argento, miniature, manoscritti rari, ceramiche, gioielli eccetera eccetera.
Stavate per attraversare la strada quando una ragazzina vi passò accanto. Nello stesso momento un motorino sbucò da una curva. Lei non se ne accorse. Allungasti rapidamente il braccio e la tirasti verso di te. «Stai attenta!» La rimproverasti. 
La scolaretta ti guardò esterrefatta, poi sentì gli improperi del motociclista che se ne andava e capì. Ti guardò con occhi riconoscenti e un sorrisone fiorì sul suo volto: «Grazie per avermi aiutato signora, posso fare qualcosa per sdebitarmi?» Domandò. Era una tredicenne con i capelli color mogano e gli occhioni color acqua che facevano bella mostra di sé su un visetto spruzzato da lentiggini. Il cuore ti si strinse in una morsa: quegli occhioni grandi ti rammentarono un altro paio. Più scuro ma dallo sguardo altrettanto innocente anche se pieno di rabbia per essere spedito ad Atene.
«Ma no, non ti preoccupare». Sorridesti dietro la maschera e le posasti una mano sulla spalla: «La prossima volta fa attenzione, va bene?»
«Lo farò!» Promise, poi vi salutò entrambe e se ne andò trotterellando via. Ragazzini, invidiavi la loro spensieratezza. Alla sua età tu stavi ancora insegnando a Seiya a combattere.
Raggiungesti Shaina che si era tenuta un po’ più distante e vi osservava. Non fece commenti, ma si vedeva che avrebbe fatto lo stesso se fosse stata un po’più attenta.  
La prima cosa che faceste fu andare dalla sicurezza e annunciarvi. I custodi vi fecero passare immediatamente e vi portarono dal direttore. 
L’uomo fu felice di vedervi e di esporre la sua richiesta d’aiuto. Aveva sentito anche lui quello che era accaduto al museo in Brasile e, quando aveva scoperto che il suo museo era stato preso di mira da questa setta, aveva inoltrato una richiesta d’aiuto alle autorità. Richiesta che poi era giunta nelle vostre mani.
Anche se a ben guardarvi, si adombrò un po’ e tu ti accigliasti. Non era che… «Scusate se ve lo dico signore», si scusò quando vi foste accomodate, «ma mi aspettavo dei Saint». Ecco, appunto.
«Ma noi siamo Saint. Per questo quando combattiamo portiamo la maschera». Ribadì Shaina infastidita, trapassandolo con lo sguardo e calcando volutamente l’accento sul verbo. Anche se accomodata sulla poltrona era comunque una guerriera e i suoi occhi erano capaci di fulmini letali quanto le sue unghie violacee.  
L’uomo corse immediatamente ai ripari: «Non fraintendete signora, non era mia intenzione offendere, ma non vorrei che le vostre forze risultassero insufficienti».
«Non ci giudichi in base alle apparenze, le possiamo assicurare che siamo sopravvissute a molte battaglie. Allora, ci dica, come avete saputo che il museo è stato preso di mira?» Sviò la tua compagna d’arme parlando con finta calma. In realtà la conoscevi abbastanza bene per dire che stesse trattenendosi dallo sbraitare. Anche tu ti eri offesa, nessuno mai vi aveva trattato con tanta sufficienza. 
In un certo senso il Santuario era un ambiente molto più progressista di quello che sembrava. Almeno voi Saint donne non eravate discriminate ma venivate giudicate in base alle vostre imprese.
Probabilmente quest’uomo pensava che gli avrebbero mandato un Gold o un Saint di sesso maschile in generale.
Ringraziasti la maschera per aver celato la tua espressione truce. 
«Per prima cosa come avete saputo della rapina?» Chiedesti, per togliervi subito da questa situazione spinosa.
«Ci è stato recapitato un biglietto proprio pochi giorni fa. Purtroppo l’originale è stato dato alla polizia, ma ne ho fatto la fotocopia». Spiegò il direttore tirandola fuori dal cassetto della scrivania.
«Per favore, fermateli, abbiamo reperti di inestimabile valore, qui». Vi implorò quando ve lo passò.  
Sembrava di essere finite in un film: era la prima volta che vedevate un biglietto come questo, con le parole tagliuzzate dal giornale. In persiano. Disgraziatamente nessuna delle due conosceva questa lingua. Fu proprio il direttore a spiegarvi cosa c’era scritto, traducendovelo. E così la Setta dei Dieci Coltelli avrebbe colpito a mezzanotte precise, nella sala dei gioielli di Tamerlano.
«Quella sala è chiusa al pubblico per ristrutturazioni, l’ultima ondata di quelle Creature ha danneggiato il tetto e parte di uno dei muri. Anche se è solo lo strato più esterno c’è tutto l’impianto elettrico da rifare». Vi spiegò preoccupato intrecciando le mani sotto al mento. Entrambe lo guardaste, non avevate mai visto un uomo più tormentato. «Anche il magazzino e le apparecchiature hanno subito dei danni come quasi tutta la struttura. Siamo riusciti a preservare i tesori e stiamo lavorando per riuscire a salvare quelli seriamente danneggiati, per questo non possiamo permetterci di perdere anche quei ritrovamenti. Fanno parte della storia del nostro paese, vi prego».       
Prometteste che avreste fatto del vostro meglio. Poi vi alzaste e, dopo esservi accomiatate, andaste a cercare un hotel in cui sostare.
Ne trovaste pochissimi, molti avevano chiuso i battenti a causa delle Creature, mentre altri continuavano a restare aperti e a resistere. Riusciste ad affittare una camera e a riposare per qualche ora.
Nel pomeriggio tornaste al Museo. Avreste fatto bene a cominciare a studiare il campo di battaglia prima di commettere mosse false. L’accorato appello del direttore ve lo imponeva: non avreste mai permesso che un pezzo di storia venisse cancellato. 
Mentre esploravate le varie sale, cercando di ignorare la folla che vi lanciava qualche occhiata (soprattutto a te), ti accorgesti che in una delle sale meno illuminate c’era qualcuno. Era una ragazza di sedici anni che era seduta sulla panca davanti a uno degli arazzi. Era intenta a disegnare su un album da disegno adagiato sulle gambe accavallate. A volte alzava gli occhi per controllare l’opera originale e poi li riabbassava sul suo lavoro. La chiamasti con un: «Ehi». Sussultò e volse la testa verso di te, gli occhi grandi così.
Trasalisti: sembrava la copia sputata di Lady Isabel a quindici anni. «Lady…» Mormorasti ma ti fermasti subito. Non era Lei. suoi capelli erano mossi e più corti di quelli della Dea. Le coprivano il petto ed erano acconciati in boccoli verso le punte. Non aveva neanche la frangetta ma delle lunghe ciocche che le scendevano ai lati del volto, incorniciandoglielo. «E tu chi sei? Come hai fatto a entrare in quest’ala?»
Lei ti guardò confusa e disse in un inglese inframmezzato da un accento persiano. «Dice a me?» Sembrava osservarvi da un mondo molto lontano. Probabilmente era ancora tutta presa dal disegno da non essersi accorta di nulla. 
«Sì, dico a te, come sei entrata qui?»
«É vietato? Oh Allah, mi scusi, mi scusi!» Esclamò allarmata, tornando definitivamente alla realtà. Immediatamente chiuse l’album a spirale con la copertina nera e cacciò rapidamente il lapis e la gomma nello zaino. E guadagnò a rapidi passi l’uscita. «Scusi ancora». Esclamò quando ti raggiunse. Solo allora notasti che aveva gli occhi scuri, le labbra più carnose, le sopracciglia più folte e spesse e la pelle era color terra di Siena.
«Non lo direte a nessuno, vero?» Chiese la giovane, guardandoti preoccupata. Poveretta, ti fece una gran pena. «Io non ti ho visto», garantisti sorridendo dietro la maschera. La sua faccia si illuminò di gratitudine.«Grazie, signora!» Esclamò tutta felice, poi se ne andò rapidamente in una sala il cui accesso non era interdetto al pubblico.
Scuotesti il capo sorridendo divertita dietro la maschera. Era bello vedere ragazzini spensierati e distratti anche in tempi così. Era segno che la vita continuava ad andare avanti, cercando di combattere la morte e le disgrazie. 
Andasti da Shaina che era ancora nella sala adiacente ad ammirare i reperti. «Ci pensi mai a quanta storia stiamo ammirando?»
«Sì, a volte sì».
«Sai, a volte sento il peso della Cloth, di tutti i miei predecessori e mi rendo conto che, in un certo senso, anche noi non siamo molto diversi da questo museo. Trasportiamo delle reliquie sulla nostra stessa pelle». Commentò la tua collega. La treccia scura adagiata sulla spalla sinistra. Con i capelli legati sembrava molto più docile e affabile di quando era più giovane. «Tu la senti?»
«Sì, a volte la sento anch’io».
 
Quella sera, Cloth indosso, attendeste che i ribelli della Setta colpissero ma non accadde nulla. Dopo la mezzanotte tu e Shaina vi guardaste perplesse. Strano, eppure lì avevate visto che era esposta una ClothStone. I vostri informatori vi avevano assicurato che avrebbero colpito proprio qui.
Perché allora tardavano tanto?
Restaste a vegliare e ad attendere tutta la notte, ma non venne nessuno e nessuno fece irruzione.
La mattina dopo, quando i guardiani andarono ad aprire e il direttore entrò gli parlaste del vostro buco nell’acqua. 
Quella mattina il direttore del Museo sembrava di pessimo umore. Vi guardò entrambe come se foste due imbecilli. «Mi ha chiamato il mio collega del museo Gur-i Amir!» Vi annunciò e poi vi spiegò che il colpo si era svolto laggiù a ottanta chilometri da voi.
Entrambe restaste di sasso. «Cosa? Ma il biglietto…»
«Perché non ci siete arrivate subito? Siete due Saint anche voi e adesso un pezzo di storia del nostro paese è andato perduto!» Vi sgridò infervorato e poi si diresse nel suo ufficio dopo aver borbottato che avrebbe sporto reclamo presso i vostri superiori. 
Entrambe vi guardaste. Non ci voleva molto per capire che quel biglietto fosse un’esca. Altro che film. La verità era che la Dama degli Smeraldi vi aveva fregate.
«Come è stato possibile? Siamo state qui tutta la notte». Esclamò Shaina dopo che il direttore scomparve alla vostra vista.
«Ci siamo lasciate ingannare dal biglietto. Avremmo dovuto immaginarlo che fosse un bluff».
La tua compagna d’arme strinse il pugno, frustrata. «Sì è vero». Ammise dopo un verso di stizza.
«Però come è possibile che ci siano sfuggiti? Abbiamo anche tenuto d’occhio la situazione con il Cosmo!» E la vostra percezione era così elevata che potevate avvertire ogni cosa anche a chilometri di distanza. Non avevate rilevato nulla neanche a Samarcanda. E il direttore, per quanto sessista fosse, non sembrava aver mentito nel darvi quella notizia.  
«Cosa è andato storto, secondo te?» Le chiedesti.
«Non lo so, ma dobbiamo capire cosa fare». 
Volgesti il capo altrove e, i tuoi occhi scorsero le videocamere di sorveglianza agli angoli delle pareti.
Ti avvicinasti alla telecamera senza staccarle gli occhi di dosso. La lucetta rossa segnalava che fosse accesa.
«Shaina», la chiamasti, «secondo te le videocamere funzionano?»
La tua collega capì immediatamente dove stavi andando a parare.
Non c’era altra scelta che esaminare quei video e sperare in qualcosa.
Fortunatamente i filmati non erano ancora stati consegnati alle autorità. Li visionaste dalla mattina dopo un caffè e uno snack delle macchinette. Avevano proprio ripreso tutto. Compreso il non arrivo della sedicenne che tanto ti era rimasta impressa. Di punto in bianco lei era semplicemente comparsa nella sala e aveva cominciato a disegnare veramente. Nessuno aveva fatto nulla, era come se i custodi del museo non avessero visto nulla e non si fossero mossi per intervenire. Se l’avessero fatto li avresti visti. Non era possibile che nessuno si fosse accorto di lei. “Com’è possibile?” Pensasti sentendo il sangue gelarti nelle vene.
Era come se tu avessi appena assistito all’apparizione di uno spettro.
Poi, vedesti te stessa mentre incitavi la sosia di Lady Isabel a uscire. Quello che ti stupì fu che non aveva raggiunto affatto una comitiva, non ce ne erano.
Mentre l’ansia e la paura crescevano dentro di te, chiedesti di visionare altri filmati.
Vedesti la sedicenne in un’altra sala incontrarsi con la scolaretta coi codini che avevi salvato quella mattina. L’avresti riconosciuta tra mille, anche nel filmato in bianco e nero delle telecamere. La vedesti attraversare le varie sale e raggiungere la sosia della Dea. Si muovevano entrambe come se conoscessero questo posto a menadito, non come se si fossero date appuntamento. Era pure vietato scattare foto per via del flash e la sosia della Dea non aveva neanche estratto il telefono per tutto il tempo.
La tua mente cominciò a delineare i fatti di quella mattina.
Grazie alle diverse inquadrature fornite dalle telecamere, riuscisti a leggere le loro labbra e a capire ciò che si dissero.
«Allora?» Chiese quella più piccola.
«Allora niente, ho solo disegnato».
La più giovane lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi.
«Non trovi che sia un po’inutile da parte tua? Voglio dire, prodigarsi tanto per quella setta…»
Setta? Quale setta? Ma la sua amica la interruppe: «No, non penso, senza di me quegli incapaci non sarebbero capaci neanche di trovare i buchi delle narici». Ribatté senza nascondere il suo disprezzo. Improvvisamente ti accorgesti che il suo modo di parlare e le sue movenze non erano quelle di un’adolescente. «Quindi attaccherete stasera?»
«No, hanno chiamato due Silver Saint». Strabuzzasti gli occhi e fermasti il video.
Shaina ti domandò che cosa fosse successo. Tendesti istintivamente una mano verso di lei come a bloccarla. Shaina tacque ma si avvicinò repentinamente: «Che succede?»
«Sapeva chi eravamo». Rispondesti con un fil di voce.
«Chi?»
«Lei e anche l’altra. Non era un caso che le avessimo incontrate». Facesti indicando lo schermo. Anche Shaina riconobbe quei codini e domandò, intuendo tutto: «Quindi?» Facesti ripartire il video e traducesti anche per lei.
«Credono che io non mi sia accorta chi siano, ma ci vuole ben altro per fregarmi». Continuò senza allegria, ma anzi, con una punta di fastidio che ti fece accigliare. Com’era possibile e poi… Perché riuscivi a leggere le labbra così bene? Perché stava parlando così tranquillamente di questo davanti alle telecamere? Non aveva paura di essere riconosciuta? Aveva un bel coraggio a dire di voi quando lei stava facendo un errore tanto madornale.
Ci arrivasti dopo aver riguardato il video altre più volte: le capivi perché stavano comunicando in greco! Lo comunicasti anche a Shaina, che saltò su dalla sedia, stupita. «Cosa? Non è possibile».
Si avvicinò allo schermo a sua volta e tu le spiegasti tutto quanto.
«Come sapeva che noi siamo Silver Saint?» Domandò Shaina preoccupata, girando il viso mascherato verso di te.
«Non ne ho idea».   
Ci avevate rimuginato tutto il pomeriggio e poi la sera. Ovviamente con il benestare delle autorità che vi esentarono dal coprifuoco.
Alla fine avevate deciso di ripercorrere i punti salienti della giornata, ripercorrendo quelle strade e quelle stanze. Eravate convinte che così avreste potuto rimettere insieme i pezzi. Non sapevate come si investigasse di preciso, ma in questi decenni qualche serie TV l’avevate vista e qualcosa avevate appreso.
Shaina ti chiese di raccontarle tutto e di farle vedere dove l’avevi incontrata la prima volta.
Arrivaste all’incrocio prima della piazza che vi separava dal Museo. «Qui è dove abbiamo incontrato la ragazzina con i codini». Facesti fermandoti accanto a ciò che restava del semaforo.
«Probabilmente aveva il compito di rallentarci per permettere all’amica di entrare e passare inosservata». Ipotizzasti. Anche Shaina conveniva con te. Le uniche entrare erano quella di servizio e quella principale. Andando per esclusione, se la sua amica era passata di lì allora lei doveva essere passata dall’entrata principale.
L’accontentasti ed entraste nella sala proprio mentre il Sole stava tramontando e la luce abbandonava le pareti della stanza. 
«Era qui, te lo giuro era seduta proprio qui». Facesti indicandole la panca. «E stava disegnando» vi giraste dando le spalle alla panca e vedeste che davanti a voi c’era un arazzo. 
«E qui dici che è comparsa di colpo».
Il filmato l’aveva visto anche lei ma stentava ancora a crederci. Sapevate per esperienza che le persone non compaiono dal nulla: o si muovono molto velocemente, o sfruttano un passaggio segreto oppure erano già lì anche da prima. Che avesse contraffatto il video? Poco probabile. Ma che grazie al suo Cosmo potesse essere riuscita a eseguire una di queste tre manovre sopraelencate, quello sì, era possibile.
Vi guardaste entrambe. «Credo che quella ragazza sia un’informatrice della Dama degli Smeraldi. Non vedo in che altro modo avesse potuto scoprire che noi siamo Silver Saint. Probabilmente ha avvisato lei la Setta e così hanno cambiato piano». Concludesti mentre la sala sprofondava in una penombra innaturale a causa della scomparsa dei raggi del Sole.
«Siete state veloci: pensavo che ci avreste messo molto di più a capirlo!» Costatò una voce femminile sorpresa alle vostre spalle. Sobbalzaste entrambe e vi giraste di scatto. La riconoscesti immediatamente, anche se l’oscurità vi impediva di vederla. Gli smeraldi ovali della tiara e degli orecchini brillavano come non mai nella penombra delle luci di emergenza. Capisti perfettamente perché questo soprannome, adesso.  
Le luci di emergenza si accesero così poteste scorgerla meglio.
Non dimostrava sedici anni, ma ventiquattro e che le ciocche che incorniciavano il volto erano striate d’argento. Era seduta curva sulla panca, le gambe accavallate, i gomiti sul ginocchio e le mani a sostenere il mento. Un sorriso sornione le animava il viso, conferendole un’aria di arroganza che te la face disprezzare immediatamente. «Ma c’è un piccolo dettaglio che avete trascurato: io non ho informatori».
Trasaliste entrambe: «Tu! come hai fatto a entrare qui?» Esclamò la tua compagna d’armi.
«Io sono sempre stata qui.» vi assicurò in tono innocente.
«Impossibile, abbiamo fatto sgomberare il museo apposta». Ribatté Shaina.
«Indovinate, magari ci azzeccate.» vi sfidò ancora, con quel sorrisetto che fece infervorare ancora di più Shaina. La quale scattò leggermente in avanti e sollevò le mani, pronta a usare il Thunder Claw.
Era evidente che stesse giocando, ma perché? Non sapeva che voi Silver Saint eravate più potenti dei Bronze?
«Non ti conviene scherzare con noi». La minacciò Shaina.    
«Se lo dite voi.» concesse in tono di sufficienza, senza sciogliere la posa. Sembrava proprio che la sua minaccia non le facesse né caldo né freddo. Probabilmente era una maniaca del controllo e aveva pianificato tutto.  «Bè, quello che volevo sapere l’ho ottenuto, non ha alcun senso che io resti qui. É stato un piacere conoscervi». Si accomiatò. Poi disse: «Ah!», come quando ci si ricorda di colpo qualcosa. Sollevò una mano e vi mostrò tra due dita una gemma ovale di sei centimetri: era una ClothStone. «Se non vi dispiace, questa la prendo in custodia io». Sorrise.
«Tu!» Shaina le si scagliò addosso.«Shaina!» Ma prima che potesse toccarla, la Dama degli Smeraldi sparì. E gli artigli di Shaina affettarono solo l’aria. «Vigliacca, è scappata!» Ringhiò la tua collega raddrizzandosi.
Non l’avevate neanche sentita muoversi.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Scorpioni, Serpenti e Armature ***


Scorpioni, Serpenti e Armature


Castalia
Il mistero restava. Anche riprendendo a monitorare il video nella sala, non riuscivate a capire come avesse fatto a spostarsi tanto rapidamente da scomparire da un fotogramma all’altro. L’avevate anche visionati al rallentatore ma non avevate visto nulla.
Era come se non ci fosse neanche mai stata.
Non riuscivate a capacitarvi della tecnica che poteva aver utilizzato. Non corrispondeva a nessuna che conoscevate. Non che ne conosceste chissà quante. A malapena conoscevi tu quelle di Aiolia perché l’avevi visto in azione e ti aveva anche salvato la vita durante la Titanomachia. Shaina conosceva la sua forza perché fece da scudo a Seiya con il suo corpo quando fu mandato a combatterlo. Ma non avrebbe saputo neanche dire quale fosse la vera entità dei suoi poteri. Non avevate percepito nulla da lei. Neanche il Cosmo. Che fosse stata un’illusione? Non sarebbe stata la prima volta che avevate a che fare con un potere simile.  
Ti sciacquasti la faccia prima di indossare la maschera. Avevate passato una notte davvero agitata. A causa del vostro fallimento eravate state costrette a rivedere tutte le possibili strategie che potevate creare. E anche a fare i conti con voi stesse: non potevate più lanciarvi alla cieca e sperare nella vittoria come in gioventù. Con questo tipo di avversario dovevate giocare d’astuzia e di esperienza e questa non vi mancava. Anche se non era molto quello che avevate su cui basarvi per riuscire a bloccarla  «Eppure questo modo di combattere mi ricorda qualcosa».
Questa fu l’ultima cosa che vi diceste prima di andare a dormire.
L’indomani vi sareste recate a Samarcanda.

Fu davvero strano entrare nel mausoleo del condottiero di notte, illuminata dalle varie luci. Si diceva che fosse infestato ed era appunto per questo che eravate qui.
Il portale d'ingresso al complesso di Muhammad Sultan è decorato con mattoni incisi e vari mosaici. Le decorazioni del portale furono realizzate dall'esperto maestro Muhammad bin Mahmud Isfahani. Esternamente il Gur-e Amir si presenta come un edificio ad una cupola. È noto per la semplicità della costruzione e per la sua contemporanea solenne monumentalità: si presenta come un edificio ottagono coronato da una cupola azzurra scanalata. La decorazione esterna della muratura consiste di piastrelle blu, bianche e azzurre disposte secondo motivi geometrici, insieme ad epigrafi poste su una base in mattoni di terracotta. La cupola di quindici metri di diametro e dodici virgola cinque di altezza è  di colore blu brillante, decorata da stelle ed punti bianchi. Le scanalature sono fortemente evidenziate. Il portale fu costruito durante il regno di Ulug Beg per permettere infine l'ingresso all'interno del mausoleo.
Internamente il Gur-e Amir appare come una vasta ed alta sala dotata di nicchie profonde sui lati e variamente decorata. La porzione inferiore delle murature è composta da lastre di onice, montate come a formare un'unica fascia. Ognuna di queste lastre è finemente decorata con pitture. Al sopra dei pannelli si trova una cornice sporgente in marmo. Ampie porzioni delle murature sono decorate con intonaci dipinti; gli archi e l'interno della cupola sono invece trattati con altorilievi di cartapesta, dorati o dipinti. Le lapidi decorate a intarsio presenti nella stanza interna del mausoleo indicano l'attuale ubicazione delle tombe, in una cripta posta direttamente al di sotto della camera principale. Sotto il regno di Ulug Beg un blocco di giada color verde scuro venne piazzato sopra la tomba di Tamerlano. In precedenza, questa pietra era stata oggetto di venerazione all'interno del palazzo dell'imperatore cinese e, a seguire, trono di Kabek Khan (un discendente del più famoso Gengis Khan) nel Karshi. Vicino alla tomba di Tamerlano si trovano le sepolture dei suoi figli Shah Rukh e Miran Shah ed anche dei nipoti Muhammad Sultan e Ulug Beg. Riposa qui anche il maestro spirituale di Tamerlano, Mir Said Baraka. Avresti voluto soffermarti un po’di più, ma non avevate tempo.
I ladri erano già lì. Ma lì non c’era niente a parte la tomba del condottiero.
Qualsiasi cosa stesse succedendo la dovevate fermare, anche se sapevate che era una trappola.  Per questo saltaste senza indugio nell’area del mausoleo, mentre le guardie del Santuario organizzavano rapidamente il perimetro.
Faceste irruzione e vedeste cinque persone tra cui la ragazza, che si girò verso di voi. La giovane indossava un’aderente camicia verde con una scollatura profonda. Ancor più di quella di Lady Isabel. Il pendente della sottile collana a maglia piatta s’insinuava tra i seni e scivolava dentro la scollatura a V, che arrivava fino alla punta inferiore dello sterno. Le maniche a tre quarti ricamate. Le gambe fasciate da comodi leggins neri. Ai piedi portava degli stivali alti fino alla caviglia con un piccolo tacco. La camicia verde era tenuta stretta in vita da una sottile cintura nera. Una mantella di pelle nera le copriva la spalla sinistra e si allacciava sotto la spalla destra. Sulla fronte capeggiava un diadema con lo smeraldo che aveva rubato dal museo. Solo dopo vi accorgeste che le quattro ciocche mosse che le incorniciavano il volto erano argentee. Era come se le fossero sbiancate a causa di un fortissimo shock.
I compagni della Dama degli Smeraldi cominciarono a inalberarsi: «Cosa ci fate qui?», «No, ci hanno trovati, scappiamo», «Il colpo salta!» Lei, l’alfiere, li bloccò e loro si chetarono improvvisamente. «Cosa suggerisci?» Chiese uno dei ribelli dietro le sue spalle. Era molto più alta di loro. Quasi quanto un Gold Saint. Ma voi avevate affrontato di peggio, non vi spaventava di certo qualche centimetro in più.
«Il piano non subisce alcuna variazione, voi andate, mi occupo io di queste due». Garantì.
«Sei sicura di farcela?»
«Naturalmente, io me la caverò benissimo». Li rassicurò girando leggermente la testa a destra e a sinistra per guardarli.
«Va bene, ci fidiamo di te», «Buon lavoro» La salutarono quest’ultimi, sfilando via come ombre oltre voi due. Non avevate affatto timore di perderli di vista, avreste potuto rintracciarli tramite i Cosmi. Eppure, perché il suo non lo sentivate.
La giovane si pose le mani sui fianchi e vi osservò impassibile. Era come se credesse di avere il coltello dalla parte del manico. «Credete davvero che sarà così facile?»
«Non credere che anche a noi faccia piacere, l’altra volta sei solo scappata». Ribatté Shaina.   
La giovane sospirò. «Quand’è così allora…» Riunì i piedi di modo che i talloni si toccassero. Poi scomparve. Non percepiste neanche il movimento che vi abbatté entrambe, colpendovi di lato nello stesso momento. Ed entrambe franaste al suolo. Ma non era nel vostro credo arrendervi, nonostante il dolore. Eravate rovinate malissimo a terra.  
Tornaste all’attacco e di nuovo foste scaraventate a terra. «Perché non sento provenire alcun Cosmo da te?» Sbottò Shaina dopo l’ennesima volta che si rialzò.
«Eh, chi lo sa». Sorrise affilata la vostra avversaria. Tu le scagliasti il Ryuseiken e con vostra grande sorpresa, passò in mezzo agli attacchi a occhi chiusi. Riusciva a prevedere la traiettoria dei colpi e si scansava di conseguenza. Dannazione era esperta!
«Castalia, non fare movimenti bruschi». Ti fermò Shaina e tu volgesti la faccia mascherata verso di lei, la quale replicò: «Mi sono ricordata dove ho già sentito prima di una mossa del genere».
«Dove?»
«Da Claymore. É un manga che piaceva molto a Kouga quasi dieci anni fa. Una volta mi ha raccontato la trama, parla di un ordine di guerriere metà yoma e metà umane che hanno una forza diabolica. Ebbene, trattenendo per sette anni questa forza diabolica senza rilasciarla neanche una volta, queste Claymore sono diventate più forti. Può darsi che lei sia come loro».
Girasti la testa di scatto verso la sosia di Lady Isabel, che continuò a fissarvi impassibile. Poi sparì. Decidesti di emulare il suo stesso trucco e alzasti una mano appena un secondo prima che ti colpisse. In pieno petto, ma, con tuo enorme sgomento, la tua mano ci passò attraverso perché lei scomparve.  
«Ipotesi molto interessante ma, anche se il principio è lo stesso, mi duole informarvi che io non sono una Claymore. Non è necessario privarsi di un senso per raggiungere un determinato livello di potenza. Sfortunatamente per voi, non ci riuscirete mai». Annunciò alle vostre spalle e vi ritrovaste di nuovo al tappeto, schiacciate da una forza che non credevate che potesse avere. 
«Con permesso, devo prendere un paio di cosette». Fece poi passandovi in mezzo, mentre voi lottavate per liberarvi dal peso che vi schiacciava a terra. Non sapevi che tecnica fosse, ma era come se vi fosse caduta addosso la cupola del mausoleo. Tu avevi già subito qualcosa di simile durante la Titanomachia, ma Shaina no. La tua compagna urlò di dolore e si accasciò a terra.   
Si era avvicinata alle tombe quando bruciasti il tuo Cosmo. Non le avresti mai permesso di fare alcunché ai morti. Il tuo esempio stimolò Shaina che, pur continuando a gemere di dolore e piangere ti imitò. Con uno sforzo sovrumano persino per voi e molte grida, riusciste a rialzarvi.
La ragazza se ne accorse e si fermò. Si girò e vi guardò senza dire niente, mentre riprendevate fiato. Le membra doloranti.  
Credeva davvero che vi sareste arrese tanto facilmente? Non aveva proprio idea di con chi avesse a che fare. La sosia di Lady Isabel vi lanciò un’occhiata ferma ma assai infastidita. «Seriamente? Ancora?» Vi guardò rassegnata come a dire: “Ma voi non vi arrendete mai?”. 
«Siamo Saint di Atena, non è nel nostro credo arrendersi».
«Certe volte non farebbe male». Vi rimbeccò.
«Prima dimmi una cosa, perché quando ti ho visto ieri mattina dimostravi sedici anni e ora ventiquattro? Qual è la tua vera età?»
La vostra interlocutrice ampliò il sorriso: «E perché mai dovrei dirvelo? Anche se lo sapeste non cambierebbe niente».
Cambiasti domanda. «Almeno questo è il tuo vero aspetto?»
«Certo, che domande!» Esclamò indignata. Quindi con le illusioni riusciva a mimetizzarsi. Probabilmente anche la tecnica di prima era un’illusione.  
A questo punto fu Shaina a domandare: «Cosa ci fa una ragazza potente come te con una banda di ribelli? Da che ordine sei stata cacciata? Perché una come te non mette i suoi talenti e la sua forza al servizio degli Dèi? Cosa ti hanno fatto perché tu debba unirti a quella setta? Non sei costretta a rubare per compiacere nessuno!»
Se speravate che queste parole potessero sortire una reazione vi sbagliavate di grosso. La donna vi guardò impassibile e rispose, serafica: «Veramente sono venuta qui per riprendermi ciò che mi appartiene di diritto, il furto l’hanno commesso proprio sotto al vostro naso e li ho fatti uscire come avevo promesso. Già che ci siamo vi svelo un altro segreto, sicché mutiate un po’la bassa opinione che avete di me. Io non cerco nessuna vendetta e non sono stata cacciata da nessun ordine affiliato a nessun Dio. Semplicemente le loro strada coincidevano».
«Cosa? Che vuol dire?» Eppure avevate continuato a monitorare i loro Cosmi anche durante la lotta ed erano ancora dentro l’edificio. Essendo ormai delle guerriere esperte lo potevate fare senza problemi.
«Ma io li sento ancora, come…» Esclamasti tu.
«Eh, chissà come». Rispose enigmatica sempre con quel sorriso affilato, intrecciando le mani dietro la schiena.
Ci metteste poco per capire: «Il Cosmo! Hai usato il tuo Cosmo per occultare la loro fuga!»
«Corretto solo a metà. Ho usato il mio Cosmo sì, ma per intrappolare voi. Voi non dovete interferire in questa storia». Decretò poggiandosi una mano sul fianco. E fu come se avesse espresso una sentenza che la costatazione di un fatto.  
«Furto o no recupereremo quelle ClothStone e tu sarai arrestata! Riponi subito quelle gemme nella teca!» Comandò Shaina.
La giovane abbassò gli occhi, si sfregò gli angoli della bocca con il pollice e l’indice e lasciò scivolare le dita fino a farle convergere sul mento.
Poi le lasciò ricadere e sollevò il capo. Un sorriso divertito animava la sua faccia: «Perché, altrimenti?» Domandò, inarcando le sopracciglia. Se tu, non cedesti alla provocazione, la tua collega e amica scattò un passo avanti e sibilò: «Altrimenti ci vedremo costrette a usare le maniere forti».
La ladra incrociò le braccia e alzò gli occhi al cielo: «Che palle, voi Saint siete noiosi; non sapete fare altro che ripetere sempre le stesse cose».
Tu studiasti il suo linguaggio del corpo: aveva una postura rilassata, anche troppo. Come se fosse molto sicura di sé stessa o come se fosse certa che vi avrebbe battute, al punto da mostrarvi il fianco. Ma poteva anche essere una trappola.
Non l’avevate affrontata l’altra volta ma stavolta non ve la sareste lasciata sfuggire. Shaina dovette giungere alle stesse conclusioni perché non si mosse.
Ciò che vi rivelò catturò la vostra attenzione. Come poteva essere tanto sfacciata da dirvi tutto senza timore di sorta? Chi si credeva di essere? «Hai già incontrato un Saint?» Indagasti.
«Eh, molte volte». Ribatté, riprendendo a guardarvi, ma, in compenso, stendendovi tutte le informazioni. «L’ultima prima di voi è stato circa un anno fa, quando ero in Brasile. Solo che il disgraziato che fu incaricato di proteggere le ClothStone ed ebbe la pensata di fermare il Drago Rosso non pensò che lui sarebbe stato da solo. A proposito, si è ripreso?» Domandò in tono innocente.
«Tu eri lì?» Chiese Shaina. Ti domandasti se anche lei non indossasse una maschera a sua volta. Ma di arroganza, perciò non ti facesti illusioni: un giglio è sempre un giglio, anche se dice di essere una margherita.
«Certo che c’ero, dovevo impedire a quell’idiota di ammazzare il Drago o farsi ammazzare».
Provasti un forte moto di orrore. «Lo hai massacrato!» Sbottò adirata la madre di Yoshino, cui avevi raccontato tutto.
Pensasti che non fosse il caso di sottovalutarla, poteva essere forte quanto gli ex Bronze.
«Ed è stato anche divertente». Ammise sfoderando un sorriso furbo che poi si trasformò in una risatina divertita che non vi contagiò. La giovane tornò seria ma continuò a sorridere, introducendo un altro argomento: «Se non sbaglio voi dovreste essere la Silver Saint dell’Aquila e del… Com’è quella parola? Non mi viene». Il sorriso le venne meno, sostituito da un’espressione pensierosa. Schioccò le dita ripetutamente, come se fosse l’acciarino con cui accendere la candela delle idee. «Aiutatemi per favore, non mi viene». Stava scherzando? Vi aveva riconosciute come Silver e non sapeva a che costellazione appartenevate? «Ci prendi in giro?» Sbottò Shaina senza abbandonare la posizione d’attacco. La ladra scosse il capo, tenendo gli occhi bassi e il mento tra pollice indice. Ma non stava dicendo di sì alla greca, capisti dopo un po’. «No, veramente non mi ricordo il tuo titolo».
Shaina perse la pazienza: «Allora ti rinfrescherò la memoria; Thunder Claw!»
«Shaina!» Urlasti ma non potesti fermarlo.
I cinque fendenti verticali di energia elettrica viola si fermarono a pochi centimetri dal palmo teso della preda. Non l’avevate neppure vista alzarlo.
Tratteneste il fiato rumorosamente per lo stupore. L’aria piena del ronzio e della luce violetta del Thunder Claw. La ragazza dalle ciocche striate d’argento ci pensò ancora, senza guardarvi.
«No, non mi viene, ho un lapsus». Dichiarò, infine. Poi, muovendo delicatamente la mano in un gesto di teatrale quanto regale congedo, ve li rispedì. Se tu riuscisti a evitarli, Shaina non poté fare altrettanto. L’impatto fu così forte che la sbatté contro una teca mandandola in frantumi e danneggiando i reperti. La tua compagna rotolò a terra in una pioggia di frammenti di legno e non si rialzò. «Shaina!» Urlasti, ma lei non si mosse. 
L’allarme scattò immediatamente.
Il tuo primo istinto fu quella di soccorrerla ma ti bloccasti. Se tu ti fossi mossa avrebbe avuto campo libero. Tornasti in posizione e guardasti la vostra avversaria, che ricambiò con un sorriso malefico di sfida. Incrociò le braccia e capisti di averci visto giusto. Ti aveva messo tra l’incudine e il martello: non potevi muoverti per soccorrere la tua compagna e non potevi perderla di vista. Ma neanche potevi attaccarla o ti saresti ritrovata come Paradise e Shaina. Né, tuttavia osavi attaccare, in quanto vi aveva dato un assaggio piuttosto eloquente della sua forza.
Il tuo corpo non era preparato a fronteggiare una tecnica così. 
Mentre cercavi freneticamente una soluzione, la tua compagna gemette, si mosse e si rialzò dalle schegge, che piovvero dai suoi capelli con un tintinnio. “Shaina”. La chiamasti con il Cosmo. Il suo fianco sinistro era arrossato di sangue. La tua parigrado si rialzò lentamente e si scrollò di dosso gli ultimi frammenti di legno e pezzi di pavimentazione.
“Shaina! Non devi muoverti!” Ti raccomandasti preoccupata, ma la tua testarda compagna non ti ascoltò. “Non pensare a me, attaccala”. Ti esortò tamponandosi la ferita con una mano. I segni dei suoi stessi artigli ben evidenti sulla Cloth e sulla maschera, anzi, quasi fumiganti. Lo vedevi bene il fumo in questa penombra.
Tu non l’ascoltasti e restaste paralizzate a guardarvi, tre punte di un triangolo isoscele che non avevano intenzione di spostarsi. 
 «Facciamo un gioco», propose la Dama, rompendo il silenzio carico di tensione. «Io metto qui le gemme» e lo fece veramente! «E mi metto qui», disse passando tra voi due per tornare quasi sulla soglia.
Voi due vi accigliaste dietro la maschera. A che gioco stava giocando? Vi prendeva in giro? O forse stava per darvi una lezione? Molto probabile, sentivate il suo Cosmo ribollire, eccitato. Come quello dei Phantom e dei Bersekers di Ares, che si diceva ribollissero allo stesso modo. In un certo senso, da quello che avevi sentito dire di Deimos, questa ragazza te lo ricordò moltissimo. «Chi sei veramente? Sei forse un’alleata di Ares?» Eppure li conoscevate tutti, tra le sue fila non si era mai presentata una giovane così. «Chi? Io? Direi proprio di no».
«Non mentire». Berciò Shaina. Lei sorrise, per la prima volta, compassionevole. «E chi mente?»
«Per chi lavori?»
«Per gli Dèi; comunque non sta bene interrompere una persona mentre parla; dicevo, io mi metto qui e, voi dovrete impedirmi di prendere quelle gemme».
«Niente di più facile». Ribatté Shaina. La giovane dagli occhi scuri convenne con lei, con un sorriso affilato: «Già, niente di più facile». Poi vi si scagliò addosso e, a sorpresa, vi attaccò entrambe con un impeto che non le avreste mai detto. Afferrò la tua mano alzata e ti piegò il braccio per colpirti alla gola, togliendoti il respiro ma tu ti riprendesti in fretta e provasti a ribaltare la situazione. Però, sempre con la stessa mano, afferrò l’altra e ti strattonò a terra dando le spalle a Shaina. La quale provò a colpirla ma lei le sferrò un dritto alla scapola, scostandola.
Provasti a farle perdere l’equilibrio mettendole un piede tra i suoi e lei si ritrovò in ginocchio, ma roteò sulle piante dei piedi e, muovendo le braccia, ti colpì alle ginocchia con un taglio orizzontale con entrambe le mani. E ti strappò un gemito di dolore. Si rialzò e nel farlo sferrò un montante a Shaina, proprio sotto al mento, facendole quasi volare via la maschera. Era riuscita a colpire le articolazioni laddove le vostre Armature difettavano.  Comprendeste come mai il Bronze Saint di Apus fosse stato sconfitto: era fortissima, quel tanto che bastava per tenervi testa. Era al vostro livello. Ma a quale ordine apparteneva?
Cercasti di analizzarla mentre vi fronteggiava e Shaina si risistemava la maschera.
La guerriera con la camicia verde partì subito con un assalto frontale. E, stavolta le lanciasti il Ryuseiken che evitò un’altra volta. Avevi pensato che avrebbe creato una barriera alla stregua di Misty della Lucertola o del Lightning Plasma di Aiolia. Avesti un fugace lampo dei suoi occhi prima di essere sbalzata via e atterrare sulla schiena.
Shaina partì all’attacco con un calcio ma l’altra schivò, afferrò la gamba e le fece perdere l’equilibrio, schiantandola a terra. L’attaccasti di nuovo nonostante il dolore, approfittando del suo busto leggermente inclinato in avanti e del peso distribuito equamente, carico sugli avampiedi. Lei lasciò la mano, si girò verso di te e caricò il peso sulla gamba arretrata, lasciando Shaina. Un pugno più indietro rispetto a quello con cui ti colpì il polso, proprio sul nervo, facendotelo ritrarre.
Notasti che avanzava di circa mezzo piede e richiamava successivamente il sinistro, restando sempre in guardia.  
Inoltre, i suoi pugni erano poderosi, ma nel senso che concentrava tutto il peso del corpo in quella parte. Come se usasse un sistema di pesi, leve e contrappesi e caricamenti. Ma erano diversi dai vostri, lo vedevi dal modo in cui muoveva le braccia e a come teneva i piedi, come se maneggiasse una spada e tentava di tenervi, a turno, nonostante i movimenti. Per ogni vostro movimento lei vi assecondava come un giunco si piega durante la tempesta. Eppure questa lotta aveva un che di antico, come se vi steste confrontando con qualcosa che risaliva a molto prima la vostra nascita. Tuttavia non avreste saputo dire cosa. Neanche i Gold combattevano così.
Eppure anche lei aveva un punto debole e, pure bello evidente. “Shaina, l’hai visto?”
“Sì”.
Era alle gambe.
Potevate usarlo e perciò cambiaste tattica con una sincronia invidiabile, frutto dei molti anni passati insieme. Invano, perché presto, scopriste che non era così facile. Le spostava sempre quel millimetro che bastava affinché non le colpiste mai davvero. Questo significava che era dotata di ottimi riflessi, oltre che di un buon senso dell’equilibrio. Era resistente soprattutto agli sforzi brevi ma intensi e ripeteva uno schema che alternava momenti di calma ad altri di azione ad alta velocità.
Per quanto provaste a minare il suo equilibrio la giovane non cadeva. Era come un giunco che si piega alle raffiche di vento di una tempesta.
La Sacerdotessa d’Ophiuchus provò ad attaccarla ma si scontrò con le sue braccia piegate a novanta gradi per proteggere il collo. Poi piroettò verso di lei e le puntò due dita nella carotide costringendola ad arretrare. Infine si portò una mano sullo sterno come a giurare fedeltà e l’altra in alto, il braccio piegato e le gambe sempre divaricate. 
“Come pensavo.” Dicesti alla tua collega tramite il Cosmo. “É una guerriera”. Una guerriera che di solito combatteva armata, non certo a mani nude.
“Sì, ma di chi? Non riconosco lo stile. Ah, che importa!” Sbottò poi. “Non è veramente forte come noi, hai sentito la sua carne? È morbida rispetto alla nostra e poi non avverto il suo Cosmo”.
“É vero. Significa che è così forte perché sa sfruttare i nostri punti deboli e la nostra forza. È intelligente”. E voi in svantaggio: Creature o non Creature, non potevate combattere alla vostra piena potenza in luoghi pregni d’importanza storica e di reperti di valore, come questo. Dovevate riuscire a trascinarla via.
E ci provaste, ma lei non cascò mai nella trappola. Anche riconoscendo questo il modo in cui combatteva non lo riconoscevate. La maggior parte delle volte vi acchiappava i polsi e mirava ai vostri punti deboli, servendosene con una facilità impressionante. Era come se fosse stata addestrata a sviluppare il senso tattico del tiratore.
Vi discostaste e lei si mise di lato, come se tirasse con l’arco. Busto eretto, peso distribuito equamente e talloni bene a terra. Allungò il braccio destro verso di voi e tenne il sinistro in alto, prima di portarlo sotto al mento. Il piede destro proteso verso di voi, il sinistro verso l’esterno a mantenerla in equilibrio. Come se tirasse di scherma, no, di sciabola, visto che piegò il braccio allungato e si portò l’altro al fianco. Proprio come una vera tiratrice, di quelle che avevi visto alle olimpiadi del Duemilasedici.
Poi vi attaccò e la lotta ricominciò. Vi accorgeste che mano a mano avanzava in linea retta verso il bersaglio, nonostante i vostri sforzi per depistarla. “Segue le regole della scherma!” Comunicasti alla tua parigrado, che ribatté: “Perfetto, sarà più facile abbatterla”. Così cominciaste a fare gioco di squadra con un attacco incrociato che però lei evitò con un balzo indietro. 
«E, così, avete capito che sono una schermidora, eh?» Vi schernì, ansimando per lo sforzo. Poi sorrise ancora. «Non vedo quanto possa servirvi».
«Non sottovalutarci, siamo entrambe due maestre». Ribattesti, mettendola alla prova.
«Davvero? Bè, lo spero per voi». Alzò entrambe le mani e con un: «Ah!» Le abbassò di colpo espandendo il suo Cosmo per la prima volta. Non avevate mai visto nulla del genere: era dello stesso colore dell’oro bianco. La forza con cui vi colpì vi fece arretrare di un metro. Ma voi opponeste resistenza rilasciando i vostri e proteggendovi la faccia con le braccia.
Potevate sfruttare il fatto che fosse costretta a un’eccessiva vicinanza per colpirvi, ma non avevate considerato i tempi di scherma che seguiva e mescolava a suo piacimento senza lasciarvi tempo di un respiro. Sicché, avreste colpito in un momento di calma.  
Stavolta, con una trappola, riuscisti a bloccarla e a proiettarla a terra, ma lei sfruttò il tuo impulso e, appoggiandoti i piedi al ventre, ti scaraventò oltre le sue spalle per rialzarsi con un balzo e sferrare un calcio rotante a Shaina, la quale lo evitò per un pelo. E voi che credevate che quella mantellina nera allacciata lateralmente attorno al suo busto e alle sue spalle le fosse d’intralcio. La cosa ancora più grave era che, pur non indossando l’armatura, riusciva a proteggere benissimo tutti i suoi punti deboli. Punti che, capiste sconvolte, vi aveva lasciato vedere apposta! Soprattutto quando, fermò un tuo attacco e ti sferrò una pedata poco sopra l’inguine, a metà tra la protezione del pube e gli addominali bassi. Poi spostò indietro il piede per darsi di nuovo stabilità. Si abbassò, piegò il braccio destro di novanta gradi e la mano appena dietro, poi spostò la testa per controllare Shaina che stava per afferrarla alla spalla. La giovane afferrò quella mano, la bloccò e, girandosi, colpì.
La ragazza si liberò di voi e si apprestò alla teca e prese la prima gemma: «E una». Pronunciò, indossandola e capiste che quelle pietre erano orecchini. Fece per prendere anche la seconda che tornasti all’attacco con il Ryuseiken, ma li evitò tutti. Si accostò a te, intercettò il pugno e, applicando una spinta in fuori al collo, ti ostacolò la gamba destra e ti fece cadere di fianco, proprio sui cocci di vetro e i reperti. 
Approfittando di questo momento di distrazione, Shaina fece per sferrarle un pugno ma la giovane lo bloccò un secondo mentre ti rialzavi e lo rilasciò, prendendoti in pieno sterno. Perdesti terreno. Poi, sempre con una gamba, le fece lo sgambetto, perdere l’equilibrio e preparare il Thunder Claw, mentre tu ti rialzavi e provavi a colpirla con un balzo. «Eagle Toe Flash!» Urlasti portando la gamba in avanti nella posa che uccise i tuoi ex parigrado ora risorti e di nuovo in servizio. 
«Thunder Claw!» Urlò Shaina nello stesso momento e l’aria risplendette di nuovo di viola. Ciò che otteneste, fu che la nemica volteggiando su sé stessa, sollevò la mantella e vi bloccò la visuale, sicché, entrambe, finiste per colpirvi a vicenda, mentre lei si abbassò. L’impatto generò un’onda d’urto che vi sbalzò entrambe contro le pareti, tu verso i muri e Shaina verso altre teche, peggiorando la situazione. Mentre lottavate per non svenire la sentiste annunciare la propria vittoria con un allegro: «E due!» Ma la sua gioia durò poco che sgranò gli occhi, emise un lamento e prese a tremare convulsamente. Poi crollò lunga, distesa sul pavimento, dove restò a tremare in preda delle scosse elettriche. Con fatica vedeste un custode del museo stenderla con un banale taser. Eravate così prese a lottare tra voi che non vi eravate neppure accorte della presenza dell’omino. Ma se neppure lei se ne accorse, significava che era troppo concentrata su di voi, o forse, ancora troppo inesperta per questo. Il quale vi guardò e urlò: «Ehi, voi due, state bene?»
«Sì». Mugolaste doloranti, mentre vi staccavate rispettivamente dal muro e da altre teche.
«Che disastro». Esclamò il guardiano notturno sgranando gli occhi e vedendo lo scempio cui era ridotta la sala. Fortuna che a causa della penombra non poteva vedere come era ridotto il resto.  «Non preoccupatevi, il Santuario pagherà ogni danno». Lo rassicurasti, avanzando verso di lui, mentre Shaina si avvicinava alla vostra avversaria e le staccava i fili del taser senza farsi niente. Ti guardasti attorno nel tentativo di individuare le Creature non doveva essergli sfuggito questa esplosione di Cosmi.
Ma non se ne videro. Strano, anche in battaglia accorrevano sempre. A meno che non fosse perché, in Guerra c’era una concentrazione talmente alta da attirarle immediatamente. Mentre qui eravate solo in tre ad avere un Cosmo fuori del comune. Poteva anche spiegarsi perché non fecero come con i Gold Saint del Cancro e dei Pesci e con gli Specter, in Italia.
A sorpresa non furono le Creature ad attaccarvi, bensì qualcun altro. Vedeste la testa del guardiano notturno esplodere e il sangue spandersi dappertutto, macchiando ogni cosa, anche voi. Che trasaliste per lo spavento mentre il sangue vi colpiva. Il corpo cadde a terra con un tonfo sordo.
«Che uomo fastidioso, non ne potevo più dei suoi sproloqui». Commentò un guerriero facendo il suo ingresso. Vi giraste entrambe e vedeste un uomo sul metro e novantasette, massiccio con corti capelli e la barbetta che delineava il mento, fare il suo ingresso. Ma la cosa che vi sorprese di più fu che indossava un cloth nero, il Black Cloth della Balena. Com’era possibile? I Black Saint erano tutti al Santuario, cosa ci faceva questo qui? E poi, ora che vi veniva in mente, non esisteva alcun Black Saint della Balena in questo secolo, almeno, non con la faccia di questo qui! Questo non somigliava neanche per scherzo a Moses. Tutto di lui trasudava arroganza e virilità, ma quella virilità che sottomette e uccide la femminilità che voi ancora esprimevate. La virilità che tanto osannavano i più fino a una trentina (o giù di lì) anni fa.
Una potente zaffata di alcol vi investì in pieno. Poi vi guardò e i suoi occhi si illuminarono: «Guarda che sorpresa, due Cavalieri d’Argento e siete pure delle belle figliole».       
«Cosa ci fa qui un Black Saint?» Domandò Shaina assumendo una posizione di difesa. Che tu imitasti. Ma c’era qualcosa di strano. Avevate sconfitto la vostra avversaria, allora perché continuavate a non percepire niente? Perché da quella persona non emanava alcun Cosmo?
«Che domande, sono venuto a raccogliere le gemme della corona e già che ci sono anche quella bellezza stesa a terra. Che cosa le avete fatto per tarantolarsi così?» Domandò poi accigliandosi.
Voi non rispondeste, se non con un’altra domanda: «La conosci?»
«Eccome, sono anni che ci dà problemi e che Don Avido non vede l’ora di metterle le mani addosso, sarà un bel regalo per tornare nelle sue grazie».
«Don Avido?» Ripetesti e, istantaneamente, ti tornarono in mente vecchi scritti muffiti della biblioteca. “Ma non era il capo dei Black Saints del Millesettecento? Quelli che affrontarono Manigoldo di Cancer e Albafica di Pisces?” Ti domandasti.
“Ora che mi ci fai pensare…” Mormorò Shaina. Non percepivate neanche un alito di Cosmo da lui. Eppure era lì, con una bottiglia in mano, che si portò alla bocca per una lunga sorsata. Non erano stati sigillati da Gioca, la ladruncola che aiutò i due Gold Saints dell’epoca? Com’era possibile che fossero di nuovo liberi? «Vuoi dire che non avete niente a che vedere con i Black Saints che conosciamo noi?»
«Chi? Quei somari che vivono nell’Isola della Regina Nera? Ma per favore, noi siamo i veri, unici Black Saints, tutti gli altri sono solo degni di lustrarci le scarpe»; si vantò, «ora vi do una dimostrazione». Sì dicendo lasciò che lo attaccaste e lui riuscì a eludere i vostri colpi e a non riportare alcun danno.
«Pazze, non potete colpire i morti!» Esclamò la voce della sconfitta, tremando ancora, mentre le scosse finivano di martoriarla.
Voi due trasaliste. Shaina si riprese per prima per replicare: «Non scherzare, abbiamo già affrontato dei non morti, prima!» Era vero, durante la Guerra Santa Hades resuscitò i morti del vostro cimitero come zombie. Ma quello non era uno zombie e anche l’altra continuò ad avvisarvi: «Quello è uno spirito, non potete fargli niente!» Poi si girò sul fianco per guardarvi, gemette di dolore e perse i sensi. Forse era morta.
Sgranasti gli occhi dietro la maschera.
Alegre di Black Whale sorrise tronfio «Mi state tra i piedi». Poi, con un colpo di Cosmo, vi allontanò come fuscelli spazzati via da una violenta raffica di vento. Non avevate mai sentito una potenza simile. Non pensavate che questi Black Saints fossero tanto potenti. Qui ci sarebbe voluto Death Mask. 
Vi ritrovaste ad affondare di qualche centimetro nel muro e poi crollaste a terra come sacchi di patate. L’impatto fu così violento che alle ferite che vi aveva inflitto la vostra avversaria se ne aggiunsero altre. Sentisti la tua bocca riempirsi di sangue mentre le costole, il cranio e le vertebre ti dolevano. La ferita sul fianco ti impediva quasi di respirare. Te la tamponasti con la mano.
L’uomo avanzò verso la giovane che giaceva a terra. «Fermo! Non la toccare!», «Lasciala stare!» Urlaste in coro, spaventate per lei, mentre lottavate contro il dolore che questo colpo vi aveva inflitto.
Riusciste a spostarvi davanti a lui, impedendogli di avvicinarlesi. «Cosa credete di fare?» Domandò il colosso fulminandovi con lo sguardo.
Shaina aveva ancora gli artigli sguainati. «Non osare toccarla».
«Il nostro compito è di difendere gli innocenti e gli indifesi e lei in questo momento è indifesa». Vi rialzaste a sedere e, gemendo per il dolore, vi alzaste in piedi. Potevate quasi dire di esserci abituate, viste tutte le volte che vi eravate rialzate solo poco prima.
Alegre fece un sorriso sbilenco. «Sparite, mi date sui nervi». Replicò prima di spazzarvi nuovamente via. Avreste voluto dire che le stesse mosse non funzionano mai due volte su un Saint, ma eravate completamente impreparate per questa battaglia.
Essendo lui uno spirito e voi vive era un altro paio di maniche. Cadeste a terra con tanta violenza che il pavimento sotto di voi si spaccò e anche le vostre Cloth si incrinarono.
In brevissimo tempo riuscì a sconfiggere entrambe e riprese la sua avanzata verso la svenuta. 
«E ora veniamo a noi, sgualdrinella». Fece il Black Saint girando la giovane supina. «Sei sempre stata una mosca fastidiosa, possibile che tu non impari mai niente?»
«No, lasciala stare!» Urlasti tu, che eri sempre stata un po’più resistente di Shaina, quindi eri ancora sveglia. Improvvisamente sentiste un ronzio nell’aria, come di elettricità. L’uomo fu illuminato da una luce biancastra e prese a tremare convulsamente, gemendo di dolore.
«Vedo che anche tu sei il solito ottuso tonno spiaggiato di sempre. Possibile che non impari mai niente?» Ribatté la giovane, facendogli il verso, mentre l’altro, tremando come in preda all’epilessia si accasciò a terra, sotto al contatto con le mani di lei, adesso praticamente a cavalcioni su di lui. Poi si rialzò e borbottò: «Goditela, tu e la tua presunzione». Lasciando il Black Saint della Balena, la personificazione della Gola, a tarantolarsi sul pavimento. Quindi si era lasciata colpire apposta oppure (ripensasti a come aveva bloccato il Thunder Claw di Shaina) poteva davvero manipolare i fulmini e la corrente elettrica in generale?
Si spolverò gli aderenti leggins neri e si appuntò anche il secondo orecchino. Infine se ne andò scomparendo in una nuvola di fumo, lasciando voi da soli nella sala distrutta, l’allarme fatto a pezzi e i rinforzi del Santuario stavano arrivando.   
Poi la giovane sparì.
Provaste a catturarlo, ma l’uomo aveva ancora un asso nella manica: «Divertente, voglio proprio vedere come ve la cavate con questo». Appoggiò la bottiglia a terra e poi la ridusse in frantumi, urlando: «A me, spiriti cannibali dell’Oltretomba!» Dai cocci di vetro si sollevò una lingua di fumo subito seguita da molte altre. Ben presto il fumo divenne talmente denso da oscurare ogni cosa, anche la luce delle lampade. Le volute si espansero e andarono a circondare tutta l’area.
«Voglio vedere come ve la cavate con questi». Sghignazzò prima di scomparire.

Non c’era modo di sconfiggerli, i vostri colpi gli passavano attraverso come fumo. Non eravate abbastanza forti. Qui ci voleva un Gold Saint. Solo loro erano sufficientemente forti da affrontare gli spiriti. In particolare quelli della Quarta e della Sesta Casa. Ma nessuno di loro sarebbe mai arrivato. Non avevate altra scelta che combattere e l’avreste fatto. Vi scambiaste un’occhiata e, in quel momento capiste di essere sulla stessa lunghezza d’onda.
Vi separaste e vi metteste in posizione. Se questa sarebbe stata la vostra ultima battaglia, allora avreste combattuto con tutte voi stesse. Per il vostro onore di guerriere e per Atena. 
Improvvisamente dal niente, la vostra avversaria si parò davanti a voi. Lì per lì non ci credeste neanche. «Cosa fai? Pensa a scappare».
«Mi dispiace ma non posso permettere che voi due periate qui».
«Cosa stai dicendo? Siamo Saint! Abbiamo già affrontato creature come queste, in passato».
«Pensa a salvarti tu!» Ma lei non vi ascoltò. La stessa che aveva rubato le due gemme della corona turca e che voi non eravate riuscite a fermare.
«Lasciate fare a me e fidatevi di Tamerlano, lui non permetterà mai che ci venga fatto del male». Ribadì, ignorando le vostre parole. Poi si portò le mani a destra e, dal niente, appesa alla sua cintola, comparve il fodero di una spada che lei estrasse. La spada scintillò sotto alle luci del mausoleo. Era una lama lunga un metro, dello stesso colore degli smeraldi che adornavano la sua fronte e le sue orecchie, il filo e gli intarsi dorati. 
Gli spiriti le si lanciarono addosso e lei, con un fendente che non vedeste neppure, li tagliò tutti. Gli spiriti si dissolsero.
La guardaste sbalordite. Poi lei rinfoderò la spada e si volse verso di voi. «State bene?»
«Sì». Confermasti a nome di entrambe. Shaina l’osservava senza parole. 
«Il mio lavoro direi che è finito. L’Uzbekistan non ha più niente da offrirci».  
«Perché ci hai difese?»
«Bel modo di ringraziare!»
«Hai ragione, è che non ce l’aspettavamo». Ti discolpasti tu.
Lei vi guardò con compassione e vi sorrise dolcemente. I suoi occhi scuri divennero più caldi e dolci di prima: «Perché ho sentito le vostre preghiere». Rispose con un tono dolce, completamente diverso da quello finora usato e, con una semplicità disarmante. Le vostre preghiere?
Com’era possibile? Le avevate solo pensate in un momento di terrore, ma non le avevate mai formulate. Lei non era neanche qui, come...? Mentre tutte queste domande si affollavano nella vostra testa, la giovane si accomiatò. Tu la richiamasti: «Aspetta un momento, chi sei?»
Lei vi guardò da sopra una spalla e, sempre continuando a sorridere a quel modo, rispose: «Che cosa te ne frega? L’importate è che possiate tornare al Santuario. Ci si vede in giro, Saints di Atena». Vi salutò. Poi scomparve nel nulla. 

Lady Isabel
«Milady, state bene?»
Distogliesti lo sguardo dalla vetrata. Eri rimasta a fissarla incantata per una mezz’ora buona. Sorridesti alla tua attendente. «Sì, è tutto a posto, grazie, June, puoi ritirarti». La Bronze Saint disegnò un inchino e obbedì. L’accompagnasti con lo sguardo soffermandoti sulla bruttezza della divisa marrone da maggiordomo. La stessa che anche Castalia aveva indossato due anni prima, quando risorsero i Gold Saint. Eri stata felice di sapere che a poco a poco stavano tornando alla vita. Questa grazia insperata aveva sollevato un peso dal tuo cuore, soprattutto quando anche Seiya era tornato e aveva affrontato i Gladiatori. E poi quando le Dimensioni si erano unite, ti eri sentita nuovamente connessa con il mondo.
«Lady Isabel». Ti chiamò la cara Mii, sedendosi all’altro capo del tavolo. Era appena tornata dall’ospedale. Era andata a trovare Katya. «Come sta Katya?» Domandasti, preoccupata; durante l’attacco di Eris era rimasta gravemente ferita. 
«Si è ripresa, ancora un po’ e presto verrà dimessa». Rispose la tua fedele e cara ancella con un sorriso. Un sorriso si estese di rimando sul tuo volto. «Bene, la notizia mi solleva un peso dal cuore». Lei servì il tè, gli angoli delle labbra ancora curve verso l’alto. Poi il suo sorriso tornò una linea dritta e ti domandò, preoccupata: «State bene?»
«Sì, va tutto bene». Eri solo preoccupata per la tua cara sorella maggiore Artemide. Non avevi più ricevuto sue notizie da quando lo Scettro di Nike era andato in frantumi. Avevi acconsentito a lasciarlo nelle mani dei tuoi fedeli Cavalieri, che si stavano prodigando per aggiustartelo. All’inizio non avevi voluto, perché già una volta si era riparato da solo per tornare da te nel momento del bisogno. Lo scettro di Nike era la tua protezione più grande e la tua garanzia di vittoria. Non sarebbe stata la prima volta che ti saresti sacrificata senza ricorrere alla protezione dello Scettro. Come neanche la prima volta che si spaccava, tuttavia era la prima che non riuscivate a ricostruirlo.
Quando avevate scoperto che c’era Eris dietro alla Guerra Sacra avevi temuto che attaccasse te, che eri tornata a Villa Thule, come quando l’affrontasti per la prima volta. Invece aveva attaccato il Grande Tempio e voi non avevate fatto in tempo ad avvisarlo. Katya si era recata laggiù proprio per comunicare i vostri sospetti.
«Siete sicura, Milady? É da molto tempo che non vi vedevo così turbata».
Beccata. Era inutile cercare di nascondersi, ormai. «Non è niente, passerà. É solo che questa storia di Eris mi ha destabilizzato, non pensavo che sarebbe tornata all’attacco». E adesso Kouga era ancora convalescente e non si perdonava di aver perso il suo amico Souma e buona parte dei suoi amici. Era rimasta soltanto Yuna dello schieramento che combatté contro Mars, Pallas e Apus. Senza contare Sirrah e le gemelle.  
Ancora una volta ti eri sentita impotente e incapace di difendere i tuoi Saint. Avresti preferito affrontarla tu, invece che sapere che le tue schiere erano in pericolo e che non potevi in alcun modo raggiungerle a causa delle Creature. Non sapevate ancora se potevano attaccare anche le Divinità, ma nel dubbio non avevi altra scelta. Tutto quello che avevi potuto fare, a parte mandare Ikki era stato ripristinare la tua barriera una volta che le Creature se ne andarono.
Dovevi ringraziare la nuova arrivata. Non pensavi che quella ragazza così simile al defunto Gold Saint dell’Acquario potesse essere tanto coraggiosa e determinata. Ricordavi ancora il suo animo turbato mesi prima.
Quando te ne avevano parlato avevi insistito subito per vederla. Avevi sintonizzato il tuo Cosmo con lei e avevi cercato di infonderle coraggio e rassicurazioni. Di solito funzionava con tutti ma lei non ti aveva ascoltato, spiazzandoti non poco. Era dai tempi della tua adolescenza che non accadeva più una cosa simile. E a niente erano valse le tue parole. Ma forse eri troppo abituata ai tuoi Cavalieri per capire che fosse troppo spaventata. Ed era raro che tu stessa ti sentissi a disagio e non riuscissi a dire qualcosa di diverso.
E adesso venivi a sapere che si era gettata in battaglia a sprezzo del pericolo, per salvare i tuoi Guerrieri. Le dovevi molto di più di quanto si aspettasse. Ti accomodasti al tavolo con la cara Mii e prendesti il tè con lei.  
La guardasti. Ormai lo sapevi che era lei la persona che lasciava sempre un mazzo di fiori davanti alla tua porta. Solo lei aveva questa dolce premura nei tuoi confronti. Ma ti sentivi lo stesso come se avessi perso una parte di te. “Sorella”. Pensasti afflitta.

Quella sera, avvolta in uno scialle, ti fermasti sulla terrazza a guardare il cielo come decadi prima. Ma a causa dell’inquinamento luminoso non riuscivi più a vedere bene la volta celeste come prima. Per non parlare delle Creature e dell’inquietante scomparsa di alcune stelle.
Nonostante la Dunamis non avevi il potere di sintonizzarti con il Creato, tuttavia potevi ancora percepire i Cosmi e pregare la Grande Volontà per la salvezza dei tuoi Saint. Perché al di sopra di voi Dèi, Titani e la prima generazione Divina, c’era solo quell’entità. Non l’avevi mai pregata prima, eppure sentisti il bisogno di farlo. Per la prima volta nella tua lunghissima esistenza, tu, la Dea della Guerra, delle Arti e della Sapienza, pregasti qualcuno più grande di te. Tu che finora avevi sempre pregato gli esseri umani e creduto in loro. Per la prima volta da che eri Isabel, decidesti di fingere di esserlo in tutto e per tutto: “Se c’è qualcuno che possa udirmi, vi prego, proteggete i miei fedeli Saint”. 
Perché tu eri stanca di vederli morire davanti a tuoi occhi tutte le vite. Avevi pensato che questa sarebbe stata diversa solo perché era il XX secolo. Avevi pensato di essere grande solo perché a tredici anni il tuo corpo era cambiato repentinamente e avevi completato la crescita. Avevi avuto gli incubi di morte e distruzione che avrebbero sempre caratterizzato la tua esistenza. Se riuscivi ancora a dormire serenamente era perché Mii, Xiao, Elda, Katya, Shoko, Seiya, Hyoga, Shun, Shiryu e Ikki e tutti i tuoi Saint erano con te. Non sembrava ma tu ci tenevi.
Era per la Terra sì, ma anche per loro che andavi avanti e non ti arrendevi. Solo la tua stanza sapeva quante lacrime piangesti per i Silver che furono uccisi nell’Ottantasei. Quando lo venisti a sapere. Quante lacrime versasti per Saga, che si suicidò davanti ai tuoi occhi. Per l’impotenza che provasti per non aver capito subito quale fosse il suo problema. Era mai accaduta una cosa simile prima, nelle tue vite precedenti? Sì, ma i Saint dei Gemelli di allora se la risolsero tra loro.
Tutti i tuoi Grandi Sacerdoti avevano sempre cercato di tenerti un po’ alla larga dalle tue schiere. Come se avessero temuto che al solo toccarli la tua Divinità si sarebbe contaminata. Ma non potevano immaginare che lo fosse già da tempo. Eris aveva avuto ragione nel dire che tu ti eri abbassata al livello degli esseri umani per sporcarti le mani. Col senno di poi non aveva neppure senso scappare come quando ti reincarnasti in Sasha, perché l’allora Saint di Sagitter ti trovò. Per questo avevi deciso di rinascere direttamente nel Santuario. Il venerabile Shion ti aveva raccontato di quel primo giorno di settembre. Della stella cadente che aveva solcato il cielo e, ai piedi della tua statua eri apparsa neonata. Di come ti aveva raccolto da terra e gli altri Cavalieri d’Oro erano giunti da te.
Così si era attivato il conto alla rovescia per la Guerra Sacra. Non avresti voluto ma se non l’avessi fatto lo scontro sarebbe somigliato a un’imboscata. Almeno così il Santuario sapeva che doveva prepararsi. E tu con loro. A vestire di nuovo la tua Sacra Armatura e a vedere nuove morti e non fare nulla per impedirlo.  
Ti avevano affidato alle cure di Olivia, la leader delle Saintia, che aveva partorito Shoko solo due giorni prima. I Gold Saint e il Gran Sacerdote avevano discusso a proposito della successione papale. Avevi saputo che Shura si alzò in piedi (quasi te lo immaginavi, rigido come un tronco di legno e, con la determinazione in volto tipica dei samurai) e decretò che la scelta migliore sarebbe stata tra Aiolos e Saga. Senza sapere che il suo amico era già impazzito da tempo.
Pensavi che la tua vita sarebbe continuata senza di loro e invece, uno a uno erano tornati alla vita e si erano riuniti attorno all’Atena di questa Dimensione. La stessa che il venerabile Shion aveva cercato di chiudere, mandando in tilt il Santuario. Ed era stato allora che l’elmo del Gran Sacerdote aveva scelto Kanon. Lui fu il primo a motivare e guidare gli altri superstiti che vivevano ancora lì. Li aveva supportati quando avevano avuto bisogno, sospinti a collaborare risolvendo le loro controversie. Difeso il Santuario a spada tratta dalle frotte di nemici che avevano cercato di varcare la barriera. In quel frangente, ti aveva mostrato un lato di sé che tu avevi già intuito quella notte che si mise al tuo servizio e manipolò la Gold Cloth dei Gemelli.
In breve tempo il fratello minore di Saga era riuscito a conquistarsi le simpatie di buona parte del Santuario e, tu, d’accordo con Shion, lo avevi eletto come tuo Papa. Lui, che aveva spinto Saga ad assassinarti molto tempo prima. Ma non era lo stesso Kanon e tu non eri la stessa Isabel.
Inginocchiato ai tuoi piedi, ti aveva guardato con tanto d’occhi per lo stupore. Neanche ci sperava di ricoprire un tale ruolo. Aveva cercato di farti notare che di solito dovevano essere i Gold Saints a scegliere, ma lì, oltre Shion, non c’era ancora nessun altro, così aveva accettato, dopo aver ripensato a tutto quello che aveva fatto per il Santuario da quando si era redento.
A mano a mano erano tornati tutti.  E ora, in coda a queste Creature, era comparsa questa ragazza misteriosa. Tua sorella maggiore ti aveva urlato: «Atena, dove la nascondi, maledetta?» La, non lo, non le, non li. La. E, poi, quando eri andata da lei a chiedere spiegazioni, ti aveva parlato della Luce Ombrosa. Che fosse quella Luce Ombrosa di cui avevi sentito parlare sull’Olimpo ai tempi del mito? “Ditemi, stelle, è forse lei?” Pensasti stringendo un po’ più forte le mani giunte in preghiera.
Non avevi voluto concepire che fosse finita nel tuo Santuario assieme alla bionda che aveva riportato ai Cavalieri d’Oro l’altra metà del tuo Scettro di Nike. Non riuscivi a credere che una semplice mortale fosse riuscita a tanto. Cioè, tu riponevi moltissima fiducia negli esseri umani e nella loro capacità di compiere miracoli, eri abituata a sentire delle gesta dei tuoi amati Cavalieri e a rispondere alle loro preghiere. Ma di una ragazza qualsiasi? La stessa che avevi visitato durante il coma e curato infondendole parte del tuo Cosmo.
La stessa cui dovevi la tua immensa gratitudine, a detta di Ikki, per aver sconfitto Eris, forse in via definitiva e per aver limitato le morti più che poté, pur essendo ferita lei stessa. Non avresti mai voluto che una civile rischiasse così tanto, ma forse non era una civile. Forse aveva un Cosmo anche lei, per questo era riuscita a sconfiggere Eris. Oppure, l’unica spiegazione, era proprio la Luce Ombrosa.
Avevi saputo, sempre tramite Ikki, del processo che avevano imbastito contro di lei e ti eri spaventata.
Forse eri rimasta troppo lontano per troppo tempo dal Santuario, perché ormai agiva come se fosse un organismo autonomo a sé stante. Tu non avevi mai ordinato che venisse processata. Come potevano i tuoi Gold agire in una maniera così barbara? Anche Seiya, Hyoga, Shun e Shiryu non si erano opposti subito al processo. Perché si erano schierati? Perché? Certe volte non li riconoscevi.
Perché? Perché non vedevano la ragazza ma solo il nemico? Perché lo vedevano in lei quando neanche tu l’avevi percepito? Cosa gli aveva fatto Astrid av Stjernene?
Non lo sapevi.
Ma sapevi cosa dovevi fare tu, almeno per riappacificarti con tua sorella maggiore.
Ti stringesti nelle spalle e rientrasti nella tua stanza, chiudendoti la porta finestra alle tue spalle. 
  
Mur
La porta della cucina si aprì, lasciando entrare parte del rumore degli ultimi lavori e del brusio che tu e Kiki avevate cercato di tagliare fuori: «É permesso? Sono qui per il caffè». Annunciò Astrid.
«Astrid!» Esclamò il tuo allievo balzando in piedi, rigido come un tronco di legno. Le guance rosse che stavi imparando a vedere su di lui.
Poi le dette tre baci sulle guance, come le aveva insegnato lei: «Due per infamia e tre per buona fortuna». Aveva spiegato strizzando l’occhio al tuo allievo, che era avvampato. Alla lunga la ragazza aveva cominciato a stuzzicarlo per il semplice gusto di vederlo avvampare di botto fino alla radice dei capelli.
Un sorrisetto divertito curvò le tue labbra e salutasti la giovane. «Buongiorno signor Mur». Ti salutò a sua volta, mettendo sul tavolo il vassoio con le tazze di caffè. Di solito lei dava una mano a estirpare le radici dell’Albero del Conflitto dagli orti e dai vari posti dove si erano infilate. Peccato che, molto spesso, le radici dell’Albero del Conflitto si presentassero in compagnia di quelle delle rose velenose di Aphrodite.
Perciò, per motivi di sicurezza, Aphrodite aveva pensato che fosse meglio che se ne occupasse lui. Il suo sangue era velenoso e aveva le tossine necessarie per sopravvivere a ogni tipo di contaminazione di veleno. Invece quello di Astrid no. La ragazza aveva protestato un po’, ma alla fine se ne era fatta una ragione ed era stata delegata alla ristorazione. Non era stata particolarmente entusiasta. E, tu lo sapevi perché avevi assistito alla litigata. Difficile ignorare due persone che litigano quasi furiosamente davanti alla rampa di scale di Casa tua alle otto del mattino.
Soprattutto da quando gli operai avevano finito i lavori di ristrutturazione della scalinata che era franata.
Mancava così poco all’arrivo degli ambasciatori di Poseidone che ormai lavoravate giorno e notte, spesso dormendo soltanto sei ore. Tra tutti, infatti, potevate esibire occhiaie di varie forme, dimensioni e colore. Le più gravi sembravano quelle di Aldebaran, ma anche le tue non scherzavano.
Meno male che Aphrodite era talmente stressato da non commentare nemmeno. Anzi, a onor del vero non ricordavi neppure che avesse mai aperto bocca sul vostro stile o la cura personale.   
Astrid aveva appena deposto il vassoio sul tavolo quando Aldebaran fece il suo ingresso portando con sé uno scatolone pieno di piatti nuovi, provenienti da Rodorio. L’attacco non aveva distrutto soltanto i mobili e intere stanze. «Questi dove li devo mettere?» Domandò.
«Lasciali pure sul tavolo, poi ci pensiamo noi». Dicesti. I lavori di riparazione erano quasi ultimati. Avevate rifatto, grazie all’aiuto degli operai specializzati mandati dalla Dea, l’impianto idrico a tempo di record. L’unica cosa che non andava bene era il rubinetto della cucina e, avevi scoperto un problema alle guarnizioni.
«Oh, signor Aldebaran! Buongiorno». Esclamò un po’ a disagio. Dopo tutti questi mesi ancora non si era abituata alla sua stazza imponente.    
«Dammi pure del tu, non mi offendo mica». Le sorrise affabile il tuo amico della Seconda. E, dire che da quando era resuscitato e aveva incontrato Yoshino, curava il proprio aspetto molto di più, rispetto a quando eravate veramente giovani. Aldebaran doveva appartenere a quella categoria di persone che migliorano con l’età.
Lei ricambiò, un po’ sollevata, anche se mantenne una qual certa tensione nelle spalle: «D’accordo».
«Hai bisogno di qualcosa?» Le domandasti affabile, mentre tornavi a trafficare con il lavandino.
«No è che mi chiedevo se posso fare altro».
«Ti ringrazio per la gentilezza ma no, al momento ce la caviamo benissimo».
«D’accordo, allora non vi dispiace se mi riposo cinque minuti? Sono a pezzi».
«Certamente, fai pure, hai già fatto colazione?» Chiese Aldebaran, nel tentativo di rilassarla e farle capire che non aveva niente da temere. 
«Sì, alle sette e mezzo». Rispose lei mentre si accomodava al tavolo di cucina. Poi si coprì la bocca con la mano per nascondere uno sbadiglio.
«Come va con i tuoi calcoli astronomici Astrid?» Domandò il tuo allievo, smettendo di sorseggiare il caffè e cercando di non fare smorfie per l’amarezza della bevanda. Infatti si mise a rovistare in dispensa alla ricerca dello zucchero. E, meno male che la dispensa era già stata riparata e rifornita da un pezzo. 
Ne riemerse dopo qualche secondo, mescolando il caffè con la psicocinesi. Poi chiuse la porticina e si appoggiò al piano cottura nuovo senza staccare gli occhi di dosso all’ancella.  La quale, nel frattempo aveva intrecciato le mani sul tavolo e osservava il padre di Yoshino di sottecchi mentre beveva.
Astrid rispose in quel momento: «Non ho ancora cominciato. Prima mi servirebbe di poter consultare i libri».
«Potresti chiedere al Gran Sacerdote. Se non sbaglio quelli della Tredicesima Casa si sono salvati». Per fortuna.
Anche se la Tredicesima Casa era crollata, la biblioteca sotterranea si era salvata e, le radici non avevano intaccato in maniera grave i più grandi tesori accademici del Santuario. Anche là c’era uno stuolo di ricercatori e restauratori mandati dalla Dea Atena a ripararli.
Fortuna doppia, molti dei manoscritti più antichi erano stati ricopiati e, quelli che proprio non potevano essere restaurati erano stati scannerizzati al laboratorio di ricerca dell’università di Atene e trasformati in file. Mentre gli originali venivano gelosamente preservati nei depositi dei musei della capitale come gentile donazione. 
Tornasti a osservare il tuo allievo un po’ perplesso. Da che mondo e mondo, Kiki non aveva mai bevuto un caffè in vita sua. Quando era piccolo e vivevate ancora insieme bevevate tè. Anche il venerabile Shion non amava la caffeina e non poteva aver cambiato idea così facilmente in duecentoquaranta anni e passa di esistenza.
«Kiki, non ti dispiacerebbe cominciare a sistemare i piatti? Ho le mani occupate». Dicesti tu tanto per smuovere il tuo allievo, che fissava incantato i capelli di Astrid, ancora girata a parlare con Aldebaran. Sembrava che volesse chiedergli qualcosa ma che non trovasse le parole. «Kiki?» Lo chiamasti almeno due volte prima che si muovesse. «Sì, i piatti, subito».
Posò la tazza e si mise a trafficare con i piatti nello scatolone.
A un certo punto la ragazza sembrò trovare qualcosa da dire perché disse, guardando di nuovo Aldebaran che l’aveva ringraziata per il caffè e aveva fatto per andarsene: «Mi sono sempre chiesta come faccia Lady Isabel ad avere così tanti contatti in tutto il mondo e luoghi d’addestramento dove mandare i suoi aspiranti Saint. Voi, cioè, tu, sai perché, Aldebaran?»
Aldebaran si fermò e la guardò per capire se stesse effettivamente parlando con lui. Poi rispose: «Bè, nelle sue vite precedenti la Nostra Dea ha viaggiato e vissuto in molti posti. L’eco delle sue gesta si è sparso e ha sempre finito per richiamare attorno a sé giovani desiderosi di aiutarla nella sua missione». O attratti dal potere, ma questo lo omise. «I primi venivano appunto dalla Grecia e poi si spinsero anche nella Magna Grecia. Poi lo vedi anche tu quanta gente c’è qui, no? Le persone viaggiano, anche noi. Alcuni decidono di stabilirsi altrove. Se non fosse che è una situazione abbastanza critica, anche noi staremmo altrove e al Santuario rimarrebbero in pochi, la Dea e qualcun altro».
«Un po’come una città turistica quando finisce la stagione estiva».
Kiki si fermò per assistere e tu facesti altrettanto.
«Si può anche vedere così.» convenne il tuo collega. Sorridesti divertito al paragone, di gran lunga più pacifico di quello che rispecchiava veramente il Grande Tempio. Se era così allora anche tu rientravi in quella fetta di turisti che abbandonavano il “luogo di villeggiatura” appena finta la stagione.
Aldebaran continuò: «Con le varie battaglie che si sono susseguite nel corso della Storia come le Termopili, l’Impero Macedone prima, quello Romano dopo, anche i Saint si sono spostati e si sono stabiliti in alti luoghi. Abbiamo sempre preferito muoverci con le grandi conquiste per una questione di comodità. Sai, all’epoca non esisteva l’inglese, era molto più difficile esprimersi. Insomma, con il sorgere e il cadere di nuovi imperi, ne abbiamo sempre tratto giovamento e ci siamo potuti espandere in tutto il mondo, per questo alcuni Saint vivono in posti come il Giappone o le Filippine. Noi Lemuriani fummo contattati fin da subito dalla Somma Atena affinché forgiassimo le Sacre Armature del suo esercito, giusto, Aldebaran?» Domandasti al tuo collega, che stava montando i vetri. Il quale disse di sì. 
«O la Siberia».
«O la Siberia».
«Ma lo stesso vale anche per i nemici, non è vero?» Domandò giocherellando con una tazza vuota.
Ti mettesti seduto e la guardasti interessato. Adesso eri proprio curioso di vedere che cosa intendesse lei per nemico. Non le bastava gennaio come definizione?
Anche Aldebaran lo notò, infatti fu lui a dire: «Ho notato che hai sempre qualche difficoltà nel pronunciare questa parola. Nemici, perché?»
Lei prese un respiro profondo, prima di alzare la testa e rispondere: «Sono nata un po’di tempo dopo di voi, ma questo mi pare evidente», scherzò; «no, sul serio, è che nemici, cattivi, non sai quante volte ho sentito queste parole abusate dai politici per le loro campagne elettorali al TG o alla radio, per descrivere i loro oppositori o gli immigrati da alcuni bigotti che predicano bene e razzolano male. Quando le persone usano questi termini per riferirsi ai loro avversari politici riferendosi alla massa come se fossero una schiera di bambini cui raccontare le fiabe, che a delle persone capaci di intendere e di volere, mi sembra di essere presa per i fondelli. Cioè, non ho più dodici anni e non stiamo parlando in un fumetto. Poi cattivi, nemici… d’accordo che USA e URSS non sono più superpotenze e non c’è più pericolo di una Guerra Mondiale, almeno non adesso. Il punto è che con la globalizzazione, i social, il digitale, tutto questo, non ci sono più confini e una minaccia può arrivare dappertutto e da parte di chiunque, persino da me che scarico una canzone. La cosa che mi fa imbestialire, è che sembra che le persone non lo capiscano, che cerchino di aggrapparsi a pregiudizi e stereotipi per una purezza razziale che non esiste più, anzi, che non è mai esistita e che è un retaggio dalle dittature del primo Novecento e del Positivismo Ottocentesco. Preferiscono barricarsi dietro le loro paure e fare di tutta l’erba un fascio, invece che affrontarle. Quello che sto cercando di dire è che è tutto più oscuro, più confuso, i confini sono sfumati e non ha più senso aggrapparsi alla nomea di buono, cattivo, per giudicare il prossimo, a prescindere dallo Stato di provenienza. Stronzi, bigotti, maiali, approfittatori, imbroglioni e tutta questa bella gente e non che gli vanno dietro e, addirittura peggio, sono cosmopoliti. Dappertutto puoi trovare gente di questa risma e anche peggio. Il razzismo tra popoli è sempre esistito, non lo nego, ma ormai dovremmo non averne più bisogno per giudicare delle persone perché è questo che siamo, persone. Ed è brutto vedere che a causa degli eventi degli ultimi anni ci stiamo scordando la nostra storia e tutto quello che abbiamo passato. Sapevi, per esempio, che sui libri di storia del mio Paese, gli storici non si soffermano affatto dei danni causati dal fascismo? Ci dipingiamo ai nostri stessi occhi come degli idioti che si lasciarono accecare dal potere e dalle manie di conquiste dei nazisti. Ma non è vero, anche in Italia la dittatura ha lasciato dei segni».   
No, non lo sapevi. Come non immaginavi neanche che l’amica della figlia di Aldebaran avesse le idee così chiare sull’andazzo generale del mondo al di fuori del Santuario. Ora che ci pensavi, non avevi mai conversato abbastanza con le ancelle o altre persone di sesso femminile per vedere se erano altrettanto informate. Non che tu fossi un tipo loquace come Milo.
«Per parlare così ti è forse successo qualcosa?» Domandò di nuovo Aldebaran, facendosi portavoce anche del tuo interrogativo.
«A parte finire qui?» Chiosò con un mezzo sorriso.
«Sì, a parte qui, sempre che ti vada di parlarne, è chiaro».
«Bè, hai visto che sono una chiromante, no? Anche quelle come me sono legate a un’etichetta, non sempre per nostra scelta, ovviamente. Tutti possono leggere la mano e le carte se si sa come fare. Il problema è che per lungo tempo queste Arti sono sempre state bistrattate e le uniche persone che le esercitavano erano le zingare, quindi la nomea è rimasta. Una volta lessi la mano a un assessore comunale, che poi ricoprì un ruolo importante in Senato, questi si spaventò talmente tanto che mi minacciò». Raccontò schifata. 
Non avevi avuto modo di assistere alle sue sedute di chiromanzia, ma sembrava che si avvicinasse molto ai vostri poteri telecinetici. Che avesse qualcosa a che vedere con voi Lemuriani? Dopotutto era risaputo che alcuni di voi nascevano anche in altre parti del mondo o la vostra psicocinesi veniva ereditata anche per vie traverse.
E, contrariamente a quello che la ragazza poteva aspettarsi, non avevi mai sbirciato nella sua testa come credeva.
Il padre di Yoshino sgranò gli occhi: «Accidenti, poi come andò a finire?» Domandò interessato, appoggiandosi alla sedia di fronte a lei.
Un sorriso furbesco le animò i tratti, quando rispose: «Che le sue erano minacce a vuoto».
Nel frattempo, con un piccolo aiutino della telecinesi riuscisti a togliere la guarnizione. Ora dovevi solo sostituirla. Ti muovesti per cercare l’attrezzo che ti serviva ma non trovasti neppure la cassetta degli attrezzi. Dov’era finita? “Ah, già, che stupido”. Pensasti. L’avevi lasciata nella stanza accanto, ma non ti ricordavi perché l’avessi lasciata lì. Ti scusasti con i tre e andasti a recuperarla, ma anche così continuasti a sentire la loro conversazione.
«Devi averlo terrorizzato tanto. Che cosa avevi scoperto?»
«Oh, solo che ogni tanto faceva qualche tiro e che tradiva di continuo la moglie fin dai tempi del liceo, una cosa di poco conto se consideriamo che poi venne indagato anche per frode fiscale, quando divenne sindaco. Questo gentiluomo», e il sarcasmo in questa parola si sentì tutto, «apparteneva a un partito di bigotti conservatori filofascisti che, spacciandosi per progressisti inneggiavano alla rivoluzione d’Italia. Certo, come no. Ma come si fa, dico io? Pretendevamo di Risorgere quando come Stato non eravamo neppure nati! È stato da quel momento in poi che mi considero cittadina del mondo, sicché il mondo sia la mia casa, e io non sia mai persa davvero. E poi, non fu affatto divertente sentirselo dire, anche perché, sono norvegese per un quarto».
«Mi sembrava che tu avessi qualcosa di diverso rispetto a Shaina e Death Mask. Non è un’offesa, è solo che mi sono sempre chiesto se tu fossi straniera, dal momento che sei molto pallida, quasi come Aphrodite».
«Ho la pelle diafana, però sì, è per questo, anzi, credo che Aphrodite sia più pallido di me. Tu invece sei brasiliano, giusto? Sai, in fondo questo posto mi piace». Disse poi.
«Davvero? Perché? Mi sembrava che qui le donne fossero messe in condizione di svantaggio rispetto agli uomini». Le ricordò. Fosse dipeso da lui, non ci avrebbe mai introdotto Yoshino neanche per scherzo. Lei poteva vivere una vita relativamente normale proprio perché era un’incarnazione di Atena. La stessa che eri stato chiamato a proteggere tu stesso. Le altre donne che godevano di una libertà simile erano le Saintia. Ma non ti risultava di averne mai incontrate dall’altra parte. 
«A parte il maschilismo imperante mi piace perché almeno non c’è razzismo. Competitività, pericoli, sessismo quanti ne vuoi, razzismo no».
«Però di alcuni di noi hai paura». Buttò lì Mur. Lei si zittì un attimo prima di ammetterlo: «Sì, è vero. Però i motivi per cui ho paura di una persona non sono mai di tipo razziale. Per me le cosiddette razze sono come le varietà della Biston Betularia, una varietà genetica, tutto qui».  
Non avevi mai considerato tutto ciò sotto quest’aspetto.
Il padre di Yoshino cambiò argomento: «Astrid, posso farti una domanda?»
«Sì, certo».
«Perché leggi le carte e la mano, se ti causa tanti problemi? Perché continui?»
«Perché fa parte di me. Tu riusciresti a immaginarti diversamente da quello che sei?» Domandò retorica, ma solo ripensandoci in seguito ti venne da pensare che questa fosse una parte della verità, considerando tutta la storia del Prezzo. Anche Aldebaran, in seguito, ti disse di aver avuto la stessa sensazione.
«No. Effettivamente no».
A quel punto fu la giovane ad alzarsi. Raccolse le tazze vuote e Kiki fece quasi i salti mortali per passarle la sua. Poi vi salutò e si rivolse ad Aldebaran dicendogli: «Grazie per la chiacchierata, Aldebaran. Sai, devo ammettere che finora avevo un po’ paura di te».
Lo sentisti dire, stupefatto: «Davvero? Perché?»
«Per la stazza, non sono abituata a vedere persone tanto alte». Spiegò imbarazzata, ma sincera. Anche troppo. E lei non era certo bassina.
Il tuo amico l’aveva capito da un pezzo. «Pensavo che fosse Shura quello che ti intimorisse». Ribatté lui. Non era un segreto che la bionda cercasse di tenersi il più possibile alla larga dall’ombroso spagnolo.  Solo a sentirlo nominare un’ombra di paura passò sul suo volto e, quando parlò, il suo tono si fece pensieroso: «Già, bè, chissà, un giorno riuscirò ad avere una conversazione anche con lui».
«Te lo auguro, è una brava persona». Garantì il padre di Yoshino. E a te venne in mente la loro sfida a chi si ingozzava più rapidamente di cui ti aveva raccontato. Lei sorrise, decidendo di crederci: «Non lo metto in dubbio».
Adesso doveva solo capire cosa diavolo fosse una Biston Betularia. Già che c’eri l’avresti cercata anche tu.
Quando se ne fu andata, Kiki si avvicinò ad Aldebaran, dopo aver gettato uno sguardo alla porta: «É fantastica, non trovi? Sconfiggere la propria paura parlando con te…» commentò con voce ammirata.
Aldebaran lo guardò strabiliato, poi scoppiò a ridere divertito.
Kiki lo guardò perplesso.

C’era un’alchimia particolare tra i membri di uno stesso gruppo, soprattutto se erano quasi amici, come te e Shaka. Avevate collaborato molte volte durante le Guerre Sacre precedenti, non solo perché eravate i più riflessivi della compagnia. Vostre erano le strategie che avevano permesso ai Gold di liberare la strada alle Saintia e, vostre erano le idee che avevano portato i Gold e i superstiti a distruggere i meteoriti che accompagnavano la Cometa Repulse.
Voi vi eravate schierati dalla parte di Aiolos durante la Guerra Sacra. Alla fine avevate anche aiutato i vostri compagni.
Vi tenevate in contatto nonostante la distanza. Non era così difficile, voi Saint potevate comunicare a prescindere dalla dimensione in cui vi trovavate e dal vostro stato. Chi meglio di lui poteva sapere qualcosa di tutto quello che stava succedendo? Onestamente voi Saint eravate molto più attenti e affidabili di un mazzo di carte. Ma neanche lui aveva un’idea precisa. Diceva soltanto che quando cercava di scrutare i mondi per vedere le Creature non le trovava. La cosa rassicurante era che almeno dove si trovava lui, non erano ancora giunte, o almeno così sembrava.
Disse solo una cosa strana, ossia che il suo collega era molto agitato in questo periodo e non riusciva a capire perché.
 
Castalia
Il ritorno al Santuario era stato quasi sofferto, come sofferto fu anche dover fare rapporto al Patriarca. Fu molto disturbante vedere l’uomo in abito talare osservarvi pensieroso, il volto messo in ombra dall’elmo.
Non aveva detto niente, si era limitato a stare in silenzio e poi vi aveva congedate entrambe. Fortunatamente vi eravate già fatte medicare in Uzbekistan, ora non dovevate far altro che riposare.
Eppure la Dama degli Smeraldi non voleva uscire dalle vostre teste.
 
La compagnia di Astrid non ti dava fastidio.
I primi tempi avevi dovuto imparare di nuovo ad avere qualcuno che ti girava per casa e abituarti alla sua presenza. Trovare compromessi alla vostra convivenza, che poi si era estesa anche a Cocteau un piovoso giorno di novembre. Ancora non sapevi perché lui non le avesse rivelato la verità sulla sua identità.
Ma alla fine non era neanche un grosso problema. Neanche le sue crisi d’ansia, che, a volte la colpivano ancora, di notte. Semmai lo erano un po’il ciclo e le lenzuola e gli abiti insanguinati. Spesso le veniva la sera o al tramonto e non sempre la ragazza se ne accorgeva per tempo. Per fortuna che tu non avevi più i tuoi corsi da un pezzo. Avevi quasi dimenticato come ci si sentisse. Fortuna che c’era anche la farmacia a Rodorio e avevi mandato la tua coinquilina a comprarsi gli assorbenti.
Il pensiero ti corse inevitabilmente al povero Cocteau. Sinceramente ti faceva un po’pena vederlo alle prese con quest’aspetto del genere femminile. Meno male che sotto quelle penne non poteva arrossire, altrimenti sai che imbarazzo, Saga? Poveraccio, non lo invidiavi per niente.  
Questa convivenza ti ricordava il periodo di addestramento di Seiya. Ma non era la stessa cosa, ovvio. Te lo ricordava, non che lo stavi rivivendo.
Astrid era di una pasta completamente diversa dal tuo ex allievo. Il massimo che li accomunava era l’interesse per la musica. Solo che, mentre Seiya suonava la chitarra, o, quantomeno ci provava, la giovane ancella cantava (o almeno, diceva di riuscire a capire le intonazioni e a controllare la propria voce e la respirazione per riuscirci) e suonava. Anche qui parolone. Perché lei aveva specificato: «Emulo».
Difficile crederlo dopo averla vista a Rodorio a suonare il pianoforte verticale in un bar mentre chiacchieravi con Lythos, che t’aveva fermato per attaccare bottone.
E, a un tratto, vi eravate fermate per ascoltare i virtuosismi della ragazza, anche se non riconoscesti subito la melodia: «Non sapevo che sapesse suonare.» aveva detto la serva di Aiolia con occhi brillanti mentre vedeva le mani di Astrid percorrere agilmente la tastiera.
A parer tuo il pezzo mancava un po’di sentimento, però non era un’esecuzione così pessima. Sicuramente era un po’ più brava di Seiya.
A fine esecuzione, che passò praticamente inosservata, la ragazza vi aveva raggiunte.
Lythos le aveva fatto i complimenti, ma Astrid si era schernita dicendo: «In realtà non so affatto suonare».
«Ah, no? Allora quello che hai fatto finora che cos’era?»
Lei si era stretta nelle spalle e aveva spiegato: «Diciamo che mi basta vedere i movimenti delle mani di una persona per riuscire a riprodurli più o meno alla perfezione. Ma se parliamo di musica io non so neanche riconoscere un do da un re». Non che tu ce l’avessi più sviluppato, ma eri abbastanza attenta.
«Aspetta, vuoi dire che vai a orecchio?» Avevi chiesto stupita e, anche Saga fuori della finestra era rimasto di stucco.  Purtroppo non tutti i bar lasciavano entrare gli animali.
«Anche, in un certo senso. Diciamo che mi riescono al primo colpo quelle cose che si possono fare con le mani, ma sul senso del ritmo ci sto lavorando». Ammise imbarazzata. E avevi inevitabilmente guardato Saga cercando di indovinare i suoi pensieri. Sicuramente stava pensando che avrebbe potuto riprodurre le vostre tecniche. Che fosse addirittura capace di replicare lo Zodiaco Exclamation di Regulus, il giovane, geniale Cavaliere del Leone del millesettecento. E, l’evidente domanda nei suoi occhioni gialli: che altro era capace di fare?
Oppure, no, forse stavi esagerando. Forse non stava neanche pensando a questo. Non ti sembrava capace di replicare il Lightning Plasma o la Cuspide Scarlatta, ancora meno di manipolare la sua Gemini oppure, ancora di dominare le energie fredde. Era vero che il suo potere era diverso dai vostri, ma veramente, non ti sembrava capace di una tale forza e genialità. Anche il fatto che non riuscivate a percepire il suo Cosmo non vi aiutava.
«Cosa guardi?» Domandò Astrid seguendo il tuo sguardo: «Oh, ma c’è Cocteau». Poi uscì dal bar, raggiungendo l’ “animaletto”. 
Anche voi usciste.
Lythos ti riportò coi piedi per terra quando le domandò (avvolgendosi nello scialle) se avesse voluto unirsi all’orchestrina che avrebbe suonato il sabato dei primi di marzo in piazza. «Se non ti va di suonare puoi anche cantare. Ti ho sentita sai? E, tu, Castalia? L’hai sentita? Ha una voce meravigliosa». Aveva detto la sorella minore di Aiolia, con gli occhi brillanti di felicità
«Ora mi metti in imbarazzo, Lythos». Aveva borbottato la ragazza, arrossendo e distogliendo lo sguardo, dopo essersi spostata una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Sono seria, almeno verrai, alla festa?»
«Quale festa?»
«É una festicciola che facciamo dopo l’equinozio di primavera, niente di speciale ma pensavo che sarebbe stato bello partecipare, visto che non siamo potuti scendere ad Atene a goderci il Carnevale».
«Anche qui avete il Carnevale?» Chiese sorpresa la bionda, mettendosi Cocteau sulla spalla. Il poverino ti sembrò piuttosto imbarazzato ma decise di accontentarla. 
«Certo, perché, pensavi che soltanto l’Italia avesse l’esclusiva?» Scherzò Lythos.
«E com’è? Com’è?» Domandò lei, entusiasta.
E, la sorella minore di Aiolia attaccò la spiegazione. Per poi tornare a chiedere anche a te di partecipare alla serata.  Guardasti la tua giovane coinquilina, la quale ti supplicò con lo sguardo e tu cedesti: «Sì, certo, perché no?»
E sul volto di Astrid sbocciò un sorriso tale che la illuminò tutta.
A ben vedere lei era diversa anche da Camus. Non avevi mai avuto un rapporto molto stretto con quest’ultimo, ma ne avevi sentito parlare spesso quand’era vivo. In realtà neanche con Aiolia, anche se amava mescolarsi tra i soldati semplici e fare quattro chiacchiere con tutti.
Tornasti a pensare all’ex Cavaliere di Aquarius e ad Astrid. Chissà che cosa sarebbe potuto accadere se quei due si fossero incontrati?
«Perfetto, allora ci si vede venerdì prossimo nella piazzetta alle nove di sera».
«Va bene, a venerdì».

Stavi cucinando il pranzo quando rincasò. «Sono a casa». Ti salutò posando i sacchetti sul tavolo. «Ciao, hai trovato tutto l’occorrente?»
«Sì, ma ho dovuto girare almeno tre negozi di alimentari, bancarelle comprese, per trovare le uova. Invece, strano a dirsi, ma la sarta mi ha confezionato subito il vestito». Lei aveva definitivamente smesso di vestire uno stile simile al tuo onde evitare attenzioni indesiderate da parte di soldati troppo ligi al dovere. Anche se si era fatta fare una sua versione della divisa da ancella. In pratica aveva preso la parte superiore del vestito e, l’aveva fatta accorciare sul davanti e accorciare sul dietro, di modo che formasse una piccola gonna dietro le gambe. «Così d’estate non avrò fastidi e avrò ancor più libertà di movimento».
«Ma Galan e gli altri tuoi colleghi lo sanno?»
«Non ancora».
Sapevi che le Sacerdotesse-Guerriero che non indossavano la maschera non erano molto ben viste. Alcune venivano proprio prese di mira per questo. Ma non avresti mai pensato che Astrid sentisse il bisogno di personalizzarsi almeno una delle divise.
Non che nessun luogo fosse veramente sicuro fino in fondo. Solo che al Santuario il maschilismo la faceva da padrone e non era un buon posto per lei. La quale, ignara dei tuoi pensieri, si avvicinò per abbracciarti brevemente da dietro. Non sapevi neanche tu quando era cominciato questo rito, però ti piaceva, ti scaldava il cuore e ti donava un amore sconfinato per quella ragazza che sarebbe potuta essere tua figlia. Allora era questo che provava Shaina per Yoshino? “É questo che si prova a essere madre?” Se lo avessi saputo prima, lo saresti diventata anche tu. Ma oramai era troppo tardi, anche per adottare un bambino. Però Astrid ti riempiva le giornate e ti faceva sorridere anche quando c’era ben poco da stare allegri. Occuparti di lei non era più una missione da un pezzo, ma un piacere. Per questo l’avevi ospitata in casa tua. Per questo avevi cercato di difenderla da Ionia avvertendo Lancelot, perché, in quanto Gold Saint era molto vicino ai Cavalieri d’Oro e, sicuramente, avrebbe fatto molto di più di te.
Dal momento che per quei giorni la Sesta Casa era stata off limits avevi convinto Kiki a riferirti tutto e, lui, ti aveva aggiornato costantemente. E poi quando Ptolemy aveva rivelato le sue intenzioni, eri accorsa in suo aiuto con mezzo Santuario per salvarla dal Giudizio dell’Assemblea Dorata. Che spavento quei giorni. Non avevi potuto avvicinarti quasi per niente alla Sesta e Astrid non aveva potuto vederti. Avresti voluto festeggiare la sua assoluzione, ma quando avevi saputo che la giovane Atena l’aveva invitata a cena alla Seconda, l’avevi lasciata andare. Atena aveva la precedenza su tutto. Forse anche la bionda stava cominciando a capirlo. E poi non era un problema, avreste potuto rimandare. Cosa che faceste il giorno dopo con un bel pranzo. Non era molto ma lei l’apprezzò lo stesso. 
«Bene, quanto vuole?» Lei ti disse il prezzo e tu le facesti notare che così le sarebbero andati via cinque giorni di paga. Lei alzò le spalle e cominciò a sistemare la spesa in dispensa. «Pazienza, niente che non si possa recuperare». Stava mettendo su un cospicuo gruzzolo, te ne accorgevi anche tu. Ti eri premurata di conoscere la paga degli attendenti e, contando che Astrid faceva la spesa con il contagocce sapeva gestirsi bene. Inoltre, aveva ricominciato ad aggirarsi per le locande la sera e a mettere al servizio dei curiosi le sue doti di chiromante e, incredibile, moltissimi facevano la fila. I guadagni poi erano anche esorbitanti. Lei diceva che neanche nella sua città natale era così. Ti aveva raccontato che a volte c’erano dei periodi in cui guadagnava di più e altri meno.
Poi cominciò a descriverti l’abito che avrebbe indossato per l’uscita con te e Lythos. «Dovresti vederlo, me lo sono fatto fare simile a un chitone che più si avvicina al corpetto e alla gonna sfuma sul giallo. Ai piedi indosserò i soliti calzari scuri e qualche gioiello di bigiotteria che mi sono comprata alle bancarelle, tu che ne pensi Cocteau?» Domandò poi rivolgendosi alla civetta appollaiata sulla sedia. La quale, ovviamente, non rispose. Lo guardasti da sopra una spalla e poi tornasti ai fornelli. Forse era il caso di metterla in guardia riguardo quell’ “animaletto”.
«Quella non è la civetta di Shura?» Avevi introdotto il discorso con cautela, cercando di non urtare troppo la sensibilità dell’oracolo di Atena. Il quale si limitò a guardarti malissimo e tacere. “Cosa ci fa qui così apertamente? Non ha paura di essere scoperto?” Ti domandasti.
«Boh? É dall’incidente con le Sacre Armature che me lo ritrovo sempre vicino».
Ne avevi sentito parlare anche tu. Ma tu, a differenza degli altri, avevi avuto paura per lei.
«Forse non dovresti starci così vicino, Shura potrebbe non gradire». Tentasti di avvisarla tra le righe. Non le avrebbe mai torto un capello, però era meglio farle credere che non gli piacesse questo cambiamento, invece che scoprire Cocteau.
«Sì, questo l’ho pensato anch’io, però non mi ha ancora detto niente, si è solo limitato a dirmi il suo nome».
«Forse dovresti parlarci, almeno per decidere cosa fare, non pensi?»
«Sì, forse». Ammise con voce sottile, ma in quel tono leggesti la verità: ossia che aveva ancora paura di Shura. Forse si ricordava della facilità con cui aveva messo al tappeto quei quattro energumeni che l’avevano molestata, parecchi mesi prima. Qualcosa ti disse che probabilmente non ci avrebbe mai parlato così facilmente, alcune persone tendevano a essere intimorite dall’ombroso spagnolo.
La ragazza sciolse l’abbraccio e cambiò repentinamente discorso: «Ma non mi hai ancora detto niente del vestito, cosa ne pensi?»
Ti girasti e, con tua enorme sorpresa, la vedesti estrarlo da una busta. Era veramente bello.
“Non ho dubbi che tutte le attenzioni saranno per te” Pensasti sorridente e un po’invidiosa. Ancora una volta ringraziasti la maschera che indossavi, che ti proteggeva da certe situazioni spinose sia in battaglia che nella vita di tutti i giorni.
«É molto bello, per chi è che ti stai facendo bella?» Le domandasti, in tono di materna malizia.
All’inizio restò un po’spiazzata dalla domanda, ma dopo cinque secondi si aprì in un sorriso e rispose: «Per me».
Sgranasti gli occhi dietro la maschera.
Persino Cocteau la fissò quasi scandalizzato.
Chi credeva di prendere in giro? In un Santuario con tutto questo ben di Dio per tutti i gusti e nessuno aveva conquistato il suo cuore o viceversa? Ma se sapevi che c’erano soldati e civili che avrebbero fatto carte false anche solo per avere un appuntamento con lei, quando non terrorizzava i più con le sue arti. Anche tra i Cavalieri d’Oro eri sicura che lei non fosse completamente indifferente, dal punto di vista sentimentale. Almeno, il comportamento di Kiki la diceva lunga. Una delle ultime volte che aveva parlato con te prima del processo, reggeva tra le mani un giglio bianco fresco di fioraio. E che rossore e balbettio aveva mostrato quando avevi chiesto se quel fiore fosse per la vostra comune amica. 
Con Seiya non avevi mai mostrato questa curiosità, anche perché lui era un ragazzo e, all’epoca, l’unica cosa che gli importava era solo ritrovare l’adorata sorella maggiore. Forse con il tempo si era interessato a qualcuna, al di là dell’amicizia e del senso del dovere. Ma se era così, tu non l’avevi mai saputo. Non che ti fosse mai interessato più di tanto, in realtà. Era il tuo ex allievo, non tuo figlio, anche se vi volevate bene. 
«Allora per chi è che ti stai facendo bella?» Ripetesti, prendendola scherzosamente in giro.
Lei ti guardò a lungo, mentre cercava una risposta.
Pensasti che non l’avrebbe trovata ma, alla fine sorrise e disse di nuovo, con ancora più convinzione di prima: «Mi faccio bella per me». Dimostrando un’indipendenza e una voglia di libertà che non avevi mai visto in nessun’altra persona. Neanche in una Saint.
Per la prima volta comprendesti che lei era come il vento e la luce, che nessuno la poteva imprigionare o oscurare.
«Passi anche tu alla festa?» Domandò dalla sua stanza.
«Non lo so, vedremo, devo fare la ronda, stanotte».
Lei fece capolino dalla porta e si rabbuiò un istante, ma poi ti domandò, illuminata da una piccola speranza che le addolcì i lineamenti. «Però quando hai finito verrai?»  Per un istante la vedesti bambina che correva incontro ai genitori e l’immagine ti commosse.
«Non so quando finirò, ma ci proverò». Le promettesti con voce più dolce.
Lei ti sorrise.
Eri stata brava a nasconderle le tue emozioni, ma per quanto ancora ci saresti riuscita?
Non potevi certo dirle che c’erano guai all’orizzonte.

Milo
Marzo era un mese talmente volubile che in un giorno l’ inverno, l’estate e il diluvio universale giocavano a farvi prendere la polmonite. Se non altro, era già più gradevole dei mesi invernali. Presto sarebbe giunta l’estate e il meltèmi sarebbe tornato a soffiare su queste terre e sulla tua isola. Un vento che soltanto in Grecia si poteva sentire.
Avevate già avuto un assaggio della falsa primavera indotta da Eris ma era davvero poca cosa rispetto a quella vera. Tu stesso potevi avvertirne la differenza, respirando a pieni polmoni la freschezza dell’aria umida. L’altra aveva un vago retrogusto di putrefazione, altro che riscaldamento globale. 
Era piovuto la sera prima e, adesso, l’arena era tutta una poltiglia dove i giovani apprendisti stavano giocando alla lotta nel fango. I loro schiamazzi e le risate rimbalzavano in tutta l’area, strappandoti un sorriso divertito. 
Era abbastanza raro che voi Cavalieri d’Oro vi allenaste assieme a tutti gli altri, ma non era impossibile. Preferivate allenarvi altrove. Di solito era meglio il proprio luogo d’addestramento, anche se nel tuo caso non era una buona idea partire per l’isola di cui portavi fieramente il nome. 
«Sembra che non ci sia un solo posto libero per allenarci». Costatò la voce di Aiolia a mo’ di saluto. Non ti spaventasti, lo avevi sentito arrivare.
«Potremmo sempre usare gli spalti». Proponesti. O forse no, perché proprio in quel momento alcuni ragazzini salirono sulle gradinate nel tentativo di sfuggire alle palle di fango volanti. Non invidiavi per niente quei poveracci che avrebbero dovuto ripulire. «Potremmo sempre unirci a loro». Propose il fratello minore di Aiolos.
«Mi ci vedi?» Domandasti mezzo scherzoso.
«No, in effetti».
«Su, andiamo a cercare un altro posto». Propose il tuo amico e tu lo seguisti.
Arrivaste in una radura incuneata tra le rocce. Di solito i servi la usavano per stendere il bucato per via dei pochi alberi che erano riusciti a piantarci qualche secolo prima e che sopravvivevano ancora adesso. Qualcuno aveva approfittato del tempo per stenderli. Ma tu eri sicuro che non li avreste neppure toccati. Siccome d’estate era anche uno dei posti più ventilati, qualcun altro aveva avuto la bella idea di metterci un tavolo di legno con delle sedie.
«Sei sicuro che vada bene?» Ti chiese Aiolia guardandoti.
«É perfetta e poi abbiamo tutto lo spazio che ci serve». Rispondesti aprendo le braccia come a indicare i sessantacinque metri quadri di spazio aperto che vi circondavano.  
Sceglieste il posto più lontano dal bucato e cominciaste. Ben presto però iniziaste a ridere come due imbecilli per gli scivoloni che, spesso, mandavano a quel paese le vostre mosse. Lui si vantò di avere più stabilità di te. Gli sarebbe anche riuscito meglio se a un certo punto non fosse scivolato di faccia nella fanghiglia. Si rialzò a quattro zampe sputacchiando fango e tu scoppiasti inevitabilmente a ridere. «Ah, sì? Ridi?» Raccolse una manciata di fango e te la tirò. La evitasti scansandoti di lato, ma il fango traditore non risparmiò neppure tu che scivolasti, inzaccherandoti tutto. E stavolta fu il turno di Aiolia di prenderti in giro.
«Aspetta che ti prendo!» Lo minacciasti ridendo a tua volta, ma l’altro si era già scansato. Lo raggiungesti con un balzo e riprendeste a lottare a inzaccherarvi. Per sfuggirgli saltasti sull’angolo del tavolo, ribaltandolo. Ti ritrovasti di nuovo a terra, in piedi. Aiolia ti raggiunse e ti sferrò un calcio che tu evitasti. Facesti lo slalom attraverso il bucato, attirandolo nella tua trappola. Gli passasti dietro la schiena e gli stampasti una bella maschera di fango, prontamente raccolto, sulla faccia. «Ah, sì, eh?» Disse ripulendosi gli occhi con le mani. Poi ricambiò il trattamento con uno sciampo al fango che appesantì ancor di più la tua chioma.  
Alla fine il vostro allenamento era diventato un rotolarsi nel fango come maiali. O meglio, come quei bambini che non eravate mai potuti essere. Era in queste occasioni che ti ricordavi quanto foste ancora giovani, a dispetto di tutto. Un paio di volte cercasti di spiaccicargli la fanghiglia in faccia, visto che ti aveva canzonato. E, lui aveva ricambiato di tutto cuore.
Il vostro gioco venne interrotto da un orripilato grido femminile: «No! L’avevo appena lavato!»
Vi immobilizzaste immediatamente come se qualcuno avesse sparato in aria. Tu che eri girato di spalle ti voltasti e vedesti una sgomenta Astrid guardare il bucato da rifare.
«Oddea!» Esclamasti rendendovi conto del macello che avevate combinato. «Mi dispiace, non ce ne eravamo accorti, ci siamo lasciati prendere la mano». Si scusò prontamente Aiolia. Non l’avevate fatto apposta. Anche se non la sopportavate la trattavate con la dovuta stima. Non era da voi giocarle un tiro mancino così infantile.
«Non fa niente, forse sono ancora in tempo per lavarli un’altra volta». Disse, cercando  di vedere il lato positivo.
«Se vuoi ti diamo una mano». Si offrì il tuo collega e tu lo guardasti quasi scandalizzato: ma se non sapeva nemmeno usare una lavatrice!
«No, guardate, ce la posso fare anche da sola». Vi bloccò alzando una mano e squadrandovi dalla testa ai piedi: in effetti sembravate due golem, avreste solo peggiorato la situazione.
«Ma sono tante cose». Obiettò Aiolia, in preda ai sensi di colpa. La bionda si schernì: «Ma no, è solo uno stendino».
«Insistiamo». E a quel punto lei tentennò. In realtà tu te ne eri rimasto zitto, ma avresti dato una mano molto volentieri, avresti rimediato al pasticcio che il Leone avrebbe causato. «Va bene, se proprio ci tenete. Allora, potreste prendere quei panni mentre io prendo le mie cose e… I libri della biblioteca! I miei calcoli! I miei disegni! Cosa avete fatto!» Esclamò vedendo poi il tavolo ribaltato e il resto sul terreno ancora bagnato.
E qui anche voi sussultaste. Libri della biblioteca? Ossignora! La ragazza si chinò e raccolse rapidamente i preziosi libri. Cercò di ripulirli quasi febbrilmente, prima che fosse troppo tardi.
Stavolta fosti tu a parlare, facendo un passo avanti: «Mi dispiace, io non volevo, davvero…» Iniziasti e lei ti fulminò con lo sguardo, guardandoti da sopra una spalla. Uno sguardo ferino che ti fece serrare la bocca. Cercasti di scusarti: «Dai su, non è la fine del mondo, sai quanti se ne trovano in giro così? Dai, guarda il lato positivo, lo potrai usare per carnevale. Ma sì, dai, potresti farci i coriandoli».
Aiolia ti guardò con occhi sgranati quasi all’inverosimile, mentre aiutava Astrid. Subito dopo ti rendesti conto di quello che avevi detto e ti maledicesti mentalmente.
Il volto della ragazza si rabbuiò e capiste di essere finiti dalla padella alla brace. Soprattutto tu.
Temesti per le vostre vite, ma lei si limitò a finire di raccogliere gli appunti imbrattati e i libri e sbottò: «Bè, perché ve ne state lì impalati? Aiutatemi a rimediare a questo casino!»
Così, pigolando scuse che furono ricambiate con commenti sarcastici e sbotti di risposta, l’aiutaste. Aiolia portò ai restauratori i libri e poi tornò ad aiutarvi. Per i suoi appunti e i suoi calcoli non poteste fare niente, se non affidarvi alla psicocinesi di Kiki e Mur e pregare che i due non decidessero di linciarvi, mentre riportavano tutto al loro aspetto originario. Affidandoli, ovviamente ai restauratori. 
Non tanto per i libri, quanto per la vostra stupidità, spesso rimarcata dalle occhiatacce lanciatevi dal maestro di Raki.  Già più sopportabili di quelle di Astrid.
Per quanto riguardò il bucato, sotto le sue direttive tornò del suo vero colore. Alla fine avevate le mani doloranti, arrossate e coperte di vesciche. Non pensavi che le lavandaie mettessero così tanta forza nel loro lavoro. Una vaga idea ce l’avevi, perché le avevi osservate anche in passato, ma tra osservare e provare c’è di mezzo il mare. I gesti, gli ordini e le movenze di Astrid comunicavano: “Avete insistito per aiutarmi? Bene, allora fate come vi dico io!” Con l’inaspettato carisma di un Cavaliere d’Oro, per di più. Vi appuntaste entrambi di non farla mai arrabbiare.
Aiolia resistette stoicamente mettendoci impegno e solerzia. Forse troppa, visto che rischiò di bucare dei vestiti. A un certo punto Astrid lo aveva fermato prendendogli i polsi. Poi gli aveva fatto capire quanta forza avesse dovuto esercitare e come. Mancò poco che il gattaccio arrossisse.
L’ultima volta che avevi lavato qualcosa era rimasto un imbarazzante alone e, non avevi capito fino a quel momento dove avessi sbagliato.
Ora, alle nove di sera e molti panni dopo, lo sapevi. Fortunatamente che il bagno e la cena te li preparò qualcun altro, perché non avevi la forza di fare più niente.   

Avevi un brutto presentimento. Un presentimento che si accompagnava al ritmo di una canzone degli Anni Ottanta che Quentin Tarantino usò per Kill Bill. La differenza era che il tuo avversario non era la Sposa, non brandiva una katana e non ti avrebbe mozzato la testa. A dirla tutta non ti sembrava capace di un atto simile anche a cose normali. Quello dell’attacco di Eris doveva essere stata una necessità dettata dal momento. L’avevi capito fin troppo bene che non era nella sua indole uccidere. Però, a questo punto ti domandavi se avesse avuto qualcosa a che vedere anche con il primo attacco di Artemide ai danni del Santuario. Che fosse stata lei ad aver spezzato l’incantesimo suonando il gong nella Meridiana dello Zodiaco? Anche sforzandoti di pensare ad altro la tua mente tornava sempre su quella sensazione che ormai pungolava come una spina sollecita i nervi. Non riuscivi a toglierti dalla testa né il motivetto dei Santa Esmeralda, né quella brutta intuizione che aleggiava su di te come un avvoltoio sulla carcassa.
Forse eri esaurito, o forse non eri ancora guarito completamente, sebbene Shun affermasse il contrario. Che c’entrasse in qualche modo Astrid? Un paio di volte avevate lavorato fianco a fianco. L’avevi aiutata a spostare alcuni mobili. Anzi, ti eri quasi offerto di fare il lavoro pesante al posto suo così, avevi persino ripassato il Governo italiano ascoltando le sue astruse imprecazioni. Qualche volta ti era anche scappata una risata. A parte questo avevate anche conversato civilmente. Stranamente, la conversazione era filata liscia come l’olio.
Allora perché questa sensazione, adesso?
Ti eri svegliato e avevi avuto voglia di berti un caffè con cacao. Faticasti tantissimo per trovare la bustina. Sapevi che Astrid te l’aveva comprato l’ultima volta che era scesa al mercato.
Solo che avevi esagerato nel tentativo di aprirla e ora la tazza ne era sommersa. Poco male, a te piaceva il cacao, anche se era strano. Aveva detto che era di un nuovo tipo di cioccolata, ma a te sembrava ci fosse un po’ di qualcosa che eri ancora troppo assonnato per identificare. Risultato, ti bevesti un caffè al peperoncino rosso.
L’effetto della polvere pestifera fu quasi istantaneo, facendoti urlare come non mai la tua versione del canto del gallo mutante.  D’accordo che ti volevi svegliare, ma non era necessario rubare il lavoro a Rhadamantys! Tanto avevi la bocca in fiamme, mancò poco che bussasse alla tua porta a chiederti come diavolo ti fosse riuscito il trucco. Tu, che la tua costellazione del fuoco non aveva neppure l’ombra.
Cercasti di sedare le fiamme aprendo il rubinetto, ma, accidentaccio schifoso, mancava l’acqua a causa dei lavori! Erano riusciti a riportarla solo nelle prime sei Case.
Perciò ti ritrovasti a urlare di dolore, aprire anzi, quasi scardinare la porta della ghiacciaia e a cercare di sedare il bruciore scolandoti un’intera bottiglia d’acqua fredda.
Riemergesti dalla frigidaire infreddolito e tremante. Ti appoggiasti allo stipite dell’ingresso, poi scivolasti a sedere sul pavimento. Riprendesti fiato continuando a restare appoggiato in quella scomoda posizione.
Quando ti staccasti, con un verso simile a quello di una persona che ha passato troppo tempo in apnea, ti lacrimavano gli occhi. La lingua ancora dolente adesso ti sembrava rosolata a puntino. Il bruciore, per quanto attenuato, era ben lungi dall’andarsene e tu avevi appena finito la bottiglia. 
Fu allora che sentisti la risata femminile che ti fece girare la testa verso l’ingresso della cucina.
«Astrid!» Esclamasti. Non si sa per grazia di quale miracolo riuscisti a parlare con voce ancora parzialmente normale, invece che lanciarti nell’imitazione di Gatto Silvestro. Ti sembrava persino di avere la lingua gonfia, in barba a tutti i Tembū Horin di Shaka.  Era appoggiata allo stipite della porta di cucina. La testa appoggiata allo stipite e le braccia e le caviglie incrociate. Un ghigno divertito albergava sul suo volto. I furbi occhi gialli ti squadravano soddisfatti. Ti scoccò uno sguardo intenerito: «Sei veramente carino, sai? Peccato che io non abbia avvertito Chrysafi; per come sei ridotto ti farebbe molto volentieri da crocerossina». Scherzò. Adesso non pensavi più di avere a che fare con una fragile, dolce ancella, ma con la tua nemesi fatta persona. La stessa che avevi cercato di buttare fuori dal Santuario senza successo. Avevi sperato che lo scherzo dei capelli sul cuscino fosse un caso isolato ma questo era voluto. Eccome se lo era e non faceva mistero di nasconderlo. Adesso capivi tutto. L’ira montò dentro di te. «Tu! Sei stata tu!» Sbottasti.
Alzò le spalle: «Certo».
Non aveva neppure la faccia tosta di negare. Fu questo a toglierti tutte le parole di bocca, poi ti rinvenisti: «Perché l’hai fatto? Ho la lingua e la gola in fiamme!»
Lei affinò lo sguardo e replicò, malevola: «Così impari, Piattola».
Ti accigliasti immediatamente, offeso nell’orgoglio: «Piattola? Ehi! Come osi?» Poi gemesti un’altra volta di dolore a causa dell’ustione da peperoncino piccante.
«Perché, non è quello che sei?» Domandò quella sfacciata, battendo una volta le palpebre, simulando un’innocenza che davvero non poteva avere. «No! Io sono il Cavaliere d’Oro dello Scorpione! Sono uno Scorpione, capito?» Sbottasti imbestialito nonostante il bruciore che ti incendiava la mucosa della bocca e la bocca dell’esofago.
 «Certo, certo, come vuoi, ma per me sei comunque una Piattola. Una piattola sputafuoco, a quanto pare». Scherzò sarcastica. Solo la Dea sa con che coraggio te ne restasti incollato al pavimento. Ti fermasti dal pianificare di abbassarti al suo livello o di trattarla alla stregua dei nemici. Forse perché era una civile, non c’era alcun onore nel sopraffare una persona incapace di difendersi e, contro di te nessun civile poteva qualcosa.
Prima che succedesse qualsiasi altra cosa, lei si staccò dalla porta: «Ora devo andare. È stato un inizio di giornata molto divertente». Sogghignò. Balzasti in piedi e sbottasti, indicandoti. La lingua ancora infiammata: «Ehi! Aspetta! E mi lasci così?»
Lei, girata sul fianco destro, ti osservò un momento prima di alzare una spalla e consigliarti: «Prova a bere qualcos’altro, del latte dovrebbe andare bene».
«Ehi! Ehi! E, mi lasci qui così? In questo stato?» Domandasti sporgendoti sul tavolo. I palmi ben piantati sulla superficie lignea. Si girò completamente, incrociando le braccia. «Strano, non mi sembra che tu abbia fatto qualcosa per aiutarmi quando mi hai annientato metà dei miei calcoli astronomici». Ti ricordò piccata, poi ammorbidì il tono, «comunque dammi retta: bevi del latte, sarà sufficiente per togliere il bruciore. Ah, prima che tu mi accusi di qualcos’altro, sappi che ho solo cambiato l’ordine dei barattoli, per il resto sale e zucchero sono sempre in cucina». Poi ti salutò e se ne andò.
Non ti fidavi molto di quello che diceva, ma non avesti altra scelta. Male che andasse saresti corso in infermeria alla velocità della luce. Con tuo enorme sollievo non aveva mentito. Svuotasti mezza confezione per placare il bruciore.
Fino a quel momento non avevi pensato di avere un lato vendicativo anche tu. Forse era figlio del connubio tra l’impulso represso di farla a fette, della rabbia, del risentimento e dell’orgoglio ferito.
Avevi ricambiato quello scherzo. Lo avevi ricambiato eccome. Facendole trovare il bagno in disordine due pomeriggi dopo. Perché, se c’era una cosa che avevi capito, era che odiava pulire i bagni in generale. Scherzo veramente idiota, quello, a ripensarci. Eppure in quel momento, ti sembrò un ottimo modo per punirla e per ricordarle che tu eri uno dei suoi datori di lavoro. Poi Piattola, ma come si permetteva?
Del tuo bagno lei ebbe l’impressione che ci fosse passato un terrorista e, in effetti a riempirlo di sudiciume, polvere, calcinacci e metterlo sotto sopra ti eri sbizzarrito. A dare l’impressione che fosse il trogolo di un maiale no, almeno quello no, non eri così volgare. Ma a devastarlo ce l’avevi messa tutta.
Ci aveva messo mezza giornata. E tu ne eri stato felicissimo. A dir la verità non ti aspettavi neppure che lo facesse con sì tanta solerzia. Si era fermata soltanto per mangiare qualcosa. A fine lavoro ti aveva salutato dicendoti, in tono stanco. «Io ho finito. Alla prossima».
«Ciao». L’avevi accompagnata con lo sguardo dalla soglia della tua Casa. Provasti una punta di rimorso; sembrava veramente stanca. “Forse ho un po’ esagerato”. Pensavi che ti avrebbe detto qualcosa, ma forse non si era neanche accorta che avevi fatto tutto quel casino solo per metterla in difficoltà. L’avevi giudicata male. La sua stronzaggine era solo una facciata.
Alla fine ti eri veramente abbassato al suo livello e, il tuo onore di Gold Saint era andato a farsi benedire. Com’era potuta succedere una cosa del genere? Se qualcuno avesse saputo ti avrebbe riso dietro per decadi. Che anche se giocherellone eri comunque una persona molto seria.
Avresti dovuto scendere a cercarla, poi, quando avresti smesso di vergognarti come un cane per aver calpestato così la tua dignità di Gold Saint.

Quando natura aveva chiamato, anche tu eri andato in bagno. Appena entrasti le tue narici fiutarono l’odore di pulito quasi istantaneamente. Aveva fatto veramente un buon lavoro, tanto che sembrava nuovo. E ciò non fece che aumentare i tuoi sensi di colpa.
Sensi di colpa che scomparvero quando, al momento giusto, scopristi che aveva sostituito la carta igienica con lo scotch da pacchi e un biglietto. Il foglietto recava una bizzarra dedica a penna: voglio fare un gioco con te e il disegnino della faccia di Saw di Scary Movie.
Accartocciasti immediatamente il post-it, fremendo di rabbia.
E tu che ti eri anche sentito in colpa.
Trasformasti l’urlo di rabbia che ti salì in gola in un verso di stizza. Era passata un’ora e mezza buona, prima di trovare una soluzione che non prevedesse una superflua, quanto imbarazzante e dolorosa ceretta alle zone intime. Anche perché, aveva nascosto tutti i rotoli di carta igienica altrove. Questa era la riprova del fatto che fosse molto sveglia.
Quando eri finalmente uscito avevi scarabocchiato qualcosa sul biglietto-dichiarazione di guerra, poi eri andato a cercare Castalia. Ormai mancavano pochissimi ritocchi e il Santuario sarebbe tornato come nuovo, perciò non c’era più tanta gente come prima sulla scalinata.
La trovasti in infermeria (ristrutturata da cima a fondo e già agibile) che stava controllando la cartella clinica di uno dei pazienti. «Castalia». La chiamasti e la raggiungesti. 
La Sacerdotessa-Guerriero alzò la testa verso di te. «Oh, nobile Milo, buon pomeriggio, cosa vi porta qui?»
Ricambiasti il saluto e le dicesti: «Ascolta, potresti fare una cosa per me?»
«Ma certo, ditemi tutto».
«Bene, potresti consegnare questo ad Astrid, per cortesia?» E gli avevi passato il quadratino di cartone. Ci avevi scritto solo due parole: quando vuoi.
Inutile dire che i problemi cominciarono fin da subito. Per esempio, entrambi foste convocati da Galan quel giorno stesso e fornire spiegazioni. Perché Castalia ritenne più opportuno informarlo immediatamente, onde evitare sgradite sorprese e porre subito un freno a queste bravate, invece di limitarsi a consegnare il messaggio. Ci metteste un po’ per fargli capire che era uno scherzo.
Quando l’anziano ci arrivò vi congedò e, quando usciste dalla Quinta la ragazza ti sibilò: «Sappi che la dichiarazione è ancora valida». 
«Io non mica detto che mi tiro indietro». Sibilasti di rimando, guardandola in cagnesco. Lei ricambiò.  Voleva la guerra? E, guerra avrebbe avuto.
Poi vi separaste, andando in direzioni opposte.

Come avevi maledetto il giorno in cui avevi scritto quelle due paroline. Povero, povero, sciocco, Milo. Pensavi che l’avvertimento di Galan avrebbe rimesso Astrid in riga? E invece, no: aveva solo ottenuto l’effetto di diventare più furba e discreta. Così tu, che ti eri sempre vantato di essere inattaccabile e di poter sorprendere i tuoi avversari, ti ritrovasti con il più tenace di tutta la tua vita. Ogni volta che pensavi di aver messo a segno un colpo, ecco che ti veniva restituito, più presto di quanto di aspettassi e più fastidioso del precedente. 
Era avvenuto quando eri uscito di Casa la mattina dopo, lasciando Astrid a preparare la crema pasticcera per un dolce che volevi offrire in segno di benevolenza ad Aiolia. Con il quale eri di nuovo ai ferri corti.
Ma mentre scendevi le scale tutti quelli che ti avevano visto avevano cominciato a riderti alle spalle. Tu non avevi saputo spiegarti il perché, finché non avevi sentito dire a un bambino: «Nonna, cos’ha quel signore attaccato ai capelli?»
«Non guardare, figliolo, non guardare». Poi un’altra, accanto ai due, «Certo giovani non sanno più cosa inventarsi. Ma ti ricordi di quel punk che portava una spilla da balia a mo’di piercing sulla guancia?»
«Santa Atena, non me ne parlare, ma dove andremo a finire?» A quel punto ti eri spostato i capelli sul davanti e avevi sentito qualcosa toccarti la coscia. Avevi afferrato l’oggetto e, sollevandolo, avevi scoperto la tua chioma mossa, legata a mo’ di gassa d’amante alla frusta che aveva usato per montare la crema. Quando era riuscita annodarla? E perché non te ne eri accorto? 
Il brutto arrivò quando tentasti di sciogliere il nodo, perché non ci riuscisti. Ti ficcasti la chioma nella giacca e battesti immediatamente in ritirata nella Seconda dove stavano facendo colazione Aldebaran e Aiolia. Che s’interruppero e si girarono a guardarti, sconvolti, «Aldebaran!» Quasi urlasti.
«Ciao». Ti salutò svogliato Aiolia, prima di accorgersi della tua agitazione. «Milo! Che succede? Ehi! Ma che fai?» Ma tu l’avevi superato e ti eri avvicinato repentinamente al bagno. Non ce la facevi a dirlo. «Milo! Che è successo?» Sentisti dire al custode della Seconda a quello della Quinta mentre ti ci asserragliavi.  Eri sparito in bagno alla velocità della luce ma l’avevi trovato vuoto. Allora eri tornato in cucina quasi travolgendoli. I due protestarono: «Milo! Ma che succede?», «Ehi, si può sapere che ti prende?» Avevi, infatti, cominciato a rovistare nei cassetti come un ossesso.
«Ho bisogno di un paio di forbici, un pettine, qualcosa, subito!» Esclamasti paonazzo e quasi sull’orlo dell’isteria. «Dove li tieni? Per favore, dimmelo è un’emergenza». 
A quelle parole i due si allarmarono: «Ma perché? Che è successo?»
A quel punto estraesti la tua chioma e i due ti guardarono sbigottiti: «Questo! Questo è successo!»
E i due ti scoppiarono a ridere come deficienti.
A quel punto aveva fatto la sua comparsa il Grande Mur e, vedendoti, si era portato la mano davanti alla bocca per nascondere una risatina. Poi disse, sorridendo divertito. Gli occhi color malachite splendenti di malizia: «Io te l’avevo detto che si sarebbe vendicata, Aiolia». Se vederlo sorridere così era strabiliante già di suo, figurarsi allora tutto il resto. 
Sgranasti gli occhi: «Aspetta, tu lo sapevi? Sapevi che l’avrebbe fatto?» E tu che le avevi pure dato il via libera per continuare. D’accordo, il danno era fatto. Ormai eri in ballo e avresti ballato, non esisteva che un Cavaliere d’Oro della Dea Atena si tirasse indietro. Ne andava del tuo orgoglio personale. Anche se era decisamente più ridotto di quello di Death Mask e Aphrodite.
«Certo che lo sapevo, ricordi che ho passato abbastanza tempo assieme a lei?» Spiegò tranquillamente il maestro di Kiki, facendo spallucce. «Aspettava solo la tua prima mossa falsa e avrebbe colto l’occasione al volo». Aiolia accanto a lui che si sganasciava dalle risate.  
«Brutto… Perché non me l’hai detto?»
«Perché pensavo che saresti stato capace di contrattaccare benissimo anche da solo. Forse mi sbagliavo». Costatò poi, dopo averti osservato mezzo secondo.
«Ma come hai fatto a non accorgertene?»
«Non lo so, forse ero troppo concentrato a giocare a Temple Run e questa giacca non mi aiuta». Rispondesti asserendo alla tua meravigliosa palandrana nera che avevi comprato in un negozio di abiti underground a Tokyo due anni prima. Poi ti accorgesti della faccia del Grande Mur e lo fulminasti con lo sguardo: «Fatelo smettere prima che vada in iperventilazione!» Esclamasti con il viso rosso e rovente come poche volte in vita tua. 
«Ecco qui Milo». Fece Aldebaran con aria di scuse passandoti un pettine di Yoshino, rosa e con le decorazioni di strass, che aveva creato la ragazza stessa. Oltre al danno anche la beffa.
Non ci volevi credere.
Quasi glielo strappasti di mano fumigando dalle orecchie, facendo concorrenza alle cicche di Death Mask e, ti chiudesti in bagno schiumante di rabbia.
Quando avevi detto che qualcuno qui aveva bisogno di un hobby, non ti riferivi a te.
Stavolta non avresti cercato di parlarle come la prima volta: avresti rimediato un’ulteriore beffa e, tutto di te si poteva dire, fuorché tu fossi un completo imbecille. No, stavolta ti saresti approcciato a lei con un piano. Un piano ben congeniato.

Serpenti.
Ecco cosa ti riferì Kiki quando lo invitasti a casa tua e gli chiedesti un consiglio per ribaltare lo scontro a tuo vantaggio. Per questo l’avevi invitato a bere qualcosa quella sera all’Ottava Casa. E, tra una chiacchiera e un bicchiere, eri riuscito a portare la conversazione dove volevi tu.
Ma i serpenti?
Pensavi che sarebbe stata una buona strategia informarti sulla tua nemica, dal momento che conoscevi pochissimo di lei e che non potevi analizzarla in combattimento. Quello che aveva fatto era troppo poco per decifrarla. Ecco, questa era la base del tuo glorioso piano. «Serpenti?» Ripetesti con un sopracciglio inarcato in segno di perplessità, mentre ti spostavi sul divano e l’altro si sistemava meglio all’altro capo del medesimo.
Che avesse intenzione di mettertene alcuni nel letto? Nah, non pensavi fosse sadica fino a questo punto e poi erano ancora in letargo. Le minacce che ti arrivavano da lei erano più che altro ragazzate che poi, se ti soffermavi a pensarci, ti facevano sganasciare dalle risate. Soprattutto la parte dello zoccoletto della nonna.  
Kiki annuì, mettendo giù la tazza di tè. «Almeno, dice di meditare su di loro».
Ok, la tua avversaria stava meditando sui serpenti. Ti accigliasti. “E, cioè?” Pensasti inarcando un sopracciglio senza tuttavia trovarci un nesso logico. Ripensasti alla marca di tè perché non era possibile che Kiki si ubriacasse con così poco. Aveva le guance rubizze e ti sembrava più allegro del solito, mentre straparlava. Che diavolo stava sparando? Adesso si metteva a parlare per indovinelli tipo Oracolo di Delfi? Lo fermasti subito: «Capisco che ti piace, ma non occorre che parli per enigmi, non arriverei mai a nuocere alla sua persona».
A quelle parole tutto il sangue del lemuriano si concentrò sulla sua faccia, neanche si fosse appeso al soffitto tipo Batman: «Cosa? Io non ho mai detto che mi piace». Si difese.
Gli lanciasti un’occhiata eloquente ma decidesti di stare zitto. Eri abbastanza sensibile da saper riconoscere una persona innamorata quando la vedevi. Anche se ne avevi viste poche, a essere onesti. O quello o era malattia oppure era crack. Perché non ti sapevi spiegare i suoi occhi brillanti, l’inappetenza, la distrazione e i sospiri. Se si era preso una sbandata per lei, se foste stati un po’ più in confidenza, ti saresti congratulato con lui. Anche se l’oggetto dei suoi desideri era Astrid.
«No, acqua».
Ora sì che non capivi proprio più una mazza. Lo guardasti come a dire “Che lingua è questa?” E Kiki, dopo un sospiro, spiegò: «Dice che sta provando a mettere in pratica gli insegnamenti di sua madre sulla Dottrina dell’Acqua».
«Cioè?» Domandasti prima di bere un sorso dal tuo bicchiere. Avevi già affrontato persone capaci di manipolare l’acqua. Bisognava capire quanto la ragazza fosse brava. Anche se il lemuriano ti disse che non era quello cui stavi pensando.
«É una filosofia orientale. Stando all’oriente c’è un po’ di un elemento naturale in ognuno di noi. Mi ha raccontato di essere stata in Giappone con sua madre e, una sacerdotessa shintoista che la visitò per farle l’oroscopo, le disse che dentro di lei c’era tanta acqua; solo che non sapeva come ricorrere a questi poteri. Mi ha assicurato che non è una cosa da Gold Saint e che non ha niente a che vedere con il Cosmo. Sta cercando di diventare come l’acqua tramite delle analogie. In questo caso dei serpenti. Un po’ me l’ha spiegato: la loro muta è il ghiaccio che si forma d’inverno e  si scioglie in primavera, il modo di muoversi è lo scorrere dei corsi d’acqua. I serpenti, secondo questa filosofia, corrispondono anche ai torrenti e ai vari fiumi del mondo, intese come le vene della Terra».
«Oh, allora le farà comodo sapere che lo Scorpione è un Segno d’Acqua. Questo renderà lo scontro a mio favore».
«Ha detto che lo sa, ma che non ha paura di te». 
«Ricorda un po’ il principio dell’Arché di Talete, non trovi?» Gli chiedesti, bevendo un altro sorso.
«Sì». Concordò, anche se qualcosa ti disse che non sapesse neppure a cosa ti riferissi. Stando ai primi filosofi della Magna Grecia, i Naturalisti, l’Arché, ovvero il principio da cui si era originata la vita, andava ricercato in un elemento naturale. Per Talete di Mileto, il primo di questi, tale principio era l’acqua. Un giorno non sapevi che fare e avevi letto un libro di filosofia. Non ci avevi capito molto, ma questa parte ti era rimasta molto impressa. «Quanto credi che ci vorrà prima che sviluppi questo nuovo potere?» Indagasti.
«Dipende, non è una cosa automatica, ha detto che potrebbe volerci poco come anche un mese».
«Ah, bè, allora saprò sfruttare bene questo tempo».
«Milo, per favore, cerca di non essere troppo pesante con lei». Ti fermò in apprensione. Lo guardasti in faccia e lui abbassò lo sguardo, ma le sue guance erano più rosee del solito e non avevano niente a che vedere con il calore della bevanda che aveva appena bevuto. Non poteva neppure rifugiarsi dietro la scusa del “sono ubriaco” perché il tè è analcolico e tu gli avevi servito solo del tè fino a questo momento. 
«Tranquillo, Kiki, non ho alcuna intenzione di ucciderla. Non è per i massacri che mi sono conquistato il titolo di Cavaliere d’Oro». Gli ricordasti, anche se le parole parvero intrise di un po’ di vanto.
«Te lo auguro». E, quel te lo auguro alle tue orecchie somigliò moltissimo a una minaccia.  

Astrid
Non sempre uscivo con Yoshino, c’erano delle serate, quando non esercitavo, che passavo in compagnia di Castalia, Juan e Georg. Uscivo con quest’ultimi perché mi divertiva il loro modo di essere opposti e al tempo stesso complementari. Georg così pacato, quasi misterioso che non si scomponeva mai e Juan così spigliato, logorroico e pronto a emozionarsi per qualsiasi cosa. Soprattutto per un viaggio in un altro Paese. Mi avevano raccontato della loro permanenza in Giappone ai tempi della tirannia di Arles. E di come avessero cercato di difendere Katya di Corona Borealis dalla loro collega del Pavone.
Ero rimasta ammirata dalla loro cavalleria e dalle loro gesta. Se fossero stati qualcosa di diverso che da una coppia di amici, pensavo che sarebbero anche stati bene insieme.
Juan aveva spuntato i capelli e Georg si era fatto la barba dall’ultima volta che l’avevo visto. Non erano potuti venire a trovarmi perché i lavori di ristrutturazione li avevano tenuti abbastanza impegnati.
«Come ci sei riuscita a usare il Photon Burst? Sapevo che era una tecnica esclusiva di Aiolia del Leone, ma non la usa più dalla Titanomachia». Mi chiese lo spagnolo.
«Infatti quello non è questo Photon Burst qualsiasi cosa sia. Non so come è successo, a un certo punto mi sono ricordata di aver già affrontato Eris e le sue truppe». Rivelai. Di loro mi fidavo abbastanza per rivelargli questa parte del mio passato. Gli altri che lo sapevano erano la Piattola, Death Mask, un po’ Aiolia e Castalia. Ma solo Death Mask e Castalia conoscevano tutta la storia.
«Quindi è possibile che tu da piccola sia riuscita a metterti in contatto con un Saint?»
Mescolai il mio barracuda con lo stuzzicadenti a ombrellino verde: «Ormai non lo escludo più. Ho pensato spesso a questi ricordi, ma non vengono istantaneamente».
«In questi sprazzi ti ricordi se ha mai usato qualche tecnica particolare?»
“Non lo dire”. Mi ammonì la voce del mio amico.  Sussultai e mi scusai con i miei amici asserendo che qualcosa mi avesse punto. “Cosa?” Pensai mentre mentivo.
“Non scendere nei dettagli, ti prego”. Mi supplicò la voce maschile.
“Perché?”
“Non è ancora il momento che sappiano che sono tornato, potrebbero reagire male e non voglio che sia tu a rimetterci”. Nonostante l’avvertimento, il senso delle sue parole non mi piacque. Perché avrebbero dovuto reagire male? L’avevano forse esiliato? “Qualcosa del genere”. Rispose lui con voce affranta, decifrando le mie sensazioni e il mio neonato sospetto. Mi portai il bicchiere alle labbra. “Oh”. Mi sfuggì. Mi dispiacque molto per la sua sfortuna. “Sei sicuro?” Domandai con delicatezza.
“Sì”. Dovette percepire la mia incertezza, perché mi supplicò: “Per favore, fidati di me”.
“D’accordo”.
«Astrid?» Mi chiamò perplesso Juan.
«Sto pensando». Inventai e, per sicurezza, riguardai anche i ricordi. Infine dissi: «Tornando al discorso di prima, ora che ci penso niente di particolare, mi ricordo solo che con il suo Cosmo riusciva a interagire con gli animali e che era molto forte. Ma di tecniche particolari non mi ha insegnato niente». Nonostante la pena, mi appuntai anche di scoprire il perché. Questa storia del suo esilio non mi piaceva molto. Se avesse solo cercato di manipolarmi? «Neppure a combattere?»
«No, però è stato lui a insegnarmi a meditare e a usare questo potere».
«Potrebbe essere Ilias di Leo». Buttò lì Juan senza scomporsi.
«Chi?»
«Il precedente Cavaliere del Leone prima di Regulus, nonché suo padre. Si dice che lui fosse effettivamente in grado di comprendere gli animali e comandarli, oltre che comprendere il creato. Si rifugiò in America trovando ospitalità in una tribù e lì trovò anche l’amore con una donna che gli diede il figlio Regulus».
«Ma la persona che mi ricordo io ha gli occhi gialli con la pupilla verticale e i capelli molto lunghi».
«I predecessori di Aiolia del Leone avevano questa caratteristica ereditaria, erano occhi capaci di scorgere ciò che gli occhi normali non vedevano, venivano chiamati Occhi del Leone. Per quanto riguarda i capelli, se è tornato alla vita mi pare ovvio che gli siano anche cresciuti, non lo sai che quando una persona muore, la sua pelle si ritrae dando l’impressione che siano cresciuti capelli e unghie? In ogni caso non sarebbe il primo. Molti altri hanno fatto lo stesso per addestrare i nuovi Cavalieri d’Oro, non mi sorprenderei poi, se qualcun altro avesse imparato nuove tecniche o perfezionato quelle vecchie».
«In effetti ci sta». Convenne Georg. «Per esempio, Death Mask di Cancer fu addestrato dal Cavaliere d’Oro del Cancro del XVIII secolo DeathToll, gli stessi Cavalieri dell’Ariete sono stati addestrati dal venerabile Shion, che poi tornò in vita per completare la formazione di Kiki dell’Ariete».
Non ne avevo mai sentito parlare: «E adesso dov’è?» Chiesi incuriosita.
«Se non ricordo male dovrebbe trovarsi in un monastero shintoista da qualche parte, non mi ricordo se in Cina o in Giappone».  
«Ilias di Leo era così potente?»
«Dicono di sì, però c’è da considerare che i Saint, quando muoiono e tornano in vita, diventano ancora più potenti, soprattutto i Gold Saint. L’abbiamo scoperto nella scorsa Guerra Sacra contro Zeus».
«Perché quest’aumento di potere?»
«Perché sembra che diventino in grado di trascendere i limiti umani. O almeno è quello che abbiamo sentito dire».  
«E, tra i Gold attuali chi è il più forte?»
«Fisicamente?» Domandò Juan dopo aver bevuto un sorso di birra. Non era quello che intendevo però come partenza andava bene. «Shura di Capricorn».  A sentire questo nome rabbrividii. 
«Ti mette paura?» Domandò Georg smettendo di bere il suo moscow mule.
«Si nota tanto?» Dopo Aldebaran era la seconda persona che me lo domandava. Lui annuì.
«Mi hai ricordato moltissimo Xiaoling dell’Orsa Minore». Commentò portandosi una mano a sorreggere il mento.  E qui attaccò a raccontarmi la storia partendo molto alla lontana. Ovvero che non era la prima volta che affrontavano Eris. Anzi, spesso erano di supporto ad Atena e alle Saintia quando si trattava di combattere quella Dea in particolare. Anche la Piattola, come avevo già intuito, aveva avuto a che vedere con Eris. E, stando all’indiscrezione che mi riferì Juan, sembrava che tra lui e la Saintia del Cavallino ci fosse del tenero. Bè, magari ora un po’ meno, considerando che le Saintia dimostravano la loro vera età e stavano addestrando i loro successori e lui era rimasto bloccato all’età di venti e qualcosa anni. Tante cose, ma la Piattola non mi sembrava il tipo di persona capace di intraprendere una relazione con una donna che ora avrebbe potuto passare per sua madre. O almeno lo sperai. Per il resto erano affari suoi.
Comunque, dopo questo rigiro, arrivammo al succo. Ossia che anche la Saintia dell’Orsa Minore «aveva paura di me, all’inizio». Rivelò con la sua solita pacatezza. A giudicare dal cipiglio e dalla troppa serietà, bè, non era un tipo che ispirasse simpatia. Almeno non all’inizio. Era un Saint che prendeva molto sul serio il suo lavoro.
«Non ho ancora avuto il piacere di incontrarla».
«Mi ha detto che lei e le altre Saintia torneranno in vista della prossima visita della Dea, perciò la incontrerai sicuramente».
«Tornando al discorso di Ilias, perché non lo suggerite anche ai Gold? Voglio dire, se avete quest’ipotesi non vedo perché tenervela per voi.» Suggerii. I miei colleghi mi avevano raccontato, infatti che i Saint avevano raddoppiato le ronde e le investigazioni da quando il mio amico mi aveva guarito le ustioni. Ma Ilias? Era veramente questo il suo nome?
«Ormai ci pensiamo domani, su, adesso divertiamoci e non ti preoccupare, Astrid, ti proteggeremo noi». Promise Juan, ringalluzzito. Poi sollevò il bicchiere e propose un brindisi che, poi, andò a finire sui miei social spacciando però il tutto per una mascherata di fine Carnevale in Grecia. Almeno negli asta dovetti scriverci così per giustificare il nostro abbigliamento saltato fuori a piè pari dall’Iliade.   

Mentre tu stai qui, intanto il tempo scade.
Lo capirai, quando vedrai il cielo che cade.
“Ma cosa significa?” Mi domandai.
In quel momento un’ombra oscurò momentaneamente la luce. Alzai gli occhi e vidi Cocteau appollaiarsi su una colonna diroccata poco più in là. Se fosse stato umano avrebbe avuto una faccia scocciata. Feci un sorrisetto: «Ah, sei tu, scusami, mi ero assopita». Dissi rialzandomi. A giudicare dalla posizione del sole dovevano essere più o meno le due del pomeriggio.
Raccolsi lo zaino che avevo usato a mo di guanciale e me lo misi in spalla. Poi afferrai il bastone e mi rimisi in cammino dietro la civetta, sbadigliando. “Giuro che è l’ultima volta che faccio le ore piccole”. Alla fine ero rientrata a casa alle quattro del mattino. E Cocteau, mi aveva svegliato alle otto e mezzo battendomi il beccuccio sulla fronte. Quella civetta era meglio di una qualsiasi memo del telefono. Anche perché la mia sveglia stava suonando già da mezz’ora e io non l’avevo sentita.
Di solito la civetta di Shura non osava mai tanto. Preferiva mantenere le distanze, come quelli della sua specie. Si doveva essere rotto le palle di ascoltare i Queen con Adam Lambert e I want to break free che avevo impostato come sveglia. La prima volta che l’aveva sentita aveva fatto un salto per lo spavento e aveva strillato come un ossesso. Quando l’avevo spenta, ridendo, mi aveva fucilata con gli occhi, dall’angolino dove si era rifugiato. E adesso me la stava facendo pagare anticipandomi sui sentieri. Sentieri che avevo cominciato a esplorare ogni domenica che avevo un po’ di tempo libero Il motivo per cui avevo cominciato a esplorare questi monti era perché volevo ritrovare quella grotta. La spiegazione di Death Mask e gli altri non mi aveva convinto. Anche se Death, Aphro e Shura erano tornati a investigare per conto loro, c’era qualcosa che non mi convinceva nelle notizie che mi riportavano. Mi stavano nascondendo qualcosa, solo che non capivo che cosa. E, poi, non riuscivo più a ritrovare il sentiero. Era come se fosse sparito nel nulla.
Ma non esisteva che mi sarei arresa. Avrei ritrovato quel sentiero e quella spianata, avessi dovuto metterci una vita intera ma l’avrei fatto.
Anche se, questa domenica, come tutte le altre sarebbe stata infruttuosa. All’inizio Death Mask mi accompagnava, ma si capiva subito che faceva di tutto per farmi ritornare al Santuario. Per questo avevo smesso di chiedergli di venire con me. Aphrodite e Shura? Figuriamoci se gli avrei mai chiesto il loro aiuto. Il primo avrebbe seguito sicuramente lo stesso modus operandi dell’amico, il secondo... mi sentivo più a mio agio in compagnia di un grizzly.
Cocteau svolazzò un po’ più in là e mi rimisi in marcia: «Aspettami, non ho mica le ali, io».
Ormai dove andavo io andava anche lui. Me lo aveva detto Shura come si chiamava, quella volta che lo incontrai e io feci una gran fatica per non assalirlo di domande. Ogni volta che lo vedevo qualcosa mi spingeva verso di lui, se non lo incontravo mi veniva spontaneo cercarlo.
Aveva usato un tono strano. All’inizio pensavo che fosse per via del fatto che gli avevo praticamente rubato la civetta, anche se aveva fatto tutto da solo. C’era chi adottava i gatti, chi i cani e poi c’ero io. Avevo tanto il sospetto che io e il custode della Decima non andassimo granché d’accordo. Perfetto, adesso la figuraccia era completa. Poi magari mi stavo inalberando io, perché non mi era mai importato niente del pensiero altrui.
E temevo proprio che fosse per via di Cocteau. Io glielo avevo detto di non averlo voluto adottare apposta. L’ombroso spagnolo mi aveva rassicurata (o almeno, credo, che fosse una rassicurazione) dicendomi: «É tutto a posto.» poi mi era parso volesse dire altro, ma se ne era rimasto zitto.
Le ossa mi scricchiolarono.
Accidenti. Mossi la testa di lato. Appena a casa avrei dovuto fare un po’di esercizi.
Nel tentativo di aiutarmi Castalia mi aveva insegnato a fare yoga. E, devo ammettere che un po’ funzionava. Mi riequilibrava abbastanza per un mese e mezzo.
«Ma dove sarà?» Commentai guardandomi attorno, socchiudendo un po’ gli occhi per via della luce. Non mi stavo riferendo a Cocteau, bensì al sentiero. Proprio non riuscivo a trovarlo.  
Mi tolsi lo zaino e aprii una delle tasche esterne per estrarne gli occhiali da sole con le lenti polarizzate gialle che sfumavano sull’ arancione, sbuffando e li inforcai. Poi richiusi la tasca e mi rimisi lo zaino sulla schiena. 
 
Il lunedì seguente, dopo pranzo che passai a cucinare a casa di Kiki perché era troppo occupato, ero stata mandata a chiamare. Mi avevano detto che la Sala delle Udienze necessitava di una ramazzata. Avevano finito i lavori e la Casa di Atena era come nuova. Ma la Sala continuava ad accumulare polvere come se stessero ancora lavorandoci. Anche la meridiana dello zodiaco aveva ricevuto la sua dose di attacchi.
Cominciai a lavorare e, in breve tempo, potei specchiarmi sul pavimento. Non avevo mai visto un pavimento più lucido di questo. Sembrava quasi di camminare su uno specchio.
Mi sentii improvvisamente bene, come se avessi scaricato tutta la tensione che avevo tenuto fino a questo momento. Feci un bel respiro profondo e, mi sentii come se qualcosa mi stesse cercando.
Era una sensazione data dalla mia empatia. Una sensazione benevola.
Riaprii gli occhi e mi guardai attorno perplessa. «Chi c’è?» Percepivo curiosità e al contempo disperazione. Era come se qualcuno mi stesse cercando, qualcuno che avevo colpito molto positivamente. Se però cercavo di approfondire percepivo soltanto della luce dorata e calda. Così, per curiosità, volli provare a fare un esperimento. Aprii le braccia, chiusi gli occhi, feci tre respiri profondi e pensai: “Vieni da me, sono qui. Vieni da me”.
Percepii la curiosità e mi parve di sentirmi chiamare, di continuare. Volevano trovarmi. Che venissero, allora. “Io sono qui.” Pensai con un vago sorriso sulle labbra. Proprio allora socchiusi gli occhi e li aprii di scatto: le mie mani, le mie braccia, le mie membra, ma che dico, la mia intera persona, era circondata da un alone nero che più si allontanava da me sfumava sul grigio, l’argento e raggiungeva tonalità bianche come la luce. Questi colori erano pervasi dai minuscoli brillii fosforescenti, come lucciole che avevano scambiato per il Photon Burst. Ma, come lucciole, oltre che lampeggiare, si muovevano. Era come guardare il cielo stellato in movimento.
Non ne avevo paura, anche se, a ogni movimento, alcune di quelle minuscole luminosità cadevano da me come polvere di stelle dissolvendosi a mezz’aria dopo aver assunto una colorazione candida.
Per non parlare dell’alone che dava l’impressione di osservare uno strano cielo.
Mi guardai le braccia stupefatta e cercai uno specchio. Se non ricordavo male in questa sala una volta ce ne erano. Chissà se li avevano installati di nuovi? «Che cosa sta succedendomi?» Mi chiesi spaventata mentre ciò che vedevo non abbandonava la mia pelle. Che fossi impazzita del tutto? 
Non ebbi il tempo di darmi una risposta che il terrore e la meraviglia presero il sopravvento in un sublime guazzabuglio di emozioni.
Mi portai le mani alla bocca per soffocare un grido.
Mi sembrò di avere numerosi occhi puntati su di me, occhi pieni di stupore e gioia, come quando si trova un tesoro che non ci si aspettava più di trovare. Mentre cercavo trovai la fonte di queste emozioni a me estranee, provenire da dietro i paramenti dietro la Sala del trono. E se lì dietro ci fosse lo specchio che mi serviva?
Allungai una mano verso il tessuto rosso. Nello stesso momento sentii un rumore oltre la tenda. Per un attimo pensai di essermelo sognato, poi lo sentii di nuovo. «Che diavolo...?»
La sensazione di curiosità si mutò in felicità e mi investì con la stessa potenza di un fiume in piena. Con un groppo in gola spalancai le tende e mi ritrovai davanti i Pandora-box dorati dei dodici Gold. «Oh», mormorai stupita e in un certo senso rassicurata. Sgranai di nuovo gli occhi quando mi accorsi che stavano muovendosi. Mi ricordavano delle uova al momento della schiusa.
Richiusi immediatamente le tende proprio quando sentii i rumori metallici di lastre che cadevano al suolo. Segno che i Pandora-box dovevano essersi aperti. Arretrai senza girarmi o staccare gli occhi da quel fenomeno. Da dietro le tende rosse uscirono le Armature d’Oro dei Cavalieri.
Sussultai, volgendomi verso di loro, improvvisamente spaventata nel vederle muoversi e raggiungermi come la prima volta che ebbi a che fare con loro.
Se era uno scherzo non faceva ridere.
Arretrai tendendo le mani verso di loro. «No, no!» Esclamai spaventata. Ma quelle non si fermarono, anzi, continuarono ad avanzare.
Adesso ero terrorizzata.
Cercai di scappare ma l’ Armatura del Sagittario mi superò e si frappose tra me e l’uscita, bloccandomi ogni via di fuga. Alzai le mani di scatto di fronte alla freccia puntata al mio costato. Cercai di arretrare ma finii per inciampare sull’Armatura del Cancro, che, zitta, era arrivata alle mie spalle e mi passò tra le gambe. Cascai all’indietro lanciando un urlo e battei la schiena e la testa sul pavimento. Mentre, gemendo e portandomi le mani alla nuca, facevo i conti col dolore procuratomi con la botta, sentii i passi delle Corazze sempre più vicini. Volsi la testa a destra e a sinistra e scorsi lo zampettare dell’Armatura dello Scorpione, dell’Ariete e del Capricorno. Quella dei Pesci invece svolazzava a mezz’aria guardandomi.
Balzai immediatamente in piedi per lo spavento ma, prima che potessi scappare, mi ritrovai di fronte l’Armatura del Toro. Allora provai a destra ma per poco non mi scontrai con quella dei Gemelli. Provai a girarmi di nuovo ma finii per ritrovarmi faccia a faccia con la freccia del Sagittario. Ovunque mi girassi ero circondata e le Sacre Vestigia Dorate erano sempre più vicine.
Persi l’equilibrio per un improvviso peso sulla schiena.
Se non cascai fu perché mi ritrovai semi sdraiata sulla groppa del Toro. Quando si era avvicinata? E, diavolo, faceva male! All’orecchio sentii il rumore delle tenaglie e capii, anche dal numero delle zampe premute sulla mia carne, che l’Armatura dello Scorpione mi si era arrampicata sulla schiena, risalendomi una gamba. Mi staccai immediatamente dal dorso della Corazza con un urlo di terrore.
Se non cascai di nuovo, sbilanciata all’indietro, fu perché la Sacra Cloth di Aldebaran si pose dietro di me e mi sostenne dandomi dei colpetti alla schiena sul muso. Mi sostenne? Ma allora...?
Le guardai. Non stavano attaccandomi.
Il Sagittario si avvicinò e mi permise di poggiare una mano sul suo braccio per sorreggermi. Invece quella di Death Mask si aggrappò alla mia gonna, maliziosa come il suo possessore.
Purtroppo però quei tentativi non furono sufficienti che cascai lo stesso a terra, stavolta sulla pancia. Gemetti di dolore mentre le Armature, quasi si fossero spaventate, si tolsero immediatamente da me. Mi misi carponi gemendo e mi ritrovai faccia a faccia con il Leone. Trasalii e scattai seduta e l’animale mi balzò addosso.
Chiusi gli occhi e lanciai uno strillo di terrore alzando le braccia per proteggermi la testa, preparandomi a sopportare un grande dolore. Invece sentii la loro gioia e la mia sorpresa, quando il freddo muso di metallo dell’animale si strusciò sul mio petto come una sorta di grosso gatto. Sulle prime pensai di essermi sbagliata ma non era così. Stava facendomi le fusa? Se avesse avuto la lingua probabilmente mi avrebbe anche leccato la faccia. Abbassai le braccia stupefatta e mi ritrovai a posare una mano sul muso metallico che, proprio come un gatto, ce lo strofinò.
Mi rialzai a sedere e quello continuò a strusciarsi addosso a me esattamente come un enorme felino. Un sorriso e una risata incredula fiorirono sul mio viso. Allora, la gioia che avevo provato, era la loro.
Mi alzai in piedi.
L’Armatura del Capricorno insinuò il muso tra le mie braccia, desiderosa di avere la sua parte e l’accontentai, incredula e meravigliata per questo insolito spettacolo. Non ci credevo, eppure erano lì, era tutto reale.  Sentii il metallico zampettio dell’Armatura dello Scorpione che riprendeva possesso della mia schiena e della mia spalla, arrampicandosi e piegandomi nuovamente in due. Per poco non mi ritrovai incurvata sul muso del Leone, ma quello si tolse in tempo.
Mi sentii tirare un lembo della gonna. Abbassai gli occhi e vidi il Cancro, ma non feci in tempo a dire niente che la mia mano libera fu subito occupata dal muso dell’Armatura dell’Ariete. Il Capricorno per poco non fece a cornate con l’ovino dorato dello zodiaco.      «Non ci credo. Ehi, fa piano!» Esclamai rivolta allo Scorpione, che mi zampettava allegramente sulla spalla, contribuendo a minare il mio già incerto equilibrio. Però ci pensò l’Ariete, sostenendomi opponendo il capo a contatto con la mia pancia con delicatezza, evitando di colpirmi con le corna affilate. Adesso, stava cercando di arrivarmi davanti, sbilanciandomi. Cercai di sorreggerla mettendole una mano sotto la pancia, facendo attenzione alle chele e alla coda. Quella di Aiolia continuava a comportarsi come un gatto. Quella di Death sempre tenendomi il lembo della gonna continuava a zampettarmi allegramente attorno. Per un attimo temetti che potesse strapparmela. Le lanciai un’occhiataccia. 
Il Toro contribuiva a sostenermi sospingendomi dolcemente con il muso e le corna qualora pendessi troppo da una parte o l’altra. Cercando di non pigiare gli spuntoni sul suo capo nella mia colonna vertebrale.
Quella di Aphrodite mi volteggiava attorno, imitando un buffo satellite e muovendo la pinna caudale come se fosse stata veramente un pesce. Quella vista e le loro emozioni mi strapparono una risata divertita.
Il Sagittario mi stava accanto, quasi alla stregua di un cavaliere servente. La Bilancia, i Gemelli, l’Acquario, la Vergine a terra alla mia sinistra che sembravano aspettare il proprio turno per coccolarmi. La Bilancia in un modo tutto strano, visto che si illuminava a tratti, come se mi stesse invitando a provare le armi di cui era composta.
Allora era questo che volevano da me. Non volevano ammazzarmi, quella volta che si mossero; bensì venirmi incontro, volevano toccarmi anche loro. Salutarmi e farmi le feste. Non avevano mai voluto scacciarmi. A un tratto il Leone si accucciò sui miei piedi e lì restò, mansueto, lasciando che anche l’ovino e il caprino prendessero la loro dose di coccole e facendomi sentire una specie di Heidi delle Armature. Io cercai di scostarli da lì perché rischiavo di cadere e, infatti, quando mi disincastrai, caddi in avanti, ritrovandomi in braccio all’armatura dei Gemelli, che mi sorresse prontamente con le sue quattro braccia. Gemetti di dolore per l’impatto mentre mi raddrizzavo, sciogliendo quell’abbraccio metallico.
«Grazie», feci con voce incerta all’Armatura della Terza Casa. Provai a rialzarmi, fortuna che Cancer aveva mollato la gonna mentre cadevo. I Gemelli non furono dello stesso parere perché mi abbracciarono le gambe. Cancer non la prese bene perché, in un impeto di gelosia, si scagliò contro la collega. Il problema è che scelse di travolgermi passando sotto le mie gambe e finii sulla schiena del Leone, che con un ruggito si tolse, privandomi del sostegno e di nuovo finii tra le corna e gli spuntoni dell’armatura del Toro. Gemetti di dolore e scivolai a terra battendo la testa.
Urlai più per spavento che per dolore anche se fece male.
Allora le Armature di forma animale e un po’anche quelle di forma umana la presero come scusa per fare l’ammucchiata. «Basta! Basta! Ehi!» Protestai tra il dolorante e il divertito mentre mi rialzavo a sedere e mi ritrovavo faccia a faccia con la corazza di Shun. Le braccia, adesso aperte, sembravano quasi un invito a gettarcisi dentro.
L’Armatura di Aphrodite si avvicinò e prese a girarmi ancor più vicino alla testa come una sorta di buffo satellite e riuscii a toccare anche quella, come desiderava.   
Proprio in quel momento le porte della sala si spalancarono di scatto e il Patriarca e i Gold Saint  fecero irruzione, per fermarsi a guardarmi stupefatti.
Mi rialzai, cercando di riemergere da quelle forme di freddo metallo dorato ma loro non ne vollero sapere, che mi fecero inciampare di nuovo e mi ritrovai tra le braccia dell’armatura di Shun, con le lacrime agli occhi per la sofferenza prima di rotolare a terra e ritrovarmi circondata dallo Scorpione, il Cancro. Il Sagittario si spostò con fare protettivo davanti a noi come a dire non c’è niente a edere, circolare.
«Astrid!» Mi sentii chiamare. Qualcuno cercò di raggiungermi per aiutarmi ma si fermarono dopo poco. Altri come Death e Aldebaran scoppiarono a ridere, altri ancora presero a sbraitare.
«Sto bene». Cercai di rassicurarli scombussolata mentre mi massaggiavo la nuca e il ventre lesi e gemevo di dolore, intanto che le armature continuavano a farmi le feste.  
«Ehm, me le togliereste di dosso, per piacere?» Domandai a disagio e, meno allegra. Era finita la magia. Immagino che sia questo che si prova ad essere beccati con il proprio amante, anche se qui, era un discorso un tantino diverso.  «Cosa sta succedendo?» Chiese invece Aiolia. «Le stavi rubando!» Mi accusò subito accigliandosi.
«Aiolia», lo richiamò Aldebaran incerto.
«Adesso stai esagerando», commentò Kiki intanto che le loro Armature si stringevano attorno a me un’ultima volta, prima di tornarsene ai loro scrigni dorati. Una sorta di saluto, una promessa di tornare a giocare insieme ancora una volta.
Ma io non avevo fatto niente, avevo sentito le loro emozioni, mi ero lasciata trovare, allora erano loro che mi stavano cercando.  Il Leone continuò: «Esagerando? Vi pare normale? No. Non lo è. È chiaro che le ha manovrate, le nostre Sacre Vestigia non si muoverebbero mai di loro spontanea volontà. Parla, come ci sei riuscita? Chi sei in realtà? Una Specter di Hades? Una Dryad di Eris? Una Guardiana Lunare di Artemide?»
Non ebbi neanche il tempo di rispondere che mi accorsi che l’alone che prima mi circondava era scomparso.
«Ehi! Datti una calmata, Aiolia se non vuoi finire nell’Ade!» Esclamò Death con un cipiglio minaccioso, tornando serio. Quando si trattava di me era sempre molto protettivo.
Aphrodite si spostò più vicino a lui, pronto a bloccarlo in caso che si fosse lanciato. Invece, Shura lo guardò ma si capiva che era pronto a balzare in mia difesa se il Leone avesse perso la testa. Milo invece stava cercando di rabbonirlo con le parole.
«Cos’è, vuoi cominciare una Guerra dei Mille giorni?» Ringhiò furioso il custode della Quinta guardandolo. 
«Aiolia, smettila, non è il caso di agitarsi a questo modo». Lo ammonirono in coro Mur e Milo.
«Ora basta, Aiolia, calmati». Tuonò il Gran Sacerdote.
E il Cavaliere del Leone rilassò i lineamenti del volto e le dita delle mani. «Va bene mi calmo, volevo solo vedere se si sarebbe sbilanciata». Spiegò poi incrociando le braccia. Anche se mi lanciò un’occhiata obliqua e minacciosa. «Per questo io e Kiki non siamo intervenuti». Spiegò Mur tranquillo. Ah, e io che mi ero presa un colpo.
A quel punto intervenne il Gran Sacerdote: «Adesso può bastare così. Aiolia noi ti conosciamo e sappiamo benissimo che non avresti mai alzato la mano contro una persona che non può neppure sognarsi di sostenere uno scontro leale con un Cavaliere d’Oro. Ma lei no e adesso finiscila qui con questa pagliacciata. È evidente che sulle Sacre Armature ci siamo sbagliati, che non hanno mai cercato dei nuovi Cavalieri, né hanno mai cercato di abbandonarci, però, penso che sia ora che la signorina av Stjernene ci dica la verità». Disse rivolgendosi a me, le braccia incrociate.
«La verità su cosa?» Domandai senza capire. “Permettete che queste sono novità anche per me? Mi date il tempo di elaborare il tutto?” Pensai. In realtà non ci avevo pensato granché perché ero impegnata prima di tutto a recuperare la mia completa lucidità mentale. In più non volevo pensarci perché non sapevo nemmeno io come gestire la cosa e, a tratti, mi spaventava. Voglio dire, non pensavo che le mie capacità fossero così estese e che potessi fare molto altro per quanto concerneva questi ambiti solo con le mani! Era ovvio che non ne avessi parlato con nessuno, anche se in tanti mi avevano chiesto spiegazioni. Dopotutto io ero solo una comune mortale, non ero una divinità incarnata o chissà cosa con cui loro avevano a che fare continuamente.
Sostenni lo sguardo del Gran Sacerdote, il quale mi domandò: «Vuoi proprio che lo dica? Ce ne siamo accorti che le Armature hanno cominciato a muoversi da quando tu sei qui. Perché non ci hai detto di avere questo potere?»
«Prima però toglietemi una curiosità, devo per forza rimanere in piedi in mezzo a questa sala o possiamo anche sederci da qualche parte? Non vorrei che le Armature mi assalissero di nuovo».
E, con queste parole li presi tutti alla sprovvista. Loro saranno anche stati allenati, ma io no. Avevo bisogno di mettermi seduta. «Al momento qui andrà benissimo, mi dispiace ma dovrai accontentarti.» dichiarò il Gran Sacerdote andando ad accomodarsi sul suo scranno. Una volta seduto ripeté la sua richiesta: «Adesso spiegaci; che volevi dire con quel tono di prima?»
Ci misi due secondi per fare mente locale: «Che non so nemmeno io cosa sono in grado di fare e cosa no. Se è un potere, non s’era mai manifestato prima d’ora». Risposi.
Mi strinsi nelle spalle e aggiunsi: «Prima d’ora, il massimo che potevo fare era leggere la mano e le carte».
«Lancelot di Cancer sostiene che tu sia un’Incantatrice. Avevi mai sentito questa parola prima d’ora?»
«Sì, una volta ma non capisco cosa c’entri con me». Io non ero neppure un’iniziata ai culti pagani. Mi limitavo a pregare gli Dèi ma ero non praticante.
«Secondo il Cavaliere, sei una di queste». Rivelò.
«Cosa farebbero le Incantatrici?» Domandai, spiazzandoli tutti non poco.
«Non ne abbiamo idea. Ma non siamo qui per parlare di quello che dice un Saint ospite, quello che vorrei chiederti, è di lasciarti sondare la mente. Devo sincerarmi di una cosa».
«Se è per la questione dei nemici dovreste saperlo che non sono contro il Santuario, ma neanche a favore. Io sono solo una persona normale».
«Dichiari così apertamente la tua ambiguità? Tradiresti il Santuario per aiutare i nemici se ne avessi occasione?»
«Il Santuario è una cosa, le persone sono un’altra. Delle rovine le posso anche abbandonare, ma io non abbandono le persone». Dichiarai rendendomi conto forse troppo tardi, di essermi scavata la fossa da sola. Anche perché sentii chiarissimo lo spavento e lo stupore che suscitai nei Cavalieri alle mie spalle. «Non è un mucchio di sassi il Santuario. Il Santuario siete tutti voi». Aggiunsi convinta della mia posizione. 
«Per questo ti sei gettata in battaglia contro Eris?» Anche per questo. Snakye rappresentava una parte di me che mi fu strappata. La vendetta non me l’aveva restituita, ma in compenso mi aveva dato un’enorme soddisfazione e sensazione di potere e forza.
«Sì».
«Ed è per questo che hai liberato i Black Saint?»
«Mi era sembrata l’unica cosa da fare per aiutarvi, prima che venissi attaccata e quasi fatta a pezzi da una pianta».
«Come sei sopravvissuta?»
«Sono state le Creature. Hanno estratto il seme malvagio dal mio corpo prima che mi invadesse completamente, se non fosse stato per le cure mediche ricevute avrei ancora la cicatrice da ustione. Ho dovuto lottare per impedire a quella pianta di farmi il lavaggio del cervello».
«Hai lottato? Di solito per sconfiggerli bisogna non avere desideri di alcuna sorta». Interloquì Milo, stupito.
Mi spostai una ciocca dietro l’orecchio, abbassando lo sguardo: «Già, così mi è stato detto».
«Hai detto che sono state le Creature, ma come hanno estratto il seme?» Domandò Aiolia.
Mi girai verso di lui con un sorriso compassionevole sul volto. «Non è ovvio, Aiolia? Hanno infilato le dita nella ferita e l’hanno bruciato estraendolo completamente da me». Dissi con dolcezza, portandomi una mano allo sterno, dove fino a pochi mesi prima c’era quella ferita. A questa rivelazione persino lui strabuzzò gli occhi, come se fino a quel momento non avesse avuto idea di quello che avevo passato. «Quando sono arrivate le Creature ho pensato di sfruttare il terrore che provano nei miei confronti per fare qualcosa di più concreto. Ora che penso Volendo, avrei persino potuto indirizzarle contro i Black Saint, in caso si fossero ribellati. Per fortuna non è successo. Mi dispiace molto deludervi, Death e Aphro, ma quella volta sull’aereo, non temevano voi, temevano me». Dissi rivolgendomi ai due che mi guardarono con tanto d’occhi, anche se Aphro si ricompose subito. Mi cinsi il busto con le braccia, come a proteggermi: «Non so come, o perché, ma mi temono e, l’unico modo che avevo per scacciarle era muovermi, allora mi sono detta, perché non provare ad aiutarvi?»
«Hai fatto anche di più, gli hai fatto bruciare l’Albero del Conflitto e, con esso, l’Eden e l’Utero di Eris, che è il suo nucleo vitale».
«Lo so, era questa la mia intenzione». Ma era la prima volta che ricevevo tutte le informazioni sul nemico.     
«Non temevi che qualcuno ci rimettesse la pelle?» Mi chiese il Papa. Alzai le spalle e risposi: «Perché avrei dovuto se tanto potevo salvarvi? Non avevo paura che le Creature vi cancellassero la costellazione, perché tanto la posso rigenerare». Con una sicurezza che divenne certezza solo nel momento in cui la dissi. Ma non seppi spiegarmi perché.
Comunque la storia di Snakye la volli tenere per me e anche Death Mask fece lo stesso.
«Death devi averla contagiata». S’intromise Aphrodite scuotendo il capo. Ma dal modo in cui lo disse non si capiva se era una battuta o se era una costatazione.
«Non ho fatto niente, io.» ribatté l’altro, troppo colpito per interrogarsi sulla possibile retorica del compagno. Immagino che faccia questo effetto sentire qualcuno esprimersi o ragionare in una maniera molto simile alla tua. Ma solo adesso ammetto che quello che avevo fatto somigliava moltissimo al suo piano per estirpare i soldati di Eris dall’Accademia delle Saintia dove avevano trovato rifugio. Magari senza l’indifferenza che dimostrò, però sì, non c’ero andata tanto lontana.
In realtà non avevo fatto altro che sfruttare le occasioni a mio vantaggio. «Piuttosto che cosa intendi quando parli di rigenerare le costellazioni?» Domandò inarcando un sopracciglio.
«Esattamente ciò di cui parlo. Aphrodite l’ha visto mentre riportavo alla vita i tre Specter che mi aggredirono. Ecco, è la stessa cosa che ho fatto con voi due e con Ptolemy della Freccia. Mi spiego meglio, in realtà quello che credo che le Creature facciano, sia nutrirsi della luce e l’energia delle stelle presenti nella vostra costellazione di appartenenza, estinguendo così sia il vostro Cosmo che la costellazione stessa. Il carbonizzamento e la vostra morte altro non sono che un effetto collaterale di tutto questo. Per riportarvi in vita non ho fatto altro che ridisegnarle addosso a voi».
«Puoi mostrarci come hai fatto?» Chiese la Piattola.
«Ora no, perché non c’è nessuno in pericolo. Posso provare a spiegarvi come faccio, però.» mi spostai le ciocche dietro le orecchie e presi un bel respiro profondo. «Quando le Creature cancellano le costellazioni io le posso vedere affievolirsi e scomparire addosso alla persona stessa, un po’ come i punti dell’agopuntura, avete presente?»
«Le semei ten». Tradusse Shun, anche se me ne aveva già parlato la Piattola.
«Sì, il Cavaliere di Scorpio mi ha già spiegato cosa sono. Ma non ho bisogno di ficcare un dito nella carne di qualcuno per riuscirci. Mi basta trovarmi a una distanza abbastanza ravvicinata, anche una spanna o due sono più che sufficienti. Anche perché non so niente di agopuntura, punti vitali eccetera eccetera, so solo che io le ridisegno con i collegamenti che si vedono sui libri di astronomia».
«Puoi vederle anche adesso?»
«Adesso no». 
«E, quando, allora?»
Alzai le spalle: «Boh? Immagino quando ce ne sia bisogno, ve l’ho detto, non so nemmeno io come funziona questo potere, so solo che ha a che vedere con le mie mani; prima pensavo che fosse psicometria, ma a quanto pare non è così».
«Cos’è la psicometria?» Domandò Aldebaran, incuriosito.
«È un potere che permette di donare energia o causare un forte shock tramite le mani». Spiegai, ma non dissi loro dove avevo trovato la definizione, non credo che fosse importante per loro saperlo. Non mi andava di dir loro che quest’informazione l’avevo ricavata da Sailor Moon. E, che era il nome del potere di Tuxedo Kamen. «Ma non penso che la definizione mi calzi più da un pezzo, ormai. Anche perché, a parte leggere la mano, non è che io faccia granché di tutto ciò».
«Quando l’hai usato sugli Specter il tuo dito si era illuminato di una luce violacea con tocchi di nero, dello stesso colore delle loro Surplici». Sparò Aphrodite.
«Se è per questo, su di voi assunse i colori dell’oro e del sole e su Ptolemy argento e bianco ma non ho ancora capito perché. Quello che credo di aver capito, è che ha a che fare con le stelle e il grado e lo schieramento di un guerriero, perché nella Costellazione della Freccia, per esempio, la stella più luminosa è γ Sagittae. Non so ancora in che modo, ma credo sia così».
«Se ci fosse stata occasione, avresti riportato in vita anche i nemici dell’ultima Guerra?» Chiese Shura, sempre con le sopracciglia inclinate verso il basso in quell’espressione che m’intimoriva.
«Probabilmente no».
«Perché no?»
«Non ho visto stelle da ricostituire addosso a nessuno di loro e, mi dispiace, ma io mi intendo di astronomia, non di giardinaggio». Scherzai abbozzando un sorriso. Cosa più che vera, visto che avevo ucciso più piante io che il diserbante.
Solo Death, Aphro, Shun, Kiki e Milo sorrisero sotto ai baffi per la battuta.
«Avresti rischiato la tua vita per riportare in vita anche loro?» Domandò il Gran Sacerdote.
Mi volsi di nuovo verso di lui per rispondere: «Non lo so. Non ci ho pensato in quel momento, ma posso garantirvi che non ho provato pietà per loro prima e non la provo tuttora». A essere onesta fino in fondo, non mi importava niente.
«Quindi è questo ciò che ti muove? La pietà?» Domandò stupefatto il Cavaliere del Leone abbandonando lo sguardo truce che mi riservava di solito.
«Solo verso i nemici». Spiegai, ma era complicato da spiegare.
«Puoi riportare in vita una persona uccisa da un nemico diverso dalle Creature?» Indagò il Gran Sacerdote interessato, oserei dire speranzoso.
Scossi il capo contrita. «Temo di no, signore, quello è ancora fuori dalla mia portata. Una cosa, invece, non mi è chiara e, spero che voi possiate aiutarmi a togliermi il dubbio».
L’uomo mi guardò in attesa e io continuai: «Come mai a un tratto l’Albero mi ha detto: “Sei tu?” Chi sarei dovuta essere secondo quella cosa? E, se ciò che penso è giusto, perché mi stavano cercando? Ha a che fare con le Creature o con il mio potere?» Domandai intrecciando le mani dietro la schiena.
Quel “sei tu” detto da Harmonia prima e da tutti gli altri dopo significava molto di più di un semplice “ti riconosco”. Era lo stesso tono in cui il mago nemico di Ged de I racconti di Terramare di Goro Miyazaki riconosce in Teanu la Vita Eterna. Ci avevo messo un po’ a capirlo, a forza di pensarci, ma ci ero arrivata. E adesso volevo sapere perché. La mia domanda dovette essere giunta inaspettata come una doccia fredda, a giudicare da come l’atmosfera nella stanza parve raffreddarsi ulteriormente. Anche il Portavoce di Atena in Terra doveva essere dello stesso parere perché se ne uscì con un: «Non credo che sia il caso di parlarne così a cuor leggero, ci hai dato molto su cui riflettere, Astrid». Come se la conversazione fosse conclusa, ma io m’impuntai. Eh, no, adesso che si era scoperto non avrei certo mollato così facilmente. Non poteva cavarsene fuori così. «Avete forse paura che io possa avere una ricaduta o che dia di matto? Non occorre fingere con me, sento anche questo». Li avvisai, continuando a mantenere la voce neutra, onde evitare escandescenze.
«Lo senti?» Domandò invece il Papa, perplesso.
«Sono empatica, percepisco le emozioni di tutti gli esseri viventi presenti in questa stanza, chiare come se fossero le mie». Rivelai. Giacché c’eravamo tanto valeva che vuotassi il sacco e, almeno una parte delle informazioni e delle domande che avevo accumulato. Anche se evitai di riferire che non era una capacità controllabile neanche questa. Andava e veniva a diversi livelli, avevo una vaga idea del come e del perché, ma lo faceva. Ma ora non era importante che loro lo sapessero, dovevano pensare che sapessi già molte cose. Forse così si sarebbero sbilanciati un po’di più. «Soprattutto con le persone con le quali ho un legame molto stretto d’affetto o amicizia o di sangue, o con le Sacre Vestigia. Sì, strano a dirsi, ma sento anche le loro. Perciò non preoccupatevi di ferirmi, finora mi avete posto domande con una tale freddezza che questa preoccupazione è, scusatemi, anomala da parte vostra. Se una cosa la voglio sapere, allora sono certa di essere in grado di sopportarla. O, in alternativa, di trovare la forza per farlo. Non spetta a nessuno tranne che a me questa decisione. Perciò, per favore, vorrei sapere a cosa si riferiva quell’Albero».
«In realtà hai perso questo diritto nel momento stesso in cui sei diventata un’ancella del Tempio, lo sai?» Mi fece notare il Gran Sacerdote con il tono incolore con il quale si rivolgeva ai sottoposti.
Mi domandai come mai, a prescindere, non mi avesse ancora incenerito con uno dei suoi colpi. Però a quest’informazione strinsi le labbra. “Giusto”, non ci avevo pensato, però non mi arresi. Alzai di nuovo la testa verso di lui e dissi, ragionevole, sollevando le dita di una mano per contare: «Perdonate la mia cocciutaggine e anche il linguaggio allora; ma non mi riguarderebbe se non mi fosse mai successo niente, se non mi fossi accorta di niente, se aveste continuato a tenermi all’oscuro e se, io stessa, non mi fossi ficcata in mezzo ai casini e non fossi stata apostrofata così. Non sono mica deficiente». Dissi incrociando di nuovo le braccia. «Non son un genio ma neanche così scema, di certe cose mi accorgo anch’io, permettete che qualche interrogativo mi sia sorto? E, poi, volete proteggermi, d’accordo, ci sta, ma se non mi dite neanche da cosa come faccio a non creare altra confusione?»
La sala era ammutolita.
Il silenzio fu rotto da Death che dette una gomitata al suo vicino: «Ehi, Shura, questa ti somiglia». Gli disse con un ghigno divertito. O, almeno, lo percepii dal tono di voce.
Il Papa li zittì di nuovo. Poi si rivolse a me: «Per quanto riguarda la tua assunzione, non parlare ancora, grazie», disse accorgendosi che avevo riaperto bocca. La richiusi, «ti avevo detto di ripresentarti da me tre giorni dopo il nostro colloquio che qualcosa avrei davvero trovato. E, l’avevo trovato davvero».
Restai di stucco a questa rivelazione: «Siete serio?» Gli domandai però riavendomi subito. Non gli avrei permesso di condurre la conversazione su un terreno più neutro.
Lui se ne stette zitto. Evidentemente doveva essere abituato ad aver a che fare con tizi rintronati perché non era possibile che nessuno facesse domande, qui. «Lasciateci». Ordinò ai suoi Cavalieri.
Mi volsi anch’io verso di loro e incontrai le loro facce sbigottite.
Alcuni si alzarono obbedendo e se ne andarono.
Death, Aphro, Mur e Kiki mi lanciarono delle occhiate preoccupate.
Aldebaran domandò al superiore se fosse sicuro e il loro signore confermò con un cenno del capo. Death Mask berciò, beffardo: «Se proprio insistete. D’accordo, così sia, non ne potevo più di stare inginocchiato qui come uno stupido. Francamente non vedevo il motivo della nostra presenza qui, mi stavo annoiando a morte. Meglio impiegare il proprio tempo in un modo più produttivo.» ma dal modo in cui mi guardò lessi la preoccupazione tra le righe.
Cercai di rassicurarlo con lo sguardo e, anche di chiedergli scusa. Non avrei voluto che venisse a conoscenza di queste informazioni a questo modo dopo tutte le volte che mi aveva difeso e aiutato. Cioè, era evidente che eravamo amici, no?  
La Piattola e Aiolia tentarono di muovere qualche protesta; «Kanon» e «Ma, sua Santità.» ma un’occhiata perentoria del loro capo bastò a far piegare loro la testa e obbedire. «Sì, sua Santità». Disse soltanto Aiolia mentre la Piattola serrava la bocca. Bocca che riuscii a malapena a vedere a causa della cortina di capelli biondi e viola che gli piovvero davanti al volto quando chinò il capo. Dopodiché si alzarono anche loro e se ne andarono, dopo averci scoccato occhiate preoccupate e di avvertimento.
I soldati chiusero le pesanti e grandi porte di legno dietro di loro.
Tornai a rivolgermi al Gran Sacerdote che ne approfittò per togliersi la maschera e l’elmo.
Una cascata di mossi capelli azzurri piovve sulla sua schiena e le sue spalle, ricordandomi un ruscello che scorre su rocce violacee. I suoi occhi erano più scuri ma, da dove mi trovavo, non riuscivo a coglierne appieno la sfumatura. Era bello, molto, virile (“Non ti distrarre!” Mi ammonii mentalmente. D’accordo che sono umana anch’io, gli ormoni li ho anch’io, solo che non era il momento di lasciare che prendessero il sopravvento. Infatti, non glielo lasciai fare, volevo risposte, non passare per la bella deficiente innamorata del primo gran bello di turno che vede, soprattutto in un momento come questo), però aveva un’espressione stanca e tormentata.
Mise da parte l’elmo e la maschera e poi tornò a guardarmi.
Adesso che il suo volto era scoperto mi parve più umano e meno mummia bardata con la maschera mortuaria. Mi accorsi benissimo che anche lui appariva molto giovane, forse di appena nove anni più di me. Ok, adesso ero sicura che la loro giovinezza avesse proprio a che vedere col Cosmo, con le numerose morti e resurrezioni e questo posto. 
«Dunque il vostro nome è Kanon, dico bene?» Dissi, evitando di fare battutacce nella mia testa, come per la maggior parte dei Cavalieri che mi si erano presentati davanti. 
Confermò: «Il mio nome celeste, sì».
«Perché avete mandato via gli altri?» Chiesi intimorita, pensando al peggio. Invece, si limitò a tenere le mani sui braccioli dello scranno e rispondere cortese ma formale: «Perché non sono informazioni che devono conoscere, anche se ho idea che qualche domanda se la siano già posta anche loro».
Appoggiò la schiena al trono e chiuse gli occhi con fare stanco.
«Scusate, non sono una stratega ma a questo punto, non sarebbe stato meglio lasciare che anche loro ascoltassero?» Domandai.
Lui sorrise mestamente e mi guardò, malinconico: «Fidati, è meglio così, non li considero idonei per conoscere questo tipo d’informazioni».   
«Se lo dite voi…» Ribattei pensando che non si fidasse dei propri compagni.
«Tornando a noi, volevi sapere perché l’Albero del Conflitto in cui era incorporata Eris stessa, ti ha chiamata così. Non che cosa sei ma che cos’hai, stando alle nostre informazioni tu sei in possesso di un antichissimo e ancor più raro manufatto denominato Luce Ombrosa».
Ah, ecco come era possibile che un albero parlasse e io che pensavo di aver subito una commozione cerebrale. Cioè, ricordavo qualcosa ma ora che Eris si fosse incarnata nel suo stesso Albero mi era nuova.
“Aspetta, che cos’è che avrei, io?”
Mi cadde la mascella ma mi ricomposi subito per domandare: «Scusate, cosa sarebbe ‘sta Luce Ombrosa?»
«Nessuno lo sa e neanch’io, purtroppo. Da quando l’archivio e la biblioteca sono stati danneggiati, non c’è modo di saperlo ma qualunque cosa sia, deve essere molto potente se l’hanno affidato a te».
Si alzò e scese dalla pedana per avvicinarsi e guardarmi meglio in faccia.
Era alto all’incirca sul metro e ottantotto, mentre io ero sul metro e settantasette centimetri.
Comunque si fermò a un metro da me e disse: «Forse questi poteri, la magia che hai manifestato servono proprio per proteggere questa Luce Ombrosa che gli Dèi bramano tanto, per questo capisci, non puoi andartene. Se esci da qui i nemici ti piomberanno addosso come falchi sulla preda».
E, io non avevo neanche un minimo di nozione di autodifesa o la velocità e la forza di un Saint per portarmi in salvo. Siamo realisti, nonostante i miei ricordi, era ovvio che non potevo niente. Mi rendevo conto anch’io che questi poteri non mi avrebbero salvata se fossi stata attaccata. Avevo avuto fortuna, tutto qui, per essermi cacciata da sola nei guai, oltretutto.
E, sinceramente, non ero sicura che le Creature sarebbero accorse nuovamente per salvarmi. Quella volta con il seme doveva essere stata una coincidenza, non c’era altra spiegazione. Poi si dovevano essere accorte che ero io, per questo avevano cambiato atteggiamento.
Il mio cuore batté più rapidamente mentre un’ondata di gioia montò dentro di me. «Magia?» Domandai sconvolta e gioiosa al tempo stesso. «Quella che ho, si tratta di magia?»
«É possibile». Confermò, incerto.
 Allora mi sorse un dubbio che annientò la gioia provata poco prima; «Ma se è così non posso neanche restare qui, visto lo scompiglio e il pericolo che porto, no?» Rilevai, sforzandomi di non perdere il filo della conversazione.
«Hai ragione anche tu, ma qui, almeno, possiamo contenere i danni e proteggerti meglio, invece che altrove».
«Cioè mi state dicendo che per quanti sforzi io faccia per andarmene, non me lo permetterete?» Cercai di tradurre accigliandomi. Ma chi si credeva di essere per trattenermi qui contro la mia volontà?
Lui rimase sconvolto da queste parole: «No, no, certo che no, hai frainteso. Anche noi vorremmo lasciarti tornare alla tua vita, solo che finché continuerai ad aver disegnato un bersaglio sulla fronte non possiamo lasciarti andare. Anche se sei la custode della Luce Ombrosa, non potremmo mai perdonarci di avere un’innocente sulla coscienza, capisci ciò che intendo? Però il Santuario sta passando un periodo di grave crisi e non possiamo permetterci che buona parte dei Cavalieri d’Oro vengano con te per proteggerti».
«Sono importante a tal punto? Al punto che gli Dèi metterebbero a ferro e fuoco intere città per trovarmi e impossessarsi di questa cosa?» Domandai a quel punto cominciando a comprendere l’effettiva gravità della situazione in cui mi trovavo.
«Pare proprio di sì, mi dispiace». 
Chinai il capo con un sospiro rassegnato: «D’accordo. Se non c’è altra scelta…»
«Tornando al discorso di prima, perché non hai aspettato che io ti assumessi regolarmente?»
Feci un mezzo sorriso di scuse: «Quando dalle mie parti dicono così di solito significa aria, sciò. Ve l’ho detto, io voglio soltanto tornare a casa, non posso aspettare e restare con le mani in mano. Non ha alcun senso per me aspettare che qualcuno si ricordi di me se posso farlo benissimo da sola». Spiegai. Ero adulta, indipendente. Non avevo certo voglia di smettere.  
«Non avevi pensato di chiedere a uno dei Gold di riportarti a casa?»
«Sì, ma non è nel mio stile, ve l’ho già detto». “Ho ancora una dignità, io. Non voglio essere sempre la donzella in difficoltà della situazione”, pensai a disagio dall’idea. Nel dirlo mi tornò in mente mia madre che cercava di spiegarmi i poteri dell’acqua. Poteri che avevo acquisito tramite l’analogia dei serpenti e che stavo usando anche adesso. «Pensate di dirmi altro o sono congedata?» Domandai, ridestandolo dallo stato di shock in cui l’avevo precipitato.
«Sì, sei congedata».
Mi inchinai, mi rialzai e poi mi avviai verso l’uscita.
Cocteau mi raggiunse in volo e uscì per primo dal portone che aprii con entrambe le mani.
Non feci in tempo a fare tre passi che mi ritrovai gli altri Gold davanti. Sgranai gli occhi e un «Oh» mi sfuggì dalle labbra. Non mi aspettavo che fossero ancora qui.
Death era appoggiato alla colonna con le caviglie incrociate. Mur, arrivato da poco, era in piedi vicino a lui, Kiki arretrò di qualche passo per farmi passare. Shura che mi guardava da sopra una spalla senza sorridere. Il padre di Yoshino cercava di studiarmi, intanto che la Piattola e il Leone, alla mia sinistra come Shura, che fino a quel momento, avevano confabulato tra loro, mi guardavano.
L’unico che mancava all’appello era Aphro. Dov’era finito?
Shun disse: «Astrid» come se avessi interrotto qualcosa.
Restammo un attimo in stallo a fissarci.
Alla fine fui io a uscire da questa situazione imbarazzante: «Ehm, posso passare o preferite sentire quello che mi ha detto?» Domandai, intanto che Cocteau si posava sulla spalla di Shura. Anch’esso ormai completamente girato verso di me.
«Puoi ripeterci il colloquio con il Gran Sacerdote?» Domandò stupito Aldebaran, anche se lì per lì non compresi il senso di quella frase, se non dopo cinque secondi. Allora alzai le spalle: «Bè, non vedo perché no, non mi ha mica detto di tacere, magari riusciamo a capirci un po’di più tra tutti».
«Va bene» e «Ci sto». Dissero le due teste calde del gruppo al tempo stesso.
Death fece loro eco con un ghigno, neanche gli avessi proposto un massacro.
Shura e Cocteau si limitarono a guardarmi.
Aldebaran disse: «Spiegaci tutto».

Milo
“Traditrice”. Ecco cosa pensavi della tua Scorpio. Ecco cosa succedeva ad affidare la propria cloth al Patriarca e a lasciarle incustodite. «Ma poi sei uno Scorpione o sei un pappagallo?» Domandasti alla tua Armatura che se ne rimase lì, immobile, nella sala a lei dedicata del Tempio dello Scorpione Celeste. Ce l’avevi riportata seduta stante dopo che Kiki e Mur finirono di esaminare le Armature e Kanon vi autorizzò a portarle via. Ovviamente mandandovi a chiamare.
Non che aveste fatto ritorno alle vostre Case, semplicemente vi eravate fermati sulla rampa che collegava la Casa di Aphrodite e la Casa di Atena, mentre Kiki e Mur venivano mandati a chiamare da un paggio e vi avevano lasciati lì.
Quasi come una sorta di scambio, invece loro era arrivato Aphrodite. Qualcosa ti disse che doveva essere rimasto indietro apposta per spiare la conversazione. Ma d’altronde, sapevate tutti che Aphrodite ce l’aveva di vizio.   
Guardasti la tua Scorpio con aria truce aspettandoti una risposta che, ovviamente non venne. La sentivi viva, la sentivi respirare, ma non la sentivi affatto pentita di aver coccolato la ragazza che non sopportavi. Anzi, la sentivi pronta a tornare da lei se lei stessa l’avesse chiamata.
“Brutta traditrice”. Pensasti senza sapere bene se fosse rabbia, sgomento, paura o gelosia a farti pensare così.
«Bah, io me ne vado all’Undicesima».

Eri sdraiato sul divano nuovo dell’Undicesima a goderti il silenzio di quella notte.
Avevi raccontato a Camus quello che era accaduto e, ora, non avevi più nulla da dirgli. A volte capitava che andassi lì soltanto per ascoltare il silenzio o per ammirare il panorama che si poteva scorgere dal Tempio a Thólos. Ossia un Tempio a pianta circolare con peristasi (nome tecnico del porticato che circondava il Tempio). Panorama decisamente migliore di quello che vedevi tu all’Ottava. 
Ti sdraiasti, le scarpe poggiate sul bracciolo, come quando lo venivi a trovare. Quasi potevi percepire l’occhiataccia che ti avrebbe scoccato. Le notti si erano scaldate ulteriormente, perché quando uscivi la sera il tuo fiato non si condensava più come qualche mese prima.
Anche l’Undicesima non era da meno. Eri talmente abituato al suo microclima che ormai ti eri abituato al freddo in generale. Niente sarebbe mai stato come il caldo dell’estate ma il fresco non ti dispiaceva. In un certo senso ti ricordava il tuo defunto miglior amico.
Pensasti a lui.
Tutti dicevano che fosse glaciale, quanto si sbagliavano. Camus non era affatto gelido e spietato come le energie che controllava, era una persona molto buona e calda, invece. Lo sapevi, perché lo avevi visto nel suo sorriso, quelle volte che sorrideva. Nella positività, che a tratti aveva sfiorato l’ingenuità, quando si era schierato a fianco del Guerriero Divino. Una persona glaciale non avrebbe mai cercato di salvare Aiolia assieme a voialtri quando s’inoltrò nel Tartaro per recuperare la sorella rapita. Non avrebbe mai festeggiato l’arrivo del suo allievo e, poi successore.  Non avrebbe mai cercato di consolare il sopraccitato allievo alla morte di Isaac. Anche se, stando a quello che ti raccontò Camus, più che consolarlo voleva incoraggiarlo.
Quanto tempo avevi sprecato dietro a quello scemo. Se davvero fosse stato un uomo gelido, non avrebbe mai avvisato Hyoga che era finito nelle mire del Santuario. Né avrebbe cercato di salvare Hyoga rinchiudendolo in una Freezing Coffin. E, non avrebbe mai pianto per questa decisione e, per l’inabissamento della nave dove riposava la madre di Hyoga. Tantomeno si sarebbe mai sacrificato facendogli raggiungere il Settimo Senso. Già, tu sapevi come sarebbe andata a finire, ma avevi accettato a malincuore la sua decisione. Se tu avessi avuto un allievo che amavi quasi alla stregua di un figlio o un fratellino, avresti fatto lo stesso. Tu sapevi che per Camus Hyoga era davvero come un figlio e ne avevi avuto la conferma quando si era unito alla famiglia di Hyoga in qualità di nonno per Natasha. Se questa era la descrizione di una persona rigida, allora le persone avevano davvero uno strano concetto di ghiacciato.
E adesso, tramite un rito officiato da Death Mask e DeathToll, era andato a vivere negli Inferi.
Vi mandava delle lettere almeno ogni tre settimane, aggiornandovi sulla situazione o raccontandovi le sue giornate come guardiano del Cocito. Lettere che tu e Hyoga (anche se lo nascondevate) attendevate quasi con impazienza. Tu portavi dei fiori alla sua tomba, era vero, ma il suo corpo non era veramente sepolto lì. Era infatti, in una sala della Casa di Atena, posto in una teca di vetro piena di Cosmo divino che lo preservava. Lui e gli altri guerrieri che, stando ai patti con Hades, si erano trasferiti negli Inferi. Le loro tombe, in realtà erano una sorta di portali.
Avevi temuto, con il crollo della Tredicesima Casa, che anche lui fosse morto definitivamente, invece, prima che Kanon venisse catturato da Phonos, era riuscito a spostarli altrove con l’Another Dimension e aveva avvisato Ikki di recuperarli. Dopo aver eseguito il compito, Ikki di Phoenix si era teletrasportato al Santuario e vi aveva aiutati. Eri stato felice di apprendere che le teche e i corpi erano al sicuro. Quando ti riferirono la notizia, avevi atteso di essere solo per lasciarti andare in un pianto di gioia.    
«Allora non mi ero sbagliata». Esclamò una voce femminile conosciuta, strappandoti alle tue riflessioni. Sobbalzasti e ti rizzasti a sedere di scatto. «Chi c’è?» Domandasti girandoti verso la voce e vedesti Astrid illuminata dalla delicata luce di una lucerna. Sulle prime avevi pensato che ne tenesse davvero una in mano. Ma poi avevi guardato meglio e ti eri accorto che erano le sue stesse dita a rilucere così e che teneva sollevate. Era avvolta in una mantella che le sfiorava le ginocchia. I capelli sciolti che andavano ricrescendo. 
«Tranquillo, sono soltanto io». Cercò di rassicurarti, gli occhi spalancati per lo spavento, il peso spostato sulla gamba indietro, come se fosse scattata indietro anche lei. Poi si accorse di come le stavi fissando le mani e si scusò con un: «Oh, aspetta». Spense il luccichio e scomparve, inghiottita dal buio che ti costrinse a battere le palpebre per abituare la vista.
Temesti un attacco e ti tenesti pronto per sfoderare il Restriction, finché non la sentisti sbattere contro il tavolo in cucina, gemere di dolore e borbottare un’imprecazione in italiano che ti strappò, tuo malgrado, una risatina divertita. Allora comprendesti che era andata ad accendere una candela e ti rilassasti. «Tutto a posto?» Domandasti, distendendo anche i muscoli delle spalle e della schiena, mentre un sorrisetto divertito la faceva da padrone sulla tua faccia. «Sì, credo».
La sentisti sbattere altre due volte, poi la sentisti trovare la scatola dei fiammiferi e presto la luce calda che si proiettò sul muro che vedesti dalla porta aperta, delineò la sua ombra.
Subito dopo, lei stessa fece capolino, reggendo una candela in mano.
«Astrid», sospirasti, tornando serio, «cosa ci fai qui a quest’ora?» Ti accorgesti che manteneva una certa rigidità nelle spalle e che si teneva a distanza.
Abbassasti le mani e ti lasciasti ricadere sul divano. Hyoga avrebbe dovuto decidersi a mettere i mobili nuovi, oppure potevate farlo voi, dal momento che era tornato in Giappone con la Dea e Natasha e non era ancora tornato.
Bel dilemma.  
«Non ho sonno e ho pensato di prendere un libro, qui si trovano i migliori testi scientifici, anche se mi sa che sono un po’datati, a giudicare dalle copertine». Rispose lei.
«Mi dispiace ancora per i tuoi appunti e per i libri».
«I restauratori hanno detto che presto li riporteranno alla Tredicesima». Ah, pure? Pensasti orripilato.
«Solo uno di quelli apparteneva a questa Casa.» Continuò. Già, passava molto tempo nella biblioteca dell’Undicesima, l’unica rimasta in piedi tra le Dodici Case. «Ma sono in greco». Obiettasti, confuso.
«Ci sono anche quelli in francese».
«Conosci il francese?»
Lei annuì: «Conosco l’inglese, il francese e di tedesco. Il primo l’ho quasi dimenticato, il secondo riesco a leggerlo e tradurlo, un po’ a senso e un po’ sforzandomi, ma non a parlarlo e il terzo lo capisco sia scritto sia parlato e sono quasi madrelingua grazie alla mia tata». Con queste ultime parole abbassò lo sguardo, vergognandosi.
«Ora mi spiego il tuo accento». Dicesti. Si spostò una ciocca dietro l’orecchio e tu ti accorgesti che aveva cambiato pettinatura. Adesso la frangia era spostata quasi completamente sul sopracciglio sinistro, a parte tre ciocche che erano rispettivamente tra le sopracciglia e le altre due sull’altro sopracciglio. Il volto era incorniciato da due ciocche più lunghe che le sfioravano le clavicole.
Ora la somiglianza con Camus si era un po’attenuata.
Interruppe le tue elucubrazioni per chiederti: «Senti, lo so che non corre buon sangue tra noi, però volevo domandarti che cosa è successo».
«A che pro?» Chiedesti senza capire a cosa si riferisse.
Lei sospirò e specificò: «Perché mi odii?»
Quella domanda ti sorprese: «Io non ti odio». Le avevi persino donato il sangue per tenerla in vita, anche se non gliel’avresti mai detto. Se foste stati nemici non l’avresti risparmiata dalla Cuspide Scarlatta. «Mi era sembrato di sì, o le tue frecciatine sono il tuo modo di porti?» Chiese alzando un sopracciglio con fare studiato.
«Io punzecchio le persone». Ti limitasti a dire, appoggiando la schiena allo schienale distrutto.
«Tutte? Perché allora ti accanisci su di me?»
«Guarda che sei tu che hai cominciato».
«No, io non ho fatto niente». Ribatté.
«Invece sì».
«Invece no».
«Ma sentila, allora dimmelo tu quand’è che avrei cominciato?» Facesti battendo le tue mani sulle cosce e guardandola. Lei sostenne il tuo sguardo e rispose: «D’accordo, quando mi hai chiesto se volevo provare i miei poteri sulla tua pelle con quel tono da pallone gonfiato, come se non l’avessi già sentita, poi. Non sei il primo che mi taccia di stregoneria. Alcuni mi hanno anche chiamata zingara, qualche genio fissato con i romanzi di Victor Hugo addirittura gitana e qualcuno mi ha quasi denunciata di stalking solo perché gli avevo letto la mano. Ma ehi, se ti piace essere minacciato con il mocio vileda o la prima cosa che mi capita a tiro, allora niente in contrario».
Ti scappò un sorriso divertito al ricordo anche se, nel profondo, ancora ti bruciava. Complice la vostra incapacità di percepire il suo Cosmo ne aveva approfittato molte volte per vendicarsi degli scherzetti che gli avevi tirato. «Già, le minacce più divertenti che abbia mai subito in vita mia». Ridacchiasti nel ricordarle. Lo zoccoletto della nonna, il vaipan, il mocio vileda come prima cosa che vedevi appena alzato, lo sturacessi (che non era ancora riuscita a incollarti sulla testa), e la prossima quale sarebbe stata?
Lei fece un sorriso sollevato. «Sono contenta che tu l’abbia presa così, quasi ci speravo che capissi».
«Certo che lo capisco: vuoi tenermi testa e al tempo stesso dimostrarmi che non sei un potenziale bersaglio per le mie quindici punture dello Scorpione».
«In realtà sarebbero diciassette». Ti corresse. La guardasti come se avesse appena parlato arabo.
«Guarda che le stelle della mia costellazione sono quindici e Antares, la quindicesima, che da il nome al mio colpo più potente, è la più luminosa». Ecco, adesso ti sentisti un saputello fatto e finito.
«Sbagliato, le principali sono diciassette». Allargasti le braccia esasperato e le battesti di nuovo sulle cosce: «Ma chi è lo Scorpione tra me e te?» Ribattesti infastidito. Poi: «Lo saprò quante stelle ha la mia costellazione o no?» Adesso capivi come si sentiva Camus ad avere a che fare con un rompiscatole come te. Che, poi, diciamocela tutta, tanto rompiscatole non eri, eri nella media.
Non ti eri mai visto sotto quest’ottica. Anche se lo facevi perché gli avevi voluto bene.
A questo punto Camus ti avrebbe lanciato una delle sue occhiate gelide e non ti avrebbe risposto. L’ultima volta che lo avevi visto, ad Asgard, non rispose a nessuna delle tue domande, anzi, giocò all’enigmista con te, facendoti addirittura finire in un burrone prima e, quasi scatenando una Guerra dei Mille Giorni, dopo. Se non fosse stato per Saga che vi fermò. Chissà se anche questa ragazza si sarebbe comportata allo stesso modo? Inaspettatamente curvò le labbra in un sorriso e ti rifece il verso: «Chi è che studiava astronomia tra me e te? Fidati, conosco tutte le costellazioni a memoria, lo so meglio di te». Si vantò.
Guardaste ognuno in due direzioni diverse, così, senza un motivo preciso. «Seriamente?» Le domandasti dubbioso dopo un po’, guardandola di nuovo. Lei alzò le spalle e ricambiò: «Se non ti fidi contale appena lo Scorpione tornerà ad aprile».
«Lo so quando compare lo Scorpione». Ribattesti risentito e lei scoppiò a riderti in faccia.
La guardasti. L’avevi osservata a lungo in questi mesi e avevi riflettuto molto su questi attacchi, anzi no, scherzi che scandivano le vostre giornate, cosa che con Camus non succedeva. Ogni mattina ce ne era uno, questa per esempio, ti aveva tirato una secchiata d’acqua gelida in testa mentre passavi sotto la porta dell’arena, facendoti dapprima boccheggiare e poi urlare a gran voce il suo nome quando l’avevi sentita ridere. La primavera era giunta da poco ma, dannazione, rischiavi di ammalarti.         
«Per analizzarle, suppongo. Non guardarmi così, sono anche un’astrologa, ricordi? I segni zodiacali e ciò che si dice per ognuno di essi, altro non sono che i primi tentativi dell’umanità di creare dei profili psicologici». Ti offendesti un po’ per la considerazione in merito al tuo segno. Però, dovesti ammettere che era anche una teoria nuova. Non era che a voi importasse tantissimo il lato mistico delle vostre costellazioni, dopotutto eravate guerrieri. Quello che facevate era proteggere la Terra dalle forze del Male, niente di più.
«Questo non me l’avevi detto».
Lei t’indicò il tappeto ai tuoi piedi come a chiederti se poteva sedersi e tu ti scostasti come se ti avesse chiesto se poteva sederti sul divano accanto a te. Lo prese come un sì perciò si accomodò ai tuoi piedi. Le gambe incrociate sotto la gonna lunga. Il braccio appoggiato sul divano e l’altra mano a cingersi l’altra. Avrebbe anche potuto accomodarsi accanto a te, ti saresti scostato per farle posto, ma se voleva stare sul tappeto, che ci stesse. Tu non staccasti gli occhi dalle sue mani, adesso normali. Lei se ne accorse e le guardò a sua volta: «Sto sanguinando?» Ti chiese intimorita, girandole alla ricerca di una ferita.
«No, è solo che non avevi detto che le tue mani si illuminano di notte». Lei sospirò di sollievo e le lasciò ricadere. «Non me ne parlare, è inquietante anche per me». Mormorò, con sguardo perso.
La calda luce della candela riverberava nei suoi occhi e illuminava ogni cosa, addolcendola. «É da dopo il processo che succede, da quando ho trovato quella spianata e ho cominciato a esplorare le montagne circostanti per ritrovarla. Magari tu pensi che ve l’ho tenuto nascosto per un segreto, invece no. La verità è che questa storia mi fa paura».
Ecco, questa era un’altra differenza con Camus. Più avevi a che fare con lei e più ti accorgevi di quanto quei due fossero diversi, diametralmente opposti.
«Perché non ce l’hai detto?»
«Aldebaran e Mur lo sanno, sono stati loro a trovarmi quel giorno, Death Mask, Shura e Aphro hanno persino controllato ma non hanno trovato niente. Almeno così dicono, ma non mi sono fidata. Forse hanno veramente ragione e non c’è davvero niente». Sospirò. «A questo punto mi domando se sia un’allucinazione o se…» rabbrividì.
Restasti in silenzio ad ascoltarla, scoprendoti preoccupato per lei. Dopotutto era solo una ragazza di ventun anni che era piombata nel vostro mondo da un giorno all’altro. «Death e Aphro stanno cercando di aiutarmi come possono, ma non voglio sempre affidarmi a loro perché non voglio sentirmi un peso per nessuno, anche se, stando qui, mi sento più impotente che mai».
Ti accigliasti. «Come fai a dire che sei impotente?»
«Rispetto a voi che cosa sono, allora?» Sorrise ironica, indicandoti con un dito, che lasciò ricadere subito. La testa appoggiata sulle braccia.
Non sapesti cosa risponderle perché sotto molti aspetti aveva ragione. Ma sotto altri aveva torto marcio.  La vedesti guardare la fiamma della candela. Dopo qualche secondo si alzò, si spolverò la gonna e disse: «Bè, io ho sonno, vado a casa».
«Se vuoi ti accompagno». Decretasti alzandoti a tua volta ma lei ti fermò: «Non preoccuparti, non c’è bisogno, resta un altro po’, ti lascio la candela accesa».
«Sei sicura?» Le domandasti crucciato, ma stavolta per la preoccupazione. Era la prima volta che una ragazza ti rifiutava questa cortesia. Ma d’altronde, perché mai avrebbe dovuto accettarla, considerando che non vi sopportavate? «Sì, mi devo abituare, ed è una cosa che devo fare da sola».
Asseristi col capo. Comprendevi il motivo per cui diceva così, eppure non riuscivi ad accettare questa decisione: non ti piaceva l’idea di saperla a giro di sola la notte. Dei tuoi compagni Gold Saint ti fidavi, era delle strade di Rodorio e delle persone in generale che non ti fidavi. «Ascolta, non devi per forza abituarti in fretta…»
«Ti ringrazio per la premura, Milo, ma non c’è bisogno, davvero».
«D’accordo, ma se succede qualcosa interverrò». Promettesti.
Lei ti scoccò uno sguardo incuriosito: «E, come?»
«Semplice, verrò da te alla velocità della luce». Rispondesti convinto. Se fosse stata in pericolo l’avresti sentito tramite il Cosmo altrui. Inoltre avevi scoperto che ascoltare le variazioni nei Cosmi altrui era l’unica cosa che potevi fare senza incorrere nelle mire delle Creature.
Lei ti regalò un sorriso poco convinto, poi ti augurò la buonanotte. Ricambiasti e lei se ne andò. 
Una volta rimasto solo guardasti quella Casa buia e ti domandasti che cosa ci facessi lì, mentre quella ragazza era già sulle scale. Che diamine, anche se era una gran rompiscatole era pur sempre una ragazza. Ma lei ti aveva detto di non volere la tua compagnia, non che avrebbe rifiutato il tuo aiuto. Ti fermasti, preso dal dubbio.
Alla fine giungesti presto a una conclusione: ovvero che non importava; l’avresti tenuta d’occhio tramite il Cosmo degli altri e saresti corso da lei in caso di pericolo.


Mur
Il colloquio con il Gran Sacerdote non durò moltissimo ma abbastanza per tenervi sulle spine. L’amica del tuo allievo ti era simpatica, ti sarebbe davvero dispiaciuto se le fosse accaduto qualcosa per mano di Kanon. 
Se non fosse stato per le Creature e il pericolo che rappresentavano, probabilmente saresti stato meno angosciato di così. Tu e i tuoi compagni l’avevate protetta sempre, ma adesso era un altro paio di maniche, adesso non potevate sfruttare il Cosmo e le vostre doti.
Abbassasti lo sguardo pensando che non ci voleva: eravate impotenti e non potevate nemmeno appellarvi alla vostra Dea perché qualcosa vi ostacolava. Non solo per le missioni che il Papa affidava a tutti voi Saint ma anche per i prossimi scontri.  
Inoltre, ti eri accorto da un pezzo della dolcezza di Astrid. Anche se le parole che aveva proferito in quella sala avevano gettato un’ombra sull’idea che ti eri fatto di lei.
Avevi capito che era una ragazza normale, avevi accettato il fatto che fosse una chiromante e che, potesse usare questa capacità per sfottere, se necessario. Avevi capito che sapeva usare la magia, ma che i suoi poteri fossero così estesi no. Questo ti insospettiva.
Ripensasti al sorriso limpido e aperto di quella ragazza che aveva stregato il tuo allievo. La stessa che si era presa il raffreddore ultimamente e che Kiki aveva curato con tanta solerzia.
Più di ogni altra cosa ti rammentava soltanto la luce. Come poteva essere malvagia? O anche soltanto diversa dalla bontà che emanava? L’aveva ammesso con un candore tale che ti aveva lasciato di stucco. “Eppure non può essere malvagia”. Anche perché, come poteva esserlo una persona che minacciava Milo con il mocio vileda? Faceva più ridere che paura. Persino lo Scorpione se ne rendeva conto e poi taceva per l’assurdità che aveva detto. Perché era assurdo che qualcuno minacciasse un Gold con un attrezzo tanto improbabile.    
Continuavi a mantenere la tua solita flemma, ma dentro eri agitato. Non ti sentivi più così da quando salvasti Seiya dai Silver Saint ai tempi dell’usurpazione di Arles e distrussero la tua torre in Jamir.
Non si poté dire lo stesso di Kiki che continuò a fissare la porta con i suoi profondi occhi viola. Potevi vedere le emozioni e i suoi pensieri sulla sua faccia con la stessa chiarezza delle parole sulle pagine di un libro.
Aldebaran aveva provato a infilarsi nella conversazione tra i tuoi amici ma presto si era arreso e si era limitato ad ascoltare. Sapevi che secondo lui qualcosa da nascondere ce l’aveva.  Perciò, quando lei affermò chiaramente il contrario, ci restò di stucco.
Soprattutto quando lei si aprì con voi e rispose sinceramente alle vostre domande. Tu pensasti che fosse un grande atto di coraggio e un segno della sua fiducia.
Per la prima volta nella storia di voi Gold, cominciaste a comunicare e mettere insieme le informazioni che avevate raccolto. Fu una cosa abbastanza strana, non eravate abituati a esternare i vostri dubbi e le vostre ipotesi e considerazioni. Ancora di più fu strano sapere che Astrid aveva cercato di capire ancor prima di voi. Voi che avevate pensato che fosse tanto spaventata da non pensarci. Adesso vi rendevate conto di averla sottovalutata.
Aveva cominciato fin da subito a combattere, da quando si era risvegliata dal coma. Già vi eravate fatti una vaga idea della sua grinta, ma non l’avresti mai immaginata così battagliera. Lo era persino di più di Atena. Ma questo pensiero lo ricacciaste quasi all’unanimità nel profondo delle vostre menti per rispetto alla Dea che servivate e veneravate.
«Però è strano», aveva detto Shura a un tratto, «come riesci a usare questi poteri se non hai un Cosmo?»
«Forse non è necessario avere un Cosmo per avere dei poteri». Aveva ribattuto lei.
Lo spagnolo l’aveva guardata per un attimo, riflettendoci su un momento. 
«Ma chiunque ne ha uno, si può sviluppare, si può non sviluppare, ma non è detto che si atrofizzi fino a scomparire». Aveva obiettato lo spadaccino del gruppo.
Già, la sua teoria del Cosmo fantasma di Astrid.
Astrid aveva alzato le spalle e lo aveva sfidato, sempre con quel tono calmo che la contraddistingueva quando stava bene: «Boh? Tu senti qualcosa emanare da me?»
Vi fermaste e anche lei vi imitò. Tutti voi la guardaste a lungo, cercando la stessa cosa, prima che Shura riabbassasse lo sguardo e dicesse: «No».
Peccato soltanto che il portatore della Spada Sacra avesse perso da tempo la capacità di percepire il Cosmo altrui.
La bionda, però, non poteva sapere quello che sapevate voi. E, forse, era il caso di non dirglielo.

Quella sera Astrid era uscita di nuovo con Yoshino. Tu passasti la sera in compagnia di Aldebaran, un’anima in pena e di sua moglie, che cercava di tirargli su di morale e distrarlo. Senza successo. A un tratto si sedette davanti a lui, i capelli legati nella treccia castana scura e gli domandò, guardandolo preoccupata con quei dolcissimi occhi scuri che non le avevi mai visto. Neanche tu avevi mai avuto la fortuna di ammirare i suoi bellissimi lineamenti: «Cosa c’è? Qualcosa non va?»
«Sono preoccupato».
«È per Yoshino, vero?»
«Tu non sei preoccupata?»
«No, non sento Cosmi ostili, perché allora tu ti preoccupi così tanto? É per via di Astrid?»
Aldebaran non ebbe il coraggio di dirlo ad alta voce.
Shaina sospirò, indovinando i suoi pensieri dal tuo sguardo. Tese una mano verso di lui e gli carezzò il viso. Lui incatenò i suoi occhi azzurri nell’abisso scuro dei suoi. «Non stare in pena, la nostra bambina è in buone mani. Lo sai che Astrid non le farebbe mai del male».
«Nutriresti qualche dubbio anche tu se avesti sentito quello che ha detto oggi alla Tredicesima, davanti a tutti noi».
«Confermo». Dicesti tu. Shaina ti guardò, girandosi di tre quarti. Riportò la mano con cui aveva accarezzato la guancia di Aldebaran sulle proprie cosce: «Perché? Cosa ha detto?»
Glielo raccontaste. Lei ascoltò tutto senza fiatare, ma lo capivi che stava elaborando le informazioni per creare una strategia. Ma anche che era in qualche modo affascinata dai poteri di questa sua giovane connazionale. Sulle prime avevi dimenticato che anche la moglie di Aldebaran era di origini italiane. «Quello che dite mi da molto cui pensare. Ma voglio provare a fidarmi di Yoshino». Dichiarò alla fine. «E, anche di Astrid. Sapete, lei mi ricorda molto noi».
«In che senso?»
«Il modo in cui sta vicino a Yoshino mi ricorda molto quello delle Saintia con Lady Isabel. Qualcosa mi dice che Astrid farebbe di tutto per salvare nostra figlia, se si trovasse in pericolo, proprio come una Saintia, o come un Cavaliere d’Oro». Disse guardando suo marito in faccia. Non sapesti come, eppure, in quelle parole intrise di sicurezza, scorgesti un fondo di verità.  

Aldebaran se ne era rimasto quieto per tutta la sera, dopo le rassicurazioni di Shaina.
Verso mezzanotte Yoshino e Astrid fecero ritorno chiacchierando e scherzando divertite, esattamente come due ragazze normali. La bionda aveva accompagnato l’amica fino alla Seconda, poi, dopo i saluti, aveva chiesto il permesso al Cavaliere del Toro di continuare la salita. E, Al, gliel’aveva concesso, anche se un po’ perplesso.
E, dopo averla accompagnata con lo sguardo, l’avevi visto seguirla.
Tu non avresti dovuto immischiarti, però avevi deciso di seguirli a tua volta. Non erano affari tuoi ma dovevi sapere che cosa voleva fare.
Oltrepassaste la Casa dei Gemelli, tu, stando attento a nascondere il tuo Cosmo e, pronto a renderti invisibile agli occhi e alla mente di Aldebaran, in caso si fosse accorto di te.
«Vai da qualche parte?» Gli domandò Death, appena il brasiliano varcò la soglia della Quarta.
«Hai visto Astrid?» Domandò invece il padre di Yoshino.
Ti rendesti invisibile ai loro occhi tramite i tuoi poteri telepatici e restasti a osservare.
«Ah, allora è questo il motivo per cui sei qui?» Indagò divertito, accendendosi una sigaretta tra le labbra. Lui non perse neanche tempo a fulminarlo con lo sguardo. Non ne valeva la pena e lo sapeva.
«Death…» iniziò paziente. Sotto questo punto di vista, il vostro letale compagno somigliava molto a un bambino attaccabrighe e pieno di sè. Sapevate benissimo che lui era il più debole di tutti voi.  
«Sì, è passata di qui». Confermò senza guardarlo.
«Perché è qui? Non dovrebbe essere a casa sua?» Lui alzò le spalle: «Boh? Non gliel’ho chiesto e lei non me l’ha detto». Ciò detto fece un altro tiro di sigaretta. «Ma non siete amici?» Chiese a questo punto, perplesso. L’altro lo guardò divertito: «Amici? Noi?» E, prese a sghignazzare sguaiato, espirando il fumo.
Aldebaran inarcò un sopracciglio, incrociò le braccia e lo guardò come a dire: “Chi credi di prendere in giro?” mentre aspettava che finisse. Tu invece lasciasti che un sorrisetto prendesse possesso delle tue labbra. Come no, ma se si erano accorti persino i muri dell’amicizia e dell’ affetto che lo legavano alla bionda.
Scuotesti il capo, compassionevole. Possibile che ancora si ostinasse a nascondere il suo lato dolce?
Incrociasti le braccia anche tu. 
Lui sollevò gli occhi divertiti sul collega della Seconda, fissandolo ancora con quel ghigno diabolico. «Scherzi a parte, cosa ti porta qui, Aldebaran? Di solito non ti allontani mai dalla tua Casa e, se non erro, Yoshino dovrebbe essere rientrata da poco». Gli chiese invece, cambiando discorso. Come faceva a saperlo per voi non era un segreto, doveva aver percepito il sollievo nel Cosmo di Aldebaran quando la ragazza era tornata alla Seconda, oltre che il suo Cosmo.
«Astrid invece che scendere e tornare a casa sua è salita su, tu come te la spieghi?» Indagò invece l’altro.
Tu adesso stavi cominciando sul serio a pensare che Al esagerasse.
Il siciliano alzò le spalle e fece un ultimo tiro di ciò che restava della sigaretta, dopo aver ovviamente, borbottato imprecazioni e accidenti nei suoi confronti per lo spreco. «Boh? Sarà andata all’Undicesima a prendere un libro da leggere».
«Un libro?»
«Hai presente la biblioteca dell’Undicesima?» Gli fece scocciato mentre si frugava nelle tasche dei pantaloni alla ricerca del pacchetto di sigarette, masticando altri moccoli. «Bè, è l’unico posto tra le Case ad aver conservato un po’meglio i libri e, come sai, Astrid sta cercando di riaggiustarli, probabilmente adesso vorrà anche leggerne qualcuno». Poi cominciò a frugarsi nelle tasche della camicia e della giacca.
«Ma lei li sa leggere? Se non erro molti erano in greco e in francese». Lo sapeva perché molto tempo fa l’aveva chiesto a Camus.
«Accidenti, ho lasciato l’altro pacchetto in casa. Eh? Dicevi? Ah, giusto; Aiolia le sta insegnando il greco sia antico sia moderno, quindi presumo di sì. Allora, pensi che come giustificazione sia sufficiente o credi che abbia bisogno di essere sorvegliata a vista?» Domandò infastidito alzandosi in piedi. Le mani affondate nelle tasche della giacca viola, il sopracciglio inarcato su quella faccia dall’espressione perennemente accigliata e minacciosa. Come facesse a non averla continuamente contratta non te lo spiegavi.  
Aldebaran non seppe che rispondere.
Death Mask distese i lineamenti del viso e disse, in tono più calmo, quasi paterno e stanco: «Dovresti fidarti un po’di più di quella ragazza».
«Io mi fido di lei, lo sento che non ha cattive intenzioni». Ribatté Aldebaran guardandolo stranito.
«Allora perché sei qui? E, non dirmi che era perché sei venuto a trovarmi perché non è vero».
Lo guardò e comprese che forse stava esagerando. «Per nessun motivo, buonanotte Death Mask». L’altro neanche rispose al saluto.
Aldebaran si girò e percorse la scalinata a ritroso.
Tu gettasti un’ultima occhiata al siciliano che, mani in tasca, osservava quasi con fierezza, la ritirata del Cavaliere del Toro.  

Castalia
Questa storia non ti piaceva. Da quando il sommo Aldebaran e il Grande Mur avevano soccorso Astrid e lei aveva raccontato di quel posto, gli eventi erano precipitati in fretta.
I Cavalieri d’Oro si erano accorti che lei era diventata il bersaglio di qualcuno. Qualcuno che, a quanto pare era capace di alterare il tempo. Che fosse Chronos? Ma non lo avevate sconfitto da tempo? Adesso non riposava sull’Olimpo, nel Lago del Tempo che aveva rimandato indietro nel millesettecento la Somma Atena e Shun?
Death Mask e Aphrodite stavano cercando di tenerla alla larga da quella zona. Tu stessa eri impegnata a cercare le tracce del Cavaliere Maledetto. Perché, a differenza di tutti gli altri, tu ci avevi avuto a che fare in maniera indiretta. Avevi visto la sua influenza sulle persone, soprattutto su Shaina e non volevi che anche Astrid subisse lo stesso destino. Non avevi dubbi che si trattasse di lui e che stesse cercando di sfruttare la tua coinquilina per tornare nel Santuario e compiere finalmente la sua missione.
Non potevi permettere che Astrid diventasse un burattino nelle sue mani. Perché se c’era una persona che temevi persino di più di Ionia era proprio Odysseus di Ophiucus. E, stavolta, non sarebbe bastata la Sacra Freccia di Atena a scacciarlo e sigillarlo.
Il Santuario non era davvero più un luogo sicuro per Astrid.
E avevi preso la tua sofferta decisione che ti aveva portato a versare silenziose lacrime di dolore per questo. Ogni volta che immaginavi di doverle dare questa notizia vedevi il suo volto sorridente. Sapevi che la ragazzina si fidava di te ciecamente, quasi come se tu fossi la sua seconda mamma. Te l’aveva dimostrato tante volte e anche tu ti eri affezionata a lei. Esattamente come ti affezionasti a Seiya. Forse un poco più velocemente, dopo tutti questi anni passati quasi sempre in solitudine a servire la tua Dea. Avevi bisogno anche tu di un contatto umano. E Astrid te lo aveva dato. Ti era venuto spontaneo proteggerla e aiutarla come avrebbe fatto sua madre. E avevi scoperto cosa provava Shaina a essere madre.
E proprio come una madre, sentivi che avresti dovuto prendere questa decisione. Anche se ti spezzava il cuore. 
Per questo avevi chiesto udienza al Patriarca.
Avevi dovuto attendere tre giorni prima che il Gran Sacerdote mandasse qualcuno a chiamarti. E adesso eri lì, inginocchiata nella tua Silver Cloth.
«Cosa posso fare per te, Cavaliere d’Argento dell’Aquila?»
Serrasti il pugno appoggiato a terra con più forza, mentre le tue membra prendevano a tremare. Sentivi che i singulti stavano per cominciare a scuoterti dalla testa ai piedi, ma ti imponesti di resistere e di restare calma.
Ti costava una grande fatica e un grande dolore pronunciare quelle parole, ma dovesti pronunciarle lo stesso: «Grande Sacerdote, desidero che Astrid Micheila av Stjernene venga allontanata dal Santuario».  

  

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Il Karma delle Sacre Vestigia ***


Il Karma delle Sacre Vestigia



 
Kiki

«Maestro!» Esclamò Raki quando ti vide quella mattina nell’area del monastero shintoista riservata ai lemuriani. Avevi osservato tutto il cerimoniale, perciò ti eri presentato al portone. Il monaco guardiano ti aveva  riconosciuto e ti aveva scortato dai tuoi compagni. Li avevi trovati intenti a fare colazione.
La ragazzina era stata la prima ad accorgersi di te. Mise giù la ciotola con la colazione e ti gettò le braccia al collo, ridendo divertita come una bambina. Ricambiasti l’abbraccio vacillando leggermente. Ti dovevi abituare alla sua nuova costituzione fisica. Era cresciuta moltissimo in questi mesi. I suoi capelli erano più lunghi e legati in una coda bassa e se pensavi che avresti potuto prenderla in braccio ti sbagliavi.
«Kiki, che piacere». Ti salutò il Venerabile Shion alzandosi a sua volta.
«Venerabile Shion».
«Deduco che le cose vadano già meglio se sei venuto qui per riprenderti la tua giovane allieva».
«Sì, Venerabile».
Raki sgranò gli occhi e prese a fare i salti di gioia per la felicità. Sorridesti contento di vederla così allegra. «Volo subito a fare i bagagli!» Trillò scomparendo rapidamente nella sua stanza.
«Che novità ci sono dal Santuario?» Domandò il Venerabile dopo averti invitato ad accomodarti.
Ti sedesti al tavolo, al posto precedentemente occupato dalla tua allieva e gli raccontasti tutto. Il Venerabile ascoltò ogni cosa con attenzione e alla fine disse, incrociando le mani sotto al mento: «É una situazione molto spinosa questa, quindi adesso spetterà a qualcuno riformare l’esercito insieme ai Silver Saint e i vari maestri».
«Precisamente». In realtà secondo la tradizione i Gold Saint erano esentati, scendevano in campo soltanto per vedere i futuri colleghi dell’élite sfidare uno di loro per la Cloth. Ovviamente con le dovute eccezioni, come Aiolia. Quello si era sempre trovato più a suo agio tra i commilitoni di rango minore che con voi. E come gli ex Bronze che tanto ammiravi e che non avresti mai eguagliato. Loro preferivano vivere al di fuori del Santuario. «Ma con la moria delle Creature è difficile». Le vostre armate erano ancora decimate e in calo. Qualcosa ti diceva che, in caso di morte, stavolta Hades non sarebbe stato così generoso. Le perdite non erano ancora state recuperate e mancavano all’appello tantissimi Saints che combatterono con te contro Mars e Pallas.
«Allora dobbiamo ringraziare la Dea per averci mandato quella giovane, non ti pare?»
«Ecco, era proprio di questo che vi volevo parlare, maestro. Si è mai sentito prima di una persona capace di un simile potere?»
Il Venerabile meditò a lungo prima di decretare che c’erano molte cose che lui non sapeva e altre che non poteva rivelarle. Neanche con il pensiero. «Non che io ricordi. Tuttavia di leggende sulle stelle ce ne sono tantissime. Farò qualche ricerca per vedere di che si tratti».
«Grazie, Venerabile».
Proprio in quel momento Raki rientrò nella stanza con i bagagli, salutò il Venerabile e, insieme, ve ne andaste. Per tutto il tempo che durò il teletrasporto Raki non fece altro che chiacchierare e raccontarti tutto condividendo con te i suoi ricordi.
Poi, appena arrivati a destinazione, la mandasti in camera sua. Ti prendesti un secondo per bere qualcosa, prima di salire alla Tredicesima per il rapporto settimanale sulle vostre truppe. Anche se ne avevi parlato con il Venerabile, non ti eri sentito affatto rincuorato. Avresti voluto candidare Raki, ma non era ancora pronta per ereditare la Cloth e, soprattutto, tu non avevi ancora intenzione di lasciargliela. In un certo senso era anche colpa tua se a quattordici anni non aveva ancora sviluppato il Settimo Senso.
Se non altro era molto brava con l’arte della riparazione. Avevi bisogno di molto aiuto per rimettere in sesto le Cloth.
Le poche Armature rimaste intatte piangevano ancora la morte dei loro Cavalieri. Alcune li chiamavano ancora, implorando che tornassero da loro, altre ancora si erano chiuse nel mutismo più assoluto. E tu versavi silenziose lacrime di dolore, mentre ascoltavi le loro storie e la loro sofferenza. A volte ti domandavi come facessero a non morire dopo tutti questi secoli.
“Perché lo fate?”Pensavi sfiorandone delicatamente il metallo.
“Perché noi amiamo”. Ti rispondevano sempre ed era con questa risposta nella testa che stavi salendo quelle scale. 
Una leggenda narra che il Venerabile Shion in gioventù, fosse capace di ascoltare la voce delle Armature. E le Armature lo amavano per questo e per la dedizione che metteva nel ripararle in quella torre dello Jamir che fu anche casa tua. Però gli mancava il mondo esterno. Situazione peggiorata dal fatto che ricevesse poche visite. Pertanto prendersi cura di loro diventò noioso e pesante. Un giorno venne tentato da Rune di Balrog, che gli offrì il potere e la conoscenza in cambio della distruzione delle Vestigia. Il tuo venerabile maestro cedette.
Furono le corazze stesse a fermarlo, cercando di scacciare lo Specter. Recuperato il senno il venerabile inorridì a tal punto che si tagliò le vene mentre Rune rideva di lui.
Tuttavia sopravvisse perché le Cloth gli donarono le proprie energie per tenerlo in vita.
Fu ritrovato dal Venerabile Hakurei dell’Altare. Fu il Silver Saint a rivelargli che cosa avevano fatto. A quel giovane in cui, nonostante la stupidaggine, non avevano mai smesso di credere e amare. Non avevano voluto che morisse non per un perverso senso di giustizia e pena, ma perché lo amavano, come amavano adesso te. Che avevi ereditato il compito e che lo stavi trasmettendo anche a Raki. L’eredità dei lemuriani per il Santuario.
Ti piaceva ripensarci. Era una leggenda che sapeva di una promessa che commuoveva, incantava e faceva palpitare i cuori.
Anche se non sembrava voi un cuore lo avevate. Pulsante, nascosto dalle corazze che vi abbracciavano, ma lo avevate. Che non si era inaridito nonostante tutte le Guerre e gli orrori visti. Anche voi, come la Dea, dell’amore vivevate. Avevate trovato l’amore in qualcos’altro, più sottile, più difficile da apprezzare e assaporare, ma lo avevate trovato. Almeno tu, orfano, avevi trovato un maestro che ti aveva fatto quasi da padre e un altro maestro che poteva essere tuo nonno. E ora avevi un’allieva meravigliosa che poteva essere tua figlia. La stessa che ti aveva regalato il fiocco con cui ti legavi i capelli ancora a distanza di anni. E che non avevi ancora riportato al Santuario per motivi che non sapevi neppure tu, ma che il Venerabile Shion stava allenando in vece tua. Al pensiero della tua negligenza ti venne voglia di sbattere la testa sul marmo.
Già, non aveva senso, di cosa ti preoccupavi? Tanto non avevi niente da nascondere e Raki non era davvero tua figlia. Allora perché esitavi? Aveva forse a che vedere con Astrid? Non mentire, Kiki. Non a me. Ehi, perché mi dici di tacere? Hai captato qualcosa?
«No». Dicesti soltanto fissando la Casa di Atena come se stesse succedendo qualcosa di terribile. Accelerasti il passo e facesti irruzione nella Sala del Trono per gridare: «No! Mi oppongo!» 
I due si volsero verso di te e il Patriarca ti salutò: «Tempismo perfetto, Aries, stavo mandando a chiamarvi». Ma tu fissavi Castalia inorridito. Si doveva essere bevuta il cervello per sottoporre una richiesta simile. Avevi pregato che questo momento non venisse mai, che ti fosse concesso più tempo per stare con lei e conoscerla. Invece no. Tuttavia eri un uomo ragionevole: lei non apparteneva al Santuario, era una civile ed era già rimasta troppo a lungo. Adesso stava bene, non aveva senso che restasse. Se ti avessero chiesto cosa avresti voluto per Astrid la tua risposta sarebbe stata sempre la stessa: l’avresti lasciata andare. Perché era la cosa più giusta da fare e sarebbe finita lì. Già da tempo volevi che Astrid tornasse alla sua vera vita. Solo che adesso che eri a un passo dal realizzare il suo desiderio, ti era presa paura. Certo, saresti potuto andare a trovarla, ma non sarebbe stata la stessa cosa che averla vicina.
Normalmente era il Patriarca da solo a concedere i permessi. Era ovvio che questo fosse una sorta di secondo processo ma segreto, in cui avreste emanato il vero verdetto.
E con quale entusiasmo i restanti Gold risposero alla chiamata.  
Votaste mentre tu cercavi di convincerti che non era l’ambiente più sicuro per una civile. Questo luogo era la tomba dei soldati che camminavano. Ecco cos’era. Ave, Atena morituri te salutant, però per amor tuo noi ti salutiamo. Pregando che il nostro non sia mai un addio.
Per voi il Santuario era un ambiente aspro e voi Gold, che eravate in cima alla gerarchia militare lo sapevate. Eravate l’èlite, anche se ultimamente Milo tendeva a scordarselo spesso. Addirittura coinvolgerti nei suoi piani per la sua guerriglia personale. L’espressione ti era venuta guardando la sua maglietta di Che Guevara, che indossava proprio quella sera che ti aveva invitato per un tè. Anche se Milo di Che Guevara non aveva neanche l’ombra. Nel frattempo si era reso conto della pericolosa caduta in basso che stava facendo, sia come persona, sia come Gold Saint stimato e rispettato. Indi per cui, dopo la vostra chiacchierata, non aveva fatto più niente e stava pazientemente attendendo che la “bambina” gli facesse il prossimo brutto tiro.
Dopo la tua bella figura (che diavolo ci aveva messo in quel tè?) all’Ottava Casa non aveva più tentato niente ma ogni volta che ti vedeva ti sorrideva divertito. Poi ti arrivava il pensiero “Allora gliel’hai detto?” Se c’era una cosa che a Milo piaceva, era tenersi informato sui gossip. Non come Aphrodite ma c’eravamo quasi. La differenza era che questo suo piccolo hobby lo sapeva nascondere bene. A vederlo nessuno avrebbe mai detto che fosse così curioso.
Per tutta risposta arrossivi come un fan di fronte al suo idolo. La differenza era che Milo non era una star, tu non avevi una cotta per Astrid, tantomeno per lui e che non ti saresti mai aspettato che fosse così pettegolo. Adesso che aveva scoperto che ti piaceva Astrid (così diceva lui, per te era solo un’amica) voleva tenersi aggiornato. Se non altro non ti pungolava, anzi, era piuttosto discreto e molto solidale.

A proposito di Scorpioni, ecco il tuo nuovo pettegolo conoscente con il sacchetto della spesa appeso al braccio. Ti sorrise come sempre mentre saliva le scale e tu le scendevi.
“No.” Il sorriso sulla sua faccia si afflosciò. “Perché no?” Ti domandò deluso, mentre tu oltrepassavi l’Ottava.
Era in momenti come questi che riuscivi a leggere le sue emozioni. In un certo senso ti aveva visto crescere, era morto che avevi undici anni ed era tornato che ne avevi già una trentina. Avevi scoperto che, in tutto questo lasso di tempo ti aveva invidiato, perché tu eri ancora vivo e lui, fino a quel momento, si era ritrovato tre metri sotto terra. E, con un tragico ricordo del suo ritorno alla vita. Ricordava infatti, troppo bene che cosa significasse resuscitare e il suono della resurrezione. Suono che francamente non augurava a nessuno.
Per questo si era fissato con te, sperava che almeno tu riuscissi a ritagliarti un po’ di felicità in più di quella che ricavavate dal servire la vostra amata Dea. E lui te lo ricordavi bene spesso a fianco di Lady Isabel durante la Guerra con Eris. In un certo senso era come se Milo si fosse preso la briga di sopperire alla mancanza di Shura (che sarebbe dovuto essere il Gold più fedele alla Dea se e qui i se si sprecavano), con una buona dose di sensi di colpa per non averla saputa riconoscere. E per non aver dato retta per tempo alle Saintia. Il massimo di storia che aveva avuto all’interno del Santuario era il suo rapporto di Saint di grado superiore e ispiratore con la Saintia del Cavallino. 
Non ti saresti mai aspettato che lo Scorpione celasse qualche bell’aforisma. Soprattutto quando ti aveva detto: «Ah, l’amore, un sentimento molto raro da trovare». Peccato che lui stesso non si fosse mai innamorato. Al di là della venerazione per la Somma Atena non c’era spazio per l’amore. Era la vostra vita a impedirvi ogni vero legame e allora l’amore lo dovevate trovare in ciò che vi circondava, nell’amicizia, nel Creato, nella Dea, nella patria. In parole povere, in qualcosa per cui combattere, come in una delle tante canzoni che ti aveva insegnato Astrid durante i vostri pomeriggi passati insieme nella sua stanza alla Sesta, prima del processo. Anche se, come diceva Death Mask era raro che voi Gold andaste d’accordo. 
Chiudesti il collegamento mentale prima che Milo potesse farti altre domande. Lui fece capolino da una porta laterale e ti guardò un po’ deluso prima di alzare una mano in cenno di saluto.
Uscisti da quella Casa cercando di pensare ad altro e ti venne di nuovo da pensare ad Astrid e a una delle tante canzoni che le avevi sentito cantare.
Com’era che faceva quella che le avevi sentito prima che venisse dimessa? Ah, chi se lo ricorda, c’erano un sacco di ventuno. Come le coniugazioni dell’amore. Eri rimasto sorpreso come un cantautore fosse riuscito a riassumere in poche righe tutto ciò che si fa per amore, tra cui andare in guerra. In un certo senso quella canzone vi rappresentava.
Quando le avevi chiesto di che parlasse, ti aveva raccontato che il ventuno era un numero magico che, se avesse avuto un colore, gli avrebbe dato il giallo. «Perché?» Le avevi chiesto una volta. Lei aveva alzato le spalle e aveva risposto: «Così; ho sempre attribuito un colore alle lettere e ai numeri, credo che fosse il mio modo di ricordarmeli meglio. Si chiama sinestesia, dicono che sia una cosa molto comune». Tu non potesti non pensare che avevi imparato sospinto dagli eventi, dalla severità del Grande Mur prima e del venerabile Shion dopo.
La cosa buffa era che in religione il ventuno era un numero magico. Durante la pratica induista dell’Aumkara è il numero di volte in cui viene intonato il mantra om. Il ventuno in quanto prodotto dei sacri numeri tre e sette, è considerato il numero della perfezione. Nel libro deuterocanonico della Sapienza vengono elencate le ventuno qualità di quest’ultima. In essa c’è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante, senza macchia, terso, inoffensivo, amante del bene, acuto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, senz’affanni, onnipotente, onniveggente e che pervade tutti gli spiriti intelligenti, puri e sottilissimi (Sapienza 7, 22-23). Ed era la somma delle lettere ebraiche che formano il nome di Dio, אהיה, tradotto Io sono.
Ventuno come gli anni di Astrid.
Ma ora, nel bel mezzo dell’ostrakon tutto era andato in fumo. E più scalini scendevi, più ti piangeva il cuore. La decisione era stata unanime. Ora restava solo di informare lei. E chi era stato scelto per sostituire la Saint che non riusciva a trovare il coraggio? Tu.
Perciò l’andasti a cercare e la trovasti che si stava avviando verso i campi.
I contadini che ti passavano accanto accennarono degli inchini e dei saluti rispettosi al tuo indirizzo che però tu non calcolasti. Se era raro vedere un Gold Saint aggirarsi per Rodorio, allora lo era ancor di più vederne uno in queste zone. Anche se quel Gold eri tu, che prima della dominazione di Mars ci scorrazzavi spesso, da quando Lady Isabel riprese il potere.
La giovane ti aveva visto e ti era venuta incontro sorridendo radiosa. Ma tu non avevi trovato la forza di ricambiare. «É successo qualcosa?» Ti chiese. Confermasti con un cenno d’assenso. Poi prendesti un bel respiro e le raccontasti tutto.
Ti era dispiaciuto moltissimo spegnere il suo sorriso così: era stato come se la giornata si fosse rannuvolata. Lei aveva reagito con stupore e poi dispiacere quando le avevi confermato che non si trattava di uno scherzo.
Il pensiero che fosse proprio quest’ultima ipotesi, cioè che la causa del suo malessere fosse che gliel’avevi annunciata tu, ti fece sgranare gli occhi per lo stupore e imporporare le guance. Non era mai successo che qualcuno provasse una reazione così alle tue parole, alla tua persona. E la cosa era talmente annichilente che non ti riuscì di pensare ad altro.
Avresti dovuto prevedere che non sarebbe stato così. O meglio, ricordare. Già una volta si era scontrata con questo aspetto del Santuario. Ricordi come era andata a finire? Poverino, eri stato proprio tu a scoprire le carte in tavola dei Saint, sia pure involontariamente. Ed era servita la battaglia finale nel Santuario di Artemide per farla riavvicinare a voi. E che riavvicinamento. Adesso non avresti permesso che si allontanasse di nuovo. “Eh, no”, ti dicesti, “Stavolta no”. Per questo la seguisti. Non volevi che gli ultimi tempi passassero così. Ma lei, anche se dette prova di aver registrato la tua presenza vicino a sé, non accennò a guardarti, come se la tua vista la mettesse a disagio. Forse perché anche lei si stava ricordando degli esiti del primo, disastroso colloquio. O forse perché non sopportava che potessi essere proprio tu il latore delle brutte notizie.
E adesso mancavano solo ventuno passi alle coltivazioni del Santuario, dove si era rifugiata con la scusa di lavorare. La sua fuga era stata molto discreta, sembrava una tranquilla passeggiata con le spalle rigide e i pugni contratti, chiusa in un silenzio teso. Così normale che per poco credesti persino che l’avesse presa bene. Dopotutto era quello che voleva, no?
«Perché Castalia mi ha fatto cacciare?» Domandò a un tratto, spezzando il silenzio, mentre passeggiavate tra i campi di pomodori purificati dalle radici delle rose demoniache di Aphrodite e di quelle dell’Albero del Conflitto. 
«Tu perché piuttosto vuoi restare?» Le domandasti con gentilezza raccogliendo sul pollice una lacrima che si era addensata all’angolo del suo occhio destro.
Lei sussultò e ti guardò con quegli occhi gialli spiazzata. Quasi che non lo sapesse più neppure lei perché dovesse restare. «Non te ne volevi andare anche tu? Questa è la tua occasione, no? Dopotutto hai soldi più che a sufficienza, documenti e…» Nel vederla così, la voce ti si spezzo da sola e restasti a guardarla in silenzio.
«Sì, è vero, ce li ho ma…» Ti guardò titubante e poi distolse lo sguardo, puntandolo su un filo d’erba ai suoi piedi: «Non capiresti».
«Allora fammi capire».
Ti guardò stupefatta: «Pensavo che a questo punto mi avresti già letto nella mente». Esclamò.   
Aggrottasti le sopracciglia: «No! Come ti viene in mente che io possa violare la tua privacy a questo modo?» Dichiarasti indignato. Sarebbe stato facilissimo ma la verità era che non t’interessava. Usavi la telepatia solo quando era necessario dal momento che la tua psiche, sotto questo aspetto, funzionava meglio del satellitare. Era molto fastidioso non riuscire a controllare le voci e non tutti i lemuriani erano capaci di sopportarne il peso. La tua interlocutrice s’impappinò: «Ah, scusa, pensavo che…»
«Pensavi che?» La imboccasti offeso incrociando le braccia.
La ragazza distolse un’altra volta lo sguardo. «Niente, lascia stare, ho frainteso tutto». Tagliò corto, evitando il tuo sguardo per la vergogna. Ti sentisti offeso da questo suo pregiudizio. Non eri un tipo irascibile, ma pensavi che avesse superato da un pezzo questo incidente dal momento che non ti eri più azzardato neanche per scherzo a spiarle nella mente. Non sapevi se essere più deluso o arrabbiato mentre la guardavi arrossire sotto ai tuoi occhi inquisitori. Da che avevi memoria non avevi mai fulminato con lo sguardo nessuno. Eppure era proprio questo che stavi facendo.  
«Bè, devo andare, sto sono in ritardo sì, devo preparare le valigie e, sarà meglio che vada, domani mi aspetta una lunga giornata». Cincischiò guardandoti almeno un paio di volte, ma senza riuscire a incrociare davvero il tuo sguardo per l’imbarazzo.
Per questo non l’accompagnasti.  

La sera stessa, dopo aver lavorato quasi ininterrottamente tutto il giorno, ti fermasti. Raki era andata a cena da Yoshino e Natasha alla Seconda e tu eri solo.
Andasti a lavarti le mani e ti preparasti un panino. In teoria avresti potuto cucinarti qualcosa anche da solo, ma quella sera non avevi molta voglia. Inoltre l’aria era abbastanza calda perché potessi cominciare a mangiare fuori della Prima, intanto che il tuo maestro era tornato nell’altra dimensione per fare rapporto a Miss Tomoe. Alla fine avevate trovato un modo per far sì che le vostre Armature riuscissero a coesistere e, di conseguenza, anche i vostri Cosmi e le vostre persone. L’aveste scoperto un po’ prima anche Camus, Shaka, Doko e tutti i Saint della vecchia generazione, avrebbero potuto essere ancora tra voi. Tra cui lo stesso Aiolos. Se Tomoe non fosse arrivata prima di voi e lo avesse corrotto.
Addentasti il panino e masticasti guardando il cielo tempestoso pensieroso.
Non avevi più pensato ad Astrid, anche se la cosa ti bruciava ancora. Come una scheggia infilata nel polpastrello che non riuscivi a estrarre. Avevi cercato di impiegare il tuo tempo organizzando i tornei per gli allievi della Palaestra per riassegnare le Armature. Avevi parlato con gli insegnanti stessi per questo. E loro si erano detti d’accordo con ciò che volevi fare. Bastava solo che il Gran Sacerdote assistesse ai tornei ed eravate a posto.
C’erano un mucchio di Armature che non vedevano un nuovo successore da decenni interi e che bramavano dalla voglia di tornare a cingere e rivestire le membra di qualcuno. Altre che attendevano speranzose di scendere in campo, di conoscere i loro nuovi portatori.
Eri un po’ emozionato, era la prima volta che organizzavi un torneo. Eri sicurissimo però, che con la scomparsa dei Cosmi di luce e oscurità e dei poteri Elementali, il torneo sarebbe stato assai più equilibrato e alla vecchia maniera. Anche se tu non avevi mai assistito a niente di tutto ciò. L’addestramento di un Gold Saint era parecchio diverso da quello di un Bronze o di un Silver o di una Saintia. Altre persone che avrebbero risvegliato il Settimo Senso? Nessuna. Non c’erano potenziali candidati atti a questo.     
Eri così intento a organizzare il tutto nella tua mente che non sentisti i passi raggiungerti. Ma la voce femminile che ti fece sobbalzare la sentisti benissimo. «Kiki, ho bisogno di te».
Sgranasti gli occhi e per poco non ti andò di traverso il panino che stavi consumando per cena. Inghiottisti battendoti il pugno sul petto nel tentativo di evitare di soffocarti da solo e la guardasti.   «Di me? Perché? Che succede?» Solo adesso ti accorgesti che indossava una giacca di pelle nera, una maglietta verde mare e jeans azzurri accompagnati alle ballerine nere. Una grossa borsa a tracolla (quasi un borsone d’allenamento) faceva bella mostra di sé appesa alla sua spalla.
«Io, da sola, non ci riesco.» spiegò lei imbarazzata e preoccupata. Preoccupazione che si mutò subito in sollievo quando vide che riuscisti a inghiottire.
«Scusa, adesso?» Domandasti, quasi non riconoscendola. Avesti persino dei dubbi che fosse in sé.
«Sì».
«Non partivi domani?»
«No». Rispose contrita abbassando il capo. La frangetta le coprì gli occhi.
Questa notizia ti fece sgranare gli occhi un’altra volta e qualcosa dentro di te ti fece esclamare: “No!”  «Perché no?» Domandasti, cercando di frenare più che potesti il dispiacere e anche l’urgenza e di simulare una calma che non avevi affatto. Non credevi di avere così poco tempo a disposizione per salutarla.
Ti scoccò uno sguardo impietosito: «A cosa serve? Lo sanno tutti che non ci volevo stare qui».
«Ma… e Yoshino? Death Mask? Lancelot? Aphrodite? Juan di Scutum e Georg di Southern Cross? Castalia?» “Io?” Domandasti, ma questo pronome lo esternasti indicandoti il costato con una mano.  
«A che serve?» Ribatté delusa.
«Sarebbe una questione di correttezza, ecco a che serve». Spiegasti inarcando un sopracciglio in un tono di quasi ovvietà.
Lei ti guardò come se le avessi indicato un dettaglio di una non poco trascurabile importanza.
Si aggiustò la tracolla sulla spalla e se ne uscì con un «Oh, bè» e la vedesti lottare per tirare fuori ciò che lottava sulle sue labbra. La osservasti incuriosito spostarsi una ciocca dietro l’orecchio, mentre arrossiva. «É che non sono abituata… a questo». Spiegò in tono incerto.
«Come no? Non ce li avevi degli amici in Italia?» Chiedesti confuso. Ormai girato quasi completamente verso di lei.
«Ehm, no. Per questo per me è così facile comportarmi così, come sono, adesso. Io… sono abituata a essere sola». Ammise. Da come lo disse capisti di aver toccato un tasto dolente e, comprendesti anche il perché della sua presenza sulle scale della Prima Casa. Poi prese un respiro profondo e tentò di spiegarti: «Tutti i rapporti che ho al di fuori della mia famiglia, non sono che niente. Ecco cosa sono. É già tanto se mi ricordo come ci si comporta a cose normali con altre persone, quando si parla di amicizia e simili».
Mettesti da parte il piatto con il sandwich e ti alzasti in piedi. Adesso non ti sentivi più tanto in collera con lei. Alzò il viso per guardarti e vedesti i suoi occhi. Ti guardava come se fosse su una lastra di ghiaccio alla deriva. Come se una potente raffica di vento la stesse spingendo sempre più lontano anche se era distante soltanto una cinquantina di centimetri. L’abbracciasti, cercando di comunicarle coi gesti ciò che non riuscivi a dire. Lei ricambiò e per un momento ti cullasti nell’illusione che quell’istante non finisse mai.      
«Uh, uh, cosa vedo! Dove ve la svignate piccioncini?» Domandò una voce maliziosa alle vostre spalle. Vi separaste di scatto sussultando e, se lei esclamò, «Death Mask!» Tu ripetesti disgustato «Piccioncini?» Grato che la semioscurità celasse il colore della tua faccia improvvisamente arroventata, nonostante il sopracciglio inclinato verso il basso. 
Il custode della Quarta, appoggiato a una colonna, vi osservò con una faccia scocciata. «Sì so anch’io come mi chiamo». Scherzò accendendosi una sigaretta, «quello che non so è che cosa facciate a quest’ora».
«Noi…» Tentennò Astrid mentre l’altro fumava.
«Noi stavamo scendendo ad Atene». Inventasti.
«Davvero? Alle otto e mezzo di sera con un borsone che ha tanto l’aria di essere un bagaglio? Dopo il tuo ostrakon? Mi prendete per i fondelli? Da te Kiki non me lo sarei mai aspettato, da te, Astrid, un po’di più». Ribatté tranquillamente.
«Scusami, Death». Ribatté la ragazza, dispiaciuta, ma all’altro non importò granché.
«Sì, lo so che non ti piacciono gli addii e che sei abituata a fare così per via della chiromanzia». Tagliò corto colmando la distanza tra voi con poche falcate e cacciandosi le mani in tasca.
«Sapevi che sarei andata via stanotte?» Chiosò lei, sorpresa.
«Diciamo che me l’ha detto un uccellino. Allora, dov’è che devi andare?» Chiese poi dopo aver buttato fuori il fumo.
«All’aeroporto, ho tutto il necessario per prendere il primo volo per Roma». Spiegò lei mettendo una mano sul borsone. Dovevano averla aiutata perché non ricordavi che te ne avesse mai messo a parte. Ti sentisti dispiaciuto di non averne mai parlato. Avevi sempre evitato l’argomento per non farla soffrire. Eppure tutto ciò non fece altro che rafforzare la consapevolezza di aver preso la decisione giusta.
«Bene, non vi dispiace se mi unisco a voi, vero?»
Vi scambiaste un’occhiata prima che la bionda lo guardasse di nuovo e decretasse. «No, no, certo che no». Ma in realtà ti rodeva eccome; avresti voluto spedirlo in Tibet piuttosto che lasciare che rovinasse questo momento. Ma non lo facesti dopotutto Death Mask era uno dei suoi amici.  Accompagnarla non fu difficile. La distanza dal Santuario all’aeroporto non era così esagerata da far scattare l’allarme. Infatti, la pena per i Cavalieri che si allontanano per troppo tempo era la morte. Tuttavia voi sareste rimasti via soltanto lo stretto indispensabile. Nessuno si sarebbe accorto della vostra temporanea scomparsa.
Una volta in aeroporto Astrid vi salutò imbarazzata stringendo a Death Mask la mano: «É stato un piacere». Salutò in uno strano balletto tra la simpatia e la formalità. Anche se la sua era una frase fatta, ci mise tutti i non detti, donando a quelle quattro parole un significato tutto nuovo e una pienezza che le rinnovò alle vostre orecchie.
Si vedeva che non sapeva davvero come salutarvi. Eri pronto a scommettere che il massimo che le sarebbe riuscito fosse stato un sorriso e un cenno del capo in perfetto stile Ikki di Phoenix. Perché in fondo addio ve lo aveva già detto mesi prima ai tempi della battaglia con Artemide. Adesso lo avevi capito. Aveva provato a restare soltanto perché le mancavano i soldi per un biglietto aereo e per i documenti. “No, non solo per questo”. Ti correggesti. Perché si era affezionata a voi.    
«Anche per me». Ribatté Death Mask insolitamente educato ma dietro la scocciatura leggevi il dispiacere. Era evidente, mentre cercava di mantenersi altero e distaccato.
«Ci sentiremo qualche volta?» Domandò la bionda.
«Sarebbe meglio di no». La ghiacciò, «Saluto io tutti gli altri per te». Promise sbilanciandosi un po’, in tono leggermente esitante.
«Sarebbe meraviglioso». Sorrise Astrid commossa.
L’altro, con un ultimo saluto se ne tornò al Santuario. Per un attimo ti parve che la sua espressione si fosse ammorbidita. Ma solo per un istante.  
Lei annuì e lo accompagnò con lo sguardo per un momento.
Le persone che vi passavano accanto, mentre si avviavano alla sala d’aspetto, alla libreria o più semplicemente alla sezione ristorazione, non prestavano attenzione a voi. Ma tu stavi cercando il coraggio per ricambiare quello sguardo che sentivi insistente sulla tua pelle.
Proprio in quel momento l’altoparlante chiamò il volo di Astrid e solo allora la guardasti.
L’imbarazzo tra voi era palpabile. Alla fine fu lei a spostarsi una ciocca dietro l’orecchio e a dire, dopo essersi schiarita la voce: «Allora, grazie di tutto».
«Figurati, è stato bello». Poi non sapesti neanche tu cosa fare. Sembrò saperlo lei. Ti si avvicinò e ti dette un bacio su una guancia, indugiando un po’prima di staccarsi. Gesto che ti lasciò piacevolmente basito. La guardasti addolcendo lo sguardo, ma non riusciti a imporre alle tue braccia di stringerla a te come avresti voluto a causa di un moto di timidezza. E quando ti muovesti fu quasi troppo tardi perché lei arretrò di un passo. «Allora addio». Sorrise tristemente poi si avviò alla sala d’aspetto, salutandoti con una mano.
L’altoparlante chiamò per la seconda volta i passeggeri del suo volo. 
Tu riuscisti soltanto a ricambiare il cenno e a seguirla con lo sguardo. «Addio». Mormorasti. Poi uscisti dall’aeroporto e, tornasti al Santuario a piedi, cercando di reprimere la voglia di tornare sui tuoi passi e stringerla a te un’ultima volta. Magari anche di baciarla. Avresti voluto chiederle se avresti potuto andare a trovarla, un giorno, di tenervi in contatto. Ma ti imponesti di non farlo. Il tuo dovere di Saint era più importante.
Tornasti a passo d’uomo alla Prima Casa con la ferma decisione che avresti continuato a lottare anche per lei.
Avresti voluto vegliare su di lei, aiutarla in caso di necessità, ma la verità era che il solo pensiero ti causava una dolorosa fitta alle viscere. Lei aveva tutta una vita davanti da vivere. Lei sarebbe riuscita a combinare qualcosa nella vita. Avrebbe realizzato tutti i suoi sogni, avrebbe trovato qualcuno, avrebbe messo su casa e allora sì che per te sarebbe stato impossibile continuare a nutrire questa cosa da lontano. Sarebbe stata troppo dolorosa persino per te. Che pure eri forte ma non a tal punto da poter sopportare questa realtà. Anche se era stato bello questo assaggio di normalità, di vita. Di questo le saresti stato sempre grato.  
“Grazie, per aver portato una luce in questa tomba di morti che camminano”. Pensasti mentre le prime lacrime cominciavano a rigare le tue guance. “Farò in modo che la tua vita possa scorrere normalmente, proteggerò la pace anche per te”. Promettesti, anche se lei non poteva sentirti.  

Aphrodite
Uscisti dalla vasca da bagno e avvolgesti il tuo bellissimo corpo perfetto, dai muscoli scolpiti, nell’accappatoio candido. Di solito per te questi momenti erano un rituale di bellezza che compivi con la dovuta cura e lentezza mentre i tuoi servi attendevano fuori della porta.
La Dodicesima era stata una delle prime a essere completamente ricostruita nonostante le varie difficoltà.
Uscisti dal bagno e ti si assieparono attorno, riempiendoti di tutte le lodi e le coccole di cui abbisognavi. Fortunatamente per te la tua pelle non era velenosa quanto quella di Albafica di Pisces, se no tutto questo te lo saresti sognato.
Le chiacchiere di quella mattina erano tutte sull’Ostrakon. La voce si era sparsa in fretta e tutti ne parlavano. In effetti aveva fatto scalpore rivedere Death Mask e Kiki tornare da soli e senza Astrid. «Mi dispiace, nobile Aphrodite, ma vedrete che troverete di meglio». Ti consolò una dei suoi ex colleghi.
«Ne sono certo».
«Sì», si aggiunse un ragazzo, «quella ragazza non meritava le vostre attenzione e i vostri doni».
Gli desti ragione mentre ti asciugavano i capelli e ti acconciavano la chioma. Eppure non ti sentisti affatto rincuorato.
Non solo avevi perso definitivamente la possibilità di farti lodare da Astrid, ma non ti era affatto piaciuto il suo comportamento. Non la capivi. Che cos’era questo cambiamento? Neanche più voleva vedervi in faccia? E dire che tu avevi fatto tanto per lei! Pensavi che fosse un suo desiderio tornare a casa e neanche un grazie? “Si può essere più ingrati di così?” Pensasti irritato mentre ti spazzolavi i bei capelli mossi profumati di shampoo davanti allo specchio del bagno.
D’accordo l’Ostrakon però che modi! Ripensasti a tutto quello che era successo e ti venne da darti dell’idiota da solo. In fondo non aveva tutti i torti, e avevi pure il coraggio di pensare che fosse un’ingrata. Non era che per caso anche peccavate di ipocrisia, Aphrodite?
Mettesti giù la spazzola pensieroso: “Già, in fondo, neanch’io avrei salutato le persone che mi hanno scacciato. Non si sarebbero meritati neanche un saluto dalla mia persona”. Pensasti. Meno male che, dall’alto del tuo orgoglio e del tuo narcisismo smisurato, lo ammettevi. Un gran bel passo avanti. Se poi avessi trovato una cura sarebbe anche stato meglio.
«Signor Aphrodite, cosa indosserete oggi?» Ti chiese una serva e tu le dicesti di tirare fuori la camicia bianca e i pantaloni, che al resto avresti pensato tu. Quando i tuoi capelli furono pronti e asciutti battesti le mani e loro sciamarono via. Solo allora ti accomodasti sul letto, la gamba accavallata. 
Ti godesti questi ultimi istanti di relax prima di partire per la missione che ti era stata affidata.
Avevi ereditato tu il compito dei Saint dell’Ophiuchus e dell’Aquila. Eri rimasto abbastanza sorpreso, visto che di solito i Silver erano piuttosto efficienti e poi neanche sapevi che esistessero. Se te ne avevano parlato avevi rimosso, tendevi a non considerare le persone insignificanti.
Avevi ascoltato le istruzioni del Patriarca con molta attenzione ed eri rimasto abbastanza interessato da questa misteriosa Dama degli Smeraldi. E sì che i Silver Saint non erano degli incapaci. «E sia, prenderò volentieri questo compito». Avevi detto infine, quando il Patriarca aveva trattenuto te e la Silver Saint dell’Aquila.
«State molto attento, Gold Saint di Pisces». Si era raccomandata la Sacerdotessa-Guerriero e tu avevi sorriso intenerito dalla sua premura. «Vi ringrazio ma vedrete che riuscirò nell’impresa senza neanche spendere una minima parte del mio Cosmo». Avevi garantito forte delle tue possibilità e della tua Cloth. Deciso come non mai a cancellare l’onta subita dall’imboscata di Eris e dalla distruzione della tua barriera di rose.  
Avevi cominciato a lavorare quasi subito a questo caso. Da bravo stratega qual eri e proprio quella sera stessa, era arrivata la richiesta di aiuto. Eri stato mandato a chiamare e il Patriarca ti aveva annunciato che «La Dama degli Smeraldi è in Indonesia. Voglio che tu la catturi e debelli la minaccia». Aveva ordinato e tu avevi sorriso, ti eri rialzato sorridendo e sentendo di aver già la vittoria in tasca. Con le tue capacità saresti riuscito dove tutti stavano fallendo miseramente. Nessuno ti avrebbe negato la vittoria che ti meritavi.  
Pensasti alle facce sbigottite che avrebbero fatto i poliziotti, vedendoti e ti scappò un sorriso.          
Come se non fossi abituato alle occhiate che le persone ti lanciavano e le numerose foto che ti scattavano. Avevi persino un account social, almeno su quel sito dove tutti postavano fotografie che non ti ricordavi mai il nome. Anche se spesso ti limitavi a scattare foto dei tuoi viaggi e della tua serra e dei tuoi outfit come una persona qualsiasi. Comunque lungi da te a fotografare o fare video nel Grande Tempio. Ovvio che poi non eri segnato con il tuo nome di Cavaliere ma con uno falso che ti eri inventato sul momento. La tua identità di Cavaliere d’Atena doveva restare segreta.
Eri rimasto scornato nello scoprire che c’erano persone con più seguito di te, che pure eri bellissimo. Poi avevi scoperto il discorso dei finti fan.
Il tuo guilty pleasure? La foto salvata di Astrid in compagnia di Juan di Scutum e di Georg, sorridenti e sicuri di sè con i calici alzati in un brindisi allo spettatore. Da quando l’avevi trovata vi seguivate a vicenda.
Quella foto ti faceva sempre scoppiare in una risata sguaiata per la trovata della ragazza. Ossia gli hastag “rievocazione storica”, “ricostruzione vita nell’Antica Grecia”, Atene, “fiera”, “festa”, Iliade e Odissea, cosplay Sing Erinna!,  Amantes amentes, “Carnevale”, “In attesa del Lucca Comics”. Dovevi ancora capire cosa fosse il Lucca Comics, ti seccava cercarlo.
In ogni caso, era stata astuta a spacciare il tutto per una mascherata. Compreso il commento di un suo follower che le diceva che il periodo del carnevale era finito e lei che si giustificava con un: “Non sapevo che altro scriverci al posto di pazzi-scappati-dal-manicomio”. Correlato con una faccina che piangeva dalle risate.
Il follower aveva commentato con una risata e la stessa emoticon.
Grazie alla Dea Kanon non conosceva l’esistenza dei social.
Ti vestisti e poi esaminasti il tuo portagioie e scegliesti qualche gioiello . Già, chissà perché compiva assalti a musei e luoghi pregni d’importanza storica. Dal momento che ti era stato anche detto che in precedenza la missione era di Apus, capisti tutto e ti ricordasti anche di aver origliato quando gliel’affidò.
Già in passato era successo qualcosa di analogo e già una volta facesti lo sbaglio di sottovalutarli. Stavolta, benché dalla parte di Atena, non l’avresti commesso una seconda. 
Era una spiacevole coincidenza, oie., però ti seccava cercarlo.to dalla sua premura. essato da questa miseriosa o. ddcosì a ridosso dell’arrivo degli Ambasciatori di Poseidone. 
Secondo i piani, tu avresti dovuto catturare la Dama degli Smeraldi mentre Lancelot (con il permesso di Miss Tomoe e di Yoshino) si era assunto il compito di dare la caccia ai rivoltosi. Il Gold Saint di Cancer era partito subito e si era portato dietro anche l’allieva. Sinceramente non pensavi che potesse giovare tanto a Neera, visto che era una... com’era che l’aveva chiamata Death Mask una volta? Nullafacente? Scansafatiche? No, era qualcosa di un po’ più scurrile ma il succo era quello. Non avresti mai permesso che la tua favella e il tuo linguaggio scadessero così in basso;  sarebbe stato come rovinarti l’immagine.
Spegnesti lo schermo e cacciasti il telefono in tasca. Ti caricasti sulla schiena il Pandora-Box camuffato e afferrasti il manico del trolley con la roba che ti eri fatto preparare per il viaggio. Controllasti di avere tutti i soldi, i documenti e il passaporto.
Affidasti la tua Casa alle cure degli attendenti raccomandandoti di azionare l’impianto di irrigazione all’alba e al tramonto. Poi li salutasti. Questi ricambiarono con dei «Buona fortuna, nobile Aphrodite», «A presto, Cavaliere». Che, in un certo senso, ti parevo più sinceri adesso che in passato a causa del ricordo del tuo salvataggio durante il primo attacco delle schiere Lunari. Che ancora ricordavi con un misto di vergogna e stupore. Quasi esitasti ascoltando per la prima volta il tono con cui quelle frasi furono proferite e una sensazione di calore si espanse dentro di te. Molto diversa e molto più concreta di quella cui eri abituato.  Tuttavia la scacciasti e scendesti le rampe.
Oltrepassasti l’Undicesima e la Decima deserte (Shura era in arena ad allenarsi). La Nona oramai era deserta per definizione. All’Ottava incontrasti Milo con un cesto di bucato tra le braccia. Dopo di Astrid si fidava poco a lasciare che qualcun altro maneggiasse il suo ferro da stiro.
Lo salutasti e lui ricambiò: «Parti per una missione?» Chiese poi.
«Già, ho il volo tra un’ora», dicesti controllando il bellissimo orologio da polso mostrandolo in un modo che lui potesse complimentarsi, ma i complimenti non ti arrivarono.
Pazienza, da certi bifolchi non ne valeva neanche la pena. L’altro posò il cesto in salotto e tornò sulla porta, mentre tu ti eri fermato in corridoio. «Bè, dovresti riuscire a prenderlo».  
«Tu invece andrai in missione da qualche parte?» Gli domandasti, desideroso di vedere se le voci di qualche giorno prima erano vere.
«Sì, in Italia con la Dea, farò parte della sua scorta personale. Hai saputo di quell’ex aspirante Saint che quindici anni fa fu bandito, no?»
«Sì ho saputo». Ammettesti. A volte se ne parlava ancora in arena. Persino le piante ne parlavano. Erano state loro a raccontarti quella triste vicenda.
Milo riemerse dal soggiorno e si appoggiò allo stipite della porta, incrociando le braccia e le caviglie: «Bè sembra che voglia conferire con la Dea in persona e lei, oh, lo sai com’è fatta.» concluse con un’alzata di spalle. L’idea non gli piaceva e si vedeva. Sospirasti, solidale: «Purtroppo sì, quanto ha insistito?»
«Abbastanza».
«Dove vi incontrerete?»
«A Roma, per la precisione nella Città del Vaticano».
Roma, molto vicino a... Cancellasti la sua immagine. Quell’ingrata non aveva più niente a che vedere con te.   
«Sai, è bello sapere che la Dea possa contare su di te. Io non riuscirei mai a esserle così vicino, contando i miei trascorsi. Sì, lo so la redenzione e tutto il resto, ma per quanto io la veneri non mi ci vedo». Gli confidasti in un moto di debolezza. Anche se ti odiasti subito dopo. 
«Capisco, ma forse dovrebbe essere solo questione di abitudine, considerando tutto, non credi?»
«Forse, ma ci saranno sicuramente altre occasioni».
«Perché?»
«Devo catturare la Dama degli Smeraldi». Spiegasti e questo bastò per cambiare discorso. Il giovane sgranò gli occhi per l’ammirazione: «Uh, bella roba, ho sentito dire che sia molto forte e inafferrabile». Era evidente che gli sarebbe anche piaciuto sapere quanto fosse stata forte e inafferrabile. Ma era palese che non ci fosse gioco con un Gold Saint. 
«Non potrà mai competere con un Gold Saint». Dichiarasti convinto e un silenzio teso e carico di pensieri cadde su di voi. «Secondo te si prepara una Guerra?»  Chiese dopo qualche istante.
«Nah, ordinaria amministrazione. Che sarà mai sgominarla quando abbiamo affrontato esseri ancora più pericolosi? Dèi? Mi sembra quasi un insulto alla mia persona ma non ci posso fare niente, gli ordini sono ordini». Non era nella tua indole protestare, anche se una parte di te ti ricordò tantissimo Aiolia quando accettava gli incarichi più miserevoli perché voi li rifiutavate. 
«Eh, già».
«Buona fortuna con la Dea». Augurasti al tuo compagno, riprendendo a camminare.
«Anche a te con la Dama degli Smeraldi».

Se tu fossi stato uno steward avresti potuto dire di aver cominciato ad accumulare dei punti volo. Non sapevi cosa fossero, li avevi sentiti nominare una volta in un film, ma non ricordavi se fosse Fight Club o The terminal. E poi non era nemmeno questo.
Atterrasti in Thailandia che stava calando il Sole.
Considerando che in passato Saga poteva spedirvi ovunque con l’Another Dimension e, che ti muovevi alla velocità della luce, ti sembrò di averci messo un’eternità. Ti eri dovuto sorbire un viaggio con l’aereo privato della fondazione gestita dalla Somma Athena (fin qui niente in contrario) con il bel ricordo del tuo ultimo viaggio dal momento che era lo stesso aereo privato.
Ecco, questa era l’unica pecca del tuo viaggio. C’era da dire che voi Santi d’Oro vi trattavate assai meglio di quelli di Bronzo o Argento. Anche se ritenevi più utile mandare altri Silver, ti stuzzicava l’idea di misurarti con la famigerata Dama degli Smeraldi. Ma prima dovevi studiare il campo di battaglia.
Per l’ennesima volta ripercorresti su Wikipedia la storia del Paese in cui ti saresti trattenuto per un po’. Di solito non t’importava granché del posto, ma visto che la Dama era un’affiliata di questi criminali fantasma, forse era il caso. Chissà se anche questi avevano a che fare con la crisi politica del Duemilaotto o con la cerchia di militari ribelli alle politiche di re Rama X. Non ti saresti sorpreso se fosse stato così.
Stando al programma, ti saresti recato in una delle città storiche della Thailandia, la città di Sukhothai. Saresti atterrato all’aeroporto e saresti stato portato a Nuova Sukhothai, dove avevi prenotato.
La tua guida sarebbe stato il sergente Quan Tu che ti avrebbe atteso all’aeroporto. Lo individuasti subito grazie al cartello con su scritto il tuo nome. Ti guardò con un misto di stupore e curiosità quando ti vide raggiungerlo. Ancor di più quando, presentandoti in perfetto vietnamita, ti scusasti dicendo che non eri molto bravo con il thailandese. Lui ti rispose che in realtà non l’avrebbe mai detto, fissandoti ammaliato. Forse stava cercando di capire se tu fossi un uomo o una donna. Tutt’al più ti avrebbe scambiato per un trans, ma neanche questo ti scandalizzava più. Quando si trattava di etichettamento ti piaceva pensare di sfuggirgli grazie al tuo aspetto androgino e delicato che ti valeva la nomea di “più bello dei Cavalieri d’Oro”. Nonché quella di fotomodello abusivo in vacanza, a giudicare dagli sguardi che ti accompagnavano neanche tu fossi un attore sul red carpet. Ah, no, quello era Shura.
Ormai avevi smesso di scandalizzarti, sapevi chi eri, com’eri e questo ti bastava. Anche se non ti dispiacque essere rimirato così. Quello che ti scandalizzava era che pensasse che tu non sapessi svolgere il tuo lavoro. E non ti ci volle molto per capire che si era fatto mentalmente il segno della croce da come ti guardò prima di accompagnarti alla macchina e cominciare a parlarti del caso. Tu facesti finta di niente anche se dentro ti rodeva.
«Scusi se glielo chiedo, signor Aphrodite», disse a un certo punto mentre eravate in coda, «Ma lei è anche un musicista?»
«No, perché?» Domandasti incuriosito e con voce flautata.
«Pensavo che in quella cassa ci fosse uno strumento musicale». Si giustificò indicando il Pandora Box camuffato da custodia per strumenti musicali, un’idea che avevate copiato più o meno tutti da Juan di Scutum e Georg di Southern Cross. Anche se la Saintia della Corona Boreale era stata più furba: aveva mascherato la sua in un trolley.
Normalmente avresti cominciato subito ma era tardi, avevi fame e volevi riposare un po’ per smaltire gli effetti del jet lag. Effetti che di solito non sentivi, in quanto capace di muoverti alla velocità della luce e, perché, di solito la tua permanenza era brevissima. 
Questo lavoro non te lo pagava la Dea, avresti dovuto arrangiarti da solo per le prossime ventiquattro, forse quarantotto ore, calcolasti rapidamente dando una rapida scorsa al tuo orologio da polso. Fortuna che le guardie avevano lasciato passare il sonnifero per far passare gli effetti del jet lag.
Si vedeva che il mondo era precipitato in uno stato di tensione se tutte le stazioni, gli aeroporti erano sorvegliati dai militari e le forze armate. “Che tristezza vedere il mondo che si prepara al più orribile dei massacri”. Per non parlare degli esiti se tale conflitto fosse scoppiato veramente. C’era solo da sperare che la guerra restasse a livello di mercato e non sfociasse in un vero conflitto armato. Perché in quel caso anche voi Saint sareste stati in vera, viva difficoltà.  
La prima cosa che facesti fu recarti nell’albergo che avevi prenotato via e-mail e scoprire con piacere che non era una truffa online.
Il sergente Quan Tu approvò la tua scelta di riposarti anche grazie a una sapiente opera d’ipnosi. Non amavi servirtene se non in casi particolari, ma eri talmente stanco… «Mi verrai a prendere domani mattina entro le nove, dopodiché l’ipnosi terminerà e tu non ricorderai che sia passato un giorno dal mio arrivo. D’accordo?»
«D’accordo». 
Poi appoggiasti la testa contro il poggiatesta del sedile. Guardasti fuori del finestrino con aria stanca gli edifici moderni che svettavano verso il cielo e i risciò fermi accanto a voi. Perfetto, già da adesso ti sentisti fuori posto. Questo finché non sentisti le voci delle piante. Non ne avevi mai sentite così tante e così forti. Non immaginavi che in questi posti la natura fosse tanto rigogliosa e dirompente in tutti i sensi.

Nuova Sukhothai, distante solo dodici chilometri dal parco, non aveva quasi niente a che vedere con l’originale. Non che tu ti fossi aspettato chissà che, non avevi mai visitato questi posti, prima.
Una volta nella tua stanza d’albergo, chiudesti a chiave la porta, posasti i bagagli da una parte, ti sedesti sul letto, ingeristi i sonniferi e ti addormentasti sprofondando in un sonno profondo senza sogni.
La mattina dopo ci mettesti un po’per capire dove ti trovasti. Una volta fatta mente locale, ti desti una ripulita, ti cambiasti e scendesti a fare colazione. Mentre scendevi le scale desti un’occhiata anche all’orologio che portavi al polso e lo regolasti sul fuso orario locale.
Trovasti il sergente nella hall puntuale come un orologio. Dopo la colazione thailandese, cominciò il lavoro vero e proprio che decidesti di svolgere per la maggior parte nella città antica di Sukhothai, ormai riconvertita ad attrazione turistica e patrimonio dell’UNESCO. E non a torto. La visita bastò anche a farti dimenticare quei bath spesi per l’ingresso. Era la moneta corrente della Thailandia.
Era il luogo più suggestivo che avesti mai visto. Completamente punteggiata da antiche rovine, ruderi e templi dai quali traspariva e respiravi il fascino della storia. La parte più significativa per la visita, anche in funzione del tempo a disposizione, era il cuore racchiuso tra le antiche mura.
Per non parlare degli stagni adorni di ninfee rigogliose. Potevano fare concorrenza alle tue rose. Eri abituato a girare tra le rovine, ma queste erano comunque molto diverse da quelle di Atene. Queste erano più spirituali nel senso umano del termine. Coglievi in loro la sensibilità artistica del posto e ti sentisti libero, in un senso tutto nuovo. Questa natura, la lontananza dal Santuario, erano una cosa che non avevi mai provato prima così, neanche in Giappone.
Avevi fatto bene a non noleggiare neanche una bicicletta. Al contrario del sergente che ti aveva accompagnato. Nessuno di voi due volle assoldare una guida. La tua sarebbero state le piante che ti accolsero e con cui comunicasti tramite il Cosmo. Furono loro a narrarti tutto quanto. Anche se molte di loro erano relativamente giovani rispetto alle rovine.
Non eri mai stato un amante dell’architettura orientale, eppure il sito non ti deluse per niente. Anzi, ti riempì di meraviglia e, per una volta, ti sentisti come a casa. Soprattutto quando visitasti il Wat Mahathat, cioè il più grande di questi templi. Era circondato da mura di mattoni e venne ultimato nel XIII secolo ed era considerato il cuore della città antica. con i suoi centonovantotto chedi e, sparpagliate qua e là, imponenti statue del Buddha svettavano verso l’alto simboleggiando l’illuminazione spirituale. Più di una volta restasti senza fiato per la meraviglia e gli scorci.
Proseguisti la visita con le architetture del Wat Trapang Ngoeng e le tre torri khmer del Wat Si Sawai. Ma ciò che ti colpì di più fu il Wat Sa Si o Monastero dello Stagno Sacro. Sorgeva su una piccola isola a poca distanza dal monumento dedicato a Re Ramkhamhaeng. Ti sorprese come una cosa tanto semplice rispetto a molto altro, fosse tanto affascinante e suggestiva. Era anche più piccolo di quanto ti aspettassi, data la grandezza del sito.
Ma il dovere ti chiamava e, a malincuore dovesti dare corda anche al tuo accompagnatore, che era sorpreso dalla tua resistenza. Avresti voluto cullarti un po’di più nella fantasia di essere un turista ma dovesti finirla. Andarsene a giro con il sergente era come avere un’insegna al neon sulla testa.
Perciò, mentre scattavi delle foto al Wat Saphan Hin, un tempio in rovina su una piccola collina, gli dicesti:  «Mi parli un po’degli attentati». Che il giorno prima ti aveva raccontato, più che della Dama, dei luoghi colpiti e del modus operandi adottato. L’uomo, che aveva lasciato la bicicletta alla base della collina, ti scoccò un’occhiata come a dire: “Finalmente”. «Quel che sappiamo è che non sono legati ad alcuna cellula terroristica conosciuta. Neanche a minoranze che in passato ebbero grande influenza sulla storia di questo paese. Non tramano nemmeno per spodestare il re Rama X».
«Possibile che lavorino per la giunta militare?» Ipotizzasti e quello ti guardò un po’sorpreso che tu conoscessi la storia del suo Paese. «Trafficanti di droga, armi?» Domandasti ancora, guardandolo.
«No, non questi. É come avere a che fare con una setta che ripudia l’uso delle armi».    
«Davvero?» Domandasti girandoti a scattare un’altra foto al paesaggio. Di solito non avevi bisogno di tutte queste scene, ma con la situazione in cui vi trovavate non avevi altra scelta. Sperasti solo che il tuo fastidio e la tua goffaggine non si notassero troppo. Ma guarda che strategia dovevi adottare a causa delle Creature. Non che ti dispiacesse, ma preferivi essere fotografato piuttosto che fotografare.
«Per questo vi abbiamo chiamato, sono dotati di forza sovrumana e sono capaci di disfarsi di un’intera squadra di polizia con un colpo solo». 
“Uno solo o alla velocità mach uno?” Pensasti, tu che scemo non eri e queste parole ti suonavano molto famigliari.
«Bersagli?» Domandasti.
«Siti archeologici e musei, principalmente, ma anche casseforti, collezioni di gioielli».
«Non sapevo che ci fossero anche in Thailandia».
«Poche ma ci sono e sotto stretta sorveglianza. La cosa che più sorprende è che questi attentatori sembrano interessati alle gemme».
«Le gemme?»
«Sì».
«Per caso tra di loro c’è la Dama degli Smeraldi?»
«Sì». 
Stavolta aveva la tua completa attenzione. E lasciasti che ti raccontasse il loro fallito tentativo di cattura. «Due giorni fa abbiamo ospitato una mostra di gioielli di un collezionista di cui preferirei non dire il nome, i terroristi sono riusciti a rubarli e tra di loro c’era questa donna con una tiara e orecchini di smeraldi».
«Bene, è proprio lei quella che stiamo cercando anche noi». Proprio come aveva riferito Castalia. «É quello che abbiamo pensato anche noi, ma sembra che sia un vicolo cieco». 
«Mostratemi il museo e i filmati delle telecamere di sorveglianza».
Se Quan Tu ti aiutò volentieri, non potesti dire lo stesso altrettanto dei suoi colleghi. Si vedeva che non digerivano l’umiliazione. Non solo per la vaga vena di razzismo. Molti dopo averti guardato ammirati avevano guardato meglio e ti avevano fulminato con lo sguardo. Altri avevano cominciato ad additarti e sparlare alle tue spalle.
Cosa peggiorata quando Quan Tu ti aveva ufficialmente presentato come il Saint incaricato di risolvere il caso. Lo ritenevano uno smacco per il loro orgoglio. Di solito, ti aveva garantito il tuo cicerone in uniforme a mo’ di scuse, erano molto più gentili di così. Tuttavia erano sufficientemente intelligenti da mettere da parte tutto questo per ritrovare quei gioielli facenti parte della collezione Asia. Tale era il nome della collezione appartenente al proprietario della società A.T.I.S. di cui il significato dell’acronimo decidesti di scartare in quanto irrilevante per la missione.
Ti fecero accomodare davanti al monitor e visionasti le telecamere di sicurezza (opportunamente sequestrati per questo) fino ad arrivare al filmato incriminato. Non c’era nessun sospettato tra la folla, neanche un pregiudicato, né ladri di fama internazionale. Tutti erano puliti e ognuno di loro aveva un alibi di ferro. Si capiva inoltre che non erano loro per via della sfocatura che, mandando il filmato in slow motion, increspava lo schermo un momento prima che le gemme sparissero dalle loro teche, che parevano esplodere da sole.
Persino tu, abituato a questo e altro, assottigliasti gli occhi.
Guardasti il filmato almeno tre volte. In tutte e tre la Dama compariva da una parte e scompariva. Chiunque fosse, però, doveva aver lasciato una traccia cosmica, in quanto era impossibile per un semplice essere umano un’impresa simile. Anche per un ninja.
«Avete fatto bene a rivolgervi al Santuario». Iniziasti in tono serio mentre dietro di te i colleghi delle forze armate smettevano di ridere. «Questi non sono terroristi comuni». Annunciasti guardandoli prima di finire «Queste sono persone che sanno usare il Cosmo».
«Scusi, signore, ma ne è sicuro?» Domandò uno dei poliziotti appoggiato a una delle scrivanie.
«Cosmo? Che cos’è?» Chiese invece un altro. E tu glielo spiegasti. Se questi, nell’udire la risposta si zittì e ti guardò sgomento, notando che nessuno, nemmeno tu ridevi, un altro fece un verso come a dire: “stronzate”. Pregasti tra te e te che non volesse metterti alla prova. Invece ti chiesero che cosa facessero le persone dotate di Cosmo. Rispondesti anche a questa domanda, ignorando lo scetticismo.
«Ci sono già delle prove concrete nella Storia?» Chiese quello accomodato accanto a lui, super scettico.
«La centrale nucleare di Three Mile Island nel Settantanove. Il terrorista era un aspirante Saint». Aggiungesti poi in tono volutamente lugubre.
«Un aspirante Saint?» Domandò un tenente guardandoti stupefatto.
«Precisamente, s’insediò nel nocciolo della centrale nucleare per sfidare l’autorità del Santuario e fu mandato uno dei miei colleghi a risolvere la questione». Riassumesti in breve. Non sapevi quanto potevi sbottonarti sull’argomento; Sua Santità non aveva dato istruzioni al riguardo.
«Ma anche l’attacco alla Terra di tre anni fa». Queste parole azzittirono tutti e li fecero impallidire. Nessuno di loro l’aveva dimenticato, nonostante la manipolazione dei mass media e dei governi. 
«Vorrei visionare il catalogo della mostra». Ordinasti, rompendo il silenzio che si era venuto a creare. «Se questo gruppo di persone è legato in qualche modo a un esercito divino devo vedere cosa potrebbe suscitare in loro tanto interesse». Spiegasti serio.
A questo tuo comando l’ufficio si animò improvvisamente e tutti, da quel momento in poi, presero più seriamente la tua persona, il tuo ruolo e la gravità del compito che gravava sulle loro spalle.
Poi visualizzasti di nuovo il filmato.
Avevi visto un’ombra materializzarsi velocemente davanti alle teche prima che queste “esplodessero” e i gioielli venissero rubati. Qualcosa ti disse che era il caso di prolungare il tuo soggiorno. Pertanto chiamasti immediatamente il Santuario tramite un’app sul telefono. Una volta ricevuto il benestare del Gran Sacerdote ti mettesti al lavoro.

La sera arrivò prima di quanto ti aspettasti. Tanto ti eri concentrato sulle varie strategie, che non ti eri accorto che il tempo era volato. Avevi studiato l’area a menadito, e anche il museo che secondo te avrebbe colpito. Per sicurezza  avevi chiesto alle piante di tutta la zona di restare in allerta. Consumasti una cena assolutamente deliziosa e poi ti preparasti.
Tutto ti saresti aspettato fuorché l’avvistassero di nuovo nel parco di Sukhothai. Improvvisamente captasti un Cosmo e drizzasti immediatamente la testa. Le persone attorno a te ti guardarono sconcertate mentre ti alzavi in piedi e ti avviavi verso la finestra. Avevi già avvertito prima questo Cosmo. Come era arrivato qui?
«Signor Aphrodite?» Ti chiamò il poliziotto più vicino. 
«Vado a prendere la Dama degli Smeraldi». Dichiarasti, così ti recasti immediatamente laggiù, chiamando a te la Cloth dei Pesci a metà strada, che ti rivestì con un riverbero dorato, intanto che le squadre del Santuario compivano l’evacuazione delle persone nel raggio di quattro chilometri. Fiero di compiere la tua missione e di tessere le lodi alla suprema bellezza della vittoria.
Il parco assumeva tutt’un’altra bellezza di notte, ma non c’era tempo per emozionarsi.
Le piante ti guidarono immediatamente al luogo e lasciasti che ad annunciarti sia il tuo profumo di rose e la nevicata di petali di rosa rossa.
Avresti lasciato che il profumo ipnotico delle tue rose la facesse cadere addormentata.
Sia mai che lo scontro avesse potuto subito terminare in una lotta all’ultimo sangue, non ti si addiceva proprio.
Stavi per arrivare all’area quando non trovasti nessuno. Ti guardasti intorno sconcertato. Eppure le piante ti avevano detto che era qui. Ma qui c’erano solo le Creature in avvicinamento. Ormai avevi imparato a riconoscerle al volo. Immediatamente azzerasti il tuo Cosmo e le Creature sciamarono via. Maledizione, te l’aveva fatta. Non pensavi che le piante avrebbero potuto tradirti così. Ma perché attirarti qui? A che scopo? Un diversivo? Sicuramente, ma per cosa? I gioielli? No, se così fosse stato ti avrebbero chiamato o avresti avvertito il Cosmo. Scandagliasti la città con il tuo e sentisti numerosi Cosmi ostili attorno alla centrale di polizia.
Spalancasti gli occhi e ti precipitasti alla Centrale.
Lo scontro era già in corso e i poliziotti erano in seria difficoltà contro gli avversari. Neanche i proiettili riuscivano a fare alcunché.
Stavi per scagliare le tue rose contro gli assalitori quando improvvisamente ti ritrovasti schiacciato a terra sulla pancia, con Cloth e tutto. Qualcosa gravava esattamente sul centro della tua schiena. Probabilmente un pezzo di soffitto ti era finito addosso.
Provasti a rialzarti ti sembrò che il peso fosse aumentato esponenzialmente, rischiando di far precipitare il pavimento, che si crepò sotto di te. Ti immobilizzasti e smettesti di opporre resistenza. Fu così che ti accorgesti che il peso che ti schiacciava occupava una superficie più ridotta di quanto ti aspettavi. E che aveva le ginocchia ben piantate ai lati dei tuoi fianchi. Sgranasti gli occhi e provasti a scrollartelo di dosso ma non riuscisti neanche a metterti carponi perché l’aggressore pose repentinamente una mano in mezzo alle tue scapole e ti schiantò di nuovo a terra. «Non ti muovere». Intimò con tono femmineo in greco antico.
Sgranasti gli occhi incredulo e ti muovesti ancor più velocemente di prima. Portasti le braccia all’altezza delle spalle e provasti a fare leva per rialzarti ma la tua aguzzina te lo impedì di nuovo. Altre crepe si aprirono sotto le tue mani e il tuo corpo.
«Fermo, ho detto». Ti ammonì. Proprio allora passarono i suoi compagni a gran velocità, senza vedervi. T’immobilizzasti istintivamente per poi domandarti: “Ma che cosa mi prende?” Tu potevi metterli KO in meno di un secondo! Questo era un affronto bell’e buono all’Armatura Sacra che indossavi e al tuo orgoglio! Le lanciasti un’occhiataccia da sopra una spalla ma non riuscisti a vederla anche a causa della tua bella chioma e del tuo elmo.
Allora ti girasti sulla pancia e non solo avesti di nuovo la possibilità di usare le braccia, ma te la ritrovasti  all’amazzone sull’addome. Trasalisti e ti scostasti di scatto, allontanandoti di un metro buono per l’imbarazzo. «Milady! Cosa fate qui? No, un momento…» Affilasti lo sguardo e la osservasti meglio. La Divina non aveva gli occhi scuri, tantomeno i capelli mossi e orribilmente striati d’argento, né indossava dei gioielli di quella fattura e se ne andava in giro vestita così! I suoi gusti erano molto più femminili, anche se altrettanto tremendi. E, poi, anche se accovacciata, questa era più alta e brandiva una spada. La Dea non brandiva armi.
«Tu non sei Lady Isabel». Esclamasti, ancora arrabbiato e lieto che non fosse la Dea: così avresti potuto rimbeccarla senza problemi. Eri comunque un gentiluomo. E costei, anche se imprudente, non meritava di essere castigata con le tue rose demoniache. Un volto tanto bello e delle forme tanto armoniche non le avresti mai deturpate. La giovane confermò: «No, infatti».
«Chi sei? Perché somigli alla Dea?»
«Che razza di domande fai? Ti ho appena salvato la vita, questa dovrebbe essere l’ultima cosa che dovresti chiedermi!» Ribatté, dando un’altra mazzata al tuo orgoglio. Come osava? Tu eri un Gold Saint! Anzi, il Gold Saint più importante di tutti, l’ultimo baluardo di difesa prima del raggiungimento della Tredicesima e della Dea. Come osava insultarti così? «Non c’era bisogno, so difendermi benissimo anche da solo». Rispondesti infastidito, guardandola di traverso.
Solo dopo facesti caso alla tiara e agli orecchini di smeraldi che indossava. Aspetta, smeraldi? Richiamasti immediatamente a te il tuo Cosmo e facesti crescere un fitto roseto spinoso che andò a bloccare l’uscita. Lei si fermò un istante prima di finirci contro. «Ehi, che cosa fai?» Esclamò girandosi di scatto per trapassarti con lo sguardo.
«Mi dispiace ma non posso lasciarti andare, Dama degli Smeraldi».
«Come scusa? Mi avete chiamato così?» Ribatté stupita, inarcando un sopracciglio. Ti domandasti con quale faccia tosta sviasse così il discorso. Non era per niente educato o elegante.
Tergiversò: «Non pensavo che mi aveste anche dato un soprannome. Molto carino, mi piace. Ma suppongo che tu non mi abbia bloccato per dirmelo, giusto?» Quello che ti colpì più di ogni altra cosa fu il suo tono mite. Talmente lieve da essere compassionevole e stucchevole. Ti accigliasti ancor più offeso e disgustato.
«Ma tu lo sai con chi stai parlando? Che con i tuoi discorsi inquini la bellezza della giustizia che mi hanno mandato a risanare e allontani da me la vittoria? Ti consiglio di non opporre resistenza, non voglio farti del male mentre ti scorto al Santuario». Le suggeristi, pregando che non ti costringesse davvero a ricorrere alla forza.
Lei ti fissò per qualche istante, prima che un piccolo sorriso affiorasse sulle sue belle labbra: «E se decidessi di non seguirti?»
«Allora mi vedrò costretto a ricorrere alle maniere forti e, credimi: sinceramente non vorrei». Promettesti. Era pur sempre molto bella. Superiore forse anche ad Astrid nella sua somiglianza con la Divina, ma non a te. Ti sarebbe dispiaciuto davvero se quel bel viso si sarebbe graffiato.
Tuttavia la tua minaccia non sortì né caldo né freddo. «Sì, ok». Se ne uscì lei, fregandosene bellamente e lasciandoti spiazzato. Per tutta risposta infittisti il cespo e a quel punto il profumo di rose si fece talmente inebriante da darti l’impressione di essere di nuovo nella tua serra.  Ciononostante non cambiò nulla: «Quanto è forte questo profumo». Commentò lei, leggermente infastidita, guardandoti annoiata.
“Non è solo forte, tra poco crollerai a terra. Questo profumo è in grado di stordire chiunque”. Tuttavia nemmeno così si voltò e la tua pazienza fu seriamente messa a dura prova. Non ti era mai capitato di infiammarti tanto con un avversario, nessuno aveva il diritto di ignorarti. O di guardarti come se tu fossi un comune mortale e non il più bello dei mortali. «Mi prendi in giro? Come osi voltarmi le spalle e inquinare la bellezza della gloria che mi spetta?» Quella si limitò a sospirare e a guardarti annoiata, perfettamente illesa. “Strano, a quest’ora chiunque sarebbe dovuta crollare svenuta. Invece se ne sta lì tranquilla come uno specchio d’acqua”. Senza volerlo le avevi trovato un altro soprannome.
Improvvisamente “lo specchio d’acqua” portò una mano all’elsa della spada e un turbine si sollevò dal niente avvolgendo tutta la sua persona. Così potente da costringerti a ripararti la faccia con le braccia. Riconoscesti quella tecnica e quel vento impetuoso e il tuo cuore mancò un colpo per la paura. Avesti un flash di un altro scontro, con un'altra persona: “La nebulosa di Andromeda? Com’è possibile?” Improvvisamente, così come l’aveva evocato cessò. Persino il profumo si era drasticamente affievolito.
Abbassasti le braccia e vedesti  i fusti spinati crollare in pezzi attorno ai suoi piedi e alle sue spalle. La guardasti sconcertato. Non avevi neanche percepito il suo Cosmo. Come conosceva la Nebulosa di Andromeda?
Lei senza neanche un capello fuori posto o battere ciglio t’invitò a portare avanti la missione: «Hai ancora voglia di fiatare? Perché non ho voglia di ascoltare i tuoi discorsi, se vuoi catturarmi catturami pure.» La mano ancora sull’elsa.
Accidenti, questa qui sarebbe stata un osso duro. Improvvisamente comprendesti appieno la preoccupazione di Castalia.
Avevi sempre avuto una cieca fiducia nelle tue capacità e nel tuo Cosmo. Per questo ti era impossibile concepire che una persona con un Cosmo tanto piccolo riuscisse in un’impresa tanto grande. Infatti il suo lo percepivi appena, era insignificante quanto quello di una persona normale. Una minuscola scintilla se paragonata al tuo fiammeggiante.
Immediatamente lo azzerò e restò in attesa di una tua reazione. Che mossa era, questa? Ti stava davvero invitando? Chi diavolo era?
Ma di cosa andavi preoccupandoti? Era tutta fortuna la sua.
Ti ricomponesti e sorridesti. Eri un veterano di molte battaglie, potevi ancora batterla in un lasso di tempo molto più ridotto di quello che s’aspettava. «Se credi che sia così facile battermi, ti sbagli». Materializzasti una Royal Demon Rose e gliela lanciasti alla velocità della luce ma lei la prese con due dita e se la portò al naso, annusandola. Un bel sorriso fiorì sul suo volto. Poi te la rilanciò a velocità normale. «Grazie per l’omaggio floreale, ma io preferisco le ninfee». Scherzò mentre la rosa atterrava ai tuoi piedi. E tu la fulminasti con lo sguardo. «Mi costringi a usare le maniere forti». Concentrasti il tuo Cosmo e ricorresti alla Profusione Floreale. A questa neanche i Senza Volto erano riusciti a resistere. Ma lei non era una di loro e tu te ne ricordasti troppo tardi. Quando le vide sorrise e cominciò a salire le scale evitando sempre all’ultimo i tuoi colpi e costringendoti a seguirla. A un certo punto ricorresti alla velocità della luce per bloccarle il passaggio (gesto poco consono per un Saint, lo ammettesti) ma lei ti passò attraverso come se fosse un fantasma. Nell’arco di un istante sentisti un forte colpo al torace e ti ritrovasti boccheggiante e piegato in due ad aggrapparti alla ringhiera mentre lei proseguiva illesa.
Ti portasti l’altra mano al petto e sentisti sotto le dita la crepa al blocco centrale. Come e quando c’era riuscita? Rialzasti la testa e la seguisti, stavolta senza provare a giocarle più un tiro mancino.
Prendeste una porta e fosti investito dalla calura umida della sera.
Una volta sul tetto piatto, largo venti metri per venti, le domandasti perché ti avesse portato lì. La tua avversaria spiegò sorridendo tranquillamente: «Ho pensato che se proprio dovevamo scontrarci, allora sarebbe stato meglio allontanarsi dai civili. Se la memoria non m’inganna il tuo sangue è velenoso, no?» 
La guardasti esterrefatto. Come lo sapeva? Allora l’aveva fatto davvero apposta di colpirti in modo che potesse atterrarti ma non ammazzarti o farti sputare sangue! «La tua espressione conferma i miei ricordi, bene, ne sono lieta». Sorrise rassicurata e poi un lampo di divertimento passò nelle sue iridi scure: «Bene, adesso che ne dici di fare sul serio? È tanto tempo che non mi misuro con un Gold Saint».
« Per gioco? Lo fai solo per questo?» Domandasti offeso. Ma come si permetteva? Se foste stati in arena l’avresti stesa con un colpo solo o le avresti voltato le spalle. Non valeva la pena confrontarsi con una così.
La tua avversaria alzò le spalle: «Normalmente non lo farei, non me ne frega niente, ma vederti mi riporta alla mente antichi ricordi e una tremenda nostalgia». Spiegò in tono malinconico. Il sorriso che contrastava prepotentemente con le parole e le intenzioni appena proferite. Sapevi riconoscere perfettamente un tuo simile. Questo rendeva le cose molto interessanti, nonostante tutto.
Poi partì all’attacco e tu fosti costretto a opporre una delle rose bianche alla sua spada. A differenza di tutte le altre volte, il colpo, per quanto dato con leggiadria, lo sentisti tutto e ti piegò le ginocchia. Dovevi fare molta più attenzione del previsto.
Ti creasti una frusta spinata, così avreste combattuto ad armi pari. La schioccasti. Fu una pessima idea perché te la fece a pezzi con una versione ristretta della tecnica di prima. “Manipola il vento!” Capisti. Ma stavolta l’anticipasti e facesti crescere le rose sotto di lei per fermarla. Con tuo scoramento scopristi che era un’altra immagine residua. Probabilmente non si sarebbe mai manifestata per davvero per combattere; dovevi individuarla.
Ricorresti al polline e ai petali come la catena di Andromeda e la trovasti. Allora le scagliasti la rosa nera ma quella si conficcò nel cemento dove prima c’erano i tuoi piedi e la nevicata di petali di rosa e polline non servì a nulla. «Difficile da rilevare, lo ammetto». Le concedesti. Ma con te non aveva scampo. Tu eri Aphrodite di Pisces, l’ultimo baluardo di difesa delle Dodici Case. Non esisteva che la vittoria ti venisse soffiata da sotto al naso.
«Sei davvero un osso duro, ma non potrai mai competere con un Gold del mio calibro. Io che sono resuscitato dagli Inferi conquisterò la suprema bellezza della vittoria!» Dichiarasti sorridendo. Vincere significava anche catturarla. E adesso che avevi capito il trucco non avrebbe potuto strappartela.
Chiudesti gli occhi e ascoltasti il Cosmo e, così, l’individuasti. Stava per tornare all’attacco in linea retta. Improvvisamente cambiò direzione e lo sentisti sfrecciare a destra, a sinistra, di nuovo a destra come una pallina impazzita. Non c’erano dubbi che fosse il suo. Seguisti la minuscola scintilla del suo Cosmo e quando ti fu vicina scagliasti un’altra rosa. «Sei forse qui?» Domandasti beffardo. Solo allora lei si fermò davanti a te, gli occhi spalancati, solo per scomparire un’altra volta. E con lei anche il Cosmo. Sorridesti soddisfatto ma la tua rosa andò in pezzi, perfettamente tagliata.
Il tuo sorriso si spense
Maledizione, avevi cantato vittoria troppo presto. La percezione del suo Cosmo non ti aiutava come credevi. Digrignasti i denti: era un’altra illusione e tu l’avevi sottovalutata. E ricomparve davanti a te.
Avevi commesso un terribile errore di calcolo, accecato com’eri dalla tua arroganza. Non avevi preventivato che fosse talmente veloce da riuscire a ingannare persino la percezione del Cosmo. “É sleale, non segue per niente le regole della cavalleria”. Ti ritrovasti a pensare a un tratto mentre il tuo pugno affondava nella sua immagine residua. Era come avere a che fare con un fantasma. E sì che tu i morti li potevi colpire. Sì che eri tornato dagli Inferi più forte di prima. Allora la tua condizione di Redivivo non serviva a niente?
«E perché dovrei farti questa cortesia?» Flautò sorridente alle tue spalle, rispondendo ai tuoi pensieri. Poi un forte dolore esplose sulla tua nuca. Così potente da accecarti per un attimo e sbilanciarti in avanti. Non riuscisti a frenare la caduta che ti ritrovasti carponi con la vista a pallini e la nuca dolente nonostante l’elmo.
No, non si poteva andare avanti così. Per la prima volta dopo molto tempo ti sentisti di nuovo impotente come quando affrontasti Rhadamantys. A questo punto che cosa la stava fermando dall’ucciderti? Forse provava davvero nostalgia come asseriva, se no avrebbe già sferrato il colpo di grazia. Non poteva essere solo al tuo livello. Doveva essere anche più forte per forza, il suo Cosmo non poteva essere così piccolo. Non aveva alcun senso. Se ne stesse sfruttando solo una minima parte? Questo significava che con Apus, Aquila e Ophiuchus si era trattenuta.
Ti raddrizzasti, nonostante la testa dolente e chiedesti. «Com’è possibile che io ti accenda dentro questa nostalgia? Chi sei?»
Ma non avesti il tempo di sentire la risposta che un altro Cosmo ti sbalzò più in là.
«Ehi! Come ti permetti? Stavamo combattendo!» Esclamò la donna fermandosi. Il nuovo arrivato rispose che ci stava mettendo troppo. Lo guardasti era un giovane asgardiano infilato dentro una Cloth Nera che sembrava quella dell’ex Saint di Cerbero.
Allora ne approfittasti per pungerla con una delle tue rose e il Cosmo del suo compagno ti sbalzò via, ben oltre la balaustra. Ti rendesti contro troppo tardi che stavi cadendo ma non avesti paura, avresti potuto salvarti senza problemi sia con il Cosmo che con qualche acrobazia o le tue rose. Ma non avesti il tempo di farlo perché la tua caduta si arrestò immediatamente. Fosti strattonato improvvisamente e per poco non ti slogasti la spalla mentre sbattevi nuca e schiena protetti dalla Cloth contro il muro. Ti ritrovasti a penzolare a dodici metri d’altezza, oscillando come un pendolo di un orologio. Sollevasti lo sguardo e vedesti, con tuo sommo stupore, che la Dama degli Smeraldi ti aveva preso al volo. I piedi piantati contro la balaustra, le membra tremanti e i denti digrignati per lo sforzo e la sofferenza, mentre cercava di non precipitare insieme a te.  
Il suo compagno le urlò: «No! Perché l’hai fatto?» Ma lei non l’ascoltò. Sembrava fare una fatica immane per non cadere a sua volta. Il suo corpo tremava sempre più violentemente. “Che cosa?” «Com’è possibile? Credevo di averti punto!» Esclamasti riavendoti.
«Mi hai mancato». Ribatté lesta, con voce affaticata. Bruciò un po’di più il suo Cosmo, reclinò la testa indietro e tirò con più forza, riuscendo a sollevarti di qualche centimetro. Comunque ancora troppo poco per poter fare qualcosa di concreto. Puntasti i piedi contro la parete di cemento e facesti crescere un roseto che usasti come appiglio per sollevarti mentre ricambiavi finalmente la stretta, aggrappandoti al suo polso. Appena fosti abbastanza vicino sollevasti l’altra mano per raggiungere la balaustra. Ti aggrappasti e replicasti: «É impossibile, io non manco mai il bersaglio».
Invece di risponderti, con un urlo e uno sforzo sovrumano, ti aiutò a risalire, ignorando il suo compagno. «Che cosa fai? É uno dei nemici non devi salvarlo!» Esclamò mentre tu ritornavi sul tetto e lei ti lasciava andare il polso per inginocchiarti e riprendere fiato, mentre azzerava di nuovo il Cosmo. Avresti potuto usare il Cosmo e salvarti, ma questa era stata del tutto inaspettata.
Girò la testa di scatto verso di lui e replicò: «Sta zitto! Mi sono mai intromessa nelle tue battaglie? No, allora lasciami stare».
«Non starai mica pensando di tradirci, vero?» Chiese l’altro, guardingo.
La Dama, smettendo di ansimare, alzò gli occhi al cielo e ribatté, esasperata: «Ma falla finita. Sai benissimo che è contro il mio codice d’onore uccidere i miei avversari!» Poi usò la spada per rialzarsi e ribadì che non era qui per combattere.
Rinfoderò la spada, che giaceva accanto a lei e fissò in cagnesco il collega. Il quale sostenne il suo sguardo per un po’ e poi, con un verso di stizza, se ne andò borbottando: «Fa come ti pare». Una volta soli, lei tornò a girarsi verso di te: «Stai bene?»
«Sì, grazie. Davvero non volevi uccidermi?» La giovane confermò. «E allora cosa vuoi?»
«Te l’ho detto, volevo misurarmi con te, ma sarebbe troppo chiederti di non uccidere i miei compagni?» Domandò.
«Non mi hanno ordinato di ucciderli, ma solo di catturare te». Era sottinteso che poi avresti fermato anche tutti gli altri. Era solo lei la presenza scomoda.
«Non puoi».
«Perché?»
«Perché manderai a monte i miei piani. Credi di essere l’unico a servirsi delle persone come pedine degli scacchi?» Ti sorrise mesta. Non c’era alcuna allegria nelle sue parole, solo amarezza. E ciò te la fece apparire ancora più ipocrita. «Chiunque tu sia il Santuario mi ha dato l’ordine di fermarti. La parola di Atena è legge e io sono tenuto a farla rispettare e riportare la Sua gloria, credi che questo basti a lasciarti andare? Perché dovrei fidarmi di te?»
«Diciamo che siamo colleghi, anch’io lavoro per gli Dèi». Ribatté - il respiro tornato normale. Aggrottasti le sopracciglia per niente convinto: non somigliava affatto alla donna che aveva brutalmente massacrato il Bronze Saint di Apus e sconfitto due Silver Saint. Che fosse una specie di Arles anche lei o che fosse bipolare? «Sei una Saint?» Domandasti allora guardingo. Anche se lo fosse stata, le leggi del Santuario erano chiare e lei aveva tradito.
«Una specie; tu invece sei molto lontano da casa, cosa ci fai qui in Indonesia, con i tempi che corrono?»  Ti stava prendendo in giro? No, ti stava comunicando che sapeva di voi Saint. La domanda era, quanto sapeva? Possibile che ci fosse una talpa all’interno?  Decidesti di sondare il terreno: «Sono in missione per conto del Santuario e della Dea Atena».
La Dama ti guardò perfettamente rilassata e anche un po’divertita: «Fino a qui l’avevo intuito».
Bruciasti il tuo Cosmo quel tanto che bastò per espanderlo a tuo piacimento. Il tuo Cosmo si espanse a macchia d’olio sotto di te e scivolò lentamente fino a lei mentre la guardavi negli occhi, ed esercitando i tuoi potei ipnotici: «Scusa, mia cara, ma devo sapere che cosa ti passa per la testa». Ma tutto quello che vedesti fu una spirale di immagini talmente rapide, sfocate e deformi, che roteando come una spirale, confluivano tutte in un buco nero in cui non ti era concesso di entrare. Non riuscisti neanche a capire che cosa stessi guardando. “Che diavolo è questa roba?” Pensasti orripilato. Ti saresti aspettato tutto fuorché questo. Che cosa stava succedendo? Pensasti spaventato, mentre con il Cosmo continuavi a far fiorire le rose sotto di lei e a farle crescere in una specie di gabbia. Ancor più spaventoso fu vedere lei reagire alla tua ipnosi: «Immagino che sia sconvolgente per te vedere la mia mente. Dimmi un po’, a che cosa somiglia?» Chiese incuriosita, sempre con voce sorridente. Poi ti ritrovasti proiettato fuori dalla sua testa e la vedesti alzarsi in piedi e raccogliere la spada, nonostante i fusti spinosi che le crescevano attorno al corpo.  
«Prima ti ho promesso una risposta. Una promessa è una promessa». Fece mentre usciva dolcemente di lato dalla gabbia di rose e di spine. I vestiti perfettamente illesi. Era passata attraverso le tue rose! Come era possibile?
Proprio in quel momento un refolo di vento vi smosse i capelli. «Io e te non ci siamo mai conosciuti personalmente, ma seguo le vicende del Santuario con molto interessa da molto tempo. Adesso ho io una richiesta, anzi no, un ordine da farti, tornatene al Santuario e smetti di ficcare il naso in faccende che non ti riguardano». Ti suggerì, pacata eppure, fu come se lo avesse sibilato, perché ti si accapponò la pelle come se ci avesse soffiato una folata di vento gelido. Il tuo cuore batté più rapidamente per la trepidazione. Ecco, questa era la prova del nove. «A presto, Gold Saint di Pisces». Ti salutò rinfoderando la spada e dandoti le spalle. 
Poi scomparve nel nulla, prima che tu potessi fare qualcosa.
Faceste la conta dei feriti e aiutasti i soccorsi a medicare i feriti. Mentre ispezionavi l’area alla ricerca di altri feriti scopristi che in uno degli uffici, i gioielli della collezione erano sulla scrivania. Solo il giorno dopo capisti che il loro vero obiettivo era catturare delle persone.
Ma perché? Finora aveva sempre cercato di rubare le ClothStone, cos’era questo cambio repentino? A meno che le ClothStone non fossero mai state il suo obiettivo, bensì i Saint e le persone che le cercavano. Per non dire la Dea Atena stessa. Appena lo pensasti tutto ebbe senso, finalmente. Era logico che il suo bersaglio fosse lei. Qualunque cosa stesse progettando, la dovevi fermare. Anche se avevi avvisato la sottile minaccia nelle sue parole non ti saresti mai piegato. Ne andava del tuo orgoglio. Anche se probabilmente ti avrebbe ucciso per davvero, come tutti coloro che si erano messi sulle sue tracce attirati dalle ClothStone. Recentemente avevano trovato i corpi dei cinque Bronze che erano stati mandati a recuperarle. Se avessero incontrato la Dama degli Smeraldi anche loro? E se fosse sempre stata l’autrice degli omicidi? Non ne eri sicuro al cento per cento e non eri portato per le investigazioni. Ma quel che era certo era che stava progettando qualcosa di terribile e che il tuo compito era appena cambiato: adesso dovevi fermarla.

Milo

Eri al fianco della Dea dal Millenovecentoottantasei quasi alla stregua di un consigliere, non solo una guardia del corpo. Era il minimo che potessi fare per espiare per non aver creduto subito alle Saintia. Però starle vicino ti veniva spontaneo, anche perché, la parola “leccapiedi”, non rientrava nel tuo vocabolario.
Ti separavi da lei soltanto per adempiere al tuo dovere di Gold Saint. Fondamentalmente eri stato tu a guidare i Gold durante la battaglia con la Dea della Discordia. Tuttavia il pensiero adesso non era sulla missione, bensì su Astrid. Non solo per il dispiacere del mancato saluto, ma anche perché stavate volando in Italia.
Stando a Death Mask aveva preferito andarsene nel cuore della notte, come il peggiore dei disertori, piuttosto che attendere l’indomani. L’avevi scoperto dopo il colloquio con Aphrodite, quando eri sceso a cercare Castalia e Death Mask, che stava rientrando dall’arena, ti aveva detto che Astrid era sparita. «Perché?» Avevi domandato incrociando le braccia. D’accordo che anche tu eri abbastanza rigido quando si trattava di saluti e condoglianze ma eri un uomo temprato dal dolore e dalle battaglie. Soltanto quando eri rinato a nuova vita in Giappone, avevi deciso di rilassarti un po’. Da allora sorridevi molto più spesso con i tuoi compagni. Ti aveva sorpreso sapere che Shura pensasse che tu fossi quello più giocherellone e passionale tra voi. L’avevi preso per un complimento, anche se ti aveva illuminato sull’idea che gli altri avevano di te. La verità era che avevi imparato ad apprezzare la vita che ti circondava, per trovare una compensazione al vostro compito gravoso. Per questo l’avevi rimproverato di non rifugiarsi troppo nei ricordi del passato e di vivere il presente.
Ma di Astrid, bè, a parte un piccolo dispiacere raramente le avevi sorriso. Non avevi mai sorriso neanche a Shoko, perché con lei doveva essere diverso? Aveva fatto di tutto per rendersi antipatica ai tuoi occhi.
Eppure ora che stavi per mettere piede nella sua terra natia, ti chiedevi se mai l’avresti rincontrata. Ti sentivi come un ladro che entra in casa di un ex amico o di un conoscente. Cercasti di distrarti distogliendo lo sguardo dal finestrino del jet della Fondazione e lo posasti sulla Dea, che ti stava guardando.  «Tutto bene, mia Signora?» Domandasti ma forse lo stavi chiedendo più a te stesso che a lei. Che ricambiò, tornando alla realtà. Era rimasta tutto il tempo assorta nei suoi pensieri. «Magnificamente, Cavaliere di Scorpio».  Sorrise. Annuisti e bevesti qualcosa che ti passò la Saintia di Cassiopea, che era seduta accanto a te.

Era la prima volta che visitavi Roma e la trovasti molto grande, tanto che lì per lì ti dette un senso di piccolezza, come se improvvisamente tutto si fosse allargato attorno a te, ma anche di claustrofobia per tutte le persone che c’erano e che vi passavano accanto.
Il vostro attentatore aveva insistito per vedervi a Castel Sant’Angelo. La zona era già stata messa in sicurezza ed evacuata dagli uomini del Grande Tempio. Anche Shoko rimase scioccata dall’ indifferenza indotta dall’ipnosi di massa che avevate condotto: «Non ci guardano nemmeno». Costatò.
«Muoviamoci che siamo già in ritardo». Comandò la Dea e vi avviaste nella direzione da cui sentivate provenire quel barlume di Cosmo.
Appena vi avvicinaste a Ponte Sant’Angelo e ai posti di blocco, gli uomini del Santuario s’inchinarono cerimoniosamente. I poliziotti invece vi guardarono perplessi.   
Per fortuna le forze dell’ordine italiane avevano collaborato senza fare storie. A essere onesto te li aspettavi più riottosi e invece no. Anche la gendarmeria vaticana aveva acconsentito a liberare la zona, trasferendo momentaneamente il Papa altrove con un viaggio dell’ultimo minuto in visita in un Paese straniero. Tutti gli altri cardinali erano stati fatti trasferire in incognito e lontano da occhi indiscreti.
«Nobile Scorpio, la barriera è pronta e l’evacuazione dei civili è stata ultimata». Vi informò uno dei soldati del Santuario venendovi incontro.
«Bene, ottimo lavoro, da qui in avanti ci pensiamo noi».
Poi attraversaste Ponte Sant’Angelo e raggiungeste finalmente Castel Sant’Angelo. Magari tu avessi letto Angeli e Demoni quando Shura aveva cercato di prestartelo, o ti fossi documentato meglio. Se non altro, avresti già saputo come fare per cavarvi dagli impicci.
Quegli angeli del Bernini sembrava dovessero muoversi da un momento all’altro. Sebbene fossero molto più eterei, pacifici e ricchi di sentimento di quelli reali. Rappresentavano degli ideali di un periodo e di una religione che nessuno aveva mai veramente compreso e rispettato.    
Oltrepassaste il dromos, l’atrio e la rampa elicoidale fino alla sala delle urne. I vostri passi rimbombavano sulla pavimentazione come un orologio che scandisce i secondi.
Arrivaste al castello fortificato fino al sesto e ultimo livello, la “Cagliostra”, ex ambiente superiore della Loggia Farnese. Sotto le scene di Amore e Psiche trovaste il traditore darvi le spalle e in ginocchio, immerso nella preghiera.
«Eccoci qui Aurel, come avevi richiesto». Esordì la Dea quando vi fermaste a cinque metri da lui.
Aurel, smise di pregare.
Alzò la testa rapata a zero adorna di tatuaggi e vi guardò da sopra una spalla. «Somma Atena». Salutò, riconoscendo il Cosmo della Dea l’emblema della Dea stretto tra le mani di quest’ultima.
Si alzò, si volse completamente. «Cavalieri». Aggiunse mettendo il rosario in tasca. Restasti abbastanza stupito nel vederlo e ti domandasti a cosa gli servisse.
«Perché hai chiesto di vederci qui?» Domandò la Divina Atena.
«Perché qui è dove tutto è finito. Forse non lo sapete, ma un tempo ero destinato a questi luoghi, a fare opere di bene e carità, prima del Grande Tempio e del Cosmo. Studiavo in seminario quando mi fu tolta l’opportunità di servire Dio. I vostri uomini mi hanno illuso di poter essere qualcuno e ora è troppo tardi. Dentro di me c’è un demonio assetato di sangue e vendetta e me lo avete istillato voi».
«É per la tua insaziabilità che sei stato buttato fuori, perché non sapevi fermarti e finivi sempre per massacrare l’avversario». Proferisti tu, che ti eri studiato i fascicoli che ti aveva fornito l’assistente del Gran Sacerdote. In realtà era stato destinato a un’Armatura d’Oro ma, per una questione di umiltà, aveva scelto di concorrere per un’Armatura di Bronzo. Poi era impazzito. Ma tu alla storia del demone non ci credevi proprio.
Shoko sollevò le braccia, pronta a parare eventuali attacchi o ad attaccare.
«Voglio diventare il Saint che sono destinato a essere. Tornare a essere il vostro monaco guerriero».
«Tu non sei mai stato un monaco guerriero». Ribatté Shoko risoluta e molto più carismatica di quanto ricordasti. «E se Lady Isabel ha deciso di non conferirti l’Armatura è perché non è disposta a tollerare oltre i tuo massacri e le uccisioni in tuo nome».    
«Quel che dice Shoko è vero. Mi duole molto che tu abbia frainteso il tuo addestramento e ti sia convertito in quello che non eri, ma la mia risposta rimane sempre la stessa, non ti darò mai quell’Armatura». Intervenne la Dea prima di azzerare il proprio Cosmo come a sottolineare le parole della Saintia.
Il ribelle sorrise come se avesse avuto il coltello dalla parte del manico. «Oh, ma io ho solo bisogno del vostro consenso per indossarla». Solo allora vi mostrò il medaglione che portava al collo, tirandolo fuori dalla maglia. Riconoscesti immediatamente quella gemma e trasalisti. «Dove l’hai presa quella?» Chiese Shoko indicandola.
«Questa è la ClothStone dell’Armatura di Bronzo della Corona Australe». Si vantò ampliando l’enorme sorriso soddisfatto.
«Allora fosti tu a rubarle». Lo accusasti.
«Non solo io, anche se non saprei dirvi chi siano gli altri».
«La mia risposta non cambia, Aurel. Finiamola qui, restituiscimi la ClothStone della Corona Australe e dimentica questa faccenda, non voglio spargimenti di sangue inutili». Comandò poi imperiosa gonfiando il suo sublime Cosmo. Chiunque si sarebbe piegato al suo volere ma l’altro continuò a sorridere: «Meno male che avevo escogitato un Piano B». Alzò una mano e dal nulla comparvero degli ostaggi, privi di sensi e prigionieri in bolle di energia calda e vento alle sue spalle.
Vi ci volle qualche secondo per capire di chi si trattasse. «Castalia!» Shoko gridò, scattando in avanti: «Juan! Georg!» Ma chi era il terzo ostaggio? Poi riconoscesti quei capelli e sgranasti gli occhi: «Astrid!» E la tua esclamazione si mescolò con quella della Dea: «Cosa gli hai fatto!»
«Niente di che: ho solo catturato colei che ha permesso la sconfitta di Artemide e di Eris, non mi aspettavo che la Somma Atena le avesse messo appresso le guardie del corpo».
Facesti per lanciarti in soccorso dei tuoi compagni ma la Dea alzò una mano e ti bloccò. Poi si rivolse al vostro avversario «Che cosa vuoi?»
«Voglio quanto mi fu promesso quindici anni fa e non mi fu dato, l’Armatura della Corona Australe». L’Armatura della Corona Australe; tutta questa storia per un’Armatura? Ok che non era neppure l’unico nella Storia, molti ex aspiranti Saint divennero mercenari o assassini. Come quello che s’insediò a Three Mile Island nel Settantanove. Sapevi già come era andata quella volta con l’unica persona sprovvista di Cosmo e non avresti mai permesso che la Storia si ripetesse.
L’uomo continuò la sua negoziazione con un sorriso ferino: «In cambio Vi restituisco questi Saint vivi e vegeti, soprattutto la Saintia il cui intervento si è rivelato decisivo per la sconfitta di Artemide».  
“Saintia? Quale Saintia?” Pensasti, poi capisti che si stava riferendo ad Astrid.
«Cosa vuoi farle? A cosa ti serve lei?» Chiese la Dea, ansiosa.
«Non siete l’unica persona, mia Signora» e il sarcasmo intriso in queste parole si sentì tutto, «ad avere il potere di conferire un’Armatura a un Cavaliere». Che stava dicendo? Astrid aveva il potere di manovrare le Cloth, non di conferirle! Ma se fosse riuscita anche a… No! Era impossibile! «Questa è blasfemia!» Esclamasti tu. Shoko sottolineò le tue parole con uno: «Sciocchezze! Solo la Divina Atena conferisce l’Armatura Sacra a chi merita di indossarla!» Mentre la vostra Dea osservava la scena sconvolta stringendo il bastone di Nike.
«Rivolete queste persone o no?» Domandò Aurel dopo avervi fissato a lungo, ignorando tutto quello che avevate urlato.
«Sì». Ammise la Dea con voce sottile.
«Bene, allora seguitemi in cortile, non ho proprio intenzione di rovinare questo posto». Dichiarò.
Obbediste a malincuore. Quando foste in cortile, avvicinò la bolla di Astrid e la fece scoppiare dinanzi a sé pochi millimetri dal pavimento. Poi la chiamò e lei aprì gli occhi. Appena lo vide cacciò un urlo e balzò a sedere di scatto.
Scattaste in avanti di un passo mentre il traditore le tappò prontamente con una mano. «Buona, non ti agitare». Disse, parlandole più come se fosse un animale ferito che una persona, ottenendo soltanto di farla divincolare ancor di più. Tu scattasti ancora ma ancora una volta ti fermasti. Digrignasti i denti.   
«Astrid!» Chiamarono Shoko e la Dea tu in coro. Faceste per raggiungerla ma una barriera di vento rovente vi tagliò la strada. Per te era una bazzecola, avevi affrontato le fiamme di Orione, però non si poteva sapere come avrebbe agito.
«Milo, Dea Atena!» Esclamò lei riconoscendovi, gli occhi lucidi di stupore e felicità. Presto la sua attenzione fu ricatturava dal suo sequestratore che le prese il mento tra le dita le girò la testa verso di sé, di modo che potesse guardarlo negli occhi. Lei cercò di liberarsi ma non ci riuscì. Prese ad artigliargli la mano e il polso ma non lo smosse neanche. «Lasciami! Cosa vuoi da me? Dove sono gli altri? Che cosa gli hai fatto? Dove siamo? Ti ho già detto che…»
«Buona, non voglio farti niente di male, voglio soltanto che tu faccia una cosa per me e vi lascerò andare». La interruppe con aria annoiata, come se non fosse la prima volta che si scontrava con la sua testardaggine. Forse doveva aver creduto che davanti a voi cambiasse idea. 
La ragazza lo fissò terrorizzata. Il petto che si alzava e abbassava velocemente, come se stesse raccogliendo il fiato per lanciare un urlo. «Che hai da perdere, in fondo?» Continuò l’altro, suadente. Anche da qui Astrid ti parve tentata se accettare o no la proposta. «Non dargli ascolto!» Urlasti.
«Tu lo farai per me, altrimenti ti troncherò le dita e ti costringerò a osservare mentre ammazzo lentamente i tuoi amici». La minacciò con una calma che contrastava moltissimo con l’espressione bestiale da maschera demoniaca che era il suo volto alla luce di questi inquietanti lumini cimiteriali.
Avresti voluto gridarle di non preoccuparsi, che ci avreste pensato voi, ma lei sibilò, con voce tagliente e un coraggio inaspettati: «Fallo. Fallo, troncami le dita e poi ammazzali, così non otterrai che la mia rabbia e il mio odio. Non ti darò mai quello che vuoi, hai capito? Dovrai ammazzare me per ottenere qualcosa e anche allora non ti darò niente. Lo vedo, anzi no, lo sento che sai che il tuo piano avrebbe fatto cilecca». Ridacchiò piano, per quanto la mano stretta attorno al suo collo di cigno glielo consentisse: «Pensavi che io sarei cascata in un tranello così stupido? Che fossi tanto ingenua?» Domandò adesso con voce tremante mentre cercava di continuare il suo bluff. Lui si ricompose e la lasciò andare con un violento strattone: «Tu collaborerai, che ti piaccia o no». Sbottò «No! Non so cosa tu voglia, ma non farò niente di ciò che…» L’altro le catturò nuovamente la faccia premendole le dita nelle guance e tu sentisti la tua ira ribollire.
Incapace di sopportare oltre uno spettacolo simile, Shoko urlò: «Adesso basta! Meteore di Equules!» E distrusse la barriera di vento caldo, ma non fece in tempo a strappargli Astrid che si ritrovò sbalzata indietro da una raffica di scirocco che la fece urlare di dolore.
«Shoko!» Strillò la Dea mentre tu entravi in azione con le quindici punture dello Scorpione.
Bastò una puntura che Astrid si ritrovò imbrattata del sangue del suo rapitore. La vedesti mordersi il labbro con tutte le sue forze per non gridare. A quel punto pensasti che si togliesse da lì, ma il terrore la paralizzò. Non cercò neanche di sgattaiolare via. Intanto il suo aguzzino, dopo aver ululato per il dolore a occhi sgranati, cominciò a respirare velocemente tra i denti, per mitigare gli effetti della puntura che gli avevi inflitto.
«Com’è possibile?» quasi urlò, con gli occhi fuori delle orbite per il dolore, portandosi una mano alla spalla ferita. Come se tamponarla portasse a qualche altro risultato. 
«Le mie quindici punture dello Scorpione agiscono sui centri nervosi; più punture riceverai, più ti avvicinerai alla morte. Non costringermi a usare la quindicesima». Spiegasti serio e determinato a far finire questa storia il prima possibile. «Lascia andare quella ragazza e pentiti di quello che hai fatto». Comandasti.
«Mai, Cavaliere, anzi, vediamo come farete a colpirmi con questo». Ciò detto, trasse a sé Astrid e la usò come scudo.  La giovane si lasciò sfuggire un gridolino terrorizzato, poi cominciò a divincolarsi urlando: «No!» 
«Conferiscimi l’Armatura!» Ruggì Aurel, la faccia paonazza dal dolore e dal veleno ancora in circolo nel suo corpo. «Lasciami! Lasciami!» Urlò invece Astrid cercando di sfuggirgli, ritrovandosi immobilizzata in brevissimo tempo e spostata su varie parti scoperte del corpo del pazzo ogni volta che individuavi un potenziale bersaglio per le tue punture. Digrignasti i denti. 
«Va bene, allora ammazzerò il tuo amico». La ricattò l’altro mentre tu digrignavi i denti. Farti sconfiggere così miseramente, come un pollo solo perché aveva preso in scacco la Dea.
Che smacco per il Cavaliere d’Oro di Scorpio. 
«No!» Urlò lei ancor più forte di prima, forse recuperando un barlume di lucidità. Questa minaccia l’accese e riprese a dimenarsi con più forza di prima, invano.
«Lasciala andare, Aurel! Lei non c’entra niente con questa storia!»
«Lei c’entra eccome! Lei mi darà ciò che desidero».
«Ciò che desideri? Il tuo è un brutto caso di sete di potere, forse?» Insinuasti beffardo, ma l’uomo ti ricordò che la teneva ancora come scudo e tu non riuscivi a capire come colpirlo adeguatamente senza ferire Astrid.
Accidenti.   
«Va bene! Va bene! Va bene! Lo farò! Lo farò! Lasciami andare! Lasciami andare, lo farò, ma tu lasciami!» Strillò piangendo e battendo le mani sull’avambraccio muscoloso dell’uomo. 
«Astrid!»
«Non è possibile! Solo la Divina Atena può assegnare Armature!» Affermò Shoko, rialzandosi. Ma il suo rapitore la guardò e le sorrise accondiscendente. «Va bene, dolcezza».
«In cambio… in cambio, libera i Silver Saint che hanno cercato di proteggermi». Propose lei cercando di modulare la voce tremante affinché formulasse parole e frasi di senso compiuto.
«Va bene, tanto ormai non mi servono più». Dichiarò mandando le bolle dietro la Divina Atena e facendole scoppiare a pochi centimetri da terra, liberando così i Silver Saint che aveva catturato. Mentre tu ti occupasti di Aurel prima che arrivassero le Creature. Con tutto questo bruciare di Cosmi sarebbero accorse tra breve. Prima che tu potessi usare il tuo Cosmo una voce piovve dal cielo accompagnando una scarica di asce di Cosmo. «Filo del Tomahawk!» Seguito a ruota da una ragazzina che gli mollò un calcio in faccia. L’uomo cadde a terra perdendo la presa sulla sua vittima.
L’aspirante Sacerdotessa-Guerriero fece una capriola e balzò di nuovo in piedi e assunse la posizione di attacco. «Una mossa e ti taglio la testa». Lo avvisò, minacciosa e tu la riconoscesti: «Neera!» Esclamasti sorpreso, riconoscendo finalmente quella chioma nera e liscia e quei nastri blu attorno agli avambracci. «Che diavolo ci fai qui?» Urlasti provando una vaga sensazione di dejà-vu.
«Niente male, Neera». Commentò invece il suo maestro, comparendo alle vostre spalle con l’Armatura del Cancro già indosso. Gli angoli della bocca piegate all’ingiù, in una smorfia in netto contrasto con le sue parole.
«Lancelot! Che ci fate voi qui?» Esclamasti sovrastando le voci di Shoko e della Dea e il commento sarcastico del traditore. 
«Dopo Nobile Milo, adesso abbiamo un nemico da sconfiggere». Dichiarò Neera e si scagliò addosso al suo avversario che la schiantò contro un muro laterale con uno schiaffo per poco non le fece volare via la maschera. La ragazza scivolò a terra come una mosca sul vetro e non si rialzò. 
«Neera!»
Lancelot non mosse un dito per aiutare l’allieva. «Tu guarda che razza di impiastro che mi ritrovo per allieva». Sospirò invece in tono rassegnato per la figuraccia.
Nonostante le ferite, Astrid si rialzò e corse verso di voi, chiamando il tuo nome. La raggiungesti lasciando che Neera lo affrontasse. L’avevi quasi presa quando urlò e fu di nuovo avviluppata in una bolla di energia calda e vento. «Milo!» Strillò disperata battendo le mani contro le pareti della sua prigione che si allontanò da te. Per quanti sforzi facessi per fermarla, presto fu di nuovo dietro la schiena del vostro avversario.
«Spiacente, non ho ancora finito con lei.» si scusò sarcastico, poi vi accecò con una tecnica difensiva e, quando riapriste gli occhi vi accorgeste di essere soli.
«Astrid!» Urlasti avanzando di tre passi in un breve e inutile inseguimento.
«É tardi, ormai. L’ha portata via». Rilevò Lancelot per andare a soccorrere la ragazza ancora accasciata contro il muro che stava ricominciando a muoversi.
«E allora inseguiamoli!» Esclamò Shoko affiancandovi
«Non possiamo, abbiamo compagnia». Vi avvisò Lancelot indicando le Creature che, infine erano arrivate. Azzeraste prontamente i vostri Cosmi e quelle se ne andarono.
Lancelot parve quasi dispiaciuto del fatto che Neera fosse ancora viva. Lo capisti da come la guardava, mentre Shoko domandava se stesse bene e otteneva un assenso. La giovane si riaggiustò la maschera. Poi si alzò e, barcollando un po’, s’avvicinò alla Dea. «State bene, mia Signora?» Domandò aiutandola a rialzarsi, mentre tu rispondevi a Shoko che era impossibile. Guardando in alto, verso il cielo azzurro che si stagliava sopra di voi. «Anche se non fosse per le Creature, non riusciamo a percepire il Cosmo di Astrid da nessuna parte. É praticamente irrintracciabile. Invece il nostro avversario deve aver appreso una tecnica di mascheramento perché è come se fosse scomparso». La Saintia sussultò orripilata. Neanche Lancelot sapeva cosa fare. 
«Signor Milo», sentisti dire dalla vocina contrita di Neera. Ti girasti e la guardasti. La giovane prese un bel respiro prima di dire: «mi dispiace, non sono riuscita a fermarlo.» contrita sotto lo sguardo infuriato del suo maestro, rialzando finalmente il volto mascherato.
«Non saresti neppure dovuta venire, cosa diavolo ci fate?» Ribattesti fulminando il suo maestro con gli occhi, che commentò un: «Certo, si è visto», mentre aiutava a i colleghi riprendersi con degli schiaffetti in faccia.
Poi, quando i due furono svegli, Lancelot raggiunse la sua allieva e le dette uno scappellotto. Non forte da farle volare via la maschera, ma abbastanza da ricordarle quanto il vostro ruolo non fosse da prendere sottogamba. «Ecco cosa succede a disertare gli allenamenti: che in missione si fa un bordello!» Iniziò e giù con altre finezze che a mano a mano sfociarono in celtico antico. Però si capiva che fossero un misto di rimproveri e insulti che fecero quasi rimpicciolire la ragazzina sotto ai vostri occhi.
«Nobile Milo», ti chiamò Castalia. La guardasti e vedesti che stava rialzandosi. Poi Georg, il braccio allacciato al collo del parigrado dello Scudo, chiese: «Dov’è Astrid?»
A quel punto fu la Somma Atena a rispondere: «Non siamo riusciti a salvarla, ma faremo il possibile per recuperarla. Intanto lasciatemi dire che sono felice di rivedervi sani e salvi, miei valorosi Silver Saint».  

Vi rifugiaste in un albergo che avevate prenotato all’ultimo minuto. La Dea aveva generosamente offerto un’altra stanza ai cinque, sebbene secondo le regole, andassero da considerarsi dei traditori. Ma la Dea era stata inamovibile anche su questo, prendendo i tre Silver sotto la sua protezione.
Lancelot invece, fu molto più difficile da convincere ad accettare. A vincerlo fu la stanchezza, così accettò l’invito a sua volta.
Così, mentre la Divina Atena e Shoko di Equules con i tre Silver erano a discutere, voi vi organizzaste i turni per il bagno. Per prima avevate fatto andare Neera, con un inaspettato slancio di cavalleria anche da parte di Lancelot. Poi vi eravate giocati a morra cinese il secondo turno e avevi vinto tu.
Ma anche adesso, mentre ti sciacquavi sotto al getto d’acqua calda, il pensiero della missione fallita continuava a non abbandonarti. Mancava così poco. Se solo fosti stato più svelto Astrid … Ah un altro fallimento per una tua mancanza. “Quante altre ancora, Milo? Quante altre?” Ti domandasti. Eppure credevi di aver imparato la lezione quando salvasti Shoko e Kyoko! Perché era tutta colpa tua se quella Guerra Sacra era cominciata. Se tu avessi portato a termine la missione già dalla prima volta, Eris non sarebbe risorta e tu non saresti stato arrabbiato con te stesso. 
Finisti di sciacquarti.
Digrignasti i denti e chiudesti l’acqua. Strizzasti un paio di volte la tua chioma prima di uscire dalla doccia, asciugarti e indossare i vestiti puliti che ti eri portato in bagno. Il tuo accappatoio l’avevi prestato a Lancelot.
Appena apristi la porta quest’ultimo, che aveva piantonato la porta tutto il tempo, esclamò: «Per la Dama del Lago, non ce la facevo più! Ma quanto diavolo ci stai in bagno?»
Inarcasti un sopracciglio: «Non mi sembra di averci messo così tanto, solo mezz’ora». Rilevasti, ricomponendosi subito.
«Due ore e non barare che ti ho cronometrato. Ora fatti da parte che tocca a me».
Ciò detto s’insinuò dietro di te e, con una spallata ben assestata poco sopra la scapola, ti scacciò fuori. Lo trapassasti con gli occhi da sopra una delle spalle. «Ehi! Che maniere! Ci tieni così tanto a lavarti?» Il Santo d’Oro di Cancer si girò e ti fissò con occhi ridotti in fessure: «Prova a vivere come ho vissuto io una vita intera, poi vediamo se hai ancora voglia di scherzare».
«Credevo che nel Medioevo foste tutti amanti dell’acqua». Ironizzasti, anche se con pochissima voglia di scherzare. L’altro scoppiò in una risata sarcastica: «Molto spiritoso, si credeva che fosse fonte di malattie».
«Con tutto quello che si poteva trovare nei fiumi, ci credo». Ribattesti. Il Lost Saint ti sbatté la porta in faccia con un impeto tale che quasi la divelse.
«Lasciatelo stare è molto suscettibile quando si tocca quest’argomento». Consigliò la ragazzina, seduta sul letto a gambe incrociate che giocava con il suo iPhone. La guardasti e lei continuò con una punta di veleno nella voce dura: «Ora che ha scoperto le gioie di un bel bagno caldo e di una doccia passerebbe le ore in bagno». 
Tu non ci trovasti nulla di strano. Molte persone avrebbero trascorso la loro vita in bagno. Anche Saga, o meglio Arles non faceva eccezione. Anche a te era giunta voce dei suoi quasi interminabili lavacri sacri. E guai a chi osasse interromperlo. Anche tu avevi sentito di quello sventurato servitore che entrò in bagno per vedere cosa stesse succedendo (perché i cambi di personalità di Saga non erano mai tranquilli) e Saga lo ammazzò. Addirittura trovare il tempo di lavarsi poco prima della battaglia delle Dodici Case. Mah? Ancora adesso ti chiedevi come avesse fatto.
Guardasti la porta, giusto per essere sicuri che Lancelot non replicasse le gesta di Arles, mentre ti sfregavi l’asciugamano sulla testa. «Non è l’unico». Ti limitasti a dire. Poi ti scollasti da lì e ti sedesti sul letto cercando di asciugare la tua folta chioma con un asciugamano. Fortuna che la tinta viola non se ne andava così facilmente dalle tue ciocche.
Neera smise di giocare con il telefono, si alzò e si affacciò alla finestra, scostando la tenda, incurante del fatto che qualcuno potesse vederla.
«Il tuo maestro però ha ragione. Non sei ancora una Saint a pieno titolo, non hai esperienza in un vero combattimento, in guerra, probabilmente sei sopravvissuta finora per pura fortuna. Non hai la forza e non hai strategia. Non dovevi agire di testa tua, se ti dice una cosa tu devi obbedire, anche per rispetto dell’Armatura cui aspiri. Per di più adesso il Santuario manderà qualcun altro a occuparsene». Perché così era la procedura d’emergenza dai tempi del Millesettecento, quando fu mandato El Cid a salvare Tenma di Pegasus, Yato di Unicorn, Yuzurhia della Gru e Sisyphus di Sagitter dal mondo dei sogni.
Avresti voluto occupartene tu stesso ma non potevi abbandonare la Dea, che sarebbe rientrata. Anche se sarebbe stata un’impresa convincerla, ricordavi troppo bene come si mise in pericolo nell’Ottantasei. Se avevi imparato a conoscere almeno un po’ la tua Signora, era che non lasciava mai un Saint o un innocente in difficoltà. Non avrebbe mai permesso che Astrid continuasse a restare nelle grinfie di quel pazzo di Aurel. Ma questo neanche tu. Anche se non vi sopportavate cordialmente e il vostro rapporto cambiava dal giorno alla notte, in questo momento era in grave pericolo, non era lucida e non poteva difendersi. Non osavi neppure immaginare che cosa avrebbe potuto farle.
«Smettetela! Credete che io sia orgogliosa del mio fallimento?» Reagì lei voltando la faccia coperta dalla maschera verso di te. La guardasti spiazzato, ma solo per poco. Ma come si permetteva? Se ne accorgeva che tu eri un suo superiore. «Intanto modera il tono quando parli con me, ti ricordo che io sono un Gold Saint mentre tu soltanto un’apprendista Sacerdotessa che, non so per quale motivo, si è intromessa nella missione».
«Potevo farcela volevo…»
«Cosa volevi dimostrare, di essere forte? Di poter risolvere la situazione da sola? Ma lo sai chi era quello? Era l’ex aspirante Bronze Saint della Corona Australe».
«E allora? Io sono un’aspirante Silver Saint. Sono più forte di lui».
«Ma lui è pazzo è spietato ed è un sanguinario mentre tu no. C’è un motivo se hanno mandato me, a risolvere il problema in caso la Saintia del Cavallino non fosse bastata; quello è l’unico Bronze Saint potente come un Gold Saint!»
«E allora? Non è il primo e non è l’ultimo ad aver risvegliato il Cosmo Supremo. Avrei potuto farcela se solo…»
«Lo vuoi capire che sto cercando di dirti che è stato proprio a causa della tua presunzione e della tua inesperienza che abbiamo fallito?» Sbottasti adirato interrompendola.
«Dunque mi ritenete un’incapace?» Domandò lei, con lo stesso tono. Ma come si permetteva? Emettesti un verso di frustrazione. Possibile che le tempeste ormonali obnubilassero a tal punto il suo cervello? Ok, datti una calmata, Milo. Non sta bene abbassarsi a certi livelli. Tu decidesti di seguire il mio consiglio e facesti un bel respiro profondo, prima di riprendere il filo: «Non ho detto questo». Cercasti di farle notare, in tono più calmo, portandoti una mano alla fronte. Ti era appena venuto un principio di mal di testa. «Dico solo che se avevate messo a punto una strategia dovevate rispettarla e…»   
«Sì, invece! Non avete bisogno di dirmelo anche voi, ci pensa già il mio maestro a ripetermi quanto io sia inutile e che non conquisterò mai la Cloth! Voi non sapete quello che sto passando e come mi senta, non avete alcun diritto di dirmi queste cose!» Urlò isterica stringendo i pugni e perdendo il controllo del suo Cosmo, che esplose nella stanza come un fuoco d’artificio blu e bianco. Tutto quello che ottenne fu scombinare la camera, sventagliarti i capelli,  e far sì che Shoko bussasse alla porta e chiedere se andasse «Tutto bene? Che sta succedendo?»
La ignoraste entrambi, impegnati come eravate a fissarvi in cagnesco. Incrociasti le braccia più che altro per bloccare te stesso dal fare cavolate tipo usare il Restriction. Non ti saresti mai abbassato al suo livello o a cedere alle sue provocazioni. Tu eri un suo superiore e lei ti doveva rispetto.
«Che sta succedendo?» Chiese Lancelot comparendo sulla porta del bagno, l’asciugamano stretto in vita. Nessuno di voi gli rispose.
«Bene, se sei decisa a non ascoltare, allora non abbiamo niente da dirci». Dichiarasti. Poi guadagnasti l’uscita e andasti via seguito dallo sguardo perplesso di Shoko di Equuleus.
Non avevi tempo da perdere con ragazzine in balia delle tempeste ormonali e andasti a fare due passi.
Rientrasti soltanto verso le nove di sera.
«Tutto bene, Cavaliere di Scorpio?» Ti domandò la Dea quando rientrasti, guardandoti preoccupata con i suoi dolci, innocenti occhi azzurri.
«Sì, stavo solo cercando di spiegare a un’aspirante Sacerdotessa-Guerriero la gravità delle sue azioni sconsiderate. Posso assistere anch’io alla vostra discussione?»
«Certamente, accomodati». Fece la Divina Atena, magnanima, indicandoti una poltrona libera nella stanza, accanto alla sua. 
Prendesti posto alla poltrona che era stata spostata alla sua sinistra, mentre Shoko, che entrò in quel momento, si sedette sulla sedia alla destra della Dea.
Poi riprese a guardare i tre Silver inginocchiati ai suoi piedi: «Le vostre azioni violano le regole del Santuario, tuttavia non posso ignorare che senza di voi, non avremmo mai saputo in anticipo i piani del nemico».
«Signora Atena, basta che lo chiediate e noi ci sottoporremmo alla punizione che spetta a coloro che lasciano il Grande Tempio senza permesso per più di ventiquattro ore». Continuò Castalia, al centro del piccolo triangolo formato dai tre Silver ancora in Armatura. Come se si trovassero nella Sala del Trono al Grande Tempio e non in una suite d’albergo in Italia. Ti eri fatto raccontare cosa era successo. Un giorno fa, Castalia aveva ricevuto una richiesta di soccorso da Astrid e, con Juan e Georg si era recata in Italia per salvarla. Solo per scoprire che lei era viva e vegeta e che era stata tutta una trappola di Aurel. L’uomo le aveva rubato il cellulare e scorrendo la rubrica aveva scoperto il numero della Silver Saint. Per questo era riuscito ad attirarli nella trappola.
Neanche Astrid si era accorta del pericolo.
La Silver riferì anche che il bersaglio vero e proprio era Astrid fin dall’inizio e si rammaricava di non esserci arrivata subito.
La Dea rispose con voce gentile: «Non è necessario, vi assolvo io stessa e vi prendo sotto la mia protezione poiché avete agito per proteggere un’innocente. Quello che il Grande Sacerdote potrà farvi, sarà assai meno di quel che paventate». Garantì.
«Grazie, Somma Dea, la vostra magnanimità è per noi il dono più prezioso». Risposero cerimoniosamente i tre inginocchio. La Dea continuò: «Ripartirete con il Saint dello Scorpione, la Saintia del Cavallino, il Saint di Cancer, la sua allieva e me domani mattina stessa».
A quel punto Juan alzò di nuovo la testa e ribatté, intimorito: «Mia Signora, manderanno qualcuno per ammazzarci».
«Non succederà, ho telefonato al Grande Sacerdote spiegandogli tutto e pregandolo invece, di mandare qualcun altro per questa missione di salvataggio. Pertanto dichiaro chiuso il vostro processo e v’invito a desinare insieme a noi per questa sera». 
«Mia Signora, io...» Iniziò Castalia ma la Dea la interruppe con un dolce sorriso.  «Lo so, vi farò portare qualcosa in camera». Fortuna che quest’hotel aveva il servizio in camera.
Quando fu il momento di scendere a cena bussasti alla porta di Lancelot e Neera ma non ti rispose nessuno. Li chiamasti tre volte prima di provare a entrare e, con tuo enorme stupore, scopristi che la porta era aperta e la camera immersa nella penombra del tramonto. La finestra aperta e le tende smosse dal vento. Una figura era distesa sul letto a pancia in giù e si stava rialzando mandando dei gemiti di dolore. «Lancelot!» Esclamasti e colmasti la distanza tra voi, mentre il Cavaliere, ancora in accappatoio, si metteva seduto a fatica. «Che cosa è successo? Mi gira la testa, non urlare» Bofonchiò portandosi una mano tra i capelli mentre tu t’inginocchiavi davanti a lui e valutavi il suo stato.
Anche in questa luce sembrava piuttosto verdognolo. Gli occhi arrossati faticavano a metterti a fuoco. Ogni tua parola per lui era una staffilata alle orecchie. Provasti a chiedere spiegazioni ma lui sibilò e cercò di tapparsele, implorandoti di fare piano. Qualunque cosa gli fosse accaduta doveva essere stato colto di sorpresa prima che avesse avuto il tempo di vestirsi. Gli chiedesti di Neera ma lui non seppe risponderti. La cercasti in lungo e in largo per la stanza. Anche in bagno ma non la trovasti da nessuna parte. Tornasti da lui e gli ripetesti la domanda, mentre il sospetto e il timore crescevano in te. Ma lui ti chiese «Di che cosa stai parlando? Che cosa sta succedendo?»
«Neera è sparita, l’hai vista?»
«No». Balbettò agitandosi leggermente dopo un po’.  
«Non hai la più pallida idea di dove sia andata?» Domandasti ancora.
«Che ne so? Io stavo dormendo, credo, l’ultima cosa che ricordo è il suo viso e poi…». Balbettò ancora, dopo qualche secondo. Poi ebbe un conato di vomito e barcollò in bagno. Vomitò anche l’anima mentre tu, sulla porta, cominciavi a figurarti un’idea dello svolgimento dei fatti. “No, per favore”, pensasti. Lui si girò a guardarti  con occhi meno annebbiati, non come quello di una persona che si sveglia dopo un pisolino, ma come se l’avessero drogato. Anche le sue pupille erano più grandi del normale. Ne avesti la conferma quando accendesti la luce e lui se li tappò con le mani dopo aver mandato un gridolino di dolore. Lo aiutasti a rialzarsi e poi lo riportasti in camera. Lo facesti sedere sul letto e gli domandasti. «Quanti anni hai?» Gli chiedesti per sicurezza.
Lui ci mise un po’ per elaborare la domanda. Alla fine ti rispose: «Boh?»
Imprecasti in dialetto cicladico. Accidenti.
Ti passasti le mani sulla faccia mentre i tuoi sospetti corrispondevano alla terribile realtà.
«Milo, Lancelot! Santa Atena!» Esclamò Shoko quando accese la luce e vide le condizioni del tuo parigrado e che mandò un altro lamento. «La luce, spegnila!» 
«Cos’è successo?» Chiese lei ignorandolo e avanzando dentro la stanza. Lui gemette di nuovo mentre tu girasti la testa per guardarla e spiegare che. «Neera deve aver usato il Calumet della Pace per tramortirlo». Era una tecnica del Silver Saint di Indus che aveva gli stessi effetti di un trip allucinogeno. Nonché la sorprendente capacità di ridurre peggio di uno straccio il malcapitato che ne veniva investito. Quella scema doveva averla usata per mandare il suo maestro in tilt e scappare. Ne avevi sentito parlare molto tempo fa ma non credevi che fosse tanto potente.
«Come mai non ce ne siamo accorti?» Chiese.
«Perché richiede pochissimo Cosmo ma gli effetti sono devastanti quanto quelli di una bomba di droga». Spiegasti tu mentre pensavi tra te e te: “Accidenti, questo è un guaio. E io che volevo chiedere alla Dea il permesso di mettermi sulle tracce di Astrid”.
«Neera… se la prendo la sfondo di colpi». Biasciò il poveraccio dagli occhi vitrei, a malapena cosciente. Ti alzasti e ordinasti alla Saintia di restare con lui mentre andavi ad avvisare la Divina.
La trovasti in corridoio che aspettava, preoccupata, in compagnia degli altri due Silver Saint. I quali avevano smesso le Sacre Vestigia d’Argento in favore di abiti civili.
 «Cosa succede?» Ti domandò lei spaventata.
«Neera è sparita e non si riesce a rintracciare neppure con il Cosmo». Rispondesti, che ci avevi provato a cercarla anche così.  
La Dea trattenne il fiato rumorosamente e si portò una mano alla bocca. Gli occhi sgranati.
Ti prostrasti in segno di umiliazione: «Mi dispiace, Divina Atena, non mi sono accorto di niente, è colpa della mia negligenza». Ma lei mormorò: «Non ditemi che è…»
«Purtroppo sì». Confermasti in tono secco. Quella cretina era andata a salvare Astrid.

Aiolia
Non l’avresti mai detto ad anima viva, ma il tradimento di Aiolos, anche se non era il vostro Aiolos, faceva ancora male. Al punto che a volte te lo sognavi ancora. Solo che sognavi Aiolos nella sua lucente Cloth del Sagittario che ti sorrideva e tendeva una mano verso di te come quando eri bambino: «Vieni, Aiolia».
Stavi per posare la mano sulla sua quando improvvisamente la sua faccia cambiò espressione e, repentinamente, quella stessa mano ti strangolava. «E tu credi davvero di poter combattere contro di me? Contro tuo fratello maggiore?» Ghignò mentre l’azzurro dei suoi occhi assumeva una sfumatura demoniaca.
Inevitabilmente ti eri appigliato a qualcosa per resistere. Il ricordo di Shura che si sacrificava per te, per evitare che il peso di un fratricidio ti gravasse sulle spalle mentre lui c’era abituato. Non avevi gradito quest’intromissione da parte sua, ma grazie a lui avevi potuto scoprire quanto fosse potente l’Antipapa. Di quello vero non c’era davvero più traccia. Avresti veramente voluto sapere dove si trovassero i suoi resti. Perché tutto quello che ti restava di lui erano il ricordo di Asgard e una lapide al cimitero. Eppure, se ripensavi ad Asgard, inevitabilmente il pensiero ti correva a Lythia: la coraggiosa rappresentante terrena di Odino che succedette a Hilda di Polaris. L’unica cosa bella che tu avessi incontrato in quelle lande. Le avevi lasciato il tuo medaglione. A dir la verità non ricordavi nemmeno più come fosse finito con te ad Asgard, dal momento che non rammentavi di averlo indossato. Forse era stato Lythos a metterlo sulla tua lapide e, in una qualche strana maniera era giunto fino a te nella morte. O forse eri talmente abituato a indossarlo da non sentirlo neanche più al tuo collo.
Avevi scoperto che pensare a Lyfia ti rasserenava. Lei ti aveva spronato ad andare avanti, vi aveva infuso la sua forza e quella dell’intera Asgard per abbattere Loki. E sapevi che lei ti amava. Stranamente l’idea di morire di nuovo, per quanta serenità ti mettesse, ti aveva aperto gli occhi. E avevi riconosciuto in lei proprio quel sentimento. Non avresti mai pensato che qualcuno potesse innamorarsi di te. Ma la voce che ti chiamò non fu della bella Asgardiana dal buffo foulard colorato.  
«Aiolia?» Alzasti la testa verso la porta e vedesti la tua sorellina, osservarti preoccupata. Una mano sulla porta e l’altra stretta all’altezza del petto. «Lythos».
«Stai bene?»
«Sì è passato».
Lei si rilassò. «Senti, fratello, sei stato convocato alla Casa di Atena, dicono che è urgente». Ti riferì poi.
«Va bene, il tempo di mettermi qualcosa addosso e vado». 
Una volta indossato qualcosa e pettinato i capelli avevi indossato la Sacra Armatura ed eri salito a sentire che cosa avessero di tanto urgente per svegliarti nel cuore della notte. La risposta era andare in Italia a recuperare la signorina av Stjernene. Poi il Patriarca ti aveva raccontato anche il resto. Fortunatamente un tizio con manie da piromane, capace di manovrare le Energie Calde, non passava facilmente inosservato. In un certo senso ti ricordò molto John Black e Three Mile Island, nel nocciolo del reattore. Il problema era proprio questo: Astrid, proprio come John Black, sarebbe stata capace di prendersi un altro colpo (stavolta decisamente più letale) del precedente.
Appena sentisti nominare la maestra di Seiya chiudesti gli occhi e pensasti: “Castalia, perché?” Che cominciasse a mostrare i primi segni della vecchiaia anche a livello cerebrale?
Già altre volte aveva avuto colpi di testa simili, come quando restò in Giappone ad addestrare le Saintia. All’epoca avevi pensato che fosse impazzita. Ovviamente non prima di aver ammazzato i suoi stessi parigrado per salvare Seiya (e lì però ammettevi di esserti ricreduto). Infine lo aiutò nella scalata alle Dodici Case mentre voi l’avreste lasciato crepare.
A tua discolpa potevi dire che eravate scesi a termine della battaglia a inchinarvi alla Dea e giurarle fedeltà. Ma questo ritrovato legame che si diceva esserci tra l’èlite e la Dea non si instaurò. Anche se voi ricordavate appena quella neonata che piovve dal cielo come una stella cadente ai piedi della statua, era passato troppo tempo perché anche lei rammentasse di voi. E, il fatto che il vostro legame con la Dea fosse così labile non vi consolava. Sentivate lo stesso di essere suoi alleati, ma non suoi sottoposti come Pegasus.  
In un certo senso, però, il cambio di fedeltà non ti aveva sconvolto come ti eri aspettato. Avevi accettato già da tempo che quella tredicenne vestita in quel modo improponibile fosse Atena.
Accettasti lo stesso la missione che il Gran Sacerdote ti affidò.
«E per i tre Silver Saint?» Domandasti.
«Temi forse per la Silver Saint dell’Aquila?» Chiese il Gran Sacerdote di rimando, guardandoti.
«Temo per i miei compagni». Rispondesti tu.
«Atena li ha messi sotto la sua protezione, il massimo che possiamo fare loro è metterli agli arresti domiciliari per un po’». Ribatté con voce incolore. Asseristi con il capo. Solo allora lasciasti la Tredicesima Casa. 

Arrivasti in Italia con il primo volo e, una volta sceso, avvisasti Milo di essere arrivato, poiché sapevi che da lì a poco sarebbero partiti con il jet privato per tornare in Grecia. Il tuo compagno, già online stava aspettando che tu gli mandassi un messaggio. Gli facesti direttamente un audio che visualizzò e ascoltò subito.  Poi ricambiò più rapidamente di quanto ci avevi messo tu. D’altronde era stato il primo di voi a imparare a usare questi aggeggi infernali. Anche se diceva che per imparare bisognava solo usarli.
Il telefono ti avvisò dell’arrivo dell’audio che ascoltasti con le cuffie mentre aspettavi che il nastro trasportatore facesse uscire il tuo bagaglio (ossia il Pandora-Box camuffato). Se qualcuno ti avesse fermato gli avresti mostrato la tua carta d’identità e li avresti avvisati di essere un collega di quello che aveva sventato l’attentato a Castel Sant’Angelo. Chiesero solo di visionare il tuo bagaglio e tu glielo lasciasti fare. Scoprirono così la cassa d’Oro e uno dei poliziotti domandò, sbigottito e vagamente intimorito: «Lei è uno dei Saint di Atena?»
Confermasti e gli passasti i documenti sicché avesse potuto verificarlo di persona. Chi l’avrebbe mai detto che le forze dell’ordine, dopo la Guerra con l’Altra Dimensione e con Zeus, avrebbero creduto subito ai vostri veri documenti? Avresti anche potuto dirlo a voce alta, tanto con il rumore che c’era, nessuno a parte i tuoi interlocutori, ti avrebbe udito.
Gli addetti alla security sollevarono le teste di scatto verso di te, sbigottiti. Dopodiché richiusero la cassa, ti restituirono i documenti e si profusero in ringraziamenti e domande cui tu rispondesti velocemente. «Scusate, ma sono in missione». Dicesti, ancora un po’ a disagio. Non eri abituato ad avere a che fare con i tuoi colleghi comuni e a rispondere a queste domande con la verità. Che alle orecchie delle persone normali poteva assicurarti un biglietto di sola andata per il manicomio.
Tuttavia loro si dimostrarono molto comprensivi: «Certo, certo, passate pure».
Ringraziasti con un cenno del capo, recuperasti il Pandora-Box e uscisti così dall’aeroporto e salisti su un taxi. Dicesti all’autista, che aveva pressappoco la tua età, di portarti a Roma. Anche se con il traffico e il tassametro, la tratta ti avrebbe spillato un bel po’di soldi.
Solo allora potesti ascoltare l’audio.
Schioccasti la lingua contro il palato. «Neera, accidenti a te». Mandasti un messaggio allo stupido artropode, chiedendo spiegazioni e questo ti rispose che non avevano previsto questo colpo di testa. “Perfetto, e adesso sono due”. Pensasti scocciato. Ma cosa credeva di fare quella cretina? Non era mica un film, questa era la vita reale! E lei non era per niente pronta per affrontare un tipo come Aurel. Chiedesti ulteriori spiegazioni sulla presenza di Lancelot e quell’idiota della sua allieva. Così scopristi che le tracce della pista che stavano seguendo li aveva condotti ad Asgard e poi in Italia, sulla stessa strada di Milo e gli altri. Di nuovo Asgard, perché? Ma non avesti il tempo di pensarci troppo che Milo ti mandò un altro messaggio. Assicurò che si sarebbero occupati loro di riportare i tre Silver al Santuario e che contavano tutti su di te.  “Non sottovalutarlo, non è come quello di Three Mile Island. Buona fortuna, Aiolia”. Ti augurò prima di andare offline. 
 
La strategia che adottasti fu semplice; conoscendo Astrid era possibile che avrebbe fatto arrabbiare il traditore, abbastanza da indurlo a usare il Cosmo. Al resto stavano pensando le squadre di ricerca tracciando il cellulare della ragazza. Sempre ammesso che le fosse rimasto in tasca.
Dal canto tuo preferivi attendere il Cosmo. Stavi sondandoli tutti proprio in questo momento. Se ne avessi trovato uno che parlava a vuoto, probabilmente avresti individuato anche lei. Perché era vero che non potevi individuare lei, ma potevi percepire i Cosmi di chi la circondava.
Se Neera era ancora viva, probabilmente stava lottando a sua volta per trarsi in salvo. E, se avevano un minimo di iniziativa, non se ne sarebbero rimaste con le mani in mano. Soprattutto Astrid. Quanto meno, queste erano le tue speranze.
Non dovesti attendere troppo a lungo, tempo quella sera avvertisti il Cosmo di Neera e ti dettero la posizione di Astrid. Avvisati gli uomini del Santuario di evacuare la zona e corresti dalle due. Arrivasti proprio nel momento in cui i preparativi furono ultimati. «Sono qui dentro?» Chiedesti al soldato più vicino, che, fucile in braccio, ti rispose affermativamente. Infine ti informò che avevano disattivato l’allarme. «Benissimo, adesso lasciate fare a me». Comandasti ai rinforzi mentre osservavi l’imponente cancello.
«Sì, nobile Aiolia».
Ossia a un cimitero monumentale. Solo allora aprirono i cancelli del cimitero per permetterti di entrare. Non ne avevi mai visto uno prima. I cimiteri monumentali sono i cimiteri degli eroi della patria. Coloro che hanno reso grande la nazione. Non ricordavi se avevate qualcosa di simile ad Atene, però non era il momento di pensarci. “Perché ha scelto proprio questo luogo?” Pensasti, perplesso, ma non t’interrogasti a lungo. Piuttosto era strano che ci fosse quella nebbia e che ci fosse tutto questo caldo. Eravate appena ad aprile, non era normale. “È frutto del suo Cosmo!” Pensasti stupito. Era così potente da far evaporare l’acqua dal terreno? Se credeva di impressionarti cascava male. Forse aveva creduto di poter avere gioco facile con l’artropode, ma tu non eri lui.
Perciò ti addentrasti nella nebbia senza paura.    
Trovasti Aurel seduto su una delle statue decorative del mausoleo. «Oh, non mi aspettavo che avrebbero mandato voi a occuparsi di me». Ti salutò.
Una goccia di sudore ti scivolò lungo la tempia, seguita da molte altre. Maledetto caldo sembrava di essere in pieno luglio. 
«Spero di non averti deluso troppo, allora». Replicasti provando un dejà-vu. Per un momento ti rivedesti di nuovo quindicenne e coi capelli tinti, in compagnia del negoziatore, mentre scendevate nel nocciolo. “Non si allontani troppo da me, signor Black, la mia barriera ci proteggerà entrambi dalle radiazioni”. Per un momento ti parve che l’uomo fosse di nuovo accanto a te. Ti salì alle labbra di fare la stessa raccomandazione, ma ti imponesti di restare concentrato. Stringesti le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Maledizione, questo caldo ti stava facendo barellare. 
Il traditore balzò giù dal mausoleo e ti venne incontro. Solo allora ti accorgesti che indossava il Bronze Cloth della Corona Australe. “Com’è possibile?” Pensasti stupefatto. Stando al rapporto di Milo lui non ne era insignito e… Ma certo. Astrid doveva aver ceduto. Tuttavia lui era pur sempre un Bronze Saint e non era detto che avesse risvegliato il Settimo Senso. Poteva darsi semplicemente che fosse molto abile. In ogni caso non sarebbe mai riuscito a competere con te. Eppure ti sembrò parecchio impaziente. «Aurel; perché questo posto così pittoresco?» Domandasti frugando rapidamente nella tua memoria. Poteva aver percepito il tuo Cosmo, quando combattevate contro il Gran Dio Zeus, ma non poteva aver mai visto te e le tue tecniche. Quindi potevi giocartela come a Three Mile Island. E stavolta nessuno sarebbe morto per te. «Perché pensavo non ci fosse zona migliore per seppellire un morto».
«Cosa ne hai fatto delle ragazze?» Domandasti.
«Stanno bene, non temete».
«Dunque anche Neera si è fatta catturare?» Indagasti, anche se qualcosa ti diceva che probabilmente se le era fatte scappare. Se erano qui dentro le avresti trovate di sicuro.
«Se vi riferite a quella tronfia aspirante Saint, allora sì. Con sorprendente facilità, anche se ammetto di essermi trovato in difficoltà, inizialmente. Ma non è portata per gli scontri di lunga durata».
Spiegò.
«É stata la Dea?» Chiedesti squadrandolo dalla testa ai piedi. Lui disse di no come supponevi. «Astrid?» Chiedesti allora assottigliando ancor più lo sguardo. Davvero era tanto potente? Se era così questo era un grosso problema. «Ah, è così che si chiama? Sì, è stata lei». Gli ripetesti di indicargli il luogo di reclusione delle giovani ma ancora una volta lui non volle rivelartelo, tuttavia si offrì di accompagnarvi da loro. Gli occhi brillanti lanciarono un scintillio. Era una trappola, la fiutavi lontano un chilometro e questo significava che anche i tuoi sospetti erano fondati. Probabilmente anche questa nebbia era opera sua per riuscire a catturarle. Se a te appena dava fastidio e lui sembrava parecchio scocciato, evidentemente stava bruciando parecchio Cosmo per cercarle. Ma non potevano essere uscite, te ne saresti accorto. Dovevano essersi nascoste per forza.
«Sarebbe una buona idea». Rispondesti decidendo di dargli corda.
«Perfetto, ma non vi renderò le cose facili». Promise con un sorriso sinistro prima di urlare: 
«Labirinto di Calore!»
«Lightning Bolt!» Ricambiasti rapidamente, ma scopristi che quella con cui avevi parlato finora era solo un’illusione. La voce del tuo avversario risuonò in tutto il cimitero. E, improvvisamente, attorno a te cominciò a formarsi della nebbia e del vapore che salì dai tuoi piedi e che avvolse in ogni cosa. Accidenti, questo non ci voleva. Tu soffrivi il caldo da morire.
Mentre ti guardavi attorno sentisti la risata del nemico: «Trovami Cavaliere se ti riesce di sopravvivere, il mio labirinto è… bè, lo scoprirete da solo». Sghignazzò malefico, dopodiché anche la sua voce scomparve.
La nebbia s’addensò a tal punto che divenne della stessa consistenza del vapore, assumendo un colorito quasi argenteo sotto i raggi lunari.
Improvvisamente respirasti un odore strano che ti fece sgranare gli occhi e guardarti intorno. Riconoscesti il profumo del meltémi. Quel vento in Italia? Com’era possibile? Poi cominciasti a sentire delle voci femminili e lo spazio attorno a te cominciò a distorcersi e a mutare. Chinasti il capo e sorridesti tra te e te estraendo i pugni dalle tasche. Dunque questa era la tecnica di Aurel? Non pensasti cose come: che tecnica patetica. Non era nelle tue corde. Preferivi piuttosto pensare che con un Gold Saint non avrebbe avuto speranze. Avevi sempre avuto grande stima per i vostri sottoposti e per gli avversari ma per un rapitore non riuscivi a trovarla. Ti bastò espandere il tuo Cosmo solo un momento per dissipare quella nebbia. Per quanto riguardava le sue proprietà, tu eri pur sempre un Gold Saint addestrato a sopravvivere e a lottare alle condizioni più estreme. Sicuramente per questa nebbia non c’era neanche bisogno di creare una barriera.
E poi se pensava che farti fare la sauna sarebbe servito a qualcosa, si sbagliava. Odiavi sudare e odiavi il caldo, ma tutto passava in secondo piano se dovevi svolgere una missione.
Riprendesti la tua marcia mentre l’arsura rimasta diminuiva in modo esponenziale. Al resto avrebbero pensato sicuramente le Creature.
Ti guardasti attorno e sollevasti lo sguardo. A proposito delle Creature, perché non si erano ancora fatte vive? Eppure con tutto il Cosmo che era stato liberato avrebbero dovuto essere già qui da un pezzo. Meglio così, si ampliava il margine temporale che ti eri concesso per agire. Era anche più comodo.
Ti accorgesti di un particolare: ma tu non eri già passato accanto a questa tomba? No, non era possibile, eppure, o stavi impazzendo oppure era la sesta volta che leggevi quel nome. Ed era la sesta volta che imboccavi la strada sbagliata.
Perché il caldo poi aumentava sempre di più ogni volta che ci tornavi davanti? Era come passare davanti a un forno. Neanche in Giappone avevi mai provato una sensazione simile. E poi, non lo sentivi solo sulla pelle. Lo sentivi anche nel Cosmo. E capisti. Il labirinto! Ecco cosa intendeva!
Ma c’è sempre un modo per sfuggire ai labirinti, ed è distruggerli. Se la fonte del Cosmo era lì, allora per uscire, non dovevi fare altro che distruggerla. E ti sarebbe bastato un dito per farlo. Perciò, stavolta ti avvicinasti alla lapide e la toccasti. L’illusione andò immediatamente in pezzi e ti ritrovasti in una nuova corsia di tombe.
Per tua fortuna erano tutte disposte a griglia, perciò non fu così difficile per te, guardarti intorno e ricominciare a girare, cercando di individuare il Cosmo di Neera. Ammesso e non concesso che fossero ancora vive. Certo che lo erano. L’istinto ti diceva che lo erano. Dovevi solo raggiungerle.
Ma la stessa tecnica non funziona mai due volte su un Saint. Perciò, stavolta, decidesti di cercare subito eventuali fonti di calore. E lo trovasti alzando lo sguardo sulla Luna. Spiccasti un balzo e la distruggesti sempre con un dito.
Solo per ritrovarti davanti una Creatura a mani tese verso di te. A salvarti dalle sue grinfie fu la forza di gravità. Atterrasti di nuovo nel cimitero e sollevasti la testa: le Creature! Stavano già calando in picchiata verso di te. Oh, no!
Solo allora comprendesti: era stata tutta una trappola! Aveva rubato il cellulare ad Astrid e ti aveva fatto credere che fossero qui. Altro che recuperarle, non c’erano mai state. Se già quella volta avevi avuto paura, questa volta nessun Mur o Kiki sarebbe accorso a salvarti. Le Creature scivolarono verso di te incendiando ogni cosa. Provasti a combattere. Chiamasti a te la Cloth e la indossasti. Se proprio dovevi morire, allora saresti morto da guerriero. Anche se sapevi già che i tuoi colpi gli sarebbero passati attraverso. Non era da te morire con le mani in mano.
Questa per te era la resa dei conti. «Avanti, venite pure». Le invitasti sottovoce, mentre il cuore ti batteva rapidamente in petto per la paura e alte fiamme si levavano dalle tombe da loro sfiorate. Il cielo sopra di voi cominciò ad assumere colorazioni rossastre. Poi con un urlo belluino ti lanciasti contro di loro caricando il Lightning Bolt. L’impatto fu più doloroso di ogni altra cosa mai provata prima. Era come essere bruciati vivi e restare coscienti mentre ogni parte del tuo corpo andava squagliandosi. La paura e il dolore furono talmente forti da cancellare qualsiasi altro pensiero. L’ultima cosa che vedesti prima di morire, fu il volto di Lythia.

La prima cosa che vedesti quando riapristi gli occhi fu il buio. “Sono vivo?” Ti domandasti. Ma dentro di te non riuscivi a sentire il tuo battito cardiaco. La realtà ti si abbatté tutta quanta sulle spalle, ma non era la prima volta che morivi. Avresti dovuto esserci abituato, eppure…
“No, io sono morto”. Ed eri solo. No, non lo eri. Percepivi la presenza di qualcuno con te. Ti voltasti e vedesti la celebrante di Odino ritta in piedi a pochi metri di distanza. «Aiolia». Ti sorrise. Poi ti tese la mano.
«Lythia?» Domandasti confuso. Sentivi le tue membra leggere come non lo erano mai state. Se in quel momento avesse spirato una lieve brezza ti avrebbe portato via. La guardasti meglio; era proprio lei. «Lythia!» Esclamasti riconoscendola e ti alzasti in piedi.  
La donna arretrò come se qualcuno l’avesse sollevata per i fianchi e la stesse allontanando.  «No, Lythia!»
Ti alzasti di colpo e scattasti verso di lei, allungando la mano. Non sapevi perché lo stavi facendo e non t’importava, ma era lì e non avresti lasciato che venisse portata via. L’avevi già vista scomparire una volta, non avresti permesso che morisse una seconda.
Stavi quasi per raggiungere quella mano quando un’altra voce più chiara e potente ti richiamò e alle tue spalle esplose una fulgida luce dorata. Vi fermaste entrambi di colpo. Per lo spavento ritraesti la mano mentre Lythia si riparò la faccia dalla luce accecante con un gemito di dolore. Girasti la testa alle tue spalle e, socchiudendo gli occhi, vedesti un immenso sole bianco dai raggi giallo dorati. “Che cos’è?” Pensasti spaventato. Non avevi mai visto prima una cosa simile. Poi i raggi del sole si riunirono tutti su di te, separandoti dalla ragazza. Ti scagliasti contro la luce ma non riuscisti a oltrepassarla. Soltanto le tue braccia potevano passarci attraverso. E potevi toccare quei fiotti come sbarre. Era una prigione di luce.
«Lythia!»
«Aiolia!» Esclamò a sua volta.  
«Aiolia!» Ti chiamò la voce femminile spaventata del sole. Chi era? Di chi era quella voce? Era una donna, ma chi? Non ricordavi e non ti fidavi. «Ti prego, torna con noi». T’implorò lacrimosa e spaventata. «Ti prego, Aiolia!»
«Aiolia». Ti chiamò la voce di Lythia dall’altra parte. La guardasti e la vedesti guardarti angosciata mentre si dissolveva. «Lythia! Aspetta. Lythia!» Tendesti di nuovo la mano verso di lei e vedesti risplendere sulla medesima una stella dello stesso colore del sole che ti illuminava sempre di più, cancellando tutto il resto.
Che ti stava succedendo? Ti guardasti e scopristi che altre stelle risplendevano sul tuo corpo scaldandolo e dandogli nuova forza. Che cos’era questa cosa? Le tue seimei ten? Perché si erano illuminate? Poi le sbarre della prigione di luce si richiusero su di te e diventasti un tutt’uno con il sole. 
Poi scomparve, lasciandoti nel buio più totale. Con la consapevolezza di avere il capo poggiato su qualcosa di morbido e le dita sfiorare qualcosa di freddo. Mentre altro, ti sfiorava e inumidiva la fronte, le guance e il collo. L’aria entrava dalle tue narici solleticandoti i polmoni. Ma era come se fossi ancora scollegato da te stesso. Il Cosmo di nuovo dentro di te e il tuo cuore pulsante. Eri vivo? Com’era possibile? Stavi sognando?
«Non si sveglia; siamo arrivate tardi». Mormorò una voce dispiaciuta.
Sentisti qualcuno inginocchiarsi alla tua destra e ribattere, determinata: «No, non può essere, non è così». La riconoscesti, era la stessa che ti aveva strappato dal buio. Astrid!
Solo allora il tuo corpo reagì e cominciasti a tossire. Ti girasti sul fianco e apristi gli occhi portandoti le mani alla bocca. «Aiolia!» Esclamarono le due, sollevate. Smettesti di tossire e battesti le palpebre per guardarti intorno: eri di nuovo nel cimitero, le fiamme che divampavano attorno a voi e l’aria piena di cenere, eppure erano tenute a bada da un Cosmo argenteo. Cosa era questo?
Le guardasti da sopra una spalla e poi ti girasti completamente verso di loro. Astrid aveva le mani alla bocca e il volto rigato di lacrime. Sembrava che stesse ringraziando che tu fossi vivo. Aggrottasti le sopracciglia confuso nel vedere il leggero bagliore argenteo sui contorni di Astrid. Poi ti gettò le braccia al collo per un breve abbraccio e tu ci restasti di stucco per questo gesto. «Credevo di aver agito troppo tardi!» Ti disse felice quando si separò da te e tu ricordasti. Le Creature! Ti avevano ucciso, tu eri morto e lei… La guardasti incredulo e addolcisti lo sguardo. Ti aveva salvato la vita. Era stata molto coraggiosa.
«Signor Aiolia, ci riconoscete?» Tentò timidamente la mora.
«Sì, vi riconosco». Le rassicurasti. Le guardasti entrambe: «Vi stavo cercando. Come avete fatto a scappare?» Chiedesti, lieto e sollevate di averle trovate.  
«Abbiamo fatto gioco di squadra». Iniziò Neera dopo aver buttato fuori tutta la sua frustrazione con un respiro profondo. Dal tono sembrò più che quelle parole le fossero state strappate a forza, invece che uscite di loro spontanea volontà.  «Quando sono stata catturata, mi ha legato e gettata dove, nel mausoleo? Stanzino? Ah, è uguale, con Astrid, lui ha detto che si sarebbe occupato di me più tardi. Invece ha detto ad Astrid di stare buona, che ci avrebbe pensato dopo. Quando ci ha lasciato sole lei mi ha accusato; diceva che era per colpa mia se si trovava di nuovo qui, io ho ribattuto. Per farla breve abbiamo litigato ma abbiamo capito che litigare non ci avrebbe portato a niente. Allora, con un trucco sono riuscita a spezzare i legacci. Ho liberato lei e abbiamo buttato giù un piano. Abbiamo richiamato l’attenzione di Aurel».
Astrid la interruppe: «L’abbiamo accecato e siamo scappate. Ci siamo messe a cercare insieme una via d’uscita ma si è ripreso e ha creato questa nebbia mefitica. Allora ci siamo nascoste, ma poi Neera ha sentito il vostri Cosmi. Aurel era quello più vicino ed era infuriato, così siamo tornate indietro e ti abbiamo trovato proprio mentre le Creature stavano arrivando. Sapevamo che se fossi intervenuta subito avremmo rivelato la nostra posizione, ma non potevo permettere che ti ammazzassero. Per questo le ho richiamate e le ho mandate da Aurel. Adesso lo stanno tenendo impegnato. Che facciamo, Aiolia?» Finì, angosciata.
«Aurel non è un avversario da sottovalutare, probabilmente deve aver già trovato il modo per sfuggirgli». Aggiunse la Sacerdotessa Guerriero, preoccupata. L’unica cosa che vi stava salvando erano proprio le Creature. 
«Sconfiggo Aurel e ce ne andiamo, restate con me, intesi?» Le due annuirono, anche se Astrid non ti parve molto convinta: «Non mi pare una mossa intelligente». Commentò e tu le lanciasti un’occhiataccia. «Va bene, nobile Aiolia». Replicò l’allieva di Lancelot in tono conciliante, troncando sul nascere la polemica dell’altra.
Vi rialzaste e creasti una barriera protettiva con cui avvolgesti le due ragazze e ti raccomandasti di starle vicino: «Finché starete dentro la barriera non sentirete il caldo e le fiamme non vi toccheranno».
Neera si rivolse ad Astrid: «Non puoi usare le Creature per aprirci una strada?»
«No, incendiano tutto quello che toccano».
«Allora useremo la tua». Dichiarasti rivolgendoti alla Sacerdotessa Guerriero, mentre le lingue di fuoco danzavano attorno a voi. «Siete sicuro? Io ho solo una tecnica capace di aprirci una via, ed è quella del Tomahawk! Per di più non la padroneggio neppure così bene! Non ho la forza per spegnere un incendio!»
«Ma per aprire una via sì, puoi farcela, Neera.» la incoraggiasti, ma pregasti che facesse presto, mentre Astrid si aggrappava al tuo braccio. I suoi occhi lacrimavano a causa del fumo e tossiva a più riprese. Neera, grazie ai filtri della maschera non aveva questi problemi. Mentre tu resistevi.
Sorreggesti la più debole stringendola di lato, vedendo che stava anche cominciando a perdere i sensi. «Vai, Neera».
La Sacerdotessa-Guerriero ti guardò e fece un cenno affermativo con il capo. Successivamente si mise in posizione e concentrò il Cosmo. Portò le mani in alto e poi, quando le fiamme furono a pochi centimetri da voi, lanciò il proprio attacco che fendette in due le fiamme, aprendo un corridoio. Stringesti a te la ragazza e sfrecciaste via da lì.
Stavate correndo verso l’uscita quando sentiste urlare: «Impatto di ghiaccio!» E una specie di Diamond Dust vi colpì. Proteggesti Astrid e Neera dall’impatto, e quando cessò vedeste delle fiamme dai contorni azzurrini tutte attorno a voi avvicinarsi.
«Ci carica!» Urlò Neera e sentiste arrivarvi addosso una pioggia di stalattiti di Cosmo.
«Le Creature! Dove sono le Creature?» Urlasti tu mentre scappavate via. Le fiamme si congelavano fino a diventare statue di ghiaccio. Come se avesse richiamato il gelo dell’inverno.
«Le ho mandate via!» Urlò Astrid prima che una bolla di calore si allargasse tra di voi e la inglobasse nell’espandersi. La ragazza strillò spaventata.
«Astrid!» Urlaste te e Neera mentre la bolla con la sua prigioniera si allontanava e si posava accanto a un affumicato e fuori di sé Aurel. «Aurel!» Esclamaste mentre la ragazza batteva i pugni contro la bolla nel tentativo di infrangerla.    
Attaccasti senza pensarci due volte mentre Neera tagliava in due la bolla con il Tomahawk e soccorreva Astrid. Ma il suo rapitore era talmente concentrato su di te che neanche se ne accorse. Il vostro scontro passò presto sul piano fisico e ti ritrovasti in una prova di forza con lui. Che ti sorrise beffardo sporgendo la testa verso di te: «Non puoi farmi niente, Leone! Finché io continuerò a non darti requie sono protetto!» Esclamò trionfante prima di respingerti definitivamente con una forza che non ti saresti mai aspettato. Fosti scagliato lontano, come se tu non avessi peso alcuno e sfondasti una parete. Battesti la testa e qualcosa accanto a te cadde per terra con fragore di legno e plastica.
Ti massaggiasti la nuca mentre mettevi a fuoco lo stanzino e lo squarcio che avevi prodotto. Aurel che si avvicinava ridendo. Adesso capivi come mai l’avevano espulso: era una furia cieca. 
Gemesti di dolore e cercasti di combattere lo svenimento causato dall’impatto contro la parete. Il tuo elmo purtroppo non ti proteggeva la nuca.  Dovevi reagire prima che fosse troppo tardi, nonostante il dolore. Ti rialzasti soffiando tra i denti e, proprio allora, un’ombra ti ostruì la visuale. Sollevasti la testa e riconoscesti i capelli della figura accovacciata davanti a te.  Le punta delle dita poggiate sul pavimento polveroso e pieno di calcinacci. «Astrid! Cosa fai?» Esclamasti spaventato.
Aurel che avanzava minaccioso.
«Vediamo se mi ricordo come si fa». Rispose rialzandosi e sollevando una pala di modo che la lama puntasse verso l’alto e il manico verso il basso. Solo allora ti accorgesti che aveva raccolto una pala da terra.
Aurel si fermò e dopo averla fissato stupito per qualche secondo, la schernì: «Cosa credi di fare?» Intanto che lei si girava di lato, la lama rivolta verso l’alto, la presa completamente diversa da quella che ti eri aspettato. Cosa?
Si mise in guardia come se avesse tutto un altro genere di arma in mano. Il piede destro puntato verso l’avversario e il sinistro come base d’appoggio. Poi attaccò con un colpo verticale dall’alto verso il basso. Il Saint sgranò gli occhi e la guardò divertito, però parò il colpo con facilità con un braccio. Astrid non si dette per vinta e, ritentò. Stavolta, dopo tre mosse, riuscì a dargli un colpo di taglio sotto l’ascella con il manico. Il nemico strillò per la sorpresa e il dolore.
Incoraggiata, la giovane continuò con un colpo al fianco ma Aurel scansò la pala con l’altra mano e le mollò un pugno in faccia. Il rumore delle ossa rotte lo sentiste anche voi.
«Astrid!» Esclamaste in coro mentre lei urlava e piangeva per il dolore ricadendo sulla schiena. La ragazza si rialzò tremante sui gomiti e si portò una mano al volto. Non ebbe neanche il tempo di cadere a terra che l’uomo la colpì ripetutamente, ridendo come un pazzo: «Per te non serve nemmeno la velocità del suono!» La schernì, prima di darle una pedata che la fece volare oltre te. mandandola a schiantarsi contro la parete di cemento. La ragazza batté la testa e cadde a terra, da dove non si rialzò.  
«Astrid!» Scattasti girandoti carponi verso di lei mentre l’altro sogghignava: «Ma cosa credeva di fare, quella?» Digrignasti i denti per la rabbia, che divampò all’altezza del petto come un fuoco. Ti  girasti di nuovo, incrociando i foschi, malefici occhi del vostro avversario. Sguardo che ricambiasti con il tuo più feroce, mentre ti rialzavi e ti ponevi di fronte a Neera per proteggerla.
Non esisteva che ti saresti fatto sconfiggere così facilmente. Soprattutto da un rinnegato.
«Bene bene, ti sei ripreso». Rilevò in tono di sadico scherno l’altro scroccandosi le dita.
Stavi per scagliare il Lightning Fang, quando sentisti la voce della ragazza risuonare forte e chiara: «Fatti da parte, Aiolia!» Era di nuovo in piedi e illesa, anche se la faccia era sporca di sangue e gli occhi gialli risplendevano di lacrime di dolore. La pala ancora in mano. Allargasti ancor più gli occhi e ti uscì un «Astrid?» Che suonò più come un’esclamazione.
«Ma non ti avevo spaccato la faccia?»
«Posso rigenerarmi all’infinito, se necessario. Perciò fatti da parte, Aiolia». Comandò sbalordendoti. A parte il tono che ti offese, adesso capisti come mai si era messa in testa di volerlo affrontare lei stessa. Il suo sguardo però sembrava diverso, più altero e sicuro, era lo sguardo di colei che per poco non ti prese a bastonate.
Il traditore sghignazzò divertito e tu lo guardasti. Si teneva la pancia dal gran ridere: «Davvero? Mi dispiace tanto per te, il tuo tormento sarà eterno, dal momento che questa tua pseudo immortalità non ti permette di morire». 
«Già, ma prima o poi ti stancherai di colpirmi».
«Può darsi, però tu ti stancherai molto prima». Ciò detto si lanciò addosso a lei alla velocità mach uno e la colpì di nuovo, proprio mentre lei stava mettendosi in posizione.
Incapace di sopportare oltre questo pestaggio gratuito, corresti in suo soccorso, ma la mano di Neera ti fermò serrandoti sul tuo polso. La guardasti e la vedesti indicarti la scena dicendo: «Aspettate guardate!»
Astrid aumentò la propria velocità. Per ogni due colpi ricevuti, colpiva di rimando (spesso mancando il bersaglio) o combatteva con più forza e foga di prima (parando o almeno provandoci). Tentò alla testa ma lui schivò e ricambiò con un colpo di taglio alla gola, che non giunse perché lei lo colpì allo stomaco, passando nello spazio lasciato tra le sue braccia mentre si spostava. Non senza conseguenze, visto che riuscì lo stesso a ferirla. Sebbene accecata dal dolore, riuscì a trovare la prontezza di riflessi per scostarsi mentre l’uomo distruggeva una tomba con un pugno, facendola cadere a terra nel tentativo di saltare via. Approfittando di quella posizione e del fatto che non si fosse ancora girato strinse i denti, gli dette una bastonata tra le rotule facendolo cadere a terra.
Non poteva sostenere uno scontro come questo.
«Smettila, Astrid!» Urlasti, ma la ragazza non ti ascoltò, continuando a subire e rigenerarsi.  
L’uomo si rialzò e si avventò contro di lei, la quale gli gettò addosso una candela con la speranza che la cera calda lo accecasse. Ma un po’di cera non vi faceva niente. Infatti l’uomo se la tolse di dosso con una mano e berciò: «Piantala, o mi vedrò costretto a ridurti in fin di vita». 
Accanto a te vedesti Neera in ginocchio strepitare parole come: «Occhi!», «Polsi!», «Petto!», «Rotula!», «Ascella!», «Piede!», «Polpacci!» E Astrid cercare di seguire quei suggerimenti. Peccato che il suo avversario non fosse sordo, non fosse scemo e fosse più rapido. Perciò lei riusciva a beccarne giusto mezzo su tre. Adesso Aurel non sorrideva più e si stava visibilmente stufando di quella mosca insistente. «Mi stai stancando, ragazzina!» Sbraitò.
«Te l’avevo promesso, no?» Ribatté la ferita tra un ansito e l’altro, il sangue sulla sua faccia che andava seccandosi e i vestiti rovinati. Poi si beccò una ciaffata che la buttò a terra.
Girasti la testa verso di Neera e le ordinasti di tacere con urgenza nella voce. L’aspirante Sacerdotessa volse il volto mascherato verso di te e protestò: «Ma se non lo faccio non saprà dove colpire!» Protestò.
«Però se lo fai dici a lui dove parare!» Spiegasti e lei tacque trattenendo il fiato rumorosamente: non ci aveva pensato. 
La civile si rialzò piano per l’ennesima volta, tremante per l’adrenalina e il dolore. Si girò verso di lui, sudata, sporca, ferita, ma comunque decisa a non mollare. Aurel la guardò con compassione. Quasi sembrò una preghiera quella che uscì dalla sua bocca, quando le disse; «Non voglio ucciderti».
«E io non mi arrendo». Ribatté lei, ancora determinata, inginocchiandosi.
«Mi costringi a fare sul serio».  L’avvisò l’altro, chinando il capo mentre lei distendeva la schiena.     
Fece un respiro profondo e raddrizzò la pala. Con un fluido movimento diagonale dal basso puntò la lama verso il petto dell’avversario.
Sgranasti gli occhi per la sorpresa. Non c’erano dubbi, quelle mosse, quella posa erano identiche a quelle dei lottatori cui assistesti tre anni fa prima che iniziasse la guerra contro Zeus.
Che diavolo era successo? Cioè, lei si era ridotta a quel modo per combattere? Un momento, quel movimento... Non poteva essere. Come lo conosceva? Chi le aveva insegnato e perché non l’aveva usato prima?
L’uomo, per nulla impressionato, cercò di afferrarle la testa, ma lei spostò immediatamente la presa sulla pala, arrivando a tenere soltanto la parte metallica e con essa si fece scudo, anche se servì a poco dal momento che il metallo si riempì di crepe. Eppure, anche se così costretta mosse un’altra volta il bastone e lo abbatté al lato della rotula dell’altro. Che fece perno sull’altra, si mantenne in piedi e si lanciò all’attacco, mentre Astrid assumeva una posizione di supplice. Il bastone adagiato accanto a sé.
L’uomo stava per sovrastarla e colpirla. Lei si alzò di poco, lo afferrò per il collo e, con il bastone lo colpì sotto l’ombelico e sfruttò il suo slancio per alzarlo e schiantarselo alle spalle. Poi tornò a inginocchiarsi. Piroettò su sé stessa e puntò la lama al pomo d’Adamo del nemico che si ritrovò a fissare il cielo. Ma proprio allora lei ebbe un momento di esitazione. Lui ne approfittò. Scostò la lama, si rialzò con un balzo e tornò all’attacco.
La ragazza si passò il bastone dietro la schiena con un abile manovra, impedendogli di colpirla. Lo  riportò davanti a sé, finendo per colpirlo di nuovo al fianco e tutte le parti scoperte con una combinazione di colpi. Facendolo piegare in due dalla sofferenza.
Peccato che con l’ultimo colpo ci mise troppa forza e il manico della pala, ormai ridotta in pezzi, non resse oltre. La giovane si ritrovò così con un moncone di bastone in mano e una situazione ancora più critica della precedente.
A quel punto la situazione si capovolse. Ormai stanco di giocare, concentrò il Cosmo in un pugno e la mandò a sbattere contro un sepolcro, strappandole un ululato di dolore. 
Intervenisti repentinamente. Afferrasti il pazzo per una spalla e glielo strappasti di dosso gettandolo via come se non pesasse niente. Ma l’uomo con una capriola si rialzò e dichiarò, dopo essersi terso il sangue da un angolo della bocca: «Adesso vi mostrerò qual è il vero potere della Costellazione di Corona Australis!» Improvvisamente il Cosmo di Aurel s’accrebbe a dismisura come l’attacco con cui Shun sconfisse Aphrodite molto tempo prima. Mentre lottavi per non perdere conoscenza sentisti la sua risata di trionfo. Quando ti vide rialzarti e stringere i pugni nonostante le ferite, ti lanciò uno sguardo compassionevole e ti domandò, con finta benevolenza: «Ancora in piedi? Non ti stanchi mai di combattere?»
«Sono un Cavaliere d’Oro con i piedi ben piantati al suolo e, fintanto che li avrò, niente potrà farmi cadere».
«Allora vediamo di schiodarteli da terra». Poi ti si lanciò addosso.   
Sentisti Neera mugolare di dolore mentre si rialzava. Era forte, pure troppo. “Aspetta!” Pensò Astrid e tu la udisti. “Forse posso aiutarti”.
Ti accigliasti. “Come?” Proprio mentre Aurel stava per sferrare il colpo di grazia, la ragazza gridò: «Fermo, perché lo fai?»  E l’avversario si distrasse. Ecco la tua opportunità. Che orrore, era un vero e proprio insulto alla cavalleria. No, non avresti mai accettato questa mano. Era troppo vile. «Per il potere! Mi sembra ovvio!» Ribatté l’altro. Astrid si accorse che non avevi fatto nulla e tergiversò: «E io che cosa c’entro?»
«C’entri perché hai il potere di rendermi ancora più forte. Il Cosmo e la magia sono due forze diverse ma capaci di fronteggiarsi. Se apprendessi i suoi segreti potrei anche arrivare a superare i Gold. Per questo non voglio farti niente».
Lei lo fissò allibita. Poi sbottò, inferocita: «E tu hai fatto tutto questo casino solo perché volevi che io ti insegnassi a usare la magia? Brutto coglione! Ma io ti distruggo, brutto pezzo di merda!» Allora fece leva sui suoi poteri e lo privò della Sacra Vestigia. La Cloth si trasformò in una piccola luce che andò a depositarsi sulla sua mano e riassunse l’aspetto di una gemma. Subito il potere di Aurel calò drasticamente e Astrid dichiarò, schifata: «É tutto tuo, Aiolia!»
«Come osi?» Stavolta lo colpisti veramente con il Lightning Bolt e, quando anche l’ultimo fulmine scomparve, di Aurel non restò più alcuna traccia.
Solo allora ti lasciasti cadere in ginocchio e le due ragazze poterono rilassarsi per davvero. Adesso era tutto finito. «Mi dispiace di avervi fatto attendere tanto». Ti scusasti, girando la testa verso Astrid, che annuì alla maniera greca: «No, semmai scusa me per averti ostacolato, se avessi saputo che potevi stenderlo subito non l’avrei fatto». Forse c’era un po’del John Black in lei, perché alla fin fine aveva solo voluto difenderti.
«Guardate, il labirinto!» Esclamò Neera. Il labirinto creato dal Cosmo di Aurel stava scomparendo e con esso anche il caldo. Eravate a una sessantina di metri da uno dei cancelli.
Faceste solo venti metri quando Astrid gemette. Vi giraste e vedeste il traditore, affumicato e ferito trarla a sé tenendola per i capelli. Una mano luccicante di giallo posta di taglio sulla carotide di lei: «Fermo! Non un passo o le stacco la testa. Se credevate che bastasse così poco per sconfiggere il padrone delle Energie Calde vi sbagliavate».
«Ma tu non eri morto?» Sbottò la Sacerdotessa-Guerriero esasperata al tuo fianco.
L’altro sorrise e sghignazzò di nuovo, tu digrignasti i denti. Stavi per soccorrerla quando l’espressione della prigioniera cambiò: si aprì in un sorriso malevolo e cominciò a ridacchiare. Neppure i colpi di tosse riuscirono a smorzare il brivido di terrore che vi corse lungo la schiena. Quella risata aveva qualcosa di sbagliato. Profondamente sbagliato.
Astrid si rivolse al suo aggressore che la guardava stranito. «Io non lo farei se fossi in te; hai presente le Creature che si nutrono di Cosmo? Se mi strappi un grido, uno soltanto, loro accorreranno da me. E sai qual è la cosa più bella? Sono proprio qui, dietro di te». Ed era vero, sostanzialmente era per questo motivo che finora avevi esitato. Il vostro margine d’azione era esaurito.
«Che cosa?»
Proprio allora sentisti il refolo gelato che accompagnava sempre l’arrivo infuocato delle Creature.
Non avresti mai pensato che quegli esseri potessero rivelarsi provvidenziali. L’uomo arretrò girandosi a destra e a sinistra nel tentativo di fronteggiarli: «Indietro! State indietro!»  Minacciò, ma le Creature non lo ascoltarono. «E mollami!» Protestò la bionda fulminandolo con gli occhi per quanto poté. Gli appioppò una poderosa mazzata sotto la cintura che gli fece allentare la presa. Una volta libera si allontanò rapidamente e si girò, dandoti le spalle. Sollevò l’indice contro di lui e le Creature le sfilarono rapidamente accanto, riducendolo in cenere. Solo allora sciamarono via.
Guardasti scioccato la ventunenne che tossì un paio di volte prima di svenire. L’afferrasti appena prima che battesse la testa e la depositasti su una panchina, mentre i vostri si sarebbero occupati di ripulire tutto. Né tu né Neera parlaste mentre attendevate l’arrivo del dottore o che Astrid si riprendesse prima.
Mentre vegliavate su di lei, la ragazza tossì e si svegliò. Neera, che era andata a prendere un po’d’acqua da una fontanella, le passò una bottiglietta. Astrid bevve avidamente e tu le domandasti come si sentisse.  
«Cosa è successo, prima? Perché ho perso i sensi?» Domandò quando smise di bere.
«Non lo so, non sono un medico, ma non ti preoccupare, adesso starai bene». Le assicurasti. Non ti andava di pensare alle possibilità soprannaturali del repentino cambio di comportamento che aveva mostrato. Ti dicevi che era normale per lei, che l’avevi già vista agire così, sì, ma era la prima volta che avevi avuto tanta paura.  Lei abbozzò un sorriso poco convinto, poi si mise la mano in tasca. Proprio allora sussultò e cominciò a frugarle spasmodicamente alla ricerca di qualcosa. Si tolse il telefono miracolosamente illeso, il portafogli e i fazzoletti, ma l’ansia non le passò. Che cosa stava succedendo? «Le mie carte. Dove sono le mie carte?»
Vi guardò in cerca d’aiuto ma voi due non ne avevate idea. «Non ce le avevi tu?» Domandò Neera.
«No, io…» sussultò e volse la testa di scatto verso il rogo del cimitero. Le sirene dei pompieri cominciavano già a sentirsi. 
«No…» Sussurrò spaventata. I suoi occhi diedero un lampo. Si alzò, continuando a ripetere a voce sempre più alta «No, no, no» e principiò a correre verso il rogo. «Le mie carte, no!» Urlò a squarciagola.
«No! Astrid!» La fermasti prima che si gettasse tra le fiamme ardenti.
Si divincolò e tu fosti costretto a stringerla a te per impedirglielo. La trascinasti via da lì. «Le mie carte! Le mie carte stanno bruciando! Bruciano! Lasciami! Lasciami! Aiolia, lasciami!» Ciononostante non la lasciasti neppure quando cominciò a tirarti pugni e ciaffate sulla corazza, con la stessa foga di una bambina.
Te la scostasti di dosso continuando a tenerla per le braccia e incatenasti il tuo sguardo al suo, disperato. «No che non ti lascio! Fermati, ascoltami, fermati! Non ti lascerò tornarci, non puoi recuperarle, ormai sono cenere. Basta così, Astrid! Guardami, guardami, Astrid!» Ordinasti mentre lei ti colpiva con sempre meno forza fino a smettere, mentre le affondavi le dita nella stoffa delle maniche e nella sua carne. «Non capisci, le mie carte… io…» Poi la sua voce si spezzò. I suoi respiri affannati si trasformarono presto in una serie di singulti che sfociarono in pianto vero e proprio. Appoggiò le mani e la fronte sul tuo petto e pianse. «Sei stata davvero coraggiosa, ma ora basta così, Astrid, basta così». La consolasti stringendola a te. Non eri pratico di abbracci, quanto di più simile avevi mai dato, fu una specie di tocco sulla testa a Lythia. Anche quello poteva andare bene anche se la stringevi con la stessa morbidezza del tronco di legno. In quel momento ti sentisti un totale inetto: questo non rientrava mica nel vostro addestramento. 
Passò le braccia sotto le tue ascelle e si aggrappò al tuo mantello. La faccia nascosta sulla tua spalla destra. Le spalle che si sollevavano e si abbassavano rapidamente a causa dei singhiozzi. «Basta così». Continuasti a cantilenare mentre lei lavava la Sacra Armatura del Leone con le sue lacrime. «É tutto passato, va tutto bene, adesso va tutto bene». 

Death Mask
Non si poteva dire che tu fossi una persona affidabile nel senso canonico del termine. Del tuo parco giochi non ti importava granché, nonostante tutti gli avvertimenti e i racconti di Cherie. La tua ex compagna d’addestramento non aveva smesso di tormentarti. Tu sopportavi solo perché eri un adulto con la pazienza di un adulto. C’era anche qualcosa di morbosamente divertente nel vederla scapicollarsi così nel tentativo di persuaderti. Tu la guardavi, spesso stravaccato sul letto o su una sedia della Quarta (di nuovo agibile), il pugno a sostenere la testa e lo sguardo beffardo di chi dice: «Ah, sì? Interessante, continua». E come era divertente quando si arrabbiava e ti sbraitava contro. Ti veniva da ridere, sul serio.
«Non t’importa proprio niente?»
A quel punto tu sorridendo affilato ti accendevi una sigaretta: «Oh, al contrario, non vedo l’ora che si riempia di gente, così posso spedirli tutti negli Inferi senza farmi troppi problemi». E scoppiavi a ridere all’idea, mentre lei ti fissava ammutolita.
Che ci potevi fare? Era questa la tua natura. Una natura sanguigna come il sangue che tingeva le tue iridi e nera, come l’oscurità della Bocca dell’Ade. Ma che, paradossalmente, risplendeva dei tocchi di verde luminoso della Speranza.
Anche questa mattina Cherie era venuta a trovarti, puntuale come un orologio, nella tua tana. «Oh, buongiorno». La salutasti smettendo per un momento di fare colazione. «Non ci siamo ancora stancati di rompere le palle?» La ragazzina non rispose ma anzi, si limitò a fissarti. «Che c’è? Di solito mi aggredisci sempre quando ti dico così, perché oggi non lo fai?» La bambina non rispose. «Ehi, pronto? C’è nessuno in casa? Che c’è, il gatto ti ha mangiato la lingua?» Strano questo sciopero del silenzio da parte sua. Poi sospirò e prese un bel respiro profondo prima di dirti che ti portava un’ambasciata.
Inarcasti le sopracciglia: «Un’ambasciata, per me? Ma davvero? Sono lusingato e, sentiamo, che vorrebbero?» la schernisti, ma in realtà eri lusingato per davvero, era la prima volta che te ne veniva recata una. E, soprattutto, da un messaggero d’eccezione come quella piccola ossessionata. «Niente, solo lasciarti questo». E ti tese il pugno. Sospirasti e scuotesti la testa per questo teatrino, ma decidesti di accontentarla. E lei depose sul tuo palmo una piccolissima luce verde cinabro che restò sospesa a due centimetri dalla tua pelle. Che diavolo era? Non era una lucciola e non era neanche uno dei bagliori di Astrid, quelli erano di un colore diverso. Te lo avvicinasti al volto socchiudendo gli occhi. No, questa luce, questo calore piacevole che dalla pelle ti arrivava dritto al cuore, lo conoscevi. “Io conosco questa luce!” Pensasti stupito, mentre la tua mente ti restituiva un flashback di una luce simile e di una figura femminile che cantava. Non ricordavi le parole, sentivi solo la sua bella voce intonare quella melodia dolcissima, capace di pizzicare persino le tue corde. Che cos’era questa sensazione? Era amore, ma non carnale, non fisico, ma era come scoprire di essere circondati da tanto amore. E tu lo sentisti quest’amore, questo calore sbocciarti in petto come un fiore colorato si apre ai dolci e caldi raggi del Sole. “Io conosco questa sensazione.” pensasti sorpreso mentre prendevi consapevolezza che fosse un ricordo lontano. Ma quando era avvenuto tutto ciò?
E mentre la speranza, la sorpresa, l’incredulità e il sollievo si innalzavano in te, dissipando il marcio e i miasmi che infestavano il tuo animo, sentisti gli occhi riempirsi di lacrime.
Solo pochi istanti dopo sentisti qualcosa di umido sulle tue guance e te le asciugasti pensando che ci fosse una perdita nelle tubature. Invece, con tua grande sorpresa, scopristi che erano le tue lacrime. “Cosa?” Battesti le palpebre e ti affrettasti a detergerle e a darti un contegno. Avresti voluto arrabbiarti con la ragazzina ma non ti riusciva, tanto erano forti quelle sensazioni.     
La guardasti come a dire: “Stai scherzando?” «Ok, e che cosa sarebbe?»
«Non te lo posso dire, mi ha solo detto di dirti che: Tempo fa hai giurato di essere un guerriero della Speranza; hai forse dimenticato il tuo giuramento, Death Mask? Nel momento stesso in cui hai pronunciato quelle parole ti sei automaticamente riconosciuto come mio Saint e riconosci la mia autorità; pertanto io ti chiamo negli Inferi per combattere in mio nome e sotto la mia egida».
Che cosa? Suo Saint? Ma che andava dicendo? Guardasti Cherie come se fosse impazzita. Come sapeva che tu avevi formulato questo giuramento?
«É stato il vecchio maestro a dirtelo?» Domandasti minaccioso. In realtà avevi solo deciso di provare a seguire l’esempio dei Bronzini, perché eri arrivato a un punto in cui non ce la facevi più. Sì, ti eri stancato di essere solo un assassino ai tuoi occhi. E Gold Saint non ti bastava più per controbilanciare tutta l’oscurità, la tristezza e la disperazione che ti portavi dentro. Dovevi imparare a essere meno sanguinario. Questo non significava che saresti diventato il nuovo San Francesco D’Assisi, ma neanche che ti saresti purificato. Eri perfettamente consapevole che non ti sarebbe mai bastato.
Abbassasti la mano con cui reggevi la scintilla.
Cherie non si lasciò intimorire dal tuo sguardo minaccioso, proprio come quando era viva: «No».
«Allora chi è stato? Chi altri c’era quella volta?»
«Io no, mi è stato solo riferito di consegnartelo; evidentemente questa è una cosa che sai tu». La osservasti a lungo. Non stava mentendo, di Cherie potevi dire molte cose, fuorché fosse una bugiarda. Era troppo candida per avere le palle per mentire a te, il Custode della Quarta Casa. «Ho capito, vattene adesso, mi dai noia».
La ragazzina ti voltò le spalle e guadagnò l’uscita della cucina: «Come vuoi, tanto non abbiamo bisogno di te». E queste parole ti ferirono. Eh, sì, strano a dirsi, ma ti ferirono. Non replicasti e lei scomparve poco prima di varcare la soglia. Come non avevano bisogno di te? Ti prendeva in giro, forse? Ma se era un mese che veniva a scartavetrarti i maroni perché tu li aiutassi, qualsiasi cosa stesse accadendo. E poi, che cos’era questa scintilla? Perché risvegliava la tua memoria?
Non avesti il tempo di pensarci che improvvisamente, sentisti il Cosmo di Neera e di Aiolia far ritorno al Santuario.
«Ah, ha fatto presto». Sorridesti, lieto di avere una distrazione. Perciò corresti a cambiarti e scendesti a vedere. Dovevi proprio farti spiegare da Neera come fosse riuscita a mettere KO il tuo coinquilino. Non ti aspettavi però che avesse riportato con sé anche Astrid. Tanto che, quando la vedesti avvolta nel suo mantello candido, credesti di avere le traveggole. Sembrava profondamente turbata e si aggrappava a lui come se fosse la sua ancora di salvezza. Non fosti l’unico a chiamarla sorpreso quel giorno, ma lei non ti sentì in mezzo al brusio. Raggiungesti il trio facendoti largo tra la folla che si stava radunando.
Per un momento vacillò ma riacquistò subito l’equilibrio, anche grazie ad Aiolia. Che le cinse le spalle con il braccio. «Aiolia!» Chiamasti. E anche le altre due ti guardarono: «Death Mask!» Ricambiò Astrid spalancando gli occhi. Era distrutta come i primi tempi del suo risveglio dal coma. Aveva gli occhi gonfi e pesti e la sclera infiammata, nonché gli abiti danneggiati e bruciacchiati in più punti. Che le era successo?
«Death Mask». Ti salutò il gattaccio e tu ricambiasti con un cenno senza smettere di guardare la tua protetta. Li affiancasti e domandasti spiegazioni. Solo secondariamente ti accorgesti dei vari bendaggi sul suo corpo. «Che cosa è successo? Abbiamo avvertito i Cosmi e poi improvvisamente quello del ribelle è scomparso e Astrid credevo che l’avessimo bandita per sempre».
«Sempre molto delicato, eh?» Mormorò la diretta interessata, con una vena polemica, nonostante la voce tremula. La fissasti offeso: «Lo sai che l’abbiamo fatto perché credevamo che reintrodurti nella società potesse tenerti al sicuro». 
«Sì, lo so». Replicò con voce stanca. 
«Non è il momento di mettersi a discutere dobbiamo presentarci al cospetto del Gran Sacerdote e avremo bisogno anche di lei». Spiegò Aiolia.
«Giusto, ho ancora la ClothStone della Corona Australe». Fece la giovane prima che sul suo bel viso passasse un’ombra di dolore.
«Sei diventata una Saint?» Domandasti stupito e questo bastò per impedire che scoppiasse adesso.
«No, ho solo preso in custodia l’Armatura in attesa di riportarla al Santuario. Credo che questa possa valere il disturbo che si sono presi nel venirmi a salvare e le loro vite». Anche tu avevi saputo di quei tre che si erano allontanati di nascosto per salvarla. 
Decidesti di seguire il minuscolo corteo e riuscisti a imboscarti nella sala delle udienze.
Lì, ti nascondesti e vedesti Astrid inginocchiarsi e offrire la ClothStone a Kanon, implorando pietà per i tre Silver Saint. Poi ascoltasti il rapporto di Aiolia. Ah, il traditore si chiamava così? Ora che ci pensavi ne avevi sentito parlare da Mei. Interessante.
Quando Kanon domandò che fine avesse fatto Astrid rispose che a lui avevano pensato le Creature. Però non cercò di difendere l’allieva del tuo coinquilino. La quale per poco non rischiò l’espulsione del Santuario. Se si salvò fu solo perché Kanon si era alzato con il piede giusto e voi eravate ancora a corto di uomini. La congedò promettendole che ci avrebbe pensato il suo maestro al suo castigo. La giovane Sacerdotessa rabbrividì all’idea. E tu avevi una vaga idea degli allenamenti più che massacranti che Lancelot stava programmando per lei. Grazie ad Atena che in infermeria stavano aiutandolo a smaltire gli effetti della tecnica del Saint di Indus. Altrimenti la sua “astinenza” (gli effetti erano quelli) avresti dovuto curarla tu. Era anche a causa di quella scema che Milo non aveva potuto riparare alle sue mancanze. Non poteva permettere che un Gold potente quanto Lancelot ammazzasse tutti nel viaggio di ritorno. Ma quando diavolo l’aveva imparata quella tecnica quella scansafatiche patentata?
Quando Neera fu uscita, Kanon tornò a occuparsi di Astrid. «Per quanto riguarda quei tre la legge è legge. Non era compito tuo decidere della sorte di quel traditore». Ribatté, giusto per ricordarle che lei qui non era nessuno.
«Quell’uomo mi aveva rapito». Protestò la ragazza.
«Non per questo dovevi ammazzarlo».
«Lui avrebbe ammazzato me!» Quest’esclamazione risuonò nella Sala come un colpo di pistola. La vedesti quasi scattare in avanti da inginocchiata, ma si costrinse a restare immobile. «E non ci sto a farmi ammazzare. O il mio avversario o io». Decretò con la consapevolezza e la serietà di chi ha veramente capito che cosa si prova a doversi difendere da chi vuole la tua morte. In un certo senso fosti orgoglioso di lei. La Astrid di prima non avrebbe mai detto nulla del genere.  
I due rimasero a fissarsi per un po’, prima che lui dicesse: «D’accordo, che cosa proponi?»
«Un patteggiamento».
Il Gran Sacerdote tacque per un po’ e a te venne da spiaccicarti una mano sulla faccia per questo strafalcione. Se non lo facesti fu perché il rumore della mano sulla faccia ti avrebbe tradito. Comunque l’errore madornale poi fu evidenziato dallo stesso accomodato sul trono con un delicato: «Non lo stavamo già facendo?»
La ragazza arrossì e ammutolì un momento, poi disse: «Non vi ho ancora detto cosa voglio».
«Sentiamo».
«Voi rinunciate a prendere le loro vite e in cambio vi restituisco questo Cloth. Se proprio volete punirli segregateli per molto tempo ma non fategli altro, altrimenti sapete anche voi di cosa sono capace e se io muoio dubito fortemente che quei cosi svaniranno». Negoziò. Un negoziato audace e stupido al tempo stesso. Ognuno di voi, soprattutto Kanon aveva la forza di distruggere una galassia intera con un colpo solo.
Kanon si sporse verso di lei e domandò: «Che cosa ne sai tu?» Non era abituato a trovarsi in una condizione di svantaggio e questa lo era. Se la Cloth aveva deciso di stare con lei e proteggerla, non potevate strappargliela.
«Non ne ho idea ma pensateci, il gioco vale davvero la candela? Chi vi garantisce che queste Creature si fermeranno o scompariranno se muoio? Nessuno». Astrid si stava sbilanciando un po’ troppo ed era evidente che lo sapesse. Anche da qui e anche se di profilo, vedevi la sua paura. Invece il vostro Gran Sacerdote, che finora aveva pensato di rinchiudere anche lei, si ritrovò ad avere a che fare con una fastidiosa pulce nell’orecchio. Perché era vero: non potevate combattere queste Creature, non potevate ammazzarle o spezzarle neanche a livello molecolare o atomico. Ma ora che ci pensavi quei tre che non ricordavi mai il nome erano al sicuro. Se non sbagliavi la Dea era arrivata molto prima. Dovevi avvisare la tua protetta ma come? Se l’avessi fatto ti avrebbero scoperto e Kanon non era tanto indulgente come Saga ai tempi. Potesti solo sperare che lei non cadesse nel tranello del Patriarca. «Solo se tu ti metterai al mio servizio come purificatrice di cloth infettate».
«Solo se mi pagherete». Dichiarò. Ti venne da imprecare ma scuotesti il capo. Perfetto, c’era caduta con tutte le scarpe. «Sarai pagata». Promise il vostro Gran Sacerdote con le spalle al muro.
«Abbiamo un patto?» Ribatté la ragazza.
«Abbiamo un patto, da questo momento in poi sei ufficialmente reintegrata come ancella del Santuario. Bene, adesso mostraci il Cloth della Corona Australe». 
Astrid gli scoccò un’occhiata guardinga prima di portarsi la ClothStone alle labbra e sussurrarle qualcosa. La gemma s’illuminò e Astrid allontanò la mano da sé. La luce sul suo palmo decollò dalla sua mano e, tracciando un arco, si posò a terra. S’ingrandì e acquisì l’aspetto della Cloth.
«Bene, Astrid sei congedata. Cavaliere di Leo, avete qualcosa da dirmi?»
Astrid si alzò e se ne andò, con aria sollevata. Non sapevi se complimentarti con l’astuzia di Kanon o se maledirlo. Si era approfittato della sua stanchezza per fare i propri comodi. Ah, ma se ne sarebbe pentito: se Astrid lo fosse venuta a sapere avrebbe trovato il modo di vendicarsi. 
«Sì, Sua Santità, ma vorrei farlo in privato».
«E sia, restate pure, Aiolia di Leo, tutti gli altri ci lascino».
Una volta soli e a porte chiuse, Aiolia raccontò quello che era riuscita a fare Astrid e di come fosse riuscita a mettere in difficoltà il rinnegato con una pala e combattendo.
Li guardasti stupito. Non riuscivi a credere alle tue orecchie.  Davvero Astrid aveva combattuto? E, aveva usato una tecnica di combattimento vera e propria? No, doveva essere un caso:  «Ma c’è di più». Di più? Ti accigliasti e ascoltasti anche il resto, che andò a smentire quanto pensato finora. A fine racconto eri più perplesso di prima.
«Che cosa vorresti dire?» Chiese invece Kanon.
Aiolia rispose quello che pensavate tutti, cioè che Astrid non sembra un’artista marziale «eppure, nella sua scarsa e grezza tecnica di lotta, ho rivisto la naginata».
«Sei sicuro di non esserti sbagliato?» Chiese il Gran Sacerdote, stupito quanto te. Era una barzelletta? Tu stesso sapevi che di lei tutto si poteva dire, fuorché sapesse come si tirava un pugno. E, adesso, se ne usciva pure con la naginata? O Aiolia vi stava prendendo per i fondelli o si era fumato qualcosa di pesante in Italia. «Ovviamente è riuscita a mettere a segno solo cinque colpi contro i milleduecento del rinnegato ma…»
«Cinque contro milleduecento?» Ripeté incredulo. Aiolia confermò di nuovo.  «Una ragazza normale? Una civile?» Ripeté Kanon, proprio non riusciva a credere alle sue orecchie. E un po’ non ci credevi molto neanche tu. In effetti era un record: una persona normale non sarebbe riuscita a mandarne a segno neanche uno. Il protetto di Shura confermò. Kanon meditò per qualche secondo, prima di domandare: «A che velocità sferrava i colpi il ribelle?»
«All’inizio normale, ma poi quando lei ha preso la pala ha raggiunto la velocità del suono».
«E Astrid è riuscita a tenergli testa?»
Ancora una volta Aiolia confermò, convinto. Eri allibito. Ma aveva cambiato spacciatore o la tinta che usava in passato era a base di mercurio e aveva brutti effetti collaterali? Era scientificamente impossibile che conoscesse un’arte marziale. Altrimenti l’avresti vista usarla, forse contro Neera quella sera in osteria, o te ne avrebbe parlato in qualche modo.
Il Cavaliere di Leo completò il rapporto aggiungendo i dettagli riguardo l’esecuzione non richiesta per opera delle Creature e l’ammissione della ragazza circa il loro legame. Un legame di terrore, come quello che avevi con i tuoi fuochi fatui. «Sua Santità, ritengo che non fosse opera della vera Astrid. Penso che dentro di lei ci sia qualcosa che sta risvegliandosi, suggerisco di essere molto cauti e prudenti».
«Ritieni che sia stata scelta per ospitare una Divinità?» 
Aiolia tacque, ma sapevate tutti quanto questa storia lo spaventasse, dacché lui stesso fu veicolo per Zeus, e che fu solo per volontà di Hades e di Shura che riuscì a scacciarlo. Ma in questo caso, quale Divinità poteva mai essere? Che tu sapessi, nessuna a parte quelle che avevate già sconfitto, aveva interessi nel possedere un Saint o qualcuno a esso legato. «Non lo so. So soltanto che dobbiamo fare molta attenzione».   
«D’accordo, dirò a Cocteau di riprendere la sorveglianza. Se è vero che c’è una nuova minaccia, lui saprà informarci quanto prima. Nel frattempo ti ordino di elaborare un piano in caso quest’eventualità si presenti. Grazie per queste preziose informazioni, Gold Saint di Leo, puoi ritirarti». Il tuo commilitone obbedì e, quando lasciò la stanza, Kanon si rivolse a te: «Spero che tu abbia ascoltato abbastanza, Death Mask». 
Acci... Vabbè, ormai se ne era accorto. Uscisti dal tuo nascondiglio e rispondesti: «Da quanto vi eravate accorto della mia presenza?»
«Da subito, è un vizio che non hai perso. L’invito a uscire era soprattutto indirizzato anche a te, ma non volevo turbare oltre la nostra ritrovata ospite». Ribatté guardandoti. Poi ti ordinò di tenere per te tutto ciò che avevi visto e sentito. «Perché non le avete detto la verità, riguardo i suoi amici?»
«Non sono affari tuoi».
«Lo so, scusatemi, Santità». Ribattesti ironico disegnando un inchino. Poi guadagnasti la porta, deciso a salvarla dalle grinfie di Kanon. Quest’ultimo, come se avesse intuito i tuoi pensieri, ti bloccò dicendo: «Non sono maldisposto nei suoi confronti, se è quello che pensi». Forse saperlo avrebbe dovuto tranquillizzarti, ma non ebbe l’effetto sperato. Lo guardasti da sopra una spalla e domandasti: «Allora avete un piano per lei?»
«Al momento no, ma ho il sospetto che sarà meglio tenerla qui. Ah, Death Mask, ti sarei grato se tu non ne facessi menzione alcuna con lei. So che siete molto amici, ma in questo momento è meglio non turbarla troppo; non vorrei che succedesse qualcosa di spiacevole, mi capisci?»  Minacciò sottilmente e per te fu sufficiente. “Redento ma una sega”, pensasti al suo indirizzo. Tornasti a guardare dritto davanti a te e finalmente uscisti da quella Sala.    

Tre giorni dopo fosti convocato alla Casa di Atena di buon’ora. Perciò eri stato costretto a interrompere la tua sessione d’allenamento (massacro) con Lancelot, che se la rideva come il folle qual era. Prima o poi saresti riuscito a ridurlo in poltiglia come meritava. Per ora eri riuscito a spaccargli il labbro e a procurargli qualche livido.
Ti eri fatto una doccia e avevi indossato la tua Cloth (lucida come non mai dopo il lavoretto di Kiki e Raki), poi ti eri avviato su per le scale.   
Che sollievo vedere che gli attrezzi erano stati portati via dagli operai e che i servi, tra cui Astrid, stavano adoperandosi a rassettare definitivamente.
Non amavi recarti alla Tredicesima, ma che ci potevi fare? La vita di un Cavaliere d’Oro era noiosa. Preferivi di gran lunga allenarti, se proprio dovevi fare qualcosa di utile. Ultimamente non c’erano state neanche missioni di nessuna sorta. E, di riprendere l’addestramento di un altro allievo come Mei della Chioma di Berenice, non ti andava per niente. Se la potevano cavare anche da soli, se gli aspiranti Saint non erano degni di guadagnarsi un Cloth d’Oro quando sarebbe giunto il momento, non era affare tuo. Figurati se potevi perdere tempo dietro a queste quisquilie.
Accidenti al Gran Sacerdote quando aveva deciso che dovevi prenderti un allievo. Ah, già ma tu stavi parlando di Arles. Arles; anche quel tipo si era rivelato una vera e propria delusione per te. Meno male che avrebbe dovuto avere il potere nelle sue mani, quello là.
Come no. E, avevano pure avuto il coraggio di darti dello stolto per la tua filosofia di vita, come no. Tu, che ti eri limitato solo a evidenziare la realtà. O, almeno la realtà come appariva e non come avrebbe dovuto effettivamente essere.
Per la seconda volta in quella mattina ti tornò in mente Astrid.
Come se l’avessi chiamata, poco prima dell’uscio della Settima, la vedesti parlare con Paradox all’ombra di una colonna. La donna di ventotto anni dai capelli azzurri che le coprivano gli occhi era rimasta quasi affascinata dalle capacità di Astrid.
A te non piaceva quella Paradox, ex Gold Saint dei Gemelli e vergogna assoluta di quella Casa. Persino Saga al solo sentirla nominare si sentiva come se lo avessero coperto di sterco. 
Gemelli, eccone un’altra. Ovviamente anche lei con una sorella gemella, tale Integra.
Ormai potevi quasi giudicarti un esperto quando si trattava di persone, soprattutto Cavalieri, legati a quel segno. Quasi potevi scorgere in lei il germe della malvagità. Lo stesso che probabilmente aveva portato alla nascita di Arles, anche se qui c’era tutta una questione legata ai suoi sentimenti e la mancanza di affetto derivati anche dalle sue capacità. Avevi sentito dire che era nata con delle doti paranormali molto simili a quelle di Astrid. Doveva essere normale che quelle due si fossero trovate. Ma tu che ne sapevi? Non t’intendevi mica di psicologia. Eppure, proprio perché leggevi nella mente di Paradox, riuscivi a cogliere quelle sfumature che ad Astrid erano precluse. E, proprio per questo, qualcosa ti diceva che era meglio separarle: «Astrid, vieni qui». La chiamasti.
La bionda girò la testa per guardarti e, scusandosi con Paradox, ti venne incontro. L’altra la seguì con lo sguardo.
Anche tu accompagnasti la bionda con gli occhi, approfittandone per fumarti una sigaretta.
«Sì?» Ti aveva domandato, una volta vicina.
«Accompagnami al Grande Tempio». Dicesti senza troppi giri di parole.
«D’accordo». Acconsentì anche se il suo volto lasciò trasparire il sospetto per questa richiesta.
Si girò a salutare la conoscente, che ricambiò. Poi, ti seguì su per le scale in silenzio, proprio come una vera attendente.
La osservasti con la coda dell’occhio. Era cambiata dal vostro primo incontro, non eri mica cieco. Restava comunque meno florida di quanto avrebbe dovuto, a causa delle crisi. Ricordavi perfettamente di come l’assalivano e la costringevano a vomitare e a una settimana di digiuno per riprendersi. Come l’ultimo avvenuto il giorno del suo ritorno al Santuario, quasi più grave dei precedenti. Ne avevi sentito parlare anche tu.
Ovvio che sapevi che avrebbe ripreso a frequentare lo psicologo, ma non doveva essere facile lo stesso.
Quel giorno portava due ciocche intrecciate ai lati a una tenìa, cioè un nastro sottilissimo sulla fronte a scostare la frangia, una veste a maniche lunghe allacciata con delle fibbie sulle spalle e le maniche ampie e calzature invernali nere. Sotto la luce chiara di questa mattina, sembrava ancora più pallida ma i suoi occhi emanavano una forza d’animo senza pari. Un po’come… No, non come lei. Helena a modo suo era stata forte ma la forza di Astrid era diversa. Nell’animo, nelle capacità e nell’intelligenza. In lei leggevi sia la luce sfolgorante che l’ombra più nera. Un po’come te, del resto, cambiava solo il modo di esternarle.
Eppure, c’era qualcos’altro, ma non gliene avresti mai parlato finché non te l’avrebbe accennato lei stessa. Non eri così bravo quando si trattava di esprimersi. «Scusa se te lo chiedo, perché hai voluto che ti accompagnassi?» Ti chiese a un tratto dando voce ai propri dubbi. Se tu fossi rimasto il vecchio Death, l’avresti già punita (come rischiò Lythos a suo tempo) solo per aver aperto bocca. In realtà l’avresti uccisa anche per molto meno. Ma quell’uomo non esisteva più.
Però Astrid esisteva ancora. E, il fatto che fosse sopravvissuta a Eris, che l’avesse neutralizzata lei stessa e che foste riusciti a salvarla sia in questa circostanza che in Italia, aveva del miracoloso.
Forse quella sera Atena aveva ascoltato le tue silenziose e recondite preghiere.
Non eri mai stato un tipo da smancerie, ma il pensiero di non vederla più in via definitiva, ti aveva riempito di paura. Proprio come ad Asgard. Improvvisamente ti rendesti conto che lei era qui, adesso e che non sarebbe morta. Stirasti le labbra in un sorriso, le posasti una mano sulla testa, scherzoso. «Ma come, non ti va di passare un po’di tempo insieme a me?»
Lei cercò di scostare la mano, che non aveva voglia di scherzare, ma tu la rimettesti sulla sua testa. Allora prese a darti dei colpetti sulle costole che non sentisti neanche. «Dai, smettila, ma sei già ubriaco di mattinata?» Domandò ridendo.
Non le avevi mai mostrato questo lato di te. Era giusto che anche lei sorridesse assieme a voi, non solo che si cacciasse nei guai non richiesta.
«No, non credo proprio, a meno che non sia alcolica anche l’aranciata. Che dici? Vale come ubriacatura sfondarsi d’aranciata e sigarette già di primo mattino?». La prendesti in giro, malizioso. Per poco stava per sfuggirti una risposta molto più sensuale, ispirato dal suo profumo. Era profumo o era la sua pelle a odorare così? Non ci avevi mai fatto molto caso altre volte. Non glielo chiedesti comunque. «Tu sei tutto matto. Seriamente, dai». Commentò sorridente quando la lasciasti andare.
«Perché? C’è forse qualcosa di sbagliato nel voler trascorrere un po’di tempo insieme?» Domandasti innocente.
«Non lo facciamo già ogni tanto?»
«Sì ma spesso con noi ci sono anche Shura, Aphrodite e quello scassamaroni di Lancelot e, negli ultimi tempi, non abbiamo avuto neanche un secondo libero». Obiettasti e ricevesti un’occhiata sospettosa. Ti affrettasti a nascondere le tue emozioni. Avevi scoperto che c’erano due sistemi per neutralizzare la sua empatia: o non pensavi a niente (anche se era un’impresa zittire il cervello) oppure alzavi le tue barriere mentali. Fortunatamente per te decise di non indagare.
Riprendeste la salita.
Ormai era talmente abituata a fare queste scale che non aveva più il fiatone. Anzi, volendo, avrebbe potuto anche farsele correndo o cantando (come le avevi sentito fare spesso). «Non mi hai ancora risposto». Disse invece.
“Merda”. A volte ti domandavi veramente se fosse umana. Ce li aveva gli ormoni, dei sentimenti, qualcosa? «A quale domanda?» Domandasti con nonchalance.
«Perché mi hai chiamato? Per favore, la verità». Sospirò rassegnata. Ma se anche quello che non le avevi detto era vero! Non era solo per distogliere l’attenzione. Sospirasti a tua volta e vuotasti il sacco: «Paradox ha qualcosa che non va e a me non va di stare sempre a pararti il culo. Lo capisci che questo posto è pericoloso, che molti di noi lo sono?»
«Fino a qui lo sapevo anch’io, ma lo dici solo perché sei esperto per quanto riguarda i guerrieri dei Gemelli o perché hai letto la sua cartella clinica? Mi ha detto che si sta addestrando per diventare un Gold dei Gemelli migliore di prima, come sua sorella minore Integra. Ti ricorda Kanon e suo fratello, non è così?» Aggiunse di fronte al tuo sguardo incredulo: tu non le avevi raccontato niente. E dire che non sembrava tanto incline alle confidenze e alle amicizie.
«Saga». Venisti in suo aiuto, notando che non riusciva a pronunciarne il nome. «Sì», aggiungesti poi. Lei annuì: «A me in una misura minore. In lei sento una fortissima carenza d’amore che sta cercando di colmare grazie alla sorella e la paura per le proprie capacità. Se non sta attenta rischia di perdere il controllo, sempre ammesso che non l’abbia già perso». Meno male che non le stava dando lezioni di moralità dal momento che la sua somigliava molto alla tua. Eravate d’accordo anche sulla giustizia. Solo che lei non si sarebbe mai sognata di ammazzare qualcuno per provarlo. 
«Conosco la storia». Tagliasti corto. Poi le domandasti: «Perché ci stavi parlando?»
«Perché mi ha chiesto aiuto per le sue capacità».
«Ma tu rispondi alle richieste di aiuto di cani e porci?» Domandasti guardandola.
Lei ti lanciò un’occhiataccia prima di rispondere in tono offeso: «No, solo di alcuni cani e porci», calcando bene l’accento su alcuni. Dopodiché aggiunse, più mesta: «se non ti ricordi Eris l’ho uccisa io». E il suo sguardo si oscurò.
«Oh, non farti venire una crisi sulle scale, eh!» L’avvisasti agitato. Proprio adesso non ci voleva. 
«Non ne ho l’intenzione». Ti rassicurò con voce secca. Ecco, bravo, l’avevi fatta arrabbiare. Sapevi bene quanto fosse stata male dopo l’uccisione della Dea della Discordia. Ancora non si capacitava di essersi sporcata a questo modo. La cosa positiva era che dopo si era rilassata un po’ nei vostri confronti. Come a dire che adesso che le sue mani erano sporche di sangue quanto le vostre, che vi capiva tutti. Tutti voi, perché qui al Grande Tempio non c’era nessuno che non avesse mai ucciso neanche una volta. E, tu, più di tutti, lo sapevi. Tu, che avevi ucciso centinaia di persone più di ogni altro. Forse credeva di essere uguale a voi; ma non lo sarebbe mai stata neanche se le avessero conferito un’Armatura.
In questi giorni avevi provato a consolarla oltre che avvisarla tra le righe degli intrighi di Kanon. Ciò nondimeno sembrava non aver colto i messaggi e tu non sapevi come fare. Quell’uccellaccio di Saga avrebbe potuto rovinarti se avesse visto. E a quel maledetto non sfuggiva mai nulla.   
«Dico sul serio, Astrid», dicesti con voce più dolce, «Non voglio che tu corra dei rischi inutili». Con un enorme sforzo alzasti la mano e le carezzasti una guancia. Poi, la ritraesti, imbarazzato. Era la prima volta che carezzavi il volto di qualcuno senza intenti omicidi. Però il tuo tocco sortì l’effetto sperato perché anche il suo si addolcì e ti sorrise: «Lo so, Death».
«Che ne dici se una sera di queste facciamo un salto a Rodorio per svagarci un po’?» Proponesti.
«Perché no? É da tanto che ho voglia di staccare la spina. Però non posso prometterti niente sulle mie letture.» ti avvisò.
«In che senso?»
«Nel senso che ho cominciato a farmi una nomea anche qui». Ti ci volle qualche secondo per ricordarti cosa significassero quelle parole. «Hai ripreso a leggere la mano e le carte?» Chiedesti stupito.
«Solo la mano».
«E, il Prezzo?»
Lei si aprì in un sorriso, continuando a guardare di fronte a sè. «Adesso non sono più sola». Confessò dimentica della rabbia. Ti ci volle un po’per comprendere il senso di quelle parole, poi scoppiasti a ridere sguaiato. E dire che avevi pensato a un’altra cosa.
Oltrepassaste le altre Case chiacchierando e salutando i relativi custodi (lei con più entusiasmo di te, almeno alcuni, tu ti limitasti a un’occhiata e un cenno del capo).  
Nel corridoio di passaggio dell’Ottava lei ti fece cenno di tacere. Si fermò, inspirò e lanciò un urlo che ti fece spalancare gli occhi per la sua potenza. Per poco non facesti un salto indietro per lo spavento.
«Al fuoco!»
Subito seguito da un suono che somigliava tanto al rumore di una testa che sbatte contro una sbarra di metallo; cui si seguirono colorite imprecazioni in dialetto cicladico. Poi udiste delle risate e un: «Raki!» Cui seguì un rumore come di metallo che cade a terra. Lo Scorpione ruggì di nuovo furioso, tradito: «Astrid!» E fu proprio questa parola ad accompagnare l’entrata in scena di quest’ultima a mo’ di presentazione. La ragazzina sbucò da una porta laterale come da una quinta di teatro e vi venne incontro. L’avevi incrociata sì e no due volte e fino a questo momento l’avevi completamente dimenticata. Solo quando fu più vicina ricordasti che fosse l’apprendista di Kiki. Non ti eri neanche accorto che se la fosse riportata dietro dallo Jamir o dove diavolo l’aveva lasciata.
«Fatto, Astrid!»
«Grande, Raki!» Esclamò la tua amica sorridendo divertita e alzò le mani per un cinque che risuonò per il corridoio. Poi la bambina corse via alla Prima, continuando a sghignazzare. L’accompagnaste con lo sguardo prima che Milo la richiamasse: «Ma sei impazzita? E se fossi stato nudo?» Le urlò comparendo sulla porta. Il bernoccolo nascosto sotto la folta criniera leonina spettinata.
«Ma falla finita che lo sanno tutti che dormi in mutande!» Ribatté Astrid ridendo a crepapelle sotto i tuoi occhi sconcertati: addirittura coinvolgere l’apprendista di Kiki pur di infastidirlo? Ma quanto poteva essere… neanche tu trovavi la parola adatta.
Quest’ultimo, ancora avvolto nelle lenzuola, la fissò male. Astrid sostenne il suo sguardo. Alla fine Milo le dette le spalle, berciò: «Comunque bentornata» e scomparve di nuovo nei meandri dei suoi appartamenti privati.
La giovane sorrise. Poi ti fece cenno di proseguire.
Continuasti a guardarti indietro con la tua solita espressione arcigna. Poi guardasti lei. La quale, quando smise di ridere (la faccia arrossata), ti spiegò: «Hai presente la storia della minaccia del mocio vileda e dello sturacessi?» Ammettesti di averne sentito parlare (ma omettesti di aver preso in giro Milo quasi senza pietà per questa storia). «Ogni mattina io e Milo ci facciamo scherzi di questo tipo. É un gioco tra noi. Ora era da un po’ che eravamo in pace, ma è troppo divertente per smettere. Il bello è che lui non si rompe così facilmente, perciò posso andare avanti per molto ancora».
«Quindi saresti salita da sola anche se non ti avessi chiamato io?» Domandasti. Lei ti rispose, con aria innocente: «Certo, avevo calcolato almeno mezz’ora prima di cominciare a salire. L’idea della padella è stata di Raki. Anzi, è stata proprio lei a offrirsi di aiutarmi quando ha saputo degli scherzi tra noi. Aspettava già da qualche minuto. Poi facendola levitare, si è limitata ad attendere il segnale e lo scatto di Milo, che, alzandosi ha fatto tutto da sé. Ah, ma non ti preoccupare, mi sono raccomandata che stesse fuori della porta della camera, se no dopo chi lo sente Kiki». Aggiunse quando interpretò il tuo sguardo. Ti sfuggì uno stupito: «Sei perfida».
«Un po’». Sorrise con aria innocente. In un certo senso ti ricordò un serpente.
Quando foste nella sala trovaste Shun, vestito con il Gold Cloth, inginocchiato davanti al trono e Kanon, nei paramenti sacerdotali, assiso sul suo scranno.

Astrid
Avevo passato questi tre giorni chiusa alla Quinta. Aiolia si era offerto di ospitarmi finché non mi fossi ripresa. Avevo subito molto stress in una volta. In effetti mi sentivo leggermente distaccata da me stessa, come se il mio corpo agisse con il pilota automatico.  
Fu abbastanza strano per me essere di nuovo qui dopo che avevo tanto brigato per andarmene. Non me l’ero sentita di rifiutare. Nonostante l’intervento di Castalia non me l’ero sentita di tornare subito a stare da lei. Avrei preferito affittare una stanza giù a Rodorio ma non avevo abbastanza soldi. Con il patto col diavolo che avevo stipulato avrei dovuto avvisare i miei, riprendere la terapia, cancellare il contratto con il Kazablanc in via definitiva. Per non parlare poi dei miei parenti e della decisione che avevo preso e di affrontare Yoshino. Santi Dèi, mi aspettavo di vedermela davanti da un momento all’altro, pronta ad assalirmi verbalmente. Me ne ero andata senza neanche salutarla. Al posto di passare dalla Seconda avevo preferito fermarmi direttamente alla Prima. Non ero mai riuscita a dire addio a nessuno. Non che l’avessi mai detto prima. Dèi, che stronza che ero stata, avrei voluto seppellirmi.
Al solo pensarci mi scoppiava la testa e mi veniva l’ansia. Per mia fortuna non ebbi neanche il tempo di pensarci che, appena misi piede nella Quinta Casa Lythos e Galan ci vennero incontro. Furono contenti di rivedermi e, a pranzo, vollero sapere tutto quello che era accaduto. Fu abbastanza strano sostare in quella Casa più di qualche ora delle famose lezioni (che poi mi aveva dato per davvero). Come anche fare il bagno lì, realizzare di essere di nuovo qui.
Mi fece impressione dormire tra quelle mura. In un certo senso era come dormire dentro un castello medievale. Non saprei dire da dove mi nascesse questa sensazione, ma era così.
Sebbene la notizia del mio ritorno si fosse sparsa in fretta nell’arco della giornata, gli unici che vennero a trovarmi furono Kiki, Death Mask e poi, nel tardo pomeriggio, Raki. Quest’ultima in realtà cercava Aiolia. Ero rimasta abbastanza sorpresa nel vederla. Mi arrivava poco più in basso del petto e aveva i capelli color mogano legati in una treccia. A vederla non le avevo dato più di quattordici anni. Solo dopo mi ero accorta delle sopracciglia ovali. «Aiolia non c’è, è sceso in arena». Le avevo detto.
«Oh, grazie. Tu per caso…?» Fece poi quando mi passò accanto e si fermò per guardarmi, voltandosi completamente verso di me. Le guance piene rosse. Avevo sollevato le sopracciglia come a dire: “Sì?” E lei aveva trovato il coraggio di continuare: «Sei per caso quella di cui sento parlare tanto spesso? Quella che ha sconfitto Eris?»
«Non ne vado fiera». Avevo risposto senza muovere le labbra. Non mi piaceva essere associata a questo fatto. Eppure lei sembrò di tutt’altro avviso, perché le si illuminarono gli occhi e mi riempì di complimenti entusiasti. Disse che molti parlavano di me con timore e ammirazione e che non vedeva l’ora di conoscermi. Poi si era presentata. Quando mi disse che era l’allieva di Kiki ci restai stupita. Perché non mi aveva mai parlato di lei? Forse non ci aveva pensato? No, era impossibile che non ci avesse pensato. Anche se ne erano successe di ogni, se aveva trovato il tempo di scriverle come mi stava dicendo, allora le aveva anche parlato di me. Ma perché io no? E se… Il mio cuore dette un colpo più profondo e sentii le guance scaldarsi. No, dai, era impossibile.
«Oh, ma forse ti sto annoiando». Si era scusata la mia conoscente.     
«No, niente affatto. Piuttosto, non dovevi andare a cercare Aiolia per conto del tuo maestro?»
«Oh, sì, è vero». Esclamò e poi disse: «Posso tornare a trovarti?» Non riuscii a rifiutarglielo, tanta era la tenerezza che mi faceva. La ragazzina prese a saltellare allegramente sul posto e corse via agitando la manina. Ricambiai il saluto domandandomi se avessi fatto bene. Nei due giorni seguenti, a parte Death Mask e Raki, ricevetti anche la visita di Paradox. Non la vedevo da tempo. Mi sembrava che stesse abbastanza bene. Non era molto cambiata, portava solo i capelli acconciati in un modo diverso. Avevamo parlato abbastanza spesso nei mesi precedenti, quando leggevo la mano e le carte a Rodorio. Lei si era spesso intrattenuta a parlare con me come se fossi la sua psicologa. Devo dire che era inquietante e insieme divertente vederla sdoppiarsi nella Paradox dell’amore e nella Paradox dell’Odio, quando ci si avvicinavano gli ubriaconi. Mi considerava forse la sua prima amica. Onestamente non sapevo quanto dovessi esserne felice. Mi veniva da pensare: “Ma perché capitano sempre a me i pazzi?”
Si vedeva che avere quei poteri precognitivi le aveva causato molti problemi. Grazie a me era riuscita a incanalarli anche altrove. Ero contenta dei suoi progressi. «Ma cosa c’è? Sembra che tu voglia dirmi qualcosa», disse a un certo punto. Le avevo preso le mani tra le mie e le avevo raccontato tutto. Poi: «Potresti aiutarmi a togliere la ruggine?» Paradox mi aveva fissato interdetta per un po’prima di sfoderare un gran sorriso e stringermi a sé e spupazzarmi per la contentezza: «Certo che ti aiuto! Sono così contenta che tu l’abbia chiesto a me!» Così ci mettemmo d’accordo per iniziare queste lezioni. Ma gli unici momenti liberi che avevo, perché in quanto di nuovo ancella, avrei dovuto cominciare a lavorare presto. Lythos non aveva ancora ultimato le pratiche delle mie dimissioni, così poté tranquillamente darmele e farmele bruciare. Per fortuna che aveva un paio di divise delle ancelle di riserva da prestarmi.
Perciò, considerando tutto questo, l’unico orario fattibile era la mattina presto. Che bellezza. Per il posto, la Settima Casa era l’ideale, secondo lei. Nel suo giardino nessuno ci avrebbe dato fastidio. Avremmo cominciato tra due giorni, il tempo di organizzarsi e il tempo di riprendermi. Questo gliel’avevo chiesto io. «Per favore». Le dissi per convincerla. Mi chiese scusa per non averci pensato subito; a volte tendevano a dimenticarsi che ne soffrivo.
Quando mi lasciò sola mi lasciai ricadere sul divano dove eravamo state sedute tutto il tempo. Sbuffai. Era solo passata una settimana da quando me ne ero andata, dannazione. La mia paura più grande però restava sempre Yoshino. Avevo veramente paura di incontrarla.     
 
Stamattina Paradox era venuta a trovarmi per informarmi che il giardino della Settima era agibile. E per informarmi anche che Ryuho l’aveva scoperta e che, in cambio del silenzio, voleva da me ripetizioni di matematica. «Per me non c’è alcun problema». Anzi, tanto di guadagnato. Poi ci saremmo anche messi d’accordo con i prezzi.
L’idea di chiedere una mano a Raki per lo scherzo alla Piattola mi era venuta così il giorno prima. In un certo senso mi ero abituata a questi nostri scherzetti e, volevo sapere se fosse cambiato qualcosa tra noi. Non era venuto a salutarmi quando ero tornata. Di sicuro sapeva anche lui che ero di nuovo qui. Anche se la mattina del mio ritorno era in arena, non poteva esserci stato tutti questi giorni. Non pretendevo chissà che ma almeno un ciao. Ah, ma che diavolo, adesso mi mancavano pure gli scherzi della Piattola. Però, adesso ero di nuovo qui. Alla fine avevo deciso di tentarla, se mi avesse detto qualcosa lo avrei affrontato. Sempre meglio lui che Yoshino.
Il suo urlo adirato era stato più che gratificante e aveva riaperto i giochi. Lo conoscevo abbastanza per sapere che me ne avrebbe combinata una delle sue. O meglio, sperare. Poteva anche darsi che gli fosse passata la voglia.
Alla Dodicesima mi aspettai di ritrovare Aphrodite. Confessai a me stessa di esserci rimasta un po’male nel vedere la sua Casa deserta. «Che ti prende adesso?» Mi chiese Death Mask.
Glielo dissi e lui rispose che era in missione dall’altra parte del mondo. Ah, ora mi spiegavo questo silenzio. «Ti ha detto dove?»
«Boh, mi pare da qualche parte dalla Thailandia». Ribatté vago.          
Appena varcammo le soglie della Tredicesima un soldato ci venne incontro e ci salutò entrambi con un formale: «Gold Saint di Cancer, signorina av Stjernene, proprio voi mi avevano mandato a cercare. Il Gran Sacerdote vorrebbe parlare anche con voi dopo il Gold Saint Death Mask di Cancer. Prego, attendete fuori della porta».
Feci un cenno d’assenso alla greca e lasciai che Death Mask entrasse prima di me per il suo rapporto settimanale. “Perché vuole parlarmi? Hanno già trovato una Cloth?” Pensai.
Per ingannare il tempo mi misi con le spalle al muro e cominciai a giocherellare con un filo scucito della mia tunica. Non si poneva neanche il problema dei bagagli e dei miei documenti; Aiolia aveva provveduto quella notte stessa tramite il Santuario. Ma non volevo sapere come avessero fatto a convincere i miei. Ora che ci pensavo erano tre giorni che non li chiamavo da quando Aurel...
Battei piano la nuca contro la parete e chiusi gli occhi. Sospirai.
Portai un piede sotto il sedere. Tanto la tunica era abbastanza lunga da permettermelo senza problemi. Anche se avrei preferito indossare una felpa con cappuccio. Gli effetti del nuovo trauma si sentivano ancora. A volte le immagini della battaglia si sovrapponevano alla realtà, spaventandomi a morte.
Lythos era dovuta ricorrere a un decotto a base di malva, finocchio, passiflora, camomilla e melissa per farmi dormire. Mi sentivo un po’come Bob Marley mentre aveva un trip ma, se non altro, dormivo. Tuttavia sapevo perfettamente che era come evitare il problema. Il mio maestro me lo diceva sempre. Anzi, ero piuttosto sicura che stesse aspettando che lo chiamassi. Non volevo dargli questa soddisfazione. Se la lontananza aveva in qualche modo risolto e annullato il problema, il mio ritorno lo aveva tristemente riavvicinato. Era come svoltare l’angolo e trovarsi faccia a faccia con una persona che odiavi e che speravi di non incontrare mai più.
Mi domandavo soltanto chi avrebbe mai vinto questa gara di resistenza tra me e lui. Anche se sapevo che lui era qui e che mi osservava, aspettando. L’affetto che gli portavo a volte mi imponeva di pensarlo, però non avevo ancora trovato il tempo. E non ero sicura che volessi trovarlo, per il bene di tutti. Anche se a volte mi sentivo come se tutti i lividi che avevo guarito mi fossero stati appena inferti. Forse avevo usato male questa tecnica, stavolta. Era già successo in passato che mi aspettassi di vedere i segni delle botte nella mia immagine riflessa allo specchio, ma non come adesso. Se era un sollievo, non lo era fino in fondo.
Non che non fossi contenta della tecnica di rigenerazione, di farmi altri mesi a letto non rientrava nei miei programmi. Eppure sentivo ancora i bozzi dei colpi e, spesso il volto di quel pazzo infestava i miei sogni quando mi addormentavo. «Non puoi fare niente!» Urlava prima di uccidermi. E ogni volta la paura e l’impotenza accompagnavano il mio risveglio.  
Quanto ci avrebbe messo questa sensazione prima di andarsene? Non mi ero mai sentita così ridimensionata prima. Spaventata sì, ma così no. Neanche il sequestro di quasi un anno fa era lontanamente paragonabile. Non avrei mai perdonato Death Mask e Aphrodite per averlo fatto, nonostante le loro buone intenzioni, ma rispetto ad Aurel furono dei signori. Almeno avevano fatto di tutto per proteggermi.
Avrei voluto ricordare molto prima le lezioni del mio amico. Quelle estati, nel parco, anche se la mia arma era un semplice manico di scopa. Era stato lui a trasmettermi la passione per quest’arte marziale. Mi aveva persino raccontato che in Giappone era stata praticata come disciplina scolastica dalle ragazze prima della Guerra. E avevo persino ricordato quanto mi piacesse combattere. Se Aiolia non fosse stato scaraventato contro il muro e la pala non fosse caduta, non mi sarebbe mai passato per la testa. Era stato come un flash e, improvvisamente avevo ricordato che io in passato avevo combattuto. Anche se non ero mai stata tutto questo mostro di bravura e spesso baravo. Ero seria quando avevo detto: “Vediamo se mi ricordo come si fa”. E ora avevo anche ricordato l’enorme differenza tra un gioco e la lotta vera e propria. Ora potevo dire che c’era andato veramente leggero con me.  
Sorrisi al ricordo mentre giocherellavo.
Finora avevo sempre evitato lo scontro fisico, forte dei miei poteri. Mi ero montata la testa, ecco la verità. Ma chi volevo prendere in giro? Averli non mi avrebbe davvero salvato. Ci avevo pensato durante il volo che ci aveva riportato ad Atene, dopo che Aiolia aveva chiamato a sé i miei documenti e tutte le mie cose, sicché fossi potuta ripartire subito senza problemi. Mi era venuto istintivo portarmi una mano alla faccia, laddove mi aveva sfondato i denti e il naso. Per trovarli intatti sotto le mie dita. Non so neanch’ io con che coraggio pensavo di poterlo sconfiggere, con solo una pala arrugginita?
Tornai al presente e mi toccai il collo. Avevo ricevuto tanti di quei colpi in così pochi secondi che non so neppure io come ero riuscita a sopravvivere. Se solo non fossi stata tanto spaventata, avrei potuto sistemare Aurel anche da sola. Non immaginavo che la paura lasciasse così poco spazio alla ragione. Non che le altre volte non l’avessi avuta; ma non così.
“Ecco perché non volevo che tu avessi a che fare con il mio mondo”. Mi disse tristemente la voce del mio amico. Improvvisamente avvertii la sua presenza vicino a me. Fossi stata ancora una bambina mi avrebbe anche carezzato la testa per consolarmi. “Noi Saint mettiamo la nostra vita in gioco sempre e comunque e quelli insigniti di un’Armatura, sono quei pochi che sono sopravvissuti agli addestramenti. O diventi un Saint o diventi un Black Saint dell’Isola della Regina Nera o muori. La morte comincia ad accompagnarci durante il periodo d’addestramento e non ci lascia più”. Rivelò, serio.
“Non lo immaginavo”. Pensai. Fino a quel momento avevo pensato che soltanto i Gold fossero soggetti a un tale trattamento. “Eri solo una bambina”. Adesso comprendevo il suo desiderio di volermi proteggere. Poi continuò: “Hai sempre avuto la tendenza a voler proteggere le persone che amavi. Anche me, quando Eris riuscì a individuarti quell’estate di undici anni fa, in Germania. Io andai ad affrontarli, ma tu mi seguisti e agisti prima che io potessi fare qualcosa”. Feci un’enorme sforzo di volontà per non girare la testa verso di lui. Sospirai e incrociai le braccia: “E a causa della mia sconsideratezza, Snakye ci rimise la vita e tu quasi impazzisti”. Completai ricordandomi i suoi crudeli occhi rossi. La smorfia bestiale dipinta sul suo volto sfocato. “Già”. Ammise, per niente orgoglioso. Restammo in silenzio per un po’, prima che rompessi il ghiaccio. “Perché io? Per via dei miei poteri?”
“No, non è per questo”.
“Allora per cosa?”
“Devi scoprirlo da te, non esiste che qualcuno te lo dica”.
“Neanche se quel qualcuno sei tu?” Domandai quando avrei voluto pronunciare ben altre parole al suo indirizzo. Anche se lui mi faceva paura più di tutti. Anche se non me le aveva mai fatte pronunciare nessuno. Parole che però dovetti trattenere, ricevendo la sensazione di una stretta al cuore. Avrei anche voluto guardarlo come da piccola cercavo il suo sguardo per ogni cosa e sorridergli. Invece non potevo fare niente. In parte perché i miei muscoli facciali non risposero all’ordine e in parte perché se l’avessi fatto sarei passata per tocca. “No, neanche se quel qualcuno sono io”. E se lo diceva così, significava che sarebbe stato muto come una tomba.
“Quanti, prima di Eris, mi hanno dato la caccia?” Chiesi poi.
“Molti”.
“Da quanto sono braccata?”
“Da quando sei venuta al mondo”. Rispose dopo un momento di esitazione, cercando di usare il tono più delicato possibile. Chinai il capo di modo che i capelli nascondessero la mia faccia contratta. “Quindi è per questo che sono nata? Solo per morire?” O peggio, solo per mettere al mondo un figlio, come la Dea infoiata di Ayashi no Ceres di Yuu Watase, che sosteneva di esistere solo per questo. Che schifo di motivo per vivere. Non avevo niente in contrario con chi credeva di avere solo questa scelta o sentiva che fosse l’unico scopo della sua vita. Che credeva che i figli ti completassero e ti migliorassero, che la maternità fosse una parte importante della sessualità femminile. Non era affatto così. Questa visione retrograda mi mandava in bestia. Trovavo degradante per una donna ridursi a una fattrice. Non siamo solo questo, abbiamo anche un cervello, vogliamo anche la realizzazione professionale. Possiamo contribuire anche noi alla Storia dell’umanità in qualche modo. E lo penso ancora adesso che scrivo queste parole.
Il mio maestro esclamò allibito che dicessi queste parole: “No, certo che no! Tu devi vivere, hai una bella mente, un cervello ancora più meraviglioso e puoi, anzi no, devi fare grandi cose. Lo sappiamo tutti e due che non te ne resteresti mai con le mani in mano in qualsiasi situazione. Tu brami di fare qualcosa che ti elevi, non che ti abbassi e so che in questo momento stai raccogliendo le forze per tornare all’attacco più forte di prima”. M’incoraggiò con convinzione, cercando di rimediare alle ferite di poco fa.
“Allora perché tutte queste prove? Perché tutti provano a rapirmi o ad ammazzarmi? Solo per la Luce Ombrosa? Perché io tra tutti?” Tacque così a lungo che credetti che se ne fosse andato. Per questo quasi mi spaventai quando lo sentii di nuovo: “Questo lo devi scoprire da sola, se te lo dicessi io probabilmente non avrebbe lo stesso valore che se lo scoprissi tu. Quello che posso dirti è che sono certo che la strada per la gloria non è mai facile”.
Che bello, avevo appena scoperto di aver disegnato un bersaglio sulla fronte fin dalla nascita e l’unica persona che poteva aiutarmi non si sbottonava neanche un po’. Feci una smorfia divertita. “Gloria? Quale gloria? Io vedo solo fallimenti a destra e a sinistra”. Borbottai con un sorriso ironico appoggiando di nuovo la nuca alla parete.
“Perché per ora vedi solo questo, non lasciarti sopraffare, Astrid”. Volsi la testa verso la colonna di destra e lanciai lo sguardo altrove, cambiando gamba. “La fai facile tu”. Sbuffai.  
Lui parlò dopo un po’: “A questo punto pensavo che avresti già chiesto aiuto alle carte”.
“Sono bruciate”. Risposi triste e sentii gli occhi inumidirsi di lacrime di dolore. Gli avevo raccontato che cosa significasse essere una chiromante degna di tale nome e di quanto fossi legata a quelle carte. Era stato come perdere una parte importante di me. 
“Ah, mi dispiace”.
E alla mia tristezza si unì la rabbia e strinsi i pugni, serrando le labbra per non gemere. “Tu dov’eri quando sono stata rapita da quel matto? Dov’eri?” Lo accusai e, anche se l’avevo pensato, fu come se glielo avessi urlato. E come se lo stessi percuotendo mentalmente. “Dov’eri? Dov’eri? Perché non c’eri? Rispondi!” 
“Sono sempre stato accanto a te, ma la battaglia dei tuoi amici con Aurel ha richiamato le Creature. Sono state loro a impedirmi di agire. E non è vero che ti ho lasciato da sola, ho fatto una fatica immane per trovarti. In quello stanzino ti sei svegliata perché mi hai sentito, se non fosse stata catturata anche quella ragazza e poi non avessero mandato quel Gold Saint ti avrei tratto in salvo io stesso. Ti ho aiutato prolungando l’accecamento e il dolore di Aurel e a risvegliare i ricordi delle nostre battaglie. Scusami se sono arrivato tardi, non ho potuto fare diversamente, altrimenti mi avrebbero scoperto”.  
Alzai le spalle, simulando una nonchalance che davvero non avevo: “Ormai è passata, anche se questa situazione mi ricorda Sisifo di Sagitter con suo fratello maggiore Ilias di Leo”. Anche questa era farina del sacco del mio amico, o meglio, maestro, che commentò: “La loro era una situazione molto diversa, non mi sembra che tu nutra un complesso d’inferiorità nei miei confronti, o che il Santuario ti dia della raccomandata”.
“No, infatti”. Neanche all’università era mai fregato qualcosa a qualcuno di chi fossi figlia e nipote. E meno male. Qui al Santuario di me dicevano cose ben diverse, ma tutte veritiere, che avevo messo in giro io. Ma nel mondo chi non parlava di chi? C’è una piccola differenza tra le voci che ti vengono affibbiate e quelle che metti in giro tu stesso. Se quelle che dici tu sono vere e se le ritieni una cosa positiva per te, sei felice che girino. Questo era il mio caso. E non vedevo che ci fosse di male se le persone sapevano che io ero una chiromante.
“Allora cosa c’è che non va?” Mi interpellò con dolcezza, accorgendosi del mio silenzio.
“É che stavo cercando di riprendere in mano la mia vita, far finta che non fosse accaduto nulla, capisci? Avevo persino ripreso a lavorare al Kazablanc e adesso tutto da rifare, anzi, no, sembra quasi che il Karma sia intenzionato a tenermi qui a tutti i costi”.
Poi ce ne restammo zitti entrambi. 
“Posso chiederti una cosa?” Mi domandò in tono gentile.
“Sì”.
“Perché hai cercato di riprendere la tua vita come se non fosse successo niente?” Mi passai una mano tra i capelli e sospirai: “Cosa dovevo fare? Credevo che fosse la cosa migliore”.
“A te piace vivere qui?” Non ci avevo mai pensato. Eppure la risposta mi affiorò alla mente da sola, senza che l’avessi premeditata. Proprio allora le porte si aprirono e Shun e Death Mask ne uscirono.  Oh, non sapevo che fosse stato convocato anche lui. Shun mi salutò con un sorriso che ricambiai con un cenno della mano. Invece Death Mask mi fece cenno di entrare. Mi staccai dalla parete e lo raggiunsi. «Che vi ha detto?» Domandai.
«Il Gran Sacerdote vuole assicurarsi che non ci saranno problemi al Santuario per l’arrivo degli ambasciatori di Poseidone; perciò ha aumentato la sorveglianza e ci ha raddoppiato i turni di guardia; vieni, ora tocca a te».
«E tu, non te ne vai?»
«No, mi ha dato il permesso di restare».  
Ok.
Qualche tempo fa Castalia mi aveva spiegato come funzionava la sorveglianza. In pratica questo compito era delegato ai soldati semplici e a Saint di rango più inferiore, come i Bronze.  
Death Mask invece sbuffò: «Peccato che Kanon si sia messo in mezzo, vorrà dire che usciremo un’altra volta».
Battei le palpebre, confusa. «Che vuoi dire?»
«Te lo dirà lui, forza, che ti aspetta». Mi esortò ad avviarmi accennando con il capo alla Sala alle sue spalle.  
Le porte furono richiuse dietro di noi. Avanzammo verso di lui e m’inchinai al cospetto del Gran Sacerdote, alla maniera dei Saint. Se questo impressionò i due, non lo dettero a vedere. «Volevate vedermi, Signore?» Proprio non ce la facevo a chiamarlo Sua Santità. Quest’ultimo mi fissò a lungo, prima di comunicarmi che aveva deciso di promuovermi ad ancella della Casa di Atena. Ossia, da adesso in poi avrei prestato servizio solo esclusivamente nella Casa della Dea e avrei alloggiato lì. «Naturalmente anche la tua paga subirà un aumento». M’informò.
“Questo significa che vuole tenermi d’occhio. Non si elargiscono promozioni così a caso, dopo un avvenimento non certo positivo, che io sappia”. Capii. A quelle parole balzai in piedi e lo trafissi con gli occhi. Le mani serrate in due pugni lungo i fianchi.
«Desideri dire qualcosa?» Domandò educatamente il mio interlocutore, per niente turbato.
“Oh, ci sono molte cose che vorrei dire. Non erano questi gli accordi, non avete alcun diritto di tenermi qui contro la mia volontà”. Ma queste parole non abbandonarono mai la mia mente. Stare nello stesso Palazzo alle sue dipendenze significava essere controllata e studiata più facilmente. Mi aveva fregato due volte. Tanto per cominciare non c’era niente di malvagio nel promuovere un’ancella. E io non avevo mai dato le dimissioni, me ne ero solo andata così piantando capra e cavoli da un giorno all’altro.
Merda. 
Kanon dovette intuire una parte di ciò che pensai perché aggiunse: «Se è per il nostro accordo non temere, è ancora valido, solo che desidero che tu stia meno a contatto possibile con dei Saint agli arresti, per la tua reputazione».  La mia reputazione, ma che scusa patetica. Proprio a me veniva a dirmelo? L’unico che ne aveva una peggiore era l’uomo che stava poco più indietro rispetto a me. «No, non voglio dire niente». Risposi distogliendo lo sguardo, cingendomi l’avambraccio sinistro con il destro, tornando a inginocchiarmi.
«Bene, se è per la Sacerdotessa dell’Aquila e i Saint della Croce del Sud e dello Scudo, non temere, l’abbiamo già informata della tua partenza stamattina presto». Ah, aveva già organizzato tutto, quindi ero qui solo per esserne informata. Poi chiamò il suo assistente, che finora si era tenuto in disparte. «Ditemi, mio Signore».
«Fate visitare la Tredicesima Casa alla nostra nuova ancella e spiegale quali saranno i suoi compiti». Ordinò il suo superiore. 
«Sarà fatto, mio Signore». Poi mi guardò in attesa che mi muovessi e lo affiancassi sulla pedana. Mi ci volle qualche secondo per comprendere quella muta richiesta e obbedire.  «Allora, mando un paggio a raccogliere le tue cose e portarle qui». Offrì il Patriarca. Mi fermai e dichiarai, guardandolo dritto in faccia: «Non serve, posso farlo anche da sola».
L’uomo dietro la maschera ricambiò il mio sguardo: «Sei sicura che non ti serva aiuto? Mi è stato riferito che adesso disponi di più effetti personali.» perché ovviamente mi teneva d’occhio.
Liquidai la questione con uno svolazzo della mano: «Non esageriamo. Son solo due vestiti».
«Sei sicura?»
«Sì». Aggiunsi per sicurezza di fronte al suo silenzio. Il cellulare, al contrario delle mie carte si era salvato, anche se dovevo sostituire il vetro del touch. Pensavo che la discussione fosse finita lì e invece disse, con calma: «Potrei fare una richiesta io, invece? Mi è giunta voce che i tuoi parenti siano dei luminari nel campo dell’astrofisica e dell’astronomia. E ho sentito solo cose positive su di loro. Stavolta voglio fare le cose per bene e voglio parlarci di persona. Voglio assicurarmi che i tuoi non abbiamo paura per te, sapendoti di nuovo in terra di Grecia, invece che in patria e, vorrei risarcirli di tutto il disturbo che gli abbiamo dato un anno fa».  
Sgranai gli occhi: era serio? Dov’era la trappola? E soprattutto, assottigliai gli occhi e domandai, offesa: «Fatemi capire, Sua Santità, volete forse chiedere il permesso a mio padre di farmi stare qui come se fossi una bambina piccola?» 
«No, certo che no, voglio solo che sappiano che tu sei al sicuro che non ti abbiamo mai rapito. Questo, per quanti pericoli si celino qui, è pur sempre il posto più sicuro per te, considerando tutti i pericoli che attiri». Osservò ragionevole, alzandosi e aprendo le braccia per indicare tutto ciò che ci circondava. 
Lo osservai a lungo prima di ribattere: «Non c’è altra scelta, vero?» Kanon scese i gradini e mi posò una mano sulla guancia con delicatezza. Lo stesso gesto che avrebbe potuto elargirmi mio padre, anche se meno rigido. Lo guardai contrariata e mi scostai. Lui lasciò ricadere la mano e rispose lapidario anche se mesto: «Almeno su questo, sono certo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda». Poi cambiò discorso: «Sei sicura di riuscire a fare tutte queste scale?»
Repressi l’occhiata omicida che stavo per lanciargli. Ora che ero sotto al suo stesso tetto non mi conveniva farmelo nemico.  Scrollai le spalle e ribattei ironica: «Che sarà mai? Se proprio non ce la faccio farò due viaggi». Sai che fatica. La vera fatica sarebbe stata convincere i miei.
«Come desideri».
A volte avevo l’impressione che più che un’ancella mi vedesse ancora come un’ospite, perché non era così che ci si rivolgeva a un collaboratore domestico.
M’inchinai e andai a prendere le mie cose e fu allora che mi ricordai di quel vestito. Provai un moto di tristezza. E, dire che il vestito per la festa mi era arrivato proprio quella mattina.
Lythos mi osservò tutto il tempo senza aprire bocca. Forse neppure lei sapeva cosa dire o se fosse il caso di rompere il silenzio. Si limitò soltanto a porgermi una cosa.
Così, bagagli in mano, rientrai alla Tredicesima.
Trovai il segretario del Portavoce di Atena in Terra attendermi all’ingresso. «Ce ne hai messo di tempo». Commentò soltanto, a braccia conserte, forse nel tentativo di apparire ancora più autorevole, quando raggiunsi il terzultimo gradino. Alzai le spalle e mi scusai. Mr Simpatia mi lanciò un’occhiata obliqua. «Seguimi». Ordinò in tono serio.
Mi scortò fino a uno studio e, dopo una breve presentazione, mi sbolognò al vecchio seduto sulla scrivania che controllava il bilancio. Indossava un frac marrone come la corteccia di un albero sopra un panciotto verde scuro e una camicia bianca inamidata. Un papillon nero allacciato al collo. Sembrava una sorta di rugoso gorilla rapato a zero, col muso aggrottato, infilato a viva forza in un completo da cerimonia.
Prese il bastone e si avvicinò per guardarmi. Anche se piegato in due, non mi sfuggirono le mani grandi quanto la mia testa e gli occhi infossati. Riuscivo quasi a intuire la stazza originaria. Se fossi stata il capo della baracca e, se il Santuario fosse stato una discoteca, lo avrei messo a fare il buttafuori. Tokamaru Tatsumi mi fece fare il tour.
Sebbene parlasse con voce impastata e a tratti stentorea per via della tosse secca, non era un simpatico nonnino. Era soltanto un maniaco dell’ordine, ligio al dovere persino peggio di Shura.
Non avrei mai pensato che la Tredicesima Casa fosse tanto bella. Era persino più bella delle altre più in basso.  Restai incantata al punto da provare un senso di vertigine a vedere questi corridoi di marmo candido. I ricchi tendaggi rossi e oro decoravano le grandi finestre, i bassorilievi e altorilievi recanti le imprese della Dea, mi fecero credere di trovarmi in un museo. Per le stanze si respirava un vago profumo di rose. Era tutto arioso, luminoso e molto pulito. Restai sbalordita anche nel vedere la vasca da bagno della Dea, cioè un’immensa piscina olimpionica. Come anche il letto della Divina. Tutto mi sarei aspettata fuorché un letto di pietra, quasi un altare sacrificale. Mi venne un accenno di mal di schiena per la Dea. Potei anche appurare che la Sacra Dimora era dotata delle comodità più moderne, almeno per quanto riguardava la cucina e gli pianti elettrici, igienici e di riscaldamento. Tatsumi ci tenne a specificare che avevano istallato il termosifone sotto al pavimento.
Infine mi condusse in un’ala più esterna e si fermò davanti a una stretta porticina che sembrava uno sgabuzzino. «La tua stanza». Era talmente stretta che probabilmente era stata ricavata da uno sgabuzzino. Almeno c’era lo spazio sufficiente per un letto addossato al muro con comò, un’alta finestra davanti al medesimo. Un banchino sotto la finestra doveva farmi da scrivania, il separè a sinistra. La cassapanca stava sotto al letto.
Passai le dita sulla testiera del letto; almeno era pulita. Il gorilla nipponico si scusò dicendo che Kanon aveva insistito affinché mi fosse affidata una stanza personale. «Devi averlo colpito molto, ragazzina. Non l’avevo mai visto interessarsi così prima a una semplice ancella».
«Non nel senso che credi tu». Mormorai così piano che non mi sentì.

«Sì, mamma, sì». Dissi per la millesima volta quella sera, appollaiata sul bordo del letto.
Alla fine avevo chiamato mia madre dopo tre giorni di silenzio radio. Il tempo di trovare un caricabatterie all’interno del Santuario, una presa a cui attaccarlo e il coraggio, nonché le parole giuste. Mi aveva anticipato dicendomi che mio padre e mio nonno avevano ricevuto l’invito da parte del Santuario.  Avrebbero anche voluto dirmelo loro, se solo avessi risposto prima al telefono.
Da quando ero tornata in Italia, la prima cosa che avevo fatto, era tornare a casa dalla mamma. Era anche stato bello tornare in quella casa dove avevo vissuto fino ai diciotto anni. Era stato come tornare bambina e, tra le sue braccia ero scoppiata in lacrime. Poi la mamma aveva chiamato anche mio padre. Tutta la famiglia si era riunita per me. Mancava solo la zia. In compenso mancava poco che mia madre e mio padre fossero tornati insieme. Il dolore della mia scomparsa li aveva riuniti.
Avevano fatto festa e mi avevano fatto raccontare tutto. Avevano voluto sapere come mi avevano trattato, se mi fosse venuta la Sindrome di Stoccolma. Erano rimasti abbastanza sorpresi quando avevano scoperto che mi avevano trattato più che bene e che mi avevano pagato per i miei servigi.
Per contro mi raccontarono che mesi di inferno avevano passato senza di me.
Che, per mia sfortuna l’affitto era scaduto e che ero stata sfrattata e che la mia borsa i ladri se l’erano tenuta.
Mi disse anche che la mia affittuaria, mossa a pietà, l’aveva lasciata entrare nel mio appartamento. «C’era quella rosa bianca nel bicchiere. Ho preso anche quella e l’ho messa in un libro. Non sai quante volte l’ho guardata per…» Poi mia madre era scoppiata a piangere e mi aveva abbracciato. 
Papà non voleva più lasciarmi sola, voleva recuperare tutto il tempo perduto da quando avevo lasciato Bologna. Si era preso le ferie per starmi accanto. Un po’meno che insistesse per controllarmi il telefono ogni volta che mi arrivava un messaggio sui social. 
Quando tornai a chiedere a Giovanni di riprendere a lavorare, visto che insistette per venire con me.
Grazie al Cielo che non passai anche  per i bar e i locali presso cui ero lavoravo come chiromante, altrimenti sarebbe andato su tutte le furie. Mio padre mica lo sapeva che esercitavo ufficialmente quella mia professione. La considerava ancora una «super mega iper stronzata» che ledeva alla mia immagine, la mia reputazione e tutte quelle cavolate lì.
Perciò avevo ripreso il mio schifoso lavoro al Kazablanc con la sensazione di essere più fuori posto che mai. Non solo per il volume eccessivo della musica, ma anche per il fatto che ormai ero cambiata. Anche i miei colleghi se ne erano accorti. Quando rientrai al lavoro la prima e ultima sera, il locale si gelò. Solo dopo mi riconobbero. Gessica, la barista, scoppiò a piangere. Tutti gli altri invece mi abbracciarono e mi fecero le feste e mi tempestarono di domande. Persino Sharon, che oltre a essere la più freddolosa era anche la più taciturna e solitaria. «Astrid?», «Non ci posso credere», «Sei davvero tu?» Mi avevano detto. Solo dopo Denise mi aveva confessato che non era tanto per il taglio di capelli, quanto per lo sguardo. Il mio sguardo era diverso. In confronto a loro, i pochi cambiamenti che avevano subito erano niente. La mia aura e la mia presenza erano molto più tangibili della tinta mora di Denise o dell’occhio nero del Medusa. 
Fu in quel momento esatto che ebbi la conferma di aver fatto la scelta sbagliata. Credo di aver pensato di voler scappare. Soprattutto quando mi venne da rispondere in greco antico ai soliti, pochissimi, avventori.   
Stavolta non erano stati Aphrodite e Death Mask a portarmi via da quello schifo. 
E ora eccomi di nuovo qui, a contare le varie chiamate perse dei miei.
Mia madre non ne fu affatto entusiasta, ma rispetto a mio padre mantenne la calma e, alla fine, parlai solo con lei. «Aspetta, aspetta, fammi vedere se ho capito bene. Quindi sei di nuovo al Santuario». Disse per la terza volta.  Questo ripercorrere gli avvenimenti punto per punto era fastidioso.«Sì, mamma, sì». Ripetei come un disco rotto, levando gli occhi al cielo.
«Perché un ex aspirante Saint ha tradito e ti ha rapito per costringerti a conferirgli l’Armatura di Corona Australis».
«Sì».
«E poi quel pazzo ti ha effettivamente costretta a conferirgli l’Armatura».
«Non nello stesso posto».
«Sì, quello ti ha rapito e adesso sei di nuovo in Grecia da Castalia. Prima o poi mi piacerebbe conoscerla quella donna». Rimuginò tra sé. Che poi perché in un cimitero, me lo chiedevo anch’io.
«Eh, al momento credo che non sia fattibile».
«Ah, sì è agli arresti per averti aiutato per via della regola che vieta ai Saint di assentarsi per più di ventiquattro ore a meno che non sia una missione autorizzata Non le accadrà nulla di male, vero?» Disse con il tono di una ragazzina annoiata che ripete la lezione. Omettendo volutamente il discorso del risarcimento.  
«No».
«Meglio così». Disse sollevata. Poi continuò, con lo stesso tono di prima. Quando parlò di Neera mi venne da pensare che più che un tentativo di salvare me, avesse tentato di salvare il suo orgoglio. 
Finì di ripassare tutto con un: «E tu, in tutto questo, hai perso le tue carte nell’incendio».
Al solo sentirle nominare due lucciconi mi rigarono le guance. Me li asciugai con l’altra mano: «Non dire niente, mi sento tremendamente in colpa per...»
«Ma chi se ne frega delle carte, io sono preoccupata per te!»
Trasalii stupita, sì tanto da smettere di tergermi le lacrime dal volto: «Per me? Ma mi avevi sempre detto che le carte...»
«Sì, ok, sono importanti anche le carte per il discorso del Patto, ma tu sei ancora più importante di loro, lo capisci questo?»
«Sì». Balbettai tergendomi altre lacrime e tirando su col naso. Mia madre restò in silenzio per un po’, in attesa che mi calmassi. Dopo un po’ riprese a parlare. «Va bene, allora cos’hai intenzione di fare?»
Sbuffai: «Visto che tutto complotta per farmi restare qui allora resto qui finché non troverò il modo di uscirne».
«Quindi resti nel covo dei tuoi ex rapitori?» Incassai la testa tra le spalle, imbarazzata, prima di dire, un po’ a disagio: «Credo che siano meglio loro che questo che le Creature hanno ammazzato».
«Le stesse che sono sotto al tuo controllo?»
«Sì». Al solo pensiero rabbrividii.
«Come ti senti, amore?» Domandò preoccupata, percependo il tormento dalla mia voce. Solo a pensarci sentii tutta la calma apparente infrangersi. E la voce, quando mi uscì, era incrinata: «Mi sento una merda. Quando ho ammazzato la Dea Eris, mi sono sentita un mostro. A volte Lei e i Suoi figli tornano a farmi visita quando ho le crisi. Ma ora, ora non sento niente. Io... non voglio più...» Mi tamponai gli occhi grondanti di lacrime con una mano e mi sfuggì un gemito di pianto.
«Stai tranquilla tesoro, ti prego, stai tranquilla, è tutto passato, non succederà più». Si affrettò a consolarmi. «É tutto passato tesoro, non hai detto che frequentavi uno psicologo al Santuario?»
«Sì, ma devo ancora tornarci e parlargli, anche se credo che lo sappia anche da solo». Mormorai, cercando di darmi una calmata. Ci riuscii dopo una decina di minuti e un paio di volte che cadde la linea. Mia madre era pure esitante nel riprendere la conversazione. Alla seconda volta che risposi al telefono, quando mi richiamò riuscii a trovare una parvenza di calma.
Mi domandò, ancora in tono preoccupato: «Quindi cosa pensi di fare?»
«Mi stabilisco qui, ormai è deciso».
«Oh, io speravo che...»
«Mamma, lo sai, te l’ho già detto, non posso restare, non finché questa storia non finisce, non posso sopportare di mettervi in pericolo».
«E lì non lo sei?»
«Già di meno che se vivessi all’esterno, a quanto pare». Dissi stringendomi una gamba al petto.
«Non c’è altra scelta a quanto pare». Sbuffò lei, cercando di dissimulare il dolore che provava nel sapermi di nuovo lontana. «Tuo padre impazzirà». Mi avvisò. Alzai le spalle: «Papà dovrà farsene una ragione». Aveva accettato a malapena che io mi trasferissi nella riviera laziale, ci avrebbe messo un po’di più per questo.
«Quindi il Gran Sacerdote vuole davvero vederci?»
«Sì».
«E come facciamo che quel posto non ha indirizzi?»
«No? Eppure non esiste un Saint che non sia dotato di cellulare, persino lui ne ha uno». Dissi. L’avevo visto di sfuggita durante il tour. Eravamo passati dalle parti dei suoi appartamenti privati e avevamo visto Kanon discutere al telefono.
«Davvero?»
«Sì, conoscendolo si inventerà presto qualcosa.» Iniziai, giocherellando con una delle mie ciocche.
«Adesso basta, dicci dove sei!» Interruppe la voce perentoria di mio padre, facendomi sgranare gli occhi e bloccare a metà di un movimento. Erano entrambi in vivavoce ed eravamo in conferenza telefonica. «Noi veniamo a stare con te!» Dichiarò.
«No!» Quasi urlai rischiando di allertare le guardie che bazzicavano per i corridoi. Per poco non balzai in piedi.  
«Come no?» Ribatté minaccioso, stupito dalla mia presa di posizione.
«No! Non posso permettere che voi abbandoniate le vostre vite per venire qui solo per me!»
«Ma che stai dicendo? Sei la nostra bambina, non ci sono soldi o ragioni che tengano, per te potremmo...»
«No, papà, la mia risposta resta sempre no! Voi non sapete neanche difendervi!»
«Perché, tu sì?» Ribatté inacidito e io trattenni il fiato rumorosamente. Poi mio padre si rese conto di quello che aveva detto e si affrettò a rimediare: «Scusami amore, non volevo ferirti».
«Sì, lo so...» Chinai il capo, appoggiandomi alla parete. Lui continuò a giustificarsi: «É solo che mi preoccupo e questa situazione non mi piace per niente».
«Papà, lo so, ma ormai ho ventun’anni, non sono più una bambina. Se questo è l’unico modo che ho per tenervi al sicuro, allora così sia».
«Significa che non ti rivedremo mai più?» Roteai gli occhi, infastidita: «Esagerato, se riesco a procurarmi anche un tablet potremo fare delle videochiamate, sentirci, scriverci, qualche volta uscirò dal Santuario e potrò fare un giro ad Atene! Non è mica che vado al Polo o in Congo!»
«Sì però, quand’è che questa storia finirà? Stavi appena ricominciando a prendere in mano la tua vita».
«Io odiavo la mia vecchia vita.» dichiarai lapidaria e fu come essermi tolta un peso dal cuore.  Anche se ebbi la piena consapevolezza di tutto ciò non appena lo dissi. Mio padre cadde dalle nubi. 
«E questa ti piace? Una vita dove ogni tre per due rischi di finire rapita e ammazzata?» Domandò evidenziando l’assurdità del mio discorso. Come se non ne fossi consapevole anch’io. Mi portai una mano alla tempia e cominciai a massaggiarmela, sbuffando. Sempre così mio padre, voleva sempre avere l’ultima parola su tutto. Mio malgrado però mi ritrovai ad ammettere a me stessa che mi sentivo viva e di nuovo al mio posto. Però non glielo dissi. Cercai di dirgli che sarebbe stata una soluzione momentanea ma non mi ascoltò.  Poi optò per una tecnica che avrebbe funzionato negli Anni Sessanta, cioè il famoso: «E a tua madre non ci pensi?»
«Ehi, io sono qui e parlo tutti i giorni al telefono con nostra figlia!» Ribatté piccata la chiamata in causa, demolendo così il suo discorso. Ritrovatosi alle strette, mio padre non ebbe altra scelta che chiedermi se fossi proprio sicura. Ancora una volta risposi affermativamente. Avrebbe dovuto farsene una ragione. Per quanto mi amasse doveva imparare a lasciarmi andare.
Fu allora che mi venne un’idea: «Portatemi le mie cose».
«Le tue cose?» Ripeté lui, perplesso.
«Sì, i miei vestiti, il computer, quelle cose lì. Sono rimaste da voi». Spiegai.  
«Ah. E quindi?» Domandò come se non avesse capito dove stessi andando a parare, quando invece lo sapeva benissimo. Il suo tono era troppo stridulo rispetto a prima per non aver capito. E mio padre sapeva mentire solo a due categorie di persone: i vigili urbani e gli energumeni che in Norvegia lo vessarono da adolescente. Occasionalmente mentiva anche ai suoi colleghi, ma erano sprazzi più unici che rari. Era mia madre quella tosta tra i due. Mio padre boccheggiò per un po’ perché sentii mia madre dire: «Non ti preoccupare vengo io con te, così nessuno ti metterà le mani addosso». Ridacchiai. Ci aveva sempre goduto a prenderlo in giro così.
«Oh, va bene. Vuoi stare in Grecia? Vada per la Grecia, anche se non capisco cosa possa darti». Si arrese retorico.
«Un modo per capire cosa mi stia succedendo, e come gestire i miei poteri, magari?» Ribadii ironica. Questo me l’ero tenuto per ultimo. Gli faceva ancora specie sapere che ne avevo. Ma gli faceva ancora più specie sapere che avessi ammazzato delle persone.
«E noi a Bologna non possiamo?» Ritentò.
«Anche voi, se continuerete a investigare sulla sparizione delle stelle e sulle Creature». Che gli avevo rigirato un paio di video pescati su Youtube. Il nonno e la nonna ci si erano già buttati a capofitto su questa storia, ognuno con i propri mezzi. “Ti rendi conto delle implicazioni filosofiche in tutto questo?” Aveva detto il primo, entusiasta quanto Guglielmo da Baskerville nella biblioteca, quando lo avevo messo a parte della mia teoria. Ovvero che le Creature che divoravano le stelle dei Saint fossero le stesse che distruggevano il firmamento. La nonna non aveva detto nulla.
Lo sentii sospirare rumorosamente dall’altra parte della cornetta: «D’accordo. Allora verremo il prima possibile». Poi borbottò qualcos’altro con voce stanca, mentre me lo immaginavo che si strofinava la faccia come a dire: “ma che mi tocca sentire…” «Va bene. Sei sicura di poterti fidare di questa gente?»
«Sì, ora devo andare, domani devo alzarmi presto».
«D’accordo, allora buonanotte» disse esitante e dispiaciuto. Si capiva che voleva continuare a parlare con me. Anche mamma mi salutò dicendo: «Aspettiamo tue notizie».
«Senz’altro, buonanotte, vi voglio bene».
«Anche noi te ne vogliamo tesoro, buonanotte». E misi giù. Buttai il telefono sul letto e, con uno sbuffo, mi alzai per appollaiarmi sul davanzale della finestra aperta. Non mi era sembrata una buona idea girovagare così con il telefono incollato all’orecchio per la Casa di Atena. Per questo, me ne ero rimasta in camera. Per fortuna non faceva più così freddo. Il fiato non si condensava più e la temperatura era accettabile. 
Appoggiai la schiena contro la cornice della finestra e mi abbracciai le gambe. Ultimamente stavo sempre appoggiata a qualcosa, come se non fossi più capace di reggermi in piedi da sola.
Perciò eccomi qui, con indosso la camicia da notte a guardare le stelle. La luna era così vicina da fare quasi paura, non solo perché oscurava le poche stelle rimaste.
Chissà se Kanon sarebbe salito sullo Star Hill anche stasera? E, soprattutto, chissà se avrei mai riparlato con Yoshino. Probabilmente con il mio operato stavo solo peggiorando la situazione. Per fortuna non l’avevo incontrata in questi giorni. Ma non avevo più rivisto neanche i miei colleghi.  
A un certo punto uno dei primi pipistrelli della stagione sfrecciò davanti a me e scomparve nel buio.
Sorrisi nel vedere che la natura stava svegliandosi seguendo il suo vero ritmo.
Presto altri pipistrelli svolazzarono davanti al mio campo visivo. Ero così deliziata nel vederli che quando ne vidi uno volare verso di me, senza cambiare rotta fino all’ultimo, mi spaventai. Sussultai e persi l’equilibrio. Caddi di sotto sul sedere e battei la testa sul banchino e i piedi sul muro. Gemetti di dolore e mi portai una mano alla testa. Rialzando gli occhi sul davanzale incontrai gli occhioni gialli incuriositi e preoccupati del gufetto tascabile. «Cocteau!» Esclamai sorpresa, ma contenta. Mi rialzai. «Accidenti a te, mi hai fatto prendere un colpo! Come hai fatto a trovarmi?» Gli domandai sorridendo, intanto che mi sedevo e passavo a massaggiarmi i piedi. «Bè, è bello rivederti, strano gufetto curioso». Feci per accarezzarlo ma mi guardò malissimo e minacciò di beccarmi schioccando il minuscolo becco ricurvo. Ritrassi la mano. «Ok, ok, non ti tocco, Dio, che suscettibile». Giuro che quell’esserino ricambiò la mia occhiataccia. “Già, i gufi non sono animali molto socievoli”. Pensai. Ed era tutto quello che sapevo su di loro. «Bè, che sei venuto a fare qui? Impedirai ai pipistrelli di entrare?» Continuai sorridente. Appoggiai la testa su un braccio, di modo che i nostri occhi fossero alla stessa altezza. «Oppure stasera resti a dormire da me?» Lui mi guardò inorridito e io mi accigliai continuando a sorridere: ma che razza di reazioni aveva quest’animale? Poi se ne volò via.
Vabbè, che animaletto strano. O forse si ricordava perfettamente le suonerie della mia sveglia. Quando convivevo ancora con Castalia mi divertivo a farlo saltare per aria come la prima volta che misi I want to break free. E dire che volevo vedere che cosa avrebbe combinato con Mr Vain is a dancer il remix dei Culture Beat e degli Snap!.  
Richiusi la finestra, poi spensi la luce e mi coricai. Quando mi addormentai sognai di trovarmi in riva al mare. Tirava vento e io mi scostavo i capelli dal viso. Poi mi guardavo attorno e mi inoltravo nella macchia mediterranea alle mie spalle, per poi approdare di nuovo alla grotta. La scena cambiò e mi ritrovai sullo Star Hill a scrutare la volta celeste con un telescopio.
Quando mi svegliai la mattina dopo sentii il bruciante desiderio di scrutare il cielo notturno come quando ero ragazzina. Mi misi a sedere e mi guardai attorno, faticando un po’per riconoscere l’ambiente. Poi sbadigliai assonnata. «Primo giorno».
Mi stiracchiai, godendomi il calore delle lenzuola. Mi alzai, rifeci il letto, mi vestii. I vestiti dei servi della Casa di Atena erano bordati d’oro. Una bella differenza rispetto a quelli degli altri domestici.
Andai alla ricerca del bagno, ancora mezzo addormentata, solo per ritrovarmi a cercare di forzare una porta. Smisi soltanto quando una guardia dal volto rubizzo per le risate fin lì trattenute, mi fece notare che era il ripostiglio delle scope. Il tour non era servito a molto, mi sarebbe occorso un po’di tempo per abituarmi.
Mi accompagnò al bagno dove potei darmi una rinfrescata e realizzare la mia figuraccia.
Quando uscii mi domandò, ancora ridacchiando, se avessi avuto bisogno di una mano per trovare la cucina: «No grazie». Dissi, rossa come un peperone. Quella me la ricordavo a grandi linee perché ci avevo cenato la sera prima. Mi salutò e se ne tornò al lavoro. Tempo un giorno e sarei diventata lo zimbello della Tredicesima Casa. Venne da ridere anche a me, in effetti dovevo essere stata molto buffa.  
Mi avviai verso la cucina cercando di ricordarmi il percorso che avevo fatto da lì al bagno.
Una volta arrivata, un quarto d’ora dopo, mi beccai la prima di una lunga serie di strigliate per il ritardo. Dopodiché mi fu assegnato il compito di pulire la cucina. Per colazione, dovetti accontentarmi delle briciole, un po’di frutta e dell’acqua. “Speriamo di ricordarci subito i percorsi altrimenti la prossima volta arriverò domani l’altro”.
Mentre lavavo le stoviglie, borbottai: «Primo giorno» per la seconda volta.  
Decisi di muovermi abbastanza rapidamente, non volevo passare la mattinata così. Mi fossi portata dietro il telefono, almeno avrei ascoltato un po’di musica. Smisi giusto in tempo per le undici e mezza, quando i cuochi cominciarono a preparare il pranzo. Aiutai una cuoca che era in difficoltà. Stavo tagliando i pomodori quando  il segretario di Kanon fece la sua comparsa e mi chiamò. Mi sciacquai le mani e le asciugai al grembiule e gli andai incontro. Pensavo che mi avrebbe ordinato di apparecchiare, o di servire il pranzo, invece, con mia grande sorpresa, mi informò che avrei mangiato con Kanon. 
Seguii Mr Simpatia. Raggiungemmo la Sala da Pranzo. Ossia una versione più piccola e accogliente della Sala del Trono con al centro un tavolo rettangolare lungo sei metri apparecchiato di tutto punto solo a capotavola. Inutile dire che Kanon mi stava aspettando, in piedi vicino alla sua sedia. I lunghissimi capelli sciolti sulla sua schiena. L’elmo sul desco.   
Qualcuno avrebbe detto che pranzare con il Gran Sacerdote era un grande onore. A me ricordò soltanto La bella e la bestia. La differenza era che questo grande stronzo non sarebbe mai saltato sul tavolo, abbaiando come un animale. Mi salutò educatamente e io risposi con una riverenza: «Mi aspettavo che fosse la mensa della Dea Atena».
«Di solito, ma quando non c’è è la mia mensa». Poi mi indicò la sedia all’altro capo della tavola e m’invitò ad accomodarmi. Lo accontentai guardandolo sospettosa. Se aveva organizzato già ogni cosa a cosa gli serviva avermi qui? Sperai con tutta me stessa che non volesse corteggiarmi. Al solo pensiero mi venne male. Cioè, bello era bello, una bella botta ormonale riusciva a suscitarla, ma non ero ancora così rincoglionita da non fiutare un’ulteriore trappola. Tuttavia neanche questo bastò a cancellare il rossore dalle mie guance. Ammetto che ero abbastanza imbarazzata.
Mentre i miei nuovi colleghi che ci sciamavano attorno servendo le portate e mi guardavano stupiti chiesi: «Mi era parso di capire che fossi una vostra dipendente, perché sono qui?» 
«Ho pensato che potesse essere un buon modo per ringraziarti considerando il servigio che hai reso al Santuario in più di un’occasione». Spiegò con calma. Inarcai un sopracciglio, per lo scetticismo. Che ringraziamento del cazzo.
Il fratello minore di Saga (che seguitavo a non incontrare) continuò: «So che non è facile per te quello che stai passando e dei tuoi poteri, però ci terrei affinché tu non ti sentissi in trappola».
«Ah, ok, grazie». Dissi, cominciando a servirmi.
«E perché mi piacerebbe studiare le tue capacità». Completò e io capii di aver fatto un’altra figuraccia, avendo parlato troppo presto. Misi giù il bicchiere di vino che mi ero servita da una brocca. «Oh». Me ne uscii stupita. «Ok, se può esservi utile». Dissi perplessa. Dopotutto non avevo ancora ben capito fin dove arrivasse l’estensione effettiva dei miei poteri. Mi concessi un respiro prima di intavolare il discorso: «Quando avete intenzione di studiarmi?» Non che anelassi di essere studiata come una cavia da laboratorio, ma potevo fare altrettanto con questo gran p.d.m. . Nel momento stesso in cui lo etichettai così, mi accorsi che  questa definizione calzava a pennello anche a lui. «Voglio dire, con gli impegni che sicuramente avete non credo che...» 
«Proprio nelle due ore seguenti il pranzo e la cena, ma non oggi, cominceremo domani».
“Perfetto, mi rimarrà tutto sullo stomaco”. Pensai con un’improvvisa voglia di sbattere la testa sul tavolo.
Lui mangiava tranquillamente, come se stessimo parlando di quisquilie. Invece dissi, giocherellando con le pietanze che avevo nel piatto: «Giacché voi volete studiarmi, io avrei un paio di richieste da sottoporvi. Dovrei scendere a Rodorio a comprare un album da disegno, delle squadre, un compasso, pennarelli e trovare un copista». Si pulì la bocca con il tovagliolo e domandò a cosa mi servisse. Così gli spiegai che volevo ricreare il mio mazzo di carte. Kanon soppesò la richiesta e poi mi dette il suo benestare. Mi sentii un po’un’idiota per averglielo chiesto. Forse non c’era neanche bisogno. «Grazie, Sommo Kanon, poi ci sarebbe un’altra cosetta». Tentennai e lui mi guardò incuriosito, attendendo che parlassi: «I miei genitori vorrebbero portarmi le mie cose rimaste in Italia, sono per lo più vestiti, il pc e.…»
«Non vedo dove sia il problema». Ribatté in tono tranquillo facendomi ammutolire. Pensavo che avrebbe rifiutato. Ripresi a mangiare. Me l’ero immaginata molto peggio di così, invece era stato accomodante. Che fossi partita prevenuta?
Una volta tornata alla mia routine fui assalita dalle comari della Tredicesima Casa. Come se si fossero appostate per tendermi questo agguato. «Cosa ti ha domandato?», «Perché ti ha invitato a pranzo?», «É vero che cenerai con lui?», «C’è qualcosa tra voi?», «Questo influenzerà sulla tua paga?», «Sei la sua etera? La sua amante?», «Che invidia; bella come sei per forza che ti ha scelta!». Alcune ridacchiarono una con l’aria di chi la sa lunga, mentre si perdevano sul viale della fantasia. Questa frase in particolare, detta in questo modo, mi fece sentire sporca: «Aspettate, non è come pensate, io...» Ma non mi ascoltarono. 

Il secondo giorno, come promesso, cominciarono gli “incontri” di boxe psicologici. Il Gran Sacerdote, infatti, cercava, con la stessa abilità del sadico manipolatore qual era, di capire sia il mio modo di pensare sia i miei poteri. Peccato che non fossi esattamente collaborativa. Inoltre, entrai fin da subito in modalità analisi: ossia avrei interpretato il suo linguaggio del corpo e avrei fatto caso alle parole che diceva. Se poi la mia empatia si fosse destata sarebbe stato ancora meglio.
Cominciò chiedendomi come funzionasse il mio potere. Ammisi di non averne idea. Mi guardò come a chiedermi se lo stessi prendendo per i fondelli: «Dovrà pur funzionare in qualche modo».
«Signore, che vi devo dire, ne so quanto voi». Mi scusai.
«Sai almeno da quanto tempo ne sei in possesso?»
«Credo da tutta una vita».
«Credi?»
«Ho dei ricordi molto lacunosi della mia infanzia». Spiegai. E lui a pezzi e bocconi mi fece dire che qualcuno mi insegnava a usarli, ma non mi strappò altro ancora. Anche perché del mio maestro ricordavo appena la sagoma, il profumo, l’altezza e la stazza. Cercai di nascondergli il resto quando mi accorsi del tentacolo mentale che strisciava sinuoso nella mia mente. Non era discreto quanto i lemuriani e non me l’ero immaginato, allora.    
«Ancora?» Ripeté confuso.
«Non so spiegarvi, è come se fossero sigillati». E, istintivamente mi toccai il polso di Snakye aspettandomi di sentire le sue squame sotto al mio tocco. A volte il mio corpo mandava dei ricordi delle sensazioni di quell’adorabile serpentello. A volte mi aspettavo quasi di vederlo spuntare tra le rocce da un momento all’altro e salutarmi allegro dicendo: “Ciao, Astrid!” «Snakye?» Domandò il Gran Sacerdote perplesso. Sussultai sulla sedia, non doveva saperlo. «Siete capace anche voi... Ah, giusto, di che mi sorprendo?» Era un ex Gold Saint, era logico che sapesse usare un trucchetto come questo. Gli scoccai un’occhiataccia. Lui mi fissò serio, aspettando una risposta e gli raccontai di lui, descrivendolo come se fosse il mio migliore amico. Difatti lo era. «Animale da compagnia». Mi corresse con un tono come a dire “tu hai dei problemi”. E quasi litigammo. Secondo lui non si poteva essere amici di un animale, benché meno di un serpente. E io lo punzecchiai dicendogli, falsamente innocente, che era perché forse ricordavano troppo gli uomini.
«Che concezione hai dei serpenti?» Domandò sorpreso, ignorando totalmente il mio tono di sfida. Gli rigirai la domanda, liberando immediatamente la testa da ogni pensiero. «Dipende, voi che concezione avete delle persone?» Era un trucco che mi insegnò mia madre quando m’iniziò alle Arti. Per ascoltare la voce delle carte dovevo liberare la mente, perché non si può pretendere di ascoltare se si continua a parlare. Dalla sua faccia perplessa dedussi di esserci riuscita. Acqua silente, ecco cos’era la mia mente. Come l’acqua di una pozza sotterranea, completamente statica, immobile e senza necessità di pensiero. Come un serpente in letargo. Sorrisi, maliziosa.
C’ero abituata a questo silenzio. Dovetti passare i miei dodici e tredici anni a imparare a zittire la psiche per riuscirci. In un certo senso era pure piacevole. Di solito le carte mi supportavano ma stavolta le carte non risposero. Il mio sorriso si spense istantaneamente e il mio cuore accelerò i battiti mentre l’ansia rompeva gli argini. Il mio stomaco prese ad agitarsi, impazzito e mi mancò il fiato. Mi portai una mano al collo, mi sembrava di soffocare. «Che ti succede?»  Mi chiese preoccupato.
«La mia ansia…» Annaspai mentre i sintomi peggioravano. “Non stavolta! Ti prego, non stavolta! Aiuto! Aiutami!” Ma il mio amico non rispose. Mi accasciai a terra in posizione fetale, cercando di non vomitare l’anima davanti al poveraccio che si precipitò a soccorrermi. Chiamò aiuto.
Cominciai a respirare tra i denti, cercando di trovare la forza per resistere, ma senza successo.
Artigliai le mani della persona che rispose alla chiamata di Kanon e pregarla, tra un respiro e l’altro: «Non toglierle».
«Perché? Astrid, tu…» Non risposi. Sentivo che se avessi continuato a parlare avrei cominciato a vomitare sul serio. Chiusi gli occhi, strizzandoli mentre cercavo di non lasciarmi sopraffare. Parlò a ruota libera, riuscendo a tirarmi fuori dal baratro dove ero precipitata, nel giro di un’ora.  In quei momenti era come se regredissi al punto che mi serviva di ascoltare una voce amica per calmarmi. Neanche fossi tornata a essere una bambina nell’utero materno. 
«Come ti senti?» Mi domandò quando mi calmai e lo stomaco smise di dolere.
Lo guardai stancamente, ma non lasciai la presa. Solo dopo mi accorsi di aver tenuto le mani del Gran Sacerdote tutto il tempo. «Meglio… Scusatemi per il fastidio, io… non sono ancora molto brava a controllarmi».
Non commentò, invece mi domandò, estremamente serio se mi succedesse spesso. Gli raccontai che erano diminuiti prima che venissi cacciata. Non mi chiese altro. Onestamente non so se l’avesse visto nei miei ricordi o se gli importasse qualcosa. Mi chiese se ce la facessi ad alzarmi, visto che  ero ancora distesa su un fianco sul pavimento. Mossi la testa in un cenno affermativo e lo ringraziai. Lasciai finalmente le mani del pover uomo, continuando a scusarmi. Mi vergognavo come un cane.
«Mi era stato riferito che ti succedevano di notte». Iniziò titubante, come se avesse avuto paura di chiamarne un altro.  «La maggior parte delle volte, ma a volte succede anche di giorno. Death Mask, Kiki, Mur e Aphrodite hanno già avuto a che vedere con tutto ciò. Ho bisogno d’aria, scusatemi», spiegai avviandomi al davanzale del terrazzo. Mi appoggiai alla balaustra riempiendomi i polmoni d’aria fresca. Mi osservò mentre mi tranquillizzavo sotto la carezza del vento e il tepore del Sole. Non avevo considerato che sarebbe potuto succedere di nuovo. Mi portai le mani alla faccia e la nascosi nei palmi. 
«Non immaginavo che fossi tanto provata, l’avessi saputo prima ci sarei andato più leggero». Si scusò. Quell’uomo aveva la singolare abilità di formulare insieme le scuse e al contempo le accuse.
«Già», dissi tra i palmi, prima di spostarli a sorreggere la testa. Gettai lo sguardo sul Santuario, «non si direbbe, da come riesco a difendermi, vero?» sorrisi nervosa. Lui non rispose. Probabilmente stava già cominciando a mettere insieme gli indizi. Non so quanto potesse capire. Nonostante tutto non riuscivo ancora a darmi pace. Se non mi fossi mossa lui… Le lacrime mi rigarono nuovamente le guance. Con un sospiro di dolore me le detersi, mi ricomposi e mi volsi di tre quarti verso di lui, che era rimasto accanto alle colonne. «Scusatemi, devo, devo tornare al mio lavoro». Dissi, continuando a tenere una mano sulla balaustra. Me lo accordò quasi senza muovere le labbra. Abbassai la testa e gli passai accanto mormorando le mie scuse ancora una volta.     

La mattina dopo sgattaiolai fino alla Settima per raggiungere Paradox per le lezioni. Mi ero ripresa abbastanza. Paradox fu felice di vedermi. Mi chiese come avessi dormito e io le risposi bene. Poi mi fece i complimenti per la mia promozione, quando riconobbe la bordatura dorata e mi passò il bastone che aveva preparato per me. «Forza, non abbiamo molto tempo». Sorrise e ci mettemmo in posizione.
Nell’arco della mattinata, mentre lavoravo scoprii che la voce del mio salvataggio si era già sparsa. Mettendo insieme i pezzi capii che Kanon aveva mandato via il mio collega che era accorso nel momento esatto in cui gli avevo afferrato le mani. Le menti più creative e perverse si inventarono che mi aveva preso in braccio, che mi avesse abbracciato come un innamorato. Alcuni aggiunsero anche parole dolci e altri dettagli. 
Io guardai quell’esercito di pettegoli con un misto di stupore e disgusto. Avrei tanto voluto scoprire questo genio e fargli i complimenti per la fantasia galoppante che si ritrovava.  Ben presto mi resi conto che era inutile cercare di dissuaderli, si erano già fatti i filmini mentali. Se fossero stati degli sceneggiatori, l’industria cinematografica ne avrebbe giovato moltissimo. Per la prima volta mi accorsi di quanto male potesse fare l’assenza di una TV. Considerando che poi la meraviglia fu presto soppiantata dall’invidia e ne pagai le conseguenze nel giro di tre giorni. E poi Mr Simpatia aveva il coraggio di riprendermi se solo mi azzardavo a lavorare ascoltando musica. Evidentemente la versione stitica di Anacleto doveva essere allenato. Beato lui.
Il giorno dopo Kanon decise di lasciarmi stare, forse temendo che fossi ancora provata. Per mia fortuna le crisi erano come un temporale: colpivano, se ne andavano e poi ritornavano.
Il fatto che mi trovassi nella Tredicesima e che avessi cominciato questi allenamenti, cui dovevo l’acido lattico non mi aiutavano a rilassare. “Abituati. Vedrai che ti abituerai”, mi dicevo. E nel frattempo attendevo che fosse così. Per non parlare dei problemi che non avevo ancora risolto, primo tra tutti il mio maestro. Da una parte continuavo a volergli bene, ma dall’altra mi domandavo se non avesse secondi fini. Se fossi andata avanti così avrei finito per innamorarmene nel tentativo di svelare il mistero. A meno che la delusione data dal suo silenzio radio, e l’imbarazzo che ne derivava, non fossero sintomi di una malattia. Come se non bastasse dovevo fare attenzione ai miei pensieri, in quanto a causa della nostra telepatia, poteva udirmi. C’erano stati in passato dei giorni in cui non si presentava proprio.
Smisi di asciugare i piatti e mi appoggiai al piano cottura con un sospiro. «Stai bene?» Mi domandò il mio collega che mi dava una mano. «Sì, grazie, sto solo riflettendo». Gli bastò. Tornò al suo lavoro.
Quando finii di asciugare i piatti uscii e cominciai a girovagare per la Tredicesima. Se non c’era niente da fare non vedevo perché non dovessi farlo. Anche per evitare ulteriori figuracce in futuro.
Anche perché non m’importava di eventuali ramanzine da parte dei colleghi e dai miei superiori. 
Se volevo farmi una mappa mentale allora dovevo fare a modo mio. Brutto avere il cervello che ragiona in questa maniera.
Pensai a Lady Isabel e a quello che mi aveva raccontato il mio maestro. Per quanto mi sforzassi pensavo ancora che se davvero avesse tenuto ai suoi Saint avrebbe fatto meglio di così. Perché proprio non ci credevo che questo fosse il suo massimo. Mi rifiutavo di crederci.
Peccato che non fosse al Santuario, se avessi potuto conferire con lei le avrei proposto di collaborare con mio padre e mio nonno per quanto riguardava le Creature. Gli italiani erano gli astronomi e gli astrofisici più ricercati al mondo tra le università e centri di ricerca stranieri, non solo alla NASA. Erano molto di più che tizi con il naso puntato perennemente per aria. Se avessi continuato gli studi io stessa ne sarei stata un chiaro esempio. Se fossi arrivata al quarto anno probabilmente mi sarei data alla divulgazione. Avrei dovuto chiamare il nonno per sapere a che punto fossero. Ma avevano cominciato relativamente da poco. Ero convinta che se avessero scoperto qualcosa saremmo potuti arrivare più in fretta alla comprensione del mistero di queste entità.
Sapere che i miei sarebbero arrivati presto, mi mise faccia a faccia con l’ironia di questa storia. Proprio come avevo pensato prima che Kanon mi assumesse, era come se questo posto, la mia vita stesse, m’impedissero di essere normale. La prima volta mi aveva trattenuta con una Guerra Sacra, la seconda con l’attacco di Eris e la terza questa. Non ero sicura di volere che esistesse anche una quarta. Era come se il mio Karma fosse legato a questo posto più di quanto pensassi.
“A cosa pensi?” Mi domandò il mio amico nel tardo pomeriggio.
“Che ogni essere vivente è soggetto all’influenza del proprio Karma, ma spetta a noi decidere se subirlo o se spezzarlo. La parte più difficile sta nell’individuare tutte le situazioni che si ripetono, perché è lì che bisogna guardare”. Il pensiero mi corse involontariamente alla Dea, la cui statua crisoelefantina faceva bella mostra di sé dietro la Tredicesima. Chissà quanti Saint aveva visto morire nel corso delle sue vite terrene. “Forse io ho appena trovato il mio”.
“Sei sicura?”
“Più che sicura”.
“Cosa pensi di fare, allora?”
“Restare”. 
“Sei sicura?” Mi chiese di nuovo. Lo chiedeva ogni volta che poteva, forse nella speranza che cambiassi idea.  “Ogni cosa che ho fatto per uscire da qui mi ha riportato qui, allora tanto vale restare e vedere dove mi porterà questa decisione”. Decisi risoluta, anche se non avevo le carte a illuminarmi la via. Avrei potuto ricorrere al tema natale, ma non me la sentivo. “E se fosse una strada dieci volte più pericolosa di quella che stai abbandonando?” Insinuò, dandomi l’idea di sapere molto più di quanto non mostrasse già. Ignorai il suo tono, ma mi appuntai di rifletterci su.
“Correrò il rischio”.
“Non hai paura?”
“Sto morendo di paura, però questa è la mia vita e sono io che voglio decidere come viverla. Non permetterò più che qualcuno interferisca di nuovo”.
“Così sia”. Rispose lui e, con questa formula, parve quasi rafforzare la mia volontà.  
Ovvio poi che le sue manovre non mi convincevano. Stavo mettendo insieme tutti gli indizi che stavo raccogliendo su di lui, appuntandomeli su un quadernino che mi aveva fornito Mr Simpatia. Chissà che magari non fossi riuscita a stimolare la mia memoria. Di una cosa ero sicura, lo temevano più di me. Anche se questo andava ad alimentare le mie più grandi paure e, di conseguenza le mie crisi. Non potevo permettere che continuasse a girare così liberamente, per quanto bene gli volessi. La mia idea era quella di chiedere aiuto a uno dei Gold. Non ero neppure sicura che mi potessero aiutare gli altri. Ma se fossi riuscita a recuperare più in fretta i miei ricordi, allora forse avremmo avuto tutti quanti una chance in più. E non mi serviva di farmi l’oroscopo per capirlo. Potevo solo sperare che mi stessi sbagliando.  

Tempo un altro paio di giorni e mi ero quasi completamente abituata. Certo, continuavo a sbagliare stanza e, invece del bagno, puntualmente mi ritrovavo a cercare di forzare lo sgabuzzino o a tirare invece che spingere le porte. Oppure entravo due volte nella stessa stanza mentre cercavo qualcos’altro. Oppure ancora rischiavo di essere scoperta mentre facevo su e giù tra la Settima e la Tredicesima.
Ovviamente anche questo divenne argomento di analisi dello psicologo, che Kanon mi aveva concesso di frequentare. E a pagare la parcella di tasca mia per la felicità di Kanon. Fortuna che non voleva molto, quasi la metà del mio ex salario al Kazablanc. Anche lì, mannaggia a me che avevo inutilmente rinnovato il contratto. 
Con il passare del tempo cominciai a fare dei sogni strani, sempre riguardanti la volta celeste. E, se da un lato mi incuriosivano, dall’altro mi intimorivano, perché nei miei sogni scomparivano a una a una come se fossero candele spente da un soffio di vento.  «C’è qualcosa che non va, Astrid?» Mi domandò una mia nuova collega quel pomeriggio che stiravamo. «Eh?» Domandai, rendendomi conto solo in quel momento che mi ero incantata.
La mia collega mi squadrò a lungo con un sopracciglio alzato. Non le stavo molto simpatica, non solo per via delle voci che giravano sul mio conto, ma anche per via della confidenza indesiderata che avevo con il Gran Sacerdote. Gli incontri di boxe psicologici infatti, erano ripresi. Per questo i miei nuovi colleghi non mi avevano in simpatia e avevo già terra bruciata attorno ancor prima di iniziare a farmi altri amici sul lavoro. “Grazie, Kanon”. Pensai sarcastica mentre mangiavo sotto le occhiate astiose dei miei nuovi colleghi che ci sciamavano attorno.
«I tuoi genitori mi hanno mandato un’e-mail, mi hanno detto che arriveranno presto e che tuo nonno non potrà venire.» M’informò quel piovoso giorno.
«Oh, bene» cercai la parola adatta mentre mi servivo. «Immagino sarai contenta». Buttò lì mentre cercava nella mia mente. «Sì». Proprio in quel momento mi fu servita un’altra portata.
«Che c’è? Qualcosa non va?» Mi domandò di nuovo, vedendomi scrutare il piatto neanche fosse una bomba a mano invece dei souvlaki. Spiedini di carne speziata. «Ehm, siete sicuro che…» Iniziai titubante facendo la spola con lo sguardo tra lui e le portate, ma mi interruppe dicendo, «Anche se ti ho presa a lavorare qui sei una personalità importante per il Santuario e, come tale, meriti rispetto».
Poi chissà che aveva capito, perché non era mica questo quello che gli volevo dire.
Decisi di dargli corda: «Già…» Mormorai, “La custode della Luce Ombrosa”, pensai guardando un angolo del tavolo. Ma come si diceva al capo della baracca che in realtà mi sarebbe piaciuto essere trattata meno formalmente e avere un po’più libertà? Oltre che avrei voluto denunciarlo per la truffa che aveva imbastito per trattenermi qui; dal momento che Paradox mi aveva riferito che tutte le altre cloth erano in mani sicure? «Come avete detto che vi chiamate?» Glissai mezzo incuriosita.
Ogni volta che, gli ponevo questo quesito gli stavo, in pratica, chiedendo il suo vero nome, dal momento che dubitavo che il suo nome celeste fosse segnato all’anagrafe. Giusto per avere un risarcimento di tutti i danni che avevo subito a causa del Santuario da quando vi avevo messo piede. Per Lady Isabel di Thule era facilissimo, una ricerca su Internet era sufficiente, ma per questo tizio no. Questo genio, per non usare un altro aggettivo che avrebbe tirato con sé una caterva che mi avrebbe fatto scadere nella volgarità assoluta, era praticamente inesistente. Nonché il divieto di esercitare le mie arti all’interno del Santuario, in quanto segregata alla Tredicesima Casa tutto il santo giorno e senza possibilità di scendere. L’avevo capito dalla spiegazione stile Dr. Jeckyll de La mummia di due anni fa, che cercava di intortarmi. I discorsi erano troppo simili.
Sacri Servi. In quanto più vicini alla Dea non dovevamo mescolarci troppo con gli altri. Se, certo, come no.  
E lui, da bravo stratega (dovevo immaginarlo che non fosse completamente scemo per ricoprire una carica tanto alta) non me lo diceva. Anzi, o taceva o glissava su altri argomenti. 
«Il cibo non ti piace?» Ripeté, ancora confuso e un po’ preoccupato dalla mia neonata diffidenza culinaria. Scelsi le parole con molta cura: «É che non vorrei che fosse guarnito inopportunamente, non so se mi spiego». Lasciai cadere il discorso, sperando di non essere risultata più volgare del necessario. «Cioè? Intendi con del veleno?» Si informò, accigliandosi.
«Non esattamente». E, lo guardai in attesa. I suoi occhi lanciarono un lampo quando comprese. Stratega, manipolatore, intelligente quanto vuoi, ma pur sempre un uomo con i limiti del caso. Non credo che avesse mai valutato questa possibilità, molto realistica e assai meno drastica di quelle con cui aveva a che fare solitamente. Lanciò un’occhiata al proprio cibo e poi a me prima di rassicurarmi: «Stai tranquilla, non oserebbero mai andare contro la mia volontà profanando a questo modo la sacra mensa».  “Che io sappia quella mensa sta altrove, ma se lo dice lui…” In ogni caso avevo fame, per cui decisi di non pensarci e tornai a mangiare.
Ma questo tutt’al più era un dispetto. Un niente, per un uomo abituato a manovrare le persone come pedine su una scacchiera. Però rispondeva alle domande che gli ponevo, come per esempio se avessero avuto poteri non legati al Cosmo anche loro. «Come avete detto che vi chiamate?» Domandai per la seconda volta. E, dall’occhiataccia che mi lanciò, capì che la mia era una dichiarazione di guerra in piena regola.

Death Mask
Dopo averti riferito quel messaggio e consegnato quel bagliore, Cherie non si era più fatta vedere. Se dapprima esultasti, smettesti la notte stessa. Ogni volta che ti addormentavi, a prescindere dal luogo in cui ti assopivi, ti riportava alla mente quella luce e quella voce. Intravedevi la sagoma femminile ogni volta sempre di più, ma per quando ti sforzassi non riuscivi a inquadrarla bene. Al contrario, le parole della canzone che cantava, stavi riuscendo a ricostruirla. Era una canzone dolcissima, a differenza di quelle che ti capitava di ascoltare. Non eri un appassionato di musica, ma questa era… Bè, non sapevi neanche tu come definirla. Sapevi solo che ti sentivi più legato a lei, a quella persona che cantava sotto la luce verde, che alla tua Dea. Yoshino compresa. Nel sogno tendeva la mano adorna di bracciali verso di te e tu la guardavi ma non potevi afferrarla.
Non sapevi neanche tu come definire questo senso di completezza, di sicurezza.  Ma eri deciso a non rimettere piede alcuno negli Inferi.
E intanto stavi lì, ogni notte a ricostruire questa canzone che avrebbe fatto la felicità di Shura.
Fino a questo momento riuscivi a capire che parlava di guerra, di una rivoluzione e che la cantante era triste. Perché i soldati che partivano al fronte non sarebbero tornati e, una medaglia al valore non sarebbe bastata per compensare le loro sofferenze. Si rammaricava che non le vedessero.  
Al momento eri riuscito a ricostruire soltanto una strofa, ma fu più che sufficiente per una ricerca su Internet. Avevi scoperto che era la cover inglese di Senbonzakura. Avevi fatto partire il video e la voce femminile della cantante ti aveva riportato alla mente il Limbo.
Eravate morti tutti e tredici e, sebbene non foste altro che spiriti, il freddo lo sentivate eccome. La luce emanata dai vostri spiriti non bastava per scaldarvi e illuminare quelle gelide terre battute dal vento. Viaggiavate in gruppo ma facevate del vostro meglio per non cadere preda della disperazione. Le vostre luci dorate come di splendidi soli non erano sufficienti per vincere la paura. Stavate per essere tutti sopraffatti quando avevate avvertito quella voce femminile.
Era potente ed espressiva, ma anche capace di leggerezza e delicatezza. Con un misto di diffidenza e curiosità eravate andati in avanscoperta e l’avevate vista. Prima di tutto quella luce verde. Guardando meglio, vi eravate accorti che non era un globo di luce qualsiasi, bensì uno scettro dal lungo manico nero, sormontato da un grandissimo cristallo romboidale, tenuto fermo da un cerchio con un omega rovesciato. In un certo senso somigliava allo scettro di Nike, ma lo il bastone della Dea non aveva quelle grandi ali verdi ai lati della gemma. Non aveva neanche quella gemma.
E poi, più in basso, l’avevate vista. Prima di tutto il suo Cosmo benevolo, caldo e accogliente e, sapeste, con vostro grande stupore, che lei era lì per voi. Tu eri stato il primo a stare più distante. Poteva essere tranquillamente uno spirito maligno o una Specter sotto mentite spoglie. Avevi sentito dire anche tu che esisteva uno Specter capace di mangiare le anime. Per quel che ne sapevi poteva anche essere lei. 
Ma i tuoi ricordi si fermavano qui. E tu sapevi di essere vivo. Se tu fossi morto per davvero non avresti avuto questi ricordi. Se fosse stata una realtà data da un’ipnosi avresti già trovato da un pezzo il punto di rottura e ne saresti uscito. Ma non ce ne erano. Le parole di Cherie ti risuonarono nella mente un’altra volta. Che senso avevano? Sapevi che avevano a che vedere con quella luce verde che, ogni volta che la pensavi compariva a pochi centimetri dal tuo palmo. Ma non capivi il nesso. Intuivi che aveva a che fare con te, ma non in che senso.
Tornare negli Inferi? Perché avresti dovuto? Per la loro guerra o per via di quella donna che non riuscivi a ricordare?  Scuotesti il capo. Bah, che rogne, se fossi andato avanti così, presto o tardi ti sarebbe scoppiata la testa.
Richiudesti il palmo e la lucina scomparve.
Ti alzasti da tavola e andasti a fare un giro.      
 
Stavi tanto bene senza quel rompicoglioni del tuo coinquilino a scassarti gli zebedei. In vita tua avevi avuto a che fare con molti scassa minchia, non ultima Eris che ti scelse come ricettacolo di quel suo figlio, che ti appioppò un soprannome da supereroe a là Marvel. Se ci pensavi, ci godevi ancora da morire ad averlo spedito in un’altra dimensione, quel Poine di Punishement. Oddio, per il tuo consumo di tabacco avresti preferito che facesse Pusher come soprannome. Avrebbe solo reso onore alla sua origine vegetale. Non ti saresti sorpreso se avesse ricavato quel Dryad dalla marijuana. Anche se, ammettevi a te stesso, non ti eri mai sfondato fino a questi punti. A te piaceva avere la mente slegata, non completamente fusa. Altrimenti sì che la tua Armatura ti avrebbe abbandonato davvero in via del tutto definitiva. E, poi, diciamocelo, non ti volevi così male.
Peccato soltanto che tu avessi finito le tue sigarette e che non avevi voglia di scendere a comprartele.  
Per l’ennesima volta ti tornò in mente Senbonzakura e avesti un flash di quel periodo. Per un momento vedesti chiaramente la cantante davanti a te. La vedesti sorriderti con dolcezza e poi tendere una mano verso di te, come invitandoti a raggiungerla.
Riemergesti dal ricordo e ti rabbuiasti. Cercasti di tornare sul discorso della droga. Se non ricordavi male, c’era qualche spacciatore di bassa lega tra le tue vittime. Ma va a riconoscere quella maschera in mezzo a tutte quelle che decoravano la tua Casa. Sarebbe stato più facile ricavare una sigaretta dall’Albero del Conflitto che ricordare le tue vittime. Se mai ti eri pentito degli omicidi che avevi commesso? No. Perché avresti dovuto, poi? Ormai era tardi e non eri patetico a tal punto da negare ciò che facesti. Piangere per loro ti sarebbe sembrata una completa ipocrisia, oltre che un gesto di un’utilità disarmante. Cioè, erano morti. Punto, basta, fine, le tue lacrime non sarebbero servite a niente per riportarli in vita. Se proprio dovevi piangere, preferivi commuoverti, come ad Asgard contro Loki, che la Dea, seppur prigioniera, mise in gioco la sua vita per mandarvi il suo sangue. Oppure, per una morte che non avevi causato tu. Come per Helena. Oh sì che ti eri vergognato per il tuo passato e per ciò che eri. Cosa mai avresti potuto offrire a una giovane così innocente, tu, che portavi il nome della maschera della morte? Ovvio che sapevi che cercare di prendersi cura di lei non avrebbe mai contribuito a salvare la tua anima dalle dannazioni eterne degli Inferi. Che la tua vita non ti sarebbe mai appartenuta veramente. Però avevi sentito che fosse la cosa giusta da fare.
Non sapevi dove l’avessero seppellita, però sapevi, era inutile negarlo, che fosti mosso dalla vendetta, quando raggiungesti i tuoi compagni. Il solo sapere che poi l’avresti raggiunta nella morte, sebbene in due luoghi completamente diversi, ti dava una briciola di speranza a cui aggrapparti. E poi, di nuovo quella giovane e quella mano tesa. Quell’invito.
Sbuffasti seccato. Ah, oggi non era giornata. E non c’entrava niente Eris. Stavolta non c’entravano nulla gli argomenti che stavi imbastendo per evitare di pensarci. Quand’è che avresti investigato più seriamente, Death? “Ah, non mi rompere”, mi zittisti seccato. Quindi non t’importa niente di sapere se quei ricordi sono vivi o se sono l’innesto di qualcun altro? E se fosse un nuovo nemico del Santuario?    
«Ah, ecco cosa succede a non avere le sigarette. Mi deprimo e sento persino la mancanza di Aphrodite». Non potrai evitare l’argomento per sempre, ti avvertii.
Di Lancelot non l’avresti mai sentita neanche se ti avessero minacciato con una pistola puntata alla testa. Magari chissà, una minaccia simile avrebbe smosso finalmente i tuoi ingranaggi arrugginiti.
Non solo ti sembrava di avere la mente impastata, ma i tuoi pensieri scorrevano con la stessa rapidità del fango. E ora non c’era neppure Astrid con cui parlare, segregata com’era alla Tredicesima. Alla fine aveva scoperto da sola l’inganno, così ti aveva scritto qualche tempo fa sui social. Se non altro, ti dicevi, almeno era al sicuro.
Ma lo sareste stati ancora per quanto?
La pianti di tergiversare? Non me ne frega nulla di sapere quanto fossi rimasto sconvolto nel vederla tornare e di fronte all’ennesima riprova del suo potere. Avresti dovuto esserci abituato, allora di che ti sorprendevi? Non me ne fregava nulla di sapere quanto secondo te somigliava ai lemuriani. Ma forse non avresti dovuto sorprenderti: passava con loro tantissimo tempo, no?
Della lucina verde ne vogliamo parlare, sì o no?
No.
Sicuramente Kiki e gli altri le avevano spiegato come agivano sulle Armature. Dopotutto Kiki era stato convocato alla Tredicesima subito dopo il colloquio di Astrid, per verificare lo stato fisico e mentale del Bronze Cloth che lei riportò. Perché, (già, come non scordarlo, vero, Cancer?) le Armature avevano un’anima, una psiche, dei sentimenti e una propria volontà.  Ma Cancer sceglieva sempre te, per quante volte ti abbandonasse. Ormai si era arresa al fatto che tu non potessi cambiare veramente. Ce l’avevi dentro di essere così e non ci potevi fare niente. Forse anche se tu non fossi mai diventato Cavaliere, sarebbe andata a finire così ugualmente.  Potevi redimerti, smettere di ammazzare indiscriminatamente come quella volta che distruggesti l’Accademia delle Saintia per stanare i seguaci di Eris.
Perché tu eri un’arma. Persino la tua sensibilità, la tua telecinesi, la tua telepatia, servivano a questo e a nient’altro. Il tuo bell’aspetto era un avvertimento. Anche se a volte, ne avevi approfittato per divertirti davvero, sfruttando la tua faccia da bello e dannato. Ma le tue mani erano sporche di sangue più di chiunque altro e non veniva via. Non importava se ogni tanto riuscivi a salvare una vita, come quella della discola di Natasha, tu non saresti mai cambiato. 
Ancora una volta ti tornò in mente quella mano tesa verso di te e il fatto che avevi teso la tua. Poi avevi visto il rosso che la imbrattava e l’avevi ritratta. Non avresti mai permesso che le tue mani la sporcassero a quel modo. Non eri degno di toccare una creature celestiale come quella. Non ricordavi ancora il suo volto, ma sapevi di essere rimasto profondamente colpito. Ancor più che con la Dea che in teoria servivi e per la quale eri morto. Ma se era tornata da te, se ti aveva riferito quelle parole, allora forse significava che ti stava aspettando, no? Che magari a lei non importava. Come a Elda di Cassiopea. O ad Astrid. Quella mano era diversa dalla sua. Di quella persona che ti riconosceva per quello che eri e ti temeva in questo secolo impazzito dove mille ragazzi con la Sindrome della Crocerossina e del Buon Samaritano  credevano di poterti salvare. E lo sapevi perché a volte ti divertivi a leggere nella loro testa. Quanti idioti formatisi con romanzi young adult pieni di psicopatici sessisti ti si avvicinavano con questi intenti o fantasticavano su di te così.  
Potevi innamorarti anche tu, certo, chi lo negava, come Dexter, il protagonista dell’omonima serie TV. Ma non per questo smise di fare l’assassino. Il tuo caso era questo: pericoloso fosti, sei e per sempre resterai. 
Tornasti a pensare alle ragazzine idiote che ti sbavavano dietro. Forse era per questo che Astrid ti piaceva. Lei sapeva, vedeva e capiva che meno aveva a che fare con te più era al sicuro, sebbene tra di voi aleggiasse questo sentimento di amicizia e stima reciproca. Dopotutto era impossibile che non si fosse stabilito un legame se due persone stanno a stretto contatto per molto tempo. E poi, a conti fatti, poteva essere persino più pericolosa di te. Mentre nel tuo caso era palese che fossi un assassino, lei lo nascondeva. La sua oscurità era ben bilanciata con la sua luminosità. Ne avevi avuto la prova quando aveva vendicato il suo amato serpentello.
E i suoi occhi li avevi visti, come luccicavano soddisfatti nel decretare la morte del vostro avversario. Ricordi, Death Mask? 
Non sapevi dire se però quest’oscurità nascesse dalla sua infanzia o dal trauma del pestaggio per opera degli Specter. Non eri uno psicologo e non t’interessava. Temevi invece, che un giorno si assuefacesse alle uccisioni e i suoi occhi smettessero di piangere lacrime di dolore. Che cominciasse a provare attrazione per i massacri come te. Questo non gliel’avresti mai augurato neanche morto.
Allora, che hai deciso, Death Mask?
Ti alzasti dal divano dove eri rimasto disteso finora, afferrasti una giacca e uscisti. 
I tuoi passi ti portarono dapprima dal tabacchino e poi in arena. Finalmente, con la cicca tra le labbra ti sentivi più rilassato. Il tuo corpo ringraziò la fine di quella piccola astinenza.
A proposito, dovevi andare a vedere come se la passasse l’altro astinente della Quarta.
Lancelot si era finalmente ripreso e, aveva cominciato a torchiare Neera come mai prima. Poveretta, avevi quasi pietà di lei. Fosse stata più simpatica probabilmente l’avresti anche compatita.
Il Gold dell’Altra dimensione la stava infatti massacrando duplicando i suoi esercizi. Aveva concentrato tutto il programma che in quei mesi la ragazza aveva saltato in soli tre giorni.
In arena non era difficile capire dove si trovassero. Bastava guardare le facce preoccupate degli altri combattenti che, si tenevano saggiamente alla larga. Sogghignasti divertito mentre la voce di Lancelot urlava, in perfetto stile Maggiore Hartman: «Più veloce. Cos’è, sei già stanca? E non osare aprire bocca che non sia per contare, signorina. Dopo quello che mi hai fatto te lo scordi di parlare e ora sotto con gli esercizi». Ti avvicinasti divertito e lo salutasti: «Ciao, maggiore Hartman». L’altro ti guardò e t’indirizzò un cenno con il capo, ignorando la tua frecciatina. I suoi occhi rossi pieni di furia e sete di vendetta facevano paura. «Non ti fermare, tu, ti tengo d’occhio e se non porti a casa l’Armatura per cui stai combattendo ti spedisco a pulire i cessi un’altra volta, stavolta per un mese intero! Così vediamo se ti passa la voglia di lanciarmi un’altra tecnica a sorpresa come a Roma».
Di questo passo Neera aveva di fronte a sé tre strade: il crollo per sfinimento, l’occasione di eguagliare un Gold o la morte. Sì perché conoscendola, piuttosto che pulire un’altra volta le latrine del Santuario, si sarebbe uccisa.  «Hai intenzione di ucciderla?» Chiedesti incuriosito.
«Ammetto di aver accarezzato l’idea più di una volta, ma poi chi le sente Miss Yoshino e Miss Tomoe?» Confessò il Lost Saint con un tono che avrebbe fatto rabbrividire persino i sassi, mentre osservavate la Sacerdotessa che faticava.
«Come sta andando?» Domandasti per il semplice gusto di sfotterli entrambi. L’ex Cavaliere della Tavola Rotonda ti fulminò con un’occhiataccia ma non disse niente, anzi, continuò a massacrare l’aspirante Sacerdotessa-Guerriero. Che si era fermata per recuperare un po’, dopo aver ricevuto il permesso di recarsi al bagno. Quando fece ritorno, il suo maestro le concesse trenta secondi di recupero prima di sbottare; «Ehi, tu! Chi ti ha detto di fermarti? Continua!» La poveraccia si fece sfuggire un lamento di rassegnazione ma obbedì.  
«Quando ci sarà il torneo per l’assegnazione dell’Armatura?» Chiedesti incuriosito.
«A breve, il quattordici aprile toccherà a lei».
«Il giorno prima dell’arrivo degli ambasciatori, mancano circa quattro giorni». Gli ricordasti. Già, c’era anche questa rogna. «E domani arriveranno i genitori di Astrid, grazie calendario».
«Prego, smemoranda». Poi incrociasti le braccia e ti mettesti a osservare i progressi di Neera. E, lo ammettevi da ex maestro qual eri, era migliorata notevolmente «Bè, era ora che tu riuscissi ad acchiappare quella peste, non sai quanti grattacapi ha dato a noialtri».
«Perché? Che ha fatto?»
«A parte sabotare la missione e cercare di provarci a turno con i più belli escluso te, il sottoscritto, Aphrodite e quello sposato? Niente. Ma ti garantisco che persino Milo ha avuto qualche problema con lei». Lui ti guardò sorpreso, ma non esplose come avresti desiderato. «Il Gold Saint di Scorpio? Sul Serio? Io credevo che fosse una specie di latin lover». Ah, boh? In realtà non ne avevi mai sentito parlare. Di voi si sentivano le gesta in battaglia, non quelle erotiche.
Non potevi dargli torto, però. Neera aveva la singolare abilità di farvi sentire a disagio, molto a disagio. Soprattutto quando alcuni se la ritrovavano nella propria camera. E dire che non capivano mai come diavolo ci fosse finita. Shura addirittura (che già aveva dei problemi con la nudità maschile) se la ritrovò in camera dopo una doccia. La punizione che l’aspirante Saint si beccò la ricordavate ancora adesso.
“Ah, il nuovo millennio, quanti cambiamenti che ancora dovrai riservarci”. Pensasti. «Sì, ma non ama le minorenni e poi mi pare di aver capito che Neera non si sia mai tolta la maschera per nessuno, nemmeno per Aiolia». 
«Mi sembra giusto. Ricordami di ringraziarlo per aver deciso di preservare l’onore della mia poco gradita allieva. Vedrai, dammi tre giorni e il massimo che riuscirà a fare sarà il percorso che porta dalla sua camera al bagno». Dichiarò scroccandosi le nocche con fare minaccioso. I suoi occhi rossi si accesero di una luce folle.
«Se riesce a conquistare l’Armatura in tempo che farai?»
«La ricompenserò come dice il libro che mi ha prestato il mio sire».
«Un libro? Sai leggere?»
«Non sono analfabeta!» S’inalberò. Alzasti le mani in segno di resa e dicesti: «Chiedevo».  L’altro si rabbonì, anche se continuò a guardarti storto. Ma ti spiegò di cosa trattasse. Era un tomo di sociologia che trattava del rinforzo positivo e del rinforzo negativo. Non ci aveva capito quasi niente ma si era finalmente deciso ad applicare i consigli di quelle pagine. Soprattutto da quando lo stesso Shura gli aveva spiegato che cosa intendesse l’autore. Sinceramente avevi i tuoi dubbi che anche lui ci avesse capito qualcosa. Anche perché non eri sicurissimo al cento per cento che questo massacro rispondesse alla definizione di rinforzo positivo. Gli augurasti un buon lavoro e, sogghignando all’idea te ne tornasti alla tua Casa.

Aiolia
Il ricordo di Lythia continuava a perseguitarti. Eri sicuro di essere stato ammazzato dalle Creature. Allora che cosa ci faceva lì anche lei. Che anche lei fosse… No. Non era possibile. Sollevasti le palpebre appesantite dal sonno e ti ritrovasti a fissare il soffitto del salotto. Ti eri appisolato sul divano. Ti mettesti a sedere con ancora la voce della Celebrante di Odino nelle orecchie. 
Qualcuno bussò alla porta. Era tua sorella. T’informò che andava da qualche parte, ma eri così sovrappensiero da non sentirla neppure. Era come guardare un film con il volume prossimo allo zero. Annuisti, poi la salutasti. Dopo un po’ ti domandasti che diavolo ti avesse chiesto, ma ormai si era già avviata e tu non avevi voglia di rincorrerla.
Sperasti solo che si fosse portata dietro gli occhiali, considerando che aveva perso qualche grado. L’altra volta al posto dei cetriolini aveva preso il seitan. Fortuna che Astrid conosceva qualche ricetta per usare quel prodotto altrimenti non osavi pensarci neanche te. A volte ti maledicevi davvero per non aver mai imparato a cucinare a differenza dei tuoi compagni. Tu avevi imparato a riconoscere al volo i piatti venuti male di Lythos. Almeno ti risparmiavi la lavanda gastrica per intossicazione alimentare. Trucco che successivamente avevi insegnato anche agli altri Gold quando gli inservienti furono messi in comune e si ritrovarono Lythos ad armeggiare in cucina. Quel giorno che Saga fu portato via in barella dopo la cucina di Lythos Milo fece gli scongiuri, Shura guardò la tua sorellina intimorito mentre questa cercava di spiegare come aveva tentato di avvelenarlo. Death Mask fu l’unico a riderci su dicendo che se aveste usato i suoi piatti contro gli Specter avreste vinto senza neanche sferrare un colpo. Cercò addirittura di farsi spiegare il suo segreto di avvelenatrice. Ovviamente facendo rabbrividire tutti quanti. Lancelot imitò Shura e si allontanò da lei di un passo. Mur e Kiki invece decisero di affidarsi alle proprie mani, ringraziando il Cielo che la Prima Casa sapesse troppo di sangue per i gusti di Lythos. Meno male che non aveva cucinato per Crono quando fu sua prigioniera.
Era per questo motivo, sostanzialmente, che non fu mai chiamata a servire alla Tredicesima.
Ma per quanto riguardava Lythia, il discorso cambiava. Avevi cercato una possibile causa più vicina. Il cibo l’avevi escluso e più ci pensavi più ti convincevi che fosse reale, che fosse un messaggio. Dal momento che Shun era occupato ripiegasti sull’unica altra persona che forse poteva aiutarti. I soldati semplici si misero sull’attenti e ti salutarono rispettosi. Anche in borghese eri inconfondibile. Purtroppo per loro non avevi nulla da riferire a Kanon e non eri stato convocato. Per questo, seguendo i Cosmi con la tecnica d’individuazione che avevi perfezionato, rintracciasti Astrid. Certo avresti potuto chiedere a Milo di farti da guida, ma meno sapevano di Lythia e dei tuoi dubbi, meglio era.  
Proprio allora urtasti contro una serva, facendole cadere il cesto che stava trasportando. «Oddea, scusami». Esclamò la voce femminile in contemporanea al tuo: «No, scusami tu, ero sovrappensiero e… Astrid!»
«Aiolia!» Esclamò sorpresa a sua volta, riconoscendoti. Si tolse gli auricolari e spense il telefono allacciato al braccio destro. Poi t’inginocchiasti e l’aiutasti a raccogliere i panni: era la seconda volta che mandavi all’aria il suo bucato. Se fosse successo un’altra volta avrebbe pensato che glielo facevi apposta. Lei ti ringraziò per l’aiuto e poi disse quello che avevi temuto: «Questa situazione mi sa di dejà-vu, devo aspettarmi che salti fuori anche Milo, per caso?» Anche se lo disse in tono leggero, ti sentisti a disagio lo stesso. Ti fermasti un momento dopo avergliene passati tre. «No, in realtà no, cercavo te». La bionda ti guardò stupita e tu gli spiegasti, sentendo le tue guance scaldarsi, che avevi bisogno del suo aiuto. Incoraggiato dal suo sguardo attento le spiegasti la situazione, ma dando la colpa al Labirinto di Calore. Non sapevi neanche tu perché questa cautela. Avevi paura di parlargli delle tue sensazioni all’altro mondo? Ora che ci pensavi non poteva che essere davvero un sogno perché sia Death Mask che Aphrodite avevano riportato di non vedere e provare più niente una volta estinti. Per questo li avevi bollati come sogni. «però questi sogni hanno qualcosa di strano, è come se avessero qualcosa di reale io… non so spiegarmi, non sono bravo con le parole». Intanto il suo interesse si era trasformato in occhio critico. Fossi stato una tartaruga avresti incassato la testa tra le spalle. Non eri mai stato guardato a questo modo prima. Fissato di traverso sì, ma così no. «Temo proprio che invece dovrai farlo, se vuoi che io ci capisca qualcosa». 
Proprio come temevi. «Non hai un mezzo, qualcosa, per scandagliare la mia mente e vedere se dentro di me c’è qualcosa che non va? Perché ho visto la mia amica?» Chiedesti allora.
«Come? Non sono un medico, quello che mi stai dicendo è piuttosto grave e non vorrei darti una diagnosi errata». Ti fece notare spaventata.
«Non sono qui per un parere medico».
«Ma se il tuo problema fosse neurologico e non spirituale? Quello che mi stai chiedendo è molto pericoloso».
«Ti prometto che dopo andrò dal medico, va bene? Ma ora ho bisogno di sapere se puoi aiutarmi o no».
Lei chinò il capo e fece scivolare i suoi occhi in basso a destra, mentre si torturava il labbro inferiore con i denti, per la perplessità. «Qualcosa posso fare…» Ammise alla fine, titubante. 
«Bene, qualsiasi cosa».
«Però mi servirà qualche giorno».
«Non c’è tempo. Se c’è qualche problema devo saperlo subito. Ah, so che vuoi essere pagata per queste cose, dimmi quanto vuoi, le dracme non sono un problema». Rimarcasti con urgenza nella voce. Le dracme non erano davvero un problema, eri anche pronto a contrattare il prezzo, anche se ciò avrebbe finito per costringerti a vendere la tua collezione di souvenir su Internet.
«Ah e va bene, ma dovrai lasciarmi fare, butta quei panni nel cesto e seguimi». Ordinò in tono spiccio. Obbedisti, lasciasti che lo raccogliesse e la seguisti fino alla porticina che lei aprì con una chiave. T’invitò a entrare e ti ritrovasti nella sua stanza. Che situazione sconveniente.
La quale ti passò accanto, depose il cesto sul banchino. «Accomodati pure sul tappeto o dove ti pare, per me è indifferente», disse poi prima di chiudere la porta. Tu decidesti di sederti sul letto, spostando i fogli di cartoncino, le squadre e i pennarelli che lo ingombravano. Osservasti quei disegni molti ancora realizzati a matita. Scheletri di ciò che sarebbe saltato fuori dopo: «Sono i bozzetti per le nuove carte». Spiegò, in tono imbarazzato. Il ricordo di quella notte era ancora ben vivido. 
«Non le hai ancora realizzate».
«No, però in compenso ho solo quelle da gioco». Disse sedendosi sul tappeto davanti a te, tagliando così il discorso. Solo allora vedesti la tavola di compensato sulle ginocchia. Da dove l’aveva tirata fuori? «Cosa stai facendo?»
«Il tuo tema natale, chissà che non possa aiutarci. Normalmente ti farei le carte, ma temo che dovrai accontentarti, intanto parla, dimmi di te».
«Di me, in che senso?» Chiedesti confuso. Non ti eri mai recato da un astrologo, non sapevi come dovevi comportarti. Ma sicuramente non te l’eri mai immaginato così.
«Tutti i sensi possibili, anno di nascita, mese, giorno ora, segno zodiacale». Elencò.
«E tu credi che l’astrologia possa aiutarci?»
«Sì, dimmi tutto». L’accontentasti sempre meno convinto di aver fatto la cosa giusta. Tanto dopo ti saresti fatto visitare per davvero da Shun. Lei scarabocchiò tutto su un foglio. Poi ti guardò, o meglio, non guardò te, sembrò guardare qualcosa davanti a te. Come nell’osteria, quando leggeva la mano.
Poi prese il compasso che aveva posato accanto a sé prima di sedersi e tracciò un cerchio che divise in dodici parti e disegnò, con le squadre, un intrico di linee e quadrati. Infine disegnò i simboli e li differenziò. Poi prese a decifrarli nel momento stesso in cui li intrecciò con i vari segni zodiacali e i pianeti e le linee: «Hai la quadratura in Sole e Saturno, significa che hai subito un forte calo delle energie fisiche e psichiche. Mi spiego, la quadratura indica conflittualità tra i pianeti, storicamente viene considerato malefico ma nell'astrologia moderna è considerato un aspetto dissonante e, questo aspetto indica dove bisogna concentrarsi e convogliare le energie per ottenere risultati positivi. Come tutti gli aspetti, la quadratura può essere sia armonica che disarmonica. La quadratura armonica influisce sulla Decima Casa indicando problemi che devono essere risolti con metodo e ordine, mentre la quadratura disarmonica influisce sulla Quarta Casa dove indica abitudini errate di vita che devono essere combattute».
La Decima e la Quarta. Effettivamente avevi avuto problemi con Shura e con Death Mask più di una volta. «Ovvero?»
«In questo caso stiamo rivedendo gli aspetti di quella battaglia di qualche giorno fa. Per essere più precisi, il momento della tua estinzione. Ma è come se ci indicassero quell’arco temporale come un luogo, fisico. Vedi. Qui è indicato dallo stellium, ossia i pianeti nelle case. Uno “stellium” è un raggruppamento di pianeti e la casa o le case dove si raggruppano indicano un settore della vita che per noi sarà importante. In questo caso, c’eravamo io, Neera, Aurel e… Qualcun altro». Ammise lei aggrottando le sopracciglia di fronte al pianeta estraneo che t’indicava.
«Qualcun altro? Allora la mia amica c’era davvero?»
«Non saprei, io non ho visto nessuno in quel momento. Vado avanti?» Scuotesti il capo. «Vedi questi?» Domandò indicando tutti i punti uno per uno. Notasti che era proprio come detto da lei. Solo che non immaginavi che i pianeti venissero segnati con il simbolo.   
«Ok».
«Il nodo nord è la nostra evoluzione e corrisponde alla domanda sulla cosa dobbiamo fare per realizzare parti importanti di noi stessi. Qui mi dice di un viaggio, che hai scoperto un nuovo mondo nel passato e che ti sei preso cura di qualcuno. La tua amica, giusto? Vedi qui, luna nera? È la nostra “animalità” la nostra energia i cui effetti possono essere riscontrati in più campi, soprattutto in ambito affettivo e sessuale: rappresenta tendenze interiori di autenticità, volendo parafrasare la psicanalisi, possiamo parale di qualcosa simile (ma non uguale secondo me) all’Es. Ossia l’inconscio. In altre parole il legame affettivo che vi unisce. La parte di fortuna è quella parte dell’oroscopo dove tutto in noi agisce con naturalezza, senza sforzo e quindi in genere ci garantisce successo in certi ambiti, in altre parole la sua collocazione rivela il modo particolare e strettamente individuale in cui la forza vitale è ricevuta e usata dalla persona. In questo caso da te, dice che qualcun altro ti aiutò nel tuo ruolo di Gold Saint mentre lei aiutava te. Credo che sia il momento in cui ho ridisegnato le tue stelle. E che ho fatto bene visto che non ne eri molto felice di una morte così. Lo capisco dal punto Vertex o vertice che rappresenta il segno che il soggetto lascia sul mondo esterno, la sua capacità di influenza (positiva e negativa). Il suo significato è un ibrido tra quello che significa l’ascendente in un tema di nascita e il Medium Coeli. Aspetta, c’è dell’altro, vedi queste linee? C’è opposizione. Anche se non è così negativa come la quadratura. L’opposizione è l’aspetto tra due pianeti corrispondente a una distanza angolare di centottanta gradi tra due pianeti situati in segni opposti nel grafico con una oscillazione di otto, dieci gradi». Spiegò di fronte al tuo sguardo perso. «Tu hai Mercurio in opposizione a Venere e Giove. Ma nessuno di questi tre sono al massimo della loro opposizione. Credo che qualcuno sia riuscito a contattarti un momento prima che io ti resuscitassi. Quindi mi viene da pensare che fosse un messaggio d’amore o di una persona amata per un favore? Ok, andiamo avanti, ogni pianeta rappresenta un archetipo; dimmelo se non capisci qualcosa» Ti suggerì di fronte alla tua faccia spaesata e preoccupata. «Comunque stanno a dire, con domicilio in Gemelli e Vergine Mercurio, che questa persona era uguale a qualcosa, Segno d’Aria, ossia Soffio, forse spirito e la Vergine, segno di Terra, ossia materia, era qualcosa di reale. Venere propende più per la Bilancia che per il Toro, anch’esso Terra e concretezza, però è la Bilancia che mi confonde. Non riesco a capire cosa c’entri. A meno che… autunno? Può essere? Sì, ha senso però non riesco a capirlo, ma so che è così. Infine Giove con Pesci e Sagittario…»
I concetti che affioravano su quel foglio a te incomprensibile si rivelavano a lei con una facilità impressionante. Mentre tu invece non ci capivi un’acca. Soprattutto da come saltava da una definizione all’altra senza sbagliare niente. Come se leggesse tutto ciò in virtù di una grazia ultraterrena. Tanto magnifica quanto spaventosa, come se fosse un vero e proprio oracolo. «Scusa se ti interrompo, ma come fai a sapere queste cose?» 
«Oh, scusa, ti ho spaventato?» Chiese guardandoti.
«No, io…» provasti a giustificarti, ma lei non si lasciò ingannare.
«Non serve mentire, intanto non ne sei capace e poi so riconoscere lo spavento negli occhi delle persone. Soprattutto se la causa sono io». Ti bloccò, smettendo di analizzare.
«É che mi aspettavo…»
«Che ci mettessi un po’ di più?» Domandò orgogliosa: «Spiacente, sono veloce e conosco il mio mestiere, visto che ho studiato e perfezionato il metodo di mia madre. Sai, ci sono diverse scuole astrologiche, ma il nostro è il più efficace, soprattutto se si vuole sviscerare appieno un evento del passato e ciò che ci porta a riviverlo. Dicevo, Sagittario. È un segno mobile di Fuoco. Anatomicamente il segno corrisponde alle cosce e ai fianchi, il colore del segno è il celeste». “Come i capelli di Lythia”, pensasti, mentre intuivi il sunto. «La sua struttura indica il dualismo di questo segno, dotato di una parte umana e razionale e di una animale, istintiva e violenta. Il segno viene spesso rappresentato con un arco, le cui frecce simboleggiano la ricerca di cammini nuovi, verso una conoscenza superiore. Credo che sia legato in qualche modo alla Bilancia di prima, ma non capisco come. Mentre Pesci è quasi completamente assente. Comunque significa astrazione, emotività, fantasia. In sostanza, qui ci sono i pianeti». Disse indicandoti il foglio dove anche tu potesti vedere «Qui ci sono gli aspetti» e spalancasti gli occhi nel vederne così tanti, «E qui ci sono le Case».
«Come hai fatto a calcolare i gradi con una tale precisione?»
«Sono brava in matematica, ma nel tuo caso ho considerato soltanto ciò che la tua aura mi stava comunicando. Com’è che la chiamate voi? Ah, sì, Cosmo». Per poco gli occhi non ti uscirono dalle orbite: «Il mio Cosmo? Come?» Mise da parte il foglio e la tavola di compensato. Si spostò le ciocche dietro le orecchie e si alzò in piedi: «Così, però devi darmi il permesso. Non temere, non ti farò niente di male». Ti promise, la guardasti negli occhi e non vedesti traccia di menzogna alcuna nelle sue iridi. Lasciasti che ti sfiorasse delicatamente le spalle, la fronte e le tue seimei ten, senza usare i suoi poteri. Essere sfiorato così ti mise addosso una certa agitazione. Seguisti con gli occhi quelle mani delicate, per nulla da guerriero cui eri abituato e anche da servo. Non aveva calli come quelle di Lythos. Non somigliavano neanche a quelle di Lythia. Quelle dita ti sfioravano come se tu fossi estremamente delicato. In un certo senso questo ti offese, non eri mica fatto di porcellana. Sembrava quasi assorta, come se dialogasse con qualcosa o qualcuno che tu non potevi sentire. Infine ti posò entrambe le mani sulla testa come se ti stesse battezzando. E improvvisamente avesti la sensazione di essere inglobato nel suo Cosmo. Provasti uno strano quanto piacevole senso di calore, lo stesso che provavi quando ti scaldavi al fuoco del caminetto in certe giornate d’inverno. Al tempo stesso ti parve anche di trovarti in un campo fiorito sotto il cielo limpido e azzurro. Mentre con il Cosmo ti sembrava di percepire una melodia arcana, gentile e al tempo stesso potente. E, comprendesti che Astrid stava comunicando con te in silenzio e senza parole. Non sapevi come descriverlo, ma era così. Sentisti il tuo Cosmo rispondere a questo richiamo e intrattenere con lei una conversazione. La sensazione che ti regalò fu quella di essere sfogliato come se tu fossi un libro. Ma la delicatezza che ti usò fu così tanta da farti arrossire e da non distoglierti dalle sue mani. Non avevi mai avuto un contatto più intimo di questo prima. L’offesa del tutto sparita.
La guardasti mentre quegli occhi scrutavano dentro di te con attenzione, viaggiando attraverso e dentro di te con la stessa delicatezza dello Zefiro primaverile e la leggiadria propria delle ninfe. Per contro anche tu potesti fare lo stesso con lei. Improvvisamente smettesti di vederla e ti ritrovasti a vagare dentro la sua aura, scoprendola non nera come sembrava in apparenza, ma piena di colori, come l’universo. Dove i globi di luce fosforescente viaggiavano come stormi di uccelli in ogni dove. E c’era rumore, c’era musica, ma non riuscivi a coglierla. Sapevi solo che c’era. Riuscisti a cogliere l’immensità del suo essere e tutta la sua magia. Magia derivata soltanto dalle sue emozioni e dalla perenne ricerca di qualcosa che non sapesti definire. Provasti anche a cercare il nucleo del suo potere prima di comprendere che ti stava tutto attorno, abbracciandoti e regalandoti quelle sensazioni che non avevi mai provato prima. Poi arretrò con la stessa dolcezza di un’onda che indietreggia una volta persa la spinta che l’ha portata a riva. Solo dopo ti rendesti conto che aveva ritratto le mani e si era allontanata di un passo.
«Non ho abbassato le mie difese…» Mormorasti cercando di non mostrarti troppo dispiaciuto. Ti sentivi imbarazzato anche solo per averlo pensato.
«No, non ho cercato di forzarle, ho usato l’empatia, cercando di immedesimarmi in te a partire dalla tua data di nascita e non ho avvertito niente di strano. Solo un miscuglio di eventi catastrofici e fantastici». Un sorriso involontario affiorò sulla tua faccia. «La mia vita non era mai stata definita così, prima d’ora. Quindi che cosa credi che sia?»
«Per quel che ne so potrebbe essere un messaggio, proprio come ha decretato il tuo tema natale». Ma il tuo cuore aveva già capito prima della tua mente, dal momento che prese a battere più veloce. Dopotutto eri una persona molto impulsiva.
All'improvviso un sorrisetto le curvò la bocca e tu le domandasti che cosa ci fosse. Così ti raccontò che una volta le successe la stessa cosa con suo padre, quando andava al liceo. «Lo vidi imbottigliato in un sottopassaggio mentre accompagnava al lavoro la sua fiamma del periodo». Rispose con una smorfia. Non eri un esperto in materia, ma non doveva esserle molto simpatica. «Quando tornò a casa a pranzo mi raccontò proprio la scena che avevo visto con i suoi occhi».           
«Quindi tu credi che la mia amica abbia cercando di mettersi in contatto con me?» Chiosasti, cercando di riprendere il filo del discorso originario. Non ti eri mai sentito tanto spaesato. La giovane alzò le spalle: «É possibile. Non ci metterei la mano sul fuoco, però è possibile. Forse ti conviene cercarla». Aggiunse poi, preoccupata. Infine disse: «Sarà meglio che usciamo, anche se a noi sembra passato poco tempo, posso assicurarti che non è così». Ti accompagnò alla porta, dopo aver recuperato il cesto.
«Come?» Boccheggiasti stupito.
Astrid sorrise con aria stanca; «Usare la magia a volte fa quest’effetto: altera le percezioni temporali. Non mi credi? Guarda l’orologio». Controllasti e costatasti stupito che aveva ragione: erano passate due ore. Ti scusasti per avergli dato tanti problemi. E lei ti rassicurò garantendoti che probabilmente non se ne erano neanche accorti. Sperasti per lei che fosse così. Non sapevi come funzionassero le dinamiche tra i domestici, non ti era mai interessato saperlo. Già, dal momento che non ti eri premurato di mascherare il tuo Cosmo e che, sicuramente, le guardie lo avevano avvisato della tua presenza qui.
«Va bene, allora grazie di tutto e, giusto, quanto ti devo?» Il prezzo che ti rivelò ti lasciò abbastanza sconcertato, perché lei disse che ci avrebbe pensato Kanon con il pranzo. Poi ti tradusse che ti avrebbe chiesto un panino. «In effetti ci sarebbe una cosa che potresti fare.» Disse poi, esitante. Con un respiro tremulo ti guardò di nuovo, tuffando i suoi occhi gialli nei tuoi. Poi li abbassò di nuovo e raccontò, piano vergognandosi. Ti raccontò di quando Shura l’aveva salvata da quei quattro balordi. Un brivido di disgusto e di terrore ti percorse la schiena. La tua bella faccia si accartocciò in una smorfia schifata al solo pensiero. Riconoscevi che il pericolo non mancava: Astrid ispirava tanto timore quanto desiderio, soprattutto adesso che stava dimostrandosi così speciale. Avevi sentito alcuni soldati e abitanti di Rodorio affascinati da lei e dalla sua bellezza. «Ehi, guardami». Sussurrasti, cercando di non far sembrare un ordine quella frase, anche se dentro eri furioso. Come si erano permessi?
Lei sollevò a fatica il volto. I suoi occhi erano pieni di lacrime. Batté le palpebre e i lucciconi le palpebre, caddero sulle sue guance. Poi aggiunse, in tono basso: «Non è la prima volta che mi succede qualcosa di simile, anche se non così grave. Tu forse non sai che quando vivevo in Italia ero una guardarobiera, ma io ho cominciato come cameriera. Sono stata declassata per una questione di protezione, proprio per via della mia bellezza. Sono abituata ad avere a che fare con ubriaconi molesti ma innocui, ma una volta mentre lavoravo un cliente arrabbiandosi perché mi rifiutavo di servirgli altri alcolici, in quanto pretendeva di averli gratis, dopo che se ne era già scolati una dozzina, ma arrivò persino a sfiorarmi il seno e non involontariamente. Se non fosse stato per alcuni clienti che erano lì e che mi aiutarono, sarebbe finita male. Da quel momento ho imparato a riconoscere questo tipo di persone per tenermi alla larga. Quelli di quella notte, quei quattro soldati semplici, non erano come questo qua. Erano già ubriachi e noi eravamo per strada. Se non fosse stato per Shura che passava di lì, forse sarebbe finita anche male».   
Ti desti dell’idiota per questa tua mancanza. Tu dov’eri quella notte? E gli altri? Aphrodite? Death Mask? Non riuscivi a ricordartelo, ma nessuno dei due era stato convocato alla Tredicesima per questo. Potevi solo aver immaginato che cosa avesse rafforzato in lei la convinzione di essere stata rapita se l’abbandonavano così. Avresti dovuto parlare con Shura a proposito di questa faccenda.
Ti appuntasti come promemoria di ringraziare il tuo collega per averla protetta invece di quei due.
Lei usò si tamponò le lacrime con il dorso della mano libera.
Le chiedesti se l’avessero cercata di nuovo, per sicurezza. E lei annuì: «No, Shura è stato… abbastanza persuasivo». Poi, nei suoi occhi vedesti balenare una scintilla di rabbia. Se avesse avuto i mezzi giusti, li avrebbe fatti a pezzi. «Death Mask lo sa?» Chiedesti ancora.
«Non credo».
«Sai che sconfiggendo Eris, probabilmente hai difeso anche loro?» Le chiedesti incerto. «Sì, ma credimi quando ti dico che non proverei alcun rimorso nello scoprire che sono morti». Ribatté lugubre e tremendamente convinta delle sue affermazioni. In netta antitesi con la ragazza a cui affinasti il greco antico. Trovasti comunque la sua azione molto coraggiosa. Era ammirevole che, nonostante la paura, fosse riuscita a trovare il coraggio di dirtelo. Non avevi mai pensato a come potesse essere altrove, ma eri sicuro che non fosse tanto diverso. Non avevi mai provato le sue difficoltà ma parlando con lei durante il tragitto (perché dopo questa decidesti di tenerle compagnia fino a pranzo) arrivasti a capirlo. Come capisti anche lei per prima non poteva permettere alle persone di non farla sentire al sicuro. Se glielo avesse lasciato fare e se avesse lasciato che la paura prendesse il sopravvento, non sarebbe neanche più uscita di casa. Pensavi che ci volesse molto coraggio per essere un Saint, ma anche essere un civile ne richiedeva. In confronto a lei ti sentisti impotente. Tu, che avevi combattuto numerose battaglie, ma sempre per qualcun altro. Come con Lythia. Ti eri unito alla sua causa soltanto per aiutarla, ma in realtà non ti fregava.  Ed eri rimasto colpito dalla sua tenacia quando le avevi rifiutato il tuo aiuto e i tuoi sensi di colpa ti avevano portato a tornare sui tuoi passi. E anche di come ti aveva aiutato dopo la battaglia con Frodi. In un certo senso eri orgoglioso di aver trovato qualcuno di altrettanto forte.
A mezzogiorno vi doveste separare e tu potesti scendere a parlare con Shura dell’accaduto. Lì per lì lo spagnolo neanche se lo ricordava. Per lui era una cosa naturale difendere le persone a prescindere dalla loro identità. Non ti trattenesti a lungo, ricordavi ancora troppo bene come fosse finita la Guerra Sacra contro Zeus. A causa tua aveva perso tutte e due le braccia e una gamba. Perciò dopo un iniziale momento di imbarazzo, ti accomiatasti e scendesti alla Sesta. Avevi fatto una promessa, dopotutto. 

Dopo la visita medica di Shun, che aveva decretato che tu fossi sano come un pesce, ti si accese la lampadina. E corresti dritto sparato alla Casa del Cancro.
Facesti irruzione mentre Death Mask si beveva dell’acqua direttamente dalla bottiglia, facendogliela andare di traverso. Il tuo collega tossì più volte. Quando riuscì a inghiottire, ti guardò infuriato con la faccia paonazza e gli occhi lacrimanti. Ti rovesciò addosso tutti i coloriti improperi in siculo del suo repertorio. E tu purtroppo conoscevi solo l’italiano standard, perciò non capisti una mazza. «Portami nella Bocca dell’Ade!» Ordinasti.
«Guarda, ti ci spedivo anche se non me lo dicevi, razza di imbecille! Ma ti pare il modo? Entrare così in casa d’altri? Ma dico io…» Al sentir l’appellativo in quattro falcate arrivasti al tavolino con l’intento di spaccargli la faccia. Però ti fermasti, ricordandoti che quell’attaccabrighe indisponente ti serviva. Perciò schiantasti i palmi sul tavolo e t’imponesti di calmarti, mentre quello ti guardava. «Bevessi di meno e lavorassi di più non succederebbe. Dico sul serio». Ti costringesti a dire, non per questo meno irritato. Era come essere di nuovo in quella taverna ad Asgard, davvero, non sapevi da dove ti veniva questo autocontrollo.
«Anch’io e per la cronaca bevevo perché avevo sete». Ribatté l’altro, sfidandoti con lo sguardo.
«Sì, va bene». Ti ricordavi benissimo come fosse ridotto quando lo trovaste in quell’osteria nell’Ottantasei. Avevi i tuoi dubbi che dentro quel boccale ci fosse veramente dell’acqua.
Il siciliano roteò gli occhi. Poi ti squadrò a lungo, reggendosi la mandibola che andava schiarendo, prima dire, stupito: «Aspetta, ma sei serio? Cioè tu vuoi davvero andare alla Bocca dell’Ade? Perché?» Gli spiegasti a grandi linee la faccenda sperando che si bevesse la storiella secondo cui Aurel probabilmente poteva rispondere ai tuoi interrogativi. Solo dopo ti ricordasti che il tuo interlocutore poteva tranquillamente evocare il suo spirito. Per tua fortuna neanche lui sembrò ricordarsene.  «E dunque vorresti attraversare lo Yomotsu Hirasaka per parlare con lui. Non so dirti se sei pazzo o se sei scemo, nel dubbio domando che cosa ti faccia pensare che l’anima esista ancora, dal momento che, io stesso vi ho raccontato che quando sono le Creature a ucciderti, finisce l’esistenza, caput, quello che vedi è solo il nero, come quando noi prima di morire ci dissolvemmo nella luce, ricordi?» Ah, se l’era ricordato.
«Sì ma se non valesse per tutti? Se Aurel fosse sopravvissuto?» Tentasti, aggrappandoti a questa scusa. L’altro si stravaccò contro lo schienale della sedia e si grattò la nuca con fare svogliato.
«Te l’ho già detto...» Iniziò con il tono di quando ci si rivolge a un bambino duro di comprendonio.
«Sì lo so ma voglio andarci». Lui tacque. Ti lanciò un’occhiataccia che non prometteva niente di buono, poi scoppiò in una risata divertita: «Chi l’avrebbe mai detto, il prode Leo che mi chiede una cosa simile e non sta scherzando. D’accordo, ti ci mando, Sekishiki Meikai Ha». Urlò puntandoti l’indice contro, prima che tu potessi chiedergli come. Non avesti neppure il tempo di pentirti della tua scelta che, improvvisamente, tutto si fece buio e fosti risucchiato via come se fossi caduto nell’Another Dimension.   

Quando apristi gli occhi ti ritrovasti a fissare un cielo coperto da nuvole talmente nere da sembrare fatte d’inchiostro. Se avessi ben guardato, tra quei colori avresti visto anche tracce di verde scuro e di blu. Non un tuono le illuminava. Né qualcosa di più forte di un refolo di vento le spostava. Una leggera brezza, quasi più una bava di vento, carezzava la zona delicatamente, facendoti accapponare la pelle. Come se ti avesse sfiorato un fantasma.
Fiocchi di cenere, scintille e polvere fluttuavano dal cielo come una nevicata. Ognuna di quelle piccole particelle si depositò sulla tua pelle come la polvere che Antigone sparse sul cadavere del fratello.
La cenere e le varie scintille sembravano muoversi per inerzia attorno alle rocce e le colline nere. Ammesso che quelle fossero solo terra e rocce. A rischiarare l’ambiente era qualche fuoco fatuo dallo spettrale bagliore fosforescente. Sembravano una sorta di candele mortuarie e piccoli lumini cimiteriali. Ti ci volle poco per scoprire che i microscopici spostamenti d’aria erano generati dal perenne movimento dei fuochi fatui, che fluttuavano qui e là come pesci di un macabro acquario senz’acqua.
Ti rizzasti a sedere a occhi sgranati, con la paura di scoprire di cosa fossero effettivamente costituiti questi luoghi tanto orrendi. Poco più in là, rischiarati dalla luce, schiere e schiere di anime disposte in fila indiana camminavano con la schiena incurvata verso il cratere di quello che sembrava un vulcano spento.
Sgranasti gli occhi, riconoscendolo istantaneamente, benché non lo avessi mai visto prima dal vivo.   
Non avevi mai visto la bocca dell’Ade, ma non avevi alcun problema a comprendere perché portasse questo nome. Come fauci spalancate perennemente affamate, inghiottivano tutto ciò che ci cadeva, senza possibilità alcuna di rigetto. Tutto a parte la fioca, spettrale illuminazione, i fuochi fatui che danzavano a mezz’aria con le ceneri e le scintille.
Ti alzasti e ti avvicinasti. A un certo punto i fuochi fatui ti si scagliarono addosso ma presto virarono rotta, andando a depositarsi tra le mani di Death Mask, in piedi e poco più in basso rispetto a te. Adesso che lo vedevi nel suo ambiente naturale, illuminato a quel modo dalle luminescenze delle anime, non ti sembrò più il più debole tra voi. Ti sembrò il vero Signore dell’Anticamera degli Inferi e ne avesti una giusta paura. Soprattutto quando scorgesti la bramosia in quegli occhi lugubri.
Era un re nella sua corte e capisti anche da dove nascesse la sua superbia. Decretare la morte di qualcuno è ben diverso che controllarla a proprio piacimento, anche se quel controllo era illusivo.
Lui se ne accorse e sorrise ancor di più. «Buongiorno, leoncino, dormito bene?» Domandò bonario lasciando andare via i fuochi. S’infilò le mani nelle tasche dei pantaloni.  
«Tu! Che cosa ti è saltato in mente? Che scherzo era quello? Avresti potuto uccidermi!» Sbraitasti con la voglia di accopparlo con il tuo Lightning Fang. Ma qualcosa ti intimò di non muoverti, non il modo in cui ti guardava, quanto piuttosto il cambiamento di quel bastardo. E la muta promessa di morte ben visibile nelle sue iridi. Un avvertimento. «Ma sei vivo». Sbuffò annoiato.
«Te l’avevo detto di chiamare il tuo colpo con un altro nome, Death Mask». Commentò una squillante voce maschile. Solo allora ti accorgesti che si stava avvicinando un uomo sulla quarantina dai folti capelli rossi (si vedeva anche da un chilometro di distanza che erano finti), la pelle abbronzata e un medaglione d’oro al collo. Era infilato in un completo viola e non portava una  camicia. Aveva la camminata elegante e ancheggiava come una donna. «Non mi aspettavo di trovarti qui, significa che il messaggio è arrivato a destinazione?»
«Non fatevi strane idee, ho solo accompagnato il mio collega qui presente. Voleva farsi un giro nella Bocca dell’Ade». Ribatté il siciliano, sforzandosi di non roteare gli occhi mentre il nuovo arrivato lo affiancava. «Ah, sì? Ma pensa, non credevo che i Saint della nuova generazione avessero tutto questo desiderio di morte latente. E dire che credevo di essere io ad avere dei problemi». Ridacchiò poi nascondendo la bocca dietro la mano. Le sue unghie ben curate e laccate di rosso non ti sfuggirono.
«Chi è questa persona?» Domandasti ma il custode della Quarta si rivolse al nuovo arrivato, ignorandoti completamente: «La strada è libera?»
«Per adesso sì ma dobbiamo sbrigarci, non si sa mai quando potrebbero fiutare il suo odore, tanto è intenso». Rispose serio, incrociando le braccia. Ancora una volta avesti l’impressione di parlare con una donna.
Tu non sopportasti oltre. Scendesti dalla roccia e afferrasti Death Mask per il colletto della camicia, strepitando come un pazzo furioso: «Esigo che tu mi risponda, non ignorarmi! Che ti ha saltato in mente di ammazzarmi? Sei forse impazzito? Atena ha proibito questi combattimenti inutili e inutili omicidi!» Normalmente vi sareste pestati a sangue. Invece vedesti passare il fastidio e la rabbia nel suo sguardo. Stava per ricambiare il trattamento ma qualcosa lo bloccò, forse la presenza del terzo uomo. Questo ti spiazzò: ma cosa importava a un rissaiolo da strapazzo come lui di non dare spettacolo? Anzi, di solito se c’erano spettatori si divertiva il doppio. Allora perché stavolta non ti attaccava? «Buono leone, non vedi che sto parlando?» Disse con un certo sforzo.
«Me ne infischio di quello che stai facendo, mi hai ammazzato».
Lui allontanò le tue mani da sé, con più delicatezza del solito spintone e ribatté, alzando la voce: «Non ti ho ammazzato, ti ho portato dove mi avevi chiesto anima e corpo, adesso toglimi le zampe di dosso, se non vuoi che ti ammazzi sul serio». Poi si rivolse allo sconosciuto che aveva guardato il tutto senza battere ciglio: «Scusatelo, maestro questi è Aiolia di Leo, Aiolia, questo è il mio maestro DeathToll». Lo guardasti stupito. Questo tizio era il maestro di Death Mask?
L’uomo ti sorrise garbato e: «Incantato, mio caro. Mmh, ma che bel bocconcino che sei. Un po’mi ricordi il mio collega Kaiser. Sei il primo Cavaliere d’Oro che giunge qui che non appartiene alla Casa del Cancro. E non per via di una battaglia. Allora, caro allievo, è per questo qua che mi hai chiamato?» Domandò in tono fintamente lezioso tornando a guarda il suo allievo, decisamente più virile.
«Sì, maestro, è per lui».
Gli occhi di DeathToll si posarono di nuovo su di te. «Dimmi, cosa ti serve, ragazzo?»
«Ho bisogno di informazioni su un’anima».
«Quale? Qui ne passano tante e non credo che tu sia interessato a colui che mi fornì questi splendidi capelli». Disse scostandosi una ciocca dalle spalle, ponendosi una mano sul fianco in perfetto stile Aphrodite. Anzi, nemmeno lui. L’impressione di avere a che fare con una donna si accentuò ancora di più. Anche se ciò non ti fece né caldo né freddo. Anche al Santuario avevi visto abbastanza gente effeminata, a cominciare dal sopraccitato Aphrodite per finire con Misty di Lacerta. Senza contare l’equivoca corazza rosa di Shun, quando era ancora il Bronze Saint di Andromeda. 
«Una ragazza, la celebrante di Odino». Rispondesti dopo un attimo di esitazione.
Death Mask ti guardò stupefatto e sbottò: «E hai fatto tutto questo casino perché volevi sapere di Lythia? Ancora con quella bamboccia dal vistoso foulard improponibile?» 
«Sta zitto, Death». Lo seccasti subito, sentendoti le guance improvvisamente arroventate.
«Senti senti…» Sorrise invece l’altro, interessato. «Questa è una bella novità, non capita spesso che uno di noi si leghi a qualcuno».
Sentendoti avvampare, ti affrettasti a mettere le mani avanti: «Non eravamo legati in quel senso. Noi eravamo amici». Chiaristi in mancanza di un termine migliore. Perché lei ti aveva fatto da bussola e guida contro le insidie di Asgard, ma era anche vero che la ragione principale per cui stava con te era stato il tuo Cosmo. Ovvio poi che vi eravate affezionati. Forse più lei a te che il contrario. Tu questo sentimento te lo eri quasi negato. «Capisco, non so, non mi è sembrato di veder passare la celebrante di Odino, però possiamo provare a cercarla». Ciò detto si avviò fischiettando per la landa. Lo seguiste.
«Perché non hai chiamato Sirrah?» Domandasti più a disagio che mai nel vedere quest’uomo che saltellava allegramente come Heidi sui monti. Tralasciando i suoi gesticolii femminei e il suo falsetto sempre più stridulo quando ti chiedeva di Lythia. Poi pensavi che Death Mask fosse strano, ma guardando il suo maestro ti domandavi come avesse fatto a saltare fuori un assassino simile. Ora che ci pensavi, avevi un vago ricordo di lui da piccolo che saltellava e si muoveva a questo modo. Ecco da chi aveva preso! 
Cioè, a parte il suo aspetto e le sue movenze androgine tutto ti sembrava fuorché un Gold Saint. Ti sembrava più pronto per un musical che per una battaglia.
«Uh, mi si è rotta un’unghia». Si lamentò a un tratto guardandosi le mani. Con tanto di lacrimuccia lungo la guancia. Ti tornarono in mente le parole di tuo fratello ad Asgard: Un Gold Saint non è tale per l’Armatura che indossa, ma per la forza del suo Cosmo. “Sarà, staremo a vedere”, pensasti.  
«Sirrah è troppo lento, se facciamo da noi saremo più veloci». Spiegò rapidamente mentre DeathToll scandagliava l’Ade con il Cosmo alla ricerca dell’anima della persona che cercavate. Death Mask ti spiegò che i morti potevano usare tranquillamente il loro Cosmo senza ripercussioni di sorta. «Non avrai davvero creduto che il mio maestro fosse uno sprovveduto». Intervenne il tuo compagno d’arme.
«No». Balbettasti.
«Oh, non mi offendo mica, ci cascano tutti, in realtà». Si vantò quest’ultimo girandosi a guardarvi. Un lampo di malignità brillò nelle sue iridi. Improvvisamente l’aria attorno a voi si fece rovente e una fiammata improvvisa illuminò la bocca dell’Ade.
«Oh, sembra che sia arrivato un ospite, tempo scaduto miei cari, a meno che tu, Death Mask, non voglia rimanere». Invitò DeathToll girandosi nella direzione da cui lampeggiavano ancora le fiamme. «No, grazie, non ci tengo».
«Come, non eri tu che dicevi di voler essere un Cavaliere della Speranza? Se hai cambiato idea non mi sorprenderebbe, non c’è spazio per queste cose nei nostri cuori». 
«Forse non ce ne è per voi, ma per me sì, lasciatemi combattere». Dichiarasti, sicché le zanne del leone avessero potuto risplendere in questi luoghi dimenticati dagli Dèi.
Senza che te ne rendessi conto, DeathToll fu di nuovo al tuo fianco, ti pose una mano sulla testa neanche fossi un gattino: «No, questo non è un avversario per te, mio focoso ragazzo. Riportalo sulla Terra Death Mask, a quest’ospite penso io. Non preoccuparti Cavaliere di Leo, quando sarà il momento mi rifarò vivo io». Promise. Non avesti il tempo di obiettare che Death Mask parlò in vece tua. «D’accordo, arrivederci maestro». Ti afferrò per la spalla e foste risucchiati di nuovo nel vortice che vi riportò a gran velocità nel mondo dei Vivi.
Sfuggisti alla sua presa e ti ritrovasti in balia di quel vortice che ti schiantò contro una lastra dove restasti inchiodato. Non avevi mai sentito una pressione più forte di quella. Non ti riusciva né di alzarti né di muoverti e ti sentivi le membra sempre più pesanti e collose, quasi viscose. Le membra indolenzite riverse sul pavimento. Ecco perché ti erano parse tanto pesanti, non eri abituato a gestire la pressione del tuo corpo una volta che ne eri uscito.  
Sentisti di nuovo i tuoi battiti cardiaci. Poi percepisti di nuovo l’odore del detersivo al limone per pavimenti della cucina della Quarta. Con il tatto riconoscesti le fredde piastrelle su cui eri caduto. Quando riacquistasti la completa percezione e padronanza di te stesso, apristi gli occhi e ti rialzasti dal pavimento degli appartamenti privati della Casa del Cancro. Sembrava tutto un sogno, non riuscivi a credere che fosse reale finché Death Mask, seduto al tavolo che si preparava un panino ti domandò: «Allora, il nostro giretto ti è servito?»
«Sì, adesso sappiamo che c’è una spia all’interno del Santuario».
«Bella scoperta».
«Lo sapevi già? Perché non l’hai denunciato al Grande Sacerdote?»
«Affari miei». Sbattesti di nuovo le mani sul tavolo, infuriato e sbottasti: «Come puoi essere così irresponsabile? Potrebbe essere chiunque che sta rubando i nostri segreti e tu...»
«E io me ne resto qui in attesa di ordini dai piani alti. É così che funziona, o forse te ne sei dimenticato? E non cercare di attaccare briga con me, non sono dell’umore giusto per sopportare i tuoi colpi di testa. Potrei rispedirti di nuovo nell’Ade e lasciartici, Aiolia!» Sbottò a sua volta, balzando in piedi, adirato ma tremendamente serio.
«No, non ho dimenticato». Ribattesti tra i denti, la voce distorta come in un ringhio. Purtroppo aveva ragione lui. Il granchiaccio ti guardò soddisfatto prima di scacciarti: «Bene, adesso sparisci, ho fame».  
Te ne uscisti con un verso di frustrazione e te ne andasti. Le mani strette in pugni affondate nelle tasche dei pantaloni. Lui un Guerriero della Speranza? Ma per piacere! Neanche tra un milione di anni lo sarebbe mai stato.

Milo
L’esplosione di Cosmo giù alla Quarta l’avevi sentita anche tu. Evidentemente Death Mask aveva fatto la muffa a sufficienza e aveva bisogno di tornare nel suo habitat naturale. Per quello che ti importava poteva anche emigrare in Cina e restarci. Tipi come lui è meglio perderli che trovarli, anche se sono i tuoi compagni d’arme. Ora che ci pensavi, non conoscevi molto bene neanche i tuoi compagni, escluso Camus e il gattaccio.
Alzasti gli occhi al cielo azzurro percorso dai cirri e sperasti che le Creature non avessero fiutato l’impennata di energia. Fortunatamente non accadde altro. Tirasti un sospiro di sollievo e riprendesti il cammino.
Ricordavi troppo bene come avessero sciolto la barriera e avevano banchettato. Già, come avreste fatto con il torneo per l’assegnazione delle nuove Armature? In quei casi è d’obbligo usare il Cosmo. Le sorti delle battaglie tra Saint sono decise proprio da quanto si brucia il Cosmo.
Ma neanche questo t’impedì di completare il tragitto che ti separava dalla casa di Castalia. Come ogni mattina da quando i tre erano stati messi agli arresti domiciliari, andasti a trovarli. Di solito facevi sempre visita per prima alla signora per una questione di cavalleria. A volte capitava il contrario e, se per caso avevano bisogno di qualcosa ci pensavi tu o qualche altro soldato semplice. 
Bussasti alla porta della casetta. 
Ti aspettava sempre che la tua seccatrice di fiducia ti aprisse la porta. Ma tutte le volte che incontravi la maschera di lucido metallo di Castalia provavi un senso di delusione. Non avevi ancora trovato il modo di restituirle l’ultima padellata e ora non ci sarebbe mai più stata occasione per davvero. Provavi un gran moto di pietà per Kanon. Chi gliel’aveva fatto fare di promuoverla  a Sacra Serva della Tredicesima? Praticamente segregata nell’unica Casa a essere rimasta attaccata alla tradizione. Cioè, i servi non lavoravano per altri che il Patriarca e la Dea. 
Provasti un istintivo moto di pietà per il gemello minore di Saga. Chissà come se la stava passando quel poveraccio a gestire quella mina vagante. Soprattutto adesso che sarebbero arrivati i suoi genitori l’indomani. Prima che tu andassi a fare la spesa eri stato convocato e informato che saresti stato tu la guida per i coniugi av Stjernene.
Castalia si fece da parte per lasciarti entrare. Quella casetta era piccolissima rispetto ai tuoi appartamenti privati. Entrare ti dette un vago senso di claustrofobia.
Le dicesti che avevi trovato quasi tutto, tranne i kiwi e lei commentò che non faceva niente.
Ti offrì anche qualcosa da bere e tu declinasti gentilmente l’offerta non avevi sete. «Come stai, Castalia?» Domandasti mentre entravi e depositavi il sacchetto della spesa sul suo tavolo. La signora era ancora acciaccata. Aurel doveva essersi rivelato molto più forte del previsto per metterla in difficoltà. E sì che era una dei sopravvissuti alla Guerra Civile del Santuario e una veterana di molte guerre sacre. Aveva ancora dei problemi di mobilità: non riusciva ancora ad alzare le braccia che la spalla sinistra era bloccata. Per non parlare poi delle ferite che aveva riportato nello scontro con la Dama degli Smeraldi. Te ne aveva parlato lei durante quella settimana, prima che Aurel li attirasse in trappola. In realtà per primo l’avevi sentito dire da Aldebaran una mattina che ti eri fermato a colazione da loro. Poi eri andato a cercare la maestra di Seiya e ti eri fatto dire il resto. Per pura curiosità.
Così avevi appreso il compito di Aphrodite. Anche tu l’avevi rassicurata: Aphrodite era un osso duro a dispetto del suo bel faccino.
Lei ti aveva sorriso dietro la maschera e ti aveva detto che ricordava molto bene della Titanomachia. Dopodiché aveva aggiunto, preoccupata: «Ma io non la prenderei tanto alla leggera, quella donna non è normale, ora che ci penso, non rammento neanche di aver udito una sola scintilla di Cosmo da parte sua».
Spalancasti gli occhi: «Cosa? Pensavamo che fosse al vostro livello!»
«Lo pensavamo anche noi, ma ora abbiamo il timore che sia così, non nutro alcun dubbio nelle capacità dei Gold Saint tuttavia ho un brutto presentimento al riguardo». Non l’avevi mai vista in pena prima d’ora. Non che ci avessi mai parlato o scambiato quattro chiacchiere. In realtà non ti era mai interessato parlarle. Oltre una vaga conoscenza di vista il vostro rapporto non andava. Ma ora vedevi chiaramente la donna preoccupata oltre la guerriera. 
«Non ti preoccupare, vedrai che tornerà sano e salvo». Garantisti facendo del tuo meglio nel risultare convincente e non far tremare il tuo sorriso. Già, anche tu avevi parlato con l’ex Bronze Saint di Apus. Il poverino era caduto in depressione, nonostante gli aiuti medici. L’avevi trovato in sedia a rotelle vicino a una finestra dell’astanteria. I medici ti avevano detto che aveva il quaranta per cento di probabilità di tornare a camminare. Ma che per ora la fisioterapia non aveva prodotto risultati. In ogni caso avevi comunque potuto vederlo. La tua vista l’aveva un po’scosso. Poi si era anche risollevato. Soprattutto quando l’avevi consolato sul suo operato: “Non hai sbagliato nulla, sei stato molto coraggioso, non tutti si sarebbero battuti così a sangue freddo contro una persona terribile come lei”. Gli avevi detto.
Il ragazzo ti aveva guardato con due occhi grandi così: “É davvero peggio di quanto credessi?” Anche lui aveva sentito di Shaina e Castalia e del loro clamoroso fallimento. Avevi preferito sviare il discorso: “Non ti preoccupare, vedrai che la prenderemo”.
“Non riuscirete a prenderla.” ti aveva confidato contrito, come se la causa della sua fuga fosse stato proprio lui e se ne fosse pentito amaramente. Adesso ti domandavi se per caso la sua non fosse stata una profezia. Poi ti aveva chiesto se la Dea fosse stata tanto delusa e tu gli avevi detto di no. Anzi, che era felice che lui fosse tornato sano e salvo. Nei giorni a venire avevi saputo che aveva cominciato a fare gli esercizi di fisioterapia.
Per quanto riguardava la moglie di Aldebaran, che tu sapessi, si stava ancora riprendendo. Fortuna che era una guerriera molto potente e che era molto robusta anche lei. Altrimenti, con le ferite riportate ci avrebbero messo quattro mesi di recupero e fisioterapia. Perché non si erano ancora riprese da quelle dell’imboscata. “Kanon è proprio messo male se manda in missione dei feriti”. Pensasti amaro. Non avevi mai provato prima una sensazione di disfatta e decadenza come quella di questi giorni al riguardo. Era come se tutto stesse cadendo a pezzi e ogni vostro tentativo di fare qualcosa stesse rivoltandosi contro di voi.
Anche il tuo fallimento non ti aiutava. A ripensarci era una seconda onta, per te. Fortunatamente Aiolia si era rivelato molto più che valido per salvarle. Anche se avevi sentito dire che fosse già arrivato a metà dell’opera. E di questo fosti felice. Astrid era veramente una mina vagante; era logico che un Saint non fosse abituato a trattare con una come lei.   
L’aiutasti comunque a sistemare la spesa. «Molto bene, le ferite stanno guarendo, Nobile Scorpio. Avete avuto notizie dei miei compagni?» Domandò avviandosi verso la piccola cucina.
«Non ancora, tra poco andrò anche da loro».
«Capisco e di Astrid?» Ti si strinse il cuore nel darle la notizia. Lei se ne uscì solo con un pacato: «Capisco; almeno è al sicuro».
Il tuo sorriso si afflosciò e ti pentisti quasi di averglielo detto. Non eri un granché quando si trattava di comunicare con una signora. Shoko lo sapeva molto bene. Al di là della formalità non riuscivi ad andare. A meno che non fosse un amico di lunga data o l’avventura di una notte, allora ti scioglievi (soprattutto con un po’ di ouzo o una birra). Anche se ti stavi facendo la nomea di gran giocherellone anche tra i sottorango, non andava bene. Rischiavi che si dimenticassero che tu eri il loro superiore. In realtà in privato ci ridevi anche tu. Quanto dovevate essere disperati per distrarvi così? Avresti quasi voluto che anche Castalia potesse riderci. Ne aveva un gran bisogno e poi 
si sentiva che quella casa aveva perso parte del suo splendore.
Lei richiuse il piccolo frigorifero e smise di sistemare. Si accomodò al tavolo e ti guardò.
«Perché sei corsa in suo soccorso?» Le chiedesti allora, incapace di trattenerti. Perché davvero non capivi che cosa l’avesse spinta a compiere un atto tanto sconsiderato. Lei alzò le spalle: «Cosa dovevo fare? Era in pericolo».
Sapevi che la Silver Saint dell’Aquila non si era mai affezionata a nessun altro che Seiya, per questo eri sorpreso. Allora perché l’aveva fatto se era stata lei stessa a richiedere l’ostrakon? Che cosa le prendeva? Glielo facesti notare e poi aggiungesti: «Quella ragazza la conosci a malapena da quanto? Quasi un anno?» Confermò e tu le domandasti ancora: «Mentre Seiya da quanto?»
«Da decadi, ma perché queste domande, Cavaliere?» Indagò confusa.
«Voglio provare a sottoporti una mia teoria, ma voglio che resti solo tra noi». Era un’idea che ti frullava per la testa da un po’, ma non ne avevi ancora parlato con nessuno.
«Certo, Cavaliere, di che si tratta?»
«Non ti sembra strano che sia così amabile? Nel senso, che sia facile volerle bene? Voglio dire, è riuscita a conquistare la stima e forse anche l’affetto di Death Mask di Cancer e di Aphrodite di Pisces. Quei due non si affezionerebbero mai ad anima viva, anzi è già tanto se riescono ad andare d’accordo. La tua, quella di Yoshino, Paradox, Lythos e non so chi altri. Kiki invece da quando è a contatto con lei è cambiato, giuro che non l’ho mai visto così eccitato e frenetico, al punto da ubriacarsi con il tè. E il massimo che avevo messo in quel tè era lo zucchero. Shura che cerca di salvarle la vita e che impedisce ad Aiolia di finirla. La mia teoria è questa: e se con i suoi poteri ci stesse condizionando tutti?» Esponesti tutto questo guardandola negli occhi inespressivi della maschera. Avevi elencato dei peccati degli altri, ma dei tuoi? Ammettilo, anche tu stavi cedendo, non è così? “Zitta, tu”. Mi ammonisti.
Neanche la maschera riuscì a fermare lo sguardo attento con cui ti fissava e tu continuasti: «Mettiamo caso che tutto questo non sia reale, che lei abbia un potere che le permette di controllare anche lo stato d’animo delle persone, così come la Dea Eris poteva manipolare le anime dei morti che non trovavano pace, facendole diventare ricettacoli per i suoi figli; cosa potrebbe fare se ne fosse effettivamente capace?» Insinuasti.
«Potrebbe scatenare una rivolta all’interno del Santuario. Ma lei non sembra interessata...»
«Nessuno lo sembra, all’inizio».
A quel punto la voce della Sacerdotessa s’indurì: «Vi sbagliate, Astrid non è quel genere di persona. Preferirebbe morire piuttosto che finire nelle mani di una Divinità o scatenare un putiferio di quella portata». Anche perché e questa cosa restò in sospeso tra di voi; non le interessava adesso. Ma in futuro?
«Tuttavia le informazioni di cui dispone la rendono pericolosa. E se fosse il messaggero o la spia inconsapevole di qualcun altro?»
«Vi riferite all’intruso che state cercando; è per via di questo che ho richiesto l’ostrakon». Questo non lo sapevi. Ma se aveva investigato anche lei per conto suo… Ti sporgesti verso di lei e dicesti, a bassa voce: «Sarò franco, se sai qualcosa, devi dirmelo assolutamente».
«Io non so niente, non sono riuscita a trovarlo, ma se davvero c’è, allora vi prego, salvatela». Ti pregò.
«Tu pensi di sapere chi possa essere?» Ti sincerasti in un sussurro. Avevi quasi paura che potesse saltare fuori da un momento all’altro.
«No, ancora no, ma vi prego di fidarvi di me, su Astrid».
La guardasti a lungo prima di emettere il tuo giudizio: «D’accordo, mi fido di te, finora ti sei rivelata una valente lettrice. Posso provarci, ma è difficile e Astrid è misteriosa, non so quanto sia disposta a rivelare. Inoltre noi non abbiamo lo stesso rapporto che ha con te o con Juan e Georg».
«Lo so, ma se vi vedrà in difficoltà non abbiate timore che sarà lei ad aiutare voi». Ti garantì. Sperasti che avesse ragione.
Dopo esservi salutati andasti a trovare anche gli altri due Saint. Non ci avevi mai parlato, ma avevi saputo che si erano rivelati dei validi elementi nella Guerra Sacra dell’Ottantasei. Juan era logorroico e ti colse completamente alla sprovvista con il fiume in piena di parole con cui ti travolse. Anche lui era abbastanza acciaccato. A dirla tutta era quello che aveva preso più colpi in quanto Saint dello Scudo. Georg quella notte aveva cercato di portare via Astrid, mentre i suoi colleghi cercavano di tenere Aurel impegnato.
Non ricordava neanche lui come fosse andata a finire e si rammaricava tantissimo di essere caduto anche lui in quella trappola.
I due amici non vivevano insieme bensì in case separate. Una cosa che li accomunò fu di chiedere notizie di Astrid. Entrambi si mostrarono contenti nel sapere che stesse bene. Da quando erano stati confinati non avevano ricevuto quasi più alcuna notizia. Juan ti disse che si sentivano spesso con il telefono che il Patriarca gli aveva lasciato. Per essere ai domiciliari si trattavano piuttosto bene. Anche se si lamentavano per la connessione internet. Avrebbero preferito lamentarsi per altro, di più concreto e più da Saint, però erano tagliati fuori. «Sono preoccupato per le Creature; ancora questi mesi e non abbiamo ancora trovato una soluzione, in più, non riesco più a vedere bene le stelle come prima». Ti confidò Juan.
«Dici che è un problema di inquinamento luminoso?» Indagasti, sfruttando il tuo talento di sciogliere la lingua altrui con la tua parlantina. Il Silver Saint parve esitare prima di confidarti, angosciato: «No, dico proprio che secondo me stanno sbiadendo piano piano, ma non so proprio cosa voglia dire. Sapevo che Astrid stava cercando una correlazione tra questo e le Creature e mi pento di non averci creduto più di tanto prima».
Georg si dimostrò più concreto, secondo lui le Creature erano un’arma uscita da qualche parte.
Nel corso della giornata maturasti l’idea che ci dovesse essere una correlazione tra Astrid, le Creature e la Dama degli Smeraldi. Doveva essere per forza così. Vi eravate già fatti fregare una volta, non indagando a fondo, non sarebbe successo una seconda. Per questo ne parlasti con Aiolia quella sera stessa, mentre guardavate le stelle fuori della Quinta Casa.
«Non so se quello che dicono sia vero. Io penso che la Dama degli Smeraldi non c’entri nulla». 
«Ti sto chiedendo di verificarlo, sei tu il nostro investigatore».
«Sì ma non credo di essere poi così bravo. Ancora mi domando che cosa volesse davvero Crono da me e, mi pento di non aver capito che cosa stesse succedendo ad Asgard quarant’anni fa». Ti confessò. E tu replicasti: «Sei comunque il nostro investigatore, sono sicuro che riuscirai a trovare qualcosa».

La mattina dopo ti recasti ad Atene puntuale, come ti aveva istruito il Gran Sacerdote e andasti all’aeroporto dove attendesti i coniugi av Stjernene. Ti eri pure fatto il cartello come avevi visto fare nei film.
E poi l’avevi visti dirigersi verso di te. Non potevi immaginarteli più diversi di così. Erano entrambi sulla cinquantina. Lui era sul metro e ottanta, ma era ancora snello. La sua testa era rasata e liscia come una palla da biliardo. Dietro le lenti degli occhiali dalla montatura fine scorgesti un paio di occhi gialli sospettosi. In un certo senso, però, ti ricordò Legolas de Il signore degli anelli. Portava uno zaino sulle spalle e due trolley.
Lei invece somigliava moltissimo ad Astrid. Ma la prima cosa che spiccava di lei era il cappello dalla tesa larga che faceva bella mostra di sé sulla sua testa. Da cui spuntavano lunghe ciocche nere ondulate. Aveva lo stesso tipo di viso ovale della figlia, ma non riuscisti a vederne gli occhi, visto che indossava gli occhiali da sole. Anche nel modo di muoversi era uguale alla figlia, forse ancor più del padre, da cui aveva ereditato il naso e la bocca. Se non fosse stato per il colore della chioma e la pelle abbronzata sarebbe stata quasi identica a lei.
«É lei il signor Milo di Scorpio?» Domandò l’uomo, speranzoso che tu dicessi di sì, con voce chiara e un accento norvegese, diverso ancora da quello della figlia. Che pure sembrava più dolce.
 «Sì, signore, sono io, voi dovete essere i signori av Stjernene, lieto di conoscervi». Dicesti stringendo loro la mano e mettendoti il cartello sotto braccio. La signora quasi te la stritolò, facendoti subito capire chi tra quei due portasse davvero i pantaloni. E ti stette anche antipatica.
«Il piacere è nostro. Comunque io sono il signor av Stjernene, lei è la signora Foscavalle». Ti corresse il primo. Mentre la seconda si sfilava gli occhiali, rivelando un paio di vispi occhi nocciola.
«Abbiamo divorziato molti anni fa». Spiegò la seconda, con una voce senza inflessioni particolari e una leggerezza che calamitò immediatamente la tua attenzione. Non eri un esperto, ma se ne parlava così o era molto cinica, o era molto forte oppure aveva superato la cosa da un pezzo. Altra differenza con la figlia; il suo sguardo era un misto di lussuria e curiosità. Capisti immediatamente che stava facendo un pensierino su di te. Ti sentisti lusingato, ma non era il caso nei confronti di Astrid. Anche se non sembrava, sotto questo punto di vista eri un gentiluomo. E per quanto non sopportassi la ragazza, non le avresti mai usato un simile sgarbo.
«Ah, mi dispiace». Ti scusasti.   
«Non importa, è stato parecchio tempo fa. Dov’è nostra figlia?» Domandò il signor av Stjernene guardandosi intorno, come se si aspettasse di scorgerla nella folla. Era così ansioso che non registrò quasi per niente il tuo aspetto giovanile. Né il tuo abbigliamento che faceva tanto James Dean. «Non volete neanche fare colazione? Avete fatto un lungo viaggio e il volo dev’essere stato stancante».
«La faremo a Rodorio, ci ha detto che avete le osterie, no?» Ti ci volle qualche secondo per capire che doveva essere stata Astrid a parlargliene.
«Sì, signore, seguitemi».
Li guidasti per la città fino a un negozio di erboristeria e, attraversaste il passaggio segreto nello sgabuzzino. «Da qui si accede più rapidamente al Santuario, ci eviterà inconvenienti per il trasporto delle cose di vostra figlia». Spiegasti di fronte ai loro sguardi ansiosi e titubanti.
«Perché non possiamo passare dall’Acropoli?» Domandò il signor av Stjernene.
«Troppi turisti e la segretezza del Grande Tempio potrebbe venirne minata». Rispondesti, omettendo che a un occhio attento lo era già. «Ecco, ci siamo».
Sbucaste nella via principale. Fortuna che, in tempo di guerra o di attacco, questi passaggi segreti venivano sigillati, onde evitare che i nemici attaccassero anche Atene. «Benvenuti a Rodorio». Li accogliesti forse un po’troppo cerimonioso ma i due parvero gradire. «Se volete fare telefonate o quant’altro siete ancora in tempo, in città c’è campo, ma al Santuario no». Li avvisasti.
«Accidenti, esiste davvero», sentisti dire dal padre della chiromante, mentre si guardava intorno
La donna accanto a te osservava tutto riempiendosi gli occhi estasiata: «Astrid me ne aveva parlato ma uao, esserci dentro è tutta un’altra cosa. Perché ci guardano tutti?» Domandò poi, incuriosita quando abbassò lo sguardo e vide le varie occhiate incuriosite che i cittadini vi stavano lanciando. Più a te che a loro, a dire il vero. Ancora non si erano abituati a vedervi in giro. «Oh, temo che in realtà più che colpa vostra sia colpa mia. É abbastanza raro che noi Gold scendiamo a Rodorio in tempi di pace». Spiegasti e la signora ti guardò. «Devo farvi i complimenti, signor Milo, la vostra pronuncia è davvero ottima». Ammise la signora.
«Grazie signora, tutti noi siamo poliglotti». Replicasti in uno slancio di modestia.
«Veramente?» Domandò stupita battendo le palpebre. «Comunque dammi del tu e chiamami Aida, sei dello Scorpione, vero?» Il tuo sorriso si congelò. Sì, certo, come se tu non ti fossi accorto che stava flirtando. Ossignora, anche questa. Cioè era una bella donna per la sua età ma davvero, non era il caso. E poi anche questa cosa buttata lì così non era che ti piacesse granché, ti sentivi come se avesse appena fatto centro. «Sì, signora, come…» Iniziasti guardandola confuso e improvvisamente molto meno tranquillo.
«Hai i tratti decisi e attraenti, lo sguardo intenso, ipnotico e penetrante, la pelle luminosa e l’espressione perennemente indagatrice». Non sapevi davvero se essere lusingato o se preoccuparti per questi complementi, tanto esatti, quanto, purtroppo rivelatori. Eri convinto di poter analizzare chiunque, non che altri potessero analizzare te.
«Sì, signora, sì». Confermasti un pochino spaventato spostando leggermente la testa indietro, come se avessi potuto mettere alcuni centimetri di distanza. Sapevi perfettamente come fosse il tuo aspetto, non avevi mica gli specchi di legno. Cercasti di tranquillizzarti. Forse aveva tirato a indovinare, o forse l’aveva sentito dire da Astrid. Era risaputo che parlasse con sua madre quasi tutti i giorni. Peccato che poi continuò dicendo: «Sei nato l’otto novembre?» “Santa Atena!” Pensasti sgranando gli occhi. Tu non gli avevi detto niente di niente. No, forse era Astrid che… «E, se non sbaglio sei un tipo molto sveglio e attento, però manchi di empatia, si potrebbe quasi dire che tu sia freddo quasi quanto l’azzurro dei tuoi occhi». Continuò lei, divertita dalla tua reazione. Adesso eri sicuro che la figlia non c’entrasse niente e che stesse giocando con te.  
L’ex marito poco più indietro stava scattando fotografie con il cellulare. Sperasti con tutto il cuore che non avesse un account prima di ammonirlo che era vietato. Il signor av Stjernene sollevò le sopracciglia e ti guardò stupito: «Ah, non si può?» Si scusò ripetutamente e mise via il telefono.
La ex moglie sospirò e scosse il capo borbottando qualcosa come: «Sempre il solito» poi, a voce più alta, «perdonatelo, è sempre lì a scattare foto su foto su foto neanche fosse un bambino che vede per la prima volta il mondo. E sì che viaggia anche più di me».
“Sarà una camminata molto lunga…” Pensati preparandoti psicologicamente.    

Arrivaste alla scalinata delle Tredici Case. Kiki fu quasi entusiasta di trovare nella signora Aida una valida avversaria per la sua telepatia. La sua capacità analitica relativa ai segni zodiacali però lo fece sorridere, perché se ne uscì con un tranquillo: «Astrid ve ne ha parlato». Peccato che la signora dai capelli corvini si aprì in un sorriso furbo: «No, l’ho dedotto e immagino che anche voi siate pieno di sorprese dietro quella facciata». Se quella frase la prese come un complimento, il suo
entusiasmo venne meno quando lei gli domandò se Raki fosse sua figlia. La ragazzina era passata per chiedergli come aggiustare le giunture della Cloth del Compasso.
Il tuo stesso disagio si rifletté sulla faccia del tuo compagno d’arme e il gelo calò nella stanza.
A quel punto intervenne il padre di Astrid: «Perdonate la mia ex moglie, spesso non sa quando è il momento di fermarsi. Signor Milo, forse sarebbe il caso di procedere».
«Sì, sì, giusto».
Ringraziasti la Dea che le altre due Case fossero deserte, sì da evitare altre figuracce e aumentare esponenzialmente il disagio e la convinzione che fosse stata una pessima idea.
Dovesti far riposare i tuoi visitatori all’altezza della Seconda. In quanto avevano continuato a trascinarsi dietro i bagagli nonostante che tu gli avessi detto di lasciarli all’osteria più vicina.  
L’incontro più strano però fu alla Casa del Cancro. Quando Death Mask vide la signora Aida, sbiancò ed esclamò indicandola con il dito tremante, lo stesso con cui aveva falcidiato decine di innocenti: «La strega!»
«Vi conoscete?» Domandasti perplesso facendo la spola con lo sguardo da lui atterrito a lei, che ghignava malefica. Quel ghigno parve cambiarle i connotati. Adesso non avevi più davanti la signora allegra e civettuola bensì una strega pericolosa. Era come se avesse rubato la malvagità al tuo compagno e se la fosse cucita addosso. «In un certo senso sì». Approvò con un’espressione astuta. E, da lei, sentisti provenire un barlume di Cosmo di poco superiore alla media. Però non tutta questa gran cosa per reputarla una minaccia in concreto. Stando a quanto avevi saputo i suoi poteri erano di molto inferiori a quelli della figlia. Te lo disse Aphrodite dopo che la ragazza fece sfigurare la Saint del Tucano. Inoltre non possedeva neanche le stesse capacità che avevano reso Astrid tanto importante per tutti voi. Non sembrava neanche capace di difendersi, nonostante l’aria da attaccabrighe e il portamento fiero. Allora perché Death Mask ne era così spaventato?
Guardasti il padre di Astrid per trovare risposte ma l’altro ricambiò lo sguardo con uno confuso tanto quanto te, scuotendo le spalle.
Il siciliano decise di darsi un contegno e abbassò il dito: «Così ce l’avete fatta».
Lei alzò le spalle: «Te l’avevo detto che avrei fatto di tutto per rivedere la mia bambina».
Aggrottasti le sopracciglia confuso, ma la signora riportò gli occhi su di te e propose sorridente, prendendoti a braccetto; «Che ne diresti di accompagnarci da nostra figlia, caro?» In quegli occhi leggesti tutta la voglia e l’ansia di una madre.
«Certo, da questa parte». Intanto che Death Mask ti mimava con le labbra la parola “caro” con una smorfia interrogativa dipinta in faccia. «Ah, mi è parso di aver visto Astrid sgattaiolare via stamani presto». Buttò lì.
«Hai visto dov’è andata?»
«Se la memoria non m’inganna dovrebbe essere alle piantagioni».
«Perfetto». Avevi fatto salire le scale a questi due per nulla.

Come aveva assicurato Death Mask trovaste la ragazza che passeggiava per le piantagioni. O meglio, a trovarla fu sua madre che corse ad abbracciarla. La giovane lì per lì non capì chi l’avesse assalita, poi la riconobbe e ricambiò la stretta: «Mamma!»
«Oh, tesoro!» Poi anche il padre si unì a quell’abbraccio.
Intanto che la stritolavano, e tu ridacchiavi divertito, Astrid divenne rossa come un peperone. Ti vide e ti sillabò di smetterla, che non era divertente. Poi, in perfetto stile Death Mask, gesticolò varie minacce per sottolineare le sue parole. «Che c’è tesoro?» Domandò sua madre discostandosi per guardarla, accorgendosi dei suoi movimenti. Lei sorrise e si fermò, mettendo su un sorriso angelico: «Niente, comunicavo alla Piatt… cioè a Milo, di non essere scortese». S’inventò trapassandoti con lo sguardo per sottolineare le sue parole. La madre la guardò battendo le palpebre: «Ma non lo è stato per niente, anzi, è stato gentilissimo finora». Anche il padre confermò.   
«Lo spero!» Esclamò la figlia scoccandoti un’altra occhiataccia fulminante che ricambiasti di tutto cuore. Anche se a quel punto tu stavi mordendoti la lingua per evitare di scoppiarle a ridere in faccia.
Se però la signora ti aveva sconvolto, ci restasti così quando vedesti Kanon di fronte al signor av Stjernene. L’astronomo, pur non avendo neppure un barlume di Cosmo, ti era parso la persona più pacifica del mondo. Nonché una delle più delicate, al punto che avevate riposato mezz’ora a ogni rampa per riuscire a farlo riprendere dalla salita della precedente, con gran preoccupazione di Shun e di altri Cavalieri, quando se lo videro davanti senza fiato e con un piccolo problema a gestire l’altitudine. Addirittura una delle serve che lavoravano nella Casa di Aphrodite quella mattina, impietosita, gli domandò se volesse qualcosa da bere prima di continuare. Sulle prime il padre di Astrid rifiutò ma poi cambiò idea e volle una bottiglia d’acqua. Che tracannò come se avesse vagato nel deserto, invece che salito delle scale. Si era addirittura annodato il fazzoletto in testa come i beduini. Riconoscevi che quelle scale sotto il sole erano una tortura per chi non era abituato. Però eri anche preoccupato per la salute del genitore della vostra ancella: «Siete sicuro di non volere una mano?» Domandasti per la terza volta da che avevate cominciato la scalata.
«No, grazie, ce la faccio, sono stato sull’Himalaya».
«Trent’anni fa e ci hai quasi lasciato la pelle». Gli ricordò Astrid, preoccupata quanto te. 
«Ce la faccio». Ripeté ostinato lui, rivelando una punta di masochismo. 
Punta che si rivelò evidente quando, una volta nella Sala del Trono, non esitò a vomitare addosso a Kanon tutto ciò che si era tenuto dentro con una rabbia tale da far paura persino a voi.
Nonostante la corporatura esile e aggraziata (che la figlia aveva ereditato), capisti che lui non era forte sul piano fisico, ma su quello intellettuale, che era abituato a parlare e rimbrottare. In questo caso, anche a minacciare pesantemente. Lo vedevi anche tu che Kanon stava cercando di non controbattere alla vagonata di insulti e minacce che l’uomo gli stava rovesciando addosso. Come intuivi perfettamente che al padre di Astrid non interessasse minimamente di avere a che fare con un’autorità tra le più potenti del pianeta.
E anche tu ti stavi trattenendo dal ribattere indignato alle parole grosse dell’astrofisico (o astronomo, non ricordavi). Se fosse stato un nemico l’avresti steso senza pensarci due volte, essendo soltanto un ospite non ti sembrò il caso.
Kanon comunque gestì la faccenda con una calma e un’educazione invidiabili. Tu al suo posto non ci saresti riuscito. Ma d’altronde il Patriarca era intelligente, se era riuscito a menare per il naso Poseidone sarebbe riuscito a cavarsela anche contro questo qui. Meno male che la Divina Atena era in Giappone.  
E Astrid con un ghigno soddisfatto stampato in faccia, assisteva appoggiata a una colonna accanto a te. Le scoccasti un’occhiata ammonitrice che lei ignorò, intanto che il padre dava il meglio di sè.
Quando ritenne che il Grande Sacerdote fosse stato massacrato abbastanza, fu lei stessa a prendere le difese del tuo amico. «Adesso basta così, papà».
«No che non basta».
«Papà, basta, questo è pur sempre il mio datore di lavoro, che figura mi fai fare?»
L’uomo la guardò e poi fece un lungo respiro profondo: «Hai ragione, scusami». Alla fine trovò un compromesso però si fece promettere dal padre che l’avrebbe denunciato lo stesso.
A te caddero le braccia. Fu la stessa Astrid a inchinarsi al cospetto di Kanon: «Vogliate scusare mio padre per la sua irruenza, sono certa che non intendeva offendervi». Infatti era sua madre quella che non conosceva il significato della parola “rispetto”. Come avevi avuto modo di sperimentare anche tu, che, nel giro di un giorno, ti eri ritrovato al centro di un’ondata di pettegolezzi che ti volevano andare a letto con donne che sarebbero potute passare per tua madre.
«Da un lato tuo padre avrebbe anche ragione».
«Ciò non toglie che sia stato molto maleducato da parte sua».
«Mi stai prendendo in giro?» Lei alzò la testa e rispose, con una cortesia che non le avevi mai udito prima: «Solo perché mi trovo d’accordo con quello che dice mio padre non significa che approvi il modo in cui lo dice. Alcune cose non sono vere, sono farina del suo sacco. E poi solo perché disapprovo alcuni dei vostri metodi, non vuol dire che io non provi stima nei confronti dei Saint. Si può stimare un nemico pur continuandolo a ritenere tale, mi hanno detto». Avevi sentito dire che anche Seiya fu ricattato da Lady Isabel in un modo molto simile perché si rifiutava di compiere il suo dovere. Astrid aveva scelto di prestare servizio con le Armature in cambio della vita dei tre Silver. Solo troppo tardi era venuta a sapere dell’inganno di Kanon. 
«Una risposta saggia». Commentò il fratello minore di Saga. «Tuttavia mi domando se corrisponda anche alla verità o se sia solo una facciata».
La sua interlocutrice intrecciò le mani in grembo: «Temo che dobbiate aspettare per avere questa risposta, perché quello che so è che sembra che per quanto io mi allontani, tutto mi riconduca a voi Saint».
«Credi che sia così?»
«Chiamatela una sensazione».    
Al termine di questa conversazione, Kanon vi congedò entrambi.
«Non mi aspettavo che avresti difeso così il Grande Sacerdote». Ammettesti, mentre tu e Astrid uscivate dalla Tredicesima.
«Quando ci vuole ci vuole, anche se io avrei fatto di peggio, avessi potuto. Piuttosto, scusa per mia madre, non dev’essere stato facile».
«Non ti preoccupare, ho visto di peggio».
«É solo che lei è molto esuberante, a volte anche troppo. Ti avrà sommerso di domande tutto il tempo». Disse in tono contrito.
«Anche». Evitasti con cura di accennare al suo flirt neanche tanto velato. «Non mi aspettavo che fosse un tale vulcano».
«Lo so, mi dispiace».
«Ehi, tranquilla, non mi ha fatto niente, ha solo la lingua lunga». E un’evidente mancanza di rispetto in generale per le persone. Però non lo faceva con cattiveria. Era solo il suo modo di essere e, in un posto simile poteva esserle fatale. Oppure no? Dopotutto aveva intimorito Death Mask e anche tu avevi avuto l’impressione che la stanza attorno a voi si fosse raffreddata mentre lo salutava con quel ghigno. Inoltre sembrava più impavida lei del suo ex marito. Che fosse anche forte?
«Comunque grazie di averli scortati qui, Piattola, da qui in avanti ci penso io».
«Prego». Ribattesti, decidendo di ignorare stoicamente il nomignolo che ti aveva affibbiato. Non ti saresti mai più fatto coinvolgere nei suoi giochetti.

Non sempre, in questi due giorni potesti stare dietro alla signora Aida e al suo ex marito. Infatti per tutto il primo giorno e il pomeriggio del secondo, non li avevi più visti.
Avevi anche il tuo dovere di Gold Saint e mancavano pochi giorni al torneo per l’assegnazione della prossima Armatura. Di solito preferivate tenerli in primavera, in quanto il clima era sufficientemente mite e adatto per disputare queste prove.
Di solito a te non importava niente, però se trovavi l’arena libera ti allenavi più che volentieri. Non era la stessa cosa come sull’isola di cui portavi fieramente il nome e che ti mancava. Normalmente, in questo periodo a quest’ora saresti stato sulla tua isola. Ma la minaccia delle Creature non era ancora terminata e non potevate lasciare le mura del Santuario. Inoltre, a causa dell’attacco di Eris, dovevate riassegnare le Armature che Kiki e gli altri lemuriani avevano riparato. 
Se non ricordavi male Kiki stava collaborando appunto con il Bronze Saint del Microscopio e il Bronze Saint del Telescopio apposta per questo e ti sembrava un po’ esaurito. Di solito era compito del Bronze Saint del Sestante occuparsene ma anche questi era scomparso nella battaglia e non aveva avuto la fortuna di essere resuscitato.
Ma non era solo questo a impensierirti. Erano anche le parole della giovane ancella sul numero di stelle della tua costellazione. Non potevi fare a meno di pensarci da quando te ne aveva parlato.
Le avevi addirittura contate quando avevano fatto capolino nel cielo stellato a inizio mese.
Diciassette. Ergo diciassette colpi e altri due punti vitali da aggiungere. Per caso potevi sviluppare altri colpi oltre alle punture rosse, l’Antares e il Restriction?
Ammettevi che l’idea fosse allettante. Solo che non avevi idea da che parte cominciare per svilupparle, né che cosa ci avresti fatto poi.
Ad allenamento finito bevesti un po’d’acqua dalla bottiglietta, ti asciugasti la faccia e il collo all’asciugamano, dopo il solito allenamento e te ne tornasti alla tua Casa.    
Sulla rampa della tua Casa ti fermasti: «Signora Foscavalle, cosa fate qua?» Domandasti stupito nel vederla seduta sulle scale che conducevano alla tua Casa.
«Cercavo un posto dove guardare il panorama e devo ammettere che qui c’è una bella vista». Sorrise lei affabile. «Alla mia migliore amica piacerebbe davvero moltissimo». Aggiunse poi con aria nostalgica.
«I miei colleghi vi hanno lasciata passare?» Chiedesti stupito.
Alzò le spalle. Nel modo in cui ti rispose, con quel sorriso furbo e come si mosse, ti ricordò la figlia: «Sì, sono stati tutti molto gentili, persino il mio compatriota». 
Gentile e Death Mask erano tre parole che a fianco proprio non si potevano vedere, figuriamoci sentire. Ti domandasti cosa gli avesse fatto a quel povero diavolo per rimetterlo così in riga.
«Su, siediti qui accanto a me». Ti disse lei, battendo la mano sul gradino accanto a sé.
L’accontentasti, lasciando un po’ di spazio tra i vostri corpi. Lei non restò minimamente sconvolta dalla tua scelta. «Mia figlia mi ha parlato tanto di voi, al punto che mi sembra quasi di conoscervi già, ma non è per rimproverarvi che sono qui».
«Ah, no?»
«Ho letto il vostro futuro nelle carte». Ti annunciò seria.
Il tuo cuore perse un colpo, ma avesti il buon senso di non darglielo a vedere. «Ah, sì? E che dice?» Domandasti simulando una sicurezza che non avevi per niente. Non solo perché quella donna ti faceva paura, ma perché quegli occhi davano la netta impressione che analizzassero ogni cosa.
«Lo volete veramente sapere?»
«Io non credo in queste cose».
«Anche se hai visto di cosa è capace mia figlia quando esercita le Arti della chiromanzia e della cartomanzia». Disse passando direttamente al tu, quando finora aveva mantenuto il voi che si usava all’interno del Grande Tempio. Però tu continuasti a rivolgerti a lei così: «Anche voi fate lo stesso?»
«Sì, anche se non sono potente quanto la mia bambina». Ammise. «Che fai lì in piedi? Siediti».
Facesti un cenno di diniego al suo invito e dicesti; «Mi scuserete, allora, se resto scettico».
«Certo, è un tuo diritto, anche se vivendo qui, non dovresti esserlo troppo».
«Sì, ma è meglio non sapere mai troppo del proprio futuro».
«Neanche se è una cosa positiva?»
«Davvero?»
«Certo».
«Mi dispiace deludervi, ma la mia risposta non cambia». Rispondesti. La tua vita era già abbastanza difficile così, non ti serviva di sapere cosa avresti potuto avere e perdere in tempo per la prossima Guerra Sacra. 
«Ottima risposta, ragazzo». Dichiarò soddisfatta. La guardasti stupefatto: «Mi stavate mettendo alla prova?»
«Volevo capire di persona quanto foste affidabile, adesso scusatemi ma devo rientrare o il mio ex marito si sentirà in pericolo». Scherzò. Inarcasti il sopracciglio, ricordandoti la sua sfuriata nella Sala del Trono. Forse avrebbe dovuto vederlo; altro che in pericolo. «D’accordo, avete bisogno che chiami qualcuno per riaccompagnarvi?» Domandasti per pura cortesia. Lei si alzò in piedi con un po’di fatica: «Non serve, ce la faccio benissimo anche da sola. Oh, se solo avessi una ventina d’anni di meno…» Sorrise. Poi ti guardò e vedesti passare nelle sue iridi il messaggio “Ma poi che razza di madre sarei se mi facessi gli amici di mia figlia?” Non ti sentisti di contraddirla, anche se tra te e Astrid c’era solo un rapporto di conoscenza. Continuando a sorriderti ti salutò un’ultima volta e discese la rampa.  

Aphrodite
Non ti eri dato per vinto. Da quando ti aveva salvato dalla caduta, ti eri impuntato di trovare i tuoi colleghi delle forze armate.
Avevi rintracciato il Cosmo di Quan Tu e da lì eri riuscito a trovare la base segreta dei ribelli. Era proprio nella città di Sukhothai. Lì avevano edificato il loro Santuario e pregavano attorno a una statua che sembrava saltata fuori da un film di Indiana Jones. Solo che rappresentava una donna alata.
«Hai visto abbastanza?» Ti domandò la voce della Dama degli Smeraldi. Ti girasti verso di lei e le domandasti, rosa in mano: «Che cos’è questo posto?»
«Il Santuario della Setta degli Onnipotenti. Un gruppo che cerca di conquistare il potere ultimo».
«Perché avete catturato i poliziotti? Cosa volete farvene?»
«La stessa cosa che succederà anche a te». Ti rispose e poi tutto divenne buio. Quando ti eri risvegliato ti eri ritrovato in una cella ed eri tutto indolenzito nonostante la Cloth. Delle voci ti chiamavano come da un lungo tunnel. «Dove sono?» Chiedesti mentre realizzavi che altre persone erano sedute attorno a te, tutti macilenti e rassegnati. Non solo poliziotti e civili. Riconoscesti le voci dei poliziotti che ti avevano chiamato tutto il tempo.
Proprio allora qualcuno entrò nel tuo campo visivo, che andava abituandosi all’oscurità. Era un uomo. Costui ti prese il mento con due dita e ti alzò la faccia verso di sé: «Sapevo che avevo fatto bene a fidarmi di quella ragazza. Tra tutte le offerte sacrificali che poteva portarmi, tu sei senz’altro la migliore, hai un grande cuore, lo sento».
«Cosa? Dove siamo? Dove ci troviamo?»
«Nella parte oscura di Nuova Sukhothai, Gold Saint di Pisces». Ti rispose però la voce della Dama degli Smeraldi. Anche lei imprigionata come te. Tra i poliziotti. «Tu stai zitta, non hai alcun diritto di parola!» Esclamò l’uomo ma la ragazza non si scompose. «Non hai alcun diritto di rivolgerti a me, dopo tutta la fiducia che ho riposto in te e poi proprio tu mi tradisci». Esclamò adirato. Tu non ci capivi più niente. Ma l’uomo la minacciò di morte e poi se ne andò, lasciandovi soli nella cella.
Fu allora che la ragazza e i poliziotti ti spiegarono la situazione. Ossia che quella setta cercava sì di conquistare il potere assoluto, ma tramite un mostro che stavano cercando di resuscitare. Avevano approfittato della scusa delle ClothStone per radunare e uccidere tutti i combattenti dotati di un Cosmo e una forza vitale abbastanza potente per andare a nutrire la creatura e svegliarla dal suo lungo sonno.
Lei si era ritrovata invischiata perché una sua parente stava rischiando grosso a causa della Setta. Essendo particolarmente talentuosa si era distinta subito come stratega e guerriera. «Allora che ne è stato delle altre vittime?»
«Purtroppo ho dovuto fargli credere che fossi dalla loro parte a tutto tondo; non sono riuscita a salvarli». Si scusò lei. Il silenzio cadde pesante come una cappa su di voi. Il resto te lo raccontarono i poliziotti. Erano tre giorni che eravate qui dentro e la Dama era stata arrestata e buttata qui subito dopo di te.
Non li avrebbero sacrificati subito, occorreva una luna particolare perché li sacrificassero e mancava poco. «So che sembra assurdo da parte mia, Aphrodite, però per favore, fidati di me». Ti supplicò lei in tono risoluto. Ma tu ti limitasti a guardarla e a distogliere lo sguardo disgustato.
 
«Credo che sia arrivato il momento di darmi delle spiegazioni». Annunciasti alla vostra compagna di prigionia il giorno X. Grazie al tuo Cosmo eri riuscito a restare in forze e avevi usato a tratti le tue capacità per evitare che anche gli altri prigionieri morissero. Ovviamente facendo attenzione alle Creature. Alla fine ti eri deciso a rivolgerle la parola. Anche se ti era costato molto. «Chi sono queste persone? Cosa vogliono?» Domandasti.
«Mi sembra giusto, hai ragione; questi sono i Divoratori di Cuori. Sono gli adepti di un culto molto antico che è sopravvissuto ai cambiamenti moderni e ogni loro rito è a base di sangue e magia nera».
«Magia nera? Sono satanisti?» Domandasti sgranando gli occhi.
«No. Magia nera intesa come profanazione della vita che ti è stata data, in pratica usano sangue, ossa, pezzi di sé stessi per i loro riti, credendo che sprigionino più energia, ed è vero, ma proprio in considerazione della vita che gli Dèi concedono come dono, non si dovrebbe usare. Altrimenti ci si trasforma in mostri».
«Mostri?»
«Tipo quelli». Disse indicandoti un affresco di un uomo che si tramutava in una belva infernale talmente realistica che fece venire i brividi anche a te. «Loro credono che assumere le caratteristiche di una persona mangiandone le parti, porti alla trasformazione e all’incremento del proprio potere». 
«Dove diavolo mi hai portato?» Le domandasti rendendoti conto che questo era persino peggio dell’ospedale maledetto del Guerriero Divino Fafner.
Improvvisamente la porta della cella si aprì ed entrò l’ex compagno d’arme della Dama. L’afferrò per la camicia, quasi strappandogliela e la mise in piedi. «Tu!» Scattaste tutti in avanti istintivamente, mentre lei sussultava e lo guardava spaventata. «L’ho sempre saputo che tu eri una doppiogiochista».
«E sei venuto fin qui per dirmelo? Congratulazioni che scoperta». Sorrise sprezzante lei.
«Non osare rivolgerti a me in questo tono! Se non fosse che il Gran Sacerdote vuole sacrificarti per prima e il tuo corpo deve rimanere intonso, te l’avrei già fatta pagare! Sei stata tu a cercare di ammazzare i nostri capi, e anche tutti noi, bè, ti è andata male». Sogghignò. Da dove ti trovavi vedevi i suoi occhi scintillare di follia.    
«Già, è logico che tu ce l’abbia con me. Tu eri il prediletto di Bao Thanh, secondo solo a Kano, vero? Il ruolo di principe delle tenebre doveva essere tuo. Dev’essere stato davvero difficile essere declassato e superato da me. E allora vi siete cercati un altro padrone cui rispondere, piccole api industriose?» Sorrise malefica. Pur avendo le mani legate dalle catene era come se avesse lei il coltello dalla parte del manico. «Quanta presunzione. Ma d’altro canto dei fuchi hanno sempre bisogno di attaccarsi a una regina». Completò con un’alzata di spalla e un tono finto compassionevole. Lui la lasciò andare di colpo ma lei, dopo aver vacillato un po’, non crollò.
«Di che cosa stai parlando?» Chiedesti tu, guardandola, ma la voce del suo aguzzino sovrastò la tua. «Stai zitta! Tu non sai niente!»
«Davvero? Allora perché ce l’avete tanto con me? Solo perché credevate che le gemme della mia spada fossero delle Armature come sosteneva il vostro precedente capo? Oh, che stupidi ingenui che siete, davvero stupidi». A quel punto non ci vide più e sfoderò la spada verde dal fodero appeso alla sua cintura. «Zitta, o ti taglio la gola». Minacciò con gli occhi spiritati. Stava uscendo di testa. Concentrasti il tuo Cosmo per liberarti ma sentisti la sua voce risuonare nella tua testa: “Aspetta”. Ti fermasti stupito e lei sorrise, continuando a guardare il ragazzo davanti a sé. «Provaci, se hai le palle per farlo: le armi come quelle non feriscono mai il loro legittimo possessore e, se lo fai, fidati che l’Inferno ti sembrerà preferibile a me». Sibilò, sporgendo la testa verso di lui. La osservasti con tanto d’occhi pensando: “É folle, completamente folle!”
«Non mi fai paura».
Lei ti guardò con aria di compassione: «Tu la paura non sai neanche cosa sia». Detto ciò spezzò le catene allontanando semplicemente i polsi, alzò le braccia come a spingerlo e un’ondata di Cosmo lo investì in pieno, mandandolo contro una parete. Con una forza inaspettata che ti fece sgranare gli occhi. «Il mio teatrino è durato anche troppo». Sbuffò massaggiandosi i polsi, prima di chinarsi e raccogliere la spada e fare lo stesso con il fodero. Il Cosmo D’Oro Bianco danzava ancora attorno la sua persona. Che razza di senso era mai quello? Era forte quasi quanto il tuo Settimo Senso! Poi passò una mano a una spanna dalle vostre catene e a uno a uno vi liberò facendole invecchiare fino a diventare polvere. Poi vi aiutò a rialzarvi. 
«Ma chi sei tu?» Le domandasti mentre lei ti aiutava.
«Nessuno in particolare, ma, se ti piace, puoi chiamarmi Asia». Poi, con un movimento della mano trasse un telefono dal niente e compose un numero. Sentisti una voce maschile rispondere e lei lo interruppe: «Pronto, parlo con il signor...?» Ma non ti permise di ascoltare il nome perché, proprio in quel momento, i tuoi timpani presero a vibrare con una violenza tale che ti piegarono in due, costringendoti a sigillare gli occhi e a sibilare di dolore. Che cosa ti stava succedendo? Che ti stava facendo?
«Sì, chi parla? Come ha avuto il mio numero?» Domandò la voce maschile, perplessa. A giudicare dal timbro sembrava sulla quarantina.
«Risponderebbe alle vostre domande sapere che il Tempo per me non ha segreti?»
«Il Tempo per voi non ha…» L’uomo dall’altra parte della cornetta trattenne il fiato rumorosamente. Poi dopo un secondo cominciò a parlare: «Com’è possibile? Voi…»
«Bene, vedo che avete capito, ascoltate, vi chiamo direttamente dall’Indonesia, Sukhothai, per riferirvi che ho trovato i fuggiaschi che vi hanno dato tante grane». Perché da come ne parlava avevi la sensazione che stesse parlando in codice? «Non vi dispiace venirveli a riprendere, vero?»
«No, no, ditemi dove sono che mando immediatamente qualcuno». 
«Bene», lei glielo disse, gli dette qualche altra istruzione e disse: «Ho l’impressione che i vostri e i Saint di Atena faranno un ottimo lavoro», poi lo salutò, attaccò e fece scomparire il telefono. Cambiando completamente espressione sbottò: «Accidenti». 
«Cosa?» Domandasti tu.
Lei incrociò le braccia, la fronte corrugata dal fastidio: «Spero che valga come compenso.»
«Cosa? Che vuoi dire?»
«Che ti permetto di catturarli e fregiarti della gloria, in cambio della mia libertà. Questa setta è composta sia da reietti tra i suoi soldati sia tra i vostri; diciamo che ai tempi della dominazione di Mars, non siete stati gli unici a cadere in quella trappola; molti tra altri Guerrieri votati a delle Divinità sono rimasti affascinati da lui e dal potere immenso che sembrava offrire e, altrettanti, cercarono di conquistarsi i favori per carpire i segreti delle ClothStone. Questi si possono considerare loro adepti, sebbene non abbiano mai sviluppato un potere elementale. Che seccatura, io gliel’avevo pure detto che questa era una pessima idea per modificare la Storia». Sibilò poi più a sé stessa che a te. La fissasti accigliato con mille domande che ti ronzavano nella teta: gliel’aveva detto? A chi? Esistevano altre persone come lei? «La Storia? Ma tu chi sei davvero?»
La giovane ti fece l’occhiolino, ringalluzzita. Ma quanto ci godeva a tenerti sulle spine? In un certo senso ti ricordò te stesso quando eri più giovane. Anche tu avevi trattato così molte persone per soddisfare il tuo ego. Solo che non te ne vergognavi mica, quei complimenti, quelle lodi ti facevano sentire un re nel suo castello. E, di quelli ti accontentavi. «Lo vedrai. Andiamo ad accogliere i nostri ospiti, tra poco saranno qui». Fece poi.
«Ma... e loro?» Domandasti riferendoti ai poliziotti. Lei li guardò e disse: «Non ti preoccupare per loro, troveranno la via d’uscita sani e salvi; noi dobbiamo impedire che risorga un mostro».

La cerimonia fu abbastanza inquietante. Il Gran Sacerdote non aveva fatto catturare solo voi, per questo non aveva mandato nessuno a cercarvi.
Il Tempio risplendeva dei colori rossastri, quasi lavici delle fiamme e l’aria era satura di puzzolenti fumi rituali.
In quel momento stava celebrando la sua messa sull’altare ai piedi della grande statua di Kalì alata. Solo adesso la riconoscesti. I fuochi rossastri precipitavano l’atmosfera in una tensione e una dimensione ancora più sanguigne di quanto ti aspettavi. Il Gran Sacerdote stava per dire che quella era la grande notte quando partiste all’attacco. Stando alle informazioni raccolte dalla ragazza il mostro risedeva proprio nel Gran Sacerdote. Dovevi impedirgli di riunirsi al resto di sé stesso nascosto nella statua.
In breve sgominaste quasi tutti i soldati e gli adepti e la Dama degli Smeraldi saltò sull’altare e
prese il sacerdote per il mento e gli girò il volto da parte a parte. L’affiancasti pronto a trafiggerlo con una rosa bianca quando lei ti fermò. «Non è lui, questo è umano. Ma allora dove…»
La terra cominciò a tremare e voi barcollaste. Vi giraste verso la statua terrificante adorna di cera e di ossa e la vedeste improvvisamente animarsi. Lasciaste immediatamente andare l’uomo, ormai più morto che vivo e vi metteste entrambi in posizione di difesa. «Il Guardiano della Casa di Saturno». Sibilò.  
«Di che?»
«Lascia stare e pensa a difenderti! Dobbiamo impedire che esca dal cerchio di pietre finché è ancora nella sua forma mostruosa!» Esclamò mentre la statua si frantumava e lasciava uscire un mostro amorfo viola scuro. L’essere informe si avvicinò a te senza staccare i suoi occhi acquosi e privi di iridi e pupille dai tuoi.
Poi mise un piede fuori della barriera e la nebbia viola si dissolse rientrando nelle sue membra. Con tua grande sorpresa, ti ritrovasti a osservare il volto di una donna dai polverosa dal corpo semi scarnificato avvolto dentro delle bende. La carne sotto le bende si muoveva come se fosse acqua nera ribollente. L’espressione furba del volto e lo sguardo di sfida che ti lanciava faceva intuire che non si sarebbe fermata solo perché c’eri tu a impedirglielo. Il Cosmo ribollente, più grande di qualsiasi altra creatura che avessi mai incontrato. Più grande persino di quello degli Déi e dei Titani, fece vibrare la terra sotto ai tuoi piedi.
«Gazza Ladra!» Esclamò la voce della Dama, che rimbalzò in tutto il sotterraneo. Giraste entrambi la testa verso di lei. Reggeva con la mano il bavero della veste del sacerdote, il quale cominciò a scuotere il capo più e più volte, supplicandola in di lasciarlo andare. Ma lei non lo ascoltò. Teneva gli occhi fissi sulla creatura. «Lo vuoi?» Domandò alzando ancor più la mano e tu ti domandasti quanto fosse effettivamente forte per riuscire a sorreggere con una mano sola un uomo grande e grosso come quello. Che scuoteva il capo ripetutamente e piangeva come un bambino. 
La Gazza si volse completamente verso di lei, lo sguardo bramoso.
«Vieni a prenderlo!» Urlò la lanciandoglielo.
«No!» Urlasti e il tuo urlo si mescolò con quello dell’uomo che rovinò per terra.
La Gazza Ladra scattò in contemporanea a te, ma si trasformò in una nube nera e viola e arrivò prima. L’uomo che, fino a quel momento l’aveva venerata come Kalì, cominciò a urlare con un forsennato. Non smise neanche quando le labbra della creatura si posarono sulle sue e la nube di cui era costituita finì d’inglobarla. 
Allora, mentre le urla del poveraccio si spegnevano, la nube, invece di espandersi, fu circondata da degli anelli di sabbia dorata che, roteando su loro stessi la costrinsero ad assumere una forma sempre più piccola e sempre più concreta.
«Non ti avvicinare! Sono anelli temporali, se li tocchi morirai assorbito da essi!» Ti bloccò la Dama degli Smeraldi.
Arretrasti a malincuore mentre le urla si affievolivano sempre di più e la Gazza Ladra prendeva forma definita. Dall’ammasso spuntò una testa e poi un collo e poi tutte le altre forme del corpo, che cadde a terra, in ginocchio. Una lieve nebbia violacea e luccicante come di brillantini continuava a splendere qui e lì sul suo corpo di quel tenue viola, sottile, indubbiamente femminile e flessuoso avvolto da un abito lungo, nero con due spalline e lo scollo a V come il chitone di Lady Isabel. La differenza era che sotto il seno, il resto dell’abito si allacciava al petto tramite una fascia di perle, poi, scendendo si sfrangiava in più parti, lasciando libere le membra. I fianchi erano coperti da degli shorts e ai piedi indossava dei sandali senza punta. Indossava una collana nera con un pendente dorato che s’insinuava nella scollatura. Poi una serie di bracciali, di stoffa sulle braccia, poi di metallo più sottili vicino al gomito e dei guanti senza dita decorati da altri braccialetti sottili. 
E, questa, fu soprattutto la prima cosa che notasti mentre la nebbia, ricostituendosi, andava a formare il resto. Aveva lunghi i capelli viola scuro con riflessi lillà che incorniciavano un volto ovale dalle sopracciglia folte. I grandi occhi policori, ossia con una doppia pupilla e iride che su di lei non stonavano affatto. Erano evidenziati con un trucco leggero, volto a risaltare l’oro delle iridi.
Il naso grosso e adunco e le labbra né carnose né sottili. Le lunghe orecchie da elfo incorniciate da dietro da una piccola cresta di morbide piume viola chiaro la punta delle dita dorate e affilate come artigli. Sui suoi fianchi si allargava a ventaglio una coda da rapace e, sulla sua schiena due grandi ali violacee. Gli avambracci e i polpacci acquisirono un colore dorato.
Respirava affannosamente, come se distruggere quell’uomo avesse richiesto un enorme sforzo. Poi si accorse di voi e della gabbia. Eppure, nonostante questo, il suo Cosmo restò stabile e poi scomparve. Solo allora il terreno smise di vibrare.  
Prese a guardarsi intorno proprio come l’animale in trappola qual era. «Gazza Ladra». La chiamò di nuovo la tua alleata e la donna volse il capo verso di lei. Che avanzò piano, tenendo le mani ben in vista, come a calmarla. «Gazza Ladra, mi capisci?» La prigioniera continuò a emettere quel gorgoglio che faceva tanto Predator. Poi tossì per schiarirsi la gola. Ma continuò a emettere lo stesso verso strano.
Si portò una mano alla bocca e poi una alla gola come se le dolesse.
Tossì per formulare delle parole con la sua voce umana. E, quando fu sicura, sebbene lo sforzo le avesse scurito le guance e le lacrime scendessero copiose dai suoi occhi, non solo per il fumo. Guardò di nuovo la giovane e disse: «Sì, io... ti capisco ma... non capisco che cosa faccio qui dentro».
«Sei stata rinchiusa dentro una statua troppo a lungo e, a lungo andare, hai scordato chi sei, mentre ti decomponevi. Allora hai approfittato della setta per accumulare potere e rinascere».
«Sì, sì, è così». Ammise raddrizzando la schiena. «Tu chi sei? Che cosa vuoi da me?»
«Sono qui per ricordarti chi sei e qual è il tuo posto». Disse e, muovendo una mano, la voluta di fumo accanto a sé si trasformò nella Megas Drepanon.
Strabuzzasti gli occhi. «Cosa? Com’è possibile? Quella è la Megas Drepanon, non puoi averla tu!» Ma la ragazza con la tiara si avvicinò alla donna ancora imprigionata negli anelli di sabbia. Poi, la prese di piatto e gliela restituì, dissipando la gabbia con un: «Forse questo ti aiuterà a ricordare meglio». La donna la prese e, dopo un secondo, chiuse gli occhi con un gemito di dolore. Quando li riaprì il suo sguardo era diverso. Guardò la ragazza come se la riconoscesse e ne fosse stupita. «Il tempo comincia a scadere, la Rivoluzione è in atto, devi tornare alla tua Casa, Guardiano della Casa di Saturno». Decretò enigmatica la tua alleata.
La donna si alzò in piedi rivelandosi in tutta la sua statura; era, infatti, alta più di Saga: «La Rivoluzione? Credevamo che non sarebbe mai giunta...»
«Sbagliavate».
«Quand’è così sarà meglio che mi sbrighi». Dichiarò lei, seriamente. Poi scomparve in un turbinio di piume viola scuro. Solo allora l’assalisti di domande: «Perché le hai dato la Megas Drepanon? Come te ne sei impadronita? Perché ce l’avevi tu?»   
Lei restò tranquilla e rispose; con un brillio di felicità nelle iridi castane: «La Megas Drepanon non è un’arma che può restare a giro dopo che viene persa, va affidata alla custodia di qualcuno e non c’è persona migliore del Guardiano della Casa di Saturno».
«Cosa ne sai che non la userà per scatenare una nuova Guerra Sacra? Cosa ne sai che la sua psiche non sia stata irrimediabilmente danneggiata?»
«Non farà nessuna di queste cose. Il loro compito è presiedere alle Case degli Astri e niente di più e poi la psiche dei Guardiani è progettata per essere molto più resistente di quella di un qualsiasi essere vivente, per evitare che impazziscano e distruggano tutto. Inoltre la Megas Drepanon diventa Soma soltanto per Crono, non riconosce nessun’altro, dagli altri si fa usare come semplice arma».
«Ma come hai fatto? Credevamo che fosse andata perduta».
«Sai il Tutto ha un modo particolare per farti trovare le cose». Ribatté con un sorrisetto enigmatico. Tu non capivi cosa ci fosse di bello. Indicasti il punto in cui la Gazza Ladra aveva banchettato: «Capisco quello che hai fatto, ma quello era...»
«Era un uomo che viveva per uccidere, per pascersi del sangue delle sue vittime e mangiarne il cuore dopo averne straziato le carni per la setta che lui stesso aveva fondato. Credeva che sarebbe potuto diventare immortale e invincibile. Ha avuto quello che si meritava». Decretò senza lasciarti possibilità di ribattere. Neanche se tu l’avessi ipnotizzata saresti riuscito a farti dare retta da costei.
«Bè, comunque ti ringrazio per non essermi stato troppo d’intralcio». Aggiunse poi.  
«Intralcio? Ehi!» Esclamasti offeso. Questa qui era simpatica come Death Mask.  
«Come sei permaloso, da un volto così bello non ci si crede che tu nasconda un caratterino così». Ti schernì di nuovo, divertita. Adesso che sorrideva sembrava di avere a che fare con una persona totalmente diversa. Era come avere a che fare con una ragazza spensierata qualsiasi. Sembrava quasi essersi illuminata. Siccome eri parecchio sensibile soprattutto per quanto riguardava la tua bellezza, la guardasti di traverso. «E su, sorridi che se no ti vengono le rughe». Fece prima di avviarsi verso la strada buia. «Ehi, e adesso dove vai?» Si fermò da sopra una spalla e, sempre sorridendoti: «A bere qualcosa, vieni con me?»
«Venire con te? Perché? Io sarei ancora in servizio!» Protestasti ma lei doveva somigliare un po’ a Death Mask, perché scrollò le spalle e rispose: «Anch’io». Al resto della scena avrebbero pensato i colleghi della polizia thailandese una volta che si fossero riorganizzati. Così ti garantì lei.
Più che bere ti portò in un ristorante.
Se lì per lì ti domandasti come avreste pagato, lei ti rispose che i soldi non le mancavano e che poteva ordinare tutto ciò che desiderava. Oltre che pagare anche per te. Prima di entrare però, fece scomparire gli orecchini e la tiara e tu facesti altrettanto con la tua Cloth. Ti guardò abbastanza sorpresa e poi ammirata. Ti spostasti una ciocca dietro il collo con la mano, lieto di averle fatto capire quanto fossi più bello.
Poi entraste.
Quello che non sapevi, ma a cui ti abituasti presto, era che l’esotica cucina thailandese fosse piccante. Avevi sentito dire che questo tipo di cucina stesse conquistando il mondo a partire dall’ultima classifica Asia’s 50 Best Restaurant dominata proprio dal famoso ristorante Gaggan di Bangkok. Non ti trovavi a Bangkok e non avevi il palato sufficientemente fine da giudicare, ma anche questo ristorante ti piacque molto. Non ti saresti mai aspettato che fosse un mix armonioso di culture e tradizioni diverse. La tua sorpresa più grande, fu che riuscivano a combinare perfettamente i cinque gusti fondamentali, persino l’umami, o gusto delizioso.
E lì, tra una portata di pad thai, maiale thailandese con funghi e zenzero, pollo agli anacardi e dolce speziato di riso con mango e latte di cocco, ti raccontò tutto. Il pad thai è pasta saltata alla piastra, condita con uova, pesce e spezie varie, tra cui il peperoncino. Ti raccontò di come fosse entrata a far parte della setta e della terribile prova da superare per divenirne i membri.  La chiamavano la Prova di Sangue: ossia, dovevano procurare vittime sacrificali per la setta. E lei aveva chiesto di poter partecipare, dopo che da sola era riuscita a battere alcuni Bronze Saint e uomini del Santuario in cerca delle ClothStone che erano sparse per il mondo. Aveva pensato di usare parte della sua Sacra Vestigia per far credere ai Saint e altri eventuali cercatori che ne avessero trovate. Così era stato perché gli informatori del Santuario avevano riconosciuto quei pezzi come Cloth. Così nella sua trappola erano caduti gli ex compagni di battaglia di Kouga e di Subaru. E qui il suo sguardo si fece anche più serio. «Non li ho uccisi io, mi sono limitata a fare in modo che gli altri li catturassero; non fraintendere, però, mi è dispiaciuto per la loro sorte». Difficile da credere, visto con quanta facilità cambiava bandiera e poteva massacrare i suoi avversari. Era come se per lei le vite umane non contassero nulla. Li usava e li schiacciava come vermi sul terreno. Decidesti di sorvolare e bevesti il tuo tè. Solo dopo ti sovvenne un piccolo particolare: «Tu hai una Sacra Vestigia? Allora lavori per gli Dèi!» Ecco come mai era così forte! Come avevi fatto a non averlo capito prima?
La tua commensale ti guardò sorpresa: «Certamente, perché, non si era notato?» Ribatté scherzosa e tu decidesti di non replicare. Soffocasti l’irritazione e la esortasti, invece, ad andare avanti. Così passò a raccontarti la sua carriera tra le fila della setta, di come si fosse distinta per astuzia e abilità. Come gli alti esponenti del concilio l’avessero presa in simpatia nonostante il suo sesso. E della rivalità col suo collega, di cui inizialmente era la guardia del corpo. Poi a seguito di una manovra interna divenne una sua collega a tutto tondo. Fu allora che cominciò a essere riconosciuta ufficialmente come punto di riferimento per i membri minori.
E qui ti raccontò come era strutturata. Era abbastanza simile a quella del Santuario con l’aggiunta dei ministri dopo il braccio armato di ribelli.
Fu in quel periodo che saltò fuori il primo Guardiano delle Case degli Astri: il Drago Rosso. Anche tu avevi già sentito parlare di questa storia, due anni prima. Nel Duemiladiciassette vi arrivò una richiesta di soccorso da una città italiana, che era stata devastata dall’apparizione di un drago rosso. Stando ai testimoni oculari, in mezzo alle persone ci fu una ragazza che invece, gli andò incontro e lo affrontò. «I civili ci raccontarono che pensavano che fosse una di noi. Per questo non furono tanto sorpresi quando ci videro. Allora quella ragazza eri tu».
«Eh, già». Confermò bevendo un sorso di coca cola dal suo bicchiere. «Purtroppo però sono riuscita a calmarlo solo per metà, l’ho placato del tutto solo in Brasile. Proprio davanti al Bronze Saint di Apus». E lì ti narrò di come la sua strada si fosse incrociata con quelle di Eden di Apus, Shaina di Ophiuchus e Castalia dell’Aquila.  
«Davvero hai massacrato Eden per divertimento?» Eri abituato a sentire di peggio da Death Mask, perciò eri pronto ad aspettarti qualsiasi cosa.  «Ho detto che mi sono divertita, non che l’ho fatto per divertirmi. L’ho avvisato tante volte nel corso di quella sera di non attaccare e di scappare. Ho solo mantenuto la mia parola. Ed è bene che sia stata io a massacrarlo, se fosse toccato al Drago, lo avrebbe ucciso e neanche voi avreste potuto riconoscere i suoi resti. Hai avuto un assaggio della forza di un Guardiano delle Case degli Astri, no? Immagina allora cosa potrebbero fare se scatenati o provocati». Ribatté lugubre.
In effetti non aveva tutti i torti. Se la metteva in quest’ottica potevano ritenersi tutti fortunati. E lo dicevi tu che avevi affrontato i Titani.
Il resto della cena lo passò a mangiare e a darti tutte le informazioni sulla setta e quanto necessario per incastrarli anche economicamente. Comprese delle prove scritte che, come sempre, trasse fuori dal niente. Ricevevano infatti, finanziamenti da società radicate in buona parte dell’Asia e del Medio Oriente. Tra cui, scopristi, con tua grande sorpresa, anche dalla Fondazione Grado, che si era lasciata ingannare decadi fa. L’impero finanziario di Lady Isabel era talmente esteso che era impossibile anche per lei amministrarlo tutto e avere tutto sotto controllo.
Per quanto riguardava la Gazza Ladra, tempo prima aveva ingannato l’ex Gran Sacerdote, per restituirle le energie che stava perdendo. Si era rifugiata in Thailandia dopo una battaglia e aveva trovato riposo in quel Santuario. Lei, che era sulle tracce dei Guardiani delle Case degli Astri, aveva avvertito il suo influsso e aveva deciso di sfruttare la setta a proprio vantaggio. Perciò sì, il suo ex collega faceva bene a dire che era una traditrice doppiogiochista.
Se non fosse che eri abituato a sentire di peggio, queste parole ti lasciarono l’amaro in bocca. Anche voi eravate stati spietati durante l’usurpazione di Arles, ma non fino a questo punto.
«Più di così non posso fare, spero che possa bastare». Terminò, dopo aver pagato il conto. Battesti le palpebre perplesso: «Che intendi?»  
«Come ti ho detto, spero che il mio operato possa bastare per permetterti di riportare una vittoria altrettanto grande per il Grande Tempio. Non è da tutti sgominare una setta come quella».
«Gli ordini sono...» Iniziasti ma lei ti bloccò di nuovo; «Bè, allora dirai al tuo Gran Sacerdote che hai fallito, mi pare semplice, no?»
«Non accetterò mai un compromesso come questo». O tutto o niente. Non te ne facevi niente di una vittoria a metà. E lei, serva degli Dèi o no, doveva essere arrestata. Perciò declinasti l’offerta. Si portò le mani sotto al mento e ti guardò con aria furba. Lo scintillio dei suoi occhi e, il suo sorriso, non ti promisero nulla di buono: «E io non intendo venire con te e, come hai già avuto modo di vedere, non riuscirai mai a fermarmi o a fare ciò che non voglio». Tese l’indice verso la busta che era sul tavolo davanti a voi. «Quella busta e i file che ti ho passato ti permetteranno di acquisire un lustro ancora maggiore della mia cattura, inoltre, tra poco, con quello che farai, la gloria di cui potrai fregiarti sarà anche doppia. Pensaci bene, potresti accaparrarti la vittoria su una setta intera e un titolo ancora più grande e queste due cose sono meglio che niente, non ti pare? Così potrai tornare a casa tua e salvarti la faccia. È un contratto onesto». 
Battesti le palpebre, ancora più confuso: «Aspetta, quando abbiamo stipulato quest’accordo?»   
«E tu da quando pensavi di avermi catturato tanto facilmente? Ascolta, ho delle cose da fare adesso, cose molto importanti e, per dove andrò da adesso in poi, tu non potrai seguirmi, perciò dammi retta, reca le tue scuse anche da parte mia al Gran Sacerdote e lasciami andare».
«Non posso fidarmi. Non so neanch’io chi tu sia».
Lei si riprese la busta e la fece sparire. Poi si alzò da tavola: «Allora andiamo al porto, i nostri ospiti dovrebbero essere già arrivati; saranno loro a parlarti di me». Ti accigliasti ma la seguisti fino laggiù.
Arrivaste cinque minuti prima di loro sulla banchina del fiume. Tu avevi pensato al mare, non avevi capito che si riferisse a questo. Poi dall’acqua sporca e oleosa uscirono dei soldati di Poseidone guidati da un Cavaliere Sirena nella sua Armatura. Era la prima volta che ne vedevi una. Erano molto più scarne di quanto pensassi. Il quale quando vide la tua accompagnatrice sobbalzò e sgranò gli occhi. Anche i soldati della sua scorta arretrarono di un passo.
«É un piacere anche per me rivedervi, com’è andato il viaggio?» Flautò lei, ignorando deliberatamente quelle reazioni. Perché reagivano così?
«Rapido. Cosa? Un Gold Saint di Atena? Che ci fa qui?» Esclamò, improvvisamente sulla difensiva, vedendoti. Tu stesso avevi già una rosa in bocca.  Prima che potesse succedere qualcosa, la ragazza dai capelli striati intervenne: «Calma, calma, ho pensato che potreste prendere due piccioni con una fava cominciando ad appianare le vostre millenarie divergenze, collaborando questa sera». Calcando tutte le parole con intenzione. Gli occhi luccicarono in un modo che non ti fece presagire niente di buono se aveste disobbedito. Normalmente te ne sareste fregato, ma avevi già avuto un assaggio più che sufficiente della sua potenza. Quello era lo sguardo di una persona da non sottovalutare. Infatti entrambi vi rilassaste istantaneamente, tu, perché volevi capire che cosa succedesse e, qualcosa ti diceva che non sarebbe stata una buona idea scatenare una rissa per scoprirlo. Lei, per ché sembrava sinceramente intimorita dalla tua alleata.
Poi, la donna in Armatura bianca e rossa s’inginocchiò cerimoniosamente alla bruna, imitata dai suoi sottoposti. «Vi prego di scusarci per il nostro comportamento Milady, non ci aspettavamo di incontrarvi». Salutò rispettosa. Poi si raddrizzò e domandò dove fossero. Capisti immediatamente che si riferiva ai sopravvissuti.
«Li abbiamo lasciati al Santuario».
«A quest’ora saranno già scappati!» Rilevasti dando sfogo alla tua ansia. Ma nessuno ti ascoltò. Anzi, la Dama degli Smeraldi li scortò al Santuario. Ti eri ormai fatto l’idea che fosse fuori di testa e che avresti dovuto proteggerla dalle giuste ire dei nuovi arrivati. Ma quando foste di nuovo lì tutti i tuoi ragionamenti e piani andarono in fumo, soppiantati dallo stupore.  I moribondi e i sopravvissuti erano tutti dove li avevate lasciati. Ognuno di loro, però, ripeteva sempre gli stessi gesti e poi tornava indietro come un bizzarro rewind. Avanti e indietro, avanti e indietro, tutto così. «Sono incastrati in un loop». Esclamasti sorpreso.
«Certo, credevi che li avrei lasciati liberi?» Domandò la giovane al tuo fianco incrociando le braccia. Un sorriso furbo le incurvava la bocca. La guardasti scioccato mentre i soldati si mettevano all’opera per recuperare i fuggitivi, togliendoli dal loop. Solo allora parvero risvegliarsi e cercarono di fuggire, ma le ferite glielo impedirono. Tu la guardasti più che incredulo. «Ma tu chi sei?»
Lei roteò gli occhi: «Quanto sei ripetitivo».  
«Ehi, badate a come parlate alla Signora». Ti ammonì quello di prima. Ma che voleva questo? Ad ogni modo glielo domandasti. «Perché? Chi è?»
Il tritone ti guardò sconcertato dalla tua mancanza di rispetto: «Lei è una delle Ali degli Dèi. Ecco chi è». Le ali degli Dèi? Improvvisamente però le sue manovre ti parvero più chiare e meditasti seriamente sull’offerta che ti aveva posto. Ti girasti verso di lei e la vedesti sorriderti: «Allora, ti va di stipulare quest’accordo?»
Una gloria doppia o una fuggiasca? Cosa era più giusto? Dopotutto non era la prima volta che seguivi qualcuno di più potente per la gloria e la suprema bellezza della vittoria, no? Due vittorie in una, poi, gloria doppia. Ma il tuo dovere di Saint ti imponeva di non lasciarla scappare. Sì, però potevi fare come Milo anche tu. Anche se falliva qualche missione poi tornava in gioco e rimediava. Potevi seguire il suo esempio, per una volta, invece di fare come ti pareva. Tanto chi vuoi che l’avesse spifferato a Kanon e Saga? O alla Dea? Potevi sempre monitorarla tramite le tue adorate piante e con la tecnologia della Fondazione Grado. Una ragazza come questa non passava certo inosservata. Sì, lo potevi fare. La guardasti a lungo, soppesando la sua offerta e alla fine prendesti la tua decisione.

Kiki

Aphrodite era tornato a mani semi vuote. Avevi sentito dire anche tu che fosse partito per una missione in Indonesia. Ma tu in quel periodo eri troppo occupato con l’organizzazione del torneo d’assegnazione per farci caso. Eppure, per l’orgoglioso Gold Saint dei Pesci, questa non sembrava una sconfitta.
In seguito scopristi anche perché: quella notte aveva sgominato la setta dei ribelli di cui faceva parte la Dama degli Smeraldi. Purtroppo lei gli era fuggita, ma in compenso erano entrati in scena anche dei personaggi inattesi. Era un bene che ne fosse uscito sano e salvo. Anche tu avevi sentito delle voci sulle ferite di Eden, che alla fine aveva rinunciato alla propria Cloth.
Adesso Aphrodite ne stava discutendo nella Tredicesima Casa.  
Avresti voluto parlarci anche tu, ma davvero non potevi.
Contasti per l’ennesima volta le casse che avevi radunato. C’erano quasi tutte le Bronze Cloth e cinque Silver Cloth. Tutti coloro o quasi che combatterono nella Guerra Sacra contro Mars erano spirati. Si erano salvati Ryuho di Dragon, Paradox, Integra, Eden, Kouga e Sirrah. 

L’indomani si sarebbe tenuto il torneo per l’assegnazione dell’Armatura d’Argento dell’Indiano. Con immensa soddisfazione di Lancelot, che aveva intensificato ancor più gli allenamenti.
Riguardasti la lista e sospirasti: mancavano all’appello tutti i Cloth dei Saint che avevano a che fare con la costellazione della Nave Argo. Ossia il Silver Cloth della Carena, il Silver Cloth delle Vele, della Poppa e della Bussola. Se non fosse stato per questi Cloth scomparsi i Silver Saint sarebbero stati quasi completamente ricostituiti.
Avevi fatto un sogno molto strano.
Nel sogno ti trovavi negli Inferi. Per la precisione nel luogo dove, nel Millesettecento, scorreva la Cascata di sangue, da cui Asmita mise alla prova Tenma di Pegasus. Lo sapevi perché avevi studiato anche tu i fatti della Guerra Santa del millesettecentoquarantatre. La quale culminò con la morte di Yoma di Mephistophele, colui il quale dette origine a tutto per noia.
E gli Specter, a differenza di voi, che, in qualche modo continuavate a invecchiare, restavano eternamente giovani per servire al meglio il loro padrone. 
«Una volta si diceva che il regno della Fantasia fosse la culla da cui la vita prese ispirazione per formare il mondo esterno. Poi sopraggiunse la ragione e gli estremisti relegarono la fantasia ai margini della realtà, e da allora divenne culla di mostri. Adesso gli unici che custodiscono questo segreto siamo noi. Sai, in un certo senso anche le vostre costellazioni nascono dalla fantasia degli esseri umani e dalla volontà degli Dèi. Sai cosa accade a quelle Armatura che vedono il cancellarsi della propria costellazione? Muoiono, mentre altre, se sono fortunate, entrano a far parte delle nostre schiere, spettri o miseri ricordi di un immaginario collettivo».
Sgranasti gli occhi e il tuo cuore batté più rapidamente per la paura. Quella voce, non era possibile.
«Perché un’Armatura d’Atena dovrebbe volere questo?» Chiedesti senza voltarti, annientando la paura dietro la tua maschera di coraggio e impassibilità. Anche se era difficile dimenticare la notte dell’Oscura Adunanza nel Santuario e la voce di questo Specter.
«Perché vogliono continuare a vivere, prendi Raimi di Worm, credi davvero che appartenesse a noi, originariamente quello Specter? O anche quello che indossa la Surplice di Cat Sith».
«Non avevo mai sentito parlare di queste costellazioni, prima».
«Non mi sorprende». Poi prese fiato e arrivò finalmente al nocciolo del discorso. «Ti stai chiedendo che cosa ci facciamo qui, in questo luogo, no? Non preoccuparti, non ho avuto bisogno di leggertelo nella mente, è che credo sia abbastanza ovvio, perfino per uno come te». Ti domandò il tuo ospite.
Tu ti mettesti in posizione di difesa, riconoscendo il diciannovenne di fronte a te.
«Che cosa vuoi da me, Myu della Farfalla?»
La Stella Terrestre della Terra Misteriosa si sedette sulla roccia dinanzi a sé, con una grazia che vedesti propria di un ballerino. Però che, al tempo stesso, si accordava benissimo alla sua figura snella. Nonostante gli occhi purpurei apparentemente privi di sclera e pupilla: «Soltanto parlare, vengo in pace come ambasciatore del mio Signore e della Nobile Pandora».
«Questo non è un sogno». Dicesti per sicurezza.
«Molto bene, vedo che siete sveglio. Vi ho portato qui tramite i miei poteri ESP».
Aggrottasti le sopracciglia, minaccioso: «Conosco molto bene i tuoi poteri, ho visto con i miei stessi occhi la tua lotta con il mio maestro». E ancora ricordavi di come fossero alla pari. Perché tu c’eri, quella notte di ventinove anni fa. Nascosto dietro le colonne e timoroso che vi crollasse il Tempio dell’Ariete in testa, ma c’eri.
«Ottimo, allora non c’è bisogno di dire niente. Vi offrirei volentieri qualcosa ma temo che non sia l’ideale per voi mangiare o bere qualcosa degli Inferi. Vi inviterei volentieri alla Giudecca o in un posto migliore, ma ho paura che nel tragitto verreste attaccato e non vogliamo scocciature». Disse fintamente preoccupato. Come se gli importasse veramente della tua vita.  
«Non fa niente». Ribattesti.
Ti sedesti a gambe incrociate, restando comunque pronto a difenderti in caso di attacco. «A cosa devo questa convocazione urgente nel Regno dei Morti?»
«Affari. Per essere precisi la Magnolia degli Inferi, la stessa che fioriva ogni qual volta che gli Specter erano pronti a rinascere, nostra madre, se così si può definire».
«So che la distrusse Asmita di Virgo per creare il Mala in cui rinchiudere…» Tacesti, temendo di offendere il tuo ospite. Per quanto non ti fidassi non ti sembrava il caso di offenderlo nel suo territorio.
«Precisamente, non preoccupatevi di offendere, sono fatti antecedenti a due secoli orsono, non c’è bisogno di questo tatto». Disse in tono gelido.
«Io cosa c’entro in questa storia? Fu il Cavaliere della Vergine del tempo a…»
«Asmita di Virgo non c’entra niente, infatti. Ho convocato voi perché siete voi che detenete il grosso del controllo sulle schiere dei Saint».
«Questo fino a due anni fa, con la sconfitta di Zeus i Gold Saint sono tornati a spartirsi il controllo delle truppe». Gli ricordasti.
L’altro fece un sorriso affilato e poi disse, mellifluo: «Ma voi restate quello più influente agli occhi del Patriarca, pertanto sono sicuro che le vostre parole saranno tenute in gran conto». Non sapevi quanto fosse effettivamente vasta la conoscenza del tuo interlocutore della ripartizione delle forze in seno al Santuario, però ritenesti più saggio non parlarne. Anche perché spesso vi consultavate, ma il vostro era un rapporto molto simile a quello tra un professore e un allievo. Spesso ti eri consultato con lui quando, durante la Guerra Santa contro Zeus comparve il problema delle doppie Armature e della mattanza per riequilibrare il mondo. Oltre che il caos delle Shin cloth, come quella del Leone di Ikki, che nasceva dalla fusione dell’Armatura d’oro originale con quella Fenice, che non si era voluta separare da Ikki.
La voce di Myu ti strappò dalle tue riflessioni: «Capisco che ci sia tutta questa diffidenza tra noi, millenni di pregiudizi non possono essere cancellati così, con una semplice conversazione. Non deve essere facile neanche per voi comunicare con noi Specter. Dopotutto siamo entrambi servitori di una Divinità, per quanto appartenenti a due fazioni completamente opposte e in lotta. Ma non è sempre stato così, ci fu un tempo in cui non eravate i nostri avversari e il nostro compito era ancora più nobile di così».
«Che cosa intendi dire?»
Lui ti guardò con finto smarrimento: «Non ci arrivate, Cavaliere?»
«Direi proprio di no».
«Allora vi darò una mano a comprendere, seguitemi».
E, ti condusse fino ai resti del tronco della Magnolia e tu, con tuo sommo stupore, vedesti la resina ancora umida sui suoi anelli, come se fosse stata tagliata da poco e stesse ancora sanguinando. Come era possibile? Eppure il Cavaliere di Pegasus e quello di Virgo del millesettecento avevano fatto di tutto per distruggerlo fino a indebolire gli Specter. Doveva essere morto anch’esso. Allora come mai lo sentivi ancora vivo?
«Com’è possibile?»
«É possibile». Disse soltanto Myu della Farfalla, affiancandoti, osservando il tronco.
Ma non gli spiasti nella mente, anche se la tentazione fu effettivamente molto forte. Sapevi che la Magnolia necessitava di Cosmo soltanto per sbocciare. Allora cosa poteva essere mai successo perché fosse ancora viva. Gli Specter dovevano essersi attivati per donare il proprio Cosmo affinché questa non scomparisse definitivamente. Ecco come erano sopravvissuti e perché avevano dato tanto filo da torcere durante la vostra ultima Guerra Santa! 
Però quello che ti disse ti sconvolse ancor di più: «Noi centootto non siamo gli unici Specter presenti nel mala del vostro compagno, ce ne è un altro, che attende ancora di essere risvegliato e la Magnolia sta aspettando proprio lui».
Lo guardasti. «Perché me lo stai dicendo?»
«Perché voi avete avuto fiducia in noi, molto tempo fa, quando lasciaste che il signor Rhadamantys saldasse il suo debito con Kanon di Gemini. E lasciaste che Hades riprendesse a vivere sulla Terra, nel corpo di Shun di Virgo in attesa che il suo corpo mitologico non si fosse ricomposto. Adesso tocca a noi dirvi cosa potete fare per cessare le nostre ostilità. Non credo che abbia ancora senso per tutti noi continuare a combatterci ogni duecento anni con risultati ancora più devastanti e lo sa anche il Divino Hades. Quello che vogliamo è rinnovare il patto, ma con una clausola, ossia permettere a voi di indicarci il centonovesimo Specter che farà parte delle nostre schiere, come noi abbiamo aiutato le anime della maggior parte di voi a tornare alla vita e voi avete ospitato il nostro Signore e padrone».
Lo guardasti orripilato dalla richiesta: «Che cosa? Volete che sacrifichiamo un nostro commilitone per voi?»
«Esattamente, vogliamo un Saint che si offra per essere corrotto e diventare il nostro centonovesimo Specter, colui che si occupava della Magnolia, prima della Guerra Sacra che ne sancì la distruzione. So che non è nella vostra autorità decidere di ciò, ma è quello che la Terra degli Inferi richiede in cambio dei nostri servigi».
«Non potete chiederci una cosa del genere!»
«Ah, no? Perché non dovremmo? Dopotutto siamo alleati e vogliamo rinfoltire le nostre schiere tanto quanto voi. Rivogliamo la nostra piena forza, ma a differenza di voi richiedono una particolarità: la predestinazione. Cosa che voi non avete».
«Avete perso la Guerra».
«E ci avete sconfitti, ma non è mai stata una guerra di conquista, non avete mai sparso sale sui nostri territori e non ci avete mai schiavizzati. Anche perché una volta scomparso il nostro Signore, siamo comparsi anche noi e tutto il nostro territorio, con le conseguenze che ben conoscete. Ammetto che se fosse successo il contrario non avremmo esitato affatto nel fare tutto quanto vi ho appena elencato, ma è una fortuna che non sia andata così». Concluse compiaciuto.
«Avete di nuovo il vostro Regno e la vostra Comandante, dovrebbe bastarvi».
«Voi riuscireste davvero a vivere in un mondo semi morente? O meglio a sopravvivere? Noi qui ci viviamo, ma rivogliamo la nostra piena forza per controllare al meglio le anime e il nostro territorio. Credete che sia facile controllare gli spiriti? O peggio, gli eserciti avversari? Credete che siamo più forti di voi solo per l’Ottavo Senso? O che ci diamo delle arie per la nostra condizione di predestinati? Ebbene non è solo questo. Quello che chiediamo è la risanazione della Magnolia e questo Specter per lavorare al meglio e migliorare le nostre condizioni».
«Così ci fai passare per dei conquistatori senza pietà».
«Non che voi ne abbiate avuta molta quando ci avete invaso».
«Voi avete cercato di ammazzare la nostra Dea».
«É la Guerra, ma il vostro Santuario non c’interessava e neanche la Terra».
«Ma se minacciavate di farla sprofondare in un’altra Era Glaciale». Ribattesti.
Lui scoppiò a ridere divertito. Tu lo guardasti interdetto prima di accennare un’ipotesi, tanto spaventosa quanto concreta, che non avevi mai considerato: «Non era vero?»
«Oh, no, certo che era vero, ma ci interessava ancora di più ammazzare la Dea Atena, non posso crederci che siate così stupidi».
«Che vorresti insinuare?»
«Nulla di importante, ormai è acqua passata». Cominciavi a capire perché avessero mandato proprio lui a negoziare con te. Non era solo abile con i poteri ESP era anche un buon oratore. Anche se non l’avresti mai detto dai ricordi che serbavi di lui risalenti agli Anni Novanta. «Sottoponete la nostra richiesta al vostro Gran Sacerdote». Ordinò.
«Ma tra pochi giorni saranno da noi altri ambasciatori, non…» Ti bloccasti appena in tempo. Non era una mossa saggia che un alleato conoscesse le vostre mosse. Dopotutto gli Specter non conoscevano il significato della parola lealtà. Che cosa ti avrebbe garantito che non si sarebbero rivoltati contro di voi se avessero saputo? Ti affrettasti invece a rafforzare le tue difese mentali. 
Il volto dell’altro restò impassibile. Non tentò neppure di forzarti a rivelargli i segreti del Santuario.  Al contrario, disse: «Lo sappiamo. Ma sono sicuro che troverete un attimo da dedicare anche a noi. Oh oh, pare che abbiamo compagnia. A buon rendere Cavaliere».
Con queste parole ti risvegliasti di nuovo nel tuo letto alla Prima Casa.
Eppure, oltre al peso sul cuore della richiesta degli Specter, c’era qualcosa che non ti tornava ma che non riuscivi a capire.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** La libertà delle farfalle ***


La libertà delle farfalle




Aldebaran
Erano le nove e mezzo di venerdì mattina quando Aphrodite fece ritorno al Santuario. Ti fece un rapido cenno con la testa a mo’ di saluto e continuò per la sua strada. Non aveva motivo di fermarsi e voi non avevate un rapporto tale da dichiararvi amici. A malapena conoscenti.
Tu non facesti troppo caso alle stranezze del compagno. Tra voi non c’era nemmeno mai stato un briciolo di rapporto al di là di quello lavorativo. Comunicavate tra voi lo stretto indispensabile e, a entrambi andava bene così. Neppure Yoshino era riuscita a farvi avvicinare, in compenso ci aveva ricevuto un mezzo trauma per il confronto di bellezza tra lei e Aphrodite. Mezzo perché poi aveva scoperto che, ovviamente, era un uomo. Ma lo shock lì per lì c’era stato tutto.
Quella mattina avevi udienza anche tu con il Patriarca e, avresti dovuto consegnare il tuo rapporto alla biblioteca della Tredicesima per farne una copia da mettere in archivio.
Aphrodite ci mise meno del previsto. I veri inconvenienti delle vostre missioni era il rapporto scritto sui vostri registri. Adesso tablet. Milo, Kiki, tu stesso, Aiolia e i fratelli di Seiya (a parte Seiya) foste i primi a convertirvi al digitale. Shura continuava a tenere il suo registro cartaceo, che poi ricopiava su quello digitale. Aphrodite preferiva ancora vergare le sue imprese su carta, Death Mask proprio con un grande sforzo, redigeva i suoi un po’ dove capitava. Saga erano anni che non scriveva più. Veniva quasi il dubbio se sapesse ancora come si teneva una penna in mano.
I motivi per cui lo facevate erano le indagini. Piuttosto che affidarsi alle fallaci doti investigative di Aiolia avevate optato da poco per questo sistema.
«Ma tu guarda che mi tocca fare. E, dire che, una volta era compito dei bibliotecari!» Era sbottato Death Mask fumando come una ciminiera quando Kanon emanò quell’ordine.  
Tu non ne avevi mai compilato uno da quando eri risorto e diventato padre. Il tuo caso si poteva chiamare congedo per paternità (?) anche se era raro tra i Saint. Ma dalla Guerra Sacra contro Zeus ad ora, potevi dichiararti di nuovo in servizio.
Tua moglie era rientrata prima di te. Ancora ti domandavi in virtù di quale miracolo una donna così bella e combattiva si fosse accorta di te. Certo che non passavi inosservato, ma non pensavi neppure che decidesse di mostrare il suo volto a te, che anche se non sembrava eri timidissimo. Niente a che vedere con l’impavido Aiolia, il focoso Milo o l’etereo Shaka. Te, la cui Cloth somigliava a una cassaforte. Te, il cui massimo di rapporto che avevi avuto con gli esponenti dell’altro sesso fu un ringraziamento floreale di una bambina. Un fiorellino viola che stavi rigirandoti tra le dita prima che Niobe di Deep te lo facesse appassire con il suo Profumo Letale. Disintegrando così il primo gesto carino che ricevevi. A causa del tuo aspetto e della tua mole, avevi avuto non pochi problemi con le ragazze. Poi, grazie alle donne della tua vita (di cui quella piccola ancella era stata solo l’apripista) avevi scoperto che era tutta una tua costruzione mentale.
Finisti di redigere il tuo rapporto e inviasti la copia alla biblioteca online della Tredicesima. Poi andasti a consegnare la copia cartacea.
La Tredicesima quel giorno profumava di salmastro e pini. Che strana fragranza.
Mentre aspettavi il tuo turno vedesti Aphrodite smettere di discutere con i suoi sottoposti. Imbracciava dei rotoli che avevano tutta l’aria di essere planimetrie come se fossero un mezzo di fiori. Volevi chiedergli l’esito della missione ma lui si scusò con i soldati semplici facendogli cenno di andarsene con uno svolazzo della mano: «Concedetemi un momento, sarò subito da voi» I soldati obbedirono un po’perplessi. Pensavi che volesse parlare con te, invece si girò verso una tenda purpurea e disse con voce sorridente: «Adesso puoi uscire fuori».
Pensasti che fosse impazzito invece l’imbarazzata amica di tua figlia uscì dal suo nascondiglio e lo salutò con un pacato: «Ciao, Aphrodite». Che per poco non rimbombò in tutta la biblioteca. Quel posto aveva una strana acustica, a seconda di dove ti mettevi sentivi tutto e, in altri, non sentivi nulla.
Non fosti troppo sorpreso di rivederla al Santuario. Tua figlia ci aveva già litigato solo un giorno prima. E dovevi ammettere che Astrid ti piaceva sempre meno.  
L’altro ricambiò con un cenno del capo.
Da dove ti trovavi riuscisti a scorgerne il profilo. Non avevi mai visto quell’espressione sorridente sulla sua faccia. Era felice di rivederla, ma il suo sorriso non aveva niente della baldanza e della vanità che ostentava di solito. Ora che ci facevi caso non era neanche truccato ma sembrava uno che aveva bisogno di una bella dormita.
«Non avrei mai immaginato di vederti senza trucco un giorno». Commentò lei, cercando di cavarsi da quella situazione imbarazzante.
«Lo so, sono inguardabile, non c’è bisogno che mi venga ricordato». La interruppe lui scostandosi i capelli dal collo con una mano».
«No, in realtà non stai male anche senza». E appena lo disse vedesti chiaramente un lampo di pentimento illuminarle lo sguardo. Lo svedese la guardò stupito. «Davvero? Oh, grazie mia cara… aspetta un momento, ma tu non eri tornata in Italia?»
«Hai detto bene, ero».  
Non era nelle tue corde impicciarti degli affari altrui però, era così raro vedere Aphrodite distogliere gli occhi da sé stesso, che non te lo volesti perdere. A un tratto s’accigliò e annusò l’aria circostante. «Ma sai di mare e di spiaggia e di pini…» Costatò. Strabuzzasti gli occhi, ecco cos’era quest’odore che impregnava la biblioteca. Come era possibile? Lei abbassò lo sguardo imbarazzata e lui capì. «Sei tornata a cercare la grotta?» Chiese serio.
«No, veramente no, mi sono presa una pausa e sono tornata poco fa. Sul serio!» Esclamò di fronte alla sua espressione scettica. Come era possibile che riuscisse a sfuggire così facilmente alla ferrea sorveglianza di Kanon? Era comunque strano, cioè non era da lui. A meno che - aggrottasti ancor più le sopracciglia. A meno che non la lasciasse agire di proposito. Appena lo pensasti ne avesti la certezza assoluta. Probabilmente era così; non era da Kanon lasciare che il proprio oggetto di studi agisse con così tanta libertà. Ma era pure comprensibile, dal momento che dei poteri della Luce Ombrosa nessuno sapeva niente.
«Com’è andata la missione?» Continuò lei cercando di cambiare discorso. A forza di vivere qui doveva aver imparato qualcosa per forza, se no quella domanda non l’avrebbe posta.
«É stata piuttosto interessante, anche se non è andata a finire come mi ero prefissato». Dichiarò scoccandole una lunga occhiata eloquente. La ragazzina si strinse nelle spalle: «Immagino».
Aphrodite recuperò il filo del discorso. «Comunque cosa ti è saltato in mente di varcare i confini del Santuario? É pericoloso e tu non sei in grado di badare a te stessa». Lei fece per ribattere ma chiuse la bocca e gli dette ragione, appoggiandosi a un tavolo dietro di sé. Aphrodite addolcì il tono, credendo di averla ferita. Non immaginava neanche quanto si stesse sbagliando. «Non lo dico perché non credo in te, o perché non mi fida, ma se ti scoprissero le guardie? Soltanto i Saint hanno il permesso di oltrepassare i confini, i civili no. Se ti beccassero, se ti costringessero a rivelare la posizione del Santuario? Cosa sei uscita a fare?» Lei arrossì vistosamente. Soprattutto quando Aphrodite concluse la paternale con l’unico elogio che gli sentisti mai fare: «Hai dei poteri fortissimi, sei praticamente invincibile e noi lo sappiamo, ma lo sei solo su persone legate a delle stelle. Su persone normali? Su questo piano sei completamente indifesa». La voce pregna d’invidia, ma le parole piene di ragionevolezza.
«Volevo vedere il mare, tutto qui». Si giustificò la giovane, trovando infine il coraggio di spiccicare parola.  
«Il mare?» Di tutte le risposte che potevate aspettarvi questa era la più inaspettata.
La ragazza alzò le spalle: «Sì, è da quando sono qui che non l’ho mai visto».
A quel punto te ne andasti cominciando a sentirti uno spione fatto e finito.

In quei giorni ti sembrò che il destino non avesse ancora finito con te. Non solo il sogno del pozzo e si era ripresentato, ma tutto sembrava farti incrociare la connazionale di tua moglie. Sinceramente non avresti voluto visto che ricordavi perfettamente quanto tua figlia si fosse arrabbiata, quando aveva scoperto il suo ritorno.
Quella mattina tu e la tua famiglia stavate chiacchierando mentre facevate colazione quando ti sfuggì il segreto di Astrid. Tua figlia smise di mangiare e ti guardò sbigottita. «Astrid è tornata al Santuario?» Domandò sgranando gli occhi purpurei. Maledicesti te stesso per aver pensato che lo sapesse. 
«Dal vivo è anche peggio?» Domandasti incuriosito.
«Dal vivo?» Ripeté il tuo compagno dello Scorpione, che si era fermato da te a fare colazione. Quella mattina sarebbe stato lui ad accompagnare Yoshino a scuola. Anche se in teoria non ce ne sarebbe neanche stato bisogno, dal momento che in Giappone i ragazzi venivano responsabilizzati fin da piccoli. E, solitamente ci pensava Shura ma avevate istituito dei turni da quando Lancelot aveva avuto a che fare con il temibile Calumet di Neera. «Guarda, preferivo continuare a pensarla come un’entità astratta e separata da Astrid». E, tale risposta, bastò a farti capire quanto fosse esagerato. 
Yoshino si alzò di scatto e corse alla Tredicesima. Tu gli facesti cenno di fermarsi e di stare zitto. Lo spagnolo ti guardò perplesso. Solo dopo ti accorgesti che sul tuo cellulare c’era un messaggio di Shura, che ti chiedeva spiegazioni. Ah, doveva aver visto Yoshino attraversare la Decima. Onestamente non pensavi neanche che a quell’ora fosse già sveglio. Gli rispondesti e lui ribatté che se era per questo anche lui ignorava che avesse fatto ritorno.
Dalla faccia di tua figlia al suo rientro capisti di doverla lasciare in pace. La piccola Yoshino si chiuse nella sua stanza. Ti alzasti e facesti per seguirla.
Shaina ormai libera dal gesso, ti pose una mano sul braccio e, scuotendo il capo, ti fece desistere da ogni proposito. La guardasti e ti rimettesti seduto. Già, ormai era grande, non aveva senso che tu la consolassi ancora come quando era piccola. Però era anche vero che non l’avevi mai vista così. Neanche quando andava alle elementari e la prendevano in giro perché non eravate i suoi veri genitori. Proprio allora ti accorgesti della sagoma che si stagliava sull’uscio della Seconda. Come aveva fatto ad arrivare qui in così poco tempo? Ma le andasti lo stesso incontro con passo cadenzato.
«Come sta?» Chiese Astrid preoccupata.
Ti sforzasti di mantenere un tono pacato anche se avresti voluto mandarla via. Incrociasti le braccia, assumendo la postura che di solito esibivi di fronte ai nemici. Anche se non indossavi l’Armatura sapevi di essere temibile lo stesso. «È giù di corda ma si riprenderà». Rispondesti con una punta di accusa nella voce.
Lei incassò la testa tra le spalle tipo tartaruga che si rifugia nel suo carapace. «Lo spero, non era mia intenzione ferirla». Si scusò evitando di guardarti, il viso rosso per la vergogna e le mani che le cingevano le braccia come a darsi coraggio più che a imitare la tua posa. E tu ti chiedevi con che faccia tosta fosse scena fino alla Seconda. «Senti», non dava del voi a nessuno, anche perché prima non ne avevate mai fatto un problema, «per quello che può valere, mi dispiace, ma che potevo farci? Mi avevate scacciato, con che coraggio sarei riuscita a guardare voi, lei, in faccia?»
«Non è stata lei a votare all’ostrakon». Le ricordasti, ragionevole.
«Sì, ma se gliene avessi parlato probabilmente avremmo finito per litigare, sarebbero volate parole grosse e io non volevo che serbasse un ricordo del genere di me. Forse avrei davvero dovuto litigare con lei piuttosto che lasciare che andasse così».
«Non litigare non figurava nelle tue opzioni?»
«No, quando mi arrabbio trascino chi mi sta vicino nelle discussioni, non mi andava di trascinarci anche lei, soprattutto visto che…» La bocca le si richiuse da sola, incerta.
«Che lei è una delle incarnazioni di Atena», completasti per lei.
«Esatto.» asserì anche con il capo. Si spostò una ciocca dietro l’orecchio e sospirò rassegnata: «Sarà meglio che torni alla Casa di Atena, buon pomeriggio, Aldebaran del Toro».
«Anche a te. Astrid», la richiamasti e la giovane si voltò, «sei stata sincera con mia figlia o la stavi prendendo in giro?» Solo dopo averla proferita ti desti mentalmente dell’idiota, anche se la tua faccia non lasciò trasparire niente di tutto ciò.
«Aldebaran siamo onesti, anche se ti dicessi la verità non mi crederesti lo stesso». In quel momento avesti la certezza assoluta che Astrid fosse una carogna. «Tu dilla, poi decido io se crederti o no».
«Se fossi veramente stronza, non avrei i sensi di colpa per tutto quello che è successo da quando me ne sono andata senza salutarla a ora. Credevo che fosse più al sicuro senza avermi attorno». Poi ti rinnovò i suoi ossequi e se ne andò.  

«Yoshino?» Domandò Shura preoccupato, quella mattina che si fermò a fare colazione da voi. Di solito scendeva sempre ben volentieri per vedere il tuo compagno d’arme. Dopotutto riponeva una cieca fiducia in lui, che, si era dimostrato davvero il Cavaliere più fedele di Atena. 
Si vedeva che la tua bambina era ancora irritata. Ma cercò di non darlo troppo a vedere al povero spagnolo. «Scusate signor Shura, dicevate?» Domandò, accennando un sorriso piccolissimo. L’ultima volta che aveva smesso di sorridere fu durante la Guerra Sacra contro l’altro Santuario e Aiolos. Lo spadaccino la guardò un po’angosciato: «Ti ho chiesto se volessi altro latte». Ripeté in tono delicato. Mentalmente ti mandò un messaggio tramite il Cosmo, chiedendo spiegazioni per questo comportamento.  E tu ribattesti che non le era ancora passata e lo aggiornasti sugli sviluppi. «No, grazie, ho finito». Ciò detto si alzò da tavola e andò in bagno, lasciando solo voi tre al tavolo. “Tu non puoi fare niente? A te di solito da retta”.
“Se è per le questioni d’amicizia ne so quanto e lei, anzi anche meno, se non ti ricordi”.
“Giusto, scusa”.
“Comunque non ti preoccupare, sono sicuro che risolveranno la loro faccenda”.
“Lo spero”. Non ti piaceva vederla piangere. Tu e tua moglie avevate giurato di proteggerla ma non potevate niente contro i dolori emotivi e le tempeste ormonali. 
«Scendete ad allenarvi, nobile Shura?» Chiese Shaina.
«No, oggi no, devo andare a controllare alcuni incartamenti alla Tredicesima, sembra che abbiano bisogno di un altro copista per i rapporti delle missioni dei nostri predecessori».
«Il mistero della Luce Ombrosa, eh?» Tentasti d’indovinare.
«Proprio quello e il nostro Cavaliere fantasma». Una volta che Shura se ne fu andato aiutasti tua moglie a sparecchiare e a rassettare prima di andare rispettivamente in arena e alla Palaestra. Che era stata chiamata a fare supplenza al posto di Georges.
Sperasti di trovarla sufficientemente libera. Essendo in vista del prossimo torneo tendeva a riempirsi molto più spesso adesso. Era anche più facile che i vari maestri si radunassero e disquisissero in arena, oltre che far scontrare gli allievi.
Soprattutto in vista di un torneo per l’assegnazione di una Cloth, come quello della Bronze Cloth della Mensa. L’equivalente del Cavaliere dell’Altare. La differenza era che il Cavaliere della Mensa era il punto di unione tra i vari schieramenti, in ambito militare. Tramite lui i Cavalieri di Bronzo comunicavano con quelli d’Argento, i quali rispondevano a voi e al Cavaliere dell’Altare. Ossia colui che avrebbe retto il Santuario in assenza di un Pope. Non solo, si diceva che i Cavalieri della Mensa non solo condividevano la tecnica dei Cavalieri dell’Altare, ma trasferivano il Cosmo della loro vittima ai compagni in parti uguali. Ma erano decadi che non si vedevano più. Ormai si tendeva a vedere i Bronze come pedine sacrificabili, forse persino più di voialtri Gold. solo perché alcuni Saint avevano un Cosmo e indossavano un’Armatura Sacra, si sentivano più importanti. Addirittura esseri superiori, con Ichor al posto di comune sangue mortale.
La parte più dura era vedere che alcune cose non erano cambiate. Almeno così ti aveva detto Shaina una volta. Essendo voi dodici i più forti, potevate godere di una libertà maggiore rispetto a Silver e Bronze, quindi eri ancora estraneo a certe usanze. Come per esempio quella di chiamare i domestici o gli ex aspiranti Saint per allenarsi, o meglio, usarli come sacchi da boxe. Ce ne era sempre qualcuno che distribuiva acqua, o aiutava a curare le ferite o portava via i feriti ed eventuali morti.
Non era raro ed era una pratica barbara. Avresti voluto dirgli “Combattete con me se proprio volete misurarvi con qualcuno”, ma voi Gold potevate misurarvi soltanto coi vostri pari. In ogni caso dovevi riparare a quest’ ingiustizia.
Non tutti però erano indifesi. Eugenios ed Eusmenios erano due ex aspiranti Saint. Due domestici ed ex colleghi di Astrid. E anche se non erano riusciti a conquistare un Cloth si ricordavano ancora come si lottava perciò davano una mano ai “giovinastri”. Cominciasti ad allenarti. In quanto Gold Saint avevi la precedenza. Ma tu eri sempre stato generoso e ti spiaceva che le persone non potessero fare altrettanto a causa tua. Perciò invitasti anche gli altri presenti ad allenarsi. Tutti ti dettero retta tranne i Black Saint. «Voi non vi allenate?» Ti risposero che stavano aspettando la loro regina. Li guardasti sorpreso: «E chi sarebbe?»
«La donna cui abbiamo giurato fedeltà qualche mese fa».
«Ah, Astrid av Stjernene. Ma lei non ha mai detto di volerlo essere».
«Per noi non fa differenza, siamo pronti a seguirla comunque». Dichiarò il capo dei Black Saint. E pensare che una volta appartenevano alle schiere dei Titani.

Forse avresti dovuto evitare perché la tua presenza non faceva che peggiorare la situazione. Perciò, quel pomeriggio decidesti di fare una passeggiata per i giardini. Ti rilassava passeggiare per quei posti quando avevi un minuto di pausa. Quando non tornavi nel tuo natio Brasile o in Giappone con la tua famiglia (ormai sarebbe stato difficile che ci avreste fatto ritorno), trascorrevate il vostro tempo lì. In quei luoghi che solo voi e i vostri più stretti collaboratori conoscevano. Altrimenti Saint come Shura, Aphrodite e Death Mask, che non avevano motivo alcuno per rientrare in patria sarebbero morti di noia. Presto i tuoi pensieri restarono dietro di te grazie alla bellezza dell’esplosione primaverile che, giorno dopo giorno, ricopriva quei luoghi del suo manto fiorito.
Nel giro di una decina di minuti approdasti nella radura del frutteto tra la Dodicesima e l’Undicesima, ossia uno dei pochi spiazzi erbosi più belli del Santuario.
Ogni Casa aveva il proprio orto e le proprie coltivazioni e le case dei servi adiacenti alle vostre, una volta. Queste facevano somigliare ogni Casa a una sorta di piccolo feudo incastrato sulla scalinata delle Dodici Case. Ai tempi delle Crociate ci fu persino un periodo in cui fu effettivamente così, anche se a livello puramente esecutivo, prima che l’Atena di allora, Madonna Rosaspina, non togliesse questo potere ai Gold e li declassasse affinché imparassero la lezione. A ricordo di quell’episodio restava la forma degli elmi di Cancro, Sagittario, Scorpione, Leone, Acquario e Capricorno. Ed estese la punizione anche ai sottorango; che comunque sapevano e non avevano fatto niente per fermare quella follia. 
Invece di quelle casette (da quando era iniziata la condivisione dei collaboratori domestici di Galan) non restava niente. Erano state smantellate per ampliare di più le coltivazioni e i giardini adiacenti le Dodici Case. Quello della Sesta era il più bello. Anche quello della Decima non era male, in quel mix tra lo stile giapponese e quello spagnolo (più gli ulivi sacri alla vostra Dea). Quello della Dodicesima riprendeva lo stile neoclassico barocco (serra inclusa). Quello della Nona era lasciato un po’ così perché a Seiya non piacevano granché i giardini. Aveva invece acconsentito affinché ci piantassero degli alberi da frutto e ne facessero direttamente un orto. L’Undicesima sembrava un giardino botanico in stile occidentale. Invece quello dell’Ottava riprendeva il paesaggio delle cicladi di Milo. Più qualche pianta grassa che chiamava orgogliosamente rock garden. La Settima riprendeva lo stile cinese e, ogni volta che ci entravi, avevi tutta l’impressione di entrare nella versione ridotta dei Cinque Picchi. La Quinta rispecchiava molto il carattere del suo proprietario, in quanto recante in sé quel tocco di caos, quell’elemento di disturbo che ricordasse un po’ il passato di Aiolia. Più i cactus che gli aveva regalato Milo, s’intende. La tua riprendeva i giardini brasiliani con tanto di piante tropicali (anche se ora somigliava sempre più al monte della Iwate dove soggiornavate) e quella di Kiki lo stile tibetano. La Quarta… Bè, sembrava che un piccolo pezzo dell’Ade tanto caro al suo custode si fosse trasferito lì. Nella Quarta abbondavano alberi del ferro, tassi, cipressi, crisantemi e asfodeli. A smorzare quel tocco di macabro ci pensavano gli alberi di arance dell’orto. In quel caso bisognava passare dall’altra parte per vedere la vera essenza di Death Mask, quella rappresentata dalle piante della sua natia Sicilia, tra cui l’agave e l’aloe. Lì sì che era bello sostare per un po’. Invece i giardini della Tredicesima erano segreti. Si diceva che soltanto il Gran Sacerdote e le Saintia potessero accedervi e che fossero persino più belli di tutti.
Strano a dirsi, eppure la Terza era forse quella che era cambiata di meno nel corso di questi anni. Da che avevi memoria aveva sempre ripreso lo stile che i poeti davano all’Arcadia. Non ti saresti affatto sorpreso se fosse spuntata una ninfa ridente, un poeta dal capo cinto d’alloro.
Forse non avresti mai incontrato un poeta dell’Arcadia, ma la ninfa la incontrasti subito, nel giardino della Settima. Proprio mentre stavi per entrare il giardino di Shiryu, sentisti il rumore di qualcosa che fende l’aria. Lì per lì non ci facesti caso, poteva anche essere la tua immaginazione. Pensare che quei posti avessero ospitato decine di migliaia di generazioni di Cavalieri d’Oro era suggestivo. Ti veniva quasi da pensare che potessero saltare fuori i vostri predecessori da un momento all’altro. 
La seconda volta che lo sentisti di nuovo andasti a vedere.
Fu così che trovasti Astrid. Impugnava un bastone e volteggiava, alternando colpi al niente a mosse di naginata. Per esempio la vedesti sciogliersi in attacchi furiage men e parare andando indietro, mantenendo il piede sinistro avanti. Scivolare in attacchi soku men a destra alternato a parate con arretramento, sempre a sinistra e ruotando la naginata. Solo per passarsela nella mano e lasciarla scivolare nell’altra, disegnando una curva a ridosso dell’erba. Era come se si stesse sforzando di non danzare, invece che di combattere.  
Concluse la sua esibizione-allenamento con il parare sune. Andò dietro con il piede sinistro e ruotò la naginata e poi al contrario, completando con un attacco sune uchi destra e sinistra. In quelle mosse riconoscesti la sequenza uchi kaeshi. Ossia la serie di colpi per allenare la distanza e il colpo. Però i movimenti erano precisi e potenti. Ma anche molto aggressivi, come se martoriando il vento potesse vendicarsi di tutto quello che aveva subito. Ti domandasti persino cosa vedesse a giudicare dalla smorfia seria, quasi feroce che le deformava i lineamenti. C’era rabbia nei suoi movimenti. Sete di vendetta, forse anche di sangue. Che cosa vedevano veramente i suoi occhi quando combatteva? Lo sentivi che non era veramente qui. Dal rumore prodotto dal bastone che tagliava l’aria, per un momento ti tornò in mente Shura. Per qualche momento, nella tua mente lo contrapponesti a lei e, ti accorgesti che lei poteva evitare tre colpi su mille. Una prospettiva tutt’altro che rassicurante.
Mentre il match immaginario andava avanti, dovesti ammettere che sfruttava bene tutto lo spazio a disposizione. La combattente piroettò e finì per fendere l’aria reggendo il bastone con una mano sola. L’asta tracciò un arco nell’aria e, spostando lo sguardo ti accorgesti che era in equilibrio su una gamba sola, l’altra era tesa, formando una V quasi perfetta. Poi portò la gamba avanti, afferrò il manico con l’altra mano, posò il piede su un sasso e, fece una piccola piroetta facendo leva sul masso.  Anche se ti sembrava di osservare i suoi movimenti in slow motion, abituato com’eri alla velocità della luce, la trovasti molto agile. Se veramente quei due si fossero sfidati si sarebbe beccato una bastonata per lungo nel plesso solare e un’altra alle zone basse. Con una giravolta, immerse la punta del bastone in acqua e la rialzò repentinamente, sollevando uno schizzo. Con un avvitamento si inginocchiò e mosse la mano sull’acqua come se fosse uno specchio e lei potesse evocare chissà quale visione, prima che, piroettasse da inginocchiata sul tappeto erboso e poggiasse il bastone a terra, chinando il capo. Solo allora si accorse della tua ombra, proiettata davanti al suo sguardo dalla luce del sole e, sussultando, balzò in piedi. «Aldebaran!» Esclamò e la tua simulazione mentale scomparve. Lei si tolse le cuffiette bianche dalle orecchie, mettendosele in spalla, e spense il telefono assicurato al suo braccio. Non le avevi proprio notate. «Ciao, Astrid», le sorridesti, per nulla imbarazzato, «spero di non averti spaventato. Stavo facendo una passeggiata quando ti ho visto, cosa stavi facendo?» Le domandasti incuriosito.
«Mi stavo allenando». Mormorò imbarazzata rialzandosi. A te era parso che stesse più che altro ballando. Lei interpretò il tuo sguardo e spiegò che era da un po’che non lo faceva e voleva riprendere la mano. Le chiedesti, giusto per avere conferma, di che arte marziale si trattasse, visto che anche a te erano giunte voci sulla sua impresa al cimitero monumentale. «La naginata». Come sospettavi.  
«Ho vissuto per un po’ in Giappone ma scusa se te lo dico, quella non sembrava affatto la naginata». Una cosa simile sarebbe andata meglio per un’alabarda wushu o qualsiasi altra cosa, non certo per la naginata. Le concordò con te. «Mi hanno insegnato e poi ho cominciato a ballare, per svagarmi, ma non sono ancora molto brava». Si giustificò rossa come un peperone. Cosa stava dicendo? Non era possibile che la conoscesse, non vi aveva mai detto niente. «Chi te lo ha insegnato?» Non ne sapevi niente, di questa storia. 
«É una storia lunga e metà non me la ricordo neanch’io».
«Cioè?» Lei parve essersi resa conto di aver detto troppo e tacque. Cercò di andarsene balbettando una scusa, ma tu la bloccasti: «Astrid, ti conosco da un po’e ti parlo come se parlassi a mia figlia, tu sai cosa sta succedendo? Sai chi si è infiltrato nel Santuario?» Lei abbassò lo sguardo alla ricerca delle parole giuste per confessare. Quando lo rialzò disse: «Io so che questa persona mi aiuta, ma per quello che ne so, potrebbe anche essere un morto». 
«L’hai mai visto in faccia?»
«No, so che mi è stato accanto quando ero piccola e che ora è tornato, ma non…» Ancora una volta lottò per trovare le parole giuste. «Io so soltanto che questa persona non ha intenzione di invadere il Santuario e, che se non fosse stato per lui io sarei morta per le ustioni sulla schiena e, che per quanto possa essere stravagante gli devo la vita e sento di conoscerlo e di volergli bene. Ma non sono sicura di niente». Aggiunse guardando il bastone nella sua mano. Comprendesti che era spaccata a metà dall’indecisione. Non ti parve una buona idea lasciare che se ne restasse così. Se questo sconosciuto era legato al Santuario e l’aveva scelta come ponte, allora era grave. E tu non eri messo troppo male in arnese per non riuscire a leggere tra le righe. «É stata questa persona a insegnarti la naginata?» La giovane confermò stringendo più forte il manico del bastone. «Riesci a ricordare il suo volto?» Domandasti ancora. Fece un cenno di diniego e rispose che sapeva soltanto che era il suo maestro. Cercasti di saperne di più: «Ti ha insegnato solo la naginata o anche a manipolare il Cosmo?»
«Non lo so, non ho ancora ricordato tutto».
«Non ti disturba se ti chiedo perché non ci riesci?» Chiedesti per sicurezza, cercando di non pressarla. Ancora una volta si profuse in un cenno di diniego, tuttavia ti guardò diffidente. In quegli occhi riconoscesti lo sguardo di Aiolia da ragazzo. Lo stesso che diceva chiaramente che erano affari suoi e che nessuno poteva aiutarlo. Poi quello sguardo si fece pensieroso «Credo che i miei ricordi siano sigillati, potrei provare a far esplodere il sigillo, però è rischioso, potrebbe andare a distruggere parte della mia psiche e la cosa più sicura è aspettare che tornino tutti a galla; mi dispiace, signor Aldebaran». Affermò contrita.
«Non preoccuparti, il Patriarca lo sa?» Guardaste entrambi in direzione della Tredicesima come per verificare che non stesse scendendo e lei rispose: «Credo che l’abbia intuito, ma preferisce lasciare a me il compito di ricordare». Rivelò spostandosi la ciocca più lunga della frangia a tendina dietro l’orecchio destro. Ti accorgesti che i suoi capelli erano ricresciuti velocemente, adesso le coprivano le scapole. E la somiglianza con Camus si era fatta meno evidente di prima. Riprendesti il discorso iniziale: «Dunque ti stavi allenando. Potrei sapere perché ne senti il bisogno?» Volevi vedere se avesse capito anche lei di essere il possibile bersaglio dell’infiltrato che cercavate. Lei piegò i suoi lineamenti in una smorfia di disappunto: «Perché non voglio più ritrovarmi in una situazione come quella di Roma. Alla Tredicesima non mi è concesso allenarmi. Inoltre, non lo so se sono davvero Sagittario».
E adesso questo cosa c’entrava? «Come non lo sai? Perché questi dubbi?»
Vedesti il suo labbro inferiore tremare un momento: «C’è una vaga possibilità che io sia sotto il segno dell’Ophiuchus; ho persino provato ad allenarmi laddove dovrebbe stare il Tempio legato a quel segno però non ci sono riuscita; mi sentivo troppo come essere di nuovo in quel cimitero e… e… cioè, è come se mi avesse scacciato. Un po’ come tutte le altre. Questa è la prima che mi ha accolto. Non so come spiegarlo», disse di fronte al tuo sguardo confuso, «ma è stato come se l’aura che circonda questo giardino in particolare avesse acconsentito alla mia presenza». Concluse spalancando le braccia come a indicare il paesaggio della Settima.
«Shiryu lo sa che ti alleni qui?»
«No. La sua famiglia e i suoi allievi hanno deciso di mantenere il segreto». Non sapevi che fossero in tanti a essere a conoscenza di questi allenamenti segreti. Sotto questo punto di vista, Astrid era come le pozze d’acqua nel deserto: estremamente difficile da trovare.
«Shoryu?» Domandasti aggrottando le sopracciglia, ma ci pensò lei a illuminarti. «Il figlio maggiore di Shiryu e Shunrei». Spiegò; «A volte viene a trovare i parenti».
«Non l’ho mai visto».
«Non ama trascorrere il suo tempo al Santuario, diciamo che ha preferito scegliersi una carriera da civile. Credo sia un ingegnere aeronautico». Aggiunse poi, dopo aver raccolto le informazioni che disponeva su di lui.
Le chiedesti come fosse venuta a conoscenza dell’esistenza di questi giardini. E lei rispose che erano stati Yoshino, Natasha e Ryuho. E che era lì che aveva cominciato a dare ripetizioni.
«Ah, però». Commentasti sorpreso. Sapevi che aveva cominciato perché avevi sentito Yoshino parlarne ma non pensavi che fosse proprio qui. «A loro piace di più così». Si giustificò. «Posso fare qualcos’altro per voi, signor Aldebaran oppure…» Disse volgendo le spalle verso l’uscita alle sue spalle, come a chiederti il permesso di andare. «No, va bene, non ti trattengo oltre, ci vediamo».

Eri tornato in arena per monitorare la situazione. Avevi provato a ignorare la presunta superiorità dei Saint nei confronti di sottorango e civili ma non ci riuscivi. Ovvio che anche tra i Silver ce ne fosse qualcuno che la pensasse così. Argor era sempre stato il Silver Saint più spietato. Al punto da non esitare a seguire Shaina nella sua spedizione punitiva nei confronti di Seiya e degli altri. Persino Aiolia trovava esagerati i suoi metodi di addestramento, anche se non fece molto per salvare i tre malcapitati che ne fissarono lo sguardo dello Scudo. Prima che Shaina andasse da lui a chiedergli una mano per assassinare Seiya.
A proposito, eccolo lì che allenava i suoi allievi più piangenti e sanguinanti che sani. Era uno spettacolo che straziava il cuore ma era necessario.
«Fermo!» Urlò una voce femminile e qualcosa di candido gli afferrò il braccio. Vi ci volle un po’per riconoscere Astrid e capire cosa stesse facendo. Cosa ci faceva qui? Argor la guardò con disprezzo e fastidio e alzò la voce: «Togliti! Lasciami punire questi due piantagrane». Con uno strattone se ne liberò, ma lei non si arrese. Si rialzò e si avvicinò ai due, che pur intimandole di allontanarsi non riuscirono a scacciarla. Quasi gridarono di dolore quando la giovane tastò loro le gambe e lei sussultò. «Vattene! Ti ho detto!»
Astrid si alzò e lo fronteggiò, raccogliendo uno dei bastoni con cui finora l’altro li aveva bacchettati. Di solito non ricorrevate ai bastoni, ma ricevevate un addestramento completo. Non era impossibile che alcuni maestri ricorressero a punizioni corporali per insegnare la disciplina ai propri allievi. Argor non rientrava tra questi, non aveva bisogno di ricorrere a questi mezzucci, ma per le torsioni di riscaldamento, i bastoni servivano veramente. La ragazza si mise in posizione d’attacco.  «Sono feriti! Gli hai spezzato le gambe! Vanno portati in infermeria!»
«Sciocchezze! Adesso togliti da qui, ancella!» Astrid s’impuntò. «Sei sorda, forse?» La bionda assunse una posizione di difesa, puntando il bastone verso la gola di Argor come una picca. Quest’ultimo si fermò istintivamente. «La naginata». Mormorasti, riconoscendo la presa.
Argor si riprese e si accigliò indispettito, allontanando il bastone con una mano. «Non scherzo». L’avvisò impassibile. Fino a questo momento, neppure tu immaginavi che fosse così sconsiderata. Santa Atena, probabilmente si era montata la testa per via della vittoria su Aurel. Non si rendeva conto di essere praticamente una dilettante in ambito marziale. «Neanch’io». Ribatté convinta.
Argor curvò un angolo della bocca in un mezzo sorriso sprezzante e strinse i pugni, chiudendo un momento gli occhi. «Visto che sei così coraggiosa non mi resta che andarmene, allora». Sogghignò e cominciò a girarsi per darle la schiena su cui teneva lo scudo con la testa di Medusa. Coperto dalla sua chioma lunga e spettinata.
A breve avrebbe usato il Cosmo.
I due ragazzini e metà dei lottatori cominciarono a strillare. Alcuni si dettero alla fuga, altri si coprirono gli occhi con le mani e le braccia. Ma una voce spiccò su tutte le altre. «Non guardarlo!» Poco più indietro notasti Death Mask. Cosa ci faceva qui?
I due ragazzini ripresero a strepitare catturando di nuovo la tua attenzione. Argor fu affiancato da altri suoi parigrado. «Argor! Fermati! Che stai facendo?» Gli chiesero a più riprese. E l’altro non capendo il perché tutta questa concitazione finché Asterione dei Cani da Caccia non gli domandò: «Ma lo sai chi è questa?» con timore reverenziale nella voce. E Babel del Centauro, dopo averla guardata intimidito: «É la regina dei Black Saints».
Come se li avesse evocati, alcuni Cavalieri neri s’avvicinarono alla loro sovrana, che li guardò stupita.
Argor li guardò entrambi stupito come a chiedergli se fossero seri.
«Esatto, perciò mostrate rispetto alla sovrana dell’isola della Regina Nera». Esclamò Andromeda Nero, affiancandola. Per sottolineare le parole del capo dei Black Saints, Asterione gli fece cenno di guardare verso gli spalti. Anche voi seguiste il suo sguardo e vedeste gli altri Black Saints nelle loro Armature nere che osservavano la scena come silenti guardiani, pronti a intervenire al minimo problema. Anche se si trovavano sul gradino più alto dell’arena, non ci voleva niente perché si precipitassero. Astrid si prodigò per scacciarli ma rimase inascoltata.   
«Ah, lei è la ragazza che Ptolemy insisteva tanto nel voler salvare? Pensavo che avesse fallito». Non tutti i Silver si erano uniti alla causa. Alcuni si erano pure salvati dall’attacco perché in missione. Ora che ci pensavi non ricordavi di averlo mai visto in mezzo alla folla di quel giorno. Il collega di tua moglie la guardò sprezzante e continuò: «Allora è costei eh? Me la immaginavo più...» cercò la parola adatta mentre tu ti avvicinavi silenziosamente. Sulla sua faccia affiorò un sorriso di spietato divertimento e disse: «assennata».
«Assennata non è il mio secondo nome». Ribatté lei, sollevata quanto te, mentre impediva, con un gesto secco della mano, al Cavaliere Nero di spaccare la faccia al Santo di Perseo. L’uomo si fermò e tornò quieto al suo fianco. «Lo vedo, nullità». Ancora una volta, Astrid trattenne il suo “sottoposto”, che sibilò: «Mia signora…»
«Me la cavo da sola, torna dagli altri, lasciateci». Ordinò.
«Come desiderate». Rispose lui riluttante ed eseguirono, continuando però a monitorare la situazione. Astrid restò in silenzio per un po’, attendendo che si fosse allontanato abbastanza, prima di ribattere, in tono fermo: «Modera il linguaggio». Quello incrociò le braccia e sorrise: «Perché? Non mi faccio certo dire da te come dovrei comportarmi con i miei allievi. Inoltre chi diavolo sei per impicciarti nei nostri affari? Sei solo un’ancella della Tredicesima Casa».
«Sono feriti!» Ribatté come a dire che per lei era una motivazione più che sufficiente. Non potesti fare altro che guardarla ammirato. Si comportava come una vera Saint.
«Perché sono degli incapaci». Sbottò l’altro e i due ragazzini si rannicchiarono ancor di più.
Non conoscevi affatto Argor di Perseo, ma non ti aspettavi che potesse essere così fastidioso e irrispettoso. Non sapesti neanche tu con che coraggio te ne restasti in disparte assieme a Death Mask, che affilava sempre più lo sguardo.
«Ah, sì? E il fatto che tu gli abbia fratturato un braccio a testa non vuol dire niente?» Lo sfidò indicandoli. Fino a quel momento si erano aggrappati disperatamente alla sua gonna.
«Vuoi dare lezioni a me? Non lo sai che per diventare Saint questa è la via altrimenti la morte? Sai quanti ne ho giustiziati di pesti piagnucolanti come quelle aggrappate alle tue sottane? Come potranno mai diventare Saint, secondo te?»
«Non lo so, ma non è questo il modo!» Ribadì lei alzando la voce. Death Mask chinò il capo e lo scosse. Un vago sorriso di scherno dipinto in faccia. Avevi cominciato a tenerlo d’occhio perché poteva essere il problema più grave.  
«Devono essere puniti per la loro insubordinazione, come osi metterti in mezzo?» Avevi sentito dire che fosse tanto potente quanto spietato, davvero non capivi perché l’amica di tua figlia si ostinasse a giocare a tal punto con il fuoco. 
«Allora mi prendo io la loro punizione!»
Death Mask alzò la testa di scatto, con la stessa espressione stupita di uno che ha appena ricevuto uno schiaffo improvviso. Uno sguardo che diceva chiaramente: “è uno scherzo, vero?”
Argor dovette pensare la stessa cosa perché se ne uscì con un: «Tu?» carico di disprezzo.
«Sei pazza? Sei solo una chiromante dal potere incerto e, neanche noi crediamo che sia tu l’artefice della sconfitta di Eris! Come osi darti tutte queste arie?» Domandò Asterione, che leggeva nel pensiero. Astrid si lasciò investire da quella vagonata di insulti. Invece Death Mask si alzò imbestialito. «Solo perché sei stata assunta alla Tredicesima Casa dal Papa in persona, non penserai mica di poterti dare delle arie! Per me ti sei comprata l’assunzione e devi essere anche molto brava». Continuò il Silver Saint del Centauro godendo particolarmente nel lanciarle quelle frecciate. Al contrario del siciliano vicino a te, la giovane restò impassibile smorzando così l’entusiasmo di Argor. Il quale, dopo un secondo di perplessità, riacquistò il suo cipiglio che mandò il tuo collega su tutte le furie. Lo trattenesti.  
Avrebbe continuato a infierire ancora a lungo, se il collega della costellazione dei Cani da Caccia non avesse domandato: «Dicono che tu sia capace di emulare il Photon Burst del Cavaliere di Leo, è vero?» Con più serietà. Non tanto per soddisfare una sua curiosità, quanto piuttosto per dimostrare al collega di essere nel torto. Astrid confermò. Fu sufficiente per zittire Argor e Babel che la guardarono stupefatti. Asterion continuò: «Ed è vero che controlli quelle Creature?»
La giovane confermò di nuovo con un cenno del capo, dopo un secondo di esitazione.
Alcuni Saint e soldati semplici alle spalle dei tre, scattarono verso di lei, ma Argor alzò una mano e si fermarono. «Ma la ragazza di cui ho sentito parlare io dovrebbe aver riportato gravi ferite». Obiettò ragionevole.
«Guarisco molto in fretta». Rispose in tono monocorde, intrecciando le mani sulle gambe. Il bastone orizzontale.
I due ragazzini piangendo e gemendo, cercarono di convincerla a ritrattare e ad andarsene. Si sarebbero addirittura fatti scorticare vivi pur di evitare che patisse il loro tormento sulla sua pelle. Lo vedevano che non poteva reggere contro il loro maestro. «Ci prendiamo la punizione che ci spetta, ma tu vattene, ti supplico». Implorò piangendo uno dei due. Lei li ignorò, non li avrebbe mai lasciati in balia del Cavaliere di Perseo. «É deciso, io non li lascio».
«Ragazza, lo sai che la punizione per i traditori e i disertori consiste nel sostenere lo sguardo di Medusa?» Domandò l’uomo.
«No. Non lo fare, stupida, non lo fare». Pregò Death Mask.
La bionda deglutì a vuoto ma rispose, alzando il mento nel tentativo di assumere un’aria più spavalda: «Ora sì».
«No!» Esclamarono più voci. Death Mask accanto a te sbottò: «Cazzo!» lo trattenesti di nuovo. «Lasciami Aldebaran!» Ringhiò cercando di liberarsi.
«Mostrami il tuo scudo». Ordinò l’ancella, cercando di apparire coraggiosa.
«No!» Esclamaste quasi tutti. Soprattutto tu, Death Mask, e i due ragazzini riparati dietro la sua sottana.
Il Saint con lo scudo di Medusa, sgranò gli occhi, esterrefatto. Non gli era mai accaduto che qualcuno lo sfidasse così apertamente senza neppure provare a schermarsi gli occhi in qualche modo. Prima che potesse dire qualcosa, i suoi allievi si alzarono, superarono la giovane e si gettarono in ginocchio di fronte all’uomo, che arretrò istintivamente di un passo. «Punisca noi signor Argor! Vi prego, punisca noi, ma non questa ragazza!» Fece il primo, le mani giunte in preghiera e la faccia ormai sporca di muco e lacrime, oltre che tumefatta. «Siamo noi che abbiamo peccato, non questa giovane!» Rincarò la dose il secondo, messo anche peggio.
«Come desiderate, ma poi non venitemi a dire che non vi avevo avvertito». Così dicendo, si girò, e, il suo Cosmo spostò la sua chioma, mostrando così lo scudo con l’effigie della Gorgone.
L’effigie cominciò lentamente ad aprire gli occhi, richiamata alla vita dal Cosmo del suo padrone.
Ma Astrid si frappose tra i due ragazzi e lo scudo, incrociando così gli occhi aperti della Gorgone.
I due ragazzi se ne accorsero troppo tardi. «No! Signorina! Non guardate!» Urlarono. E qualcun altro ancora strillò in mezzo all’arena, mentre il corpo di Astrid s’irrigidiva fino a immobilizzarsi completamente, ingrigendosi sempre di più, vestiti compresi. Finché di lei non restò altro che una statua bloccata nell’atto di proteggere due bambini.
 
Death Mask
«Astrid!» Urlasti invaso da un senso di annichilimento che ti fece perdere la voglia di liberarti di Aldebaran.  I Black Saints corsero in soccorso della ragazza pietrificata.
La Gorgone chiuse gli occhi e Argor si volse confuso e stupefatto, soprattutto quando vide la statua della tua amica e i suoi allievi illesi. I quali, piangendo sia per il dolore sia per lei, cercavano di svegliarla. Soprattutto Raki. «Astrid! Astrid! Qualcuno chiami un medico! Un medico, presto! Qualcuno chiami Shun di Virgo! Astrid! No! Ti prego, no! Lei è ancora viva! Non può essere morta!» Urlava a chiunque cercasse di staccarla dall’amica.
Perché quel giorno Aldebaran non ne combinava una giusta? Avrebbe dovuto impedire a quella scema di guardarlo invece di impedire a te di muoverti.
Improvvisamente la tua rabbia divampò violenta con il tuo Cosmo e cominciasti a vedere rosso.
«Che cosa hai fatto!» Urlasti fuori di te. L’esplosione del tuo Cosmo fu talmente potente da spazzare via la sabbia sotto ai tuoi piedi. Chi se ne importava se adesso ti avrebbero visto per quello che eri davvero, se avrebbero visto la tua chioma bianca e i tuoi crudeli occhi rossi. Il tuo vero aspetto: un albino, il vero Death Mask. L’assassino del Santuario. Ed era bene che se lo ricordassero. Anche se c’era quella dannata legge che v’impediva di combattere tra voi. Argor pensò che quella fosse sufficiente a fermarti, mentre lo guardavi in cagnesco e decidevi il modo più cruento per farlo a pezzi. E fece la stupidaggine di continuare a infierire. «Come supponevo. Guardate cosa avete fatto, avete lasciato che una semplice ancella prendesse il vostro posto, codardi, dovevo ammazzarvi... Ehi!» Non riuscì a terminare il discorso che, lesto come un fulmine, lo acchiappasti per il collo e lo sollevasti da terra. «Vieni qui, tu! Ti rendi conto di quello che hai fatto? Eh? Eh? Brutto pezzo di merda? Te ne rendi conto? Te ne rendi conto?» Ringhiasti inferocito.
«Nobile Death Mask!» Esclamò cercando di sottrarsi alla tua ferrea presa, annaspando in cerca d’aria. «Chiedo perdono, nobile…» Cercò di articolare ma ben presto si ritrovò a corto d’ossigeno e cominciò a lottare, mentre la faccia diventava cianotica a causa della mancanza di ossigeno. Iniziò a scalciare ma i suoi colpi non ti fecero né caldo né freddo. Eppure neanche questa paura della morte, ti dette soddisfazione. Avrebbe pagato con gli interessi e forse non sarebbe mai bastato neppure questo. Aldebaran ti afferrò il polso e lo liberò, poi cominciò a tirarti indietro. Ignorasti le tue parole e cercasti di raggiungere di nuovo il Silver franato al suolo. «Non la dovevi toccare! Hai capito, brutto pezzo di merda? Non la dovevi toccare! Lei era sotto la mia protezione! E tu, adesso la raggiungerai! E lasciami!» Continuasti a urlare.    
«No!» Si rifiutò Aldebaran. «Non lo fare, Death Mask!»
«Non ti ci mettere anche tu, rompiscatole!» Sbraitasti cercando di guardarlo da sopra una spalla. 
«Come puoi non capire? Basta! Basta! Ha capito, non c’è bisogno di ricorrere a tanto!» Ribatté ancora cercando di trascinarti via. Ti divincolasti, ruotasti i polsi e ti liberasti ma lui ti acchiappò di nuovo.
«Stai zitto e lasciamelo ammazzare che questo non ha bisogno della tua compassione!»
«Lascialo stare!» Urlò, mettendosi in posizione, le braccia incrociate davanti ad Argor. «Adesso basta, Death Mask! Lei non vorrebbe mai…» Cominciò e tu lo fissasti astioso. Se stava per dire che non avrebbe mai voluto che ammazzassi quel pezzo di merda, allora non la conosceva proprio per niente. Se voleva la guerra e guerra avrebbe avuto. Chi se ne fregava delle Creature, avevi una voglia matta di menare le mani. Stavi per alzare l’indice e urlare il tuo colpo fatale quando scorgesti uno strano luccichio fosforescente alle sue spalle. Lui stesso si girò.
Qualcuno domandò stupito: «Astrid?»
Affiancasti rapidamente Aldebaran. Il brillio proveniva dalla statua.
Altri mandarono gemiti di stupore e, alcuni di loro arretrarono di un passo, sgranando gli occhi.
La pietra cominciò a gocciolare quelle luci fosforescenti. «Che diavolo…?» Borbottasti assottigliando lo sguardo.
Con un sinistro scricchiolio la statua iniziò a riempirsi di crepe e a muoversi. Recuperando progressivamente il suo aspetto e la consistenza originarie. Mosse le braccia portandosele al petto e chinò la testa, espirando tutto in un colpo come se fosse riemersa da una lunga immersione. Fu così che si liberò dalla roccia che si sgretolò in polvere ai suoi piedi, in un modo che ti ricordò molto i Prigioni di Michelangelo. Le gambe non la ressero e cadde a terra nella polvere e il luccichio scomparve.
«Mia Signora!» Esclamò l’Andromeda Nero e si precipitò da lei, aiutandola a mettersi seduta. Buona parte dei presenti arretrò atterrita di un altro passo. L’altra parte si portò le mani alla bocca e, addirittura, qualcuno gridò. Quelli che si riebbero subito andarono ad aiutarla, riempiendola di premure. Soprattutto i due allievi di Argor di Perseo. La vedesti portarsi una mano alla testa e annuire a quello che le dicevano e ricambiare, frastornata. Cose come: «Come va? Stai bene?»
«Sto bene, sto bene».
«Sicura?»
«Sì».
«Astrid!» Esclamasti quasi all’unisono con loro, ma talmente piano che non ti sentì nessuno. Poi, anche tu ti avvicinasti, incredulo e timoroso che tu fossi impazzito e quella fosse un’allucinazione. Avresti voluto gettarti ai suoi piedi, invece avanzasti tranquillamente e ti inginocchiasti su un ginocchio accanto a loro.
«Death Mask, hai visto?» Esclamò felice Aldebaran mentre il Black Saint aiutava a mettersi seduta. T’inginocchiasti sul ginocchio destro per poter essere di nuovo alla stessa altezza di quegli occhi gialli che avevi temuto di non vedere mai più. La tua amica girò la testa verso di te e ti salutò con un sorriso stanco. Poi ti guardò meglio e batté le palpebre, perplessa: «Ehi, sono io che sono diventata daltonica o il tuo aspetto è un pochino diverso?» Scherzò continuando a sorridere.
«Senti chi parla, neanche a te il grigio pietra sta poi così bene». Replicasti cercando di tenere la voce salda e di non lasciar trasparire alcuna emozione. In verità avresti voluto abbracciarla ma questo gesto non faceva più parte di te da tempo. Lei lo capì e si limitò a stringerti la mano allo stesso modo di come se la strinsero Aiolia e Aiolos, quando si ritrovarono al Muro del Lamento e a lanciarti un’occhiata significativa che ricambiasti. Le restituisti la stretta curvando la bocca in un sorriso. «Bè, mi dovrò abituare a vederti così, oppure…» Non riuscì a terminare la frase che si piegò bruscamente in due, come se qualcuno le avesse dato un pugno nello stomaco e tossì.
«Aldebaran! Dell’acqua, presto!» Urlasti.
Il padre di Yoshino obbedì e tornò in poco tempo con una bottiglietta d’acqua che passò alla ragazza. La quale gliela strappò di mano e la svuotò nel giro di pochissimo. Fortuna che questo bastò per calmare quell’improvviso attacco. Doveva aver inalato della polvere quando era caduta a terra o forse era la polvere che le era rimasta nei polmoni a causa dello sgretolamento della pietra.       
Poi vomitò e voi vi scostaste per evitare di essere centrati in pieno dagli schizzi.
La successiva acqua che le deste, fu per sciacquarsi il viso e la bocca.
«Bè? Tutto qui?» Commentò all’improvviso, massaggiandosi la spalla con una mano, la stessa su cui era cascata. Poi sollevò lo sguardo sul Saint che stavi strangolando fino a pochi momenti prima.
Il Silver Saint di Perseo la guardò sbigottito mentre con una mano si massaggiava la gola e cercava di riprendere fiato.  Con l’aiuto di Andromeda Nero si alzò a fatica, spostando la mano al collo, riempiendosi i polmoni più che poté. Poi puntò le iridi alle sue spalle, su ciò che restava della statua e distolse lo sguardo, scossa da un brivido. Tossì e sputacchiò polvere. «Com’è successo? Io, io pensavo di averti ucciso. Com’è possibile che il potere dello Scudo non abbia avuto effetto?» Domandò Argor di Perseo, tanto spaventato quanto sollevato di vederla ancora viva. L’ultima volta che un suo avversario sopravvisse ai poteri pietrificanti del suo scudo, si dovette cavare gli occhi con le sue stesse mani.
«Ed è una fortuna per te che non l’abbia avuto, altrimenti saresti già diventato parte delle decorazioni di Casa mia!» Gli ricordasti, sinistro ma decidesti di lasciare quest’onore alla tua amica. Lo sapevi che voleva prendersi la sua rivincita. Avrebbe potuto guardare il Silver Saint di Perseo con astio, scrocchiarsi teatralmente le dita in una passabile, ma efficace, imitazione di Bruce Lee. Dita che, improvvisamente, si sarebbero messe a splendere di luce dorata o argentata. Si sarebbe potuta alzare e vendicarsi con la stessa inesorabile ferocia con cui vendicò il suo adorato Snakye. Oppure, avrebbe potuto mollare un calcio in faccia al Silver Saint, accompagnando il gesto a una presentazione di tutto rispetto. Invece si limitò a domandare, ancora boccheggiante, «Adesso posso tornare al mio lavoro?» con una calma che non le avevi mai visto. La guardasti stupefatto. Argor mosse appena la testa in un cenno d’assenso tanto era grande il suo sbigottimento. O forse fu solo un riflesso involontario.
La ragazza si rialzò. Poi, con l’aiuto di un Black Saint portò i due giovani in infermeria. Come tutti, pensaste che lo Scudo di Argor si fosse rotto. La cosa più sconvolgente, fu che non era così. Guardasti Astrid allontanarsi assieme a Yoshino, più sconvolto e spaventato che mai, mentre un innaturale silenzio piombava nell’arena dei combattimenti.   
Ma di quel silenzio vi dimenticaste in fretta, mentre ve lo lasciavate alle spalle, tu, la figlia di Aldebaran, Astrid e i due mocciosi feriti.

Una volta in infermeria Astrid si era lasciata visitare da Shun, che non aveva riscontrato alcun problema. «La tua tecnica di rigenerazione è fenomenale. Se solo sapessi come insegnarcela, sai quanti problemi ci risolveresti?» Si complimentò, sorridendo (anche se tu potesti vedere la tensione nelle sue spalle mentre le parlava).
«Ma io stavolta non ho fatto niente». Obiettò lei, perplessa. «Io volevo soltanto liberarmi e le luci mi hanno ascoltato. Cioè, è strano, mi sentivo di nuovo in coma, solo che stavolta le luci fosforescenti mi hanno indicato la strada per uscire». Raccontò rabbrividendo. 
«Si può sapere che cosa ci facevi in arena a quest’ora? Non dovevi essere nella Tredicesima a pulire, cucinare, fare qualcosa che non prevedesse sangue e ferite mortali? Possibile che ti ficchi sempre nei casini?» La sgridasti a pieni polmoni e dopo un secondo ti venne da sbattere la testa contro il muro. Santa Dea, ti sentivi suo padre, quando in realtà avevi appena cinque anni più di lei! Le sue guance assunsero un colorito rosato mentre cercava la scusa giusta da propinarti. Ti caddero le braccia. «Che, ti stavi dando alla fuga?» Indovinasti subito. Avresti voluto dirle un mucchio di cose, ma tutte queste erano rimproveri che, sapevi, lei si aspettava. Lo capivi dallo sguardo di sfida che ti rifilava. Lo stesso che ti diceva che sarebbe stata pronta a rifarlo se necessario. Oh, se conoscevi bene quello sguardo. Voi stessi lo esibivate quando combattevate in nome della Dea. L’avevi visto splendere nelle iridi dei tuoi compagni, come loro l’avevano visto luccicare anche nelle tue. Faceva strano vederlo nei suoi occhi. Proprio come se fosse una di voi. E avesti voglia di litigarci come non mai con nessun altro.
Avevi fatto di tutto per mandarla via e te la ritrovavi nei guai un’altra volta, ancora di sua spontanea volontà. “Anche se disponi della magia, di queste formidabili tecniche tu...” Persino queste parole non riuscisti a fartele uscire di bocca. Soprattutto perché il suo sguardo ti ghiacciò. Le sue pupille si erano ristrette in due tagli verticali, come le pupille di un gatto. Batté le palpebre e tornarono normali. «Stai bene?» Ti chiese guardandoti preoccupata.    
«Sì. Ora vado a raccattare quel pirla. Ci vediamo dopo».
«Non ucciderlo». Si raccomandò Aldebaran che per sicurezza vi aveva seguiti. Erompesti in un verso di pura frustrazione: «Che palle, non hai bisogno di dirmelo, so benissimo anche da me che non posso fare strage di compagni e sottoposti». Gli rammentasti annoiato. Lui ti guardò storto.
Un ghigno sadico prese forma sulla tua faccia: «Però posso fargli passare un brutto quarto d’ora e, conosco la persona più adatta di me per questo». Promettesti.
Al contrario di Aldebaran Astrid si aprì in un sorriso di soddisfazione: «Fallo anche da parte mia e raccontami tutti i dettagli». Che le fece guadagnare lo sguardo sbigottito del genitore di Yoshino.
«Ci puoi giurare che te li racconto». Le garantisti mentre il suo sorriso diventava il riflesso del tuo stesso ghigno sadico.
E ora eccovi qui, al cospetto di Kanon che faceva vedere i sorci verdi al malcapitato Silver Saint di Perseo. Che, prostrato, si sorbiva la sfuriata del Patriarca, imbestialito come neanche Arles al top della sua forma nei suoi giorni da usurpatore. Intanto che tu ghignavi soddisfatto appoggiato a una colonna. Anche se avevi dovuto metterci tutte le tue doti di attore per coprire l’evidente fuga dalla Tredicesima di Astrid. «È un mostro!» Urlava intanto il Silver Saint in ginocchio.
«Piantala di sbraitare così e vedi di startene zitto, stronzo!» Lo rimbeccasti aspramente sotto ai loro occhi allibiti. Ti staccavi per un momento da Astrid e succedeva questo?  
«Possibile che lei si ficchi sempre nei casini? Ma chi si crede di essere, un’altra Atena?» Berciò Argor.
«Death Mask, forse sei tu che non hai capito una cosa», disse Kanon e lo guardasti. «Lei si ficca nei casini che inconsciamente sa di poter risolvere». Rivelò.
Il che spiegava come mai il suo rapporto con te e buona parte dei Gold non era mai progredito più di tanto. Forse era veramente per via del fatto che sentiva davvero che doveva restare che aveva scelto di tornare. Indipendentemente dalla Luce Ombrosa che custodiva.
«Come fate a dirlo, sua Santità?» Chiedesti ironico
«Ci sto passando il tempo insieme e la sto conoscendo. Se si ficca nei guai, non è solo per autocompiacimento o per dimostrare qualcosa, ma è proprio perché lei riesce a vedere la soluzione. Quando non ha le crisi la sua mente vola leggera come un gabbiano trasportato dal vento e la sua intelligenza è notevole. Non è un’intelligenza militaresca e non è un genio, ma è un’intelligenza fluida, si adatta a tutto come l’acqua. Probabilmente potrebbe effettivamente apprendere l’arte della guerra, se gliela insegnassimo. Però non è neppure così stupida. Per dirla con le sue parole, si gioca bene le carte che ha a disposizione. Le altre volte ci si è involontariamente trovata in mezzo».
Ti accigliasti ancora di più e incrociasti le braccia: «Per questo la lasciate uscire dalla Tredicesima?»
Chiedesti stupito. Non tanto per quello che aveva detto, ma per il motivo per cui lo stava facendo. Lui non era molto diverso dai Black Saint. In fondo in fondo, bramava ancora quella piccola briciola di gloria e potere che solo il più forte poteva perseguire. Come ai tuoi tempi, anche se adesso era per espiare. Ma se poteva servirsi di qualcuno lo avrebbe fatto. A prescindere dalla sua identità. «Questo perché lei va a fare la spesa quando ce ne è bisogno. Essendo una novizia è ovvio che i lavori più pesanti capitino tutti a lei». Che Kanon lo sapeva come funzionavano le cose all’interno della Casa di Atena, non era mica scemo. «In pratica tutti i giorni?» Interloquisti squadrando attentamente l’uomo assiso sul trono.
«Che significa tutti i giorni?» Vedesti Kanon sgranare gli occhi e un luccichio di furia illuminarli. Quella mattina non aveva indossato la maschera. Chiuse gli occhi e ricacciò indietro le proprie emozioni. «Ho capito, grazie Death Mask, provvederò di persona. E tanto per essere chiari, Astrid è uscita su mio ordine». Rivelò Kanon e ti spiegò che quella mattina l’aveva chiamata e le aveva ordinato di riferirgli se ci fossero disordini di sorta nel Santuario. Ah, bè, se lo diceva lui, allora non c’era problema. Poi continuò dicendo che in quanto Portavoce di Atena era tenuto a mantenere in ordine lo schieramento. Ti ritrovasti d’accordo con lui. Senza contare che la tua parola valeva molto di più di quella di un sottorango e che, era plausibilissima una cosa simile. Congedò Argor e poi, quando fu di nuovo uscito ti ordinò di fare rapporto a proposito della tua gitarella negli Inferi. Non avesti altra scelta che dirgli la verità e aspettarti il conseguente ordine. E così non c’era proprio verso, eh? Alla fine avresti davvero dovuto raggiungere quella piaga di Cherie sul campo di battaglia. L’avevi già adocchiato ma non era roba per te, lo vedevi. Gente così la facevi fuori in un nanosecondo. Ah, bè, almeno sarebbe stata una giornata diversa dal solito. Non capitava tutti i giorni di sgranchirsi le gambe.

Cocteau
Una volta congedato Death Mask e le porte si richiusero lasciandovi soli, tuo fratello sospirò. Dopodiché si afflosciò sul Trono, stremato. Aveva fatto un salto allo Star Hill e avevi ricevuto una predizione completamente astrusa. Non ricordavi bene neanche tu i particolari, però rammentavi che parlava di un Cavaliere che presto sarebbe tornato tra di voi.
Ci stavi ancora pensando quando Kanon si raddrizzò alla svelta, avvertendo l’esplosione del Cosmo di Death Mask e poi, un’ondata di energia benefica che lo placò inglobandolo allo stesso modo di un’onda di marea ingloba la spiaggia.
Un istante dopo la cessazione di questo fenomeno, mandò a chiamare il suddetto Saint, che non mancò di portarsi dietro il Silver Saint Argor di Perseo. Avevate percepito anche il suo Cosmo, ma, fino a quel momento avevate pensato che fosse la vittima, non che potesse essere implicato in qualcosa di più, al punto che Death Mask avesse persino dimenticato di usare il proprio Cosmo per modificare il suo albinismo.
«Adesso manderai a chiamare Astrid?» Domandasti. Tuo fratello si sfregò la faccia con la mano e mugugnò: «Un secondo».
«Allora non ti dispiace se non resto, vero? Sono stanco». Essendo una civetta avevi i ritmi sonno e veglia alterati, se te lo avesse chiesto, ti saresti potuto giocare questa carta. La verità era che avevi voglia di rilassarti e farti un bagno.  «No, vai pure». Spalancasti le ali e volasti via, dalla porta di lato che Kanon ti aprì con la telecinesi. L’acqua era per te fonte di piacere quanto di tortura. Dicono che i centri nervosi adibiti al dolore e al piacere siano gli stessi. Ma valeva la stessa cosa anche per una mente devastata come la tua? Ricordavi perfettamente quanto Arles amasse le abluzioni. Lo splendore dei raggi del sole illuminava quella placida distesa liquida. Accogliente quasi nella stessa misura di un grembo materno. Oppure il calore di quell’acqua che ti scaldava, tuttavia senza bruciarti e, il profumo dei saponi che saliva con i vapori. Ogni lordura che spariva da te. 
L’abbraccio perfetto e asettico, tuttavia insufficiente. Per quanto sperassi che l’acqua potesse cancellare per sempre quella creatura da te, non c’era mai riuscita. Invece per poco non eri stato scoperto da quel servo, prima che cominciasse la battaglia delle Dodici Case.
Raramente per te, farsi un bagno rappresentava di nuovo solo e soltanto un momento di relax. Anche perché solo la Dea o queste mura, sapevano quanti morirono per proteggere te stesso. E come per poco anche Katya di Corona Borealis facesse la loro stessa fine. Dovevi ringraziare il tuo ex segretario di allora se era ancora viva. Ma una buona azione ogni tanto non basta a cancellare il sangue sulle tue mani. Oh, sì, quelle mani che riacquistavi ogni volta che dovevi lavarti. Mica eri un maiale. E tu, il sangue delle tue vittime, i loro occhi, te li ricordavi ancora. Tutte. La madre di Shoko e Kyoko, le altre ancelle di Atena, Klaus senior, quel servo. Come allora, non necessitavi l’aiuto di nessuno, ma solo perché non riuscivi a sostenere lo sguardo di probabili attendenti. I pochi che sapevano di te erano i domestici personali di Kanon: Thaddhaios, Chariton, Dios, Doukas, Akylina, Electre, Veronika, Xeni, Zoe e Zenais. Che veniva chiamato da tutti Klaus per la somiglianza con lo zio.   
Ed erano tenuti a rispettare il giuramento. In realtà non ci sarebbe neanche stato bisogno. Il problema era che eri stato tu stesso a volerti trincerare così. Dopo ciò che avevi fatto come usurpatore, il solo vivere all’interno della Tredicesima Casa ti faceva sentire impuro e minuscolo come una formica. La Dea poteva perdonarti quanto le pareva, ma tu? Ti saresti mai perdonato per quello che avevi fatto? Tu che come Ercole ammazzò la sua prole, quasi uccidesti la neonata Dea in un raptus di follia? Tu che potevi essere designato come Patriarca ma il mostro prese possesso di te e guidò la tua mano contro Shion? La stessa mano che avevi giurato di elevare contro i tuoi nemici per la Dea? Dea di cui trinceravi i tuoi pensieri dietro un vetro, pur di non vederne le inadempienze. Quella donna troppo poco carismatica per essere la vostra Dea, troppo fragile e più umana che mai se escludevi il Cosmo sublime? La tua fedeltà cieca e incrollabile era per te un rifugio. Dopotutto fu lei a scacciare il tuo demone, ma non fu capace di restituirti a te stesso.
T’immergesti sott’acqua e restasti in apnea per un po’. In gioventù potevi anche restarci per quasi un quarto d’ora, grazie agli addestramenti. Adesso dovevi ringraziare solo la tua memoria del corpo se riuscivi ancora ad arrivare ad appena otto minuti scarsi. Sapevi che per i comuni mortali avevi le carte in regola per definirti l’uomo dei record, ma tu di record non avevi neanche l’ombra, sempre escludendo gli omicidi. E lui lo sapeva, ma se ne infischiava. Lui, a causa del quale avevi rinunciato persino al tuo desiderio di imparare a suonare l’arpa. Orpheo te l’aveva detto che avevi orecchio per la musica. Se mai un giorno avessi voluto imparare sarebbe stato felice di aiutarti, ma quel giorno non era mai arrivato, che eri peggiorato. E avevi dovuto rinunciare persino alla musica.   
“Chi ti credi di essere? Un Cavaliere di quelli delle leggende medievali ispirati ai nostri predecessori?” Rise, mortificandoti. Poi in tono di compatimento, “Tu sei pazzo ecco cosa sei. Hai dei bisogni anche tu, rivuoi il potere, vuoi sentirlo scorrere dentro di te e tra le mani. Non inventare che non ti piaceva sedere su quel trono e comandare tutti questi soldati, Saga”.
“Smettila! Lo sai che l’ho sempre odiato, lo sai che volevo solo la libertà!” E dopo quello che aveva fatto con il tuo corpo non avevi avuto altra scelta che continuare quella mascherata per non essere ucciso. Perché allora la vita ti era molto più cara di ora. Paradossalmente, benché ti sentisti esausto, una parte di te si attaccava ostinatamente alla vita. E anche quell’altro aveva fatto lo stesso. 
“Se è così allora perché non rinunciasti alla tua Armatura?” Domandò con voce sorridente. La voce di chi ha il coltello dalla parte del manico e che non esiterà a piantartelo in corpo ancora e ancora. Anche se il coltello in questione sono solo stoccate di parole. E tu sussultasti.  Lui continuò “Lo sai anche tu perché non te ne liberasti, non fare l’ingenuo con me”. 
“Perché non c’era nessun altro!” Sbottasti come se ciò potesse bastare a rimetterlo al suo posto. Ma quella bestia non si piegava per niente al tuo volere. Anzi, più t’infervoravi, più lei sembrava acquisire potere su di te. E, come avevi scoperto durante l’ultima Guerra Sacra, neppure le tue sembianze animali bastavano ad arginarlo. Il massimo che potevano fare era impedirgli di usare il tuo Cosmo, ma non gli impedivano certo di traviare le anime semplici come Seiya.
Tra te e il tuo alter ego, era sempre stato lui quello più convincente. Se tu eri l’incarnazione della figura ideale di Cavaliere, come una volta lo fu Aiolos, lui aveva il potere, il carisma e la spregiudicatezza atta a ottenere ciò che desiderava. Che fosse un trono o una bella donna.
La tua parte oscura in tutto e per tutto.  
“Sì che c’era, dovevi solo andarlo a ripescare...”
“Smettila! Taci!” Se poi l’avessi fatto, le ripercussioni sarebbero state anche peggiori. Intanto nessuno all’epoca era al corrente dell’esistenza di Kanon; lo stesso Kanon che ti aveva maledetto. La stessa persona che aveva cercato di uccidere Lady Isabel e conquistare il potere servendosi di Poseidone. Lo stesso che, avrebbe potuto farti passare dei guai molto seri se tu l’avessi ripescato, come aveva suggerito la tua nemesi.
“Oh, il Cavaliere dall’Armatura splendente, tanto puro e tanto nobile, che non ha avuto il coraggio di salvare il fratellino perché questo l’avrebbe denunciato al venerabile Shion.” Ti schernì la bestia.
“E non dimentichiamoci quello splendido harem che ci eravamo fatti, se solo lo desiderassi potresti avere tutte le donne del Santuario ai tuoi piedi. Non mi dire che non hai notato il modo in cui ti guardano quando riacquisti le tue vere sembianze”. 
“Mi guardavano come se fossi un pezzo di carne dal macellaio, non come una persona!”
“Ma anche tu guardavi loro allo stesso modo, non fingere di essertene dimenticato”.
“Eri tu che le guardavi così”.
“Io sono te, ricordi?”
“Menzogne! Io non sarò mai come te e tu non potrai mai essere me!” 
“Ma sentilo. Che la notte quell’harem te lo sogni ancora, con nuovi volti e nuovi corpi giovani e belli. Se ci includessimo anche quella ragazza dalla pelle morbida, quei bei capelli luminosi e quegli occhi affascinanti...”
“Non osare toccare Astrid! Lei lasciala fuori!”
“Perché mai? Potrebbe esserci utile”.
“Lei non ha niente a vedere con noi e con le tue smanie di potere, lasciala fuori”.
“Perché mai? Quella è più simile a me di quanto tu pensi, sembra tanto gentile e carina ma in realtà è malvagia tanto quanto noi. É inutile che ti attacchi alle frasi fatte, sai bene quanto me che lei non è diversa dalle altre. Oh, non fare quella faccia, non ti sarai mica lasciato incantare dal quel bel visetto. Lo hai visto di cosa è capace, sai che se volesse potrebbe ammazzarci tutti, anche se solo per vendetta, lei sì che ha il vero potere, altro che quella Saintia che salvasti da Eris qualche decade fa. Una Bronze Saint, oltretutto, che spreco, si è rivelata totalmente incapace sotto ogni punto di vista”.
“Sarebbe stato uno spreco se fosse morta!” Per te ogni vita era preziosa.
“Tu e le tue manie di altruismo, credevi sul serio che ti avessi permesso di salvarla così come se niente fosse?”
“Lo facesti apposta?” Domandasti stupito.
“Oh, ci puoi giurare, mi serviva una spia vicina alla Divina Atena, quell’insulsa ragazzina di tredici anni che non dimostrava neanche per scherzo la sua vera età”. Sogghignò il mostro. “E lo farò di nuovo, se sarà necessario”.
“Non osare toccarli! Non osare toccare nessuno di loro.” lo minacciasti. Cercasti dentro di te la luce, quella luce che l’oscura presenza che incombeva su di lei la stava costringendo alla fuga.
Adesso che avevi qualcosa per cui lottare, una Dea che credeva in te, il sostegno dei tuoi compagni, non avresti mai permesso che il mostro riprendesse il controllo. Gli stessi compagni che, anticamente mandasti al massacro. Ciononostante Shura ti aveva perdonato, Aiolos aveva voluto combattere con te ad Asgard, dimostrandoti di non aver mai smesso neanche per un attimo di credere in te. L’ultima cosa che sentisti prima di morire, fu la lacrima della Dea Atena, che ti piovve sulla guancia, quando ti suicidasti tra le sue braccia. La stessa Dea che non avesti il coraggio di uccidere durante la Guerra Sacra e, che veneravi. E gli altri Saints non ti portavano rancore alcuno. Ma l’amore che ti circondava, il sostegno dei tuoi compagni, non sarebbe mai bastato contro il tuo demone. Proprio allora ti tornò in mente Astrid che correggeva la brutta del saggio di letteratura di una dei suoi alunni.  Oh, sì, tu sapevi, tu la seguivi. A quella scena ti aggrappasti con tutte le tue forze: «É sciocco pensare che l’amore possa salvarti. L’amore non cambia le persone, se cambiano è perché vogliono cambiare. Non esiste che l’amore possa trasformare una bestia in un principe, una bestia resta sempre una bestia. Per questo leggi attentamente tra le righe, storie come Orgoglio e pregiudizio non parlano di amore che cambia le persone, ma di due persone che cambiano, crescono confrontandosi l’uno con l’altra, mentre s’innamorano l’uno dell’altra. L’amore non potrà mai salvarti, non così, se è questo ciò che cerchi. Neppure la Favola di Amore e Psiche ne parla e neanche La bella e la bestia, questa concezione che ne abbiamo è frutto di un malinteso». Come un malinteso portò te a equivocare le intenzioni di Shion e, tu, fallisti miseramente la tua prova, condannando lo splendente Aiolos a morte.
Le sue parole erano inequivocabili. Forse per il fatto che, per la prima volta avevi incontrato un’ancella che non mirava al tuo letto e per la sua intelligenza. L’ammiravi, ecco la verità. E anche questo sentimento andò a sommarsi alla barriera di luce che stavi ergendo contro la tua ombra. 
Ma tu, grande, grosso e potente com’eri, cosa cercavi? Cosa volevi davvero? Cercavi aiuto, ecco un’altra verità. E, neanche a dirlo, ti tornarono in mente i racconti dei tuoi compagni, che assaltarono il Santuario della Luna per salvare la Dea. Ironico, che fosse proprio una giovane ancella ad aver raccolto il vostro grido d’aiuto durante il primo attacco di Artemide. E che, avesse dato l’idea a tutti gli altri di salvarvi e presidiare assieme a voi le Dodici Case. Non pensavi che quei civili, quegli omini e quelle donnine fossero così coraggiosi. Al punto da rischiare la vita per voi e anche per te. Anche se la maggior parte di loro non ti riconobbe, altrimenti dubitavi che saresti sopravvissuto anche te alla loro furia. Perché tu non avresti voluto sopravvivere alla loro furia.
Ma quello che avevano fatto loro era anche ciò che Kanon aveva fatto per salvarti dall’imboscata di Eris. Lo stesso che due anni prima ti aveva protetto e ridato la Gold Cloth di Gemini, impedendo il ritorno di Arles.
Ma, soprattutto, erano gli occhi cerulei della tua adorata Dea. Ecco qual era la tua barriera mentale contro Arles. E cosa ti ricordava che valesse la pena vivere ancora.     
E mentre ti decidevi finalmente a lavarti, con gesti meccanici e ripetitivi, la tua anima lottò contro il tuo demone interiore. La lotta si protrasse anche dopo, quando uscisti dalla vasca, ti asciugasti, ti infilasti una tunica bianca e i sandali e ti recasti in biblioteca. Il luogo che preferivi di più per far quadrare il bilancio.  Arles intensificò il suo attacco. “Non potrai bloccarmi per sempre”. Ti avvisò la bestia dentro di te, mentre cedeva momentaneamente alla tua strenua resistenza.

«Saga?» Ti chiamò tuo fratello, avvolto nei paramente sacerdotali scuri. «Va tutto bene?»
«Sì, ero solo sovrappensiero, i registri contabili mi fanno ancora impazzire». Scherzasti, cercando di sdrammatizzare la situazione. Salvo poi prendere coscienza di ciò che avevi detto e darti dell’imbecille. Considerati i tuoi trascorsi con il tuo demone. Non ti eri ancora ritrasformato in civetta. Se potevi preferivi stare in forma umana. «Forse dovresti staccare un po’, che so, una vacanza».
«Sai che non posso permettermelo.
Ma non volevi pensare a questo, adesso. Preferivi concentrarti sui problemi legati alla vostra giovane ospite. In un certo senso erano i più leggeri, rispetto a tutti quelli del Santuario.
«Stavo pensando, ma non è che per caso Astrid abbia qualcosa a che fare con il Gold Saint di Ophiuchus?»
Guardaste il vostro compagno scandalizzati. Soprattutto Aphrodite. «Perché pensi questo?»
«Voglio dire, ho fatto una ricerca sul Cavaliere Maledetto d’Ophiuchus e ho scoperto che la rigenerazione è una delle sue tecniche, ha persino un nome: Dark Resurrection».
«La Dark Resurrection? E cosa sarebbe?» Domandò Kiki. Poi a sostegno delle sue prove vi lesse il passaggio che lo riguardava: «Sentite qua.» A queste parole Aiolia vi guardò uno per uno, come a chiedervi se lo stesse seguendo, prima di riprendere: «tecnica medica che permette a Odysseus di curare e rigenerare tutto il suo corpo. Anche se ferito o ridotto in pezzi, in pochi secondi poteva tornare in perfetta salute, ricostituendo il suo corpo per intero». Vi guardò di nuovo e disse, in tono lugubre: «Proprio come Astrid».
«Tu pensi seriamente che esista un legame tra lei e il Gold Saint di Ophiuchus?» Chiese Death Mask con una faccia che stava a dire: “Occhio a quello che dici, bambolo”. Piuttosto che accettare l’evidenza sarebbe stato capace di staccarvi la testa. «Bè spiegherebbe la sua rigenerazione, anche se il Gold Saint è morto e sepolto da un pezzo».  
«E tale deve restare». Si aggiunse Aphrodite. «Astrid non può avere legami con il Gold Saint di Ophiuchus». Decretò. Poi prese fiato e vi disse perché: «Innanzitutto i suoi poteri, anche se legati alle mani, influiscono soltanto sulle stelle. Se fosse diversamente dovrebbe essere dotata del Cosmo di un Cavaliere d’Oro e non ce l’ha».
«Lei da piccola parlava con i serpenti». Buttò lì Death Mask e lo guardaste stupiti. Lui vi guardò perplesso: «Bè, che c’è? Non ve l’ha detto? Fu per un serpente che montò tutto quel casino durante l’attacco di Eris».
Un serpente?
«Questa ce la devi raccontare». Disse Milo appena arrivato dopo il solito giro di routine ai Saint ai domiciliari. «Che tipo di serpente era?» Non che fosse importante, in realtà. Era più curiosità. Il siciliano ci pensò e vi rispose. Lo guardaste come se avesse appena parlato in siciliano stretto. Sicché lui fu costretto a mostrarvi una foto presa da internet per spiegarvelo. Non sapevate che esistesse un animale simile prima d’ora.
«É velenoso?» S’informò Aphrodite.
«Astrid mi ha spiegato di no, che anzi, è una specie molto mite. Ma quello non vale, può esserci riuscita perché sa usare la magia più che il Cosmo».
«Juan di Scutum e Georg di Southern Cross affermano che possa essere in contatto con Ilias del Leone». Disse Milo, beccandosi le occhiate scettiche da tutti i presenti. Occhiate cui rispose incrociando le braccia. «Se, certo. E perché Ilias del Leone dovrebbe contattare proprio lei?» Chiese Death Mask sarcastico e stravaccato di traverso sulla sedia. «Boh? Mi hanno solo detto che, questo fantomatico Cavaliere ha in comune con Ilias gli occhi e la capacità di comunicare con la natura».
«Capisco e ti hanno detto altro?» Domandasti tu.
«No. Ah, l’altro ieri ho riscontrato un nuovo fenomeno: le pupille di Astrid possono diventare verticali».
«Cosa intendi con verticali?» A volte, a seconda di come batteva la luce, la vista poteva ingannarvi. Quante volte vi eravate spaventati perché vi era sembrato che Milo avesse le pupille dritte? Quando invece erano soltanto ristrette a cause della luce e dai dettagli dell’iride? «Come quelle di un gatto?»
«Sì, anche se lei gli occhi da gatta ce l’aveva già prima». Alludendo al taglio dei suoi occhi.
«Stai avallando l’ipotesi che potrebbe essere una discendente di Ilias? Ma lui, oltre a Sisifo e Regulus, non aveva altri parenti». Obiettò Aiolia, che era quello che stava sfogliando il libro.
«Le fonti potrebbero essere errate, dopotutto gran parte dei documenti sono andati distrutti».
«Io continuo a pensare che Astrid abbia un legame con Odysseus di Ophiuchus». Disse il gattaccio.
«In quel caso i suoi occhi dovrebbero diventare rossi.» interloquì Ikki, che era tornato da poco e che, tra tutti, era stato quello a essere stato più a stretto contatto con il Cavaliere Maledetto. «E io quegli occhi li ho visti».
«Invece i suoi avevano un che di felino, più che di serpentesco». Continuò Milo, ancorato alla sua ipotesi. Che stesse cambiando bandiera o stesse sperando che lei fosse l’allieva di un alleato dal passato?   
«E come ti spieghi quegli strani ricordi di cui mi hai messo a parte che dice di avere?»
«Forse lo so io». Dicesti dopo un momento di riflessione. «Potrebbero essere un misto tra falsi ricordi, fantasie infantili e le informazioni ricavate da questo posto. Può darsi che, a forza di stare qui, abbia imparato a espandere il suo potere, di modo che possa ascoltare la storia delle Dodici Case, come se fossero persone a cui leggere la mano. Oppure ancora, che l’abbia letta attraverso la mano dei Cavalieri che se la sono fatta leggere». Dopo il teatrino con Carolina Lunotti molti avevano preso a sfidarla per gioco. «In altre parole, siamo due volte fottuti». Ribatté l’amico di Camus, crollando seduto sulla sedia accanto a quella di Aphrodite, che lo guardò accomodarsi. «É possibile?» Chiese quest’ultimo incuriosito, guardandoti.
«É probabile. È ottima osservatrice e una splendida ascoltatrice, non mi stupirei se avesse trovato questo modo, poi, usa spesso le mani. Potrebbe aver letto la memoria di queste mura solo toccandole. Anche perché poi, l’ho sentita borbottare l’elenco dei Gold Saint che parteciparono alla Guerra Sacra del Millesettecento e qualcos’altro sul Lost Canvas». Rispondesti.
«E se stessimo sbagliando tutto? Se fosse una Gold Saint anche lei?» Ipotizzò Aiolia.
«Una Lost Saint, vorrai dire». Lo corresse Aphrodite. Meditaste un po’ su quest’affermazione.
Death Mask si prese il mento tra pollice e indice. Tu cominciasti a frugare nella tua memoria per verificare le varie possibilità. Fu lo stesso Aiolia a parlare nuovamente. «Non sarebbe così improbabile, l’altra dimensione ne ha uno, perché anche questa non dovrebbe?»   
«Secondo me non può essere una Gold Saint. Riflettete, se così fosse avrebbe già risvegliato il Settimo Senso, sarebbe capace di tenerci testa e mostrare doti affini alle nostre, come la telepatia e la telecinesi, ma non le sa usare, il suo massimo è l’empatia e, riesce soltanto a leggere il passato con la chiromanzia. Inoltre con l’autodifesa e le arti marziali fa altamente schifo, persino per gli standard comuni». Infatti era già tanto che riuscisse a mettere a segno due colpi su venti. Eravate ancora dell’idea che quello che aveva fatto con Aurel fosse solo un grosso colpo di fortuna.
«E quello che è successo qualche settimana prima che la espellessimo?»
«L’ho detto, sa usare la magia».
«Allora chi le ha insegnato la tecnica del Gold Saint di Ophiuchus e la naginata?»
«Può darsi che sia venuta a contatto con qualcuno che l’apprese tempo fa, Odysseus era un Gold Saint e un maestro, non mi sorprenderebbe se saltasse fuori un allievo da qualche parte che le ha tramandate a qualcun altro fino a lei». Riflettesti.
«Probabilmente lo stesso che l’ha aiutata a rigenerarsi dall’ustione». Commentasti poi, aggiungesti. «A proposito di sconosciuti, dell’infiltrato? Non si sa ancora niente di costui?»
«No, sembra essersi volatilizzato». Rispose Shura.
«Sarà il caso di indire un censimento della popolazione, magari non servirà a molto, ma potrebbe aprirci qualche pista».
«Io continuo a propendere per la discendenza di Ilias del Leone o la sua reincarnazione». Disse Milo. Lo guardaste confusi. Non solo perché era la prima volta che gli sentivate proferire un termine simile. Il cicladico vi guardò: «Pensateci. E se quello che abbiamo scambiato per un viaggio astrale fosse la proiezione nel vento di Astrid? Stando ai diari di Sisifo di Sagitter, suo fratello, per insegnargli a tirare con l’arco, fuse il suo Cosmo con il vento e gli fece credere di puntare una freccia alla sua stessa tempia. E poi di scoccarla. Lo stesso Sisifo descrisse le sensazioni di sconcerto che aveva provato e, sono molto simili a quelle che avete sperimentato anche voi di fronte allo spirito di Astrid, quando vi ha riportato lo scettro di Nike. Il fatto che parli con gli animali la rende molto più simile a lui di quanto appaia».
«Ma parla esclusivamente con i serpenti». Obiettò Death Mask.
«Io l’ho vista circondata dai passerotti e i cardellini e ci parlava», lo contraddisse Aphrodite. E, tutti voi lo guardaste esterrefatto. «E, quando l’avresti vista?» Chiese Aiolia.  
«Un paio di giorni fa».
«E per la faccenda dei poteri curativi?» Chiese Ikki, che ancora si ricordava dello scontro nella Sala del Trono.
«Intanto non è detto che sia davvero così. Infatti, sembra riuscire a utilizzarli solo su sé stessa. Io non l’ho mai vista usarli su qualcun altro e, voi?» 
«Potrebbe essere che abbiamo sbagliato completamente Cavaliere e che anche lei abbia equivocato». Buttò lì Shura, che se ne era rimasto zitto fino a quel momento.
«A questo punto chi rimane?»
«Non so, forse qualcuno di un’altra dimensione ancora». Borbottò lo spagnolo, meditabondo.  
«Un altro Paracelsius?» Chiese Shiryu che partecipava alla conversazione via videochat in quanto spedito in missione con Ryuho.
«Forse stavolta è Cagliostro. Ho letto da qualche parte che esistono incantesimi che permettono a una persona di trasferire le proprie ferite alla Terra, può darsi che Astrid e questa persona abbiano eseguito questo rito per rimarginare le sue ferite. In una forma più articolata, sia riuscita anche a liberarsi. Sembra una cazzata ma se la terra può indurirsi allora può anche ammorbidirsi, esattamente come il processo attivato da Astrid per liberarsi della pietrificazione». Poi lo spagnolo tacque guardando perplesso i vostri volti allibiti.
«Non ti facevo così esperto in campo esoterico, Shura». Se ne uscì alla fine Death Mask.  
«Non è merito mio, ho passato del tempo a contatto con Paracelsius in Giappone. Mica mi visitava e basta, parlavamo anche. Ho anche sfogliato qualche manuale di esoterismo per curiosità. Ma le mie conoscenze si fermano qui, il resto sono tutti stereotipi che mi proiettano addosso, tutte quelle cose sull’astrologia e compagnia lì. Non le so mica applicare, io. Non so neanche riconoscere un Gemelli da un Pesci, figuriamoci fare l’oroscopo a qualcuno».
«Hanno di nuovo cercato di farti fare l’oroscopo di qualcuno solo perché sei spagnolo?» Chiedesti al tuo amico. Che, durante gli anni del suo primo soggiorno al Santuario, aveva combattuto spesso questa piaga degli stereotipi. Ma anche Camus ai tempi, con la famosa baguette sotto al braccio che tutti gli affibbiavano dopo aver visto qualche film di bassa lega e di oscena qualità. 
Il corvino si strinse nelle spalle infastidito: «Già». 
«Lamentati, io vengo scambiato per un mafioso due volte su tre». Cercò di consolarlo a modo suo Death Mask. Ovvio poi (ma qui taceste tutti) che il suo caratteraccio non lo aiutava a smentire tale etichettamento. E, da qui divenne una gara a chi era messo peggio.
«Vuoi che ti ripeta che alcune persone quando mi vedono, nonostante tutto fanno ancora gli scongiuri?» Si aggiunse Aiolia. “Io pensavo li facessero per la cucina di tua sorella”. Pensasti. «E Astrid viene spesso assimilata alla principessa Elsa di Frozen per il suo accento, il colore della sua chioma, il pallore e un potere che non controlla. Ma questo adesso non c’interessa, possiamo riprendere il filo del discorso, per piacere?» S’intromise Aphrodite, che, fino a quel momento se ne era rimasto zitto.
«Giusto hai ragione, Aphrodite». 

Milo
La riunione ti aveva scombussolato. Avevate passato ore a disquisire prima di questo e poi di quest’altro. Alla fine avevate deciso che dovevate aumentare la sorveglianza e restare all’erta. Ma più aumentata di così non sapevate neanche più voi cosa inventarvi. Ma quando diavolo si erano addensate le nuvole?
Poi ti ricordasti che era aprile e non ti sorprendesti affatto della volubilità del tempo. Marzo e aprile erano mesi molto simili, anche se era maggio il mese pazzo per eccellenza. Però sapevi benissimo che cosa avresti fatto adesso che rientravi rapidamente nell’Ottava per via della pioggia.
Ti saresti asciugato rapidamente, fatto un bel pranzetto, e ti saresti stravaccato da qualche parte prima di compilare il rapporto sulla missione di Roma che non avevi ancora finito.  
Stavi entrando in cucina quando notasti un movimento con la coda dell’occhio. Girasti la testa da quella parte e vedesti una Sacerdotessa-Guerriero che conoscevi bene: «Neera! Cosa ci fai qui?» Domandasti all’aspirante Sacerdotessa dell’Indiano.
La ragazza, dopo un attimo di esitazione, ti corse incontro e ti gettò le braccia al collo. Tu ci restasti interdetto. «Signor Milo, vi stavo proprio cercando». Esclamò tutta contenta.  
Sgranasti gli occhi stupefatto. Cosa? In altri tempi avresti tirato fuori tutta la tua serietà e le avresti parlato come una qualsiasi sottorango. Forse per l’età ma ti eri molto ammorbidito. Persino nei confronti delle reclute impiccione e invadenti come lei. Invece adesso te ne uscisti con un rapido: «Ehi, ehi, aspetta». Non dicevi no alle belle ragazze, ma di solito le preferivi maggiorenni, ignare civili, preferivi flirtarci al bancone di un bar e al di fuori del Santuario. Non con le Sacerdotesse-Guerrieri e la loro legge della maschera. Non t’interessava legarti a loro in quel senso.
Poi eri talmente abituato alla riservatezza delle tue colleghe che quest’improvvisa espansività di Neera ti destabilizzava.
Non sapevi se fosse per via delle tempeste ormonali o no, ma qualcosa ti disse che fosse meglio non incoraggiarla. Sciogliesti la sua stretta con delicatezza, come se fosse una ragazza normale e non una guerriera. Ma lo sapeva che a te le minorenni non interessavano? E, da quando un’aspirante Sacerdotessa-Guerriero si metteva a girare così liberamente per le Dodici Case? Che il vostro compito principale in momenti di crisi era quello di doganieri? Chi l’aveva fatta passare per non sorbirsi quella rottura necessaria? Non potevate neppure mettere un pedaggio se no chi la sentiva Atena. Continuasti a guardare quella maschera inespressiva decorata di segni blu.
«Lo sa il tuo maestro che sei qui?» Le domandasti. Se Lancelot vi avesse visti avrebbe riempito te di botte, accusandoti di distrarre la sua allieva e lei sarebbe stata punita assai duramente. Accidenti a quella volta che avevi cercato di farla tornare sulla retta via spiegandole che non doveva rifuggire così i suoi allenamenti.
Le eri piaciuto sì tanto che tornava a farti visita ogni volta che poteva.
«No, non lo sa».
«Neera, non dovresti essere così», cercasti la parola adatta, «svogliata. Ti stai addestrando con uno dei Gold Saint, dovresti esserne fiera. Credi forse che il tuo nemico si metterà a servirti tè e pasticcini, forse? Ti ho già fatto questo discorso una volta, non farmelo ripete ancora».
«No, non lo penso, ma vi assicuro che sono molto migliorata da allora».
Le lanciasti un’occhiata scettica. «Se lo dici tu».
«Non vi fidate di me?»
«No».
Ed eri sincero. A causa sua la vostra missione era stata mandata a puttane. Se non fosse stato per intercessione della Dea, sarebbe già stata punita con l’espulsione dal Santuario, oppure ridotta al rango di servitrice. Ma il Cloth dell’Indiano era quello che rappresentava l’officiante, il Gran Sacerdote, per le schiere dei Bronze Saint, assieme a quello della Mensa. E, di questi tempi, avevate bisogno delle vostre forze al completo.
Dopotutto non sapevate da cosa nascessero davvero quelle Creature e a chi obbedissero veramente. Apparentemente ad Astrid, ma chi poteva sapere che non appartenessero a qualcun altro? Un nemico che non avevate ancora affrontato?  «Mi credi scemo?»
Lei cercò di ponderare la questione: «No, io non penso questo...» Ma tu la interrompesti; «Allora come puoi pensare che io creda che tu non venga da me per fuggire dal tuo maestro?» La rimbrottasti. Ci tenevi tantissimo al ruolo di Saint, non era solo un lavoro, un grande onore e un onere o una vocazione, era la vostra ragione di vita. Vivevate per questo. Possibile che questa scapestrata non lo avesse ancora capito?
Lei si rilassò nell’udire queste parole. E come darle torto? In teoria eravate tenuti a giustiziare sul posto qualsiasi intruso in qualsiasi momento. Servitù esclusa, che quella era esonerata dal trattamento di dogana obbligatoria, qualora foste presenti. In caso foste stati assenti, allora scattava il divieto per chiunque di oltrepassare le dodici Case. Anche per questo la Casa del Sagittario era finita in quelle condizioni, prima della promozione di Seiya e dei suoi quattro fratelli. Non era solo per via della scomparsa della vera Gold Cloth di Sagitter.     
«Avete ragione, ma il mio maestro è così…»
Ormai avevi capito che Neera apparteneva alla categoria dei duri per caso, un po’come Seiya e i suoi fratelli. Forse tranne Ikki. E forse anche Astrid, ma nel suo caso sembrava più un irrobustirsi graduale che averci questo dettaglio dalla nascita. La sua e la ricordavi, somigliava molto alla spietatezza degli Dèi. Tanto capaci di atti di grande generosità quanto di efferati delitti. Anche se stavi comunque parlando dei vostri nemici.   
«Non ha mica tutti i torti. Hai rischiato di causare un’altra Guerra Sacra tra le dimensioni e, sta pur certa, che stavolta i talenti di Astrid si sarebbero rivelati inefficaci».
Lei sbuffò come un cavallo. Anche se portava la maschera, riconoscesti quel verso e quella posa infantile con le braccia incrociate.  La posa di una bambina che non vuole sentir nominare la compagna di scuola più antipatica. Non eri un esperto, ma avevi visto anche tu gli ex pretendenti al titolo di Gold Saint dello Scorpione e, uno di loro, ce l’aveva come vizio quello di assumerla quella posa teatrale, durante l’infanzia. «Astrid, Astrid, sempre Astrid. Possibile che non sappiate parlare d’altro voi soldati?»
Ti accigliasti. Cosa voleva insinuare? Che vi stesse spiando? «Che cosa intendi?» Chissà che magari non potevi cavarle qualcosa di bocca.
«Voglio dire che sento continuamente parlare il mio maestro di lei. Non la sopporto più».
«Non sopporti che lei vi abbia salvato la vita». La correggesti. Avevi letto anche tu il rapporto di Aiolia, una volta che la biblioteca aveva potuto rilasciartelo. Stranamente Aiolia, che non si ricordava quasi mai per tempo di redigere quei rapporti, stavolta l’aveva compilato a tempo di record. L’ultima volta che accadde fu dopo il suo primo scontro con Seiya.
«Anche. Ma dico io, non è suo dovere! Lei non c’entra niente con questa storia, che cosa ci fa ancora qui?»
«Lo sai cosa ci fa qui, lei ci serve». Le ricordasti. Anche se, dal canto tuo, eri d’accordo con l’apprendista di Lancelot.
«Non è vero! Lei non serve a niente! Niente!»
«Adesso datti una calmata, è pur sempre con un Gold Saint che stai parlando». L’ammonisti.
«Scusate». Sussurrò.
«Non devi preoccuparti per Astrid, non potrà mai essere una Saint nemmeno volendolo. Lei è diversa da quelli come noi. Ma se vuoi essere forte, veramente forte, allora ricordati di bruciare il tuo Cosmo più che puoi». Le consigliasti. «Adesso torna giù».
«Sotto la pioggia?»
«Quando finisce».
«Grazie, signor Milo». Poi si avviò verso l’uscio. L’accompagnasti con lo sguardo. A un tratto si volse e domandò: «Mi fate gli auguri?»
«Per cosa? É il tuo compleanno?» Chiedesti perplesso. Lei proruppe in una risatina divertita: «No, quello è a maggio! La conquista della Cloth dell’Indiano!» 
«Ah, auguri».
«Grazie, nobile Milo!» Trillò tutta contenta prima di avviarsi a passo svelto verso l’uscio della tua Casa. Ma che cosa ci faceva nella tua Casa? E se per caso non stesse provandoci con voi come avevate sempre pensato? Non sarebbe stata la prima, da che eravate entrati nell’età della pubertà avevate ricevuto molti sguardi e dichiarazioni da persone d’ambo i sessi. Tu personalmente avevi preferito le donne, Camus invece non disdegnava anche gli uomini. Shura non era interessato a rivelare a te i dettagli della sua sfera privata, Aiolia era etero ma non aveva mai mostrato qualche interesse particolare per qualcuno. Death Mask era etero, Saga era bisex come Kanon, Aldebaran (sorpresa) era etero (ma a causa del carattere timido e della sua mole aveva sempre più intimorito che attratto) e degli altri non avevi idea. Aphrodite, vabbé a lui piaceva solo sé stesso.
Ti recasti nella tua stanza e ti accomodasti alla scrivania. Prendesti un foglio e una penna e cercasti di buttare giù la solita lettera settimanale per Camus. Da quando il Santuario era stato ricostruito, Shun, o meglio Hades, era giunto da te e ti aveva sottoposto una richiesta che ti aveva lasciato di stucco.
«Voglio che tu scriva delle lettere».
«Se accetto, potrei sapere a chi indirizzarle, se posso chiedere?» Anche se era un vostro ex nemico non potevi certo mancargli di rispetto. «Al tuo amico Camus».  A quel punto avevi sgranato gli occhi: tutto ti potevi aspettare fuorché questa richiesta. «Almeno una volta al mese mi reco al cimitero e parlo con la sua lapide, so che le mie parole lo possono raggiungere, ma perché devo scrivergli?»
«Ci sono dei tumulti agli Inferi e la mia sacerdotessa non riesce a placarli, devo sapere cosa succede nel mio regno».
«Tumulti?»
«É una cosa che tu non puoi capire, ti basti solo sapere che ho bisogno che tu scriva al tuo amico».
«Ammettiamo possa farlo, come posso far sì che le mie lettere lo raggiungano?»
«I corvi si occuperanno di portare le tue lettere allo Specter guardiano del Cocito, lui si occuperà di recapitarla al tuo amico». Spiegò il Dio enigmatico. Corvi? In seguito Jamian ti aveva spiegato che erano esseri strettamente collegati ai due mondi, effettivamente capaci di attraversare il Velo che li separava. «Controlla i Corvi, controllerai anche l’Altro Mondo». Aveva concluso il Silver Saint. Fino a quel momento non avresti mai detto che il suo potere fosse ancora più esteso di quanto pensassi.  
«Perché lo state chiedendo a me?»
«Non ha importanza, voglio solo che tu lo faccia, se ci sono problemi nel mio territorio devo saperlo, se le truppe senza controllo di Ares o qualcun altro hanno preso il sopravvento devo saperlo. Consideralo un favore anche nei confronti del Santuario. Chi controlla gli Inferi ha potere sulla vita e sulla morte. Potrebbero tornare in vita anime, mostri, nemici con cui non vorreste mai avere a che fare. Il mio regno è praticamente l’ultima roccaforte divina».
«Credevamo di essere noi, l’ultima roccaforte». Mormorasti poco convinto.
«Vi sbagliate; siamo noi, che proteggiamo anche voi». Ti corresse il Dio sporgendosi verso di te.
«Ma se siamo sempre stati in guerra tra di noi». Rilevasti.
Le labbra del Dio si aprirono in un sorriso affilato: «Prendersi una vendetta o una meritata rivincita non significa essere in guerra, siete voi, che la vedete sempre come una Guerra Santa. Allora, lo farai?»
«Perché non lo chiedete a Pandora?»
Il suo volto si accartocciò in una smorfia di disgusto: «A quell’ incapace traditrice? É già tanto che l’abbia resuscitata e reinsediata al suo posto originario. E credimi se ti dico che non l’ho certo fatto per generosità». Per un’anima triste e tormentata come quella di Pandora, come ti raccontò Ikki, quella era la peggiore delle torture. Comprendesti fino a che punto il Dio dell’Oltretomba fosse sadico e malvagio.
«Vedrò cosa posso fare».
«Se accetti non dovrai fare altro che portare le lettere alla tomba di Camus nelle notti di luna crescente, di un quarto di luna e luna piena, mai in fase decrescente, chiaro?»
«Ho capito». Non stava a te porre domande, anche se non potesti fare a meno di portele. Ma, se queste vite e, i vari miti che avevi studiato, ti avevano insegnato qualcosa, era meglio non trasgredire il volere delle Divinità. «E, dovrai riportarmi solo i pezzi che riguardano il mio Regno, il resto tenetevelo pure per voi». Finì d’istruirti il Dio prima di darti le spalle e uscire dalla tua Casa per fare ritorno alla Sesta.
Avevi chiesto consiglio a Kanon il giorno stesso. Il responso della Dea, che ti aveva ricevuto insieme a Kanon, era stato di assecondare le richieste del Dio. «Se ci sono problemi negli Inferi dobbiamo saperlo». Aveva decretato. Non che la Dea fosse paranoica, ma non si poteva mai sapere, soprattutto con l’arrivo degli ambasciatori di Poseidone. Purtroppo lei stessa ricordava fin troppo bene della Guerra con il Santuario di Atlantide. Ma a ricordarlo ancora meglio era Kanon, il quale si raccomandò con te con queste parole: «Mi raccomando, Milo. Massima segretezza».
Poseidone restava comunque un Dio estremamente vendicativo, avrebbe colto al volo qualsiasi occasione per mettervi i bastoni tra le ruote. Soprattutto a Kanon, che non aveva dimenticato di come si era approfittato di lui per cercare di conquistare il potere. E, sapevate tutti quanto sapevano essere pazienti certi Dèi, pur di avere la loro tanto agognata vendetta.   
Così era iniziata la vostra fitta corrispondenza. Rispettando sempre e comunque il volere del Dio.
Chi l’avrebbe mai detto che Il Milione di Marco Polo ti sarebbe tornato utile, adesso?  Anche se non sembrava, gli scritti del mercante veneziano erano ricchi di spunti per nascondere le tue missive. In punti che neppure i tuoi servi avrebbero mai immaginato, ma comunque ben in vista.
Un po’ come facevano i custodi della Prima Casa, che a tenere i segreti non c’era nessuno migliore di loro.
Sapevi che nel Santuario esistevano menti molto brillanti, ma non al punto da sospettare che tu, tipo trasparente e focoso com’eri, celassi dei segreti. Forse l’unica persona che si sarebbe potuto accorgere di ciò era Death Mask, dal momento che era molto legato agli Inferi per definizione.
Anche lui, effettivamente aveva riportato notizie alquanto preoccupanti dal Regno dei Morti. Non solo riguardanti le Creature, ma anche sull’avvistamento di Angeli di Lucifero e demoni appartenenti ad altre schiere ancora. “Cosa sta succedendo nell’Aldilà?” Pensasti preoccupato mettendo il foglio ancora intonso da parte.    

Mur

«Dunque i poteri di questa ragazza si stanno rivelando a mano a mano, interessante».
«Sì, mia Signora». Ripetesti inginocchiato di fronte al trono dove Tomoe stava assisa.  Da quando si era conclusa la Guerra contro Zeus e si era resa conto della vera identità del suo Antipapa, l’aveva purificato e aveva eletto a suo sostituto momentaneo Alice.
«Mia Signora, considerate forse che costei possa essere un’arma?»
«No, mio Cavaliere, non abbiamo nulla da temere da parte sua». Ti venne quasi da chiederti se anche in questo universo ci fosse un’altra Astrid e se fosse anche solo vagamente simile alla ragazza che conoscevi.
Anche se avevi comunque timore che la Divina Tomoe decidesse di studiare a sua volta Astrid. Non volevi che la tua giovane amica finisse anche tra le grinfie della tua Dea.
«Piuttosto, Lancelot ha ripagato il suo debito?» Chiese Tomoe.
«Non ancora, Signora, non c’è stata occasione».
La Dea sospirò. «Dopo due Guerre Sacre ancora niente? Eppure credevo che ce l’avesse fatta».
«Non è così facile, mia Signora. Ripagare un debito contratto con Shura di Capricorn è molto difficile, soprattutto se consiste nel restituirgli un favore fattogli durante la Guerra Sacra contro il Gran Dio Zeus».
«Già, il favore di lasciarlo in vita, per Lancelot non sarà mai abbastanza, temo». Sospirò la tua giovane signora. Anche se spietata soffriva per la mancanza di uno dei suoi Cavalieri nel suo Santuario.

Rientrare alla dimensione del tuo allievo ti faceva sempre uno strano effetto, come entrare in una stanza con le finestre aperte dopo essere stato in una che aveva le finestre chiuse. Il problema era che a causa dei portali c’era sempre corrente e un piccolo spiffero fastidioso che non si riusciva mai a tappare per davvero.
Il discorso della biston betularia, però, ti era rimasto impresso. Tu non eri una farfalla, eppure le tematiche che con quella semplice conversazione aveva sollevato erano importanti. Anche tu avevi subito il peso della discriminazione, uscendo dallo Jamir. Soprattutto quando un giorno che pedalavi per le strade di una città europea ti eri sentito fischiare dietro da un gruppetto di adolescenti ed eri stato appellato in un modo che avresti preferito dimenticare. Se tu fossi stato più come Death Mask, probabilmente avresti fatto leva sulla telecinesi e li avresti appesi come minimo a un lampione. Ma tu eri superiore a questo e non gli avevi dato la soddisfazione di mostrarti ferito. Né, avevi assecondato il loro desiderio intrinseco di violenza. E sapevi che lo era, altrimenti quella lattina non te l’avrebbero mai scagliata addosso e non avrebbero mai riso.
Sì che per voi stranieri non era facile, con la scusa dei disordini sociali e del terrorismo e dell’immigrazione molti razzisti erano tornati allo scoperto. Professandosi sotto i nomi di partiti di matrice democratica e liberali. Invece non solo si rivelavano essere ultra conservatori e bigotti in una maniera che faceva impallidire il Santuario, ma addirittura, alcuni fanatici arrivavano a uccidere.
In quei momenti avevi pietà per quegli ignari civili che proteggevate da ogni cosa. Potevate intraprendere tutte le missioni umanitarie che volevate, questo non sarebbe mai cambiato. Il razzismo tra popoli sarebbe sempre esistito. Riconvertito sotto altre forme, ma sempre era esistito e sempre esisterà.
Per la prima volta avevi capito appieno il discorso di Astrid. Tu, ogni straniero in terra straniera, era la biston betularia nera in mezzo alle betulle bianche. Ciò che mandava all’aria la mentalità ristretta dell’ottusa vite che fa funzionare il sistema e che ha bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare.
Tu eri un Cavaliere d’Oro, queste cose le sentivi, anche se preferivi vivere di eremitaggio. Le sentivi da quando da bambino fosti investito della tua carica. Pochi ce l’avevano avuta con te per via delle tue origini. Più che altro la loro invidia nasceva dal tuo aspetto pacioso e dalle tue abilità non per la tua cultura.
Più difficile di ogni altra cosa per te fu imporre la tua autorità sul Bronze Saint dello Scultore che era l’assistente personale e il portatore dei tuoi attrezzi da armaiolo in tempo di pace. Il compito principale del Bronze Saint dello Scultore era sostituire il Cavaliere d’Ariete in caso di necessità, almeno nella mansione di riparatore, non solo custodire gli attrezzi.

Mentre tornavi alla Prima Casa deviasti verso il boschetto di ulivi. Non sapevi neppure tu perché, forse avevi soltanto voglia di cambiare tragitto.
Ti stavi godendo la passeggiata quando sentisti una voce famigliare e ti avvicinasti. Trovasti Astrid sotto i rami frondosi degli ulivi seduta sull’erba con un blocco di fogli in mano, in compagnia di quattro ragazzini di quindici anni. Anch’essi armati di block notes e penna che l’ascoltavano attentamente. 
Non sapevi che la giovane chiromante fosse anche un’insegnante.
«Ci siete? Se non avete capito qualcosa ditemelo, mica vi mangio. Allora elevate undici quarti alla seconda e... Oh, buongiorno, Mur, qual buon vento?» Ti salutò la giovane, quando seguì gli occhi dei ragazzini che, salutandoti reverenziali, si erano inginocchiati. La giovane tuffò il suo sguardo nelle tue iridi color malachite. «Sono appena tornato dal solito rapporto per la divina Tomoe». Parlaste con famigliarità, sorprendendo non poco i giovani seduti in cerchio sulla tovaglia attorno a lei.
«Hai avuto problemi durante il viaggio?» Domandò Astrid.
«No, tranquilla. Piuttosto, che cosa state facendo?» Domandasti interessato, notando il piccolo semicerchio attorno all’amica del tuo allievo.
E i ragazzini risposero: «La signorina av Stjernene ci sta dando ripetizioni di algebra». Rispose entusiasta una bambina poco più grande di Raki che indossava una maschera d’argento in volto. Non avrà avuto più di quindici anni.  
«Vedo che vi piace».
«Molto». Replicò la ragazzina e anche i suoi amici confermarono, facendo arrossire divertita Astrid. «A me sembra quasi di essere davvero nell’Antica Grecia, o in Egitto, non ho ancora capito bene».
«Perché?»
«Perché a volte ho l’impressione di essere una degli Stoici, i filosofi che tenevano lezione nei loggiati e i corridoi, altre, invece, mi sento quasi alla stregua di uno scriba egiziano». 
Curvasti le labbra in un sorrisetto divertito.
«Bè, faccio del mio meglio per attirare la loro attenzione, anche se devo ammettere di non essere ancora bravissima».
«Io trovo che tu ti sappia esprimere benissimo».
«Mh, non è ancora sufficiente per i miei gusti».
«E quando lo sarà?»
«Quando riuscirò a tenere una conversazione ancora più profonda con qualcuno».
«A me sembra che tu ne abbia già avuta una. Non vi dispiace se resto ad assistere, vero?»
«No, certo che no, anzi, mi farebbe comodo avere un assistente che mi aiuti con le traduzioni».
«Farò del mio meglio». Non eri un esperto quando si trattava di esprimerti in gergo diverso da quello che conoscevi. Anzi, era la prima volta dopo anni che non parlavi più di matematica.  
A fine lezione, i ragazzi pagarono e salutarono. «Sei veramente appassionata».
«Dovresti vedermi con Paradox, allora». Sorrise lei mentre contava i soldi.
«Paradox?» Ripetesti confuso.
«Le sto dando una mano a controllare i suoi poteri precognitivi».  Spiegò senza guardarti mentre intascava i soldi e guardava l’orario sul telefono. «Ora devo andare, scusa, ma stanno rientrando gli altri e ho un margine di tempo limitato, ciao, Mur». Ti salutò ficcando rapidamente le sue cose in uno zainetto e corse via.
Ti sembrava strano che Kanon le avesse concesso il permesso per uscire.
Scuotesti il capo e tornasti alla tua Casa, dove trovasti un sovrappensiero Kiki. «Cosa ti è successo?» Domandasti al tuo allievo. «Ti vedo pensieroso, qualcosa non va?»
Il tuo allievo ti osservò con occhi tormentati. «Maestro…» Non l’avevi mai visto così in tutta la tua vita e ti angosciasti. Il tuo ex allievo non era il tipo che si angoscia o si deprime, non così. Era come se sulle sue spalle fosse stato deposto un fardello ancora più grande di quello che già doveva sopportare.  
«Cosa hai?»
«Niente di cui preoccuparsi, soltanto un momento di debolezza». Mentì riassumendo la sua espressione flemmatica. Ma a te non erano sfuggiti i suoi occhi arrossati e la sua agitazione. Per quanto non le mostrasse più come prima, le sue emozioni erano più che evidenti. 
«Che cosa è accaduto?» Ripetesti. Di solito non t’immischiavi nelle faccende delle persone, a meno che non le ritenessi importanti e questa lo era. Non eri stupido, anche se avevi mantenuto l’aspetto di un giovane adulto, lo conoscevi troppo bene per non leggergli dentro. «Non è successo niente».
«É da quando hai organizzato il torneo di assegnazione delle Armature che sei strano, che cosa ti succede?»
Lui ti guardò esausto. «Maestro, mi dispiace, ultimamente mi sento stanco, credo che siano gli affari del Santuario, vi è mai capitato?»
«Comprendo, ma non è da te questo comportamento. Riposati un po’ e vedrai che andrà meglio». Lui ti sorrise a mo di ringraziamento e poi lo lasciasti da solo.

Camus
Il Cocito non era poi così diverso dalla tua più famigliare Siberia. Anche qui c’erano il ghiaccio, la neve e il vento che ululava. La differenza era che il cielo infero era sempre scuro. Come se questo mondo fosse avvolto nel perenne abbraccio della notte. Qualche volta la temperatura si alzava un poco. Una specie di accenno di primavera, che subito si ritraeva come una bimba ricatturata dalle braccia della madre. All’inverno eri abituato ma cominciavano a mancarti i colori delle altre stagioni. Il grigio delle anime scarnificate, l’azzurro sporco del Cocito e il nero soprastante non ti bastavano più. Per questo avevi deciso di darti alla floricoltura, entro i tuoi limiti. Era quanto di più simile a preservare la vita potevi sperare di ottenere in un posto così. Un vivo in mezzo ai morti. Adesso Orpheo della Lyra lo capivi. Gli unici fiori che avevi erano bucaneve e ciclamini e qualche margherita che ti coltivavi da solo. Fiori che, in un attacco di nostalgia, avevi chiesto al tuo collega Specter di recapitarti dal mondo dei Vivi. Se ti fosse stato possibile avresti voluto farlo tu, ma non potevi.
Lo Specter aveva ceduto dopo un’estenuante contrattazione e, fumigando di rabbia era andato e tornato con quanto richiesto. «Sei contento, adesso?» Ti ringhiò quando te li schiaffò in mano. 
Ma a differenza dell’altra i colori non sarebbero svaniti mai più. Milo ti scriveva continuamente e, a volte, ti mandava anche delle fotografie scattate con una polaroid. Tu ne avevi fatto un album, così non avresti scordato mai più i colori. Quei colori che, nel tuo sonno mortifero, avevi rischiato quasi di dimenticare.
Vivevi qui, ormai da due anni. Eri la persona più adatta. Ma a che prezzo? Avevi dovuto rinunciare alla luce del Sole, a vedere il tuo allievo, che consideravi come un figlio e la tua dolce nipotina. Ma, per Atena, questo e altro. 
All’inizio non era stato facile, ma ti eri abituato. Ti eri costruito un’izba, un po’con il tuo Cosmo, un po’ con i materiali che gli Skeleton ti fornivano. Quei burattini senz’anima armati di falce rispondevano a chiunque avesse un Cosmo superiore. Non importava se poi il superiore era uno Specter o no, la loro unica funzione era obbedire. Perciò, quando ordinasti loro di portarti della legna e il necessario per costruirti un’izba, tornarono con legna, pietra, cemento e quant’altro.
Avresti potuto chiedere al Signore degli Inferi, ma non ne avevi voglia. E poi, avevi già altri problemi, tipo Valentine dell’Arpia, che ti ricordava tanto Rhadamantys. Solo la versione più stronza e arrogante dell'originale Specter della Viverna.
Ma alla fine eri riuscito a completare la tua abitazione. Forse era appena un po’ più grande di quella che avevi in Siberia e, avevi ripreso la tua solita vita, però, stavolta, in qualità di Guardiano delle anime imprigionate lì, assieme allo Specter dell’Arpia.
Ti faceva ancora effetto, pensare che voi tredici eravate stati imprigionati in quelle lande ghiacciate, che, con le nevi e il gelo della tua amata Siberia, non avevano niente in comune. Anzi, i ghiacci siberiani, in confronto, erano più caldi e più accoglienti di quelle nevi atte a intrappolare e dilaniare i defunti.
A differenza di Milo, però, non ti ricordavi affatto cosa si provasse a tornare alla vita. E, stando a lui era molto meglio così. Sentisti un paio di nocche bussare alla porta: «Ehi, di casa, fammi entrare!» Esordì la voce dello Specter dell’Arpia.
Mettesti il libro da parte e andasti ad aprire.
«Era ora!» Fece quello sulla soglia. Anche se apparentemente sembrava abituato al freddo, in realtà non era così. Ormai avevi imparato a conoscerlo oltre la Surplice. Surplice che non gli avevi mai e poi mai visto togliere. Il fatto che le Armate di Hades la indossassero comunque e sempre faceva sorgere anche a te numerosi interrogativi. In primis sul loro reale aspetto, bis come facessero ad andare al bagno? Se le toglievano o no? Certo, erano domande stupide che poteva porre un ragazzino, però era anche vero che ne eri veramente incuriosito. 
All’inizio Valentine aveva fatto di tutto per infastidirti. Ti aveva regalato frecciatine e commenti acidi ma tu gli avevi contrapposto la stessa strategia che usavi con Milo: il silenzio. Ciò era bastato per farlo zittire, anche se dopo un po’.
Il massimo che facevi era preparare il pranzo per tutti e due. Forse Valentine ti considerava alla stregua del maggiordomo, però in cuor suo sapeva bene che non doveva provocarti: eri pur sempre un Signore delle Energie Fredde. Perciò si limitava a mangiare in silenzio la zuppa che preparavi con ciò che ti portava.
Stando ai patti tra la Somma Atena e Hades, voi Cavalieri d’Oro che abitavate nell’Altro Mondo, dovevate consumare cibo del Mondo dei Vivi, non del Mondo dei Morti. Se ripensavi alla nascita del tuo strano rapporto con Valentine un sorriso divertito prendeva possesso della tua bocca.
Tutto era partito perché ti era sembrato un po’ affamato e, per pietà, gli avevi offerto un tozzo di pane. A un tratto, forse per fame e forse per vederti levare le tende, aveva accettato e aveva mangiato.
Da lì, piano piano, si era istaurata quell’amicizia basata sugli alimenti. E, con il tempo aveva cominciato a frequentare la tua izba. In un certo senso era stato come conquistarsi l’affetto di un cane selvatico. Che però beveva vodka e altri alcolici che ti portava lui stesso direttamente dal mondo dei Vivi. «Camus, te l’avrò detto almeno cento volte che questa sbobba è insipida!» Si lamentò dopo essersi ficcato una cucchiaiata di minestra in bocca e averla inghiottita a fatica, forse per non offenderti.
«E io ti ho già detto almeno cento volte che se ci vuoi le verdure te le devi aggiungere dopo».  Secondo lui la tua “sbobba” sarebbe stata più saporita se ci avessi infilato qualche verdura ogni tanto. Inoltre odiava fare avanti e indietro tra il Mondo dei Vivi e il Regno dei Morti per farti la spesa. Sapevi che nella sua vita precedente fu un fedele servitore di Rhadamantys e che quest’ultimo, piuttosto che tradire Pandora, preferì ucciderlo. A volte ti domandavi se sentisse ancora in sé questa ferita o se invece no. Lo Specter dell’Arpia non sembrava farci caso, anzi, sembrava piuttosto tranquillo. Forse aveva provato qualcosa di molto simile a quello che doveva aver sentito Milo quando ti rivide tornare al Santuario con indosso la Surplice dell’Acquario.
«Hai avuto problemi?»
«No, tutto a posto».
«A proposito del mondo dei Vivi, che notizie mi porti? Sono settimane che Milo non mi scrive».
Non era da te preoccuparsi a questo modo, ma lo eri. Non amavi esternarlo perché non ti fidavi più di tanto.
Valentine ti scoccò un’occhiata infastidita: «Certo che ti ha scritto. Ecco qui». E ti passò un plico di lettere da far impallidire un modulo delle tasse. «Accidenti, quante sono?» Mormorasti mentre le prendevi dalle sue mani.
«A occhio e croce sedici e tutte da tre fogli, ne ha scritte di robe in questo periodo, eh?»
«E io che credevo che fosse andato avanti…» Mormorasti. L’ultima l’avevi ricevuta per il tuo compleanno, il sette di febbraio. Cosa aveva spinto Milo a scriverti così assiduamente?
«É successo qualcosa o il tuo amico sente la tua mancanza, ultimamente?» Ti chiese il tuo ospite notando la mole. «Non ne ho idea». Rispondesti. La fronte aggrottata.
Non eri tenuto a rivelargli i problemi del tuo Santuario. Ed eri più che sicuro che non avesse un bollitore a disposizione per leggere la tua posta senza aprirla. Forse l’unico barlume di lealtà e umanità che poteva aver conservato. Apristi la prima e cominciasti la lettura.
«Ci sono problemi?»
«Sembrerebbe di sì, pare che la custode della Luce Ombrosa sia tornata al Santuario». Rispondesti. Anche lui sapeva di quello che succedeva. Stando ai patti eravate tenuti a far circolare le informazioni. «Ancora con questa Luce Ombrosa?»
«Così sembrerebbe».
«Tu non ti sei fatto nessuna idea in proposito?» Ti chiese lo Specter, il gomito appoggiato sul tavolo.
«Qualcuna, ma sono più che altro ipotesi.» che ti annotavi su un’agenda che usavi come registro personale. Retaggio di quel che fu della vostra vita. Non sapevi se anche gli Specter adottassero lo stesso sistema. Le uniche tracce della loro organizzazione risalivano al Millesettecento, con la Guerra Sacra. Ed erano i diari personali del venerabile Shion. Quanto al resto non sapevate neanche se avessero continuato o meno ad aggiornare l’archivio. Se c’era una cosa di cui eri più che certo, era che gli Specter erano gelosissimi dei loro segreti. Soprattutto dall’invasione dell’Atena del Millesettecento. Sapevi che l’archivio era gestito da Rune di Barlog, che adesso era riciclato a giudice dei trapassati. «Come per le Creature». Oh, sì, anche gli Specter avevano lo stesso problema. Ma, non si era manifestata alcuna Luce Ombrosa tra di voi. Questo era problematico.
«Rune non ha ancora accettato la mia richiesta di visionare gli archivi?»
«Non l’accetterà mai, in quanto tu sei un Cavaliere d’Atena». 
«Ma ho mandato te a sottoporgliela».
«Parlando francamente, non l’accetta perché mi considera corrotto». Se non sputò fisicamente, lo fece mentalmente. «Come se bastasse poco per corrompervi».
«Possibile che non capisca che qui c’è in ballo anche la vostra vita?»
Valentine scoppiò a ridere. «A noi non importa niente dei nostri compagni. Qui si lotta per sopravvivere perché tutto, compreso gli amici e i fratelli possono ammazzarti; persino io potrei toglierti la vita».
«Certo, ma dopo chi li sente la Somma Pandora e il Sommo Hades se infrangi il Trattato di Pace. Senza contare la mia zuppa, non mi ricordo di averti mai dato la ricetta». E lui smaniava per averla. Fintanto che non gliela davi potevi ritenerti al sicuro. Le sue minacce non ti facevano né caldo né freddo. Lo Specter tornò a cuccia guardandoti storto. Odiava che tu glielo ricordassi. «Rune non scuce nulla neanche a te?» Chiedesti per riprendere il filo del discorso.
«Già; è molto geloso del suo sapere».
«Bisognerebbe convincerlo a vuotare il sacco».
«Cosa intendi, Cavaliere?» Domandò accigliandosi.
«Dici che se facciamo una protesta sarà costretto ad accontentarci?» Avevate provato tutto, persino tentare di appellarvi alla Somma Pandora, ma lei aveva ben poca voce in capitolo. Molti Specter, tra cui proprio Rune, la consideravano ancora una traditrice, benché reinsediata al suo antico ruolo di comandante delle schiere infere. «Vuoi giocare con il fuoco, Camus».
«É possibile».
«Lo sai che va contro il Trattato di Pace».
«No, se non sono io a comandare le schiere che chiederanno udienza a Balron e se, non alzeranno un dito su di lui. Dimmi, hai mai sentito parlare della resistenza passiva?»
«No».
«Bene, te lo spiego io». Ringraziasti il connazionale di Shaka per averti suggerito questa fantastica idea per tutto il tempo. «Che garanzie hai che funzionerà?» Domandò a fine spiegazione.
«La garanzia che, persino un governo come questo non può restare indifferente di fronte ai crimini e, se non erro, mi pare che Pandora tenga molto alle schiere del suo Signore». Qualcosa avevi imparato da quelle famose dodici ore di servizio sotto il suo comando. Come avevi imparato a interpretare le persone da Milo. Non eri così bravo come lui, ma sapevate ascoltare e, come Milo riusciva a comprendere le persone parlandoci e combattendoci, tu eri abbastanza sveglio da conoscerle. Come sapevi che Hyoga soffriva ancora del Complesso di Edipo.
Pandora sarebbe stata sufficientemente misericordiosa da prolungarvi veramente la vita, quella volta. Ma la fedeltà ad Atena aveva avuto la meglio. Adesso era anche per Atena che avevi deciso di intraprendere questa strada, coinvolgendo gli Specter. Dopo aver visto il disastro che era avvenuto a seguito della scomparsa dei domini Inferi, avevi capito che avevate sbagliato tutto. 

Avevi rispolverato la tua Armatura e l’avevi indossata. Aveva perduto la sua forma divina, ma restava comunque la fiera, splendida Armatura dell’Acquario.  Dopotutto stavi per presentarti di fronte a un’autorità, non potevi andarci in abiti civili.
Appena uscisti di casa Valentine fece una smorfia di disgusto, però, quando gli chiedesti di scortarti al Palazzo degli Inferi ti accontentò. Senza, ovviamente, mutare il suo cipiglio.  
Rivedere il Palazzo della Giudecca ti fece venire un groppo in gola. Ricordavi perfettamente che il muro che conduceva ai Campi Elisi era proprio lì dentro. E, ricordavi ancora di come avevi perso la vita assieme ai tuoi compagni per permettere a Seiya e gli altri di raggiungere Atena. 
Speravi di incontrarci la rappresentate terrena di Hades, invece, quale fu la tua sorpresa quando vedesti un lemuriano abbigliato con un cloth nera in tutto e per tutto identica a quella dell’Altare.
«Voi chi siete?» Domandasti.
L’altro sogghignò beffardo: «Io sono il Black Saint dell’Altare, don Avido, per servirvi». Facesti un passo indietro e assumesti una posa difensiva. Avevi sentito parlare di lui, nel millesettecento lui e la sua ghenga infestavano Venezia. Erano famosi per aver corrotto la nobiltà veneziana e per la sete di denaro e potere del Black Saint dell’Altare.
«Impossibile, tu dovresti essere morto!» Esclamasti.
«E lo ero, intrappolato nel girone degli avidi, ma con la distruzione del Regno dei Morti per opera della vostra Dea sono riuscito a radunare i miei vecchi seguaci, il resto puoi vederlo da te, quando il signore degli Inferi ha ricreato i suoi domini».
«Quindi è questo che sta succedendo, stai usando gli Inferi come terreno per i tuoi esperimenti».
L’uomo si appoggiò allo schienale del trono che una volta fu di Hades e accavallò le gambe. Poi si portò alle labbra un sigaro che prima non avevi notato e fece un tiro.
Quando parlò, il fumo uscì dalla sua bocca, avvolgendo la sua faccia, in tutto e per tutto simile ai ritratti del predecessore di Shion che avevi visto durante la tua formazione. Ma, su quell’uomo, dette l’impressione di un teschio ghignante avvolto dalle volute del sigaro.
Ma allora con chi avevate stretto questo patto? Come avevate fatto a non accorgervi di niente?
«Che ne è stato di Hades? Dov’è Lady Pandora?» Chiedesti.
«Chi? La ragazzetta che c’era prima? Boh? Immagino sia tornata nel Regno dei Vivi, o che sia nascosta da qualche parte negli Inferi, ma sta pur tranquillo che appena la trovo...» E scoppiò a ridere, di una risata che ti fece accapponare la pelle.

Scendeste rapidamente la scalinata della Giudecca. Don Avido vi aveva lasciati andare. Era talmente sicuro dello strapotere acquisito da non avere paura neppure di te. Al punto che per lui non valeva neppure la pena ammazzarti seduta stante. Evidentemente non gli era bastato affrontare i vostri predecessori nella vita precedente. Di norma non t’importava niente, come non ti importava niente, eri cresciuto con i valori del Santuario e se qualcuno ti diceva che il Santuario diceva qualcosa allora era legge. Ma questo non era il tuo Santuario, Don Avido stava peggiorando la situazione all’Inferno. Come se non bastasse, le anime dei morti e i morti stessi erano immuni alle Creature. Che fine avevano fatto tutti gli altri? Perché gli altri Specter permettevano tutto ciò?
«Sei contento adesso?» Ti domandò il tuo collega, mentre facevate ritorno al Cocito.
«Che è successo agli Inferi?»
«Quello che hai visto».
«E Lady Pandora?»
«Lei non vive più in queste zone da anni».
«Ma allora con chi abbiamo stretto il patto?»
«Con il nostro signore, naturalmente, il Divino Hades». Spiegò lo Specter.
«Allora dove sta la sua rappresentate?»
«Nella fetta di territorio che è riuscita a riconquistarsi».
«Riconquistarsi?»
«Esattamente. Oh, vedo che non lo sai, ma bene». Così, compiaciuto, ti raccontò la situazione in cui vertevano gli Inferi. Da quando il Divino Hades era stato salvato e ospitato nel corpo di Shun di Virgo, Lady Pandora aveva combattuto una guerra contro i Black Saint delle generazioni passate che, ormai liberi avevano invaso gli Inferi. Purtroppo la situazione si era risolta con una guerra che aveva coinvolto le due fazioni. Alcuni Specter nel corso degli anni avevano cambiato bandiera e altri avevano tradito, mentre gli Dèi gemelli restavano di guardia all’Elisio, totalmente indifferenti agli avvenimenti al di là del Muro del Lamento. 
Lady Pandora era riuscita a insediare il proprio dominio e di quello del Dio nella zona originale dell’Averno. Anche e, soprattutto grazie, alle tribù celtiche e le loro sacerdotesse, i druidi e i vari sacerdoti di Hades che si susseguirono nel corso della storia. Per non parlare delle numerose streghe ed eretici desiderosi di vendetta. Non che prima gli Inferi fossero un luogo ameno, però gli Specter erano decisamente più tolleranti e non usavano le anime per potenziarsi, come invece facevano i Black Saint di don Avido. Inoltre li proteggevano davvero, mentre, tra atroci tormenti e sofferenze si purificavano. «Proteggevate le anime?» Chiedesti sorpreso.
«Certo, come pensi che le vostre anime siano potute sopravvivere all’Aldilà senza il nostro aiuto, prima che il Divino Hades vi riportasse in vita?» Spiegò Valentine che, godeva come un matto nel vederti tanto stupito. «Il compito degli Specter non è tanto quello di farvi la guerra, quanto piuttosto di riuscire a mandare avanti il ciclo della Vita e della Morte. Non fare quella faccia, hai dimenticato che è grazie a noi che la ruota gira e che voi rinascete? Certo, non fosse stato per Atena a quest’ora non ci sarebbero tutti questi problemi; ma sai com’è, si fa quel che si può».
«Ma da cosa proteggevate i morti?»
«Dagli altri regni dell’Aldilà; cosa? Non dirmi che non sapevate neanche questo? Oh, adesso sì che le ho proprio sentite tutte».
«Noi dove ci troviamo?»
«In una delle ultime zone sotto al controllo del divino Hades».
«Il Cocito è sotto il controllo di Hades».
«Sì».
«Ma con le Creature come fate a proteggere le anime?»
«Possiamo contare sull’aiuto di validi elementi». Rispose tenendosi sul vago. Validi elementi? A chi si riferiva? Che cosa stava succedendo davvero? C’era un’unica persona che poteva rispondere ai tuoi interrogativi: «Portami da lei».
«Scusa?»
«Portami da Lady Pandora, voglio sapere cosa sta succedendo qui». Specificasti serio.
   
Così vi eravate addentrati nelle profondità del Cocito. Era talmente freddo che in confronto la Siberia e le sue lande ghiacciate sembravano le Maldive. Forse il fiume di ghiaccio era l’unico posto dove il riscaldamento climatico non sarebbe mai giunto.
Fortuna che al gelo e alla neve e le sue tempeste c’eri abituato. Ma a quello che vedesti no.
Improvvisamente la tormenta scomparve, sostituita da un fitto nebbione.
Lentamente ti accorgesti che la neve sotto ai tuoi piedi diventava sempre meno fitta, sempre più secca e farinosa. Gli strati si assottigliavano finché non vi ritrovaste a camminare su uno strato di erba imprigionata nella brina. Ti chinasti per osservare questo fenomeno. Non solo sembrava che i ciuffi e gli steli fossero ammantati da una spolverata semi trasparente, ma era la prima volta che vedevi dei colori diversi all’Inferno. Colori terrestri. E comprendesti di stare guardando dell’erba, della vera erba. «Se hai finito di rimirare il prato ti consiglio di sbrigarti». Ti rialzasti e lo seguisti dentro la boscaglia che andò delineandosi davanti a voi, spuntando dalla nebbia.
E poi, la nebbia cedette il posto a una foresta.
Era bellissima. Da ogni parte pendevano rami carichi di frutta prelibata e invitante, l’aria profumava di fiori. Non ti sembrava più di essere negli Inferi. Restasti incantato dalla bellezza di alcune mele rosse e lucide e tendesti la mano verso una di quelle. Non appena lo facesti la mela si spostò più in alto, allontanandosi dalla tua portata e tu sgranasti gli occhi. La pianta si era mossa da sola, ma che diavolo, eravate finiti nell’Elisio? «Questa è la parte originaria dell’ Oltretomba, dove i peccatori erano costretti a patire la fame e la sete. Se ti avvicini all’acqua noterai che farà la stessa cosa». Lui stesso tese una mano verso una pianta di pere e il ramo si sporse verso le sue dita donandogli il proprio frutto. Tu ti accigliasti, cogliendo la velata ingiustizia che si celava dietro questo luogo di torture. Soprattutto quando lo Specter colse il frutto e lo addentò, mangiandolo di gusto.
L’albero si ritrasse tornando alla sua posizione originaria.
«No, grazie, credo che me lo risparmierò». Dicesti ritraendo la mano e affiancasti nuovamente lo Specter per il sentiero. «Dove sono le anime?»
«Altrove, stanno combattendo assieme alle nostre milizie. Abbiamo dovuto sospendere le loro pene e rinvigorirle per farle stare in piedi».
«Ma è terribile! Così rischierete una rivolta». E le due cose non erano strettamente collegate. Trovavi disumano il trattamento disumano che riservavano a quei miserabili. Sapevi, ricordavi quanto fosse intransigente Rune di Balron. Sarebbe stato ed era capace di processare chiunque per aver schiacciato un ragno o aver fatto sbucciare il ginocchio a un amichetto delle elementari.
«Non importa, non potranno mai superare uno Specter neanche volendo».
«Quindi è questo che sono per voi? Pedine sacrificabili?» Chiedesti sgomento.
Lo Specter dell’Arpia ti guardò e fece un sorriso affilato. «Perché, secondo te noi cosa siamo?» Ti chiese retorico.
Ti zittisti. In fondo al cuore sapevi che aveva ragione.  
Riprendeste a camminare fino a che la nebbia non vi sorprese di nuovo e, tu fosti colpito al braccio. Gemesti di dolore e vedesti una freccia conficcata a terra vicino ai tuoi piedi. Ti guardasti il braccio e scopristi di essere ferito. Alzasti lo sguardo ma Valentine dell’Arpia era scomparso. Lo chiamasti a gran voce ma non ottenesti risposta mentre la nebbia s’infittiva.
C’era qualcosa che non andava in questo posto. Lo sentivi. L’odore! Quella non era nebbia normale, era fumo. Ecco cos’era questo odore. Ti sentivi osservato. Da qualcosa che aveva occhi, mani e gambe e archi tesi. Scoccarono.
Ma tu eri un Cavaliere d’Oro, anche se a causa delle Creature non potevi usare il Cosmo, restavi comunque addestrato e più veloce della media. Perciò con un mezzo giro ti liberasti del primo nugolo di frecce. Con un altro mezzo giro tornasti dritto e, con le mani, riuscisti a bloccare tutti i dardi, che piovvero ai tuoi piedi. «Chi siete? Perché mi attaccate? Sono con lo Specter dell’Arpia». Esclamasti. E, forse fu la parola Specter a farli fermare. Improvvisamente una donna con la pelle pitturata di disegni blu emerse dalla nebbia. Ti squadrò, soppesandoti con gli occhi e poi ripeté con un accento strano: «Specter?»
«Sì, Specter, devo andare dagli Specter».
Lei ti guardò perplessa e t’indicò: «Specter?»
«No. Io no Specter, io Cavaliere d’Atena». Gran bell’imitazione di Milo ubriaco, Camus, molto bella. Però efficace. La donna fece un balzo indietro e alzò una scure. «Aspetta, aspetta!» E, un po’ a gesti e un po’ a parole, riuscisti a farle capire di esserti perso.
E meno male perché il resto dei suoi compagni era uscito allo scoperto. Tu non avevi paura di loro, temevi, invece di fare loro del male. A un tratto spuntò un guerriero più anziano che scambiò qualche parola con te e poi ti si rivolse. «Specter?» Domandò di nuovo, indicandoti.
«No. Io non sono uno Specter, io... Oh...»
Poi ti venne un’idea, rischiosa ma non avesti altra scelta. Tendesti una mano verso di loro, il palmo rivolto verso l’alto e materializzasti una statuetta a forma di testa di Valentine con tanto di elmo. E, sillabasti, al sorpreso popolo: «Io sto cercando questo qui. Dov’è?» E, sottolineasti la domanda facendola scomparire. Tanto era solo comune brina che si sarebbe sciolta di lì a poco.
Ma quei guerrieri, invece di rispondere, ti chiesero a gesti di rifarlo e di fare altre cose.
In un certo senso ti ricordarono dei bambini incuriositi e un po’, anche Milo. Se da una parte ti sentisti superiore, dall’altra ti rendesti conto di avere a che fare con delle anime morte da chissà quanto tempo. Antiche forse quanto il mito e ti sentisti invadere da un enorme rispetto. Non più con l’animo del conquistatore e del guerriero ti accostasti a loro, ma con l’animo del giovane di fronte al proprio passato.
Vedendo che ti eri un po’ acclimatato nei loro confronti, anch’essi cambiarono e, quando materializzasti del ghiaccio tra le tue mani a coppa che si sciolse immediatamente e bevesti, ti conquistasti la nomea di Druido. Però ti ammonirono di fermarti, altrimenti sarebbero giunte le Creature.
Ti portasti la mano al braccio ferito. Il taglio si stava già rimarginando, però continuava a pulsare, nonostante che l’avessi congelato.
Accorgendosi della tua sofferenza uno dei guerrieri ti prese per il polso e riuscì, assieme agli altri, a convincerti a seguirlo. «Aspettate, dove mi portate? Fermi!» Esclamasti. Ma non puntasti mai i piedi per imporre la tua volontà.  
E finiste in quello che aveva tutta l’aria di essere un accampamento di un giardino di una villa i cui tetti spuntavano tre le chiome degli alberi?
Ti accigliasti. Non solo per quest’incongruenza, ma anche per il cambio di paesaggio e la temperatura. Era più calda di quella che avevi sentito adesso. E non per via dei numerosi falò che illuminavano la zona. Dov’eri finito?
Non avesti il tempo di fiatare che fosti portato da quello che sembrava essere il capo tribù. Il quale ti visitò, ti medicò e ti dipinse una ghianda in fronte e dei serpenti. Poi, fosti scortato verso l’ingresso della villa dove fosti preso in consegna dagli Skeleton e scortato dentro per essere lasciato in un salotto.
«Simpatici i Pitti, vero?» Sogghignò lo Specter dell’Arpia che se ne era rimasto in disparte, nascosto nell’ombra fino a quel momento. Ti voltasti verso di lui. «Tu! Perché mi hai lasciato da solo?»
«Pretendevi che ti accompagnassi? Sei stato divertente, Jonathan Livingston non avrebbe saputo fare di meglio». Ghignò.
«Scusa, ma preferisco attenermi a Marco Polo».
«Davvero? E cosa gli hai venduto?»
Rispondesti scocciato, poi: «Dove posso darmi una ripulita? Mi sento un coglione con questi disegni addosso». Ed eri pure stato costretto a toglierti l’Armatura perché potessero disegnarteli. Avevi persino temuto si potessero offendere.
Valentine non fece in tempo a dirtelo che le candide porte laterali si aprirono. Lady Pandora, da Violate di Behemoth e una donna che aveva tutta l’aria di essere una sacerdotessa celtica, fecero il loro ingresso. Dietro di loro tre velate. Le serve degli Specter e controparte femminile degli Skeleton. Somigliavano molto a delle suore, la differenza era che la veletta impediva di vederne completamente i volti. Ammesso, che avessero ancora un volto da mostrare. E questa possibilità era già terrificante da pensare.  
La sacerdotessa catturò immediatamente la tua attenzione. Indossava variopinte vesti azzurre e recava il tatuaggio di una mezzaluna sulla fronte. Al collo indossava una torque e i capelli sciolti con i fili grigi le ricadevano mossi sulle spalle. Era minuta ma emanava una potenza e una forza che non aveva niente da invidiare a un Saint. Non era il Cosmo era qualcos’altro che non ti sapevi spiegare. In mezzo alla semi oscurità rischiarata dall’abat-jour sembrava un fiordaliso sbocciato nelle tenebre. Non era bella, ma era affascinante, emanava quel qualcosa che la rendeva desiderabile come la sua bocca carnosa. I suoi occhi erano castani e dipinti di nero. Ai polsi esibiva fiera il tatuaggio azzurro dei serpenti che avevi visto addosso ad alcuni Druidi nell’accampamento. E anche su di te, ma su di lei, per un attimo, avesti l’impressione che si muovessero. Il dettaglio che t’inquietò fu il coltello a forma di falce dorata allacciato alla sua cintura.
«Cavaliere di Aquarius». Ti salutò Pandora.
La guardasti. Era più alta della donna in azzurro. Dimostrava una trentina d’anni, come se l’effetto del potere di Hades avesse agito non solo sulla sua anima, ma anche sul suo corpo. I suoi capelli neri erano lunghi, lucenti e ordinati come ricordavi. Le differenze con la Guerra Sacra erano evidenti. Dal suo abito da sera nero, dall’elegante taglio moderno che le lasciava scoperte le spalle e le fasciava le braccia con ampie maniche a pipistrello semi trasparenti. Le gambe cinte da cavigliere di metallo e dalla giarrettiera a forma di serpente, che si accompagnava all’anello bracciale sulla mano. I piedi calzavano scarpe con il tacco basso.  Quello che ti sorprese di più furono le decorazioni floreali di un carico viola sulla gonna dall’ampio spacco e le ben curate unghie smaltate dello stesso colore. Gli splendidi lineamenti erano evidenziati dal lieve filo di trucco che la rendeva ancora più attraente di quanto ricordassi. Le labbra rosee spiccavano sull’incarnato niveo. 
Al collo indossava ancora la collana che permise a Ikki di attraversare la breccia del Muro del Lamento e un collare a forma di testa di drago dello stesso colore del busto che le proteggeva l’addome e il petto. I fianchi erano cinti dal (sgranasti gli occhi) mala di Shaka.  
Ma il suo sguardo era duro e fermo. Stavolta non avrebbe parlato a occhi bassi, avrebbe invece sostenuto il tuo sguardo. Con occhi fieri e senza paura. Gli occhi di chi ha passato anni a combattere. L’avevi lasciata che sapeva a malapena comandare l’esercito di Hades e la ritrovavi pienamente consapevole del suo ruolo. Quella era una vera comandante. Percepivi in lei la forza che l’adolescente non aveva. Se non fosse stato per il fatto che brandiva il tridente degli Inferi non l’avresti neppure riconosciuta.
«Non mi aspettavo una vostra visita». Esordì guardinga e leggermente perplessa osservando i disegni sulle parti scoperte del tuo corpo, mentre si sedeva sulla poltrona.
T’inchinasti e ti scusasti: «Mi dispiace essere arrivato senza prima avvisare, ma dovevo vedervi». 
La donna si rivolse alla Sacerdotessa: «Sembra che io avessi un altro impegno, andate pure, Lady Niniane, continueremo questa discussione più tardi; nel frattempo mandate le disposizioni a Lady Boadicea e a Lady Ginevra».
La Sacerdotessa chinò la testa rispondendo con voce melodiosa: «A più tardi, Lady Pandora».
La signora degli Specter chinò il capo di rimando. Poi, la donna nelle vesti azzurre uscì dalle porte che Violate di Behemoth spalancò e richiuse alle proprie spalle. Solo allora la sorella maggiore di Hades tornò a guardarti, intanto che una delle velate versava da bere in un calice di cristallo e lo serviva alla donna. Dal colore deducesti si trattasse di un liquore. «Vedo che avete incontrato i celti». Commentò con un sorriso divertito squadrandoti mentre accavallava la gamba con una sensualità che non avevi mai visto in una donna. Non eri abituato a guardare tanta pelle scoperta, diciamoci la verità Camus. Non che tu fossi bacchettone, solo che al Santuario le donne si vedevano raramente. Si portò il calice alle labbra ma non bevve: «Come vi sono sembrati?»
«Popolo interessante, mi domando soltanto che ci facciano negli Inferi».
Sciolse la posa e sporgersi verso di te. La sua mano raggiunse il tuo mento e te lo sollevò delicatamente, fino a quando i tuoi occhi non furono nei suoi. «Potete anche smetterla di usarmi questa formalità, non sono la Divina Atena, e non sono il Divino Hades, che non concede a nessuno di mostrarsi, non mi sporco se mi guardate. Facciamo che vi concedo una sedia, così anche voi state comodo.» sussurrò. Non c’era niente di sensuale nella sua proposta, eppure non potesti fare a meno di arrossire, mentre una ciocca le scivolava dalla spalla e quasi sfiorava terra. Poi ti lasciò andare e ordinò che ti fosse servito da bere mentre prendevi posto sulla scomoda poltrona ottocentesca dietro di te.
«Così va meglio. Non vi sorprendete della mia gentilezza, in fondo siamo tutti sulla stessa barca, qui negli Inferi, non ha alcun senso mantenere le distanze, soprattutto per me che dirigo queste schiere. A forza di combattere fianco a fianco si capiscono molte cose, persino come comandare delle truppe, basta ordinare e non smettere mai e persino Cerbero si ridurrà alla stregua di un pacifico cagnolino». Commentò appoggiandosi di nuovo allo schienale della sua poltrona.
Una delle velate ti si avvicinò con la bottiglia. Facesti per rifiutare, ma Lady Pandora intervenne: «Oh, no, bevete pure, lo faccio arrivare direttamente dalla Francia. Dovrebbe essere il vostro luogo natio, no?»
«All’incirca». Rispondesti accettando così che ti riempisse un bicchiere, anche se ancora riluttante.
Lei mostrò un leggero dispiacere. «Non ricordate la vostra regione di provenienza?»
«No, ero troppo piccolo per saperlo». Rispondesti rigirandoti il calice nella mano mentre le velate vi scivolavano accanto, silenziose come ombre. Parlare con lei ti fece uno strano effetto. A dispetto del lusso che vi circondava ti sembrò di avere a che fare con un soldato come te. Non più con una Sacerdotessa, la stessa che ventinove anni prima vi resuscitò. E che, esprimeva solo potere Infero e disperazione. «Io invece sono nata in Germania. Adesso se v’interessa, ci troviamo a Monaco di Baviera, per la verità non troppo lontano da Possenoffen, il castello della duchessa Sissi».   
«Siamo nel Regno dei Vivi?»
«Sì». Confermò e bevve un sorso.
«Com’è possibile?»
Gli occhi viola purpurei della tua interlocutrice lanciarono un lampo, poi ti scoccò un sorriso enigmatico. «Vi sorprenderebbe davvero se apprendeste la reale portata dei segreti delle Terre del Divino Hades». Non era la Pandora che ricordavi, la ragazzina che Shura minacciò di decapitare con Excalibur. Questa sarebbe stata capace di muovere una mano e ordinare che veniste sgozzati tutti davanti ai suoi occhi. Questa era una regina con il potere tra le mani. Potere che non avrebbe esitato a usare. Ancora di più ti sorprendeva che ne parlasse con quel rispetto, dopo il suo tradimento. «So che non dovrei chiedervelo, però non mi avete detto com’è successo tutto questo». Dicesti, accennando.
«Questa è la villa di campagna della mia famiglia, vivo qui da anni ormai ed è da qui che ho faticosamente mandato avanti la mia campagna contro le forze di Don Avido e dei Black Saint». Nei suoi occhi vedesti passare un lampo d’odio.
«L’ho incontrato anch’io».
Un angolo della sua bocca si tese in un sorriso di scherno e, i suoi occhi si accesero di disprezzo: «Immagino che abbia fatto una buona impressione. Se non fosse che siamo nemici lo riterrei il mio maestro; come abbindola lui le persone non ci riesce nessuno».
«Da quanto va avanti questa storia?»
«Diciannove anni, anno più anno meno».
«E i vostri alleati?» Sapevi che Hades era alleato di Ares. Dov’erano i bersekers? Bevve un secondo sorso prima di risponderti: «Sconfitti, ammazzati, dispersi, scegliete voi la parola adatta». Disse con una vaga nota di accusa nella voce. Così vaga che potevi benissimo essertela immaginata.
«E i Celti?»
«Ci si arrangia con quello che si ha e, certe volte, si può persino scoprire che non è poco».
«Capisco».
La signora degli Specter si appoggiò a un bracciolo. «Il sottoposto di Rhadamantys mi aveva detto che desideravate parlarmi a proposito di una protesta pacifica, di resistenza passiva. Certo Cavaliere e, come pretendete che io possa esaudire le vostre richieste se corro il rischio di farmi strappare altri territori faticosamente riconquistati? Mi cercherei altri alleati nell’Aldilà, ma sapete come vanno le cose nell’Oltretomba, tutti sono sempre pronti a ucciderti appena volti loro le spalle. É legge universale, come la conoscono gli Specter la conoscono anche gli altri».    
«Perché non avete chiesto aiuto ad Atena?»
«Perché, avrei dovuto? Dopo che ha ferito mortalmente Hades e ha causato tutti questi disastri? Credete che la caduta di un Dio non comporti rischi più considerevole della caduta di uno Stato umano? Se la Somma Atena non avesse mai trafitto il Divino Hades non saremmo in questa situazione, ma ci siamo e ora tocca a me rimediare». Ribatté con voce dura.
«Perdonate, non volevo mancarvi di rispetto».
«Certo che non volevate». Ti diede corda in tono conciliante. «Per cosa volevate protestare? Le Creature?»
«La Luce Ombrosa; il mio intento era di visitare gli archivi alla ricerca di informazioni su di essa per vedere in che modo neutralizzare le Creature».
Il suo volto cambiò espressione. «Sì, quella». Disse distogliendo lo sguardo e si alzò. Prese il tridente che aveva lasciato da parte e si avviò a una delle ampie finestre che davano sul giardino.
«Anche quella è un problema. Sarò franca con voi Cavaliere di Aquarius, se sperate che io scucia informazioni sulle schiere degli Specter vi sbagliate. Se sperate che io vi dia informazioni sulla Luce Ombrosa vi sbagliate. Però se siete veramente interessato a venire a capo della faccenda, allora siete libero di unirvi a noi quando lo desiderate. In quel caso non vi tratterrò». Propose girandosi a guardarti da sopra una spalla.
«Ci penserò».  

Astrid
«Sonnenstral, cara, adesso non posso stare al telefono, ho un impegno urgente». Mi rispose la tata.
«Avevi promesso che saresti venuta in Grecia questa domenica e che avremmo passato questi due giorni insieme».
«Lo so, tesoro e mi dispiace molto; ma ci sono stati dei problemi al Conservatorio, un professore si è ammalato e hanno chiesto a me di sostituirlo, per nostra sfortuna non c’è nessun altro. Capisci che non posso dire di no».
«Sì, lo capisco, zia». La tata, che chiamavo zia per abitudine, era una degli insegnanti di uno dei più prestigiosi conservatori d’Europa. Nonché una delle signore che, a volte, si vedevano in mezzo alle orchestre dei concerti di Natale o Capodanno o su alcuni vecchi canali in Italia. Però la zia era anche una delle musiciste che collaborava spesso con compositori affermati nella realizzazione di colonne sonore di film. Quando suonava aveva la capacità di portare in un altro mondo e far rivivere un’altra epoca. Aveva persino creato un tutorial che insegnava a suonare vari strumenti a corda tra cui la chitarra, il violino, il canto e l’arpa. Però trovava i mezzi moderni troppo asettici per i suoi gusti. Anche se lo faceva perché il sito la pagava e le monetizzava i video, lei continuava a preferire i contatti diretti con le persone.
Si era persino progettata un’arpa che funzionava un po’come una loop station, per suonare anche brani attuali. Arpa che poi la mamma aveva benedetto affinché non si rompesse mai. E la sua benedizione era ancora attiva. Lei diceva sempre che se la zia fosse stata una sacerdotessa pagana, quello sarebbe stato il suo modo di filare. La zia si metteva sempre a ridere e prendeva amorevolmente in giro mia madre per queste parole: «Certo, cara, sai che bel maglioncino infeltrito e sformato viene fuori?»
«Per quello serve un telaio». Rilevava la mamma.
«Ma il filo chi credi che te lo fornisca?» Ribatteva la zia sorridendo prima di farle la linguaccia come una bambina. Povera mamma, ci aveva provato mille volte a spiegare alla zia il processo di creazione dei vestiti da quando l’avevo studiato a educazione tecnica alle medie. Però non c’era stato niente da fare.
Ma il suo sogno più grande era quello di diventare insegnante. Occupare per qualche giorno una cattedra sarebbe stato come muovere finalmente un passo in più verso la realizzazione del suo sogno. La potevo capire, ma non potevo soffrire questa decisione. «Su, non fare così», disse come se avesse potuto vedermi. «Verrò la settimana prossima». Promise.
«Davvero?»
«Certo!» 
«Guarda che ci conto, altrimenti sarò io a venire da te». La minacciai scherzosamente. Eppure appena lo dissi, ebbi, non so perché, la certezza che sarei veramente andata da lei. «Quando vuoi, ti aspetto». Ribatté lei, poi ci salutammo e attaccai. Peccato, però, ci tenevo tanto a rivederla. Poi a ridosso dei concerti più belli e dei tour mondiali. Che avevo pure comprato i biglietti online e mi erano stati recapitati. La zia si era pure offerta di ridarmi i soldi ma non avevo voluto. Non me l’ero sentita.  Peccato però, erano anni che non ci vedevamo dal vivo. Mi sarebbe piaciuto scendesse, ora che ad Atene si teneva il festival musicale.
Indossai gli auricolari e feci ripartire il brano che avevo stoppato prima di ricevere la sua chiamata.
Ossia Tieni il tempo. Lo stesso brano che usavo per calcolare i vari spostamenti all’interno della Tredicesima le altre Case. 
La vita nella Casa di Atena non era così tremenda come mi ero immaginata. Nel complesso godevo di abbastanza libertà. Finché Death Mask non mi tolse la possibilità di svignarmela avvisando Kanon. Ma tanto sapevo come aggirare le guardie. Avevo imparato alcuni trucchetti niente male, nonché trovato una finestra che dava direttamente su uno dei sentieri segreti che correvano sul monte del Santuario.
Dovevo solo fare tutto nell’arco di una canzone lunga tre minuti e trentacinque, ossia Tieni il Tempo di Max Pezzali. Le uniche uscite che in teoria mi erano concesse erano quelle domenicali. Il resto me l’ero preso di nascosto e con la complicità dei ragazzi che prendevano ripetizioni e che vivevano alle Dodici Case. Avevamo escogitato un sistema segreto per vederci. Io sgattaiolavo fuori dalla Tredicesima passando per la porta sul retro al momento del cambio della guardia, che avveniva in un margine di due minuti. Poi, correndo come se avessi avuto il diavolo alle calcagna, raggiungevo i giardini delle Dodici Case.
Fare tutto questo richiedeva velocità e attenzione. Ogni mossa era calcolata al millimetro, come se stessi giocando a Hex. Un gioco da tavola. Solo che qui sfruttavo le abitudini dei dodici paladini dorati. E, in ballo, c’erano i soldi delle ripetizioni, oppure le mie scampagnate clandestine. 
Sapevo di essere “al sicuro” una volta raggiunto il giardino della Dodicesima. Restavo lì per qualche minuto, il tempo per sincerarmi che non mi fossero alle calcagna e, poi riprendevo la mia corsa. Che era facile farsi questi giardini e questi sentieri a ritroso, il difficile era risalirli. Avevo i muscoli indolenziti e ancora brucianti di acido lattico per questo.
Ma ne valeva la pena. Stavo acquisendo abbastanza sicurezza da cominciare a saltare alcune rampe, stile capra e caprioli. E mi divertivo pure. Meno male che da piccola mio padre mi aveva portato spesso a giocare tra gli scogli del molo facendomi sviluppare l’agilità. Già prima non indifferente, considerato l’allenamento del mio maestro. Se solo mi fossi ricordata altre tecniche... “Ma tu te le ricordi”.
“Solo la Dark Resurrection”. Risposi.  
“Qualcosa mi dice che, nella situazione giusta, ti ricorderai anche le altre”. Mi garantì con un sorriso. Lo capii dal suo tono di voce.
“Se lo dici tu”.
“Non ti fidi più di me come prima, vero? Non rispondere, non serve”. Io avrei voluto fidarmi ancora, avrei voluto non sentire questa tristezza e questo peso nel petto, però li sentivo. “Mi dispiace”.
“Non ti preoccupare, ti capisco”.     
Il pericolo poteva dirsi scongiurato una volta oltrepassato il giardino giapponese di Shura. A quello sì che non sfuggiva mai nulla per davvero. Nel suo non fare attenzione ai dettagli coglieva moltissimi dettagli.
Peggio di Aphrodite. Ma Aphrodite, tra riposini di bellezza e tutto il resto si svegliava quasi sempre sul tardi. Quando non lo faceva era in arena ad allenarsi, di solito con Death Mask e Shura stessi il mercoledì, il giovedì e il venerdì. A dispetto delle apparenze Shura era abbastanza pelandrone. Ma entrare nel suo guardino era quasi come giocare a prato fiorito. Bastava un nonnulla per farlo uscire fuori e lo sapevo perché una volta per poco non mi scoprì.
Perciò per sicurezza passavo dal sentierino di lastre di pietra tra l’erba tagliata all’inglese, profumata e ordinata, accelerando più che potevo. Poi sfruttavo lo slancio per superare quasi indenne la Nona (quasi perché qualche volta mi mettevo a rubacchiare la frutta di Seiya) e l’Ottava.    
In realtà i giardini delle Tredici Case li conoscevo già perché qualche volta, prima dell’attacco di Eris, dovetti aiutare i giardinieri, assieme agli altri collaboratori a sistemarli. Almeno quelli più vicini alla Tredicesima. E poi, prima che Aphrodite mi spedisse al servizio ristorazione, avevo contribuito a togliere le radici delle sue rose e dell’Albero del Conflitto. Ovviamente l’avevo fatto con i guanti e, avevo fatto in modo di non toccare con un lembo di pelle scoperta neppure un fusto.
Il fatto che il giardino della Settima fosse effettivamente il primo ad avermi accolta era vero.  Quello della Sesta, invece, per la sua sacralità, era l’unico che non avevo ancora visto. Lo oltrepassavo scendendo la scalinata che collegava la Sesta e la Quinta e poi m’immettevo di nuovo nel giardino di Aiolia.
Ma quella macchia mediterranea ero certa di non essermela immaginata, come ero certa che mi stessero nascondendo il sentiero che ci portava. Perciò avevo cominciato a esplorare i sentieri che si diramavano per il territorio del Santuario ogni volta che mi era possibile. Mi preparavo il solito zaino con le provviste per la scampagnata, un cappello (onde evitare abbronzature con spellature indesiderate e, sì, mi era già successo i primi tempi che pulivo le Dodici Case. Shura mi ritrovò quasi svenuta sulla rampa fuori della sua Casa. Gli prese un colpo, poveraccio; pensò che mi avessero attaccato. Invece avevo preso l’insolazione. Il giorno dopo ne avevo pagato le conseguenze con una faccia rossa, rovente e spellata.
Dopo un iniziale spavento Death mi rise in faccia, Milo per poco non si beccò una ciabattata, Aiolia mi guardò cercando di non mostrarsi troppo schifato. Aphrodite un po’ disgustato, mi passò una serie di creme per la pelle per rimediare allo scempio. Aldebaran ebbe pietà di me e non disse niente, Shun mi consigliò di portare con me della crema solare), una torcia elettrica, una felpa e una bussola. Poi, indossavo calzari adatti a quelle scalate che ero riuscita a trovare a Rodorio e afferravo un bastone. Poi, indossavo abiti comodi per l’occasione (calzoni di tela, una maglia pesante e una felpa) e partivo. Sempre con l’inseparabile Cocteau ad aspettarmi.
La scalinata perpetua delle Dodici Case e i sentieri segreti dei servi avevano contribuito a irrobustirmi. Ma anche quest’abitudine mi permise di tenermi in forma ed esplorare tutto ciò che mi aggradava. A volte se non stavo attenta rischiavo di perdere di vista la civetta. «Aspettami!» Dicevo all’animaletto soprattutto per quei sentieri, quando andava troppo veloce. In effetti quelle scalate erano le uniche volte in cui la smettevo di torturare le orecchie del povero animale raccontandogli le mie giornate e le mie riflessioni neanche fosse un diario. Da quando avevo cominciato a esplorare questi luoghi, avevo cominciato a riflettere sull’astrologia. Prima di finire in questo posto non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata ad avere a che fare con persone che incarnavano le costellazioni. 
Avevo trovato un posto che faceva al caso mio, mentre cercavo l’Altura delle Stelle: era una specie di radura dove era cresciuta dell’erba di montagna e qualche arbusto. Era abbastanza riparata dal vento e la elessi a mio rifugio momentaneo. La vista dava su Rodorio e il mare all’orizzonte. Ma non eravamo sufficientemente in alto affinché potessi intravedere anche le isole.
Quando le giornate cominciarono a farsi più calde, cominciai anche a sentire il bisogno di andare sulla spiaggia. Ne avevo vista una vicino al Tempio, perciò mi ci recai una mattina che non avevo niente da fare, anche se era un sabato. Non mi era difficile sfuggire ai lavori domestici, anzi, a dirla tutta era piuttosto semplice; bastava darsi malata e tutti ci credevano. Il difficile era non farsi beccare dopo. Avevo marinato la scuola qualche volta, non era poi così diverso, adesso.
Giunsi alla spiaggia in una mezz’ora, correndo rapidamente e passando per vie laterali, evitando accuratamente le zone dove le ancelle e i paggi bazzicavano più spesso.
Una volta raggiunta la mia meta risi tra un ansito e l’altro.
Cascai in ginocchio, portandomi una mano al cuore che mi batteva all’impazzata nel petto.
Il vento carico di salsedine e dello stridio dei gabbiani che mi scompigliava i capelli.
Poi alzai lo sguardo e mi ritrovai a fissare le onde del Mare Egeo. Era la prima volta che lo vedevo da vicino. Ed era bellissimo, anche se la spiaggia non era questo granché.      
Il Gran Sacerdote venne a sapere di questa mia passione la domenica che non mi presentai per il solito pranzo. Quando tornai nottetempo mi convocò nella Sala del Trono e chiese spiegazioni. Quando si ritenne soddisfatto si limitò ad ammonirmi di stare attenta, che molti avevano perso la vita cercando di percorrere quei sentieri.
Per il resto i rapporti tra noi due erano abbastanza tesi. Almeno per quanto riguardava me. Non amavo che mi analizzasse cercando di invogliarmi a spiegare meglio il funzionamento dei miei poteri o che cercasse di mettere alla prova le mie capacità.
A volte mi domandava da dove nascesse il bisogno di usarli e altre buttava giù delle teorie in merito. Credo che fosse stato capace di leggermi nella mente tramite i suoi poteri mentali, mi domandavo perché però non lo facesse. Non mi sognavo neanche di balzare in piedi e aggredirlo per costringerlo a scoprire le carte: mi avrebbe fatta fuori senza pensarci due volte. Anche se non mi aveva mai sfiorata neanche con un dito e mi aveva sempre trattato gentilmente, riuscivo a percepire la forza che emanava e il fisico prestante seminascosto dalla tunica sacerdotale. Almeno, aveva la buona creanza di togliersi la maschera, quando parlava con me. Forse credendo che senza di essa mi sarei fidata di più. Già come se fosse sufficiente. Era talmente gelido di suoi da non informarsi neanche come mi trovassi o come stessi. A questo punto avrei preferito di gran lunga avere a che fare con Aiolia o con Argor.
Invece, quando m’informò che dall’arrivo alla partenza degli Ambasciatori di Poseidone il nostro appuntamento sarebbe stato sospeso, non feci una piega.
La cosa che mi dispiaceva di più, era che non avrei mai avuto occasione di indossare il vestito che mi ero fatta confezionare mesi prima. Quello giaceva ancora piegato nella mia cassapanca. Lo tirai fuori e me lo adagiai sul corpo, poi lo buttai sul letto. «Che spreco». Borbottai. Magari avrei potuto rivenderlo al mercato o a qualcuno che aveva contatti con un negozio di costumi di carnevale. Perciò, a malincuore lo piegai con cura, lo misi nella borsa e andai a chiedere il permesso scritto a Mylock. Che me lo fornì senza esitazione. Da quando Kanon mi aveva scoperto mi ero ridotta a dover uscire così.
E, tanto per fare un percorso diverso, passai dalla scalinata delle Dodici Case. Mentre camminavo il pensiero mi tornò ad Aiolia. Sembrava davvero preoccupato quando gli avevo letto il suo tema natale. Nei giorni successivi avevo provato a trovare una spiegazione a quel tema natale, ma non ci riuscivo. Sapevo solo che era qualcosa di importante ma non riuscivo davvero a capire. Non potevo fare affidamento sui ricordi di Death perché erano quasi spariti e neanche sul mio maestro e, le carte non erano ancora pronte. Quindi non potevo sapere cosa passasse per la testa del fiero Leone.
«Astrid». Mi chiamò la voce di Lythos. Mi girai verso di lei e la salutai, mettendo su un sorriso, intanto che il mio cuore riprendeva il normale ritmo. «Come stai? É tanto che non ci si vede». Ed era vero. Quel giorno Lythos portava i capelli acconciati in una mezza coda e mi è sembrata molto più stanca e provata. Credo che avesse bisogno di scendere in paese a tingersi i capelli, si notava la ricrescita più chiara. Inoltre zoppicava un po’. Ci stringemmo in un breve abbraccio. Mi faceva impressione questa signora, era più bassa di me di una ventisette centimetri buoni.
«Abbastanza bene e tu? Che cosa hai fatto?»
«Oh, niente di che, sono inciampata in un gradino e ho preso una storta, ma non preoccuparti, guarirà nel giro di qualche giorno». Spiegò sciogliendo la stretta.
«Meno male. Come sta tuo fratello? L’ultima volta che l’ho visto mi è parso turbato, si è ripreso?» Le domandai dopo aver fatto vagare lo sguardo nel corridoio di passaggio.
Le fiaccole appese ai muri spente.
«Sta bene, adesso è in arena ad allenarsi. Gli riferirò che hai chiesto di lui. Sei molto gentile a preoccuparti, sai?»
«Davvero?» Le chiesi un po’perplessa.
«Certo, Aiolia non ha mai avuto vita facile qui. Per quasi tutta la sua vita lo hanno tacciato come l’uomo del malaugurio, per via del Keraunos, la folgore divina. Una profezia su di lui diceva che avrebbe riportato in vita i Titani e, così fu». Sgranai gli occhi.
«Oh, però è riuscito a sconfiggerli, io ero presente quando ci riuscì».
«Meno male». Sospirai sollevata.
Ma la storia non era ancora finita. «Sai lui è il fratello minore del precedente Cavaliere di Sagitter, che salvò la Divina Atena da morte certa da Arles e fu accusato di alto tradimento e condannato a morte. Aiolia ha ancora la cicatrice da qualche parte nel suo animo». Spiegò brevemente.
Compresi perché a gennaio il suo stato d’animo mi suggerì quelle parole che lo stupirono tanto. Mi ero sempre chiesta il motivo. E ora non potevo fare a meno di provare un forte moto di pietà per lui. 
“E, io pensavo fosse per via del suo caratteraccio”. Pensai. Non immaginavo che Aiolia avesse una simile ombra alle spalle. Lo potevo comprendere benissimo. Anche le mie sostenevano un fardello, forse persino più oscuro del suo. Ma non potevo anche fare a meno di notare le differenze tra di noi.
Lythos mi riportò alla realtà cambiando repentinamente discorso: «Cosa ti porta qui?»
«Oh, in realtà sto andando in paese».
«Perché?»
«Voglio vendere questo». Dissi aprendo le fibbie della borsa per tirare fuori il vestito giallo.
Lei sgranò gli occhi: «Oh, ma è bellissimo, che colori, posso?» Disse prendendolo per tirarlo fuori. Io annuii. E così sollevò il vestito e lo esaminò. «Ma è meraviglioso, sembra di tenere in mano il sole, perché giallo, se posso chiedere?»
«Perché il bianco mi fa sembrare più smorta, almeno con il giallo sembro più in salute». Risposi.
Poi spiegai, in tono mogio. «Me l’ero fatto fare per qualche festività ma ora che sono alla Tredicesima e non godo più della stessa libertà di prima, non mi resta che venderlo. Che feste vuoi che ci siano per una serva della Casa di Atena?» Ovvio che mi dispiaceva aver preso questa decisione. Me l’ero fatto confezionare apposta per me questo abito. Non avevo neppure la certezza di trovare qualcuno che portasse la mia stessa taglia.  
«Ma l’hai mai indossato?»
«No, non ho mai avuto occasione».
«Non serve che lo vendi, basta che ti fai fare un permesso scritto dal tuo capo, una specie di lasciapassare e potrai indossarlo per venire con me ad Atene stasera».
«Stasera? É possibile?»
«Ma sì, certo che è possibile! Dai su che è un peccato vendere questo vestito senza averlo neppure mai indossato. Oh, hai ancora paura della notte?» Disse contrita notando la mia espressione spaventata. Abbassai lo sguardo. Un conto era avere a che fare con la notte, guardandola al sicuro da dietro un vetro o appollaiata su una finestra. Un altro era uscire di nuovo la sera. E l’idea sinceramente mi spaventava. Però era anche vero che stavo impazzendo e che Lythos sapeva e non mi avrebbe mai lasciato sola ad affrontare le mie crisi. Che stavo cominciando ad allontanare scrivendo i miei pensieri su un taccuino, come d’accordo con lo psicologo. Avevo provato a cercare di allontanare da me questi pensieri, questo mare d’ansia in qualche modo, però finora non ci sono riuscita. Chissà, forse ci sarebbe riuscita lei. «Va bene, a che ora?»

Così, una volta deciso tutto, feci dietro front e me ne tornai alla Tredicesima. Il difficile sarebbe stato farsi accordare il permesso. Kanon non voleva saperne niente, lui mi teneva in considerazione solo per la Luce Ombrosa, per il resto ero sotto le dipendenze di Mylock e Jabu. Parole sue.              E fu una lotta come avevo previsto, soprattutto quando informai il maggiordomo di Lady Isabel che per quella sera non sarei stata disponibile. Il vecchio gorilla nipponico non la prese bene, mi urlò che mi avrebbero decurtato lo stipendio. «Nessun servo si è mai sognato di inoltrare una richiesta simile, chi sei tu per farlo? Oltretutto ho ricevuto numerose lamentele della servitù sul tuo conto. Non m’interessa che tu sia l’ospite del Santuario, sei stata assegnata alle dipendenze della Tredicesima Casa e come tale devi svolgere un lavoro impeccabile e completo». Urlò fuori di sé, cominciando a mulinare il bastone da passeggio in aria. Lo avevo già visto dare in escandescenze, ma mai così. Eppure, una parte di me si sorprese ancora, dopo tutto quello che avevo passato.  
Se non fosse stato per l’arrivo di Jabu (che finalmente ebbi l’onore di conoscere), mi avrebbe impedito di andare alla festa. «Questo perché il Gran Sacerdote pretende di pranzare e cenare e trattenermi quando c’è più bisogno di manodopera. Che colpa ne ho se ha deciso di studiarmi?» Ribattei, non sapendo a che cosa appigliarmi per cavarmi da quella situazione.
«Che succede qui?» Esordì guardando prima me e poi il collega più anziano.
«Jabu, questa domestica pretende di recarsi a una festa quando non ha neanche completato i suoi doveri».
L’uomo mi guardò: «Davvero?» Domandò. Richiusi la bocca e non seppi che rispondere.
«È come ti dico».
«Tu sei per caso la signorina av Stjernene?» Mi domandò sedendosi alla scrivania del collega e cominciando a rovistare tra le sue scartoffie. Dovette trovare ciò che cercava perché prese una penna e cominciò a scrivere qualcosa su un foglio. Confermai con un cenno del capo. «Ho sentito molte cose su di te. Dimmi, sono vere?» Disse smettendo di scrivere per sollevare il capo e guardarmi.
«Alcune, altre sono esagerazioni».
«Non vorrai mica lasciarla andare, questa ragazza non deve allontanarsi dalla Tredicesima Casa finché non lo dirò io e lei non può, anzi, non deve andare per ordine del Patriarca in persona. Se esce da quella porta potrà considerarsi licenziata in tronco!» Esclamò fuori di sé e io mi domandai come avesse fatto a non beccarsi un infarto in quel momento.
«Per me non c’è alcun problema se va». Dichiarò aprendo un cassetto da cui estrasse della ceralacca rossa e l’avvicinò alla candela accesa sulla scrivania. Poi fece colare le gocce sulla carta e le timbrò con un sigillo. Poi mi passò il foglio e io gli diedi una scorsa veloce, era la mia autorizzazione.
«Jabu!» Esclamò sconvolto e inorridito il suo collega anziano. Poi si lasciò cadere sulla sedia più vicina. Io lo guardai stupita. Quando mi resi conto che non stava scherzando sorrisi e lo ringraziai. Mancava poco che mi mettessi a fare i salti di gioia. Mylock sbottò: «Questo, questo è inammissibile, ti rendi conto di quello che…»
«Né io né tu abbiamo alcun potere decisionale, Mylock. È stato il Gran Sacerdote ad assumerla nella Tredicesima Casa, se il Gran Sacerdote non da disposizioni in merito, allora questa giovane può andare dove le pare. Penso anche che sia per via del grande lavoro che ha da fare che tenti la fuga così spesso. Anch’io fuggirei a gambe levate se dovessi lavorare alla stregua di uno schiavo, inoltre non ti dimenticare che lei è preziosa per i Saint. Mi è giunta voce che sia stata invitata direttamente da un Gold, non mi pare il caso di farlo attendere, non credi? Dopo le vuoi ascoltare tu le lamentele del Gran Sacerdote?» Continuò Jabu mentre io mi domandavo che diavolo si stesse inventando. Il gorilla non doveva essere così stupido come sembrava perché, infatti, domandò: «Mi prendi in giro? Nessun Gold l’ha invitata».
«Ah, no? Allora la autorizzo ad andare lo stesso». Tanto l’autorizzazione scritta ce l’avevo e mi tenevo alla larga dal gorilla. Non si poteva mai sapere gli fosse passato per la testa di allungare una mano e strapparmela. «Oh, grazie!»
«Benissimo. Vai pure a divertirti, Astrid». Restai interdetta mentre il vecchio adesso berciava contro di lui, ricordandogli che aveva rinunciato all’Armatura per servire la casa di Lady Isabel e che non aveva alcun diritto di disertare. Il giovane gli ricordò che non stava affatto disertando e che anche lui aveva bisogno di una pausa. Inoltre era un ex Saint di Bronzo adesso vero portavoce e maggiordomo della Dea. Indi per cui ricopriva una posizione più importante della sua. Lo guardai come a dire se fosse sicuro e lui mi sorrise. Allora volai in camera mia e mi preparai. Mi spazzolai i capelli, indossai l’abito che mi ero fatta confezionare, i gioielli e il fermaglio. Poi mi avvolsi nel mantello grigio e mi recai alla festa sempre seguita dall’inseparabile Cocteau.
Arrivai nella piazzetta di Rodorio appena in tempo. L’orchestrina aveva già cominciato a suonare una cover di un brano attuale. Questa cosa mi sorprese, anche perché non pensavo che ascoltassero musica moderna anche qui. Credevo fossero rimasti ai tempi degli aedi e delle liriche alle Muse.
Qualche coraggioso era già sceso in pista mentre altri battevano le mani.
Scorsi Lythos nella folla e la raggiunsi. «Lythos, scusa il ritardo».
«Astrid, credevo che non saresti più scesa». Mi salutò di rimando, contenta dopo avermi abbracciato. «Fatti un po’vedere? Miei Dèi, ma stai benissimo». Il vestito e i gioielli che avevo comprato mi stavano veramente bene. «Grazie, anche tu. Avevi detto che sarebbe venuta anche Castalia, no?» Chiesi guardandomi intorno nel tentativo di scorgerla. «Non potrà, non ha ancora finito i domiciliari».
«Ah, peccato.» Dissi ricordandomi di quando vivevo insieme a lei. «Aspetta, ma sta succedendo qualcosa o il Gran Sacerdote non l’ha ancora reintegrata alle sue mansioni di Silver Saint?» Chiesi di nuovo, stavolta preoccupata, afferrandola per il braccio. Ora che ci penso non avevo per nulla pensato ai miei amici in questi giorni.  
«Purtroppo non ancora. Sono andata a trovarla oggi e mi ha detto che dovrà ancora scontare la sua pena». Ma non mi era sfuggito lo strano luccichio nei suoi occhi. Decisi di non angosciarla, così rilassai le spalle e finsi di crederci.
La festa fu un po’deprimente. Non partecipavo a una festa da tempo, ma questa… A un tratto Lythos trasse il cellulare dalla borsetta che portava a tracolla, controllò l’ora e poi, mi prese per il gomito e mi disse: «Andiamo, su!» Tutta sorridente, mentre con l’altra mano riponeva il telefono nella borsetta. Una luce strana brillava nei suoi occhi scuri. Improvvisamente, forse per effetto dell’atmosfera o delle luci delle torce, mi sembrò ringiovanire e tornare ragazzina. La stessa che per pochissimo Death non fece fuori.
«Dove?»
«Vieni, che andiamo a divertirci».
«Ma… io».
«Andiamo». Mi spronò con un sorriso.
«Va bene». Mi arresi e la seguii lanciando un ultimo sguardo smarrito alla festina prima di lasciarmi trascinare via. Per essere addirittura più minuta di me era davvero forte. Non me l’aspettavo.
Non capii cosa avesse in mente finché non ci ritrovammo fuori Rodorio, nei pressi dell’Acropoli.
«Cosa? Aspetta».
«Non ti preoccupare, ho il permesso». Mi rassicurò.
Caso volle che sulla nostra strada non incontrammo nessuna guardia e così potemmo tranquillamente oltrepassare la barriera. Mi raccontò che era stato Galan a dirle come uscire. In teoria non era illegale, in pratica servivano dei permessi speciali e un cambio d’abito. Sulle prime pensai che fosse impazzita anche perché l’Acropoli di Atene è un monumento storico, vuoi che a mezzanotte non ci sia ancora qualcuno a visitarla? E, infatti, era gremita di gente. Però questo non scoraggiò la mia amica: «Tanto meglio, potremo mimetizzarci meglio con la folla». “Vestite così?” Pensai un po’scettica guardando i nostri abiti. Ma poi scrollai le spalle. Male che andasse avrebbero pensato che eravamo parte del paesaggio. Come se il governo avesse deciso di metterci anche i figuranti ad aggirarsi per questi luoghi. O, al limite, che stessimo facendo il cosplay di qualche manga ambientato in Grecia o a Roma.
Una volta fuori della barriera ansimavamo un po’ per lo sforzo, ma ci ricomponemmo in fretta e ci mescolammo ai turisti. Ora che ci pensavo, mi trovavo ad Atene! Ma perché proprio adesso la turista che era in me si doveva svegliare?
Non avevo mai visto l’Acropoli, né di giorno, né di notte però, di notte era splendida. Con quelle calde luci basse e i turisti. Era come guardare fuori delle finestre della scenografia dello studio di Superquark. Oh, quanto amavo quello studio, avrei voluto vivere in una casa così.
L’atmosfera che si respirava era la stessa e me ne riempii gli occhi. Sacra, incuteva rispetto e al tempo stesso meraviglia. E, mi ritrovai a guardarmi attorno, riempiendomi gli occhi di monumenti e turisti che giocavano a “tenere il Tempio”. Era una moda che era scoppiata l’anno scorso; forse la risposta al “reggo la Torre di Pisa, faccio cadere la Torre di Pisa” dei turisti. Qui si giocava a tenere il Tempio. Oh, fossi stata una turista avrei giocato anch’io a questo modo. Come mi mancava la modernità e persino il concedersi qualche pensiero frivolo di tanto in tanto.
In un certo senso, fu come se mi fosse stato tolto un peso dalle spalle. Il peso della mia nuova esistenza, che era appena a cinque centimetri dietro di me. Vero che mi ero scelta da sola il mio inferno, ma era anche vero che, ogni tanto staccare non faceva male.
Lythos mi sorrise e cominciò a scendere dopo avermi porto il braccio: «Madamigella». Scherzò, sorridendo. «Signora». Scherzai a mia volta prima di intrecciarlo al suo. Nessuno fece caso a noi e nessuno si scandalizzò: potevamo passare per una madre che passeggia con sua figlia. L’abbigliamento non fu neanche un così grosso problema come avevo temuto; tra le persone vedemmo alcune ragazze con corone di fiori in testa e la gonna lunga da contadina. Io stessa mi guadagnai molte occhiate e fischi ammirati da parte dei ragazzi presenti. Mi sentii avvampare ma sul mio viso si aprì un bel sorriso soddisfatto: avevo quasi dimenticato che cosa si provasse ad essere guardata da dei ragazzi. E, qui, ce ne erano alcuni della mia età veramente carini. Uno di loro per poco non inciampò nei suoi stessi piedi a forza di guardarmi e un altro sgranò gli occhi ed esclamò qualcosa dando una gomitata al suo amico vicino, indicandomi tutto felice. Altri invece mi lanciarono proprio degli sguardi bramosi. Non era per il vestito, no. Non ero così ridicola e, quello, non era un sorriso di scherno, bensì di apprezzamento. Mi sentii veramente splendida, come non mi succedeva da tempo.  
Anche Lythos attirava molti sguardi così, da parte delle persone della sua età, per fortuna. Anche se queste prima guardavano me (aridagli, ma i maniaci sono cosmopoliti come gli stronzi?)
Ci scambiammo uno sguardo malizioso e scoppiammo a ridere entrambe.
Uscimmo dall’Acropoli e ci inoltrammo per le vie di Atene. A un tratto sentimmo della musica e una folla che cantava: «Ma, c’è un concerto?» Domandai stupita.
«Sì!»
«Aspetta, abbiamo i biglietti?»
«Certo che sì! Ho pensato a tutto io». Mi rassicurò estraendoli dalla tasca, sventolandoli neanche fosse una bandierina. Salvo poi portarseli davanti al naso e scoprire che erano i punti per il supermercato. Mi sembravano un po’diversi i biglietti di un concerto. Lei li guardò e si scusò: «Ops, eppure credevo che fossero quelli giusti, scusami, Astrid, volevo portarti a un concerto e invece…». Già, il piccolo problema alla vista di Lythos. Altro che io che a forza di stare davanti allo schermo di un computer o di un cellulare (quando ci stavo) mi si incrociavano gli occhi e finivo per leggere fischi per fiaschi. «E, invece finiremo per fare la spesa; non fa niente Lythos, non ti preoccupare. Mi hai già fatto un bel regalo portandomi qui. Non ero mai stata ad Atene prima d’ora, sai?» Le confessai guardandomi attorno con la meraviglia nello sguardo. Anche se finora non avevo visto granché, quel poco che avevo visto mi stava già piacendo.
«Mai? Veramente?» Domandò stupita.
«Veramente. Ho vissuto in Germania fino ai sei anni, sono stata in Francia con la scuola, sono stata a Madrid, a Istambul, in Egitto in vacanza con i miei e persino in Giappone, ma non sono mai stata in Grecia prima». “E, soprattutto, non ci avevo mai vissuto”. Le garantii sorridendo convinta, guardandola negli occhi. Poi le presi le mani tra le mie e dissi: «Perciò, mi va bene anche se andiamo in un bar o al karaoke. Ce ne saranno in questa città, no?»
La sorella minore di Aiolia mi sorrise e ricacciò i punti nella borsa: «Sì, certo che ce ne sono».
Sorrisi: «Allora andiamo!»
Approdammo in un bar in piazza Syntagma e lì prendemmo un aperitivo accompagnati dal vociare allegro degli avventori e della movida greca. Poi pagammo e andammo via. Mentre girovagavano ci ritrovammo a passare di fronte a un gruppo di musicisti. Una piccola folla era radunata lì davanti al palchetto e cantava e ballava assieme a loro. E, lo ammetto, ma erano davvero bravi, sembravano un disco e il cantante raggiungeva acuti e bassi che io potevo solo sognarmi. Persino nell’interpretazione erano superlativi. Poi mi accorsi che uno dei musicisti lo conoscevo. Sgranai gli occhi: ma quello era il mio psicologo! Non sapevo che suonasse la tastiera in una band. Né che potesse uscire dal Santuario.  
Fu allora che mi accorsi che stavano suonando alcuni brani dell’Eurovision Song Contest dell’anno scorso che mi ero persa. Le conoscevo perché Elsa, mi sembra che si chiamasse così la mia collega, le cantava quasi sempre. Era stata lei a parlarmene quando le chiesi di chi fossero. Mi ero appuntata i titoli e le avevo scaricate alla prima occasione. Tanto alla Tredicesima il telefono funzionava da Dio. Proprio allora mi sentii salutare, mi volsi e vidi Aphrodite.
«Oh, buonasera». Lo salutai sorpresa. Mi sarei aspettata chiunque tranne lui. I lunghi capelli mossi con le meches verde mare erano sciolti sulle spalle. Indossava una giacca verde scuro e pantaloni bianchi.
Lui mi sorrise allegro: «Buonasera, Astrid e buonasera anche a voi, Lythos».
«Buonasera, Cavaliere di Pisces». Replicò lei, alquanto stupita dal trovarselo lì, ma cortese. Aphrodite non mi sembrava il tipo che si sarebbe accinto a frequentare questa zona o una festa o un concerto. A meno che non fosse un ricevimento dell’alta società; secondo me sarebbe stato l’unico motivo per cui si sarebbe mescolato a persone esteticamente meno attraenti di lui. «Non ti dispiace se invito la nostra Astrid a ballare, vero?» Domandò rivolgendosi alla sorella di Aiolia.
«Ma figurarsi, è tutta la sera che le dico di sciogliersi un po’. Neanch’io ero così timida alla sua età». Replicò la mia amica sul lavoro.
«Lythos!» Esclamai divertita avvampando mentre il mio amico si copriva la bocca con una mano per nascondere una risatina divertita.
Accettai il suo invito ma lo avvertii che ero negata per il ballo.
Lui disse che non dovevo preoccuparmi e che avrebbe trovato il modo di farmi fare bella figura lo stesso. Come se non la stesse già facendo. Gli occhi dei più vicini erano puntati su di noi per il semplice fatto che lui era qui. Era raro che i Cavalieri d’Oro scendessero in città. Soprattutto per le feste. Di solito se ne stavano altrove, in tempi come questi. 
Il massimo che riuscì a farmi fare fu un paio di giravolte. Giuro, facevo talmente pena che non mi potevano vedere. Eppure il mio viso era solcato da un sorriso di puro divertimento e mi sentivo il viso in fiamme.
«Cavaliere, potrei avere anch’io l’onore?» Domandò una seconda voce mentre provavamo a ballare. Ci voltammo e vedemmo Lancelot vestito con una t-shirt interamente stampigliata con la bandiera del regno unito e jeans neri e aderenti, sotto una giacca color salvia, che sorrideva. Il palmo abbronzato teso verso di me.
«Oh, Cavaliere di Cancer». Salutò con voce incolore Aphrodite. «Prego». Disse lasciandogli il posto.
Lancelot mi sorrise e per poco non mi fece un inchino, come se ciò avesse potuto invogliarmi a ballare.
«Proprio non ti arrendi mai? Non dovresti essere a proteggere Yoshino?» Gli domandai.
«Che cattiva. E io che pensavo che mi avessi rivalutato». Disse in tono lezioso e io pensai “Ruffiano”.  Poi ribattei, affilata. «Non è che ci fai proprio una grandissima figura a comparire alle spalle della gente e dirgli: tu sei un’Incantatrice, sai?» Peccato che non fossi neanche riuscita a fare una pallida imitazione della sua voce profonda. Purtroppo, per quanto mi sforzassi, non sarei mai stata capace di imitare un baritono o un basso. Mica ero un cantante lirico, io.
Però ero talmente felice da dimenticarmi che stavo parlando con Lancelot. Quest’ultimo soffocò una risatina prima di rispondere: «Suvvia, dovresti ridere di più».
«Sì, va bene». Affermai, decidendo di tagliare corto. «Se non altro potevi dirmelo che eri un Cavaliere d’Oro e non lasciare che lo scoprissi da me».
«Oh, non si era capito?» Mi canzonò.
Gli rifeci il verso, concedendomi un istante di infantilismo ma facendolo ridere. Che diavolo, dopotutto ero solo una ragazza anch’io. «No, mi mettevi paura». Confessai neanche troppo divertita. “In realtà me ne metti ancora”.
Il Cavaliere scoppiò a ridere e io, per vendetta, gli pestai un piede caricandolo con tutto il peso del corpo. A proposito… Ma io non sarei neanche dovuta riuscire a scalfirlo, come era possibile che sibilasse di dolore? Per davvero?
«Mi dispiace madamigella, se vi faccio questo effetto vedrò di porre rimedio». Scherzò un po’dolorante e io, che non avevo voglia di farmi guastare la serata più di tanto, ribattei: «Sì, però comincia domani». A questo era meglio non dare troppa corda. «Piano piano, ok?» Reiterai per sicurezza mentre ballavamo, o meglio, lui cercava di farmi muovere e al tempo stesso di salvare i suoi poveri piedi, che avevo già pestato (più o meno violentemente) almeno una dozzina di volte.
Lui sorrise contento e annuì.
Aphro e Lythos che cantavano vicini a noi. A un tratto la mia amica ci richiamò e ci facemmo un selfie di gruppo tutti e quattro con il concertino sullo sfondo. Le canzoni si susseguirono una dopo l’altra tra gli applausi, qualche canto e dei balli.
Lancelot non mi chiese più di ballare dopo la ventiquattresima volta che gli pestai i piedi, ormai quasi completamente appiattiti. Scherzo, non così tanto. In compenso si mise a cantare anche lui, con le lacrime agli occhi, cose che non avevano niente a che vedere né con la musica né con il testo della canzone.
Appena la serata finì, cioè verso le tre, ce ne tornammo a casa.
Mi sarebbe piaciuto salutare il dottore, però all’ultimo cambiai idea. Tanto l’avrei rivisto mercoledì, gli avrei detto tutto durante la seduta. E con questo pensiero seguii Aphrodite, Lythos e Lancelot. Appena lo affiancai quest’ultimo mi cinse le spalle con il braccio. «Ti è piaciuta la festa?» Domandò sorridendo, vicino al mio orecchio, neanche l’avesse organizzata lui. Peccato che con quegli occhi rossi e il sorriso affilato, quasi maniacale, più che divertito sembrasse soltanto folle. Fortuna che gli stavo simpatica.
Eppure, ero ancora abbastanza su di giri per dimenticarmi che stavo parlando con lui. 
«Sì, appena ce ne sarà un’altra voglio scendere di nuovo». Feci tutta entusiasta alzando le braccia al cielo per l’euforia. E, mancò poco che gli dessi anche un pugno in faccia. Il poveraccio, che ormai aveva i piedi ridotti a una frittata, fece un piccolo scatto indietro con la testa, salvandosi il naso. Abbassai le braccia. 
«Allora quando ci sarà un’altra serata come questa te lo farò sapere». Promise Aphrodite girando il capo per guardarmi da sopra una spalla e sorridermi.
Emisi un gridolino entusiasta di risposta.
Lancelot capì che quella sera avrebbe fatto una brutta fine e smise di cingermi le spalle. E, non lo stavo neanche facendo apposta.
«Ehi Aphro, dov’è Death?» Chiesi, dando voce al dubbio che fino a quel momento mi aveva pungolato.
«A giro anche lui, vedrai che sarà sicuramente in una discoteca da qualche parte a divertirsi». Rispose con noncuranza.
«Oh». E, io che pensavo di incontrare anche lui invece che l’altro Saint.
Attraversammo la strada.
Mentre eravamo sulle strisce lo affiancai a destra e lui mi domandò, volgendo il viso verso di me: «Che cosa c’è, cos’è quell’espressione triste?»
«Bè, credevo che voi foste sempre insieme». Dissi incerta.
Lui rise divertito: «Anche se siamo amici qualche volta abbiamo bisogno di staccare un po’ dal gruppo anche noi, Astrid». Spiegò e io sorrisi, contagiata dalla sua risata. Mi porse il braccio e io ci intrecciai il mio, intanto che Lythos sorrideva, accanto a noi e Lancelot cominciava a parlarle della musica.
Arrivammo all’Acropoli che erano le quattro del mattino, ma non avevo sonno, forse anche per merito della serata appena trascorsa. Una volta arrivati a Rodorio i due Saint ci accompagnarono, però Lythos si schernì dicendo che non c’era bisogno. Rodorio era piuttosto tranquilla, la sera e lei era abituata a cavarsela da sola. Poi, non eravamo così distanti dalle Case. «Come desiderate. Tu, Astrid?» Domandò Aphrodite, il piede già sul primo gradino.
Lancelot già sul sesto, le mani in tasca. 
«Io, devo salire fino alla Tredicesima, ma non c’è bisogno che vi disturbiate, posso farcela anche da sola. Andate pure, non preoccupatevi». Avrei preso i sentieri segreti dei servi per fare prima. Loro annuirono, ci augurarono la buonanotte e si avviarono, scomparendo presto alla vista. Lythos li seguì, ma a metà rampa, si accorse che non avevo fatto altrettanto e si fermò: «Che fai, non vieni?»
«Tu va pure avanti, ti raggiungo subito». Le dissi.
«Sei sicura?»
«Sì, certo». 
«Va bene, allora vado».
«Ok». Lei si strinse nel mantello e riprese a salire le scale, non troppo convinta.
Aspettai che se ne fosse andata anche lei prima di avvolgermi dentro il mantello e alzare gli occhi al cielo. E, quando mi ricapitava di scrutare la volta celeste nell’ora più buia della notte?
Le allodole cantavano già e i pipistrelli cominciavano di smettere di affollare il cielo con i loro creativi voli spezzati, però io non ero stanca. Mi sentivo sveglia come non mi succedeva da tempo. 
Mi ritrovai a considerare che era tanto tempo che non restavo fuori casa la sera. E, che non avevo ancora voglia di smettere.
Mi avviai verso il porto, alla spiaggia entro i confini della barriera. Ci voleva un po’per raggiungerla perché dovevo stare attenta a non incrociare nessuno e uscire dalla barriera protettiva, però ne valse la pena. 
Trovai una zona perfetta e mi misi a osservare la volta celeste.
Non vedevo così bene le stelle da tanto tempo.
La loro vista mi commosse, fu come un tornare a casa dopo un lungo viaggio.
Lasciare che la notte mi carezzasse senza averne più paura, essere un tutt’uno con essa e godere delle sue meraviglie. Io che avevo amato il buio e ora che lo riscoprivo, mi sentivo come un naufrago che torna a casa, una specie di figliol prodigo letterario e una specie di Ciaula scopre la Luna. Avevo dimenticato che anche la notte aveva le sue fonti luminose. Che la sua oscurità non era tagliente come le armature color ossidiana che mi avevano ferito. Che era dolce come un denso mare nero o una coperta non veramente scura. Avevo dimenticato che la notte non è nera, ma è delle più belle sfumature e tonalità del blu e che è tempestata di brillanti all’apparenza argentei. Che oltre ancora ci sono più colori e quante più bellezze e meraviglie di quante ne immaginassi.
La notte non è sinonimo di morte, è sinonimo di vita, è il riposo.
Non è vuota, è piena.
E sorella Luna non è che la sua candida argentea, silente sovrana. Selene è ancora qui, non se ne è andata.
«Non siete sparite, siete ancora qui». Mormorai commossa e, quando sorrisi, le lacrime inondarono il mio volto, tracciando un fiume salato che sfiorò gli angoli del sorrisone che albergava sul mio volto. E, che per la mia lingua, quando leccai gli angoli della bocca, sembrò dolcissimo.
Non ricordavo più che cosa significasse la tranquillità sotto alla stellata, non ricordavo più cosa significasse sentire il freddo abbraccio della notte, scomparirci dentro come si scompare tra le coltri di un letto, e lasciare che i delicati raggi argentei mutassero i miei colori caldi, donandomi i suoi stessi colori e facendomi sembrare una figlia della Luna.
Gli Specter mi avevano tolto la bellezza e l’amore per la notte. Da quella notte non avevo più trovato il coraggio di guardare le stelle, temevo che me l’avessero rubate come ladri in una gioielleria. Lasciando solo la desolazione al suo posto.
Il vuoto, ecco, più di ogni altra cosa a spaventarmi era stato proprio il vuoto, non tanto il buio. Avevo paura che senza le stelle non sarei più riuscita a trovare la rotta della mia vita e mi sarei persa nella tempesta. Avevo dimenticato la cosa più importante di tutte: avevo dimenticato di alzare il viso verso la volta celeste. Se l’avessi fatto prima avrei realizzato che gli Specter non le avevano cancellate, che l’amore per la notte non mi era mai stato sottratto completamente, che potevo recuperarlo e tornare a farlo risplendere dentro di me come prima.
Riscoprirlo e rinnovarlo, come adesso.
Il cielo non mi era mai parso così bello. Mi sentivo come la prima volta che lo vidi, cioè meravigliata e commossa.
Se ci fosse stato un motivo per cui rinascere ogni volta, splendeva sopra di me. Solo per rivedere questo spettacolo, sentivo che sarei rinata ancora e ancora e ancora. 
Se ci fosse stato un motivo per spingermi a tornare in vita ora e per sempre, l’avevo di fronte a me in questo momento. Fu questa la prima cosa che compresi quando mio padre mi mostrò la mia prima stellata, a cinque anni. Allora come adesso mormorai «É una magia», con voce rotta dalla felicità in coro con la piccola omologa del ricordo che si era sovrapposto per un attimo al presente, inginocchiata sulla sabbia.   
Mi sentivo di nuovo a casa, con il vento che mi accarezzava e il dolce mormorio del mare calmo, perfettamente piatto come una pista da ballo o uno specchio dove il firmamento vanitoso si rifletteva e al tempo stesso ricambiava il mio sguardo.
Le guance cominciarono a dolermi per il troppo sorridere, mentre ritrovavo le costellazioni che avevano segnato la mia infanzia e la mia adolescenza nella volta celeste. 
«Sei tu, Astrid?» Mi chiese una voce maschile conosciuta, facendomi sobbalzare e lanciare uno strillo. Mi volsi e vidi Milo. «Piattola ma che diavolo, allora hai veramente preso il vizio di spaventarmi!» Esclamai tergendomi le lacrime dagli angoli degli occhi e tirando su con il naso. Sperai che non se ne fosse accorto.
«Già, spaventarti è l’unica cosa che non ho ancora incluso nei nostri scherzi. Ti è andata bene che ti ho riconosciuto in tempo, altrimenti uno spavento sarebbe stato il minimo. Tu però non dovresti aggirarti con tranquillità per questo posto. E, se ci fosse stato un nemico e ti avesse attaccato? O, peggio, se non ti avessi riconosciuta?». Mi rimproverò, serio, avvicinandosi. Mi alzai spolverandomi la gonna. Scostai le braccia dal corpo per farle ricadere lungo i fianchi in un gesto di frustrazione. «Ma che è, la serata dei biasimi?» Sbuffai, seccata.
«La serata dei biasimi?» Ripeté senza capire, accigliandosi. Glielo spiegai brevemente. Volle sapere chi l’avesse preceduto e lo accontentai, poi gli chiedi che cosa ci facesse lui qui a quest’ora. «Non sapevo che anche voi Gold faceste i turni».
«Di solito no». Rispose lapidario.
Scossi il capo torcendomi le mani. «Capisco». Eppure, non indossava la Cloth. Mi sembrava più esile senza. Però potevo capire la sua preoccupazione. In fondo, anch’io non andavo mai al mare di notte. Non si poteva mai sapere chi avresti incontrato, soprattutto quando non era ancora giunta la stagione balneare. Spesso al liceo io e i miei amici di allora ci avventuravamo sulla spiaggia. In primavera avevo visto vu cumprà dormire sul cartone sulla sabbia e altri fare il falò per scaldarsi dentro dei bidoni che la corrente scaricava sulla battigia.
«Ad ogni modo cosa fai qui a quest’ora? Non dovresti essere alla Casa di Atena?» Domandò di nuovo.
«Per stasera se la caveranno benissimo anche senza di me». Risposi.
«Sei una ragazza veramente strana, sai?» Se ne uscì a un tratto dopo avermi osservato in silenzio per qualche secondo. Si portò le mani ai fianchi.
«Grazie». Ribattei ironica roteando gli occhi. Tornai a rivolgere lo sguardo al cielo anche se la magia era finita. L’atmosfera spezzata dall’arrivo di questo seccatore. In un estremo tentativo di ricrearla alzai nuovamente le braccia e ripresi le mie misurazioni. Mi chiese che cosa stessi facendo.
«Sono venuta a osservare le stelle, dalle Dodici Case non si notano molto, qui invece sì».
«Strano, io le ho guardate molte volte dalle Dodici Case e le ho sempre notate molto bene». Ribatté pensieroso alzando a sua volta il naso per aria. Secondo me stava pensando che stessi intaccando la barriera della Dea, ma evitai di dirglielo. In parte per l’ora tarda e, in parte, perché non avevo voglia di battibeccare. Non solo perché non avevo la più pallida idea da che parte cominciare. Inoltre era da molte notti che non avevo attacchi di ansia e panico, perciò ero intenzionata a godermela fino in fondo. «Perché sarei strana?» Chiesi poi, accigliandomi.
Rispose dopo tre secondi: «Hai fegato e sei coraggiosa, ma al tempo stesso una grande incosciente. Anche se sei solo un’ancella non ti fai piegare e sei indisponente nei confronti di tutti, nei miei, di Neera, anche del Gran Sacerdote. Non sopporti che qualcuno ti metta i piedi in testa, però ho notato che rispondi alla gentilezza, alle scienze e al calore del Sole. So che hai scelto di restare, ma io sono ancora del parere che andarsene sarebbe la cosa migliore per tutti. Dovresti tornare a casa».
«Ma guarda, sei la prima persona che incontro che la pensa come me. Peccato soltanto che tutto cospiri per tenermi qui, io non ho fatto altro che seguire la volontà del Fato». Commentai acida.
«Io non credo nel Fato. Io penso questo perché è vero che non ti sopporto, però è anche vero che non sei una guerriera, che hai rischiato la tua vita anche troppe volte, tutte non richieste. I Black Saints poi non hanno ancora abbandonato l’idea di seguirti nonostante tutte le opposizioni. Non penso che tu sia adatta a restare in un posto come questo, ti crei più nemici che amici invece che…»
«Mi stai forse scacciando?» Domandai incrociando le braccia al petto e inarcando il sopracciglio, offesa. Ecco, come rovinarsi una bella serata.
Lui serrò la bocca, parve rendersi conto di quello che aveva detto e si affrettò a metterci una pezza: «Cosa? No, no, certo che no».
«A me sembrava proprio di sì, invece». Alché cercò di riparare spiegandomi che in realtà voleva dire che i miei mi aspettavano e quando lo disse, percepii una nota di invidia e tristezza nella sua voce. Lo guardai interrogativa mentre parlava e, mi accorsi della sua espressione triste e che sembrava in lotta con sé stesso, come se una parte di lui non desiderasse affatto apostrofarmi così. «Piattola?» Domandai confusa e un po’impensierita. Non pensavo che sarebbe rimasto così male a una risposta come questa.
«É che non lo trovo giusto». Sbottò alla fine. Lo guardai con tanto d’occhi e arretrai d’un passo: «Cosa?» Lui mi lanciò uno sguardo esausto e al contempo compassionevole. Poi parlò con voce malinconica: «Tutto questo, te. Non dovresti essere qui, il Grande Tempio è un posto pericoloso, non adatto a fragili fanciulle come te. Dovresti essere a casa tua, vivere una vita tranquilla, felice e piena. Passare il tempo in compagnia della tua famiglia e dei tuoi amici, tu che puoi, tu che li hai». Mi incorniciò il viso con le mani. «E, invece, ti è toccato essere qui; a combattere assieme a noi, non lo trovo giusto». Disse gettando il suo sguardo dentro al mio. Non mi sottrassi a quel contatto ma sentii le guance scaldarsi.      
Serrai le labbra, mentre tutto diventava improvvisamente chiaro: lui aveva pietà di me. Per una volta non mi stava punzecchiando, era solo stanco e invidioso. Molto invidioso. Non l’avrei mai detto. Prima che potessi almeno correggerlo su un’affermazione in particolare continuò, staccandosi e facendo un passo indietro: «Già una volta detti questo consiglio a un altro e già una volta non fui ascoltato».
Il mio primo impulso fu quello di schiaffeggiarlo ma preferii stringere il pugno e rispondere in un altro modo: «Quello che dici è vero. Io non dovrei essere qui, ma hai mai pensato che forse la mia presenza sia voluta del Destino? E, se fossi qui perché è qui che posso svelare il mistero della Luce Ombrosa, in che modo, se è collegata alle stelle e, forse anche alle Creature? Se fosse qui che adesso devo stare?» Dissi enfatizzando l’adesso.
«Se così fosse qualcuno te l’avrebbe detto».
Feci un cenno di diniego alla greca: «Io non credo negli oracoli, anche se io stessa ne ho fatti in passato». Replicai. Addirittura ero quella che, più di ogni altro, avrebbe dovuto crederci per sillogismo. Avevo usato la parola Fato, ma forse era più giusto Karma. E, l’unico modo per uscirne, in tali casi, è guardare dove la storia si ripete. É lì che si trovano le risposte, solitamente. Il mio mi conduceva qui.  
«E se invece non fosse il volere del Destino e la tua presenza fosse un errore?» Insinuò dispiaciuto di dover demolire le mie certezze.
Sospirai, «Questo lo pensavo all’inizio, ora non più. Non posso continuare a pensarlo dopo tutto quello che ho fatto con Death, Aphro, Ptolemy, Eris, Aurel. Non dopo quello che sta succedendo e i poteri che sto imparando a scoprire e conoscere. Non dopo aver incontrato voi; questo è troppo marcato sia per essere una coincidenza sia per essere un caso. Qualcosa mi dice che non è così facile come la vuoi mettere tu ».
«Hai paura». Costatò con dolcezza. Era come se mi stesse dicendo che mi capiva. Come se saperlo potesse consolarmi. Fatto da lui mi sorprese per la seconda volta, non era molto delicato e dolce. Bè, neanche gli altri lo erano molto.
Mi strinsi nelle spalle e mi abbracciai il busto, abbassando lo sguardo: «Sempre. Ma devo seguire questa strada, capisci? Anche per smettere di avere paura». Dichiarai alzando lo sguardo per incrociare quegli occhi che mi guardavano compassionevoli. Questa era la seconda volta, da che ci conoscevamo, che lo vedevo al di là dell’ironia pungente e degli scherzi che ci scambiavamo. “Perché le ostilità tra noi cessano soltanto di notte?” Mi domandai battendo le palpebre e, i lucciconi piovvero sulle mie guance. Se le circostanze fossero state diverse probabilmente saremmo potuti essere amici. Me li asciugai rapidamente con la mano.
Finse di non notare le mie lacrime (cosa di cui ringraziai) e domandò, dopo un po’: «E, tu pensi che questo sia il modo migliore per trovare una risposta?»
«Nessuno da risposte di questo tipo in automatico. Se l’unica strada che ho trovato per scoprire la verità è quella delle stelle, quella di servire il Santuario, allora la seguirò». Dichiarai, anche se non sarebbe affatto stato come tornare in bicicletta. Sarebbe stato come tornare a fare il pugile dopo trent’anni di pensione. Proprio in quel momento, come se avessi detto una formula magica o come se il cielo avesse udito la mia dichiarazione e approvasse, cominciò a tingersi dei primi colori dell’aurora. Innalzammo il naso al cielo e io dissi, meravigliata: «L’alba». Ci voltammo completamente verso il Santuario. Restammo lì ad ammirare lo spettacolo del sole nascente.
Era la prima volta che la vedevo.  

Dopo colazione (passata a tra i complimenti dei miei colleghi e gli sguardi stupefatti che mi rifilavano), tornai in camera. Mi tolsi i gioielli e il vestito in favore della divisa delle ancelle della Casa di Atena e, dopo aver riposto le mie gemme nel portagioie che misi sotto al letto andai a lavarmi e a togliere il trucco. Mi spazzolai i capelli e, poi tornai in camera dove osservai il vestito, che, grazie a Lythos, avevo avuto occasione di indossare di nuovo.
La sensazione di essere tornata a casa non mi aveva abbandonata. Qualcosa in me era cambiato. Ed ero felice.
Ma, ero anche perplessa. Come ero riuscita a spappolare i piedi a un uomo che padroneggiava il Settimo Senso? Perché c’ero riuscita? Era la Luce Ombrosa che mi permetteva di fare questo e altro oppure era un fattore totalmente esterno a me? Oh, se solo le mie carte fossero state pronte avrei cominciato a usarle.
Soprattutto da quando mi accorsi che le stesse di alcuni Cavalieri di rango inferiore avevano cominciato ad affievolirsi e, lo stesso accadeva ad altri di rango superiore. Cosa diavolo stava succedendo?
Stavo pulendo le scale che portavano alle zone private della Tredicesima quando mi sentii chiamare. Mi volsi e vidi Mr Simpatia venirmi incontro. «Giusto te cercavo».
«Per cosa?» Chiesi mettendo da parte la ramazza e pulendomi le mani sulla gonna.
«Devi scendere a cercare il Cavaliere d’Ariete, il Gran Sacerdote desidera consegnargli questo». Disse porgendomi un rotolo di carta che estrasse dalla manica.
Lo presi e replicai: «D’accordo, ma a quale?»
«Come sarebbe a dire quale? Ma al nobile Kiriakya dell’Ariete, naturalmente!»
«Scusatemi?» Domandai battendo le palpebre perplessa.
«Hai capito benissimo, su corri, vai». Ordinò scuotendo le mani come a farmi sciò. Obbedii.
“Hai capito Kiki?”
Presi il sentiero dei servi una volta arrivata alla Dodicesima per fare prima. Non avevo voglia di sentirmi domandare di tutto e di più. Inoltre dovevo completare una scalinata in tempo per l’arrivo degli ambasciatori di Poseidone.
Ma alla Prima Casa non lo trovai. Lo trovai invece in arena, dove stava addestrando Raki. Era la prima volta che vedevo gli allenamenti della bambina. Ed erano massacranti, ma quello che mi sorprese maggiormente, fu la forza di volontà immensa che ci mise. Soprattutto nelle tecniche di psicocinesi. Solo vederla sollevare con la forza della mente gli attrezzi o i blocchi di marmo, che pesavano più di me e lei messe insieme, mi strappavano un moto d’ammirazione.
«Astrid». Esclamò sorpresa la ragazzina quando mi vide fissarla incantata. Perse la presa sugli oggetti che crollarono a terra con un tonfo profondo, facendo vibrare leggermente il terreno. Anche Kiki si girò e mi salutò, aprendosi in un sorrisone, prima di avvicinarsi e darmi un bacio su una guancia. «Non ti avevo sentita arrivare, scusami».
«Astrid, per favore, portalo via, non ce la faccio più, mi sta addosso come una cozza!» Mi supplicò la poveraccia.
«Lo faccio perché sei indietro e devi rimetterti in pari!» La rimbeccò il maestro. Guardai quest’ultimo con un sopracciglio inarcato. Il rosso si passò una mano sulla faccia e poi si scusò per questa breve scenata.
«Non fa niente, Kiriakya». Però mi sembrava che Raki non stesse affatto esagerando.
L’uomo s’irrigidì, sentendosi chiamare con il suo nome completo. Ma cercò di sdrammatizzare: «Così, alla fine l’hai saputo, eh?» E mi guardò di sottecchi nella speranza che non avessi preso a male questa scoperta e quest’ultima frase.
Certo che mi suscitava veramente della simpatia. La stessa che potevo sentire alla base per i miei sentimenti per il maestro, ma non altrettanto intensamente. 
«Mr Simpatia su alla Tredicesima mi ha detto di consegnarti questo, da parte del Gran Sacerdote». Spiegai porgendogli il biglietto. «Te l’avrei voluto dire, però».
«Concordo con te sul fatto che sia quasi impronunciabile, tranquillo. Però è bello, che significa?»
«Splendore di mezzanotte, nel dialetto dello Jamir». Spiegò con le guance imporporate e non credo che fosse per il caldo. «E, il tuo?» Mi chiese.
«I miei». Lo corressi con un sorrisetto divertito. Poverino, mi faceva una gran pena, sembrava sul punto di crollare da un momento all’altro.
«Hai due nomi? Ah, già, è vero, me ne ero dimenticato».
«Come funziona qui per voi il nome? Perché la maggior parte di voi ha nomi così corti e quasi improponibili?»
«Perché è quasi una specie di rito. I neo guerrieri rinunciano al loro nome originale quando si conquistano un cloth. Nel caso dei bambini si tende a dare sempre soprannomi. Come nel mio caso, ormai vengo chiamato con il nome completo solo nelle occasioni ufficiali e forse neanche in quelle, per gli tutti sono Kiki. Invece, altri preferiscono sottrarsi alcune sillabe al proprio nome e qualcun altro ancora preferisce tenerselo. Dipende da noi, essenzialmente, anche se sembra che quasi non abbiamo diritto neppure a un nome proprio». Spiegò imbarazzato.
«Capisco».
Raki ne approfittò per bere qualche sorso dalla borraccia che si erano portati dietro e ne passò un po’ anche a me. Ringraziai e sgranai gli occhi trattenendo il fiato rumorosamente.
Maestro e allieva mi guardarono preoccupati.
«Astrid?» Mi chiamò il primo e, la seconda: «Cosa succede? Hai visto qualcosa?»   
Improvvisamente vidi le costellazioni di tutti.
Mi guardai attorno ignorando i richiami dei due lemuriani.  
Vedevo le costellazioni di tutti guerrieri presenti in arena. Perché adesso le vedevo? La mia capacità non si era mai attivata così dal niente senza un reale motivo. Che stesse succedendo qualcosa? Mi guardai attorno alla ricerca delle Creature ma non ne vidi.
La voce di Kiki mi arrivò finalmente alle orecchie e sussultai di nuovo. Mi girai di scatto a guardarlo e non vidi nient’altro che le loro persone. «Tutto bene?» Mi chiese preoccupato. La bambina poco più bassa di me che mi guardava, in pensiero.
Tornai a guardare gli altri che si allenavano, ma non vidi più le loro costellazioni. Di nessuno di loro. Li guardai perplessa e dalle labbra mi sfuggì un: «Ma…»
«Tutto bene?» Mi chiese il rosso, preoccupato dalla mia espressione.
«Sì». Dissi io, accigliata.
«Hai visto qualcosa?» Mi chiese Raki.
«No, non ho visto niente, ciao, Raki, ciao Kiki».
«Ciao». Mi salutarono poco convinti. Credo mi avrebbero seguito se non fosse che doveva terminare l’allenamento di Raki e organizzare l’ultimo torneo che si sarebbe tenuto il pomeriggio seguente. Il torneo per l’assegnazione dell’Armatura dell’Indiano. Questo significava, che oggi avrebbe combattuto Neera. Qualcosa mi disse che mi conveniva assistere. Non so perché, ma me lo sentii. 
Lungo la strada di ritorno non feci altro che ripensare a quello che avevo visto. Che diavolo stava succedendo? Avevo le allucinazioni, adesso? Oppure no? E se avesse avuto qualcosa a che vedere con quello che era successo alla festa?
“Può darsi che sia così”. Ipotizzò il mio maestro.
Mi guardai la mano dalle dita lunghe e affusolate che emise un lieve scintillio dorato. Se non altro, avevo la certezza che il mio maestro fosse un Cavaliere d’Oro.
“Sono alle tue spalle, se t’interessa” mi disse. “Ma non riuscirai a vedere la mia costellazione”.
“Perché no?”
“Perché non è così che voglio che tu mi veda”.
“In che altro modo dovrei vederti, allora? Lo sai che ti stai comportando in una maniera inquietante anche tu. Non mi piace sentirmi alla stregua di un vettore, per te”.
“Non ho mai voluto ti sentissi così”.
“Ma lo sono, non è così?” Domandai stringendo il pugno sul tavolo, che smise di luccicare. Non voleva neppure che mi girassi a guardare le sue stelle. Perché? Di che aveva paura? Perché mi trattava così? Io non ero la sua allieva, questa era la verità. Voleva usarmi contro i Cavalieri d’Oro e questo pensiero mi uccideva.
Sentii gli occhi riempirsi di lacrime e dovetti mordermi il labbro inferiore per trattenere un singhiozzo.
Perché avrebbe dovuto farmi una cosa simile? Perché? “Che vai pensando? Io non ti farei mai una cosa del genere!”
“Come faccio a fidarmi? Dimmelo tu, come faccio?” Mi sentii stringere le spalle da dietro e sentii caldo, come se mi avesse deposto una coperta sulle spalle. Ma era una coperta strana, fatta di fili? No, capelli. Non potevo vederli, ma ne sentivo la consistenza sulla pelle delle braccia e del collo. Il suo viso incastrato tra spalla e collo. Lo sentivo respirare insieme a me, nonostante la sedia che ci divideva e il fatto che fossi seduta.
Il mio cuore accelerò e le mie guance si scaldarono mentre l’imbarazzo si faceva strada dentro di me, assieme a una sensazione molto piacevole. Non ricordavo che mi avesse mai abbracciata.
Però questo gesto, per quanto fosse bello era anche sbagliato. Come se non fosse il volto giusto appoggiato sulla mia spalla. Come se questo gesto, fosse appartenuto, tempo fa, a qualcun altro, ma che non lo riconoscessi che per una pallida imitazione. Diversa, piacevole, ma che sollecitava la mia memoria. “Non pensare mai questo di me, per favore. Non mi è mai interessato prendere il tuo corpo e farne il ricettacolo per la mia anima. Non ne ho bisogno e non voglio attaccare il Santuario. Temo invece per te, ho paura che questa storia possa distruggerti”.
“In che senso?” Chiesi ricambiando la sua stretta, poggiando le mani sui suoi avambracci muscolosi.
“Le stelle che scompaiono”. Disse spostando il mento sopra la mia testa. “Sono preoccupato. Potrebbe rivelarsi un’impresa ancora più ardua di quanto crediamo”.    
“Credi forse che sia io, allora? Quella che deve occuparsene, intendo”.
“Tu no?”
“Sì, io sì, temo di averlo già capito da tempo”. Però, potevo scegliere, no? Dopotutto non era mica detto che fossi proprio io quella che doveva occuparsene. Voglio dire, controllavo le Creature, avevo la Luce Ombrosa e quella strana aura. Ma questo non significava che dovessi per forza salvare il mondo, no? Dopotutto ero solo un essere umano.
“Hai paura?” Chiese raddrizzandosi.
“No, perché ci sei tu… a sostenermi”. Specificai, vergognandomi della prima parte della frase. Sperai che non si fosse accorto di niente. Ma perché mi vergognavo di questo?
“E ci sarò sempre, per aiutarti”. Promise poggiandomi una mano sulla testa. E, per la prima volta, sentii il suo profumo di erbe mediche, di Santuario e citronella. “Che c’è, tutto bene?” Domandò, preoccupato. “L’ansia?” Chiese con vago timore nella voce dal tono pratico. “No, solo un ricordo, credo”.
“Un ricordo?”
“Sì, ma olfattivo, credo di essermi ricordata un profumo”.  Spiegai perplessa.
“Un profumo?”
“O meglio, un odore, credo. Non so cosa sia, ma credo che una parte sia limone”.   
“Limone? E l’altra?”
“Non so con certezza, credo, qualcosa di bruciacchiato, ma non so cosa sia”.
“Quando l’avresti sentito?”
“Da piccolissima, credo, prima di incontrare te”. Perché nei ricordi che possedevo dove compariva lui non c’erano odori di limoni e di altro bruciacchiato. Non apparteneva a niente dei ricordi che avevo già vissuto e ricordavo. Qualcosa che mi faceva pizzicare il naso e inumidire gli occhi e, che suscitava una forte nostalgia.
“Ti lascio sola per un po’?” Domandò con delicatezza.
“Sì, grazie”. Dissi. Anche se, quando non lo sentii più abbracciarmi, ne sentii la mancanza.
“Santa Atena, ripigliati, Astrid”. Mi sgridai mentalmente quando fui certa che mi avesse lasciato veramente sola.  
    
Passai il resto della giornata seduta al tavolo della cucina a riflettere su quello che avevo visto dalla festa a ora. Con il risultato di ottenere rispettivamente dei rimbrotti da Kanon, da Mr Simpatia e qualcos’altro da qualcun altro cui non feci caso.
Messaggiai con mio padre e gli chiesi come procedessero le ricerche sulle Creature e la sparizione delle stelle. Disse che per il momento non era scomparso ancora niente, però avevano già cominciato a formulare delle ipotesi per le varie forme di vita con la scomparsa degli astri.
A quel punto non avevo ancora preso in considerazione anche il resto. Mi ero concentrata solo sulle stelle, non sullo spazio nel suo insieme. 
Però, non mi seppe ancora dare risposte esaurienti. 
Alla fine giunsi a una conclusione: chi se ne importava della biancheria da stirare della Tredicesima Casa. Delle scarpe da portare dal ciabattino, del pranzo da cucinare e dei bagni da pulire.   
Proprio in quel momento passò una mia collega con un cesto di biancheria lavata. Mi lanciò un’occhiataccia che ricambiai con uno sguardo assente. Sapevo che il resto del personale non era entusiasta di me. Mylock in primis. Non mi aveva ancora perdonato la mia uscita serale. Penso che se fosse stato più giovane non avrebbe esitato a pestarmi con il bastone che si portava sempre appresso. Bastone che avrei potuto schivare tranquillamente.
Già un paio di volte aveva minacciato di licenziarmi con il suo savoir fare da gorilla e la sua delicatissima voce da elefante con il mal di gola, perché avevo accidentalmente bruciato con il ferro da stiro ben tre paia di mutande di Kanon. Anch’io ero rimasta scioccata: non mi era mai capitato di bruciare le mutande di qualcuno, con il ferro da stiro. Cioè, distruggere un ferro da stiro sì, distruggere le mutande di qualcuno no. E, non un piccolo buchetto facilmente riparabile ma una vera e propria voragine triangolare che andava da elastico a orlo. Per quanto Kanon fosse bardato di tutto punto, dubitavo che gli avrebbe fatto piacere portare delle mutande irrimediabilmente rovinate. 
Alla fine Mylock mi decurtò lo stipendio.
Ma non potevano capire. Come potevo concentrarmi al meglio sui lavori domestici quando stava succedendo qualcosa? No, il tempo per rimandare era finito, adesso dovevo seriamente scoprire che cosa stesse succedendo alle costellazioni. E assistere a quest’ultimo torneo.
Forse non era stata la presenza di Neera a incuriosirmi, quanto piuttosto quella dell’Armatura cui aspirava. Non so perché, ma quell’Armatura mi dava la stessa sensazione di quella di Aurel.

Camus
Uscisti dalla villa della Sacerdotessa di Hades.
Le notizie che ti aveva riportato la signora degli Specter ti avevano sorpreso, forse sconvolto. Non credevi che gli Inferi vertessero in queste condizioni critiche. Tantomeno che lei avesse trovato validi alleati, neanche li avesse scovati dalla soffitta di casa propria. Di che alleati parlava? Tu vedevi solo un popolo antico che ti conosceva da neppure tre ore e già ti venerava alla stregua di un Dio.
Ti offrirono da mangiare e da dormire in una delle tende del loro accampamento.
Avevi deciso di dare il tuo contributo, in qualche modo. E Valentine dell’Arpia ti aveva riso in faccia quando glielo dicesti.
Proprio allora una bambina pitta ti si avvicinò. «É così assurdo quello che ho detto?»
Lo Specter ti afferrò per il colletto della maglia e ti trasse a sé, di modo che tu potessi vedere bene i suoi feroci occhi: «Ascoltami bene, anima viva, qui non si parla di una semplice guerra tra schieramenti, è chiaro? Si parla del dominio sulla Vita e sulla Morte. Questa non è una battaglia tra esseri umani, qui combattono le leggende. Questa è una battaglia tra Cosmo e magia, qui non c’è posto per i Saint di Atena. Noi non vogliamo spie. Noi non vogliamo quelli come te. Qui, non c’è posto per te. Se vuoi renderti utile torna al Cocito e restaci».
«Levami le mani di dosso». Sibilasti, ghiacciandogli il polso, ma lo Specter rise e si tolse di dosso il ghiaccio bruciando appena il suo Cosmo. Tu fissasti inorridito questo spettacolo e ti guardasti le mani: che cosa stava accadendo? «Tu non hai più un corpo fisico, Cavaliere, i tuoi trucchi non possono niente contro di me fintanto che indosso questa Surplice».
Durante la Guerra Sacra non era stato così. Che cosa stava succedendoti? «Dammi retta, Camus», riprese, «resta insieme ai tuoi compagni e non fare cavolate; questa non è la tua battaglia».
«Perché non volete il nostro aiuto? Siamo alleati!» Protestasti e l’altro si rigirò come una biscia, trapassandoti di nuovo con gli occhi. «Alleati? Aiuto? Sveglia, qui siamo negli Inferi, non esiste la riconoscenza. Tantomeno verremmo a chiedere aiuto a voi, che ci avete massacrati senza pensarci due volte. Perché dovremmo chiedervi aiuto, se è per colpa vostra che ci troviamo in questa situazione? Come osi chiederci di perdere la faccia a questo modo? Come osi chiederci di gettare al vento la nostra dignità? Noi non siamo alleati! La nostra alleanza non si estende alla guerra, Cavaliere. Adesso torna nel Cocito e resta là».
«Non so come tornarci». Gli facesti notare. Normalmente per te non sarebbe stato un problema, ma con le Creature e quello che era appena successo al tuo ghiaccio e la nebbia. L’altro ti scoccò una lunga occhiata e poi fece un fischio. Una ragazzina che non poteva avere più di una dozzina d’anni, dalla pelle dipinta di blu e alcuni tatuaggi su braccia e gambe, si avvicinò. Poi s’inchinò allo Specter. «Conducilo nel Cocito e torna qui». La ragazzina sollevò il capo e lo guardò con i suoi occhi blu senza dire niente. Ti venne istintivo protestare: «Ehi, aspetta, è solo una bambina come puoi…» Ma l’altro rise, ti volse le spalle e se ne andò.
Guardasti la ragazzina che ricambiò con un’espressione seria sul viso paffuto. Poi cominciò a camminare verso la nebbia, senza paura alcuna. E, tu, non avesti altra scelta che seguirla.
In breve vi lasciaste alle spalle la foresta e la nebbia e ti venne istintivo coprire con il tuo mantello quella bambina. La quale ti guardò un po’perplessa per questo gesto, poi riprese a camminare.
Quando giungesti a casa tua e apristi la porta e ti girasti a guardarla, lei era ancora lì, con il tuo mantello sulle spalle. «Vieni a scaldarti». Le offristi. «Almeno finché la tormenta non si placa». Aggiungesti in tono più gentile. Lei ti seguì dentro la tua izba. Ti osservò chiudere la porta e accendere il fuoco. Infine posasti il Pandora-box che sfiorò con le sue ditina con curiosità.
Ma anche allora la sua boccuccia non si tese in un sorriso.
La invitasti a scaldarti, mentre tu preparavi da mangiare. Si scostò solo quando mettesti la pentola sul fuoco del camino. Quando ti girasti, che le avevi dato le spalle per frugare in dispensa, la trovasti in piedi davanti ai tuoi piccoli vasi di fiori. Lei osservava rapita le margherite. 
«Ti piacciono?» Le domandasti. Lei ti guardò da sopra una spalla. «Sono belle, vero?» Continuasti appoggiando i gomiti al tavolo. «Annusa, sentirai che profumo». La bambina continuò a osservarti e tu cominciasti a pensare di aver fatto una stupidaggine a invitarla a restare. Era ovvio che non si fidasse di te. Viveva all’Inferno, quella povera anima, perché mai avrebbe dovuto fidarsi di te? Forse non notava neppure il colore dorato della tua Armatura. «Vuoi mangiare?» Domandasti, tanto per cambiare discorso. Ti avvicinasti alla pentola eppure sentisti la sua manina cingere la tua. Ti girasti e la vedesti guardarti. Avevi il cuore in gola. Temevi di aver fatto entrare in casa tua un mostro.
Invece la piccola ti girò la mano, ti toccò esattamente il centro del palmo con le sue dita, poi indicò i fiori e la piccola collana che portava al collo. La osservasti. Una volta doveva esserci stata una gemma lì. Non avresti saputo dire di che materiale, però ti inginocchiasti e congelasti per lei gli atomi, di modo che avesse di nuovo la sua gemma. Un piccolo fiore di tulipano. 
E, stavolta, lei sorrise.
Poi si avviò alla porta, lasciandoti la mano. La seguisti e gliel’apristi. «Sei sicura di non voler restare?» Le chiedesti pur non aspettandoti una risposta. La vedesti togliersi il mantello e restituirtelo. Poi ti afferrò la maglia e ti fece capire di abbassarti di nuovo. La esaudisti. Allora sgranasti gli occhi, quando sentisti le sue piccole labbra stampare un bacio sulle tue.
Un piccolo, innocente bacio, che sapeva di ringraziamento per la tua gentilezza.
Poi ti lasciò andare, ti volse le spalle e s’inoltrò tra i ghiacci del Cocito come se non patisse il freddo.    

Per un attimo avevi considerato di parlare di tutto ciò con i tuoi compagni Cavalieri. Ma chissà dov’erano. Chissà se potevano staccarsi dalle loro postazioni. 
Non ti curar di loro ma guarda e passa. Ecco il verso della Divina Commedia che stava descrivendo appieno la vostra situazione. Se la realtà era questa, quando era cambiata sotto i vostri occhi? Perché non vi eravate accorti di niente? Oppure era sempre stato così ed eravate voi a esservene accorti ora?
Fortunatamente potevate ancora usufruire degli Skeleton per comunicare tra voi. Avevi già rischiato moltissimo usando il tuo Cosmo per creare il ghiaccio, non potevi rischiare ulteriormente. Tu, che di solito calcolavi le cose quasi alla perfezione, anche se la perfezione poteva esserti fatale, adesso non potevi più permetterti di sbagliare.
La gente poteva pensare un mucchio di cose su di te, la verità era che era Milo quello calcolatore tra voi due. Tu eri solo bravo a mascherare le tue emozioni e a nascondere i tuoi piani. Non eri veramente di ghiaccio e, strano a dirsi, la situazione che verteva negli Inferi, ti preoccupava. Se avessero perso la guerra Don Avido e i suoi sgherri sarebbero tornati a infestare il Regno dei Vivi.
Normalmente i Cavalieri Neri non erano un problema. Anzi, erano piuttosto deboli persino nei confronti dei Bronze Saint. Per dirla in parole povere erano la loro copia su carta carbone.
Ma se gli Inferi teneva imprigionate le loro copie e le generazioni del passato, allora i morti che sarebbero tornati sarebbero stati a centinaia e tutti loro avrebbero acquisito la capacità di diventare Specter a tutti gli effetti come accadde a voi risorti.
Se già centootto Specter ai tempi furono un problema, non osasti immaginare cosa sarebbe potuto accadere contro un esercito di innumerevoli individui assetati di vendetta e quasi incontrollabili.
No, non lo potevi permettere. Come guerriero della Speranza non potevi permetterlo.
Indossasti la Sacra Aquarius e uscisti dalla tua izba. Andasti a cercare le legioni degli Specter orientandoti grazie alle impronte lasciate da Valentine e non ancora cancellate. Fortuna che sapevi orientarti molto bene in mezzo alle nevi e ai ghiacci.
In breve raggiungesti le montagne e le valicasti. Fortunatamente avevi sopportato di peggio nella tua vita. Questi sentieri non ti dicevano assolutamente niente. E, poi da lì, ti bastò tendere l’udito per vedere la colonna di Specter in marcia. Compatti come non li avevate mai visti prima, marciavano come un sol uomo. 
E, per tua fortuna, questa legione era di Lady Pandora.      
«Milady». La chiamasti, ma a causa della folla e del rumore non ti sentì. Perciò scendesti a gran velocità dalla montagna e raggiungesti la colonna in marcia. Sempre comunque troppo lentamente per i tuoi standard, che l’avevi persa di vista. La chiamasti. Ma non avesti risposta, tranne qualche sguardo contrariato e qualche urlo per scacciarti.
Lady Pandora volse il capo verso di te, continuando a camminare. «Che cosa volete, Cavaliere d’Aquarius?»
L’affiancasti. «Non dovete combattere questa guerra da soli, noi possiamo aiutarvi».
Lei aggrottò la fronte: «E finire come ventinove anni fa? No, grazie, ho già avuto a che fare con voi ben quattro volte, non ripeterò lo stesso errore anche una quinta. Di voi non ci si può fidare». Decretò tornando a guardare davanti a sé. L’afferrasti per il braccio e lei gemette per la sorpresa del tuo gesto, fermandosi. «E degli Specter sì?»
Rhadamantys scattò verso di te: «Ehi!» Ma Pandora inclinò la punta centrale del suo tridente verso la tua gola scoperta, in un chiaro segno di minaccia: «Lasciatemi andare, Cavaliere». Ordinò. Obbedisti. «Non potete capire, siamo pronti tanto a massacrarci vicendevolmente quanto a combattere come un’unica cosa, in caso di necessità. Agli Specter non interessa la lealtà e i valori che tanto ostentate».
«Ma a voi?»
«Quel che importa a me non è affar vostro e non vi permetterò di mettere le mani sul mala del Cavaliere della Vergine, non più».   
«Perché lo fate, se Hades non vi ha mai dato niente?»
«Non è per Hades che lo faccio, adesso ho qualcosa per cui combattere anch’io e non mi tirerò certo indietro. Ora scusate, devo tornare alla testa delle truppe». Ciò detto ti voltò le spalle.
Lasciasti che la donna scomparisse nelle sue stesse schiere che ti passarono accanto.
Restasti a fissare quell’esercito di fantasmi e di Specter uniti contro un comune nemico, avviarsi a riconquistare la prossima Prigione.
Forse avresti dovuto lasciarli fare, però al diavolo. Non potevi restartene con le mani in mano, non quando stava succedendo qualcosa di così importante sotto ai tuoi stessi occhi.
Perciò li seguisti e finisti inglobato nell’ultima fila, in mezzo agli Skeleton e ai celti che battevano i tamburi. Forse un patetico simulacro di quei cuori che non avrebbero più battuto per molto tempo.
Ma il tuo cuore sì, eccome.
Tu, eri vivo e sapevi anche tu che se ti fosse successo qualcosa negli Inferi ne avresti pagato le conseguenze. Ma non potevi lasciare che le cose andassero così. In mezzo a questa gente poteva anche esserci Isaac. Se solo tu avessi potuto trovarlo.
Ma non c’era tempo, eravate giunti davanti alle rive fangose del Cocito?
Perché? Inoltre, il Cocito era un fiume di ghiaccio, com’era possibile che fosse disciolto? Eravate discesi tanto dalle altitudini sopra il livello del mare cui eri abituato?
Oppure… Ci stavi ancora pensando quando sentiste un grido propagarsi lungo le truppe che erano ammassate sulle rive.
Un galeone nero solcò le acque e lo Specter a bordo, al timone salutò la Somma Sacerdotessa. «Lady Pandora». Lo sentiste forte e chiaro e tu strabuzzasti gli occhi: era Aiacos di Garuda e, dietro la sua nave, altre imbarcazioni, più piccole, veloci e leggere, tra cui delle canoe.
La mora osservò le imbarcazioni e salutò il suo Specter, che approdava vicino alle rocce. Poi calò la passerella per permettere alle truppe di salire. Appena la Sacerdotessa con il Tridente raggiunse il ponte, lo Specter le offrì la mano per aiutarla e, giurasti di averlo visto esibire un baciamano da manuale, prima di rialzarsi e lasciarla passare. Poi, la sua Ala, Violate di Behemoth, tenendosi a una delle sartie urlò con voce potente: «Avanti, salite! Tutti gli altri salgano sulle altre barche!»
Tu fosti uno dei pochi fortunati a salire sul Veliero della Stella del Cielo dell’Eroismo perché ti facesti largo tra la folla a spintoni. Riuscisti a guadagnare la balaustra. E lì vedesti le altre imbarcazioni, risalenti a tutte le epoche, piene di persone. Anche voi avevate avuto un’arca, adesso nascosta chissà dove dalla Guerra Sacra del millesettecento, o forse distrutta. Ma non immaginavi che gli Specter disponessero di tanti uomini e forze. E tutto per riconquistare il proprio territorio.  Proprio allora vedesti Pandora salire sulla balaustra dietro il timone e reggersi in piedi da sola.
«Miei Specter, popoli del passato, Genti delle Nebbie!» Urlò la Sacerdotessa di Hades e tutti gli occhi furono catalizzati su di lei: «Per millenni abbiamo convissuto insieme, per millenni, noi, sotto la benevolenza e la misericordia del Divino Hades, vi abbiamo aiutato a rinascere purificati dai vostri peccati. Acheronte, Stige, Flegetonte, Cocito e Lete sono i nostri fiumi sacri! Il sangue e la vita di questa terra. Luogo di dolore ma di dolore buono e voi lo sapete tanto quanto me che il tormento è eterno solo finché dura e che questi fiumi sono la porta della resurrezione necessaria! Sono i raggi della Ruota della Vita e della Morte, la Ruota delle Tre Parche, la Ruota della Filatrice, percorrere quei percorsi significa soprattutto espiazione. Significa che attraverso il dolore vi si darà un’altra possibilità. Per millenni avete vissuto nei nostri territori e i rapporti tra noi sono stati burrascosi. Ma oggi una grave minaccia si è insediata tra di noi. I Black Saint sono sfuggiti al nostro controllo con la distruzione dell’Hades e hanno liberato i loro compagni! Avete provato anche voi sulla vostra pelle che cosa fanno! Che cosa vi hanno fatto! Che cosa vogliono fare e non possiamo permetterlo! Oggi sono qui davanti a voi per chiedervi di seguirmi nella lotta. Lottiamo insieme per riconquistare ciò che ci è stato strappato. Terre, foreste, per voi, il nostro mondo, per noi! Per ricacciare Don Avido e i suoi da dove sono venuti! Signori, guerrieri, fate sventolare i vostri stendardi, suonate le vostre arpe, i corni e i tamburi da guerra, imbracciate di nuovo le armi, per scacciare gli invasori. Sicché poi avremo di nuovo una casa a cui tornare! Chi è con me?» Urlò alzando il tridente.
Ti aspettasti di tutto, che le scoccassero le frecce, che le tirassero le lance, invece, tutti alzarono al cielo le loro armi e gridarono a una sola voce, alzando e abbassando ripetutamente i loro pugni e le loro armi. Persino gli Specter in coperta ulularono e batterono i palmi e i piedi sul legno della nave, in coro a quelli sopra coperta. Di colpo la vedesti ammantata del carisma che ventinove anni fa la rivestiva come i petali di una corolla. Non era solo per il suo essere donna che Hades l’aveva scelta. E non era per inettitudine che aveva perso la Guerra, sacrificando la sua stessa vita. Adesso sembrava perfettamente consapevole del proprio ruolo, come non lo era mai stata prima. Forse era persino più pronta della stessa Atena a scendere in campo. Perché lei era una donna, sì, ma era un’umana. Ma proprio questa sua umanità, la rendeva ancora più forte e, invincibile. Capace di compiere miracoli anche lei, di entità diversa rispetto ai Cavalieri d’Oro, ma sempre miracoli erano. Ed era riuscita a riunire sotto di sé gli Specter o, almeno, buona parte di essi e le anime di coloro che furono. Ecco il vero potere della Sacerdotessa di Hades, ecco la vera faccia della condottiera degli Inferi. Ecco, cosa vedesti.
Pandora scese dalla balaustra e il terzo Giudice Infernale trasformò il suo grido in un gioioso: «Avanti, Specter, alla via così!» Parole cui fece eco la Specter di Behemoth prima di cominciare a strillare ordini a destra e a sinistra all’equipaggio.
E, mentre osservavi sgomento l’ammiraglia mettersi in moto e dietro di lei le altre barche, non potesti fare a meno di pensare all’assurda grandiosità del momento che stavi vivendo. Ma questa era la tua scelta e non l’avresti cambiata.
Proprio allora ti accorgesti che la nave si stava alzando dall’acqua. Guardasti in basso e vedesti la terra e le acque di fiele del Cocito allontanarsi sotto al tuo sguardo. Volgesti lo sguardo indietro, mentre le correnti aeree ti scompigliavano i capelli e vedesti molte altre imbarcazioni fare lo stesso, piovendo gocce d’acqua sulle barche sottostanti.
E ti mancò il fiato e presero a farti male le tempie. Quasi ti accasciasti sulla balaustra.
Proprio allora, mentre osservavi meravigliato questo spettacolo, qualcosa saltò vicino a te, facendo scricchiolare il legno. Ti girasti e vedesti Violate di Behemoth, accovacciata davanti a te nella sua Surplice come un gargoyle di una cattedrale gotica. Le labbra carnose piegate in un sorriso sardonico. Gli occhi scuri luccicanti di follia e malignità. «Prima volta?» Ti domandò. Non rispondesti. «Tranquillo, capita a tutti la prima volta. Se devi vomitare fallo adesso finché sei in tempo, Cavaliere, oppure». Ti afferrò per il collo e, ti ritrovasti fuori della barca senza sapere come ci eri finito. Sapevi solo che quella bruta in armatura, dal corpo coperto di cicatrici, si aggrappava alle sartie e ti teneva per il collo: «Ti lascio andare e festa finita. Chissà se i Cavalieri d’Oro sanno volare». Proferì l’ultima parola sgranando gli occhi. Ti aggrappasti a quel polso stranamente forte e solido. Quella mano però non ti strozzava, si limitava a tenerti così e, proprio per questo era dieci volte più pericolosa. 
«Rimettimi dove ero prima! Non vorrai mica far scoppiare un’altra Guerra Sacra tra…» Ti ritrovasti scagliato sulle assi del ponte. Ti rialzasti a sedere toccandoti istintivamente il collo. «Non mi piacciono i chiacchieroni». Sputò lei sprezzante prima di avviarsi dal suo padrone. Il quale, ancora al timone, aveva assistito alla scena ancora compiaciuto. Dieci a uno che era stato lui a dirle di importunarti. Ma non era importante. Neanche quest’evidente episodio di nonnismo lo era.
L’importante era scoprire cosa stesse accadendo per il bene del Santuario e della Terra stessa.
Nel giro di poco tempo arrivaste sul campo di battaglia. Ossia le acque nere e putrescenti dello Stige che s’incontravano con l’acqua del Cocito. Le paludi nere, quelle che dovevano essere custodite da Flegias. Il luogo di punizione per gli iracondi e gli accidiosi. E lì, parte delle imbarcazioni più piccole furono abbandonate e fatte scendere.
Vedeste anche alcuni spiriti restare sospesi a mezz’aria come trasportati dalle correnti di vento che trasportavano le nubi. E, vedeste Aiacos urlare ordini ai suoi uomini. Soprattutto di armare i cannoni, che presto avreste combattuto. Presto? Ma non c’era nessuno all’orizzonte.  
La minaccia non vi stava venendo incontro di fronte, bensì da sotto, che subito foste immersi nella nebbia. Non era una nebbia normale e lo sentivate tutti. Persino voi. Nella nebbia sentivi lo sguardo dei morti e sentivi il loro calore? Improvvisamente un getto di fuoco si abbatté sull’albero maestro e gli Specter corsero subito a spegnere l’incendio e il rumore agì come catalizzatore per queste creature. Che anche tu ti ritrovasti a combattere contro degli scheletri con brandelli di carne ancora appesi alle ossa. Non pensavi che le dita di un morto potessero essere così taglienti. Tantomeno che i morti fossero così forti. Per ogni energia da te sprecata, sembrava che loro ne accumulassero. Non sapesti neppure tu come fu possibile, ma ti ritrovasti accanto a Pandora, nel bel mezzo dello scontro.
Ma la perdesti subito di vista in quanto uno Specter ti si avventò contro.
Mentre combattevi per la vita, la nebbia si avviluppò attorno alla nave e la strattonò giù. Facendovi perdere l’equilibrio.
Tu finisti a terra e gli spiriti furono risucchiati dalla nebbia.
Come se non bastasse, ecco arrivare le Creature. Creature che, con tuo grande sconcerto, invece che attaccare i morti, attaccarono i Vivi, incenerendole. «Azzerate il Cosmo! Azzerate il Cosmo!» Urlò Pandora e Aiacos di Garuda urlò altrettanto mentre cercava di manovrare il timone affinché uscisse dal banco di nebbia. «Lasciate combattere gli spiriti!» Continuò la signora degli Inferi dopo aver roteato il tridente e aver tagliato la testa ad alcune anime che si erano avvicinate troppo.
«Il timone è incastrato!» Strillò uno Specter che si sporse per vedere dov’era il problema.
«Vado io!» Strillò Violate di risposta dopo aver mollato un ultimo, poderoso colpo a un morto che stramazzò al suolo.
Ti beccasti un colpo dal nemico che ti fece volare via l’elmo e aprire un taglio sulla fronte, ma non ti arrendesti e, espandendo il tuo Cosmo, te ne liberasti. Ma, finisti inesorabilmente, per trovarti faccia a faccia con una di quelle Creature. Era come guardare il vuoto dell’abisso. Restasti immobile, con il Cosmo azzerato. La Creatura ti guardò e poi se ne andò. Non avevi mai avuto tanta paura prima. Tirasti un impercettibile sospiro di sollievo prima di ricordarti che anche tu eri uno spirito. Non eri necessariamente soggetto alle leggi della fisica. Sperasti che il tuo ragionamento fosse coretto.
Ti mettesti un momento da parte vicino alle sartie per osservare meglio la situazione. Sembrava che solo gli spiriti potessero combattere gli altri spiriti imprigionati nel tormento eterno. E non solo. Gli spiriti erano immuni alle Creature. Le Creature preferivano evitarli come se (assottigliasti lo sguardo) come se avessero la stessa polarità e si respingessero a vicenda.
Poi vedesti gli spiriti dei peccatori non abbandonare mai la nebbia. Perché? Perché attaccavano sempre con quella. A un tratto uno degli alleati di Pandora  
«É la nebbia». Mormorasti.
Ma non avesti il tempo di fare niente che la carena della nave sbatté contro i picchi affilati e rimbalzò sulle rocce. Poi, scivolò lungo un pendio. Non avesti altra scelta che usare il tuo Cosmo per creare una barriera di ghiaccio che fermasse la discesa. Anche se ciò probabilmente significava essere ammazzati.
Ma eri uno spirito anche tu, no? Ti facesti largo tra la folla e saltasti giù. Calcolasti male e non riuscisti a rialzarti o ammortizzare la caduta che ti ritrovasti a franare assieme a spiriti e Specter lungo il pendio.
Ti aggrappasti per miracolo a una roccia e, con un contraccolpo che avrebbe staccato il braccio a chiunque, ti fermasti. Poi, lottando per rimanere sveglio, tendesti una mano verso la barca e congelasti gli atomi, mentre alcuni Specter la facevano girare afferrando la prua della nave e facendo leva in senso contrario per smuoverla, sollevando polvere e sassi e provocando scintille.
Le Creature scivolarono subito da te, tendendo le loro mani artigliate verso la tua carne, ma dei guerrieri dalla pelle dipinta di blu glielo impedirono.
Intanto un boato poco distante vi annunciava che la nave si era fermata e che la sua carena era in fiamme per via delle scintille. Il metallo nero di cui era rivestita aveva fatto attrito contro le rocce e aveva sprigionato scintille che si erano andate a cozzare contro altre barche cadute e il legno del timone che Violate aveva liberato poco prima che la nave cadesse.
Adesso, mentre tu ti riprendevi, la stessa, infaticabile Specter che usò la Brutal Real per generare un terremoto per far cadere sulla testa dei Black Saint una montagna. Ti riparasti la testa tra le mani, mentre lei saltava da te e poi, con un colpo di tallone, ti calciava in aria come se tu fossi una palla: «Spostati, nullità». E, ti ritrovasti in aria, ma non cadesti, fosti afferrato da una mano. Alzasti lo sguardo e vedesti una guerriera pitta prenderti al volo e urlarti qualcosa, tu annuisti senza capire che dicesse, mentre sentivi la bocca piena di sangue e tossivi per i vari fumi.
La donna volò via continuando a trascinarti e potesti vedere il suo popolo combattere contro gli sgherri di Don Avido con una forza e una resistenza che non immaginavi. Poi, ti lasciò cadere vicino alle catapulte del suo popolo. Lì fosti soccorso da alcuni guerrieri. E, a gesti cercasti di spiegare loro che cosa stesse succedendo e se stessero bene.
Per tutta risposta t’indicarono i loro arcieri disposti in formazione lineare e gli arcieri medievali dietro disposti a doppia V. E vedesti come la fanteria e i barbari riuscissero a mettere in serie difficoltà gli invasori che, presto cominciarono ad arretrare. Mentre altri ormai stufi e infastiditi, perdevano la ragione e si scagliavano contro gli spiriti, cadendo nella loro trappola.
Loro della nebbia erano i padroni. Fantasmi ancor prima di diventarlo.
Un po’ come quei soldati che si tinsero interamente di bianco e attaccarono i nemici di notte. Gli alleati perfetti di re Artù. Così combatteva il popolo delle nebbie.
Ma la nebbia continuava a restare un problema.
E ti tornò in mente: «La nebbia!» Corresti dai druidi e urlasti queste parole indicando concitato la nebbia incantata. Loro ti guardarono come a domandarsi che cosa stessi dicendo. A gesti e usando il tuo potere facesti capire il tuo piano. A gesti ti domandarono come e tu indicasti i bracieri in cui ardevano le loro fiamme. Poi corresti tra le file di guerrieri e artificieri gridando queste istruzioni: «Dobbiamo sciogliere la nebbia! Caricate le catapulte, tutte le armi a vostra disposizione! Puntatele verso il cielo!»
Ma avevate bisogno di ancora più potenza di fuoco. Così tornasti al galeone del Garuda, dove trovasti gli Specter impegnati nella battaglia. Eaco rideva come un pazzo mentre massacrava un Black Saint di colpi e Pandora accanto a lui mollava un calcio a un Saint, togliendoselo di torno, poi, scese le scale che portavano sul ponte. Tu salisti le altre e urlasti a Eaco quello che stava succedendo e cosa doveva fare: «E cosa me ne importa a me, Cavaliere?»  Ti domandò il nepalese sprezzante.
«Ascolta, se non lo fai perderemo! Ordine dei Druidi!» Volse la testa verso di te, lentamente e sorrise, guardandoti come a dire: “Povero scemo, sai quanto me ne importa?” «Io prendo ordini solo da Pandora!» Ti sibilò sprezzante, senza staccare gli occhi dai tuoi.
«Bè, Pandora potrebbe avere un occhio di riguardo, se aiuterai i vostri alleati». Per fortuna la parvenza di una forma di ricompensa parve bastare. «Una ricompensa?»
«Sì».
«D’accordo, miserabili! Ascoltate! Scendete nelle dispense e prendete quanto più sale che potete! E caricate i cannoni! Muovetevi!» Cominciò a urlare agli Specter più vicini. 
Proprio allora notasti la figura elegante della comandante arrivare alla balaustra e scavalcare.
Stavi per seguirla quando il Garuda ti richiamò: «Ehi, tu! Aiuta i miei sottoposti e prega che il tuo piano funzioni». Sogghignò divertito scoccandoti uno sguardo folle come neanche Death Mask era mai stato in grado di fare. 
Pandora s’inerpicò giù dalla nave e, facendosi strada tra le truppe in lotta, a volte mollando qualche colpo ai nemici che cercavano di ostacolarla. O, rigirandosi come una biscia per trapassare quelli che osavano prenderla alle spalle. Affettando così i nemici con le lame affilate del suo tridente. 
Restasti stupefatto mentre ti ritrovavi le lame puntate alla faccia dalla donna che, pur essendo in mezzo alla battaglia, restava ancora ordinata e pulita. Come se stesse partecipando a un ballo di gala invece che a una lotta. «Ancora tu!» Disse infastidita ritraendo il tridente.
«Lady Pandora, cosa fate?»
«Bella idea di sciogliere le nuvole di nebbia, ma non è sufficiente, abbiamo bisogno di ancora più forza di così».
«E dove andate?»
«A cercare quella forza». Ciò detto si avviò verso le sponde del lago nero e camminò fino a che l’acqua non toccò le sue ginocchia. Colmasti la distanza tra voi con poche falcate. «Milady, cosa fate?»
«Il mio dovere di Sacerdotessa». Ribatté scoccandoti un’occhiata determinata: «Non pensare di fermarmi, devo farlo e basta».
«Perché?»
«Perché solo io ne ho il potere, il sacro potere della Sacerdotessa degli Specter». Appena proferì queste parole, le acque si animarono e lasciarono scoperto il fondale ricolmo di sassi e fango e ossa. Le ossa dei dannati, che producevano un rumore come di xilofono sconnesso sotto ai vostri passi. Arrivaste al centro del lago e Pandora alzò lo scettro al cielo urlando: «Inferi! Udite la mia voce, è la Sacerdotessa di Hades che vi parla! Concedetemi la forza! Concedetemi la chiave per liberare la vera potenza di questi regni! Concedetemi il potere del Risveglio, nel nome di Hades, Fiume del Cocito, Fiume delle lacrime dei dannati, concedimi la tua benevolenza e risvegliati dal sonno eterno!» Improvvisamente avesti una visione della tua nuova casa e vedesti il ghiaccio cominciare a riempirsi di crepe sotto la spinta delle parole della Sacerdotessa. E, l’acqua fuoriuscì dalle spaccature, calda, come lacrime appena versate, per scendere il letto del fiume a gran velocità, assumendo l’aspetto di cavalli infernali sbuffanti.
E, rapidi volarono da voi, abbattendo i nemici, garantendo la vittoria, soprattutto quando i Black Saint ne deviarono il corso e Pandora, con un abile mossa, fece in modo che in cavalloni li attaccassero alle spalle, sommergendoli.
Ma non eravate riusciti a sfuggire alla pioggia e alle acque della Palude Nera che si richiusero sopra le vostre teste sommergendovi. A trarvi in salvo furono gli Specter stessi, proprio mentre i dannati cercavano di sfogare la vostra vendetta su di te e su di lei.
E, foste tratti in salvo.
Una volta sulla barca di Lady Niniane, guardasti la signora degli Specter. «State, bene?» Domandasti cercando di riprendere fiato. Poi perdesti i sensi.

«É un panorama desolato, vero?» Domandò Pandora, raggiungendoti sulla riva della Palude, dove ti eri fermato. Ormai la tua izba non esisteva più e, quasi sicuramente, i traditori della patria e degli Dèi erano a piede libero.
Era di nuovo notte e gli unici fuochi che restavano, erano quelli dei Celti, che avevano acceso per simboleggiare l’avvenuta riconquista. Ma anche così, erano riusciti a far sciogliere la nebbia e, dopo la pioggia, era tornato il cielo notturno degli Inferi.
L’unica cosa che ti dispiaceva era che avevi perso le tue piante e le lettere di Milo.
Ti girasti a guardarla e ti alzasti.
Avevate vinto la battaglia e la Quarta Prigione era tornata sotto al dominio di Hades.
La Sacerdotessa era avvolta in un telo azzurro, sicuramente prestato da Lady Niniane. «Non più di altri che non abbia già visto. Voi come state?»
«Sono viva».
«E vittoriosa».
«É questo il compito di ogni generale, no?» Il sorriso si spense sul suo volto: «Ho saputo per la vostra izba, mi dispiace».
«Anche a me, ma questa guerra è più importante».
«A proposito di guerra, non l’avrei mai detto che un Cavaliere impiccione come voi decidesse davvero di scendere in campo al nostro fianco».
«L’ho fatto perché era la cosa giusta da fare».
Lei guardò la Palude Nera, mentre alle vostre spalle gli Specter raccoglievano i corpi dei caduti e degli sconfitti. «La cosa giusta». Ripeté. «Non ti dirò mai grazie, non si usa, qui. E ogni grazie nasconde un coltello, sempre. Invece, voglio proporvi un patto. Visto che vi siete rivelato molto utile e che i Celti paiono rispettarvi, vorrei che collaboraste con noi in via ufficiale. Così non verrete più ostacolato, la prossima volta».     
«Dite sul serio?»
Lei ti guardò e ti sorrise: «Sì, ci farebbe comodo, uno con la tua intelligenza e le tue conoscenze tra le nostre fila». Poi, trasse da sotto il telo il tuo elmo e te lo porse. «I miei uomini l’hanno trovato poco fa sulla montagna. Ho pensato che potesse farvi piacere riaverlo. Bentornato tra noi, Cavaliere d’Aquarius». Ti salutò mentre tu lo prendevi dalle sue mani.
 
Milo
Avevi accartocciato l’ennesima lettera per Camus.
Era inutile, per quanto ci provassi non riuscivi a scrivere niente. Mettesti da parte tutto e andasti a trovare Shura.
L’avevi trovato che stava disquisendo con i Cavalieri dell’Altare e del Pavone. I tre si erano interrotti per guardarti e salutarti. Shura stava per dirti che se lo desideravi avresti potuto assistere alla riunione. Ma scuotesti il capo e, con il suo permesso, decidesti di occupare il tempo leggendo Le mille e una notte, ovviamente preso in prestito dalla sua biblioteca, in salotto.
Shura amava riunirsi con i suoi sottoposti Silver. Lui sì che era un vero e proprio generale della Dea. Il vecchio Izo non gli aveva insegnato solo il bushido e l’arte della scherma, allora. Gli aveva anche lasciato una formazione militare di tutto rispetto.
Anche tu avevi dei sottoposti. I tuoi erano Shaina di Ophiuchus, il sopraccitato Jamian e Capella di Auriga. I Bronze che erano sotto al tuo comando erano il Bronze Saint di Dorado, quello di Orione, quello del Microscopio e quello del Reticolo. Ma non ti riunivi quasi mai con loro, Shaina era abbastanza efficiente e carismatica, per occuparsi da sola dei tuoi sottoposti e dei suoi parigrado. 
Li avevi scelti personalmente quando eri più giovane, ma soltanto adesso ti rendevi conto di quanto, tra tutti, rappresentassero te stesso. Cos’era, una nuova forma di egocentrismo? Oppure stavi imboccando anche tu la via del narcisismo come Aphrodite?
No, non era solo questo.
Li avevi scelti in base alle loro capacità, la loro forza e le loro tecniche. Ecco la verità. Shaina che aveva in comune con te il potere nelle unghie. Tu stimolavi i centri nervosi e lei lanciava scariche elettriche, Jamian che, con i corvi, invece, era una più che efficiente spia. E, per finire, Capella, che rappresentava il cocchiere della Dea. Ma, che, inaspettatamente, era anche colui che ti aiutava a mettere in ordine gli appunti e i registri. Era un ottimo scriba, lui. Senza di lui non saresti mai riuscito, per esempio, a svelare gli spostamenti e rilevare i covi di ex nemici.
 Invece tra i Bronze Saint avevi scelto il Dorado, ossia il pesce spada, per la sua sveltezza. Non era ai livelli di Shura, ma uno schermidore era sempre utile. Soprattutto uno che passava gran parte del suo tempo in acqua e, non solo quelle terrestri, ma anche quelle infere. Sì, quel Bronze aveva la capacità di comunicare con gli spiriti dell’acqua. E, tu, all’acqua eri legato per definizione. Poi il Bronze di Orione, ossia il fuoco, che come l’acqua aveva forza distruttrice quanto purificatrice. I ventiquattro Silver Saint erano distribuiti, a gruppi di due tra voi Gold, mentre i Bronze erano distribuiti a gruppi di cinque (arrotondato per eccesso), tra voi dodici, escludendo le Saintia. Quelle rispondevano ad Atena in persona. Il Microscopio, assieme al Telescopio, erano i punti di contatto tra tutti voi Saint. Il Telescopio avvistava, poi, riferiva al Microscopio che analizzava e distribuiva. In primis a te. Il Reticolo invece era la trappola e la tua finiva sempre per chiudersi. Perché, tu, come Orione, eri prima di tutto un cacciatore.
Non ricordavi con certezza gli altri schieramenti, però ti sembrava che fossero ben distribuiti anche gli altri. Una squadra efficiente per riuscire da soli a compiere missioni più che impossibili. Come questa.
Non sapevate chi era il nemico e dovevate proteggervi. Oltre che organizzare tutto per l’imminente arrivo degli Ambasciatori. Mancavano solo due giorni e non avevate risolto i vostri problemi. Forse l’unica cosa da fare era nascondere questi problemi sotto il tappeto e sperare che non se ne accorgessero. Ma forse eravate già in errore. 
Percepisti un movimento con la coda dell’occhio e vedesti Shura raggiungerti. «Scusa se ci ho messo molto, ho finito solo adesso». Si scusò sedendosi di fronte a te sulla poltrona. La sua piccola biblioteca era forse il luogo più accogliente di tutta la casa dopo il giardino abilmente rimesso a nuovo.
«Non fa niente». Chiudesti il libro e lo mettesti da parte.
 «Shura, non hai la sensazione che ci sia qualcosa che non vada in Neera?» Domandasti al tuo compagno, due mattine dopo.
«No, in realtà mi da soltanto fastidio». Ma il modo in cui lo disse ti fece pensare che in realtà provasse molto più che semplice noia.
«Possibile che quella ragazza abbia una cotta per te?» Ipotizzò il tuo compagno con un sorrisetto divertito, spingendosi gli occhiali verso la radice del naso.
Poi posò i fogli che reggeva con una mano. 
«Ma và e, se anche fosse, siamo molto più grandi di lei, non potrebbe funzionare». Replicasti.
«In teoria abbiamo vissuto soltanto tra i ventiquattro e ventotto anni, anno più anno meno». Disse Shura.
«Vero, eppure il peso degli anni che sono passati senza di noi li sento tutti».  

Mur
Le Armature avevano una vita propria, ma vedere l’Armatura del Cavaliere della Lince giocare con Astrid come se fosse un semplice gatto, faceva uno strano effetto. Retsu accomodato su una poltrona di vimini, invece, osservava la scena divertito, mentre sorseggiava il tè che avevi preparato per entrambi. Era passato per un controllo proprio mentre c’era Astrid (scampata di nuovo alla ferrea sorveglianza di Kanon, dopo pranzo) e la sua Armatura, appena ne aveva captato la presenza, era saltata fuori dallo scrigno e si era precipitata da lei. Adesso se ne stava nella buchina tra le gambe incrociate di lei e le mordicchiava un dito mentre con le zampe anteriori cercava di avvicinarsi la mano della bionda alle zanne. «Insomma, dicevi che è possibile che hai una strana sensazione».
«Sì, riguarda proprio le Armature».
«Che sensazione è?»
«É come quella di Aurel, una sensazione di pesantezza e di sbagliato; come se l’Armatura non approvasse l’operato del Cavaliere o, come se non fosse veramente destinata a lei e lei lo sapesse». Spiegai.
Era la prima volta che mi capitava di scendere alla Prima per parlare solo di Armature. Altre volte ero scesa per venire a trovare Mur, che riusciva sempre a calmarmi.
«Se l’Armatura dell’Indiano non è destinata a Neera, non ti preoccupare, Neera non vincerà». Cercasti di tranquillizzarla. Lei curvò la bocca in un sorriso poco convinto. «Lo spero».
«Perché dici così?»
«Perché sento ancora il dolore della Corona Australe». Distolse lo sguardo dal Pandora-box dove era custodita. La stessa Armatura che era venuta a trovare e a cercare di aiutare.
«É persino più intenso di quella dell’Armatura di Death».
«Riesci a comunicare con loro?» Le domandò Retsu, interessato.
«No. Ma percepisco le loro emozioni con una limpidezza che pare quasi parlino». Spiegò mentre carezzava il cloth della lince tra le orecchie. La quale si era stancata di mordicchiarla e si era acciambellata ben benino tra le gambe di Astrid, poggiando il capo sul ginocchio destro di lei e facendo le fusa. «Quella di Cancer ha sofferto molto a causa di Death Mask, eppure non ha mai perso la speranza che potesse cambiare. Oggi non saprei dire se sia una grande illusa o solo stupida». Commentò. «Di solito non sbaglio mai». Meditò pensierosa.
«Sei sicura che questa volta non ti sia sbagliata? Dopotutto tra te e lei non corre buon sangue, anche se vi siete salvate a vicenda».
La ragazza appoggiò il gomito sul ginocchio libero e si sostenne il mento con la mano. «É questa la cosa che non mi convince. Perché, se mi odia tanto, fa di tutto per scacciarmi, invece che evitarmi?»
A quel punto tu e Retsu conveniste con lei. Effettivamente era strano. Però poteva anche darsi che fosse perché Neera era fatta così. Ma perché scegliere la strada più difficile quando poteva tranquillamente scegliere quella più facile e non calcolarla? Come invece era accaduto prima che varcasse le soglie della Prima Casa? Se non fosse stato proprio per l’Armatura di Retsu, Neera avrebbe sicuramente attaccato briga con Astrid. «Poi che cosa ci faceva sulla Scalinata delle Dodici Case? Non dovrebbe allenarsi per il torneo?»
«Bè, il suo maestro vive alla Quarta Casa» e si era momentaneamente assentato per via di una missione, così aveva detto Death. Forse era tornato nel vostro mondo, visto che non riuscivi a percepire il suo Cosmo sulla Terra. Saresti anche andato a cercarlo se non fosse che il comportamento di Kiki ti impensierisse troppo.  «Lancelot non vuole che salga alla Quarta e Death Mask non la sopporta». Rilevò lei.
«Death Mask non sopporta nessuno.» le facesti notare. «É possibile che Neera abbia una tresca con un Gold, probabilmente Milo». Buttasti lì. Anche se era severamente vietato incontrare i propri amanti nelle Dodici Case dello Zodiaco. Nessuno aveva mai detto che dovevate essere casti a vita, ma era una questione di rispetto nei confronti della Dea. Fuori del Santuario e a Rodorio potevate avere quante storie volevate.
Persino Kiki in gioventù ne aveva avuta una con la figlia di una locandiera. Ma poi era finita perché lei lasciò Rodorio e non volle avere neanche una storia a distanza con il tuo allievo. Tutto questo dopo la guerra con i Martian.      
Retsu ti guardò stupito e Astrid mise su un’espressione tanto scettica quanto schifata.
«Perché quella faccia?» La schernì divertito Retsu. «Preferivi che ne avesse una con il Gran Sacerdote? O con qualsiasi altro di noi?»
«Che gusti».
«Prego?»
«Voglio dire, lo vedo che siete dei begli uomini e, ammetto che qualche pensiero sia venuto anche a me. Il problema sarebbe che la metà di voi, mi riferisco ai Gold, eh. Insomma, la metà di voi ha dei seri problemi mentali o relazionali». Spiegò titubante.
Ti sistemasti meglio sul cuscino davanti al suo e battesti le palpebre. Non sapevi se sentirti offeso o se ammirarla per avervi capito. «Aspetta prima di dire qualcosa, fammi finire. Seguendo questo ragionamento, mi avete detto che le Sacerdotesse Guerriero vivono altrove per via della legge della maschera e il discorso del disonore e la rinuncia della femminilità». Ti tornò in mente la prima volta che sentisti l’esplosione del Cosmo di Neera sulle scale: «Quindi mi domando, con che coraggio, un’Aspirante Sacerdotessa, minorenne, potrebbe anche solo avere il coraggio di avvicinarsi a voi. Che, siete uomini e che, se vi gira male, potreste farla scomparire solo con un dito o un battito di ciglia. Oltretutto, se ho ben capito, violando ben due tabù in un colpo. Il disonore per lei e la violazione di una legge di Atena sulle Dodici Case per voi».
Tu e Retsu vi guardaste. Effettivamente il ragionamento non faceva una grinza. Ma Retsu disse: «Potrebbe anche essere il brivido del rischio».
«Può darsi, ma a ridosso della conquista di un’Armatura, dopo tutto il casino che ha fatto a Roma? O è rincoglionita forte e a forza di prendere botte ha perso una rotella o ha un piano, oppure abbiamo un raro caso di Sacerdotessa-Guerriero zozza».
«Che intendi con zozza?»
«Come ve lo spiego? Avete presente il film Batman the Killing Joke
«No, che ha di particolare?»
«Niente di che, ci hanno solo aggiunto ventotto minuti di Batgirl che non c’entrano niente con la vera storia e hanno travisato il vero messaggio dell’opera originale».
«Ok e allora?»
«Allora Batgirl ha scelto di combattere il crimine, non per sete di giustizia, ma solo per portarsi a letto Batman. In questo senso è zozza, voleva solo lui, della giustizia non le importava niente, secondo gli autori del film, che l’hanno ridotta a una donna oggetto mestruata, indolente, arrogante e antifemminista con tanto di amico gay che serve da confessionale per le sue voglie insoddisfatte».
«Ah, in questo senso zozza». Mormorasti tu.
«Già, è stato umiliante tre anni fa vedere una cosa simile; se vuoi capire meglio di cosa parlo, ti mando il link sul telefono».
Ti aggrappasti a un «Capisco» di circostanza. In realtà non capivi affatto. Sarà perché avevi passato buona parte della tua vita tra le rocce dello Jamir, circondato da Armature, ma non avevi mai pensato questo delle donne. La tua mentalità era piuttosto aperta, considerando che eri nato in un periodo antecedente le prime lotte femministe. Però sapevi essere coerente, avevi visto con i tuoi occhi quanto anche le donne potessero essere forti. Un esempio era Elda di Cassiopea. Ma nessuna delle donne che conoscevi tu si era mai ridotta a uno stereotipo vivente.
Era come se gli autori di queste opere stessero cercando di ridimensionare la forza delle donne e il loro ruolo, che non necessariamente era quello di mogli e madri. «Cioè, voglio dire, secondo l’ottica pagana le donne comandano, voi stessi, io, lavoriamo per una Dea, che è una donna. Per i Cristiani e gli Ebrei le donne sono nate da una costola di Adamo, comunque una parte di loro. Per i norreni sono nate da un tronco d’albero differente da quello dell’uomo, ma della stessa sostanza. Allora perché qui questo viene recepito e non avete timore di noi e fuori no?»
«Perché qui, nonostante gli svantaggi della vostra condizione combattete e non vi arrendete». Ipotizzasti.
«E non è diverso, fuori? Ci sono ancora un mucchio di ostacoli per una donna a livello sociale e professionale».
«Forse è come dici tu», intervenne Retsu, interessato. «Forse la società ha paura di voi».
«Ma perché dovrebbero? Noi non vogliamo altro che la stessa libertà che avete voi, di disporre del nostro corpo come ci pare, di non aver bisogno di sposarci e di essere mogli e madri per sentirci complete, di abolire la faccenda del disonore. Vogliamo anche noi la stessa vostra dignità».      
«Le donne sono ancora in una condizione di svantaggio, almeno le Saint, anche se alcune stanno cominciando a ribellarsi alla legge della maschera». Le facesti notare. In realtà era solo Yuna che si rifiutava di portare la maschera.
«Già qualcosa, ma non abbastanza».
«Tornando a noi, perché ci siamo ritrovati a parlare di questo?» Chiedesti, accigliandoti leggermente. Astrid ci pensò un po’: «Ah, sì, Neera e la sua zozzaggine».
«Se ti può far star meglio, possiamo provare a tenerla d’occhio». Ti offristi anche se non era detto che ci saresti riuscito. «Lo faresti davvero?» Chiese mentre l’Armatura di Retsu pretendeva un altro po’di coccole. «Certo, ma potrebbe non essere facile, le difese mentali di Neera sono molto elevate, Lancelot le ha insegnato bene a schermare i pensieri».
«Bene, vuoi vedere se per caso l’Armatura della Corona Australe sta meglio?» Domandasti per cambiare discorso.
Lei annuì.

Mentre comunicava con la corazza, cercando di lavare via parte del suo dolore e di farsi perdonare, tu comunicasti telepaticamente con Retsu. Lo conoscevi abbastanza per sapere che il sottoposto di Aiolia era una persona onesta. Aiolia fu il primo di voi ad abolire le differenze tra Gold, Silver e Bronze. Se avesse potuto, avrebbe scelto Seiya stesso come suo sottoposto, non solo come amico.
Era lui quello che aveva sempre nutrito una cieca fiducia nei Bronze, proprio grazie al Saint della Lince.
Lo prendesti da parte e gli dicesti, quando fosti sicuro che lei non potesse sentire: «Quello che dice Astrid ha senso. Perché una Sacerdotessa-Guerriero si aggira per le Dodici Case?»
«Non è che magari è legata a un Gold?»
«No, se così fosse l’avremmo saputo. Poi, dubito che Milo di Scorpio sia il suo amante, Neera ha solo diciassette anni e lui ha un codice morale, non andrebbe mai con una minorenne. E, soprattutto, non le farebbe mai salire le Dodici Case».
«Non è che è una sua sottoposta, allora?» Bisbigliò il Cavaliere della Lince in risposta.
«No, Neera non ha ancora conquistato alcuna Armatura e noi siamo tutti al completo. Abbiamo già i sottoposti che ci servono».
«Credete che sia una spia?»
«Non lo so».  
«Vi fidate delle parole della custode della Luce Ombrosa? Di un’ancella che non può sopportare Neera?» Tutti conoscevano il rapporto di odio reciproco che legava quelle due.
«No, so che il passatempo preferito qui al Grande Tempio è il taglia e cuci. Potrebbe anche esserselo inventato. Però è anche vero che siamo soldati e, abbiamo già pagato una volta lo scotto per la nostra negligenza. Non credo che farà male se la terremo d’occhio per un po’».
Ti dispiaceva per Kiki, ma forse c’era un altro problema di cui occuparsi.

Cocteau
Era difficile mordersi la lingua per non ridere quando avevi soltanto un becco sdentato a tua disposizione e, neanche le mani per tapparti il medesimo. Solo la Divina Atena sapeva come riuscivi a non sghignazzare di fronte allo spettacolo del secondo paio di mutande bruciacchiate di tuo fratello. Improvvisamente non ti dispiaceva più molto essere rinato in sembianze animali.
Peccato che non eri sufficientemente bastardo da andarlo a sputtanare ai quattro venti. Volevi bene a tuo fratello, anche se i presupposti per fargli uno scherzo c’erano tutti. In più, se lo avessi fatto eri al sicuro grazie alle frasi fatte che si dicono in questo caso. Anche se “me l’ha detto un uccellino” era sufficiente, a un orecchio attento come quello di Kanon, per farti passare un’altra decade di guai.
Questo era uno di quei motivi per cui cominciava a starti simpatica: sapeva regalarti veri e propri momenti di involontaria comicità, come raramente ne avevi vissuti. Tu, che eri sempre stato così serio e non avevi mai riso.
Oddea, ti ricordavi che qualche volta Arles aveva riso, ma erano risate malefiche da far accapponare la pelle. 
Però stare circondato da quella marmaglia di donne ti faceva venire al latte alle ginocchia. Eri ancora legato alle metafore umane, ma, se una civetta può annoiarsi allora tu avresti anzi preferito continuare a restartene appollaiato sulla spalla di Shura. Anzi lui, che sapeva essere anche piacevole, nonostante il carattere ombroso e complesso. Anzi, a lui eri anche più abituato, non solo perché eravate compagni, ma proprio per amicizia. Se avresti dovuto considerare qualcun altro un amico, questi sarebbe stato proprio lo spagnolo che avevi aiutato a crescere. Prima che Arles prendesse il sopravvento. 
Alcuni uomini avrebbero dato oro per essere circondati continuamente da delle donne. A te, di esserne circondato ventiquattro ore su ventiquattro, stava passando la voglia. Non passava giorno che non desiderassi di beccare negli occhi quel gorilla affetto da demenza di Tatsumi, le colleghe troppo pettegole o troppo insopportabili di Astrid e, perché no, persino quell’insopportabile di Klaus II. Prima non avresti mai pensato che il vecchio segretario che avevi fatto fuori dopo il salvataggio di Katya di Corona Borealis, avesse famiglia, un figlio e un nipote. Ligio al suo dovere come il nonno.
A volte avresti voluto riservare questo trattamento alla stessa Astrid. Perché anche di ascoltare le sue confessioni e le sue riflessioni ti faceva sentire male. Soprattutto quando attaccava a parlare di stelle e pianeti. Se entro i primi dieci secondi capivi, all’undicesimo pensavi, sconvolto: “Eh?” Durante la tua breve parentesi come Gran Sacerdote avevi studiato le stelle anche tu in cima allo Star Hill, ma non avevi mai affrontato la questione dal punto di vista scientifico, tanto meno astrologico purissimo.
Però la preferivi così che in preda alle sue crisi, che, per ora, sembravano averle dato tregua.  
Sul serio, le tue povere orecchie non ne potevano più di quel taglia e cuci e di quei rimproveri quotidiani che eri costretto ad ascoltare per ordine di tuo fratello. 
Adesso, stavi rischiando di includere in questo ragionamento tutto il genere femminile in generale. Vuoi perché avevi scoperto che anche le donne sapevano essere maleducate e rozze quanto voi uomini. Vuoi perché non osavi pensare che anche la Divina Atena si comportasse così in privato. Ti sarebbe crollato un mito se l’avessi fatto. Vuoi perché davvero, ti serviva una vacanza. 
Ok essere circondati da donne, estrogeni, eccetera eccetera, non ti dispiaceva per niente. Anche tu una volta ti eri concesso la compagnia di alcune ancelle, ai tempi del furto del Cloth di Sagitter, ma non così! E non per un tempo così prolungato. Non immaginavi che ci fosse anche questo nel meraviglioso universo femminile!
Essere costretto a sorbirsi le loro infinite chiacchiere, talvolta imbarazzanti su inutili argomenti intimi, che non immaginavi neanche, ti faceva venire la nausea. Quando proprio invece non svenivi. Una volta Astrid stava parlando con una collega che aveva avuto un parto trigemino. Questa qui le stava raccontando nei minimi dettagli la nascita. Sulle prime avevi ascoltato solo con un orecchio, pensando, lì per lì, che parlasse di un film splatter. Quando avevi capito, anche a causa della dovizia di particolari, ti eri sentito male. Al primo nato cominciasti a vedere i pallini, al secondo la testa prese a girarti neanche fosse un planetario e, al terzo perdesti proprio i sensi. 
Rinvenisti avvolto in un panno, stretto al petto di Astrid che ti stava portando via.
Se tu avessi potuto arrossire l’avresti fatto. Tu, che non eri certo timido.
Il cervello aveva smesso di funzionarti e il cuore aveva cominciato a pompare più velocemente. E, improvvisamente, una paura del tutto animale s’impossessò di te, mescolandosi all’eccitazione del momento, facendoti uscire di testa.
Cominciasti a dimenarti ed emettere versi striduli di autodifesa che l’assordarono e rischiarono di farla cadere o lasciarti cadere. Proprio ciò che volevi. Ma lei cercò di riacchiapparti e allora prendesti ad attaccarla con i mezzi che avevi a disposizione data la tua condizione.
A un tratto, mentre la massacravi lei urlò: «Shura!»
E, come se lo avesse evocato, lo stesso Capricorn entrò nel tuo campo visivo.
Non capisti cosa si dicevano, fatto sta che ti ritrovasti a guardare il viso del tuo compagno. Era come se fossi di nuovo posseduto da Arles.
Subito ti levasti in volo e cominciasti a beccarlo e graffiare anche lui senza pietà. Alternando urla a graffiate e beccate che lo avevano costretto a ripararsi la testa con le mani come Astrid.
A un tratto Shura recuperò il panno e ti bloccò le ali, stringendoti tra le mani. Tu avevi continuato a strepitare finché non eri diventato afono e la stanchezza aveva preso il sopravvento, svuotandoti di ogni forza.   
Avevi chiuso gli occhi e respirato profondamente più volte. «Saga». Ti aveva chiamato allora la voce di Shura.
«Sto bene». Avevi risposto a occhi chiusi, ancora rannicchiato sul tavolino, come una vera civetta.
«Sei sicuro?»
«Sì, lasciami». Lui obbedì e lo sentisti ritrarsi.
Se non altro, L’Altro non era con voi, in questo momento.
Apristi gli occhi e ti ritrovasti dentro in salotto, negli appartamenti privati del tuo amico, che ti guardava preoccupato, seduto sul divano. Ti aveva tenuto stretto tra le mani tutto il tempo, come se tu fossi davvero un animale; che brutta esperienza.
«Cosa ti è successo, Saga?» Domandò preoccupato. «Non ti starai mica trasformando in un animale».
«Non dire assurdità!» Esclamasti adirato, alzando la voce, trapassandolo con gli occhi.
L’altro non rise, era troppo serio per prenderti in giro. «Allora perché eri tra le braccia di Astrid?» Ti chiese, incline a insinuazioni, anche troppo diretto. Ma d’altronde te lo dovevi aspettare che ti avrebbe posto una domanda così diretta.
«Non lo so». Ribattesti evitando il suo sguardo.
Quel che non potevi sapere era che gli occhi di Capricorn lanciarono un brillio divertito. «Lei mi ha detto che sei svenuto, da che ti conosco tu non sei mai svenuto, neanche una volta. Non è che l’hai fatto apposta per essere stretto al seno di qualche gentile fanciulla?» Troppo diretto e senza peli sulla lingua a controbilanciare quella mutezza che lo faceva assomigliare a una tomba. Se non altro non era pettegolo, non ti avrebbe mai coperto di ridicolo spiattellando il tuo segreto ai quattro venti. 
«Da quelle megere? Neanche morto!» Esclamasti orripilato. Chissà quanto tempo ti sarebbe occorso per digerire e assimilare le nuove informazioni acquisite sul genere femminile, soprattutto sul parto trigemino. 
«Megere?» Domandò confuso. «Non le ho viste tutte ma non mi sembrava che fossero così orribili». Disse meditabondo, ripensando ad alcune di loro. 
«Per piacere, non parliamone più, non è un argomento che mi piace affrontare». Decretasti sperando che ti desse retta. Con argomenti come quello ci andava a nozze. E, non era intenzionato ad abbandonare il discorso tanto facilmente, infatti: «Strano, non eri tu quello che durante il suo regime papale aveva usufruito anche della compagnia di dolci fanciulle?» Insinuò.
«Tra loro non c’era di certo Astrid». “E, neanche l’invasata del parto trigemino, oddea, che racconto”. L’anatomia umana e la biologia le conoscevi, avevi ricevuto un’istruzione necessaria per poter meglio abbattere i tuoi nemici. Eri un Guerriero d’Atena, non avrebbe dovuto farti impressione sentir parlare di sangue e dolore. Ma questo era un racconto di tutt’un altro genere. Non avresti mai creduto di pensarlo, ma non eri pronto per colmarti le orecchie di queste informazioni.   
«E, che ha di diverso il seno di Astrid? Forse ti è piaciuto stare stretto a lei e ti sei spaventato?» Domandò con un sorrisetto benevolo e canzonatorio al tempo stesso, raddrizzandosi gli occhiali sulla punta del naso. La schiena appoggiata allo schienale del sofà.
Avevi scosso il capino e arruffato le penne pensando “Ma sentilo come infierisce! Lui che ha un vero corpo umano non può capire che cosa si prova a essere intrappolati qui!” Poi rispondesti cercando di non adirarti troppo per la sua mancanza di tatto: «Non è questo, per un momento, quando l’ho guardata in faccia, mi è parso di essere scrutato da un predatore».
«Un predatore?» Fece eco, tornando serio e interessato, sporgendosi verso di te. 
«Non so come spiegarlo, ma per un attimo al posto suo ho visto un rapace».
«Un rapace?» Chiese perplesso.
«Sì, sai che le civette hanno dei predatori, no?» Non avresti mai creduto che ti saresti abbassato a fargli un discorso simile. «Le donnole e i rapaci. Ecco, non so spiegarti perché è durata troppo poco, ma per un istante, sotto a quello sguardo mi sono sentito una preda».
Lo spadaccino indagò, pensieroso: «Sicuro che non fosse una visione? Dopotutto sei pur sempre l’oracolo di Atena». 
«Sono l’oracolo di Atena, non di Delfi». Gli ricordasti seccato, trapassandolo con lo sguardo. Ti occupavi di giustizia non di previsioni.
«Ok, ok, scusa, non ti agitare». Disse l’altro.
«È stato orribile, non avevo mai provato niente di simile». Dicesti tu.
«Ti credo».
Poi non vi diceste più niente.
Passasti il resto della giornata assieme a Shura.
Per cena ti preparò una ciotola di grossi insetti che aveva preso quel pomeriggio, facendo un salto al negozio di animali di Rodorio. «Mi dispiace», ti aveva detto, «avevano finito gli uccellini».
«Non fa niente». Purtroppo non potevi nutrirti come un essere umano vero e proprio, il tuo corpicino non lo sopportava.
Quanto ti mancava la frutta, la verdura, i piatti della cucina greca. Per te era una tortura vedere Shura o qualcun altro mangiare la tyropita (una torta salata) con salsa tzatziki, o la moussaka. Ti mancava persino il kataifi (un dolce di frutta secca, sciroppo di miele e matassa di fili di pasta fillo croccanti) o qualsiasi altro piatto di qualsiasi altra nazione in generale. La carne no, anche se avresti preferito cibo normale e non cibo da civette. Persino andare in bagno per te era problematico. Le civette rigurgitavano le parti non digeribili delle loro prede, compresi i gusci cheratinizzati degli insetti e, indovina un po’cosa c’era tra gli insetti che avevi mangiato? 

«Ti fermi per la notte?» Ti chiese Shura avvolgendosi nel mantello, dopo che ebbe finito di rassettare la cucina e, tu fosti uscito dal bagno, dopo aver tirato l’acqua. Quella sera toccava a lui il primo turno di ronda. Di solito se ne occupavano i soldati semplici, se Kanon implicava persino l’impiego dei Cavalieri d’Oro e d’Argento allora la situazione era più grave di quel che si prospettava. Chissà chi era il nemico alle porte. E, così a ridosso di un incontro tanto importante.
«No, penso che tornerò alla Tredicesima. Devo fare rapporto a Kanon». Già, Kanon. Chissà se quando eri svenuto tu l’aveva sentito anche lui.
«Come vuoi, allora ti conviene uscire adesso assieme a me, sai, quando torno vorrei trovare Casa mia ancora calda e non fredda come una ghiacciaia perché sei passato da una finestra che ti ho lasciato aperta». Disse.
Svolazzasti per posarti su una delle sue spalle. Umiliazione ulteriore, eri una civetta di taglia ridotta: della stessa stazza di un gufo elfo.
Poi usciste.   
Trascorresti ancora mezz’ora in sua compagnia prima di tornare alla Casa di Atena.
Facesti rapporto a Kanon, che aveva sentito sia la tua paura che il tuo svenimento. Tuo fratello era davvero cambiato, aveva mostrato preoccupazione quando gli era giunta voce che avevi perso i sensi. Tu non avevi saputo cosa replicare, anche se ti eri commosso. Ancora di più quando avevi visto gli occhi di Kanon lucidi di lacrime trattenute. Se avessi avuto le braccia, probabilmente avresti teso una mano e gli avresti stretto una spalla. Non sarebbe stato granché, ma era già qualcosa da cui ripartire. Forse non era troppo tardi per voi due, potevate tornare a essere fratelli come prima che le incomprensioni vi dividessero.
Poi, dopo che vi foste salutati, eri svolazzato da Astrid. Avevi beccato la sua finestra per farti aprire, tanto stava leggendo a letto. A volte lo faceva, anche se da quando era stata trasferita alla Tredicesima non l’aveva più fatto.
Lei era sobbalzata, ti aveva visto, si era alzata e ti aveva esaudito, facendoti entrare nella stanzetta. «Guarda chi si rivede», ti salutò mentre chiudeva la finestra, «ci siamo calmati? A quanto pare sì».
Prendesti posto sulla scrivania e ti rannicchiasti nel piccolo nido di cenci che ti aveva costruito. Niente a che vedere con un letto vero, ma già tanto.
Lei se ne tornò a letto e riprese a leggere, o meglio, a provarci, dal momento che non ti staccava gli occhi di dosso. Guardandola meglio, avevi scoperto di averla graffiata sulle braccia e, forse, anche sul petto. Ti sentisti un verme. Non avevi mai amato colpire le donne, né Olivia, né Katya, né Atena, nessuna! Tu non eri un violento, avevi avuto paura, Arles aveva controllato il tuo corpo, ma come spiegarglielo? Non ti avrebbe mai creduto. Inoltre, ti credeva un animale vero e proprio, non un essere umano trasformato.
No, dirglielo avrebbe mandato a monte la tua copertura.
«Ora non dirmi che hai pure le lacrime di coccodrillo. Questa mi è nuova, una civetta sul punto di scoppiare a piangere», cercasti di ricomporti, ma senza molto successo.
Lei sospirò impietosita, si alzò e ti si avvicinò abbandonando il libro sul letto.
Seguisti i suoi movimenti con gli occhi, non ravvisando in lei alcuna minaccia.
Si sedette alla scrivania e tu, potesti vedere i cerotti sul petto spuntare dalla scollatura della camicia da notte: proprio come pensavi, l’aveva graffiata anche lì.
«Su, su, sei perdonato». Disse accostando una mano a te per accarezzarti. Ma si fermò, incerta.
Nel vedere quel viso preoccupato ti concedesti un po’di generosità (anomala per una civetta, dato che non esprimevano affetto ed emozioni come i mammiferi) e, chiudendo gli occhi pensando “É per farla contenta”, toccasti il palmo della sua mano con il tuo capino sormontato dai tre topini.
Gesto che la stupì.
Ma solo per qualche istante, poi ti ritraesti e tornasti ad accovacciarti ringraziando Atena che Death non fosse lì e che non potesse mai saperlo. Altrimenti la tua reputazione sarebbe andata a farsi benedire completamente. 

Quella sera facesti uno strano sogno.
Le immagini erano strane. Oscillavano come se fossero su un piano inclinato che si allungava e contraeva come una fisarmonica. Era come osservare il mondo dopo che giri su te stesso e alla fine caschi in terra e il mondo continua a girare come un mappamondo impazzito. Poi, dalla tua visuale dal basso, avevi visto una figura ricoperta di un Gold cloth attraversare il corridoio di passaggio del Tempio. Recava con sé un bastone dorato che, in qualche modo ti ricordava lo scettro di Nike.
Poi l’uomo si volse e tu avesti un sussulto nel riconoscere quei malefici occhi rossi e quella chioma nerissima che, fino a poco tempo fa ti era sembrata bianchissima.
«Sto arrivando».
Sgranasti gli occhi e lanciasti un grido che fendette l’oscurità, mentre la voce di Arles se la rideva divertita nella tua testa. “Non potrai sfuggirmi per sempre, Saga”.
Una figura si mosse, scalciò le lenzuola e accese l’abat-jour. E ti ritrovasti a fissare, spaventato come non mai, gli occhioni spalancati di Astrid, che balzò fuori dal letto e aprì la porta per capire da dove arrivasse quel grido.
Alcune guardie fuori le domandarono se andasse tutto bene. «Ho sentito un grido, sapete cosa è successo?» Domandò lei, preoccupata, senza curarsi del fatto che le guardie potessero vedere il suo abbigliamento notturno indecente. Ti alzasti in volo, e afferrato uno scialle con le zampette, glielo facesti cadere sulla testa. «Cocteau!» Esclamò lei dopo un iniziale trasalimento, togliendosi il panno dalla testa.
«Noi l’abbiamo sentito provenire da questa porta».
«Ma qui ci siamo solo io e…» Fece la ragazza girandosi lentamente verso di te, con in faccia un grosso sospetto nei tuoi confronti.   

Death Mask
«Death Mask». Ti chiamò la voce femminile. Alzasti la testa di scatto: “Chi mi chiama?” Cherie? No, non era lei. Da quando ti aveva consegnato quella scintilla era scomparsa. E tu non eri più riuscito a ritrovarla o a evocare quella luce verde.
La prima cosa che vedesti fu solo l’oscurità, solo dopo facesti caso al silenzio. Era come stare in una camera di deprivazione sensoriale. Avresti dovuto esserci abituato, ma neanche nella morte ti era concesso di riposare per davvero. Non esisteva riposo per voi Gold Saint. La verità era che tu eri comunque umano, anche tu la temevi.
Poi sentisti la voce femminile potente annullare il silenzio. Cantava in inglese. Aggrottasti le sopracciglia: conoscevi questa canzone, ma era la prima volta che la sentivi cantare da una donna. Ti guardasti attorno e vedesti una luce in lontananza. E altre dorate come piccoli soli che volteggiavano attorno a quella più grande, da cui sembrava provenire la voce.
Ti avvicinasti anche tu.
Un momento, ma quei soli erano i tuoi compagni e… Che cos’era quella cosa attorno a cui fluttuavano? Sembrava un grosso prisma romboidale ma era l’unica parte di quella cosa, di quel lampione. No, non era un lampione, era uno scettro come quello della Divina Atena. E non era da lì che proveniva la voce ma… Abbassasti lo sguardo e la vedesti. Chi era quella ragazza? Perché cantava?
Che fosse una Dea? Improvvisamente tese una mano verso di te e la luce bianca divenne verde. Improvvisamente la scintilla dentro di te divampò all’altezza del petto come un incendio e ti ritrovasti avvolto da un’armatura di fiamme verdi e sentisti come un senso d’appartenenza.  Rivedesti davanti a te le immagini della guerra negli Inferi e vedesti la stessa ragazza che ti chiamava, di profilo. Le braccia incrociate sotto la mantella nera e la camicia verde. I capelli striati d’argento. «Death Mask».
Improvvisamente vedesti davanti a te la tua vecchia compagna d’addestramento. «Ancora tu? Ma non hai niente da fare nella vita?» Sbottasti infastidito. Cherie si sostenne il viso mascherato con le mani. Sembrava appoggiata a una base solida, anche se non c’era niente: «Io non ce l’ho più una vita, Death Mask».
Un ghigno divertito incurvò la tua bocca: anche da morta non aveva imparato a riconoscere il sarcasmo e le domande retoriche. «Ti ho già detto che non verrò». Ribadisti.
«Perché no?»
«Non è la mia battaglia e non me ne frega niente».
«Allora non t’importa niente delle anime?» Chiese, sconsolata.
«No, non me ne frega proprio niente, se volevi qualcuno che gliene importasse dovevi chiedere al Gold Saint di Virgo, non a me. Il mio compito è ammazzare le persone e spedirle negli Inferi. É Virgo che si occupa di mantenercele e di far funzionare quella dannata Ruota della Vita e della Morte». 
«Va bene, non te lo chiederò mai più. Addio, Death Mask».
«Sparisci».
E con esso sparì anche il sogno. Sonnecchiasti ancora un po’, beandoti del calore delle lenzuola. Oh, finalmente un po’di pace. Ma il ricordo di quella giovane non scompariva. E anche la sua voce e la sensazione di calore, di appartenenza. Come se finora tu avessi servito la Dea sbagliata. Come se la tua stessa esistenza potesse trovare un senso nel raggiungere quella ragazza con la tiara di smeraldo? Sì, era uno smeraldo quella pietra. Ah, doveva essere la Dama degli Smeraldi di cui avevi sentito parlare ad Aphrodite quando aveva attraversato la Quarta. Poteva provare a schermare i suoi pensieri quanto gli pareva, tu sapevi come leggerglieli lo stesso. E questa Dama degli Smeraldi, che riusciva con un niente di Cosmo a mettere in difficoltà quello spocchioso di Aphrodite. Oh, come avresti voluto stringerle la mano e sfidarla. Se solo avessi potuto sapere dove si trovasse… Un attimo, ma forse te l’aveva appena detto con quel sogno. Se no perché Cherie? Ma certo, perché non c’eri arrivato subito? La ragazzina doveva avere qualcosa a che fare con lei.

Una volta non era raro che vi riuniste anche voi Gold Saint. Però in quanto èlite, vi riunivate soltanto per assistere all’investitura di uno di voi o per presenziare ai concerti di Orpheo. Il quale, per vostra sfortuna, non era voluto tornare in vita e la sua Armatura era passata a Calliope, una Sacerdotessa-Guerriero. Che, stando a quanto avevi capito, fosse persino più brava del suo predecessore nell’esecuzione dei brani, in quanto già arpista prima della sua investitura.  Non avevate ancora avuto il piacere di assistere ai suoi concerti, però eri davvero curioso. Sarebbe stato cento volte più interessante invece che presenziare a quello stupido torneo dell’assegnazione delle Armature di Bronzo. Che te ne fregava a te dei sottorango, poi.
A un certo punto percepisti un fruscio di vesti accanto a te. Ti girasti e riconoscesti la ragazza avvolta nella mantella grigia. «Oh, sei venuta anche tu per assistere al torneo?» Dicesti ad Astrid vedendola aggiustarsi le pieghe del vestito bordato d’oro appena visibile da sotto il mantello. Proprio non capivi come Kanon fosse riuscito a farsi sfuggire questa ragazzina dalla sorveglianza.
Eri contento di vederla, intendiamoci, ti piaceva passare del tempo insieme a lei e lei ricambiava. Forse perché conosceva il tuo vero nome e il tuo passato o forse perché ti considerava un amico, benché fosse molto più pericolosa di te. 
«Diciamo che ero curiosa». Ammise titubante, guardandosi intorno, nel timore di avere una qualche spia alle calcagna.
«Non mi sembrava che tu e Neera foste amiche». Commentasti.
«Non lo siamo, infatti». Ribatté lei tornando a guardarti.
«Ah, capisco, strategia. Conosci il tuo nemico e riuscirai a batterlo».
«Qualcosa del genere».
Proprio in quel momento, il Gran Sacerdote dette il via ai combattimenti e i due avversari si scagliarono l’uno contro l’altra.
Tu eri abituato alla violenza di questi scontri. Astrid non immaginava che fossero così duri. Vedeste Neera mettere KO in poche mosse tutti i suoi avversari uno dopo l’altro. Con una rapidità e una precisione che puzzavano quasi. Non sembravano frutto del lavoro estenuante con Lancelot, neppure frutto della lezione di Roma, bensì esperienza.
Che le fosse venuta dopo il rapimento o che avesse finalmente assimilato gli insegnamenti con quella rapidità che Lancelot le augurava? Se fosse stato presente avrebbe commentato che era ora che mostrasse un po’d’impegno. 
La osservaste fare fuori tutti gli altri contendenti all’Armatura dell’Indiano. A un tratto Neera si girò verso le gradinate e alzò il volto verso di voi. La bionda al tuo fianco trasalì e tu girasti svogliatamente la testa verso di lei e le domandasti; «Che succede?» Solo dopo ti accorgesti che era bianca come un cencio.
«Ho quasi avuto l’impressione che mi abbia fulminato con lo sguardo, quando Kiki le ha consegnato il cloth e l’ha presentata ufficialmente». Rispose con un fil di voce per il timore.
Facesti spallucce. Certe volte si spaventava davvero per un nonnulla. «Sarà stata solo un’impressione». La rassicurasti.
«Lo spero».
Tornaste a osservare il combattimento. Mentre Neera e la sua avversaria si scambiavano colpi, tu tornasti a pensare al tuo colloquio con Cherie. Non avevi mai preso seriamente la sua proposta. Però, adesso che eri in mezzo a queste persone ci pensasti. Se avessi voluto avresti potuto uccidere tutti loro solo con un dito. Giocare con le loro anime come un bambino con i suoi balocchi.
Delle anime dei morti non t’importava molto: erano morti, fine. Ma dei vivi? Di loro t’importava, Death Mask?
Sapevamo tutti che tu non saresti mai riuscito a farti importare seriamente di qualcuno. L’unica volta che successe, lei ti morì tra le braccia. Proprio come aveva detto DeathToll, per voi della Quarta era necessario dimenticare parole come amore, amicizia, cooperazione, fratellanza, famiglia. Voi non potevate permettervelo, perché il karma sa essere vendicativo. Questo era il prezzo che voi dovevate pagare per indossare la Gold Cloth di Cancer. Eppure anche così eri riuscito a dare il tuo contributo per aiutare Hyoga, guadagnandoti la sua stima perpetua. Oltre che l’affetto non desiderato della piccola peste. Un sorriso divertito incurvò le tue labbra, nel riconoscere che gli eri grato per questo, anche se non gliel’avresti mai mostrato apertamente. Ma anche a Elda di Cassiopea dovevi essere grato: lei ti aveva aiutato molto durante la Guerra Sacra di quattro decadi fa. E ora c’era anche Astrid. Possibile che davvero tu non avessi alcun motivo per scendere in campo, Death Mask? Neanche se il campo di battaglia era il tuo parco giochi?
Perché un giorno anche Hyoga, Natasha, Elda e Astrid sarebbero morti.
Il pensiero ti fece sgranare gli occhi. 
Già, anche loro sarebbero morti e sarebbero finiti negli Inferi per una ragione o per l’altra. Ma se gli Inferi vertevano in quelle condizioni, e la situazione era tanto grave… reprimesti quel pensiero.
Tu eri Death Mask del Cancro, il temuto custode della Quarta Casa. Tu eri il Gold più spietato di tutti. E non avevi nessuno a cui tornare, se non la Dea. Ma appena lo pensasti, capisti che era una bugia. Tu avevi scelto di essere un Cavaliere della Speranza. Anche se non l’avresti mai ammesso ad anima viva, eri rimasto abbagliato dalla luce che emanavano quei cinque ex Bronze. La stessa luce che poi, risorgendo a Tokyo, permeava anche Shura, Aiolia, Aphrodite e tutti gli altri nonostante le loro colpe. E tu le cui mani erano più rosse, e la tua anima più nera di chiunque altro? Non rispondesti.
Ricordi cosa provasti? Invidia. Tu li invidiasti. Erano riusciti a trovare il modo di andare avanti ed espiare. E non ti erano mai sembrati tanto forti e tanto splendenti nonostante il dolore. 
Per la prima volta tu sentisti il bisogno di fare lo stesso. Anche se la spinta, nel tuo caso, non te la dette Yoshino Atena ma una certa papera artica porta sfortuna.

Un’immagine delle anime di Astrid, Helena, Natasha, Elda e Hyoga che venivano immobilizzati da dei tentacoli che succhiavano loro l’energia e andavano ad alimentare una figura in nero invase il tuo campo visivo. Così non sarebbero mai più stati liberi! Avrebbero continuato a soffrire e non sarebbero più tornati dopo la morte. E tu questo non glielo auguravi. Il fatto che esistesse la reincarnazione era per te una specie di sollievo, sapere di non averli annientati definitivamente era una grande consolazione. Ma adesso che le loro anime erano in pericolo… No! Non potevi restare indifferente. Stringesti il pugno sulla coscia.
Non l’avevi mai considerata sotto questo punto di vista, prima. Dovevi fare qualcosa o saresti rimasto indietro un’altra volta. “Questo non posso permetterlo! Ne va del mio orgoglio!” Per questo guardasti la tua amica e le comunicasti la tua decisione: «Ah, volevo dirti che non riuscirò a salire alla Tredicesima, nei prossimi giorni». Non salivi solo per fare rapporto a Kanon o per consegnare la tua copia di rapporti scritti. Salivi anche per aiutare Astrid a disegnare quel dannatissimo mazzo di carte. Te la cavavi bene con la creta e si sapeva. Il disegno era un altro paio di maniche, ma se lei ti faceva lo scheletro della carta nei minimi dettagli, allora potevi fare qualcosa di decente.
Tutto quello che sapevi in merito era che insegnavano una tecnica che consisteva nel muovere tutto il braccio e non solo il polso. A un certo punto se non si stava attenti, si poteva rischiare di perdere la mobilità e avere problemi ai tendini. Ma questo non fu mai il tuo caso, il tuo polso aveva vissuto di peggio di una banale tendinite.
Era una collaborazione che non ti dispiaceva, anche se, te la cavavi molto meglio in altri ambiti. Per quel che ne sapevi, le colleghe di Astrid spettegolavano allegramente su voi due, dipingendovi come amanti. Sinceramente la cosa non ti faceva né caldo né freddo. La verità la sapevate voi due, punto e basta.  
 e guardasti la ragazza seduta accanto a te, che ti guardava dispiaciuta. «Oh, perché?» Ti chiese.
Non t’importa della sua anima? “Sì che m’importa”. Mi rispondesti istintivamente con più foga di quanta ti immaginasti e che ti stupì. «Ho un impegno».
«Va bene». Ci restasti un po’ così dalla sua risposta. Ormai vi conoscevate da un anno e non si era mai impicciata degli affari tuoi. Al contrario di Lancelot. Da Lancelot ormai te lo aspettavi, da lei no. Che fosse per la tua denuncia sulle sue fughe? A causa tua avevano aumentato la sorveglianza, ma era meglio così piuttosto che vederla rimetterci la vita. Stavolta per davvero. Non ci credevi per niente che si ficcasse nei guai che sapeva di poter risolvere; inconscio, subconscio, conscio o quel che diavolo ti pareva. «Non mi chiedi cosa devo fare?» Ti guardò di nuovo, con un lampo di malizia nelle iridi gialle. «Vuoi che te lo chieda?»
«No».
«Posso sapere quando tornerai?» Sbuffasti e ti passasti una mano sui capelli, prima di appoggiarti allo schienale della gradinata. «Boh? Non lo so».
«Allora buona…» La ghiacciasti subito: «Ah, non il dire, non sia mai qualcuno possa sentirci». La vedesti sogghignare sotto i baffi. Il tuo impegno consisteva nel visitare il tuo parco giochi preferito. Ma non per le ragioni cui eri solito visitarlo. E, avevate cercato di nascondere questo ad Aiolia, quando avevi esaudito il suo desiderio.
Risalisti la scalinata e andasti a conferire con Kanon. Il Patriarca (per non usare un altro aggettivo) rimase alquanto sorpreso nel sentirti esporgli la tua richiesta. Però ti lasciò andare con l’ordine di catturare la Dama. Che si era fatta ancora più sfrontata, se, secondo lui, osava addirittura chiamare uno di voi. La cosa divertente fu che Kanon non sospettò minimamente che tu non avessi la più pallida intenzione di catturarla.
C’era la Guerra negli Inferi. Una Guerra tra Black Saint e Specter. Una Guerra che aveva coinvolto tutti i morti e tutti gli esseri dotati di facoltà medianiche come ultima linea di difesa.
Avevi conosciuto un sacco di persone, ultimamente. Tutte lì per merito delle loro facoltà. Quelle che ti avevano sorpreso di più erano le anziane sarte che facevano comunella con alcune raccoglitrici di lino egiziano. E i bambini, molti bambini. Nessuno con il Cosmo di un Cavaliere d’Oro, ma tutti con l’unico comune denominatore di essere capaci di interagire con l’Altro Mondo. Negromanti. Ossia, coloro che sanno usare i fantasmi a proprio piacimento con la sola forza della magia. Niente Cosmo, solo magia. Richiamati tutti lì dalla battaglia, che aveva fatto da catalizzatore per le loro anime e, a tratti, anche per i corpi.
Era strano avere a che fare con questo esercito di straccioni mentre tu eri l’unico Cavaliere degno di questo nome, a parte il tuo maestro.
Lì, incontrasti il tuo maestro. «Maestro DeathToll». Salutasti con un cenno del capo. Tirasti fuori l’accendino e ti accendesti una sigaretta.  
«Death Mask, non mi aspettavo che alla fine saresti venuto». Ti salutò stupito. Sviasti il discorso chiedendo a che punto fossero e poi osservasti le bare e i vari sarcofaghi che stava allestendo con l’aiuto degli Skeleton e di alcuni civili. Li avresti visti sempre così, anche se erano capaci di comunicare con gli spiriti e di usarli, qualche volta. «Sì, diciamo che hanno usato argomenti convincenti. Lei dov’è?» Per fortuna questa Guerra era cominciata da poco e non nel periodo di Halloween, altrimenti sarebbe stato un grosso problema. Contavi che la maggior parte delle credenze dei maghi e dei pagani accanto a te erano superstizioni, ma quella sul Velo che si assottiglia la notte di Halloween, Samhain, come la chiamavano loro, non lo era. 
«Lei chi?». Domandò DeathToll guardandoti come a dire: “Stai bene?”
«La Dama degli Smeraldi, chi se no?» Il tuo maestro fece per dire qualcosa ma una voce femminile lo interruppe dicendo: «É arrivato?» L’uomo si scostò e finalmente la potesti vedere chiaramente. Identica al tuo sogno ma anche a qualcun altro. «Divina Atena?»
La giovane scoppiò a ridere e si portò una mano alla bocca. Quando smise ti spiegò, sorridendo che avevi fatto una faccia talmente buffa che non aveva resistito. No, non era lei e non solo per quelle poche differenze fisiche, ma anche per il fatto che la Divina Atena non rideva mai. O almeno, tu non l’avevi mai sentita ridere. E la sua risata riportò alla memoria altre sensazioni positive. Sentisti il bisogno di aiutarla e di proteggerla oltre che la riconoscenza. Tu sapevi di conoscerla. E se era una trappola? No, era impossibile. Quelle sensazioni che provavi erano troppo realistiche per essere uno scherzo di pessimo gusto. Riconoscevi anche che era lei stessa la fonte della scintilla verde e la tua stessa Cloth risplendeva e ti spingeva verso di lei. La salutava come una vecchia amica, nella sua risonanza. E della tua Cloth ti potevi fidare.  
«Non pensavo che ci sarebbe voluto persino il mio intervento per farti arrivare». Commentò lei. Ti venne istintivo inginocchiarti sul ginocchio destro, pugno a terra, come nella Sala delle Udienze. La differenza fu che a lei fu facile portare rispetto. Lo stesso che la Dea non aveva da parte tua e che neanche Arles aveva mai avuto. Ma lei sì. E stentavi a crederci anche tu. «Dunque sono qui ditemi che cosa devo fare, mia Signora.» domandasti.
«Innanzitutto lasciami darti il benvenuto nella Resistenza e bentornato, vecchio amico mio».

Aldebaran

Kiki stava cenando assieme a voi quando a un tratto trasalì.
«Cosa c’è Kiki?»
«Ecco cosa c’è che non mi tornava». Lo sentisti mormorare sgomento.
«Cosa?»
«L’Armatura dell’Indiano è di Bronzo, non d’Argento».
Aggrottasti le sopracciglia, confuso. «Cosa stai dicendo?»
«Niente, una cosa mia».

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Il lato oscuro di un guerriero ***


Il lato oscuro di un guerriero

 

 

Lady Isabel
Lo scettro d’oro che avevi fatto forgiare a sostituzione di quello di Nike lanciava brillii nel tramonto. Non era identico all’originale non ti era stato possibile forgiarlo di nuovo. In esso infondevi parte del tuo Cosmo tutti i giorni, per avere una difesa in più, nell’attesa e nella speranza che i tuoi Saint riuscissero a ripararlo. Ma questo ti costringeva anche a rinforzare la barriera del Santuario giornalmente e a scomparire sempre più spesso dalla tua dimora in Giappone.  
Sospirasti e volgesti lo sguardo al crepuscolo che arrossava i marmi di Villa Thule. Il Gold Saint dei Pesci non era riuscito a portare a termine la sua missione e la Dama degli Smeraldi si stava avvicinando. Tu non sapevi chi fosse, ma se persino Aphrodite non riusciva a catturarla allora era necessaria la tua presenza. Sapevi di non poter fare molto per loro ma dovevi affrontarla. Non avresti mai permesso a nessuno dei tuoi Saint di spirare. Soprattutto al tuo figliolo adottivo. L’avevi visto crescere, non avresti mai permesso che se ne andasse. Cosa avresti fatto senza di lui? E Seiya? E Ryuho, che sperava tanto nella sua guarigione? No, dovevi fare il possibile per salvarlo.
Rientrasti nella villa e andasti a cambiarti, dopo aver rimandato il falso scettro al Santuario tramite Ikki.
Andasti a trovare Kouga in camera sua. Il respiratore lo teneva in vita. Le sue ferite non erano ancora guarite e la cassa contenente la Cloth di Pegasus giaceva accanto al suo letto. Non era la prima volta che ti trovavi di fronte a una scena del genere. Già una volta i tuoi Saint più fedeli erano caduti in coma a causa delle numerose ferite riportate. Anche allora un elettrocardiogramma e un elettroencefalogramma scandivano il tempo come un orologio.
La mente ti riportò al Millenovecentoottantasei, in una clinica e al capezzale di un altro Pegasus.
Battesti le palpebre e tornasti al presente. Prendesti la mano di tuo figlio tra le tue. «Ti prego, svegliati». Lo implorasti. Ma ormai Kouga non si svegliava e il suo Cosmo era sempre più flebile. Sentisti gli occhi riempirsi di lacrime. In quanto Dea neanche avresti dovuto affezionarti ed essere veramente la madre che avresti voluto per lui. Il tuo ruolo te lo impediva. Era una delle leggi Divine, dovevate per forza abbandonare tutti i figli semidivini avuti o adottati. Non che non ti fossi mai innamorata in passato, ma non t’era mai interessato avere una famiglia vera e propria. Non era nel tuo destino e nelle tue corde. Il caso di Pallas te lo ricordava costantemente.
Avresti potuto avere miriadi di amanti, in fondo eri una bellissima donna. Ci fu un tempo in cui meditasti di legarti sentimentalmente a qualcuno, ma per qualche oscuro motivo, di quel periodo, ricordavi soltanto il dolore. Perché? Perché quando ci pensavi provavi questo? Era questo che non ricordavi. Perché provavi dolore? Eppure in quel periodo avevi guadagnato un Gold Saint. Perché nello stesso momento avevi perso qualcuno. E adesso quel qualcuno era tornato come un nemico. Lo stesso che stava massacrando i tuoi Saint? Non era possibile. Se era chi pensavi perché ce l’aveva con loro? Che cosa le avevano fatto? Perché si ribellava?
Tornasti con la mente a quel periodo e vedesti una persona controluce. Era una donna. Ricordavi di averla chiamata e lei si era girata a guardarti. Ti sorrideva, un sorriso triste e spaventato e poi spirava. Da lì ti eri sentita come se il cuore ti fosse andato in pezzi.  E poi ricordavi una figura bianca, femminile e assisa su un trono. E poi la prima Guerra Sacra nelle vesti di un’umana.
Era sempre stata accanto a te, ma se fosse occorso saresti scesa in campo e l’avresti affrontata di persona, come con Eris. Le inviasti quel messaggio con il Cosmo: “Ti aspetto”.  Non aveva bisogno di aggiungere altro. Sapeva che l’avrebbe trovata.

Il sole calò in fretta e presto il cielo si tinse di blu. Il momento dello scontro era vicino. “Che buffo ritrovarsi di nuovo in una situazione simile”, ti dicesti. Anche se il tempo passava, alcune cose continuavano a essere le stesse. Soprattutto tra i Saint. Per esempio anche questo Cavaliere di Scorpio ti stava accanto, nonostante la barriera di formalità. Tu, che avevi conosciuto Cardia, ravvisavi in questo Scorpio somiglianze, non solo fisiche. Avevano il vizio di sorridere quando il combattimento li prendeva. Ma il sorriso di Milo era più affilato, più arrogante, perfido di quello di Cardia; che pure fu esaltato. Viveva la vita al massimo, sapendo di morire a neanche diciannove anni per via della malattia. La vostra fu una bella amicizia. Avresti voluto che anche con questo Scorpio si ripetesse. Ma questa era la vita, andava avanti, a volte riproponendo echi dal passato, come una donna che a volte mette un foulard che non indossa da anni.
Era pericoloso risvegliare le anime, restituire i loro ricordi. Il loro ritorno aveva del miracoloso. E adesso qualcuno stava attentando alle loro vite. Non potevi fermare le Creature ma potevi ancora sconfiggere questa Dama degli Smeraldi. A questo punto era palese che fosse necessario il tuo intervento. Solo dopo percepisti lo sguardo insistente alle tue spalle. Il tuo cuore balzò in petto e ti girasti di scatto imbracciando lo scettro. Non avevi neanche percepito il suo Cosmo. “Chi sei?” Domandasti diffidente, percependo una piccolissima scintilla di Cosmo e per un momento vacillasti riconoscendo quella sensazione di mancanza. “Nostalgia?” Pensasti riconoscendola. Perché? Che tecnica era mai questa?
“Come, chi sono? Dovreste saperlo dal momento che mi avete aiutato a crescere”. Ti rispose parlando alla tua mente in greco antico ma con un’inflessione indiana. Aiutato a crescere? Da quando avevi aiutato a crescere un mostro? Era forse un’orfana di una di quegli orfanotrofi che avevi finanziato con le tue opere di beneficenza? Una giovane che aveva vissuto in una casa famiglia della Fondazione? Un’amica di Kiki?
«Fatti vedere». Ordinasti.
«Non ho cattive intenzioni». Ribatté la giovane uscendo dall’ombra della colonna alla tua destra e ti guardò esitante. Trasalisti nel ritrovarti di fronte te stessa. Solo gli smeraldi che adornavano il collo, la fronte e le orecchie ti dissero che quella era la Dama che cercavi. Solo dopo notasti le differenze: l’altezza, il colore brunito della sua carnagione, le labbra carnose, i boccoli castani prematuramente striati d’argento e i seri occhi scuri. Occhi dallo sguardo di chi porta una maledizione tra capo e collo. Poi la camicia verde e scollata e la collana argentea con pendente che si tuffava nel decolleté. La mantella nera allacciata lateralmente e i pantaloni e gli stivali neri. La spada verde appesa al suo fianco. L’ avambraccio scoperto appoggiato alla colonna. «Come potrei? Siamo pur sempre parenti». Continuò.
«Come sei riuscita a entrare? Neppure le mie Saintia sono…» La visitatrice t’interruppe alzando le spalle: «Lo sapete che per me non è un problema eludere la sorveglianza, lo facevo sull’Olimpo, qui, Lassù, non fa differenza». Tendesti lo scettro verso di lei ma ti fermò con un cenno della mano e uno sguardo mesto. Non usò il Cosmo, non fece niente, furono proprio quegli occhi delusi a fermarti. «Capisco che non ci vediamo da millenni, però quando mi avete chiamato pensavo che vi foste ricordata di me».
«Cosa?»
Sussultasti e trattenesti il fiato rumorosamente. Quelle parole ruppero un sigillo che avevi dimenticato e nuovi ricordi fiorirono nella tua psiche. Cadesti in ginocchio e lei ti fu subito accanto per sorreggerti, spaventata: «Che vi succede? State bene?» Ti portasti una mano alla faccia mentre i ricordi fluivano in te. Non era un incantesimo, nessuno ti aveva scagliato un Fantasma Diabolico. Erano tuoi e solo tuoi, solo che la tua psiche umana non poteva contenerli tutti. Immersi nel bianco della tua vera dimora sull’Olimpo. Dove una bambina ti supplicava di lasciarla partire e dove una giovane adulta, una Dea, tornava a te sul campo di battaglia. La stessa che poi ti supplicava di accettarla come tua Ala. Tu che le dicevi di no, che non era giusto e lei che ti convinceva, determinata. E poi lei stessa, i capelli striati dell’oro del crepuscolo, che ti guardava da sopra una spalla e ti salutava sorridendo speranzosa, nonostante la paura e le lacrime: «Questo è il mio tramonto, madre. Ma non vi preoccupate, dopo il tramonto torna sempre l’alba».
Tornasti al presente e guardasti la ragazza incredula mentre la mano scivolava dalla tua faccia. La giovane dagli occhi scuri ricambiava con occhi angosciati. Un nome affiorò nella tua testa mentre la nostalgia e il dolore si trasformavano in stupore: «Asia». La tua Azona. La tua bambina. Allora era lei la Dama degli Smeraldi. Poi altri, più terreni, legati a quei sentimenti che come Dea non ti era concesso vivere.  Era questo il nemico che avevi chiamato? C’era uno sbaglio, era tutto un malinteso. Lei non poteva esserlo. Lasciasti cadere lo Scettro che tintinnò sul terreno.
«Madre?» Tentò lei, incerta, quasi che avesse paura.
Sorridesti piangendo di gioia: «Asia!» Il tuo sorriso e la tua gioia la contagiarono e fu come se la maschera si fosse dissolta rivelando la vera Asia. Per un momento ti parve di vederla tornare bambina mentre vi abbracciavate.
Voi le Bianche Fanciulle, altrimenti dette le Incantate, quanti miracoli avevate compiuto, sconfiggendo i vostri parenti. Il Celeste Tonante, L’Insidioso Inesplorato, Il Sotterraneo Oscuro, il Crudele Misericordioso e il Generoso Ristoratore, Il Luminoso Profeta, La Vergine Cacciatrice, Il Furioso Guerriero e La Selvaggia Sanguinaria. Non ultimi Il Rinnegato e L’Immortale. Questi erano i nomi con cui gli Dèi erano conosciuti nel Mondo Celeste.
Ma lei era La Vergine Disincantata. Neanche Bianca: aveva sempre odiato i significati di quel colore che non le erano mai stati concessi di vivere. La tua ombra.
Piangesti e alzasti il volto verso il soffitto come se tu avessi potuto vedere il cielo stellato. «Per l’Olimpo, sei tu? Credevo che non ti avrei rivisto mai più». Lei Ricambiò la stretta con calore singhiozzando tra le sue braccia.
Ti discostasti quel tanto che bastò per guardarla e le prendesti il volto tra le mani per osservarla meglio. La tua bambina era tornata da te, con un corpo e un’etnia diversa ma c’era riuscita, era viva.
Sorrise e trattenne la tua mano sulla guancia bagnata e rispose: «Sì, sono proprio io». Ma non si scusò per non riuscire a smettere di piangere. Ma cosa sarebbe importato? Neanche tu ci riuscivi.
«Credevo… credevo che fosse un nemico e invece eri tu. Oh bambina mia». L’ ultima volta che la vedesti, fu nell’Anno Mille, a ridosso della Guerra Santa contro Hades. Le altre volte neanche immaginavi che lei avesse continuato a vegliare su di te.
«Madre». Sembrava che fosse diventata incapace di dire altro. «Come avete fatto? Come vi siete salvati? Credevamo…» Uno strano odore ti arrivò alle narici «Ma tu sai come l’Oltretomba? Che è successo? É lì che avete trovato rifugio?»
Lei si deterse la faccia con la mano e tirò su col naso: «É una lunga storia».
«Raccontamela, per favore, raccontami tutto». L’aiutasti a rialzarsi e la portasti nella sala da pranzo.
Proprio in quel momento la porta si spalancò di soprassalto ed entrò Mii tutta trafelata. «Signora».
«Oh, Mii». Sorridesti lacrimosa. La Saintia del Delfino vi guardò senza capire. Soprattutto quando le chiedesti di portarvi del tè e della torta. Ti tamponasti gli occhi con il fazzoletto. Lei obbedì, non prima di averti chiesto se andasse tutto bene. «Sì, va tutto bene». E poi ti chiese chi fosse Asia e tu rispondesti, dopo averla guardata un istante, dopo averla presa per mano. Asia ricambiò la stretta: «Una persona a me molto cara e un’ospite molto gradito».
La cara Mii la guardò guardinga ma obbedì. Vi accomodaste sul divano e Asia si guardò attorno meravigliata per la magnificenza della magione. La facesti accomodare sul divano accanto a te. Non sopportavi che ci fosse qualcosa a separarvi, anche se era solo un tavolino da tè. E lì Asia ti raccontò tutto quello che era successo dall’Anno dell’Apocalisse a ora. Tu ascoltasti sbalordita dalle sue gesta e dalle sue prodezze, ma anche dalle sue gioie e dai suoi dolori. Si fermò solo quando Mii fece ritorno e vi portò tutto e per sbocconcellare e bere. «Sono contenta che tu abbia trovato qualcosa che valga la pena di amare e di proteggere». Le facesti commossa. Avevi bevuto e mangiato qualcosa anche tu, anche se non avevi sete e fame. La tua gioia aveva annullato tutti i tuoi affanni. E poi ti raccontò anche che cosa era successo nel Millenovecentoottantasei: «Non posso dirti molte cose, ma posso farti il sunto». E così tu apprendesti che cosa c’entrassero le nuove morti con Hades e il suo trapasso. Quando avevi scagliato lo scettro non pensavi che avresti causato tutto questo. Lei però continuò in tono lugubre: «Ma qualcosa è andato storto. Qualcuno ha impedito a mio fratello di prenderlo». Capisti che si riferiva all’Azone di Hades. Cosa? Dov’era in quel momento? Come aveva fatto?
«Qualcuno? Chi?»
«Non posso dirtelo, ma è una persona che conosco. Abbiamo già aggiustato ogni cosa, ma non è questa la cosa che più mi preme.» Mise giù la tazza e ti prese le mani tra le sue e ti guardò dritto negli occhi. «Devo raccontarvi la verità a proposito delle Creature e di quello che ho scoperto due anni fa». Dichiarò. E ti disse tutto ciò che sapeva. Ascoltasti tutto con sgomento crescente. Alla fine sfilasti le mani dalle sue e te le ponesti in grembo. Questo cambiava molte cose: «Questo è» iniziasti ma le parole ti morirono in gola. La guardasti di nuovo: «Perché? Come è possibile? Non doveva essere stato scongiurato?»
«No. Ed è per questo che sto cancellando tutte le cose che si sono aggiunte in questo tempo e che sto cercando Loro».
«Loro?» Ripetesti confusa senza capire. Lei ti guardò come a dire: “Cercate di ricordarvelo, lo sapete di chi parlo”. «Loro». Ripeté calcando l’accento su quella parola. Avesti un flash di nove figure controluce. No, andiamo, non poteva essere che Li stesse cercando. Loro. Proprio Loro. No. Ti portasti le mani alla bocca. In che cosa si era cacciata? Asia ti osservò impassibile: «Sapevo che avreste reagito così».
Togliesti le mani dalla tua bocca e ti sporgesti verso di lei, affondando le dita nelle sue braccia come se tu avessi voluto scuoterla. «Come pretendi che possa reagire? Hai idea di cosa tu stia combinando? Sono pericolosi e tu sei solo una Dea. Anche se sei un’Azona non puoi fare niente, non ti presteranno mai ascolto! Siete stati proprio voi Azoni a scagliare il colpo finale. Non aspettano altro che di uccidervi».
«Sai che non è vero. Uno di loro mi ascolta». 
«E continuo anche a pensare che non possa che essere per via di un secondo fine! Probabilmente sta cercando di infinocchiarti per portarti dal Drago Nero! Te l’ho già detto, te l’ho sempre detto, con gente di quella risma non ti puoi mescolare, non hanno niente a che spartire con noi». Ti sembrò indecisa prima che aprisse bocca e sparasse: «Io sono sua figlia». Quelle parole ebbero lo stesso effetto di un rintocco di campana a distanza ravvicinata. Tacesti guardandola sbalordita. Battesti le palpebre per lo shock. Forse era colpa della stanchezza e non avevi capito bene: «Potresti ripetere, scusa?»
Lei fece spallucce e rispose, guardando altrove e si liberò dolcemente dalla tua presa: «É così». Avevi capito bene, proprio come temevi. E, improvvisamente, superate le fasi dello sconcerto, del dubbio, ti ritrovasti in faccia l’amara verità. Adesso tutto ti parve avere senso. Dall’Olimpo fino a ora, compreso il suo rapporto con il Drago Rosso. Ti portasti le mani alla bocca. Non poteva essere vero. Cercasti in quegli occhi traccia di menzogna ma non ce ne erano. Lasciasti scivolare le mani dalla bocca per mormorare: «Non è possibile».
«Eppure lo è. Questo complica di parecchio le cose e al tempo stesso le rende assai più semplici per quello che sto facendo». Aggiunse giocherellando con una ciocca dei suoi capelli argentei. E, per una volta tu Atena, la Dea della Guerra, fosti a corto di parole. Distogliesti lo sguardo, disgustata e in preda ai dubbi. Avevi aiutato a crescere la Progenie Proibita? Non era possibile. Ma era sempre la tua bambina non poteva essere che... Ti tornò in mente la prima volta che ti regalò un disegno e la sua voce squillante che rimbombava per il tuo Santuario quando rideva. No, non importava da dove saltava fuori, lei era pur sempre tua figlia e tu l’avresti difesa a spada tratta. Ma l’idea che si gettasse da sola in battaglia a questo modo e con loro. No, non lo sopportavi. Avresti voluto impedirglielo ma ormai era adulta non era più affar tuo: «Madre?» Ti chiamò, incerta.
La guardasti: «Non so che dirti. Sinceramente mi trovi spiazzata. Posso solo augurarti che il tuo cuore sappia quale sia la strada giusta». Vedesti lottare le varie domande prima che capisse la tua decisione. Solo allora ti sorrise, lieta che non fosse cambiato nulla. «Grazie, madre». Vi abbracciaste un’altra volta, poi lei si discostò e tornò seria: «C’è anche un’altra cosa».
«Che cosa?»
«Un avvertimento da parte del Cosmo». Disse indicando il soffitto sebbene nella posa ti ricordasse molto Death Mask e la sua tecnica. «Ma se vogliamo che la Formula di Dio abbia successo, non dovrai dire nulla a nessuno. Solo quando le cose si faranno gravi».
«La Formula di Dio? É per questo che stai cercando i Guardiani delle Case degli Astri?»
Avrebbe messo in moto un meccanismo che se si fosse guastato vi avrebbe condannati tutti a morte. La Formula di Dio era la vostra unica speranza solo se integrata con questo meccanismo, ma meno veniva utilizzata meglio era. Non volevi condannare nessuno a portare sulle spalle un simile fardello. Non eravate pronti. La tua parente ti guardò perplessa. «Perché no?» Domandò. Come faceva a non capire? Avresti voluto urlarglielo in faccia. Tu la vedevi ancora come la bambina che giocava nei Santuari sull’Olimpo. Ancora sentivi il bisogno di proteggerla. Anche dopo quello che ti aveva rivelato. Non basta così poco per cancellare l’amore di un parente. Benché meno il tuo, che anticamente lottasti per salvare tuo fratello terreno dall’influsso di Hades, salvo poi scoprire che era più lui a manovrare Hades che il contrario. Per questo te ne uscisti con un banale ma ricco di sottintesi pericolosi: «Perché sono stati esiliati».
«Non ho mai detto che voglio che siano riammessi nel Mondo Celeste, ma che presiedano le loro Case, sai bene quanto me che la Corsa non potrà cominciare se loro non ci saranno. Non abbiamo altra scelta; dobbiamo richiamarli al loro sacro dovere».
«É una follia».
«Non sta a noi decidere, qui si parla di una volontà ancora più grande. Basta smettere di giocare a fingere che non stia succedendo niente, basta! Se la nave affonda o si ripara la falla e si butta fuori l’acqua o ci si mette in salvo, non si resta a morire nello scafo che si riempie!» Esclamò a sua volta perdendo il controllo sul suo Cosmo per un momento, bianco come il lampo dei suoi occhi. «Non prenderti libertà di parole che non hai! Sei pur sempre al cospetto di una Dea del Pantheon!» Le ricordasti pacata. Lei parve essersi resa conto di ciò che aveva fatto e ritrasse il suo Cosmo e si scusò: «Perdonami, non volevo essere scortese».
Le sorridesti prima di rassicurarla: «Lo so sei spaventata anche tu, lo capisco».
«Mi sorprende che anche gli altri non lo siano. Pensavo che almeno voi non foste trincerata dietro le vostre illusioni». Troppo diretta come sempre. Quasi come un adolescente, ma si sapeva che la vostra crescita era molto lenta. E lei, non aveva ancora ammorbidito gli spigoli del suo carattere. Però, la conoscevi abbastanza per dire che se lo era, era perché voleva delle risposte. Risposte che altrove non aveva trovato. Che voleva ricordarvi di combattere. Che non sarebbe servito a nulla fare finta di niente, quando anche il resto della famiglia aveva lavorato per salvarvi. Avreste dovuto aspettarvelo che sarebbe stato assai più complicato di quanto vi aspettaste. Neppure tuo padre, il Gran Dio Zeus sapeva cosa sarebbe successo. Gli unici che avrebbero potuto saperlo erano i Titani, ma nessuno si sarebbe mai avventurato nel Tartaro a interrogarli. Mentre i Guardiani degli Astri, Ossignori, quelli erano pure peggio. E lasciare che lei si avventurasse alla loro ricerca era come mandare un agnellino al macello. Ma era anche vero che era la vostra unica speranza. Essendo quest’agnello diverso dagli altri, forse avrebbe avuto una chance e non sareste stati a lutto.      
«E tu credi che risponderanno?» Domandasti.
«Forse alla chiamata di una Dea del Pantheon no, ma può darsi che alla figlia di un altro Guardiano degli Astri sì».
La fissasti per qualche istante prima di sospirare: «Oh, sei sempre stata un’inguaribile ottimista». Poi l’abbracciasti un’altra volta, come se avessi potuto fermarla. Lei ricambiò la stretta: «Sai com’è, mi piace tentare l’impossibile».
Solo allora chiedesti con un sorriso nervoso: «Dunque è questo ciò che mi chiedi. Dovrò restare a guardare mentre i miei Saint si massacrano tra loro un’altra volta. Come farò a capirlo?»
«Lo capirai». Rispose enigmatica, poi sciolse la stretta.
«Allora buona fortuna, Lady Asia degli Azoni». La salutasti, orgogliosa della splendida Dea che era diventata.  
Chinò il capo sorridendo e poi ti guardò come a dire: “Non ti deluderò”. Poi ti strinse la mano come a sottolineare questa promessa: «Anche a voi». Poi si alzò e si avviò verso l’angolo più in ombra e si fermò. Poi ti guardò da sopra una spalla e ti sorrise, ma di un sorriso vero che sembrava dire che ce l’avrebbe fatta. Si girò e avanzò fino a tornare a essere un tutt’uno con le ombre.
Sospirasti.
Qualcuno bussò alla porta e tu sobbalzasti. Poi la voce concitata di Xiao ti raggiunse: «Mia Signora! Mia Signora!» Ti chiamò dall’altra parte. Ti portasti una mano al cuore ed espirasti. Poi ti alzasti e andasti ad aprire mentre il cuore tornava a pompare regolarmente.
Mentre rassicuravi Xiao la mente ti volò ad Astrid. Ti eri sentita molto offesa da quasi tutti loro. Non solo perché non le avevano dato la possibilità di difendersi. Ma non potevi punirli come ai tempi delle Crociate. Asia era stata più che chiara su questo punto.  
Dovevi aspettare il momento giusto. Sempre che ne avessi avuto il tempo, anche perché, adesso che si era rivelata come una Progenie Proibita doveva morire. C’era un incantesimo atti a rivelarli qualora il frutto proibito si riveli a un parente o un amico. Adesso Asia era entrata nel mirino degli Dèi e non eri sicura che sarebbe riuscita a cavarsela anche contro di loro. E tu, in quanto protettrice della Terra, non potevi tirarti indietro. Dovevi fare qualcosa per impedire agli altri Dèi di ostacolarla. “Sbrigati, Vergine Disincantata”.

Solo dopo scopristi che Kouga di Pegasus era spirato.

Kanon
La notizia della morte del primo Saint della Dea era giunta come un fulmine a ciel sereno. La Dama degli Smeraldi aveva colpito. La Dea non l’aveva esplicitamente detto ma era evidente che non fosse riuscita a proteggerlo. Questo era un guaio e ormai la Bronze Cloth di Pegasus non apparteneva più a Seiya. I funerali si sarebbero celebrati presto, ti aveva solo detto la Dea dopo aver accettato le tue condoglianze. I Cavalieri erano riusciti a occultare i morti. Li avrebbero seppelliti i servi quella sera stessa. Quel giorno erano morti altri Saint e la cosa più grave era che Astrid non era riuscita a riportarli in vita. Stando a lei erano già morti prima di essere polverizzati. E così avevate scoperto un limite inquietante del suo potere. Da un lato era stato rassicurante, dall’altro no. Significava solo che era un’arma contro le Creature.
Avevi vincolato i servi al silenzio: se i Marine avessero saputo che non eravate al completo sarebbe stato un disastro. Senza contare le varie spie che stavate tenendo d’occhio tu e Zenais. Sarebbe stato come mostrare il fianco a un nemico a cui un tempo appartenevi.
Ti sedesti alla tua scrivania e apristi un libro sul leggio, senza tuttavia leggere veramente. Adesso il tuo passato era tornato a tormentarti. Odiavi nascondere le cose anche se per il bene comune. Nascondere e ombra erano le parole ricorrenti nella tua vita. Nato sotto una cattiva stella, nascosto sotto le stelle al Santuario e sotto le onde a tramare vendetta. Nell’ombra per la Dea che ti restituì la vita e che non smise mai di credere in te. Creatura forgiata nell’ombra. Come quella di Defteros di Gemini. Il vecchio Shion ti disse, dopo averlo sentito da Dohko di Libra anni prima, che tu gli somigliavi moltissimo. Tu non eri sicuro perché si sa che la memoria a una certa età diventa vaga come il tempo. Ti eri documentato e sì c’erano parecchie somiglianze. Solo che Defteros non cospirò mai contro la Dea. E che non riuscì mai a perdonarsi per non essere riuscito a salvare Aspros. E che si sacrificò per diventare una persona sola con lui, ridargli la vita e la stabilità mentale. Perché spesso i nostri peggiori demoni vivono nella nostra psiche. Si nutrono delle nostre paure e fioriscono come rovi attorno al cervello. Divorando, maturando e distruggendo finché non resta più niente. Anche tu avevi fatto qualcosa di simile, solo che in cuor tuo non riuscivi a trovare la forza di perdonarti.
Passasti una mano sulla pagina del libro. Un’abitudine che avevi preso da Shion per osmosi di carica. No, avevi indugiato in questi discorsi anche troppo. Dovevi capire i limiti di Astrid al più presto. Anche se per la prima volta ti parve di scorgerla sotto un’altra luce e in lei ravvisasti un tuo simile. Forse era questo l’altro motivo per cui la volevi studiare. Lei era quanto di più simile potesse esserci a te, almeno per il fatto che, in un certo senso eravate stati scelti dalle stelle. Tu per interpretarle e servire il Santuario, lei per conoscerle e portare tra voi tutta la loro magia. E in fondo l’ammiravi.
Mandasti a chiamare l’arpista nella speranza che la musica ti distraesse un po’. Ma neanche la musica riuscì a staccarti dai tuoi pensieri. E, a quel punto, mentre sfogliavi il libro, la fermasti e mandasti a chiamare Astrid con la scusa di farti portare un infuso rilassante.
Quando arrivò ti chiamò: «Sommo Kanon, eccovi l’infuso che avete richiesto». Richiudesti il libro e le indicasti il tavolinetto dicendo di metterlo lì. Lei obbedì, poi ti chiese se avesse potuto fare altro per te. Ti alzasti e all’infuso pensasti tu. La giovane si era scostata per lasciarti lo spazio necessario e attese. Soffiasti per raffreddarla e la guardasti. Stavi per dirle che poteva ritirarsi quando ti venne un’altra idea e le chiedesti di cantare per te. L’avevi sentita cantare qualche volta mentre faceva le pulizie o cucinava. Avevi sentito spesso dire da Cocteau quanto amasse cantare e ascoltare musica di tutti i tipi.
«Cantare, signore?» Ripeté perplessa arrossendo. In effetti non era una richiesta che facevi spesso. «Ovviamente se vuoi».
«Non sono molto brava». Ti avvisò cauta e imbarazzata.
«Non ti preoccupare, neppure io sono questo granché». La rassicurasti sedendoti in poltrona con la tua tazza, lasciandole così campo libero. Poi che sarebbe potuto accadere? Al massimo sarebbe piovuto o tu saresti andato in bagno più volte. «Cosa volete che vi canti?» Ti chiese sempre poco convinta. In quanto ancella era tenuta a obbedirti. E le conveniva impegnarsi per non deluderti; anche se tra voi non correva buon sangue.
«Quello che ti va, non me ne intendo moltissimo di musica». Non che ne avessi ascoltata poi tantissima nella tua vita. Ad ora era uno dei piaceri di più difficile realizzazione. Di musica greca, non sapevi neppure che band c’erano, figuriamoci musica estera.
La giovane prese fiato e cominciò a intonare una melodia. La canzone che decise di cantare per te non la conoscevi. Riconoscesti la lingua, ma non le sensazioni che il suo canto ti trasmise. Era qualcosa di sottile, di tangibile, ma forte e delicato al tempo stesso. Come un’essenza, quasi una magia. Cosa diametralmente opposta al Cosmo che, bruciando, usavate.  «Darksome nights and silver moon…»
Più la canzone andò avanti più il sorriso si delineò sul tuo volto. C’era un altro motivo per cui l’avevi chiesto proprio a lei. Ti piaceva vedere i movimenti delle sue braccia e delle sue mani in quella danza appena accennata. Mani che se non stava attenta rilucevano e parevano disegnare il suono. Quando cantava era come se le stelle cantassero con lei. Quasi percepivi le loro voci farle da contro canto. E il modo in cui si illuminava quando lo faceva, come se potesse entrare in una dimensione tutta sua. Era grazie a lei che ti stavi facendo una playlist musicale.  
La giovane smise di cantare. La ringraziasti, dopodiché aggiungesti: «Mi piace, come si chiama?»
Lei glielo disse e alla domanda: «L’hai composta tu?» Si schernì negando: non sapeva comporre musica. «Eppure ho sentito dire che anche quella sia matematica».
«Sì, lo è, ma non ho mai appreso quest’arte, in realtà sono una dilettante». Ammise.
«Però ci metti molta passione».
«É l’unico modo che conosco per impegnarmi e poi che figura ci farei se facessi qualcosa tanto per fare?» Disse. Un’ottima risposta. Curvasti la bocca in un sorriso e le chiedesti di cantarti altro. Così passasti la serata ad ascoltarla. Alla fine, quando fosti soddisfatto la ringraziasti per la compagnia e le desti il permesso di ritirarsi. Lei fece una riverenza e poi ti augurò un buon riposo prima di uscire.  
Mescolasti l’infuso prima di berlo. Domani sarebbe stata una lunga giornata.       

Cocteau
Il corteo dei Marine arrivò verso mezzogiorno. Ad aprire la fila c’era il Marine di Sea Dragon. Si sarebbero fermati per qualche giorno, che queste cose non sono mai immediate. E servono soprattutto per ostentare l’opulenza e la ricchezza (come fossero sinonimo di forza) di una Divinità. Ergo avreste dovuto indossare l’Armatura e presenziare a banchetti e ricevimenti.
Quanti trattati avevi stipulato durante gli anni dell’usurpazione di Arles. E voi dovevate stare molto attenti a continuare a nascondere la polvere sotto al tappeto e gli scheletri nell’armadio.
Soprattutto Astrid. Se Artemide ed Eris avevano montato tutta quella baraonda per trovarla, non osavi immaginare cosa avrebbe fatto Poseidone. Perché se loro stesse erano mosse dalla disperazione allora neanche per i Marine era molto diverso. Avevi sentito dire che c’avevano messo decadi a ricostruire il loro Santuario dalla battaglia dell’Ottantasei. In più, sempre stando ai Saint che avevate mandato in ricognizione, sembrava che neanche i Templi delle Dee della Caccia e della Discordia fossero in piedi.
Quella mattina Rodorio stessa si colorò di festoni e si fece festa per accogliere i nuovi arrivati. Era stata un’idea di Aphrodite. Voi tutti l’avevate trovata un po’pacchiana ma non era malvagia: dopotutto i meeting sono tristi. E tra tutti avevate un disperato bisogno di dimenticare un po’ quanto finora accaduto. Magari sareste riusciti a mettere i vostri ospiti abbastanza di buonumore per i prossimi decenni. Ogni Saint presedette alla propria Casa per accogliere il corteo che avanzò a passo solenne fino alla Casa di Atena. Quando i Marine infilati nelle Scale arrivarono ti ricordarono molto i luccichii delle onde del mare. Voi Gold Saint li anticipaste passandogli ai fianchi e raggiungeste Kanon. Quando anche l’ultimo di voi si fu disposto, il Marine di Poseidone chiamò tuo fratello: «Sommo Kanon». Poi tese una mano verso di lui. Kanon sfoderò il suo sorriso migliore e avanzò incontro all’uomo. Tu e Shura subito dietro a lui. «Canopo Marine di Sea Dragon». Stringendo quella mano.
E la folla che si era radunata sulle scale e la montagna per assistere all’evento scoppiò in grida di giubilo e lanciò coriandoli.   
Ancora non vi era chiaro che cosa fosse questa Luce Ombrosa, ma era enormemente preziosa. Qualcosa che probabilmente neanche tu dovevi avere, ma che avrebbe potuto distruggere Arles. La belva che adesso, dai recessi della tua mente, ti guardava e sogghignava: “Non ci provare neanche”. Poi il tuo riflesso passava dallo specchio alla tua ombra che si stagliava contro i muri, grazie alla luce che filtrava alle tue spalle. E che rispondeva, innalzandosi più inquietante delle Creature: “Perché no? Magari potrei essere io ad annientare quella fastidiosa principessina viziata e, magari fare di quella piccola serva la mia regina”. Che ormai regnava sovrana nelle sue fantasie più sfrenate, accese e fomentate dal ricordo di quando ti ritrovasti stretto al suo petto e dagli sberleffi di Shura. Quella belva ormai si domandava sempre più spesso che sapore avessero la sua bocca e la sua carne, come avrebbe potuto piegarsi al suo tocco e assecondarlo. Troppo, per te. Decisamente troppo. Perché l’unico motivo per cui la desiderava era il potere. Non volevi ferire nessuno e non era giusto che Astrid diventasse una pedina nelle vostre mani. Quasi ti venne da sperare che vi ammazzasse entrambi. Che il rapace che avevi ravvisato uscisse da lei e facesse strage delle tue membra come l’aquila di Prometeo.   
Non è così, mio buon (Bella - Copia - di -) Frollo di noialtri? Tu non eri sacerdote di alcun tipo, di problemi con la castità non ce ne erano. Voti simili a quelli del sacerdozio non ne stringesti. Nessuno di voi li strinse. Potevi avere tutte le donne e gli uomini che desideravi appena oltre Rodorio. In molti facevano la fila per te e tu quel piacere lo coglievi, eccome, se lo coglievi. Quando non eri con Astrid, non avevi da amministrare i tuoi sottoposti e la bestia non ti tormentava, di solito eri a spassartela ad Atene.    
“Anche no”. Ma come sempre, il pensiero di averla nel letto fece muovere qualcosa nei tuoi calzoni. Meno male che avevi l’Armatura indosso, altrimenti sarebbe stato ancora più tremendo. “Te l’ho detto, non potrai bloccarmi per sempre”.
«Saga, tutto bene?» Ti domandò Shura, affiancandoti.  
«Sì. Va tutto bene». Rispondesti simulando tranquillità. Avevi percepito il suo Cosmo.
«Sei sicuro? Ti vedo molto provato».
«Sì, ho solo caldo».
«Sicuro di non avere la febbre?» Ti domandò, deciso a non mollare l’osso. Era normale che si preoccupasse per te. Praticamente l’avevi cresciuto tu insieme ad Aiolos. Anzi, forse più tu che Aiolos, visto che fosti tu ad andare a prenderlo in Giappone, quando ricevette la sua investitura a soli nove anni. Per lui eri una sorta di fratello maggiore. Ricordavi ancora di come si sforzasse di essere forte, di mostrarsi degno del titolo e dell’Armatura conquistata. Senza sapere che tu eri pronto a prendergli la mano e trasmettergli la tua forza. Dirgli che, se avesse voluto, lo avresti riparato sotto al tuo mantello.
Invece, non accadde. Lo capisti e fosti colpito dalla serietà con cui ti rispose, quando ti presentasti a lui. E di ciò che disse quando tornaste dalla battaglia contro Aiolos. “Lui non è un animale è un compagno e un caro amico”. Non pensavi che, dopo tutto il male che gli avevi fatto ti considerasse così. E sapevi che, pur essendo ferito, in quel momento era sincero, mentre tu, posato sull’avambraccio di Seiya, nella tua forma animale, lo guardavi rialzarsi, nell’attesa dell’ambulanza. Proprio come un vero Saint. Due poveri disgraziati che cercavano sostegno l’uno nell’altro. Tu con il rischio di venire sopraffatto dal tuo demone e lui che rischiava di trasformarcisi veramente. Ti domandavi come riuscisse a restare così tranquillo. Anche per lui avresti combattuto. «Sicuro, è aprile, ultimamente fa più caldo». Un lampo di dubbio passò nel suo sguardo, prima che decidesse di risponderti: «A me sembra sempre uguale. Sei sicuro di stare bene?»      
«Sì, te l’ho detto, è solo il caldo. Niente che non si possa risolvere con un bel bagno». Ti maledisti appena lo dicesti. Quando iniziavi fare bagni a ripetizione significava che Arles stava lentamente riprendendo possesso. E avevi imparato a conoscere e riconoscere i segnali che dava l’Altro, in quei tredici anni forzati di convivenza.   
«Sarà, per sicurezza passa da Shun. Io devo tornare da Kanon, ci vediamo dopo». Si raccomandò, poi, prima di girarsi e tornare al suo posto. «A dopo». Lo salutasti. Appena fosti sicuro di essere solo ti nascondesti in una stanza e ti spogliasti. Infine, ti trasformasti nell’Oracolo di Atena. Il tuo corpo si illuminò di luce aurea e rimpicciolisti. Le tue sopracciglia scomparvero, i tuoi occhi s’ingrandirono, la bocca e il naso diventare un tutt’uno fino ad allungarsi e assumere la forma di un piccolo becco. I tuoi capelli rientrarono nel cranio come le orecchie, e, dalla tua testa nacquero i tre topolini grigio blu, mentre dal tuo capino, ormai arrotondato spuntavano le piume e le creste che facevano da orecchie. Il tuo lungo collo si accorciò e i muscoli umani rientrarono nella carne lasciando il posto alla muscolatura di uccello. Le tue braccia si sollevarono in alto e le tue dita si fusero in un unico osso, mentre la carne che la rivestiva si aprì come una membrana di muscoli, grasso e vene e nervi e si coprì di piume, come il resto di te. A parte sulla zona che una volta fu dei polpacci. Le rotule si piegarono all’indietro e tu vacillasti, mantenendoti in equilibrio arruffando le penne e sbattendo le ali. Poi i tuoi polpacci assunsero una colorazione scura e la tua pelle si coprì di collinette, mentre le ossa dei tuoi piedi si separavano e si univano fino a formare le dita da rapace e, il tallone si allungava verso l’esterno per darti più sostegno e, le unghie si tramutavano in artigli. Gli ultimi dettagli furono rifiniti, abbandonando completamente la tua forma umana. Non era una trasformazione indolore. Ma tu, che nella vita avevi sopportato di peggio, non ti diceva niente. Avresti anche pianto, non fosse stato che ti erano scomparsi i dotti lacrimali. In questa forma andasti a cercare Astrid. Se non altro non avevi paura di ferirla ulteriormente. Tanto lei aveva rigenerato le ferite che gli avevi inferto.     
La trovasti appollaiata a una finestra a guardare il mare. Solo dopo ti accorgesti del filo degli auricolari bianco che si mescolava con il colore della sua divisa.   
Cantò immersa in un mondo tutto suo. Forse quello dove lei poteva sgattaiolare via e andare al mare. Ma ora con i Marine non era il caso. Lei doveva fingere di essere una serva come tutte le altre.
Spostò lo sguardo e fissò il soffitto. L’avevi soprannominata strega dopo l’ultima sveglia a sorpresa. Era ufficiale, ormai te lo faceva apposta. Se ti eri salvato era solo per via del fatto che dovevi ricoprire la tua missione di Gold Saint. Parlare con tuo fratello le faceva sempre quest’effetto. La faceva riflettere, nel bene o nel male. Spesso, togliendole l’allegria per intere giornate. Oh, Kanon era un abile manipolatore, ma era ancor più bravo a sbattere in faccia la verità o insinuare il tarlo del dubbio. Quello che aveva detto a Kanon era vero: non sapeva comporre niente. E tu nemmeno immaginavi che la sua conoscenza musicale si limitasse a un più striminzito karaoke che a vera musica. Per fortuna che Elisa, la musicista della Tredicesima aveva avuto la brillante idea di aiutarla a perfezionare il suo canto. Non che fosse pessima, aveva l’intonazione, una bella voce, ma le mancava pochissimo per essere davvero bravissima. Forse i suoi professori avevano ragione quando dicevano che non sapeva scrivere. Si era illusa che bastasse saper parlare come un libro stampato per sapere scrivere. Ma non aveva mai fatto molta pratica. Le persone sanno veramente essere ingannevoli. Si era illusa che i suoi follower sui siti di scrittura le dicessero la verità. Ma non era vero neanche questo. I loro complimenti trasudavano falsità a ogni sillaba. E lei avrebbe voluto accorgersene prima, almeno non avrebbe abbandonato l’università. “Che stupida sono stata”. E dire che voleva solo scrivere. Ma cosa voleva scrivere? Non ne aveva idea nemmeno lei stessa. Perché (adesso era consapevole) sapeva esprimersi ma non mettere su carta tutto quello che riusciva a dire. Non era come quando cercava di seguire il consiglio del suo psicologo e allora passava ore a scrivere su quel quadernino nero (che avresti dato oro pur di sfogliare). Si trattava proprio di creare storie e lei non sapeva neppure da che parte cominciare. E, se ce la faceva, le parole erano banali e prive di significato. Potevi dirlo con cognizione di causa visto che un paio le avevi lette di nascosto.
Poteva impegnarsi quanto le pareva, ma non riusciva davvero a fare granché. La letteratura non l’amava, al contrario di tutte le discipline scientifiche. Solo con le cifre la sua mente si librava, viaggiava all’infinito e raggiungeva vette dello scibile umano che neppure sospettavi esistessero. Per questo era così brutto vederla abbacchiata.
Che i suoi avessero avuto ragione quando dicevano che la sua strada era tra le stelle? Le stesse che aveva tanto cercato di evitare prima di incontrare voi. Peccato che preferisse ancora osservare degli ammassi luminosi distanti anni luce. Che sulla Terra reputasse che non ci fosse niente per lei.  
Unica delle sue convinzioni a non essersi capovolte nel giro di un anno. Almeno non faceva più l’eremita. O quasi. Ti dispiaceva veramente vederla giù di corda, solo che non sapevi come tirarla su. Non potevi aprire becco, altrimenti ti saresti scoperto. Non potevi neppure rivolgerle delle parole di conforto. Tutto quello che potevi fare era restare a guardarla mentre si girava e ti domandava: «Bel casino, vero?» Come se avesse capito che tu le stavi leggendo nel pensiero. «Ho ventun anni e tutto quello in cui mi credevo brava è andato a farsi benedire». Balzò a sedere e tu la guardasti senza dire niente, poi raggiunse la scrivania.
«Se solo avessi già le mie carte finite». Fece sfiorando i fogli sul banchino. Tu osservasti gli scheletri delle carte che quel povero diavolo di Death Mask (unico artista del gruppo) si era offerto di rifinire. Prima che arrivasse Death, il massimo che Astrid poteva fare era uno Skandiski. E questo non l’avevi mai sentito, fortuna che Death tradusse per te con un roco sussurro: «Come Picasso». Eravate guerrieri ma anche voi conoscevate Picasso e il cubismo, se non altro per sentito dire. 
Ne mancavano ancora una decina. A proposito di Death Mask, chissà come stava andando con la missione nell’Oltretomba. Da quando era partito non aveva più dato notizie. Di solito non ci metteva molto ma questo ritardo aveva qualcosa di preoccupante. Volendo avresti potuto raggiungerlo ma non era il caso.
L’ultima volta che lo avevi visto aveva giocato a carte con Astrid nel corridoio delle stanze della servitù. Era stato uno degli ultimi giorni che era venuto a tracciare le carte. Ti eri sentito leggermente escluso, che sembravano conoscere queste carte. Come se parlassero in codice. Persino Death ammise di aver conosciuto una chiromante quando si addestrava in Sicilia. Diceva che la chiamavano Nonna Zilla. Aveva assistito a qualche sua prodezza e, così per scherzare aveva lanciato una sfida alla sua protetta. «Scommettiamo che con le carte me la cavo meglio di te?»
«Vuoi scherzare?» Rispose lei.
«Leggere i tarocchi non è sinonimo di bravura». La provocò. Risultato: eccoli lì che si sfidavano per l’iPod di Death Mask. L’oggetto che avevano deciso, di comune accordo, di mettere in palio. La fama di Death come giocatore era tale che il Grande Tempio quasi si bloccò per intero per assistere. 
Ammettesti a te stesso che fu una partita emozionante. A partire dal rubamazzo, dove Death mise Astrid in seria difficoltà. Quella la vinse Death, ma si sentì magnanimo e le concesse la rivincita. Grosso sbaglio. «Queste non sono le carte dei tarocchi, su queste sono io che ho potere». Disse tronfio mentre le mescolava di nuovo. Lei si aprì in un sorriso furbo: «Allora scommetto che la prima carta che metterai sul tavolo sarà un cinque di fiori». Death sorrise e distribuì le carte coperte. Ma quando mise sul tavolo la prima delle quattro carte il suo sorriso si afflosciò e tutti voi la guardaste stupiti. La carta che aveva rivelato era esattamente un cinque di fiori. «É un colpo di fortuna». Esclamò. «É solo un colpo di fortuna, te lo dico io». Aveva ripetuto il suo connazionale alla seconda volta che lei indovinò, anzi, che chiamò le carte. Perché era proprio questo quello che sembrava facesse. Poi la partita cominciò e Death Mask si ritrovò in seria difficoltà. Astrid perse il mazzo qualche volta, ma somigliò più a una studiata strategia, piuttosto che a una perdita vera e propria. Era come se stesse cercando di spostare la partita a un altro livello e le carte stessero rispondendo. Ipotesi che poi divenne certezza quando ti parve di scorgere un Cosmo? Ma si poteva definire così quell’alone color miele e oro e pulviscolo? Ma fu solo per un istante che credesti di essertelo immaginato. Improvvisamente Death Mask non era più il beniamino delle carte. All’ennesima carta chiamata balzò in piedi. «Non è possibile, è solo un colpo di fortuna». Decretò già alla terza sigaretta mentre l’altra lo invitava a un’altra partita con nonchalance. L’altro le chiese perché volesse giocare ancora. Death Mask avrebbe dovuto essere quello più maturo tra i due, ma il suo spirito da giocatore di poker si era appena ridestato. Perciò risedette dicendo: «D’accordo. A cosa vuoi giocare?»
«Scopa».  Il Cavaliere di Cancer sogghignò: «Come desideri». Ma lei non abboccò né gli diede corda. Già dai primi momenti fu chiaro che Death aveva trovato un degno avversario. Ma la cosa non fece altro che ringalluzzirlo. «Niente male, sei brava». Si complimentò, mentre si giocavano l’ultima manche. Alla fine aveva collezionato rispettivamente sei scale contro le sei di lei. La partita sarebbe stata decisa da quest’ultimo tiro. Lei sorrise: «Grazie, anche tu sei bravo. Ma… sei sicuro che sia solo bravura, la mia?»
«Sì, non può essere che tu…» Non fece in tempo a completare la frase che Astrid completò la scala e a Death non restò che prendere la carta gemella della sua. Alla conta risultò che Astrid aveva totalizzato il punteggio più alto. «Eh, no, adesso mi concedi la rivincita».
«Come desideri». Gliela concesse e Death Mask vinse. Parità. Due giochi di carte dove entrambi avevano sia vinto che perso. A proporre un altro gioco fu sempre lei. E l’orgoglioso Saint non si tirò indietro. Sorrise di rimando e posò un pugno sotto al mento, il fumo della sua decima sigaretta che gli aleggiava intorno come una puzzolente nuvola biancastra. Le chiese quale gioco e lei propose scala quaranta, il poker se lo sarebbero tenuto per ultimo. «Ci sto». Sogghignò Death Mask ringalluzzito. «Ah, Death, la prossima che girerai sarà un quattro di picche». Lo avvisò di nuovo mentre il tuo collega mescolava. Lui fece un verso prima di borbottare qualcosa scontento e ripetere che la sua era solo fortuna, ma non ci credeva più tanto come prima. Le fece tagliare il mazzo e la ragazza eseguì. Riprese a mescolare. «Sei sicuro?» Domandò lei guardandolo di sottecchi, quand’ebbe ritratto la mano. Poi aveva cercato il sostegno degli spettatori che si erano raccolti attorno al tavolo, cioè tu, Kiki, Lancelot, Yoshino, Nachi del Lupo, Shura, Ichi dell’Hydra, la Silver Saint della Gru. Death Mask la canzonò divertito, ottenendo però un sorriso sornione di risposta. Solo a te non sfuggì che aveva assunto la stessa posa di quando leggeva la mano. Fu come un campanello d’allarme, peccato che non potesti avvisarlo.
Il quattro di picche non saltò fuori quando distribuì. Poi per sfidarla le disse che non avrebbe neppure guardato le carte del mazzo. Astrid gli fece cenno di procedere. E lui girò la carta.
Le risate che finora c’erano state si spensero di colpo. Alla fine lei aprì bocca e disse: «Io non ho mai detto che fosse la carta del mazzo che avevi in mano». Da lì comprendeste che la partita sarebbe stata ancora lunga. «Te l’ho mai detto, che anche le carte da gioco possono essere usate come tarocchi?» Domandò leziosa lei. Poi cominciarono la partita, che finì con la vincita di Death e la conseguente rivincita con gli interessi di Astrid. Anche se lei non gli andava giù, infatti si offrì di ripetere il trucco. Anche se l’altro era ostinato e le ripeté la litania in tono sbrigativo e la sfidò a fargli cambiare idea indovinando le prossime sei carte. Neanche l’intervento in extremis di Kiki sortì qualche effetto. Le carte che lei chiamò risposero tutte. E alla fine però la vittoria andò comunque a Death Mask. Che raccolse il mazzo e l’iPod e se li rimise in tasca. Ebbe pure la sfrontatezza di sfotterla. «Sei brava, ma non abbastanza, riproveremo la prossima volta».
Lei sorrise: «Come desideri». Ma solo tu sapevi quanta fatica avesse fatto anche solo per recitare. La verità era che era rimasto scioccato. L’Incantatrice aspettò che Death fosse uscito prima di smettere di sorridere e alzarsi.
Riemergesti dal ricordo e sperasti che andasse tutto bene.

Lancelot
Il tuo compito l’avevi assolto. Quella peste di Neera adesso era una Saint ufficiale e festa finita. Adesso niente ti tratteneva più qui. Eccetto Shura di Capricorn. Che cosa gliene importava anche del corpo della ragazza? Te lo chiedevi ancora adesso il senso di quella partaccia. In fondo non era mica una nobildonna e il nobile Ionia non era interessato al lato fisico della cosa.
Sarebbe servito un miracolo come minimo, per ripagare il tuo debito nei confronti del tuo Signore. Era vero che ti eri rivelato da tempo come Gold Saint. Volevi tornare a casa anche tu. L’altra dimensione ti chiamava. Sentivi il bisogno di tornare da Miss Tomoe e inginocchiarti di nuovo dinanzi a lei. «Cosa ascolti?» Chiese Kiki alla sua amica accomodandosi accanto a lei sulla spiaggia. Eri quasi sicuro di trovarla qui, tanto quanto lo era il Cavaliere di Aries di questa dimensione. Al di là della lettura del pensiero, semplice amore, che lo aveva reso più Canis che Aries. Per dirla in termini astronomici.
Ad Astrid piaceva il mare, anche se a te metteva addosso una sensazione di malinconia. Nella tua vita precedente non lo avevi mai attraversato. Le uniche acque che conoscevi, erano quelle di Glastonbury, prima che le nebbie inghiottissero l’isola di Avalon, la tua terra natia. Non è vero, Lancelot del Lago? Già, quanto tempo era che non chiamavi te stesso così? Non eri un tipo sentimentale, ma la bella Ginevra te la ricordavi ancora. Il profumo e la nebbia di quelle lande le ricordavi quanto le bionde chiome di lei.
Astrid non le somigliava per niente. Il suo profumo era quello di un’altra terra, di un altro lago, di un’altra epoca. E, questo, neanche la salsedine marina l’avrebbe mai occultato definitivamente. Il mare era solo un lago più grande, salato, ma anche più bello. Odiavi ammetterlo.
E Astrid, da quando aveva trovato questa spiaggia, questa macchia mediterranea, la si vedeva spesso qui, a officiare i suoi riti, che spesso erano solo un saluto al sole. Alzava entrambe le braccia in aria e poi, abbassava prima una e poi l’altra, tenendole all’altezza dell’ombelico. Come se sostenesse dell’energia. Poi, le lasciava ricadere e, l’energia cadeva a terra con la stessa dolcezza delle piume. 
Ma a volte, invece, ci veniva solo per leggere un grosso mattone con il muso di un leone dagli occhi azzurri e la scritta in rosso. Non l’avevi mai visto e non t’interessava. Ci avevi messo un po’ per capire che si trattava di un libro.
«Davvero non hai provato niente quando…» Chiese
«Quando?»
«Quando ho cercato di distrarti».
«Ah, quello, avrebbe funzionato di più in altre circostanze».
«Tipo?»
«Tipo che non amo essere presa in giro e, Kiki, lo sai che ti voglio bene, ma avresti dovuto pensarci due volte prima di approcciarti a quel modo. Io ho cominciato a leggere le carte Le Mole di Narni tra mille distrazioni, di approcci così ne ho avuti una marea».   
«Ma le persone non ti temevano per questo?»
«Alcuni no, sono abbastanza coraggiosi da soprassedere. Almeno finché non si accorgono che non è un gioco e ci riesco davvero, fino ad allora, un po’ mi diverto anch’io. Almeno, quando andavo ancora là facevo così».
«Oh, mi dispiace, noi non…»
«Tranquillo, non mi riferivo a voi, i miei nonni materni vivono in Umbria, d’estate le persone vanno a fare il bagno a Le Mole di Narni».
«Oh, non lo sapevo e com’è?»
Lei alzò lo sguardo dal libro e guardò il cielo come se avesse potuto visualizzare l’immagine. Poi cominciò a descrivere. Ma tu, le leggesti nella mente e potesti vedere chiaramente i suoi ricordi. Non avresti mai immaginato che esistesse un posto più bello dell’Isola delle Mele. Era un luogo totalmente immerso nella Natura. A parte un solarium di legno e il sentiero per il trekking, il porto romano con tanto di cantiere, non c’era niente che rassomigliasse a traccia umana.
Il laghetto riluceva delle più belle sfumature del verde mare, dell’azzurro e aveva persino un tocco di giallo. Sembrava uscito da un sogno, così incastonato nel verde della vegetazione. Una gemma nascosta di cui ignoravi l’esistenza. La piscina, lago, quello che era, era talmente meraviglioso da far sfigurare le moderne piscine, comprese quelle del Santuario, adibite a vasca da bagno.
Ma era un lago artificiale che conservava i resti di quello che riconoscesti essere un antico porto romano. Tu non avesti alcuna difficoltà a immaginarti le barche lì attraccate.
Vedesti anche la strada per arrivarci.
Sentisti il profumo dei fiori d’estate, il luccichio dell’erba, la magnificenza del ponte. E anche il gelo dell’acqua del lago, che ti fece intirizzire gli arti, istintivamente ti portasti le braccia al petto per scaldarti. Eri un Saint, di solito dieci o quindici gradi in meno non facevano alcuna differenza per te. Ma era stata più la sorpresa che il freddo a farti rabbrividire. Avesti persino la visuale di un’Astrid decisamente più giovane, in costume da bagno, che si tuffava nel lago, a sprezzo del freddo. E che, a un tratto, cresceva. Il suo corpo si allungò, le sue fattezze si fecero decisamente più femminili e anche il suo costume da bagno si uniformò alla crescita.
Ora l’Astrid che stavi guardando aveva diciannove anni e si muoveva come una sirena sott’acqua.
Poi riemerse e guardò il panorama che tanto amava con occhi sognanti.
Allora anche lei aveva un luogo cui desiderava far ritorno. «Allora lo vedi che anche tu hai qualcosa di bello, qui, sulla Terra?»
«Mh, sarà, ma niente sarà mai come lo Spazio e le stelle». Concluse la giovane.  

Shaka
Quando avevi percepito quel Cosmo muoversi e combattere non ci avevi creduto. Ti eri allontanato dai tuoi domini soltanto per poco. Il tempo per vedere il tuo commilitone mettersi in azione a fianco degli Specter e seguire Lady Pandora come un cagnolino. E adesso non aveva più niente e non aveva altra scelta che seguire la Somma Sacerdotessa di Hades. E ancora non capivi (sii onesto, non t’interessava) perché.
La Viverna era stata liberata dalla sua prigione e lo Stige era stato riconquistato. Don Avido stava perdendo terreno e tu non potevi che esserne indifferente. D’altronde gli Imperi sorgono e cadono tutti i giorni. Ma era ovvio che non sarebbe finita lì, quale guerra finisce così, con la conquista di un fiume?
«Non dovresti impicciarti degli affari degli Specter, Camus». Mormorasti osservando il tuo compagno. Tu ti trovavi qui da più tempo di lui e, comunicando da sempre con questi regni, tu sapevi della condizione in cui vertevano gli Specter e quello che stava accadendo. Avevi ricordato appena qualcosa di questo mondo, in cuor tuo sentivi di appartenere ancora alla dimensione di Miss Tomoe. Però se il patto voleva questo, neanche tu potevi opporti. Perciò eri andato in superficie a chiedere spiegazioni ad Aquarius. «E tu perché non sei qui a combattere con noi?» Ti domandò il tuo collega mentre aiutava un gruppo di celti a montare una tenda nel parco di Villa Heinstein.
«Non è nel mio dharma agire, lo sai». Rispondesti.  
Camus finì di dare disposizioni al celta più vicino che aveva sbagliato per l’ennesima volta il nodo e poi tornò a prestarti attenzione: «Dì piuttosto che non è la tua battaglia e non ti vuoi muovere da lì!»
Non rispondesti, colpito dalla sua veemenza. Aveva preso molto sul serio questa storia. Perché? A te sembrava solo una grossa ipocrisia. Tutto, sia il Patto sia la vostra alleanza.  
«Il mio compito è prendermi cura delle anime dei morti». Gli ricordasti. Non per niente eri la reincarnazione di Buddha e l’uomo più vicino agli Dèi. Camus non disse niente ma percepisti tutto lo sdegno di cui era capace.
Appena facesti ritorno alla tua dimora fosti accolto da Atavaka, lo Specter dell’Oppressione affrontato da Asmita di Virgo. La prova vivente che non tutti gli illuminati raggiungevano il Nirvana e si lasciavano contaminare dalla malvagità. Di solito non si allontanava quasi mai dalla cascata di sangue. Quindi cosa ci faceva qui? Oltretutto con indosso la sua surplice a otto braccia? Avevate deciso di comune accordo, dopo un iniziale scontro, di spartirvi il dominio tra la Sesta e la Settima Prigione. «Ti sei approfittato della mia assenza?» Chiedesti.
«No, sono solo venuto a informarti che qualcuno ha violato i nostri confini».
«Uno di don Avido?»
«Ancora non lo so».
«Molto gentile da parte tua, perché non hai mandato uno Skeleton?»
«Sono troppo lenti, io sono più veloce».
«Capisco. Si sa nulla di questo nemico?»
«Ancora no, mobiliterò gli Skeleton: se passerà dalle nostre parti ci informeranno».
«Ottimo». Poi lo Specter se ne andò.  Non dovesti neanche attendere tantissimo che gli Skeleton ti avevano chiamato per un’emergenza: avevano scovato l’intruso ma non riuscivano a cacciarlo. Perché avevano chiamato te? Ah, non importava. Qualunque cosa fosse non poteva restare lì. Per questo corresti immediatamente a vedere. I sottoposti di Hades ti guidarono subito nel luogo dell’avvistamento. Una volta lì, effettivamente fosti attaccato ma lo evitasti. Lo guardasti: era un cadavere putrefatto, la carne marrone e la pelle dello stesso colore delle canne morte. Era come se indossasse un velo o fosse fatto di veli e fango, in quanto non riuscivi a vederne gli occhi. Eri abituato ad avere a che fare con altro genere di creature. “Aiutami, ti prego”. La sentisti mormorare con voce roca. “Non so dove sono, ti prego”. Eppure nel supplicarti continuava ad attaccarti. 
«Dunque sei solo un’anima che brama di tornare a casa, eh? D’accordo, ti concederò la sorte che desideri». Le accordasti. Concentrasti il tuo Cosmo, ma non facesti in tempo ad aprire le Sei Vie della Trasmigrazione che fosti spintonato da parte. Barcollasti e apristi gli occhi. Fu allora che vedesti la chioma bruna dalle punte acconciate in boccoli. Il mostro si arrestò. Avresti voluto affrontarla ma lei non ti calcolò neanche. Nonostante l’offesa qualcosa ti fermò e restasti a guardare. Cosa diavolo stava facendo?
«Va tutto bene». Disse dopo qualche secondo. L’anima ripeté la sua litania e conficcò le unghie nel terreno. Delle spine altissime e affilatissime sorsero nel punto dov’era prima. Se tu balzasti indietro per evitare di essere infilzato, la giovane non si lasciò intimidire. Anzi, avanzò verso la cosa. I colpi non la sfioravano neanche. Com’era possibile? Ti ci volle un po’per capire che li stava scansando tutti. Come ci riusciva? Non sentivi neanche il suo Cosmo.
Sarebbe stato sciocco affrontare le due cose entrambe, perciò lasciasti che si distruggessero a vicenda. Proprio come sull’Isola della Regina Nera quando Ikki ricevette la sua investitura. Avresti pensato al vincitore dopo. E non eri per nulla certo che sarebbe stato la ragazza.
«Poverina, che cosa ti hanno fatto; ti hanno sottratto alla tua dimora e al tuo riposo eterno e costretta a una fame insaziabile». Da dove ti trovasti non potesti vedere cosa fece ma la sentisti dire: «Ecco, così non avrai più fame e non sarai più costretta a nutrirti di cadaveri. Torna a casa, ora sei libera». Improvvisamente, dalla cosa si levò una luce bianca, purissima. Improvvisamente la pelle della creatura tornò rosea e fresca, i suoi muscoli e le sue viscere regredirono fino a uno stadio giovanile. Una zazzera di lunghissimi capelli biondi si allungò sulla testa di lei, bellissima. Sembrava poco più che una ragazza che, piangendo di gioia, si abbassò i veli dal volto, candidi come la neve e spalancò due bellissime ali candide. La sua salvatrice disse con voce sorridente: «Torna a casa». E l’angelo scomparve mandando una luce splendente. Per un momento ti sembrò di essere in un posto meraviglioso.
Quando la luce si spense tutto era tornato brullo e secco come prima. Ma la giovane era ancora davanti a te e si stava volgendo verso la tua persona e sfoderando una lama verde dal suo fodero. Non avesti affatto paura, eri abituato alle lotte, avresti persino potuto sconfiggerla con un colpo solo. Invece lei disse: «Spero che tu ti renda conto di ciò che stavi per fare». Stavolta in tono più secco e freddo. Nella tua testa era chiaro che quel mostro fosse solo un’esca e che la vera intrusa fosse costei. Eppure ti si rivolgeva come se tu avessi distrutto qualcosa cui aveva lavorato con molta cura.
«Io so sempre cosa faccio». Ribattesti e, come in una sorta di dejà-vu, ti parve di tornare ragazzo, in India, con Aiolia a farti da guardia del corpo. Che poi eri stato più te che lui a salvarlo. «Ti renderai conto allora, che se l’avessi uccisa avresti soltanto fatto il gioco dei tuoi avversari? Uccidere un angelo è peccato, se i rapporti con il loro Signore e voi sono così tesi. Già il fatto che ne fosse stato rapito uno è di per sé un reato gravissimo punibile con la morte».
«E tu sei qui per darmela?» Domandasti.
«Non spetta a me, anche perché l’angelo non è morto». Questa rivelazione ti fece aggrottare impercettibilmente le sopracciglia. «Io non lo sapevo, non sapevo che fossimo in Guerra anche contro il Dio dei Cristiani».
«Non ancora, ma se andremo avanti di questo passo probabilmente lo saremo. Per fortuna che passavo da queste parti».    
«Allora sembra che io debba esserti grato, giusto?» Chiedesti sarcastico e con voce piena di sottintesi. Non era da te Buddha incarnato, trovarti con un debito di riconoscenza per le mani. Che fosse nel tuo Karma? Che le forze cosmiche stessero cospirando contro di te per farti scendere da un qualche piedistallo? Impossibile. L’unico debito degno di nota fu con Aiolia e sempre sarebbe rimasto quello. «Anche se non so chi sei». Completasti.
«Non ti preoccupare per me io sono solo di passaggio, non turberò oltre la tua vita». Ti promise. Non ti fidasti affatto di questa dichiarazione. Lei ti osservò a lungo, prima di uscirsene con un: «Ok» Pieno di disagio. Come se implicitamente stesse dicendo che tu non ci stavi completamente a posto con la testa. In realtà eri persino più a posto di lei, che si sentì in dovere di darti un consiglio: «Impara questo, Cavaliere d’Oro, negli Inferi niente è mai come appare». Mentre rinfoderava la lama verde. Una giovane che osava dare un consiglio a te, l’Illuminato? Anche se indispettito rispondesti con la cortesia dovuta a una signora. «Grazie, lo terrò a mente».
Lei annuì: «Bene». Poi risalì la china e se ne andò. Tu facesti lo stesso, decidendo di soprassedere. Al tuo tempio trovasti ancora una volta Atavaka. Ti accigliasti: che cosa ci faceva qui? La prima cosa che «Allora, l’hai presa?»
«Preso cosa?» Rispondesti al tuo compagno guardiano, perplesso.
«Ma l’intrusa, no?»
L’intrusa? Quale intrusa? Perché parlava al singolare quando erano due? Aspetta, non era che c’avevi visto giusto? «No, mi è sfuggita». Ti scusasti.
«Ah, se solo il mio corpo non fosse messo tanto male avrei potuto affrontarla io e sconfiggerla. Come hai fatto a lasciartela scappare?»
«Non sono affari che ti competono». Atavaka rilassò le spalle. «Capisco, ti ha sconfitto».
Non replicasti anche se le tue parole ti ferirono nell’orgoglio. Non ti erano sfuggiti i gesti della ragazza. Niente di lei ti aveva suggerito il brigantaggio e l’invasione. Se poi avesse voluto attaccarti con quella spada verde allora l’avrebbe fatto e sicuramente non ti avrebbe avvisato. La risposta era una sola: ti aveva salvato da quell’angelo. Era diverso da quello che avevi affrontato, non era un guerriero. Qualunque cosa fosse se eri qui lo dovevi a lei. Anche nei suoi gesti e nella sua voce avevi letto solo la difesa e la paura. Per questo non l’avevi attaccata, non solo perché era priva di Cosmo e pensavi che tanto sarebbe morta da sé. Nessun vivo sopravvive agli Inferi. Il suo comportamento non ti convinse. Perché ci teneva tanto a sconfiggerla? Con questi pensieri lo lasciasti andare. Ma era solo un momento, poi saresti andato a chiedere spiegazioni. Perché non eri così stupido come sembravi. Già una volta eri stato menato per il naso, non lo saresti stato una seconda volta. Finché non avresti avuto la conferma dell’effettiva innocenza di Atavaka non avresti smesso di tenerlo d’occhio.
La prima cosa che facesti fu di meditare per scrutare i mondi. Non potevi guardare indietro nel tempo, tuttavia potevi guardare quello che faceva chi era all’interno dei mondi e così cercasti la ragazza. La vedesti al centro della Sesta Prigione che stava fronteggiando Atavaka. Lui sembrava dirle qualcosa e la ragazza lo osservava impassibile. «Dammi la tua vita». Poi usò su di lei una tecnica che aveva preso da te ma lei lo evitò e fu così che cadde nella sua trappola.
«La mia vita è solo mia». Ribatté lei.
Lottarono. Restasti sbalordito nel vederla tenere testa e sopraffare lo Specter, poi però con una trappola la sopraffece e le prese il suo tesoro che tu non riuscisti a vedere. La ragazza si rialzò da terra e cercò di riacchiapparlo: «Aspetta, ridammelo!»    
«Se lo vuoi vieni a prenderlo!» E se ne andò. Ma non poté che compiere pochi passi prima che il bottino cominciasse a bruciargli le mani e riaprire le sue vecchie ferite. Atavaka ululò di dolore e 
tu riapristi gli occhi tornando alla realtà. Questo era il piano di Atavaka? Nella tua mente cominciasti a mettere insieme i pezzi. Effettivamente aveva un senso e ora aveva rubato quella cosa alla ragazza. Che in ogni caso non era neanche un invasore. La dovevi aiutare prima che fosse troppo tardi. Ma dov’era? 

Dopo aver consumato il pasto che ti portarono gli Skeleton (direttamente dal Mondo dei Vivi come secondo i patti), ti mettesti a meditare. Quando raggiungesti la giusta concentrazione cominciasti a scrutare i mondi alla ricerca di informazioni. Lo Specter viveva nei pressi della cascata di sangue che delimitava i confini della Sesta. Si era fatto edificare un piccolo tempio di quelli che si potevano trovare in India. Stando a quello che sapevi Asmita di Virgo lo costrinse di nuovo nel ciclo della vita e della morte. E quando era tornato negli Inferi, ai tempi della Guerra Sacra, era rimasto gravemente ustionato. Adesso più della metà del suo corpo era coperta di bende che spuntavano da sotto la Surplice con le otto braccia. Ferite che probabilmente si era riaperto nel sottrarre quella luce alla ragazza. Eppure anche così restava uno Specter temibile per i violenti del Lago di Sangue, della Foresta dei Suicidi e per gli edonisti imprigionati nel Deserto di Fuoco. Gli stessi che ti avevano fermato accerchiandoti. E tu ti eri girato su te stesso. Avevi percepito il loro turbamento. Era come se gridassero, o meglio, cantassero di una caduta che veniva sparsa dai fuochi fatui che si aggiravano per queste terre come un banco di pesci. Perché i fuochi fatui erano qui? Non era mai successo che fossero così tanti. «Che cosa sta succedendo?» Solitamente cercavano di arretrare al tuo passaggio, riconoscendo la tua autorità. «Sta arrivando, non andate, non risalite la china». Ti rispose un fuoco fatuo. «Arrivando chi?»
«Azona». Disse e questa parola rimbalzò di bocca in bocca in tutta l’area circostante, saturando ancor di più l’atmosfera di timore e terrore. Ripetuta come un’inquietante eco, uno scongiuro e al tempo stesso un’invocazione sul grido melodioso di sottofondo. Volgesti la testa a destra e a sinistra mentre i morti si aggrappavano a te. «Lasciatemi». Comandasti.
«Non possiamo, per noi di Questa Parte è pericoloso». Ti rispose qualcuno e tu percepisti il loro terrore. «Che cosa vi ha fatto quell’uomo?» Domandasti.
«Ci sta mangiando vivi, salvaci, ti prego, salvaci». Rispose uno prima di riprendere con la litania. Anche se dannati era compito tuo proteggere degli innocenti e se Atavaka li stava usando come fonte di energia dovevi fermarlo. Quello che avevi ravvisato osservando la battaglia alla Palude Nera allora era vero: i morti potevano veramente fungere come scudo per i Vivi e le persone dotate di Cosmo. E potevano trasmettere energia. Ti liberasti con dolcezza dalla loro presa e risalisti, risoluto la scalinata del Tempio. Il mantello candido che svolazzava alle tue spalle a ogni tuo movimento. Accompagnato dalle voci e dai lamenti dei morti come un coro accompagna una processione. «Vi prego, vi prego». Continuavano a chiamare invece le anime. Ma neanche le tue promesse servirono a tranquillizzarle.    
Dovevi agire prima dell’Azona e dovevi salvare quella ragazza. Potevi solo immaginare come si sentisse, dato che non riuscivi che a percepire una scintilla di Cosmo. Mentre quello di Atavaka era pieno di compiacimento, brama e aspettativa.
In breve fosti all’ingresso e lo varcasti. Il rumore metallico del tuo tacco sembrò quasi spezzare l’atmosfera del Tempio. Ogni suono rimbalzava sulle pareti come monete tintinnati e vita rompendo la silenziosa oscurità. Non era normale, sembrava viva e sembrava cercare di avvicinarsi a te a ogni tuo movimento. Ma non arrivava mai a toccarti che si dissolveva prima. 
Atavaka nella posizione del loto smise di sorridere. Non sapevi come ci riuscisse data la gravità delle sue ustioni. Poi capisti: le anime, aveva attinto la sua forza da delle anime. La situazione era persino più grave del previsto. «Oh, sei tu, non esattamente chi aspettavo».
«Chi stai aspettando?» Chiedesti decidendo di fare lo gnorri.
«Nessuno in particolare». Ma le anime vaganti continuavano a tradirlo ripetendo “Azona” all’infinito. Rivolgesti immediatamente il tuo rimprovero con tutta l’autorità di Gold Saint e Guardiano di Anime di cui eri investito. «Ho saputo quello che sta succedendo e quello che hai fatto, adesso dovrai risponderne al Divino Hades».
«Questa è la mia zona e faccio come voglio. Il Divino Hades non vive più da tempo in queste terre, io sono libero». Ribatté immediatamente.
«Nella tua lotta le anime non c’entrano niente. Se vuoi battere l’Azona allora fallo con le tue sole forze. Ricorda il tuo compito». Se sperasti che capitolasse in fretta ti eri sbagliato.
«Io non ho nessun compito nei e anzi ne faccio ciò che voglio».
«Dunque ti stai preparando per ricevere l’Azona? Per questo stai usando i morti a questo modo invece di scendere in campo?» Dejà - vu, vero, Shaka? Già qualcun altro ti disse così, solo che lì per lì non ricordavi chi fosse. Come poteva essere che allo Specter non importasse niente di questi defunti? A te importava. Improvvisamente ti ricordò molto Baldr, il cavaliere di Asgard che si credeva un Dio. Possibile che questo Specter, un discepolo del tuo stesso credo fosse così arido e menefreghista? Stavolta non avresti atteso spiegazioni e agisti immediatamente come con Ikki di Phoenix decadi fa. «Cosa ti ha promesso Don Avido per questo evidente tradimento?» Chiedesti, accigliandoti.
«Cosa ti fa credere che Don Avido mi abbia promesso qualcosa?» Chiese a sua volta mentre scioglieva la posizione e cominciava a muoversi. Lo imitasti muovendoti dalla parte opposta.
«Quindi non stai dalla parte di Don Avido, ma neanche sostieni Pandora». Deducesti.
«Esatto; io non mi impiccio delle loro beghe intestine; le mie intenzioni sono ancora più nobili e pure».
«Ma stai cercando di attirare un nemico pericoloso». Cominciaste a camminare in cerchio, come poli dello stesso globo, studiandovi come due leoni che stanno per sbranarsi.
«Non c’è nessuno di così pericoloso che io non possa sopraffare». Ribatté la tua controparte infera.
«L’intrusa». La stessa persona che si stava avvicinando.
«Hai provato a considerare che potrebbe trattarsi di una delle Erinni». Si sarebbe spiegato perché se ne andava a giro così tranquillamente per gli Inferi, ma questa scusa ti puzzava. L’unica era lasciarlo parlare mentre accumulavi il tuo Cosmo.
«Credevi che solo gli Dèi gemelli fossero al servizio di Hades?» Domandò Atavaka con l’aria di chi la sa lunga. «Non m’interessa».
Lo Specter fece un sorriso storto dietro le bende. «Ora che ti guardo bene sembri un bel ragazzo forte e in salute. Hai ragione, non dovrei perdere tempo coi morti». Disse improvvisamente e tu aggrottasti le sopracciglia. Le anime dei morti si materializzarono attorno a voi, addensandosi come fumo. Mentre ai tuoi piedi si estese un lago di sangue ribollente. «Credi che questo trucco possa funzionare con me?»
«Oh, ma io non voglio mostrarti la via dell’Eternità, con te non funzionerebbe, voglio invece farti un regalo». Una maniera dolce, di morire. Farti vedere una persona cara e poi catturarti tra le sue grinfie come un ragno famelico. Che facesse pure, tanto non avevi nessuno che potesse essere sfruttato.
E invece, davanti a te, comparve lo spettro di una donna: «Cavaliere di Virgo non dovevate essere qui». Riconoscesti immediatamente quella voce: la leader delle Saintia Olivia.  
La donna ti chiamò ancora: «Nobile Shaka, scappate, andate via».
«Nobile Olivia!» Esclamasti preoccupato, pur tuttavia senza avvicinarti. Lo spirito della donna urlò di dolore e fu riassorbito dallo Specter. «Olivia!» Esclamasti cercando di afferrarla ma la Saintia ti fu strappata prima che tu ci riuscisti. «Scappate!» Urlò e Atavaka, sorrise alle sue spalle: «Se la vuoi rivedere sana e salva dammi il tuo corpo».
«La mia risposta non cambia. La nobile Olivia è una Saintia per lei sarebbe un disonore se sacrificassi la mia vita a questo modo» Ribattesti con calma, ma dentro di te stavi già escogitando un piano per salvarlo. Se solo avresti avuto con te il tuo mala il problema non si sarebbe neanche posto. Neanche riuscivi a richiamarlo. Perciò decidesti di ricorrere al caro vecchio scontro. «Credi?»
«Preparati, Atavaka, non sarò clemente come colui che mi precedette». Ma neanche il Tenkū Haja Chimi Mōryō servì a qualcosa. Gli spiriti da te evocati non riuscirono neanche a scalfirlo.   
«La mia forza deriva dalle anime, sciocco, già il tuo predecessore fece questo errore e non mi lascerò catturare una seconda volta. Maten Muhōrin». Ma tu non eri una persona normale, tu eri la reincarnazione del Buddha. Non avresti mai permesso che il tuo corpo diventasse ricettacolo per quel mostro. Per questo ti teletrasportasti via. Lo Specter, dall’alto della sua superbia, ti mostrò come andava lanciato il tuo colpo che ti investì in pieno e ti ritrovasti bocconi e affumicato. Era forte, ma non abbastanza. Sapevi cosa fare anche se ciò sarebbe equivalso all’evocazione delle Creature. E poi com’era possibile che costui non ti portasse il rispetto che ti meritavi? Eri pur sempre una persona importante. Improvvisamente dalla bocca di Atavaka uscì una voce femminile. Sollevasti la testa di scatto verso di lui e lo vedesti a occhi sgranati e portarsi le mani dinanzi alla bocca. Ma quella continuava a muoversi da sola. Non era un trucco. “Nobile Olivia?” Pensasti sorpreso. Spinte dalla sua preghiera le anime iniziarono a recitare il sutra del Buddha Shakyamuni. «No, che cosa sta succedendo? Non di nuovo, no!»
Olivia, continuando a recitare il sutra si liberò almeno in parte e tese la mano verso di te. La prendesti. «Non te lo permetterò!» E lo Specter ti attaccò di nuovo, ma non poteva immaginare che per voi redivivi questi colpi fossero come carezze di vento. 
«Sei ancora vivo? Com’è possibile? Io ti ho preso in pieno!» Tu chiudesti le mani sulla piccola luce che era diventata l’anima della madre di Shoko e di Kyoko, come per proteggerla. Poi mentre le anime di Atavaka cominciarono a emettere lamenti e implorarti recitando i sutra del Buddha guidati dalla voce della Saintia. Allora ricorresti al Rikudō Rinne: «Tu stai commettendo un grosso errore, credi che io sia tuo pari ma ti sbagli. Io non sono Asmita di Virgo e sono qui per darti una lezione; quella che non hai imparato nella tua vita precedente. E io ci riuscirò, perché io non sono un comune essere umano, sono la reincarnazione di Buddha».  
Lo Specter lottò contro il tuo Cosmo e ululò: «Io non mi lascerò rinchiudere di nuovo nel circolo delle reincarnazioni!» Tu non ti lasciasti impressionare e urlasti, gonfiando ancor più il tuo Cosmo: «Risuona mio Cosmo, fino ai limiti estremi dell’Universo». La tua piena potenza fu talmente forti da frantumare in minuscoli pezzi le sue otto braccia e ridiedero speranza alle anime che alzarono la voce. Il tuo Cosmo si elevò al punto che Atavaka non riuscì più a contenerlo e dovette lasciarti andare, di nuovo ferito gravemente, ricondotto allo stato originario.
«Io non sono il mio predecessore, hai ragione però troverò sempre il modo di proteggere le anime che sono affidate alla mia custodia». Dichiarasti convinto. Poi apristi gli occhi e gli lanciasti addosso un’ondata di Cosmo. Quando li chiudesti di nuovo, la sala del Tempio era piena di crepe e rovinata. Parte della pavimentazione era saltata via, alcune colonne si erano spezzate ed erano cadute al suolo, facendolo tremare persino il suo piedistallo. Parte del tetto era venuta giù e la statua della Surplice erano distrutte. Ma Atavaka era ancora lì, solo perché avevi richiuso gli occhi in tempo. Altrimenti l’avresti ucciso. Allo stremo delle forze lo Specter curvò la bocca in un sorriso e scoppiò a ridere: «Hai fatto male i conti, non sono io quello che ti sconfiggerà, ma lei».
«Lei?» Ripetesti aggrottando la fronte.
«La persona che sto aspettando, presto sarà qui.» sogghignò mentre si rialzava a fatica, dolorante. Tu non capisti di cosa stesse parlando, né t’interessò. Ma il Cosmo intruso stava affrettandosi.   
«Allora non ti dispiacerà se l’aspetto io al posto tuo». Dicesti. Dopodiché comandasti agli Skeleton (seminascosti) di portarlo via e di medicarlo. Liberasti l’anima della Nobile Olivia e ti mettesti nella posizione del loto. Presto levitasti a mezz’aria. A un certo punto sentisti dei rumori di passi in corsa risalire la scalinata e poi il suo trattenere il fiato rumorosamente. Anche se l’avevi incontrata solo poco prima, riconoscesti immediatamente quel timbro vocale. «Non immaginavo che ti avrei rincontrata così presto». La salutasti in tono calmo. Non sembrava che tu avessi combattuto.
«Neppure io. Allora è vero ciò che i Gold Saint si muovono veramente alla velocità della luce». Tergiversò. In un certo senso ti ricordò Ikki, solo che lei non ti aggredì con le piume della coda della sua Cloth, lanciandotele a mo di shuriken. Vi studiaste. Perché non si era difesa prima? Se era tanto potente perché non aveva combattuto contro Atavaka? Che fosse stanca? Percepisti il fiato grosso che cercava di controllare respirando dal naso. Il petto che si alzava e abbassava, quasi in bella vista per via dei bottoni lasciati aperti fino allo spazio tra i seni. Il sudore che permeava la sua pelle. La forza che pervadeva quelle membra, l’espressione corrucciata e la mano che corse all’elsa della spada verde. «Non la sfodererei fossi in te». La bloccasti.  
«Chiamalo istinto di sopravvivenza». Si giustificò inclinando la testa di lato. La sua voce tradiva tutta la sua diffidenza, era ovvio che si aspettasse un attacco da parte tua. Ma ancora ti domandavi che cosa le avesse sottratto Atavaka da costringerla a giungere fino a qui. «E il tuo istinto di sopravvivenza ti suggerisce questo. Non lo fare, non sei una Saint. Non porti neanche l’Armatura».
«Le trovo un po’ troppo ingombranti per i miei gusti». Ti accigliasti. Perché avrebbe dovuto trovare d’impiccio un’Armatura? Che non ne avesse bisogno? «Quindi che cosa ci fai qui?»
«Potrei rifarti la stessa domanda, ma preferisco risponderti: sono qui perché lo Specter di Atavaka ti ha aggredito e ti ha costretto a venire nella sua trappola».
«Lo so».
«Se lo sai allora perché sei venuta?»
«Se avessi potuto chiedere aiuto l’avrei fatto. Tu piuttosto, come lo sai che Atavaka mi ha aggredito?» Chiese guardinga.
«Non sono suo complice, stavo semplicemente tenendo d’occhio i mondi quando ho visto quello che ti ha fatto. Mi dispiace davvero, avrei dovuto correre da te e aiutarti».
«Grazie ma ormai è tardi. Potresti dirmi dove sta quel maledetto?»
«Che cosa vorresti fargli?»
«Purtroppo per lui nulla che preveda l’uso del Cosmo. Dov’è?» Chiese la giovane.
«L’ho sconfitto pochi minuti prima del tuo arrivo».
«L’hai ucciso?»
«No, ovviamente, forse non conoscerò le dinamiche tra i regni dell’Oltretomba, ma conosco il patto che mi vincola qui. Non posso uccidere gli Specter». “Ma agli Specter questo evidentemente non importa”. «Invece tu perché sei qui?» Le chiedesti. Detta da te questa domanda era come una rosa: poteva assumere decine di significati e sfaccettature e, al contempo, perderli tutti. Perché come li ponevi tu, gli interrogativi, nessuno ci riusciva. «Mi prendi in giro? Ti ho detto tre secondi fa che mi ha rubato una cosa importantissima e sono giunta qui per riprendermela!»
«Che cosa ti ha rubato?»
«Non te lo posso dire, è personale».
«E dunque sei qui perché vorresti riaverla indietro?»
«Mi pare ovvio, no?» Tu non eri attaccato alle cose materiali, il tuo credo te lo proibiva. E poi, tu non ne sentivi il bisogno, ma lei? Qualunque cosa fosse quell’oggetto, doveva essere una cosa importantissima se era disposta ad attraversare gli Inferi armata di una sola spada e tanto coraggio, al punto da minacciare persino tu. Non avresti saputo dire se fosse dotata di un Cosmo o no. Quello che sapevi era che non era una ragazza come le altre. Anche per i toni decisamente arrabbiati e frettolosi che usava. In un certo senso ti ricordò Ikki di Phoenix. «Per favore, ridammi quello che lo Specter mi ha rubato».  
«Come faccio a ridartelo se non so nemmeno io cosa sia?»
«É un album da disegno».
“Tutto qui?” Pensasti: «Non ho visto nessun album da disegno».
«Non può avermi ingannata sento che mi chiama che è qui, per favore, fammelo cercare». T’implorò con urgenza nella voce. Perché implorava? E perché le anime erano tanto spaventate? «Non posso, hai calpestato anche troppo a lungo questo suolo. É da quando sei arrivata che sono cominciati i disordini. Gli spiriti sono turbati, non vogliono che tu stia qui. Mi dispiace ma debbo rimandarti indietro». E poi non credevi che fosse davvero un album da disegno. A quel punto la ragazza sfoderò la lama e te la puntò addosso. Nonostante i cinque metri di distanza ti parve di sentirne la punta sul pomo d’Adamo. «Tu non mi mandi proprio da nessuna parte. Mi è stata rubata una cosa molto importante e non me ne andrò finché non me la sarò ripresa».  
«Ridicolo». Commentasti. Non aveva neanche rilasciato il suo Cosmo, come pensava di combattere contro di te?
«Scusa?»
«Non avrai mai il rispetto delle persone e dunque le risposte che cerchi, se tu per prima non sarai rispettosa nei loro confronti».
«Abbassa la cresta, galletto. Credi di essere il primo che cerca di darmi lezioni? Quando invece sei tu il primo che non conosce il significato di questa parola? Qui c’è una guerra, non so se l’hai notato, non c’è tempo per la cortesia, mi hanno rubato una cosa preziosissima e se perdo ancora tempo, non riuscirò mai a svolgere il mio compito». Ribatté piccata.
«Il mio è sorvegliare questa zona degli Inferi, il tuo qual è?»
«Non te lo posso dire. Non voglio combattere con te». Ti pregò ancora, dopo qualche secondo di silenzio, come se avesse scelto le parole con cura per formulare questa richiesta. «Neanch’io ma se non mi rispondi mi vedrò costretto».
«Per favore, lasciami passare, fammi recuperare quello che mi appartiene». Ti supplicò di nuovo, con voce angosciata. Non potevi fidarti, se avesse ucciso lo Specter la colpa sarebbe ricaduta su di te e saresti stato ingiustamente incolpato dello scoppio di una nuova Guerra Sacra. Ribadisti la tua ferma volontà: «Mi dispiace, non posso permettertelo».
«Ti prego!» Urlò spaventata ma tu non ti lasciasti intenerire. La legge di Murphy comanda che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, oppure il nulla. Ma cosa succede se a scontrarsi sono due forze inamovibili? Guerra. E tu eri un guerriero. «La tua mancanza di rispetto non conosce limite alcuno, vero? Bene, allora sarà il caso di ricordarti qual è il tuo posto. Inginocchiati davanti a me». Dichiarasti perentorio (in realtà non te ne facevi niente per il tuo ego ma volevi vedere fin dove si sarebbe spinta). «Scusami?» Domandò allibita.
«Hai sentito, inginocchiati e rendimi rispetto, nel nome dell’autorità che rivesto».
«Non posso, scusami ma non posso». Poi, ti passò accanto, la spada ancora sfoderata. Quando si era mossa? Non l’avevi neanche sentita arrivare, né avevi sentito il suo Cosmo. La riacchiappasti per la vita con la telecinesi e la riportasti al suo posto. Non vi ricorrevi spesso, a dir la verità eri piuttosto arrugginito. «In ginocchio, ho detto». Ribattesti in tono autorevole.     
«Neanche per scherzo». Perché rispondevano sempre tutti così, mio rassegnato e inflessibile Saint? Perché sempre tu sentivi di dover ricondurli sulla retta via? Il Buddha ti aveva consigliato di essere paziente ma tu lo eri. Il tuo animo non era minimamente turbato. Neanche quando lei si lanciò all’attacco. L’attacco di chi però ha perso la testa e non si fermerà, un po’ come Aiolia. O almeno era quello che ti aspettavi e invece no. Poi cominciasti a sentire la vibrazione. Avanti e indietro, avanti e indietro, sempre più veloce. E poi, senza che te ne accorgesti, qualcosa ti colpì alla mano, proprio sul guanto d’arme e perforò la tua corazza. Apristi gli occhi di scatto trattenendo il fiato rumorosamente. Ti prendesti la mano nell’altra e te la stringesti al corpo sibilando di dolore. La guardasti incredulo: un lungo taglio diagonale attraversava il guanto e ti arrossava il dorso della mano, che andava coprendosi di sangue. Ma cosa, quando? La guardasti e ci restasti di stucco. Muoveva il braccio talmente velocemente che la spada oscillava avanti e indietro come una letale onda verde. Persino ai tuoi occhi che pure distinguevano le cose alla velocità della luce, sembrò davvero un’onda. I movimenti della spada producevano quel rumore. «Ti avviso, Virgo, non costringermi». Disse minacciosa, ma c’era qualcosa che non andava nella sua voce. Perché continuava a suonare come un: “Ti prego non farmelo fare”? Perché esitava? Era forse colpa della cosa che Atavaka le aveva rubato?
Nonostante il dolore avesti pietà di lei mentre scioglievi la posizione e facevi attenzione a schivare i suoi colpi. Decidesti di restare con gli occhi aperti, non si sapeva mai. Era dotata di eccellenti riflessi e una discreta abilità tecnica, in quanto riuscì a colpirti più di una dozzina di volte non solo dalle parti scoperte. Eppure non si spinse mai oltre le ferite superficiali. Ormai era chiaro che non voleva attaccarti davvero, ma solo indurti a retrocedere. Il suo stile non era quello cui eri abituato, questo stile era diverso, aveva un sapore diverso. Perché come ogni arte, come ogni senso potenziato, avevi scoperto che persino gli stili di lotta degli avversari avevano un gusto al tuo palato. Quando le afferrasti l’avambraccio, tuttavia ne sentisti la forza e la resistenza. I suoi erano muscoli allenati. La tua avversaria era un’atleta che sapeva cogliere i tempi intesi come momenti propizi per colpire. Forse potevi scavare più a fondo (anche se con malavoglia) se avessi ascoltato i suoi. No, questo non era uno stile orientale. Ma tu eri un Cavaliere d’Oro, non c’era gioco, sicché in poche mosse l’allontanasti. E lei continuando mulinare la spada come una frusta tagliò e dissolse il tuo Kān. “Cosa?” Sgranasti gli occhi: era impossibile, come c’era riuscita?
Concentrasti tra le tue mani il tuo stesso Cosmo che assunse la forma di una sfera luminosa. «Tenma Kōfuku». E la facesti esplodere in un bagliore dorato. Quando la luce scomparve lei non c’era più. Non facesti neanche in tempo a sorriderne che ti ritrovasti invece il filo della lama proprio all’altezza del pomo d’Adamo. Anche se decisamente separato grazie alla Cloth.
Il corpo della giovane allacciato dietro al tuo. Quella scintilla del suo Cosmo era piena di paura. La sua guancia premuta contro la tua spalla destra. “Per favore”, t’implorò addolorata, “non voglio combattere contro di te, lasciami passare”. Perché era addolorata? Che cos’era quel calore emanato dal suo Cosmo? No, doveva essere una trappola. La sua destra sulla tua destra e riconoscesti quel tocco. Il tuo cuore dette un colpo più profondo e raddrizzasti la testa di colpo. Ti scostasti, ti girasti di scatto e le lanciasti il «Rikudō Rinne!» E le mostrasti le Sei Vie della Trasmigrazione di cui eri custode, spiegandole ciò che sarebbe accaduto. Lei non poté fare niente, costretta alla tua volontà e a quella del Buddha: «Sei ancora in tempo per ammettere i tuoi errori». Le dicesti, cercando di nascondere il tuo turbamento mentre lei era alle prese con le illusioni date dal Sacro Virgo.
Ti tenesti la mano nell’altra.
A questo punto o si capitolava o si sceglieva la fuga. La giovane fuggì e si ritrovò sul palmo del Buddha. Se però non le dicesti che era solo una misera scimmia al cospetto del Buddha, fu solo per gentilezza. Non si trattavano male le donne e lei stava già stancandosi molto a causa tua. Probabilmente era anche rimasta ferita nello scontro con Atavaka. Ma a differenza degli altri ribatté, piccata: «Inginocchiati tu». Ti sorprendesti che avesse ancora fegato per sfidarti. La compatisti e la rimbeccasti dall’alto della tua illuminazione. Per tutta risposta ti lanciò uno sguardo di fuoco. Lo prendesti come un no. «Allora, cosa scegli?»
L’espressione della giovane si contrasse in una smorfia di pianto e alla fine urlò: «Smettila, Shaka!» Improvvisamente tutto fu avvolto da una candida luce calda. Che aveva fatto? Ti aspettasti chissà che e invece davanti a te comparve una ragazza. Ti correva incontro, le braccia protese e la faccia rigata dalle lacrime: «Shaka!» Aveva quindici anni. I lunghi capelli dalle punte arricciate in boccoli. Portava una collana d’oro a maglia piatta. Sulle spalle due spalline che, partendo dalla gemma bianca poco sopra lo sterno, si ramificavano a coppie sotto le clavicole. Il seno era fasciato da dei triangolini di stoffa allacciati appena più su della pietra preziosa. Dalla punta partivano due cadenti, sottili, spalline laterali, di stoffa semi trasparente, che cingevano dolcemente le braccia e scendevano in code dietro le braccia. Dalla pietra preziosa bianca sullo sterno si diramava una linea d’oro culminante in un’altra gemma candida. Da lì si diramavano elaborati ghirigori dorati che le cingevano l’addome flessuoso. La pancia scoperta era adorna di un candido brillante e di un piercing all’ombelico dello stesso materiale e colore. I fianchi erano cinti da una gonna lunga che aderiva perfettamente alle cosce che si allargava oltre le ginocchia. Uno spacco laterale scopriva la gamba destra. All’avambraccio sinistro un braccialetto tempestato di gemme bianche e uno più sottile a forma di ramoscello di alloro. Sul braccio due sottilissimi, complicati, tatuaggi come quelli che si facevano con l’henne. Lo stesso motivo si poteva ritrovare poco oltre il gomito destro, sull’avambraccio, cinto da quattro bracciali sottili, più semplici. Il tatuaggio le faceva da giarrettiera alla gamba destra, mentre la sinistra era decorata con un’intricata cavigliera con la stessa gemma che avevi visto sul bracciale, la collana e la cintura. Quasi che fosse uno schiniere si arrampicava sullo stinco tramite un piccolo sole con i raggi a spirale. Sotto al ginocchio scendeva in diagonale, il tatuaggio che le correva su tutto il corpo, avvitandosi immediatamente attorno alla parte superiore del polpaccio.
Un profumo di gardenie ti avvolse. Niente Cosmo, niente magia, eppure fu sufficiente per sciogliere la tua tecnica e lasciarti stremato sul pavimento. Che cos’era quella visione? Vi ritrovaste nel Tempio. Tu avevi il cuore battente e il respiro affannoso come durante una corsa e la tua avversaria distesa a qualche metro che, tossendo, cercava di rialzarsi. La lama verde a terra poco distante dalla sua mano. «Shaka…» Ti implorò di nuovo.
«Che cos’era quella visione? Chi era quella ragazza?» Le raccontasti in poche parole quello che avevi visto. Lei si zittì un momento prima di domandare con voce tremante: «Tu ti ricordi?»
«Ricordo? Era un ricordo?»
«Sì». La voce rotta e non solo per il dolore. Stava piangendo? Perché? Tuttavia non ebbe il tempo di dire altro che emise un verso di dolore. Il suo mantello si disgregò e si trasformò in piume bianche che si allargarono sulla sua schiena come ali. Sulle braccia cominciarono a comparire quei gioielli. Il dubbio e lo sconcerto prese ancora più piede dentro di te, mentre il suo Cosmo, che finora aveva trattenuto, si innalzava, grandioso e sublime. Si alzò in piedi a fatica mentre anche la camicia seguiva lo stesso destino del manto e si trasformava nella parte superiore della visione. Si cinse il busto con le braccia e poi si alzò. E mentre le ali sfioravano il suo corpo cancellando il resto degli abiti, si trasformarono nella gonna bianca e i gioielli restanti.
Si girò titubante verso di te. Trasalisti mentre ti trovavi davanti quella creatura circonfusa di luce. Ti guardava dispiaciuta. Tu conoscevi quel volto, quella persona, tu la conoscevi! Le avevi dato un soprannome e tutto ciò che ti era rimasto di lei era solo un profumo. Avevi un nome sulla punta della lingua ma non riuscisti a dirlo. 
Ecco cos’era la grande preda dello Specter di Atavaka. Se persino lui aveva progettato di divorare la sua anima attirandola con quell’album. E quale preda migliore poteva sperare di un’Azona? Lui che aveva sempre cercato di accumulare la potenza degli Dèi per spodestarli?
Non ti saresti mai aspettato che invece di toglierle la vista le avresti tolto una maschera. Qualcosa dentro di te si smosse e ti gettasti in ginocchio al suo capezzale. La Dea era stesa in un lago di Ichor color oro bianco. No. La girasti supina; aveva perso i sensi. Ma i guai non erano finiti qui. Un refolo gelido fu presto sostituito da uno caldo. Girasti la testa più e più volte, inseguendo le figure nere che vi volteggiavano attorno. La prendesti in braccio, non t’importava di imbrattarti, ora l’importante era portarla al sicuro, ma come? E dovevi anche fare in fretta, il suo Cosmo andava scomparendo.
Ti abbassasti su di lei, facendole scudo con il tuo corpo. Immediatamente azzerasti il tuo Cosmo e le Creature sciamarono via.
Proprio allora lei rinvenne e sibilò di dolore, la guardasti e la vedesti sofferente. La deponesti a terra e trattenne il fiato rumorosamente. «Cosa è successo?» Ti chiese tamponandosi la ferita con la mano e tu glielo dicesti. Poi le dicesti di non muoversi che andavi a cercare qualcosa per medicarla. «No, no, lascia, faccio da me, mettimi seduta».  
Obbedisti e la tenesti ferma. Lei si portò entrambe le mani alla ferita e una luce color oro bianco si allargò dalle sue mani. S’irrigidì e soffiò tra i denti, però non smise. Ti ci volle un po’per capire che stava usando la magia. Vedesti il suo sangue regredire e scomparire a gocce sotto le mani. Un rivolo di fumo si levò dalle sue dita e poi la luce si spense. Quando la tolse la sua pelle era intatta e lei respirava profondamente. Il corpo madido di sudore, poi si rilassò definitivamente e riprese a respirare normalmente. Le sue sembianze divine si disgregarono con la scomparsa del suo Cosmo.
Sentivi il suo sudore e il suo respiro all’orecchio. «Grazie». Mormorò chiudendo gli occhi, di nuovo umani. Annuisti incapace di formulare una frase diversa. Poi si separò da te, quasi usando la tua Sacra Vestigia come appoggio per darsi la spinta; più che spintonarti via. «Ce la fai a camminare?» Dicesti, sentendo quanto queste parole fossero estranee alla tua natura e alla tua bocca. Quasi si incastrarono tra i denti come una foglia d’insalata. “Eppure la compassione e la preoccupazione non dovrebbero essermi estranee”. Pensasti, ma in realtà era proprio così. Abituato com’eri a ricoprire una posizione soprelevata sembrava che tu avessi perso qualcosa. E stavolta non sarebbero stati dei pellegrinaggi sulle rive del Gange, o una lunga meditazione a restituirtelo. «Grazie ancora». Rispose lei, raddrizzandosi la tiara poi raccolse la sua spada, si alzò e la rinfoderò.
«Dove vai?» Le chiedesti.
«É evidente che fosse una trappola e io ho già perso troppo tempo, riprendo il mio cammino».
«Almeno aspetta che se ne siano andate le Creature». Le consigliasti. Erano appena oltre le colonne dell’ingresso. Lei si girò e ti fece un triste sorriso. «Non posso, mi dispiace. Potresti farmi un favore? Se trovi il mio album da disegno, per favore, riportamelo. É stato bello rivederti». Poi ti salutò commossa S’inchinò congiungendo le mani nel Namastè e i suoi capelli mossi scivolarono oltre le sue spalle, coprendole il volto come una tenda. Sentisti un groppo in gola: alla fine lo desideravi davvero che lei ti si inchinasse? «Ma tu chi sei?»
Lei ti sorrise malinconica: «Lo sai. Per favore, non aprire gli occhi». Sussurrò poi e il tuo stomaco fece una capriola, riconoscendo quelle parole.
 
Avresti voluto farle una miriade domande, sull’Aldilà e l’Aldiquà, sul Mondo Celeste, ma soprattutto su quello che era successo. E l’unico modo per avere delle risposte era trovare il suo album. In realtà c’erano altri modi e provasti a usarli, ma non trovasti nulla. Neanche guardare attraverso i mondi t’aiutò. Il Buddha dopo averti detto che in realtà le risposte erano dentro di te, fece lo sciopero del silenzio. Bussasti agli appartamenti privati del Tempio, non ottenendo risposta entrasti, mentre le Velate si facevano da parte, inchinandosi. Lo specter dell’Uomo più vicino agli Dèi negli Inferi giaceva su un sontuoso letto di seta e altre stoffe preziose e gemeva di dolore a ogni respiro. Le Velate si fermarono un momento per inchinartisi. Una voce stentorea giunse dal letto. «L’ hai incontrata». Lo Specter ti sentì e volse il capo fasciato verso di te. L’unico occhio che riuscivi a vedere brillava di gioia maligna, compiacimento e di una vaga accusa. Sorrise sotto le bende e poi gemette di nuovo di dolore.
«Un’Azona». Dicesti tu, caricando le parole del tuo biasimo.
«Esatto». Sogghignò l’allettato e le bende si arrossarono di sangue. Fino a quel momento non pensavi che anche loro sanguinassero. Le Velate si affrettarono a comprimere le ferite e a spalmarci sopra altri unguenti. «Dove hai nascosto il suo album?»
«Perché dovrei dirtelo? Vuoi restituirglielo? Fa pure, ma troverò un altro modo oh, sì, lo troverò».
«Tu non troverai proprio niente. Finché ci sarò io non te lo permetterò mai». Non avresti mai permesso che la toccasse.
«Oh, vuoi forse minacciarmi, uomo più vicino agli Dèi sulla Terra? Non puoi, ricordati il patto». Ritraesti la mano che non ti eri accorto di aver sollevato come a carpirgli i sensi. Non avevi neppure sentito il rumore prodotto dalla tua Armatura. «Che c’è, adesso hai paura? Non mi togli più i sensi? Non mi riduci a un vegetale?»
«No, non farò niente, tu meriti di soffrire e pagare su ciò che resta della tua pelle, per tutto il dolore che hai causato. Se vuoi smettere di soffrire allora fallo da solo». Decretasti, implacabile. Poi gli voltasti le spalle e ordinasti agli Skeleton di cercare l’album incriminato. I soldati inferi obbedirono e si misero a frugare nella magione in lungo e in largo. Incuranti delle fiacche proteste del loro padrone.
Non dovesti attendere moltissimo che tornarono con l’oggetto incriminato. Era nero, con la copertina rigida e molti fogli. Te lo porsero inchinandosi. Senza dire niente lo prendesti, li ringraziasti e, stringendolo l’oggetto al petto lo portasti alla tua dimora.  
Una volta lì ti facesti preparare un bagno e, solo quando ti fosti ripulito, asciugato e rivestito lo sfogliasti. Se c’erano degli oscuri segreti allora dovevi saperlo. Invece fu come se ti si fosse aperto un mondo. Restasti colpito dalla magnificenza dei disegni. Era pieno di splendidi disegni naturalistici realizzati a metà tra uno stile capace di catturare il suono e uno che non avevi mai visto prima, neppure al Santuario. Ma era lo stesso che immaginavi avessero le fiabe.
Fu principalmente grazie a quell’album che chiarì ogni dubbio sulla sua natura. Lo Specter non poteva saper disegnare o dipingere a questo modo. Lo stile era completamente diverso per essere uno di quelli della vostra terra d’origine. 
E, poi le poesie. Oh, sì, la tua avversaria era una poetessa che scriveva in hindi. Quindi era una tua connazionale. Leggesti la prima poesia: Le tre rose.

Ogni volta che mi passi accanto
sembro terra che calpestata si spezza.
Stanotte ho sognato che mi portavi tre rose.
Una bianca, una rosa e una fucsia.
Dicevi «Mi sei venuta in mente».
Ma sappiamo tutti e due
che non lo farai mai nella realtà. 

Melense, un po’ stucchevoli, forse, ma forse era così che era una diciassettenne. Non eri bravo a decifrare le persone dalla loro scrittura. Ancor meno le donne. Ti sentisti a disagio: stavi entrando nel mondo di una ragazza. A giudicare dalla data doveva essere al liceo, giusto? Oh, che mal di testa che ti veniva, tu tra un po’ avevi a malapena la licenza elementare. Tuttavia il tuo compito era difendere la Terra non costruire astronavi, per cui non importava. Almeno non troppo, non ti era ancora capitato di incontrare una tua connazionale istruita. Chissà cosa si provava a sapere tante cose? Non ti sorprese più di tanto sapere che lei aveva intrapreso un percorso di studi: era incarnata, sarebbe stato strano il contrario. In fondo c’erano cose che solo gli Dèi conoscevano.
Andasti avanti e scopristi la vita dei civili e i suoi colori: dall’arancio dorato del miele nel caffellatte ai colori della cucina e della strada. Qualcosa dentro di te si smosse; erano invidia e curiosità. Nel tuo vecchio monastero ti avrebbero obbligato a disfartene. Lo sentivi che così facendo stavi andando contro le “Quattro nobili verità” sull’aspetto pratico della condotta e della pratica spirituale nell’Ottuplice sentiero. Qui avevi a che fare con un io che stava risvegliando il tuo, andando contro la tua ricerca del Nirvana. Sfogliasti altre pagine e ti soffermasti su un’altra. Dove una giovane, sempre lei, guardava dal basso, uno stormo di rondini e sollevava una mano verso di loro come se avesse potuto raggiungerle. Ma i colori, pur essendo caldi, avevano una nota di malinconia e abbandono. In questi disegni, dipinti, aveva impresso i suoi sentimenti. Soprattutto nella perdita delle rondini d’oro che costituivano il suo tatuaggio. In un’altra immagine lei stessa si ritraeva con uno scettro strano mentre faceva quelli che sembravano esercizi marziali su un tetto. Dietro di lei quasi come uno spettro, la sé stessa divina.  
Una domanda ancora ti portò a domandarti che cosa le fosse successo. Gli aforismi e le strofe non sembravano un esercizio stilistico. Davano la stessa impressione di una scala che si dissolve alle tue spalle mentre la percorri e sai che un giorno o l’altro ti ritroverai a precipitare nel vuoto. Un abisso completamente diverso dal Nirvana: quello silenzioso della morte. Ne avesti paura mentre osservavi la figura di sé stessa camminare su questa scala che si dissolveva. E poi passasti agli aforismi di cui soprattutto uno catturò la tua attenzione. Voglio proteggere tutto il Creato.
Poi trovasti un disegno che ti fece sgranare gli occhi per lo stupore. Richiudesti l’album con il cuore palpitante e lo stomaco in subbuglio. Quelle piacevoli fitte al tuo corpo, che scendevano giù fino all’inguine e le immagini e le parole ancora impresse nelle retine. Piacevoli sì, se tu avessi scoperto le gioie della carne, sarebbero state il ricordo di un bacio e di un corpo che si muoveva nel tuo abbraccio. Ma tu non le potevi sapere, dal momento che saresti uscito dal sentiero e saresti caduto vittima dei sensi. Non dopo tutta la fatica che avevi fatto per rientrarci.
Rientrarci? Davvero ho detto così? Che strano. Non guardarmi così, Shaka, io non ne so nulla.  
Comunque ecco cosa si provava a entrare in contatto con il cuore di una Divinità. In un certo senso aveva intrapreso il percorso opposto al tuo. Tu che cercavi il Nirvana distaccandoti dal Tutto e lei attaccandovisi disperatamente, vivendo più intensamente che poteva. Se voi foste pronti al sacrificio e alla morte, qualcosa ti disse che lei era mossa da una forza contraria ma ugualmente potente.
Lo avevi visto dalla cura dei disegni, dalla sua poesia. C’era dell’altro, ma questa Divinità ti aveva smosso qualcosa dentro. Non sapevi dire se avesse attivato un meccanismo insito nella natura umana. Sapevi solo che non poteva finire così con una semplice riconsegna. La cosa peggiore era che non sapevi davvero dove trovarla. Ecco cosa ti portò a fare ritorno a Villa Heinstein.
Quando uscisti dagli Inferi, passando per una delle strade laterali che ti indicarono gli Skeleton, ti ritrovasti nel soleggiato parco della Villa. Ti schermasti il volto con le mani per via del Sole. Anche i tuoi sensi furono immediatamente colpiti. Dal tatto all’olfatto, che ti giunsero chiari e vividi il suono dell’erba verde e fresca sotto i tuoi stivali dorati e il profumo dei fiori, dei tigli, dei falò e del cibo. Persino le tue orecchie furono disorientate nell’udire i rumori della vita, delle voci, anche se parlavano una lingua scomparsa da millenni. “Oh, come ho fatto a non accorgermene prima? É primavera”. Pensasti, mentre il tuo corpo si riabituava al Mondo dei Vivi. Solo dopo facesti caso anche alla marea di gente che ti osservava. Uno Specter in Armatura scura commentò sprezzante, all’ombra di un albero: «Guarda un po’chi si rivede». Un altro si accodò, schernendoti: «Toh, il Santone».
«Shaka!» Esclamò la voce profonda e stupita di Camus. Volgesti il volto verso di lui, che si faceva largo. Si era tolto la Sacra Aquarius. «Camus». Lo chiamasti, contento di vederlo. Avevi deciso di tenere gli occhi aperti. Avresti potuto usare comunque il tuo Cosmo in caso di necessità. Il rosso ti venne incontro e ti salutò: «Cosa ci fai qui? Avevo capito che ti saresti astenuto».
«Ho cambiato idea».
«Sono contento che tu l’abbia fatto. Vieni, hai fatto un lungo viaggio». Disse prima di guidarti alla sua tenda. Parole che sicuramente aveva mutuato da queste tribù. Come pure le pitture blu sui suoi bicipiti. Decisamente stonati con il colore violetto della sua maglietta.
La sua tenda era un tepee nativo americano, con tanto di veranda ricavata legando una grossa tela cerata, (dello stesso materiale del tessuto che rivestiva le stecche) a quattro pali addossati alla medesima. Inarcasti un sopracciglio e il custode dell’Undicesima si sentì in dovere di spiegare: «So che non è granché ma è quanto di meglio potessi fare con ciò che mi hanno dato». Ti invitò ad accomodarti sotto alla veranda assieme a lui e ti mettesti seduto senza problemi.
«Allora di chi era la tenda che stavi aiutando a montare l’altro giorno?» Chiedesti.
«Era l’ospedale da campo, ci sono altre tre tende così in tutto il giardino e in un’ala della casa». Spiegò, mettendosi a sua volta a gambe incrociate. «Ospedale da campo?»
«Sì, ci sono dei feriti e dei rifugiati assieme a noi. Fortunatamente che il parco è abbastanza grande per ospitarci tutti. I Celti, i Britanni e i Galli sono molto più efficienti di quanto pensassimo».
«Le forze di Pandora sono così estese?» Chiedesti sorpreso guardandoti intorno, socchiudendo gli occhi per il sole. In effetti il chiacchiericcio che animava questo posto e le persone che vi sfilavano accanto erano difficili da ignorare. Persino per te, che mai fosti un compagnone. Non eri ancora abituato all’idea che anche le anime continuassero a perseguire le attività di quando erano vive. Infatti c’erano anche dei bambini che giocavano a rincorrersi e riempivano l’area con i loro gridolini e le risate. C’era chi suonava e anche chi cantava. «Ora che abbiamo di nuovo il Giudice Infernale della Viverna sì, ma la battaglia ci è costata molti feriti e qualche morto. Ci stiamo organizzando in vista del prossimo assedio». Ti rivelò.
«Assedio? Don Avido e i suoi stanno progettando di attaccarci?» Domandasti.
«Sì, da quando ha capito che Lady Pandora fa sul serio ha cominciato a rispondere seriamente alle nostre offensive. I druidi sono sicuri che il prossimo attacco avverrà proprio qui tra i Vivi, ma ancora non sappiamo quando. Shaka». Ti guardò dritto in faccia e tu ricambiasti, attento, «so che non è la nostra battaglia, ma se diamo il nostro contributo forse riusciremo a scoprire che cosa sta succedendo e come contrastare le Creature. Il tuo aiuto sarà prezioso». Soprattutto ora che Atavaka sarebbe stato fuori gioco per un po’. Ma non glielo dicesti.
«Ancora a farneticare con questa storia?» Domandò una voce maschile annoiata e impastata dall’interno del tepee. Entrambi volgeste la faccia verso l’ingresso. Poi anche la testa rosea di Valentine dell’Arpia fece capolino. Aveva l’aria di chi è stato disturbato nel bel mezzo di una bella dormita. Sul suo torso nudo spiccava una fasciatura. «Torna a dormire, Valentine». Ribatté esasperato il francese.
«Non sei il mio generale».
«No, ma ci terrei che l’altro guardiano del Cocito restasse vivo, grazie». Non avevi mai sentito parlare così Camus. Che di solito era gentile con tutti. Si vede che stare a stretto contatto con gli Inferi lo aveva imbarbarito. Lo Specter sbadigliò sonoramente poi, borbottando un’imprecazione al suo indirizzo, obbedì. «Ti prendi cura di lui?» Chiedesti stupito.
«É il minimo che possa fare per salvaguardare il Patto. I Pitti mi danno solo una mano a mantenerlo vivo, ma a comandare veramente sono la Somma Pandora e Lady Niniane, la Somma Sacerdotessa dei Celti, colei che manteneva vivo il Cocito». Spiegò alzando le spalle.
«Perché i Celti erano nel Cocito?» Chiedesti confuso. 
«Sono come noi». Spiegò laconico e imbarazzato. Solo dopo qualche secondo comprendesti e lo guardasti stupefatto: erano dei Deicidi. «Come è possibile?» Domandasti confuso. Non ti era arrivata notizia di questo. «A quanto pare non esiste solo il metodo di Seiya per uccidere le Divinità. É una lunga storia, mi hanno fatto promettere di tenermela per me; ancora se ne vergognano». Rivelò.
«Capisco, c’è posto anche per me?»
«In questo accampamento c’è posto per tutti». Ribatté Camus.
«Io non ce lo voglio, un Gold Saint basta e avanza, non riuscirei a sopportarne un altro». Esclamò la voce di Valentine dall’interno della tenda.
«D’accordo, chiederò in giro». Decidesti, onde evitare di sollevare diverbi. Il Saint delle Energie Fredde ti lasciò fare.
E rifugio lo trovasti, assieme ai druidi che, in un certo senso, ti riconobbero come uno di loro. Non l’avresti mai detto che un Pandora-Box aprisse tutte queste porte. Letteralmente e non per avidità e che i Celti ti accogliessero immediatamente.
Passò qualche giorno e anche tu facesti amicizia con questi spiriti. O meglio, cominciaste a scambiarvi informazioni e restasti di stucco nello scoprire quanti punti in comune aveste. Per esempio anche loro meditavano. La differenza più grande fu vedere come trattarono una Sacerdotessa che venne a cambiare gli incensi. Ti sorprendesti del rispetto e della cortesia reciproca che mostravano. Ma questo non solo con lei, come avevi poi temuto e fosti smentito girovagando per l’accampamento. Le donne combattevano e preparavano armi, addestravano, ricoprivano ruoli di rilievo. Le più rispettate erano le Sacerdotesse con la mezzaluna sulla fronte e i polsi tatuati di serpi azzurri. Se non sbagliavi c’erano delle donne in India che praticavano la kalaripayattu. L’arte marziale più antica del mondo. Chissà se anche costoro praticavano qualcosa di simile.  
E anche che nonostante tutto, si sapessero divertire. Sapessero vivere e amassero le arti come la poesia. Come appurasti quando un arpista vi deliziò durante una cena. Il pensiero ti corse al Pandora-Box dove tenevi l’album della Dea. Lady Pandora ti ricevette quella sera stessa, dopo cena, in un salotto lussuosamente arredato in stile occidentale, con mobili moderni dallo stile elegante. In una preponderanza di toni bianchi, argentei e neri ed elaborate cornici.
Non l’avevi mai incontrata prima. Non ti aspettavi che fosse così scettica. Ti eri inginocchiato e lei non ti aveva fatto alzare o niente. Si era limitata ad ascoltare la tua richiesta e a soppesarla. In compenso si teneva lontano da te, come se temesse (non a torto) che tu potessi riprenderti il mala che ti apparteneva. Un giorno, forse, ma non quel giorno. Anche quando gli rivelasti dei piani di Atavaka ti rispose di averli sempre conosciuti dalla sua resurrezione e di non temerlo. Purtuttavia ti chiese dove fosse e tu le dicesti anche questo. Senza accorgetene poi ti guidò alla trappola: ossia che cosa ci facessi tu nella sua dimora. E rispondesti con una mezza verità; cioè che c’era stata un’invasione di mostri di un regno limitrofo e volevi ragguagli. Per tutto il tempo ti sforzasti di mantenere un’espressione solenne e neutra, ma in cuor tuo avevi paura che ti scoprisse. Non sapevi se Pandora fosse capace di percepire i Cosmi altrui. Questa sarebbe stata la prova decisiva. Lei ti domandò se ci fosse stato qualcun altro e tu gli dicesti di no e che l’avevi rimandato via da solo. Un Cosmo tanto piccolo non poteva averlo percepito. Poi concludesti dicendo: «Il mio dovere è difendere la giustizia e la pace sulla Terra, abbiamo già visto la scomparsa degli Inferi una volta, non possiamo permetterci che accada una seconda. Se ritenete che io sia nel torto allora mandatemi via, io tornerò a sorvegliare per conto di Hades e della Dea Atena la Sesta Prigione. Se invece volete impiegarmi in qualche modo in questa guerra, così sia. Vi darò tutto l’appoggio necessario anche per sopperire alla mi controparte infera». 
Lei ti guardò a lungo, accomodata sulla sua poltrona prima di dirti che: «Negli Inferi non esistono né il cameratismo né la fratellanza, pertanto voglio chiedervi se è per questo che insistete tanto».
«No, assolutamente, sono qui per uno scopo più alto».
«Un ordine di Atena?» Domandò lei, cercando di indovinare.
«Sì, l’ho ricevuto poche ore fa». Nessuno aveva mai detto che tu non potessi mentire, Buddha incarnato o no. E poi la Somma Sacerdotessa degli Inferi recava con sé il tuo mala. Un motivo in più per entrare al suo servizio. Almeno fin quando sarebbe stato necessario. «Ho sentito cose mirabolanti sulla vostra forza, Cavaliere di Virgo». Disse a un tratto. Tu farfugliasti una risposta sull’umiltà che non ascoltasti neppure. Eri troppo impegnato a sperare che non recepisse le tue reali intenzioni. «La vostra forza potrebbe esserci molto utile».
«Consideratemi un alleato».
Pandora ti osservò a lungo assottigliando gli occhi violacei, prima di dichiarare: «E sia, benvenuto nella resistenza, Gold Saint di Virgo».  
Dopo questo colloquio fosti rimandato in campo sotto l’egida dello Specter della Viverna, l’unico Giudice che avevano finora. Il quale, felicissimo all’idea, ti mandò nelle retrovie insieme a Camus. Con le tue tecniche avreste sbaragliato il nemico. Ma prima che sarebbe arrivato quel giorno sarebbe passato molto tempo. Avevi cercato di occupare il tempo tra meditazioni e passeggiate e giornate passate con Camus.
In ogni caso avevi capito come eravate organizzati. A proteggere le Anime Vive e i Vivi dalle Creature, ci avrebbero pensato gli spiriti stessi. Ognuno era affiancato da un guerriero o uno spirito. Anche Camus ne aveva uno appresso: era una bambina Pitta che gli stava insegnando il celtico. Probabilmente doveva ricordargli i suoi allievi. Non lo avevi mai visto all’opera con i bambini né ti era mai interessato ma ammettevi che aveva davvero la stoffa dell’insegnante. Era quasi un piacere assistere a quelle lezioni. L’unica cosa era che si teneva alla larga dallo Specter dell’Arpia. Il quale si era preso un’infezione a causa delle ferite. Il tuo commilitone gli abbassava la febbre mentre la bambina lo interrogava o osservava in silenzio, accovacciata accanto alla testa dello Specter. Il quale metà delle volte la scacciava, ma quando si addormentava gli cambiava le fasciature. Altre pregava per lui e completava i riti dipingendo sulla sua fronte il simbolo della guarigione. Così ti aveva spiegato Camus. Che cominciava a capire qualcosina di celtico soprattutto a gesti e disegnini sulla terra. Non potevate sostenere conversazioni con loro, ma qualcosa riuscivate a fare.
A parte questo non eravate per niente integrati nell’esercito, anzi eravate palesemente isolati. Gli Specter vi ridevano alle spalle e facevano di tutto per escludervi. Se non fosse stato per i Celti neanche avreste saputo che esistevano i turni al bagno, le ronde e molte altre cose.
Era strano per voi ricoprire una posizione più marginale rispetto a quella originaria. Come era strano per te vedere Camus tartassato da Aiacos di Garuda. Il quale alludendo una ricompensa, tutti i giorni veniva a riscuotere e ingaggiava battaglia con il Signore delle Energie Fredde. 
L’attesa si sarebbe fatta più lunga del previsto. Se avessi voluto ritrovarLa avresti dovuto fare qualcosa. Ma cosa? Neanche guardare tra i mondi funzionava. Chiedere aiuto agli Specter e agli spiriti era impensabile. E allora non avesti altra scelta che riprendere la lettura. Quando eri stato convocato avevi vestito la Cloth e tolto dal Pandora-Box e nascosto sotto al cuscino del tuo giaciglio.  
Leggesti qualcosa sulle stagioni, il mare, le cotte estive. Poi la prima poesia sul primo giorno di scuola. Così andava avanti raccontando di sogni e giornate, finché non arrivasti al suo primo amore. La bellezza che ne derivò. Tu che neanche sapevi cosa significasse. Che leggevi il diario di un’adolescente. Poi, improvvisamente, il tono cambiò. Lo capisti dal disegno di lei e di un’altra ragazza in spiaggia che venivano attaccate e dietro la schiena della giovane si innalzava il suo simbolo Divino. E quello, fu l’inizio di un sogno, anzi no, un incubo. Ritraeva lei stessa che veniva cinta da dietro da delle mani munite di artigli. Mentre alle sue spalle la sua versione Divina. Il successivo ritraeva lei stessa a testa in giù, che precipitava in una spirale di luce e pulviscolo resi attraverso pennarelli, matite e acquerelli. Finora non pensavi che un grido potesse essere espresso anche attraverso la pittura. La sensazione era quella di precipitare, si vedeva, ci aveva messo tutta sé stessa, mentre ti accorgesti, nei vari filamenti che costellavano gli anelli, che c’erano delle persone. Che la spirale in realtà erano dei gradini e che lei era caduta da questi. 

Vederti sprofondare nel tuo banco
è come sprofondare nell’ Oceano Artico.
Io mi chiedo cosa tu abbia.
Prego che migliori ma
ogni foglio del calendario
è giorno a te rubato.
La gioventù sfuma
e la malattia avanza.
Presto non ti vedrò più,
temo e tremo come foglia.
É colpa dell’amore?
É legge del contrappasso 
ho qualcosa di diverso.
Nel sangue, pelle, ossa.
Qualcosa in me sta cambiando.
Asia, ancora posso rispondere a questo nome?

“Asia”. Pensasti. Doveva essere stato il momento in cui la Dea in lei si era destata. Doveva essere coinciso con l’ammalarsi di qualcuno a lei caro. Probabilmente un suo compagno di scuola che le piaceva. Altrimenti non avresti visto il bisogno di dedicargli una poesia. Forse era lo stesso del sogno delle tre rose. Ma il disegno seguente ti dimostrò che ti sbagliavi.
Il ragazzo era attaccato a un respiratore e l’elettrocardiogramma era piatto. Poco sopra oltre il corpo la sua anima si staccava e guardava altrove, lontano dalla giovane innamorata.
Nel disegno accanto lei in basso al centro impugnava la spada, su cui leggesti la parola Tamerlane. Da quel poco che si vedeva del suo volto, sembrava che, piangendo, avesse accettato il suo destino con la disperazione nel cuore. Sembrava chiedere “perché a me?” Poco sopra la sua chioma le anime urlanti si sollevavano dietro di lei come una nube temporalesca. Due grandi occhi si rivolgevano verso lo spettatore, come gli occhi di Dio. A dirla tutta, la sua vera essenza celeste sembrava uscire da lei, ma invece di sorridere piangeva disperata, mentre il mondo alle sue spalle finiva e un minaccioso, spaventoso drago rosso occidentale distruggeva tutto quanto. E, attorno a lei, quasi come una meridiana, le Dodici Armature d’Oro a illuminarla alle spalle.  Maledetta ti fece capire quanto le cose fossero cambiate.

Sedici anni, forse diciassette
quando qualcosa si destò.
«Nonna, non capisco.» dissi.
Mentre nel ticchettio
ero, sono e sarò.
«Asia lo senti l’orologio?
Le senti le voci degli spiriti?»
«Ricordi? Ricordati di me».
Disse la mia immagine riflessa,
dopo i veli, la Dea, me.  
No, non sei lei.
Guardami, tu sei me.
Asia?
No, oppure sì.
Io sono il presente, tu sei il passato.
E nel futuro ci riuniremo
per tornare Io.

Nel disegno successivo vedesti Lady Isabel con alle spalle la statua di Atena. Restasti di stucco perché era identica all’ultima volta che l’avevi vista nell’Ottantasei. Come faceva a conoscerla? Lady Asia era nata dopo! E perché la vostra Dea cingeva le sue spalle e indicava l’osservatore? Un dolce, vago sorriso delineato sulla sua bocca.
Nel successivo era la giovane, nella sua forma umana attuale, abbigliata come Lady Isabel a sedere sul trono e brandire lo scettro di Nike e voi eravate inginocchiati ai suoi piedi. Mentre la vostra Dea attuale ascendeva al cielo al posto suo, sorridendo, verso l’Olimpo e nella pagina accanto, il Drago Rosso di prima, libero da catene che cercava di inghiottirla, mentre in primo piano, anche se in basso, su un prato verde chiaro illuminato, c’era una Pitonessa.  
Volgesti la pagina e le poesie divennero più rapide e tormentate. Mentre piangendo si chiedeva cosa fare e cominciava a combattere come in realtà faceva quando non era incarnata.

Credevo di essere al sicuro.
Accadono cose strane
e non posso tirarmi indietro.
Devo essere io.  
L’addestramento va ripreso
Addio mia vecchia vita.
Addio padri miei, non disperate,
vi porterò sempre in fondo al cuore;
sicché non vi abbandonerò mai.
Aveva solo diciannove anni. Leggesti La caducità della vita, che risaliva a molti anni dopo, all’incirca alla battaglia contro il Gran Dio Zeus. 

Amore è una rosa che fiorisce a maggio
I miei petali non sono ancora sbocciati.
Verdi e contratti, bagnati di rugiada.
Per sempre serrati.
Non avvicinerai mai le tue labbra
Non mi sussurrerai mai, caloroso: “è aprile”.
Temo perché prima che tu possa
le lame si avvicinano ticchettando fatali.    
Che io sia dannata come Morgana la Fata?

Questa era forse la poesia più intima ed erotica che avessi mai letto. Mai avevi letto qualcosa di tanto intimo e caldo. Il calore del sussurro del ragazzo lo sentivi. Il sottile timore della rosa verde anche. Ti sentisti a disagio mentre piacevoli fitte al costato e all’addome ti prendevano. Eppure quel disagio presto fu sostituito dalla curiosità. Non credevi che le parole avessero quest’effetto. 
Con un grosso sforzo guardasti il disegno alla pagina a fianco. E vedesti quella rosa verde da cui nasceva una lei che, avvitandosi su sé stessa guardava spaventata le lame delle cesoie avvicinarsi.  Mentre delle mani a coppa cingevano il bocciolo. Degli orologi degli ingranaggi facevano da cornice.

Siamo maledetti entrambi, quando le nostre lame s’incroceranno, sarà la fine di Tutto.
Non voglio. Non ho lavorato tutte queste vite per nulla. Voglio ancora essere una ragazza normale.
Perché ho scritto queste parole? Perché sto scrivendo queste frasi?  


Quella notte sognasti di trovarti davanti a una serie di fanciulle dalle vesti nere che venivano come strappate via da te. Che urlavano e imploravano di salvarle. Quando facevi per tendere la mano, però, due enormi porte scure si sprangavano con dei talismani. Ti urlasti con le loro voci spaventate ancora nelle orecchie.

L’Azona sembrava essere scomparsa.
Nelle ore che passasti sotto quel tiglio a cercare di individuarla percepisti soltanto gli Inferi, come se vi fosse diventata un tutt’uno. Ma se fossi rimasto con loro, probabilmente avresti avuto qualche chance in più di ritrovarla e compiere il tuo dovere. Per quel giorno smettesti di cercarla a malincuore. Giusto in tempo per il pranzo, che ti portò il tuo compagno d’arme. Una profumata e cremosa zuppa d’orzo. Lo ringraziasti con un cenno del capo, chiudesti il block notes e cominciasti a mangiare, mettendolo sull’erba come se tu facessi un baratto. Io ti do questo block notes e in cambio io mi dedico a te, realtà. Camus si accomodò sull’erba accanto a te e ti tenne compagnia. «Che cosa leggi?» Ti domandò Camus sedendosi accanto a te, passandoti un’altra ciotola di zuppa d’orzo, la cena. Lo ringraziasti con un cenno del capo e la mettesti da parte per lasciarla raffreddare un po’. Anche se in realtà non avevi fame.
Il maestro di Hyoga si accomodò sull’erba accanto a te. Tu richiudesti l’album. «Niente di particolare, una cosa che ho trovato».
«Posso vedere?» Chiese incuriosito.
«No, è personale». E, tu, ovvio che ti sentivi a disagio, ma lo saresti stato ancor di più se l’avessi condiviso con lui. Avevi tra le mani la vita di una Dea. Una Dea molto sfortunata, che però lottava con tutte le sue forze per scongiurare un destino avverso. Non sapevi se provare pietà o se ammirarla. Non solo per aver deciso di riempire la sua vita di bellezza e luce, in contrapposizione a tutte le tenebre e le disgrazie che le erano capitate. La vedevi talmente delicata e fragile che facevi fatica a pensarla da sola chissà dove negli Inferi. Il francese annuì e si appoggiò al tronco d’albero a sua volta dicendo: «Capisco».
Una cosa buona del Gold Saint di Aquarius: rispettava la privacy altrui, vero, Shaka? Stringesti la bocca e tornasti a osservare l’album. Poi lo chiudesti e prendesti la ciotola. Quando finisti Camus portò via le ciotole e tu riprendesti la letta. Arrivasti all’ultima pagina.

Una volta superata l’ultima frontiera
non ci saranno né un buco nero
Né un uomo dietro la mensola.
Mondi da scoprire. 
il sangue scorrerà a fiumi
come le mie lacrime
copiose come i morti.
Per quanto io mi fortifichi
non so come scappare.
Tutti vivono,
Tranne me.
Li devo proteggere, almeno loro
Io che posso.
Io sono la Fine.
Io sono maledetta.
Eppure voglio vivere.
Volevo essere la Fanciulla e
Invece sono la Vergine Disincantata.

Ancora una volta sfogliasti le pagine della spirale nera, di quelle che, (avevi sentito), si vendevano ovunque. L’unico indizio per comprendere con cosa avevi a che fare era sfogliarlo e decifrarlo. Avevi intavolato una conversazione con Camus e avevi cercato di farti spiegare i messaggi che gli artisti nascondevano nelle opere. Ma Camus era stato piuttosto manchevole d’informazioni.
Passasti le dita sulla carta ruvida, meravigliandoti di come il tatto ti restituisse infinite sensazioni. Di come gli acquarelli le dessero un tocco più polveroso ma anche più delicato.    
Se non altro avevi persino un nome da cui partire. Asia. Il nome terreno della Azona. «Asia». Mormorasti, per sentire come suonava. Aveva un suono buono, sapeva di verde, un po’ come la camicia e gli smeraldi che indossava. Era la prima volta che per te una parola acquisiva anche un colore oltre che famigliarità. Tu la conoscevi con un altro nome, diverso dal continente che ti aveva dato i natali. Oh, sì che lo conoscevi, che aspetti? Dillo. “No!”
«Shaka?» Ti chiamò una voce e tu ti girasti. Era Camus, che ti disse che volevano parlare anche con te. «Hanno deciso di stilare un piano d’attacco e hanno bisogno di noi, vieni?»
«Sì, arrivo». Infilasti l’album in una sacca che ti eri fatto dare e lo seguisti alla tenda dove si sarebbe svolta la riunione.
 alla Bocca dell’Ade con una milizia tutta particolare. Non ci credevi, erano riusciti a reclutare perfino il malvagio custode della Quarta Casa. Lui, che viveva solo per il gusto di sentirsi onnipotente e addobbare la sua Casa.
Stando ai piani, il Cavaliere di Cancer avrebbe dovuto cominciare l’avanzata nel regno dei morti partendo dall’Acheronte e venendovi incontro, di modo che Don Avido si sarebbe ritrovato stretto in una morsa e, a quel punto, lo avreste annientato e avreste riconquistato gli Inferi.
Il quando lo sapeva solo Pandora, ma la donna non sembrava intenzionata a condividere queste informazioni con voi. A te andava bene così, in fin dei conti eri un soldato e, la tua azione nella Sesta Prigione aveva persuaso la donna del tradimento e della colpevolezza di Atavaka. Ti era debitrice, ma non sapeva che farsene di un debito simile. Dopotutto governava gli Specter, reggeva gli Inferi in assenza di Hades. Se i suoi sottoposti non conoscevano il significato della parola riconoscenza, figurati se lo conosceva lei. 

La speranza, che ironia, voi che vi professaste suoi Cavalieri in onore di Atena. Per non essere da meno ai Bronze Saint. Ebbene adesso era affiancata da altre tre parole, la speranza di ritrovare Asia. Di ritrovare lei. Dì quel nome. “Ma io non me lo ricordo”. Non mentire, tu lo sai. So che è il tuo più grande segreto. 
Ma tu preferivi rileggere e ammirare quell’album alla ricerca di nuovi dettagli. Se non ti conoscessi avrei detto che era una nuova forma di meditazione, visto che ti lanciava verso nuovi orizzonti. Relativi nel senso sofistico del termine, in quanto di nuovo non avevano neanche le date. Però per te lo erano, in quanto fino a ora ne ignoravi l’esistenza e, non avevi mai pensato che anche una Dea potesse essere, prima di tutto, una donna. E dire che ti avevano insegnato a vedere la Dea prima della Fanciulla, a venerarla prima ancora di rispettarla. Ma quanto oro avresti dato per conoscerla? In realtà non ti era mai importato. Ma ora che conoscevi il segreto della Dea incarnata, non ti sentivi tranquillo. Il tuo animo era turbato.
In quanto generali la vostra esperienza bellica era utile. Fortunatamente che sapevi scindere la tua vita privata dal tuo dovere. Il prossimo territorio da riconquistare sarebbe stata la Quinta Prigione. La conoscevi, era una tra le più spaventose e occupava un territorio più o meno rettangolare. Era sita più a valle, rispetto alle colline rocciose e sullo stesso livello della Palude Nera. Ma era diversa ancora. La mappa che avevate davanti era diversa da quella che conoscevate. Riconoscesti immediatamente la mano che l’aveva disegnata e il cuore ti batté più veloce. «Dove l’avete avuta?» Chiedesti sfiorandola con le dita. Ciò che sapevate degli Inferi era solo una parte infinitesimale. Che quel luogo non era la Terra, che in confronto il Regno dei Vivi era un Paradiso. Era proprio il caso di dire: “Benvenuto all’Inferno”. Che Hades avesse cercato di ingannarvi facendovi apparire così i suoi domini? Che solo adesso vi fossero apparsi nella loro interezza grazie alle leggende e alla vostra permanenza? Come avevate potuto essere così stolti da affidarvi ai vostri sensi?
La Viverna ti squadrò sospettoso e Pandora rispose che vi era stata mandata dal vostro collega di Cancer. Lo Specter della Viverna fece per chiederti spiegazioni quando suonò l’allarme. «In posizione, tutti». Ruggì scattando in piedi e corse via.
Le grida si elevano dal parco mentre Lady Pandora scattava in piedi a sua volta impugnando il tridente: «Com’è possibile? L’attacco non doveva essere oggi». Eravate ancora impreparati, buona parte delle truppe non si era ancora ripresa. Ma stavolta c’eravate anche voi. Guardasti il tuo compagno Saint e lui ricambiò il tuo sguardo. In quel momento eravate davvero sulla stessa lunghezza d’onda.

Shura
Qualcosa che non andava. Qualcuno aveva frugato nella tua stanza. E come te ne eri accorto, dal momento che era tutto in ordine? Dall’odore. Non avevi un naso particolarmente sopraffino (eri un uomo, mica un segugio) ma i profumi li sapevi riconoscere e questo non era tuo. La scia era talmente intensa che potevi fiutarla alla stregua di un cane da tartufi. Quello che ti preoccupava di più era che nonostante che il cassetto del registro personale delle missioni fosse intatto ti sentivi scoperto? Era opera di Ionia, forse? Giacché aveva dimostrato questa tendenza alla maniacalità, avevi deciso di sorvegliarlo e di investigare sulla Palaestra. Non avresti mai permesso che abusasse del suo ruolo per seviziare quei ragazzini. Avevi sempre saputo che avesse qualche rotella fuori posto, ma così tanto no. La notte del mancato soggiogamento di Astrid ancora infestava i tuoi pensieri. Come un’edera rampicante i cui viticci si allontanavano a tratti per poi tornare ad avvitarsi al tronco principale. “E se non fosse stata l’unica?” Se Ionia avesse tentato di plagiare altri Saint? Mentre in cuor tuo avevi sperato che non avesse fatto anche di peggio. Forse non era nelle corde di quel vecchio, ma non potevi sapere.
Il fatto che fosse sopravvissuto all’ecatombe delle truppe che combatterono Mars e Pallas aveva del miracoloso. Neanche il Primo Saint della Dea ce l’aveva fatta. Adesso chi restava? Paradox, Integra, Ryuho, Yuna, Sirrah. Di così tanti solo in cinque. 

Avere i Marine per il Santuario era una fregatura ma dovevi fare qualcosa, perciò decidesti di parlarne con Yuna. Perciò quella mattina chiedesti congedo momentaneo a Kanon e ti recasti personalmente alla Palaestra, interrompendo la lezione di Geki dell’Orsa. L’omone con i capelli purpurei stava spiegando una proiezione quando percepì il tuo Cosmo: «E allora… Nobile Shura!» Esclamò sorpreso girandosi per guardarti con tanto d’occhi, prima di inginocchiarsi rispettoso. Gli studenti lo imitarono seduta stante, anche se si scambiarono delle occhiate perplesse e qualche mormorio. Qualcun altro invece zittì tutti.
«Riposo, Geki alzati pure». Sorridesti affabile. L’ex Bronze Saint dell’Orsa Maggiore si rialzò in tutta la sua considerevole altezza: «Continuate gli esercizi, voi». Ordinò alla classe che riprese da dove si erano interrotti, sotto la guida del vice allenatore.
«Ti trovo bene», dicesti, tanto per rompere il ghiaccio.
«Si fa quel che si può, in cosa posso esservi utile?» Domandò cortese.
«Sono venuto per visionare i vostri allievi, ultimamente ho sentito il bisogno di prendere qualcuno e candidarlo a una Cloth». Inventasti ma fosti così convincente che Geki non ebbe alcuna difficoltà a crederti. «Veramente? Sarebbe un grande onore, nobile Shura!» Esclamò elettrizzato. «Scegliete pure il giovane che ritenete idoneo e fatemelo sapere, ve lo manderò presto per un colloquio».
E il candidato ideale l’avevi già scelto. Che decidesti d’incontrare proprio quella mattina, in un bar di Rodorio. A Kanon avresti pensato poi, tanto con lei c’era Shiryu, l’altro fiero possessore della Sacra Excalibur, al fianco di Atena. Immaginavi alla perfezione quanto fosse irritato dietro la maschera di calma che stava sicuramente indossando.  
«Buongiorno, nobile Shura, volevate vedermi?» Ti salutò la ragazza, ricambiasti. Ti accorgesti che la tonalità della sua chioma era più sull’ocra che sul biondo platino, che, ormai, ti eri abituato dei capelli di Astrid. Era pure più lunga. Ma anche che ti sembrava più malaticcia e scheletrica. Non avevi più visto gli altri ma avevi visto le vittime delle Creature durante la fase di essiccazione. Lei sembrava avviarsi sulla stessa via.
«Sì, suppongo che il tuo maestro ti abbia già avvisato o, quantomeno, che ti abbia accennato quello che voglio riferirti».
«Ha detto che cercate un allievo da candidare per una Cloth, ma io non so se avete fatto bene». Rispose lei. Poverina, non poteva immaginare che, in realtà, la stavi per reclutare per una faccenda completamente diversa: «Sì, vieni, ti offro un caffè e ne discutiamo tranquillamente». Poggiandole una mano tra le scapole la sospingesti verso un bar. Vi sedeste a un tavolino esterno, approfittando della bella giornata e dei caldi raggi del sole. Ordinaste due caffè. Fortuna che tu passavi più inosservato, anche se Yoshino era pronta a dirti che non era vero.  
Adesso la giovane era leggermente in imbarazzo. Forse stavi un po’ esagerando, perciò gli spiegasti i veri motivi della tua chiamata.
Il barista arrivò con le vostre ordinazioni e, dopo avervi serviti, si dileguò.
«Scusatemi, credo di non aver capito, mi era stato detto che cercavate…»
«No, mi dispiace è una bugia che ho dovuto dire a esclusivo beneficio del tuo istruttore, altrimenti non mi avrebbe neppure permesso di avvicinarmi; ripeto, non sono maldisposto nei tuoi confronti e non ho richiesto la tua compagnia oggi, per fini lascivi». Ci tenesti a ribadire onde evitare fraintendimenti.
«Allora per cosa mi avete chiamato?» Chiese lei, trattenendo il fulmine che stava per scoccarti con lo sguardo. E fu così che le chiedesti aiuto. Cosa inusuale ma non impossibile. Tutti prima o poi chiedono aiuto, no? Soprattutto quando i tuoi compagni cominciano a morire così, assieme alle costellazioni. «Il mio aiuto? Per cosa?» Domandò la giovane, battendo le palpebre, stupita. E tu le dicesti che avevi bisogno di una persona fidata all’interno della Palaestra, che fosse i miei occhi e le sue orecchie per sorvegliare Ionia. Ti sporgesti verso di lei, intrecciando le mani sul tavolo e le confidasti il motivo che ti aveva spinto a prendere questa decisione. «Perché mai il signor Ionia avrebbe dovuto farlo? Lui ha giurato fedeltà ad Atena», obiettò non convinta.
«Perché trama ancora di spodestarla e rimandarla sull’Olimpo per preservarla dalle sofferenze terrene». Rispondesti tu, che avevi fatto i compiti, quindi avevi compreso con che razza di uomo avevi a che fare.
«Sì, disse proprio questo quando io e Kouga di Pegasus l’affrontammo». Confermò la tua interlocutrice, le sue iridi brillarono di interessamento e timore. E qui le confessasti il tuo timore più grande, ossia che sospettavi che stesse studiando i poteri di Astrid. L’amica di Pegasus trasalì. «Com’è possibile? Eppure si era redento».
«Le persone non cambiano mai veramente». Ribattesti in tono lugubre quanto il cipiglio che percepivi di aver assunto. «E ho potuto vedere di persona, più di una volta Ionia cercare di piegare a sé Astrid av Stjernene tramite il Domination Language». La giovane sussultò portandosi una mano alla bocca. «Ma da solo non ce la posso fare a incastrarlo. Ho bisogno di prove concrete e di una mano per proteggere Astrid e voialtri della Palaestra, ho bisogno che tu mi racconti tutto quello che sai di lui».
«D’accordo, signore, ma è una lunga storia e, dovrò partire dal Silver Cloth dell’Aquila».
«Ho tutto il tempo». E lei ti accontentò. Finì dicendo che aveva restituito il Cloth alla sua legittima proprietaria che era tornata assieme alla vecchia guardia sopravvissuta. «Ionia di Capricorn è famoso per la sua distorta concezione di pietà. Temo che stia cercando di organizzare gli studenti della Palaestra, quelli più spietati e forti, per il suo tornaconto personale. Non dimenticate che lui gestiva una scuola di soldati, prima di essere chiamato come insegnante. Mentre di voi credo che mi possa fidare, sanno tutti che siete il suo oppositore più accanito. Perciò, se c’è qualcosa che possiamo fare saremo lieti di aiutarvi».   
«Per il momento ho solo bisogno che lo teniate d’occhio, ogni quattro giorni salirai alla Decima Casa e mi farai rapporto con la scusa di questi allenamenti».
«D’accordo, nobile Shura, contate su di me».    
Appena finito la riaccompagnasti alla Palaestra e ti fermasti a osservare quei giovani che stavano giocando appena fuori dell’edificio. Li riconoscevi perfettamente dalla divisa che indossavano. 
Il pensiero ti corse inevitabilmente a Ionia. Stringesti la mano destra in pugno, affondata in tasca. Già una volta si era dimostrato capace di questo e altro. L’avevi visto come avesse cercato di soggiogare Astrid, ma chi poteva garantirti che non avesse cominciato a fare esperimenti sui bambini e i ragazzi che istruiva? Per questo passeggiavi tanto spesso vicino alla Palaestra. A un certo punto, a ricreazione, ti arrivò una pallonata in faccia. Che parasti afferrandola con una mano. «Scusate!» Esclamò una ragazzina che corse da te a recuperare il pallone seguita a ruota da un altro bambino. Tu sorridesti loro e dicesti di fare più attenzione, in tono gentile.
«Voi non siete il Gold Saint del Capricorno?» Domandò un ragazzino.
«Sì, sono proprio io». Il bimbo sgranò gli occhi, si volse e gridò a tutti che eri lì. Perfetto, adesso mancava solo Ionia ed eri a posto. Ma l’uomo non si fece vedere. Se solo non avessi avuto quella fastidiosa barriera sul tuo Cosmo avresti potuto intercettarlo. No che non te la saresti mai data a gambe. Non era un’azione onorevole. E poi davanti a te comparvero anche delle bambine che riconoscesti come le ragazzine che ti trassero in salvo. Ti inginocchiasti alla loro altezza, lieto di rivederle, mentre queste due sorelline ti domandavano se stessi bene e ti ringraziavano per aver preso a lavorare con te il loro fratelli maggiori Makis e Makarios. Quelle erano le nipoti di Mino? 
I bambini presero a canzonare la più piccola dicendo che non faceva altro che parlare di te e della tua generosità. Facendo avvampare la piccina. Intanto anche i bambini
«Se vedete qualcosa che non va correte a dirmelo». Ti eri raccomandato con una delle bambine che indossava la maschera inespressiva delle Sacerdotesse. Un volto di donna incongruo su un corpicino così giovane, da sembrare quasi grottesco. Le ponesti una mano sulla testa. Forse, uno dei pochi gesti d’affetto che avrebbe mai ricevuto all’interno del Santuario.  
«Come facciamo a saperlo?»
Bella domanda. E ora ne avevi un’altra ancora più complessa: come facevi a spiegare a dei bambini che cosa era un abuso? Cercasti le parole giuste per farglielo capire: «Se cerca di usare la propria tecnica su di voi o vi conduce contro il Santuario, se vi fa del male al di là degli allenamenti e dell’insegnamento, se cerca di farvi del male e voi non volete correte da me». Spiegasti in soldoni.   
«Abbiamo capito noi». Dissero più grandicelli che si erano assiepati assieme ai più piccoli.
«Bene, allora posso contare su di voi per proteggere gli altri?»
«Sì». Promisero i giovani Saint.
Fortunatamente non dovevate far altro che presenziare ai banchetti e seguire la Dea, assistendo anche alle trattative. L’Ambasciatore, o meglio il giovane Sea Dragon sembrava conoscere Astrid. I servitori sfilavano attorno a voi servendo vino e portate. Tra loro c’era anche Astrid, la quale trasalì quando r il Marine di Sea Dragon la salutò affabile e intrattenne una breve conversazione con lei. La tavolata si spaccò a metà tra sguardi preoccupati e divertiti.
«Da quando si conoscono?» Chiedesti ad Aiolia, che era seduto vicino a te.
«Non ne ho idea». Rispose confuso il tuo protetto. Colui che, stando al principio del Chugi che ti imponeva immensa lealtà verso colui di cui ti prendevi cura, quasi come ad Atena. Saresti rimasto fieramente fedele a lui e alla Dea. Per loro eri riuscito a farli tornare tutti indietro, a casa e a concedere una nuova vita ai tuoi compagni e a te stesso.  
Il giovane ospite lasciò andare Astrid, che si rifugiò in cucina assieme agli altri.
«Conoscete la nostra Astrid?» Domandò Kanon con falsa nonchalance.
«Oh, ci siamo incontrati pochi giorni fa, mi sembrava che leggesse la mano a chi lo desiderava. Io le ho detto che era impossibile e lei per provarmelo ha letto la mano di uno dei miei sottoposti». Ribatté il giovane sfoderando un sorriso a trentadue denti. «É forte, non mi aspettavo che fosse un’ancella, lì per lì avevo pensato che fosse una Saintia, si chiamano così, no?»
«Sì». Confermò Kanon, mentre Lady Isabel continuava a mangiare come se niente fosse, ma a nessuno di voi sfuggì l’irrigidimento delle sue spalle. «Ma a causa di un incidente è stata congedata dal servizio».    
Il Marine si accigliò: «Un incidente?»
«Sì, qualcosa alla testa, non ha ancora recuperato tutta la memoria e il suo Cosmo». Continuò Kanon con naturalezza. Ti portasti un calice alla bocca. Beh, in fondo, questa era una mezza verità, ed era pure credibile, considerando il posto dove vi trovavate.
«Mi dispiace». Fece, sinceramente contrito, «A che Armatura era destinata?»
«All’Armatura di Andromeda». Chiosò il Gran Sacerdote.
«Quindi una Bronze Saint».
«Esatto».
«Beh, lasciatevelo dire ma quella è comunque un genio, non ho mai visto una tecnica simile, tanto coraggio e caparbietà anche per tenere testa al mio sottoposto quando si è infuriato. Io fossi in voi l’avrei destinata a una Silver, magari una Gold Cloth».
«La Cloth di Andromeda non ha niente da invidiare a quelle d’Oro». Ribatté Aiolia a quel punto, prendendo parola e guadagnandosi gli occhi di tutti. Pregaste che non facesse una gaffe. «Alcuni dei nostri compagni d’arme qui presente in origine erano Bronze Saint e tutti noi, abbiamo visto compiere miracoli a questa schiera. Non possiamo che essere fieri di averli come confratelli. Noi crediamo nell’uguaglianza tra i soldati, troppo a lungo ci siamo inorgogliti e abbiamo avuto torto, adesso ammettiamo tranquillamente che anche il meno potente di noi può fare la differenza. Persino le Saintia hanno dimostrato di possedere uguale forza di volontà e Cosmo». Gli deste ragione chi più chi meno platealmente. Mentre i cinque ex Bronze sorrisero alle parole del Cavaliere di Leo. Inoltre, sapevate perfettamente che lui fu il primo a credere nei Bronze, già ai tempi della Titanomachia, quando fu mandato da Retsu della Lince. Addirittura sfiorando appena l’argomento “distruzione di Atlantide per opera dei Bronze presenti”. «Parole molto lodevoli, Gold Saint di Leo». Concesse il Marine sorridendo affilato. Il resto della cena proseguì tranquillamente e Astrid non fu più interpellata.
Avevi già abbastanza cui pensare. Non ultimo a Saga. Eri preoccupato per lui, si vedeva che non stava bene.
Stavi tornando alla tua Casa quando vedesti Astrid appollaiata sul davanzale di una finestra a guardarsi le mani luminescenti e a sospirare.
«Astrid.» la giovane si immobilizzò di colpo. «Shura!» Esclamò, spegnendo la luce delle mani e, precipitando il luogo nella penombra originale. Battesti le palpebre per abituarti, poi, le domandasti: «Tutto bene?» Domandasti.
«Sì, io… non volevo mettervi in imbarazzo, davvero, non immaginavo che quello fosse lo stesso ragazzo che ci ha aiutati al cimitero».
«Non preoccuparti, va tutto bene. Vieni un attimo con me, ti devo parlare». Le dicesti, sperando di essere risultato meno inquietante di quello che temevi. Sapevi che non era la frase migliore da dire per ingraziarsi una persona spaventata, ma non ne conoscevi altre. Lei obbedì mantenendosi a un metro di distanza da te, pronta a fuggire in caso di attacco (che non sarebbe mai giunto). 
La portasti in un angolino appartato e la guardasti. Lei ricambiò stringendo i pugni, che, stavolta, s’illuminarono di una luce dorata. «Non voglio farti nulla». Mormorasti allo stesso tono di come si mormora a un animale spaventato. «É tutto a posto, voglio solo essere sicuro che vada tutto bene».
«E allora che senso ha avuto portarmi qui?» Ribatté, guardinga, alzando le mani in una posizione di difesa. «Di garantirti la mia parola d’onore di Gold Saint che non ti torcerò un capello e che non ho alcuna intenzione di macchiarmi di un omicidio, non della persona che voglio proteggere. Puoi considerarlo una sorta di giuramento». Spiegasti.
«Proteggermi?» Domandò sbalordita abbassando le mani; «Perché?» Tu glielo dicesti. «La Luce Ombrosa?» Domandò.
«Temo di sì, quello che ti chiedo è di mantenere segreto quanto tu possa aver visto e sentito e di stare alla larga dal Marine di Sea Dragon e da Ionia di Capricorn».
«L’insegnante della Palaestra?»
«Lo conosci?» Chiedesti sorpreso inarcando le sopracciglia. Che si ricordasse del viaggio astrale che l’aveva portata a dormire tra le braccia di Lancelot? «Di vista, anche se lo sento nominare spesso dai ragazzini cui do ripetizione di fisica e algebra».
«Bene, stagli lontano».
«Non che avessi intenzione di avvicinarmi ma, posso sapere perché?»
«É pericoloso».
Lei si accigliò: «Non parlarmi come se fossi una bambina».
«Lo so che sei una donna, lo vedo, ma se non te lo dico è perché non voglio impensierirti ancor di più, che a causa nostra ne hai già dovute sopportare tante». Ti scusasti un po’ per tutto, anche per quello che era accaduto solo l’altro ieri. Lei ti guardò meravigliata, prima di cominciare: «Apprezzo il gesto…»
«Ma devi lasciarmi fare, solo io so come fermare Ionia, per favore, fidati di me, Astrid».
Lei restò zitta a lungo, meditabonda. Poi ti guardò negli occhi con sguardo risoluto e parlò: «Yoshino si fida di te, Aldebaran si fida di te, Aiolia si fida di te, mi fiderò anch’io». Decise, cercando di trasmettere determinazione con lo sguardo. Annuisti. Stavi per farle promettere di non farne parola con nessuno quando ti venne un’idea migliore, dopotutto era una chiromante, magari dove non potevano arrivare Yuna e gli altri arrivava lei. Però era anche vero che era soltanto una civile e, che il principale obiettivo di Ionia era proprio lei. No, non potevi chiederle di unirsi alle vostre indagini. A richiamarti fu proprio lei. «Shura?»
«Farò in modo che tu sia al sicuro». Promettesti. E, quando un samurai promette, non c’è bisogno di avere la sua parola, la sua parola è azione.
«Per quanto riguarda il Marine, dipenderà da Kanon o da Zenais, non da me». Ti ricordò.
«Lo so, fai comunque attenzione. Buonanotte».
«Anche a te». Astrid era una ragazza molto assennata, eri certo che avesse compreso. E, se era sufficientemente intelligente, sperasti che non si ficcasse ulteriormente nei guai. 

Astrid
Tornai in cucina e mi sedetti alla tavolata, ormai semi deserta. «Spegni tu la luce?» Mi domandò Roni, una delle cuoche pulendosi le mani a uno straccio che poi abbandonò sul lavandino. 
Mi ricomposi e le sorrisi con un cenno d’assenso alla greca. «Tutto a posto?» Le dissi di sì ma lei insistette e mi chiese se fosse per via del Marine di Sea Dragon. Ormai la voce sul fatto che io e lui ci conoscevamo si era sparsa. Notando la mia espressione angosciata mi domandò anche in tono mite se mi avesse fatto qualcosa. «No». Mi portai la mano alla bocca e mi accartocciai la parte inferiore della faccia, pensierosa. Roni avanzò preoccupata verso di me. «Stai bene?» Glielo potevo anche dire, lei era una delle poche persone che non faceva caso alle chiacchiere che si dicevano in giro. Era quel tipo di persona che preferiva farsele entrare da un orecchio e uscire dall’altro. Ma non era quella che poteva aiutarmi. Probabilmente l’avrei solo messa in pericolo. «Sì».
«É per via del Sommo Kanon?» Appena lo tirò in ballo la guardai confusa. E adesso che c’entrava? Lei farfugliò qualcosa ma io non capivo di che parlasse. «Tra noi?» La imboccai riprendendo le uniche parole che avevo recepito con chiarezza. Lei non ce la fece più e lo disse chiaro e tondo dopo aver allargato le braccia un momento e mosso la testa di lato: «Oh andiamo, lo sanno tutti che vi amate».
«Cosa? Ma noi non… Sì, è vero, è vero, hai ragione». Mentii dopo un lampo di genio. Le voci sulla mia tresca con lui ancora persistevano. Tanto valeva sfruttarle un po’ anche se non mi piacevano granché. Lei s’illuminò tutta e congiunse le mani come in preghiera, gli occhi brillanti: «Quindi è vero che siete amanti!»
«Sì, è vero», mi sforzai di sorridere e simulai imbarazzo. Meno male che avevo avuto questo colpo di genio, altrimenti non sapevo proprio come mi sarei svicolata. Abbassai il capo sorridendo nervosamente: «Ma lui è abbastanza geloso e non vorrei, beh, non vorrei che le trattative andassero male per colpa mia. D’altronde per una donna una volta scomparve la città».
«Ah, non preoccuparti per questo, il Sommo Kanon è un uomo molto assennato. Quindi da quanto è che va avanti? Raccontami tutto, è bravo?» Mi pettinai una ciocca con le dita, cercando di simulare imbarazzo e guardai in alto a destra fingendo di ricordarmelo. In realtà stavo cercando di ricordare alcuni hentai yaoi che avevo letto. Manga erotici che a volte sfociavano nel porno. Quelli het non mi dicevano nulla, ero stufa di vedere sempre le donne in primo piano. Sperai di essere arrossita abbastanza da essere convincente. Però non mi dette neanche il tempo di parlare che lei disse: «Oh, ma il Sommo non si arrabbierà se parli di lui?»
«Oh, mia cara, credo proprio di no». Con la reputazione che stavo per dargli da lì in poi non si sarebbe arrabbiato neanche per scherzo. Il mio maestro nell’angolo che ascoltava allibito, credo. Solo quando Kanon divenne il Rocco Siffredi del Santuario, Roni fu soddisfatta e se ne andò.
Solo allora il mio maestro parlò: “A parte le tue conoscenze amatorie, invero piuttosto nutrite, per cosa sei davvero preoccupata?”
“Lui mi ha vista, quel Marine deve avermi vista al cimitero monumentale”. Se non avessi avuto quell’imput avrei finito per dirlo alla persona sbagliata. Abbattei il palmo sul tavolo che produsse un rumore che si propagò per tutta la stanza. Poi lo ritrassi. Dèi, detta così suonava male, sembravo una Sacerdotessa-Guerriero disonorata. Invece era molto peggio. Quella sottile inquietudine stava andando ad alimentare la paura e a minare il mio già fragile equilibrio emotivo. Non immaginavo che fossimo spiati. Quando mi aveva rivolto la parola mi ero sentita scoperta, come se qualcuno avesse strappato via un travestimento. In effetti ero un’ancella della Tredicesima. Ma ero anche la Luce Ombrosa e quello lo sapeva. “Sei sicura?” Chiese improvvisamente attento.
“Sì”. Non era vero che mi aveva visto in giro e avevo letto la mano a uno dei suoi sottoposti. Io non li avevo neanche incontrati. Doveva avermi visto per forza durante quello scontro. Avrei dovuto dirlo ad Aiolia o a Kanon. Mi portai le mani giunte sotto al mento e continuai a tenere lo sguardo basso, come se parlassi al tavolo. Le parole di Shura avevano gettato un’ulteriore ombra sul mio umore. Già temevo di essere in pericolo. Il mio maestro mi aiutò a farmi ragionare e mi impedì di andare alla deriva. Poi mi consigliò di dormirci su. “Vorrei, ma con questa ansia non so come fare”. E poi anche se avessi spento la luce e avessi dormito non sarebbe cambiato nulla. Lui mi consigliò di farmi un decotto di malva, passiflora, melissa, camomilla e finocchio. Mi spiegò come farlo e disse che mi avrebbe aiutato a dormire. Meno male che avevamo tutte le erbe necessarie.
Il sapore non era granché neanche col miele ma lo buttai giù. Quella notte crollai come un sasso. 

Kanon ritenne più opportuno nascondermi. Non potevamo sapere cosa avesse detto ai suoi colleghi.
Forse avrei dovuto parlarne con Aiolia ma non potevo osare tanto adesso. O forse avrei dovuto parlarne con Shura. Ero ancora sorpresa dalle sue parole e avrei anche potuto fidarmi di lui: le mie tecniche facevano altamente schifo. Doveva aver percepito il mio stato d’animo perché avevo ancora la sua energia. Lo scoprii il giorno stesso che parlai a Kiki delle Mole di Narni. Con una meditazione riuscii a richiamarla tutta nel palmo delle mani. Quell’energia dorata che a volte mi corrompeva e che, spesso, mi aveva portato a uscire per cercare di incontrarlo. Non mi stavo innamorando di lui, al solo pensiero di baciarlo mi veniva da urlare e gettare via qualunque cosa avessi in mano. Era stata mia madre, al telefono, a dirmi che l’energia voleva tornare da lui. «Le carte dicono che gliel’hai presa per restare in vita».
«Ah, dev’essere successo prima del processo». Lo avevo raccontato alla mamma prima che mi chiamassero per cercare di salvare i morti. Mia madre non poteva immaginare quanto fossi sollevata dalla notizia. Lode allo psicologo e ai miei amici, erano riusciti a farmi smettere di parlare al niente. L’idea di innamorarmene mi atterriva. Checché ne dicesse Yoshino, che cercava di mettere una buona parola per lui. Avrei preferito l’energia di chiunque altro, ma d’accordo, prima o poi avrei trovato il modo e il coraggio di restituirgliela. Bello sì, ma troppo inquietante.       
Ancora di più mi preoccupavano i miei poteri e i miei ricordi. Persino il mio maestro mi guardava preoccupato. Più volte lo sentii domandarmi “Cosa c’è?” Ma io non rispondevo, se non stringendo i pugni e distogliendo lo sguardo da dove, sicuramente era. Se i miei poteri avessero avuto degli effetti collaterali sulle altre persone? Dopotutto stavamo parlando di luce, ombre e stelle. Soprattutto stelle, se per caso, quelle stelle avessero anche rilasciato delle radiazioni? No, non poteva essere, se no sarei morta anch’io. Feci qualche respiro profondo per cercare di calmarmi.
Gli effetti delle radiazioni li conoscevo, avevo visto anch’io dei documentari su Hiroshima e la bomba atomica. Sapevo cosa succedeva. E non essendo io atta a contenere queste radiazioni sarei stata condannata anch’io fin da subito. Che senso avrebbe avuto avere un potere che uccide prima di tutto il suo possessore solo perché ce l’ha? Nessuno, anzi, sarebbe stato addirittura ridicolo. E, sì che io ero abbastanza ironica, ma non ci avrei trovato niente da ridere neanch’io in quel caso.  
In Natura tutto ha un senso, noi come esseri viventi eravamo parte di Lei. Quindi, no, non aveva senso che io mi autodistruggessi per questo potere. La spiegazione doveva essere per forza un’altra.   
Se quei Saint non fossero stati uccisi dalle Creature? Ma se fosse stata la loro stessa costellazione a ucciderli, risucchiando loro l’energia vitale? Se ciò stesse succedendo anche a Death Mask e Aphrodite e tutte le persone che avevo resuscitato? Avevo sentito bene ciò che mi aveva detto Shura, ma questo non cambiava la mia opinione. Dopo tutto non sapevo neppure io che potere avessi davvero, al di là di tutto quello che stavo ricordando e riscoprendo, come la naginata.  
“Astrid”, mi chiamò il mio maestro, preoccupato, per la seconda volta.
Scesi dal davanzale della finestra portandomi le mani alle tempie e, cercando di riportare un po’d’ordine nella mia mente. Sentivo che stava arrivandomi una crisi e dubitavo veramente che sarebbe bastato così poco per fermarla. Anche se il mio povero maestro mi aveva già posato le mani sulle spalle e le stringeva come se avesse potuto ancorarmi alla realtà, così facendo. “Astrid, che hai?” Disse e io sentii la sua voce arrivarmi davanti, mentre cercavo di focalizzare la mia attenzione su qualcos’altro. Accidenti, non ero ancora capace di controllarmi. “Ho paura”.
“Lo vedo, ma perché?” Chiese premuroso.
“Perché quel ragazzo…” E gli raccontai tutto quello che era successo quando ero tornata in Italia e, il modo in cui avevo fatto ritorno al Santuario. Il maestro ascoltò tutto senza interrompere. Pensai addirittura che se ne fosse andato, visto che non sentii più la sua mano. Ma poi disse “Quindi tu temi che a causa tua siano morti?”
“Anche”. Avevo preso il vizio di disseminare le informazioni a giro. Avevo detto la verità a Roni, ma anche al mio maestro. Che, poverino, non ci capiva niente. Non che mi fidassi troppo di lui. Il sospetto permaneva ancora, ma in questo momento era il male minore. Inoltre, avevo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Sarebbe stato sciocco non farlo. Non ero così fuori di testa da pensare a me come persona, mi andava bene essere protetta anche in nome del potere che custodivo. Qualunque esso fosse. Era il massimo che potevo chiedere in un ambiente come questo.
“Maestro, per favore”. Se non l’avessi fatto, probabilmente avrei condannato inutilmente altri Saint “Non farmici pensare e non fare niente, per favore”.
“D’accordo, però non credo che fossero morti per mano tua”.
“Sì, forse avete ragione” Percepii il suo sguardo stupito su di me e gli spiegai tutta la faccenda delle radiazioni. Lui convenne con me. “Ma se è così chi li ha ammazzati?” Dissi allora.
“Credi ancora che ci sia lo zampino di Neera?” Che ormai si stava sciroppando ipotesi su ipotesi da parte mia. Io davvero non avevo idea di dove trovasse tutta quella pazienza per ascoltarmi e per non lanciarmi che so un anatema, qualcosa. O forse a metà si appisolava, ma ne dubitavo, lo sentivo troppo attento e io dovevo stare attenta a non pensare cose che non stavano né in cielo né in terra. Tipo il mio innamoramento per lui. Anche se, almeno da una parte continuavo a mascherarlo, se avessi smesso di mangiare per l’inappetenza mi avrebbe convinta a farmi visitare da Shun, come minimo. “Ne sono sicura”, dichiarai, stringendo la mano in un pugno, “ma non so come dimostrarlo”.
“Non dovresti immischiarti in questi affari, sono pericolosi”.
“E io no? Guardami, maestro, guardami, sono un luccio, uno squalo ficcato a viva forza in mezzo a un laghetto di trote, una lampreda un... Mi stava venendo fame solo a nominare il pesce”. Feci quando il mio stomaco rumoreggiò sonoramente. Lo sentii ridacchiare sommessamente, divertito per questa variazione sul tema. Mi alzai e mi preparai uno spuntino dopo aver frugato nella cambusa. Spuntino che consumai anche abbastanza velocemente. “Se non altro, adesso non hai più l’ansia”. Commentò mentre mangiavo. Poi presi il decotto.       
Sognai di trovarmi in un borgo medievale, di quelli che si vedevano ne Le fiabe sonore. In questo caso era come essere finita in una di queste storie, no, non era una di quelle. Questa era la favola crudele di Kaori Yuki, L’angelo e le fate. Nella favola un angelo cadde dal cielo e, s’innamorò di una fanciulla. Vidi me stessa con indosso un abito con il corsetto rosso, la gonna lunga da contadina color arancione e una camiciola con le maniche a palloncino in perfetto stile tirolese (o quasi) con tanto di cuffia. Io rappresentavo la fanciulla? Oh, no. Nel sogno alzavo gli occhi al cielo e vedevo precipitare qualcosa nel bosco che non riuscivo a capire cosa fosse. Quello doveva essere l’angelo? Ossignore.
A un tratto la scena cambiava e mia madre mi mandava a fare legna nella foresta. Improvvisamente mi ritrovai invischiata in un cerchio di silfidi che mi trascinarono nelle loro danze eterne. Cercai di liberarmi ma la presa era sempre più forte. No! No, non doveva finire così! No! «No. No!» Cominciai a divincolarmi e mi accorsi che il mio corpo faceva tutt’altro. Continuai a urlare e divincolarmi, ma il mio corpo non mi obbediva. Camminava contro la mia volontà. Sgranai gli occhi nel sogno. Le silfidi si trasformarono in mostri di un verde sporco con crudeli occhi rossi, radici contorte per capelli e corpo di legno e fango. La favola finiva che l’angelo, per salvare la giovane che amava, incoccò la freccia dell’amore e la uccise. Sicché lei potesse ascendere al Paradiso. Sentii il rumore dell’arco.
Urlai con tutta la forza che avevo e stavolta riuscii a coinvolgere anche il mio corpo, svegliandomi. Solo per ritrovarmi nello spazio, con numerosi pulviscoli fluttuanti e rocce di varia grandezza che volteggiavano tutto attorno a me. Capitai l’odore di morte e decomposizione. Sussultai e mi portai una mano a tappare le narici e la bocca, arretrando e guardandomi attorno, mentre sotto di me sembrava di camminare su sabbia o qualcosa che si disfaceva con uno shish shish inquietante. Abbassai lo sguardo e urlai terrorizzata: erano resti umani. E il ventaccio li sollevava, rischiando che io li respirassi.      
Non l’avevo mai visto prima, sembrava quasi di essere entrati in un’altra dimensione. E non era quello che cercavo. «Che posto è questo?» Chiesi spaurita, guardandomi attorno, senza purtroppo avere idea di dove fossi, ma avendo anche troppo chiaro che fossi sveglia. «Non era meglio se tu avessi continuato a dormire e fare un bel sogno? Almeno ti saresti risparmiata questa desolazione. Io non mi muoverei fossi in te». Disse una voce, sovrastando il vento impetuoso che mi scompigliava i capelli, facendomi rabbrividire e smuovendomi la camicia da notte. «Questo è una sorta di Terra di Mezzo, diciamo così. Se vai avanti entrerai nel Regno dei Morti. Poiché sei viva il tuo cuore cesserà di battere e morirai. Invece se tornerai indietro, ti salverai». Ribatté la voce maschile. Dal pulviscolo avanzò un uomo con un lungo telo bianco in vita che ondeggiava assecondando la corrente. La faccia coperta da un turbante dello stesso colore. A spaventarmi fu l’enorme spada gialla e fucsia che trascinava. Non ne avevo mai vista una lunga cinque metri con il guardiamano di due. Solo dopo mi accorsi che non era materiale. “Ossignori, aiutatemi voi.” pensai spaventata.
Quando fu più vicino se lo sciolse un po’, pensando che mi sarei tranquillizzata nel vederlo in faccia. Era un giovane dal volto rotondo e pieno, forse sui diciotto; incorniciato da un imbarazzante caschetto di ondulati capelli e rosa (almeno credo che lo fosse). Gli occhi dal taglio tondo, le iridi di un colore tra l’arancione e il giallo, quasi cangiante. Il naso a patata e le labbra carnose che non gli donavano. E fu quella bocca ad aprirsi in un sorriso inquietante e folle, peggio di quelli di Lancelot: «Ma ovviamente, tu non salverai solo te stessa, dovrai riportare indietro anche me, Incantatrice. Per questo ti ho chiamato». Nonostante tutto a spaventarmi era ancora la sua spada d’energia, che illuminava l’ambiente circostante. «Riportarti indietro? Perché? Chi sei? Che cosa vuoi? Perché io? Perché mi chiami Incantatrice?» Domandai.
«Perché sei l’unica persona che può aiutarmi a uscire da queste lande. Noi morti dobbiamo aggrapparci a qualcosa di reale, di vivo, per uscire e mi è giunta voce che l’unica capace di tanto sia proprio tu». 
«No, non farò niente di tutto questo, i morti devono restare sotto terra».
«Immaginavo che mi avresti detto di no, per questo ho portato con me la Spada Maledetta Clarent». Accennò alla lama gigantesca. «Perciò sarò più chiaro: non potrai uscire da qui finché non avrai accettato».
«Se mi ammazzi non uscirai mai da qui». Riuscii a dire meravigliandomi di come le nostre voci fossero naturalmente amplificate nonostante il vento.
«Giusta osservazione, per questo vorrei evitare un inutile spargimento di sangue. Ma questo, ovviamente dipende da te».
Arretrai istintivamente e lui avanzò. Non mi servivano le mie capacità per capire di essere finita nei guai. La mia mente mi riportò un passo di una leggenda trentina: Piano con la volta che il morto ha poca forza. Nella leggenda i morti non potevano abbandonare il luogo della loro morte, pertanto invitavano delle fanciulle a danzare con loro invitandole a una festa. Sembrava di essere finita nella versione pericolosa della favola.
«Tu non puoi uscire dal tracciato delle mie orme, non è così?» Indagai cercando di prendere tempo. Più io arretravo più lui acquistava terreno verso la vita. Ma lui non si scompose, anzi, mi guardò infastidito. Ma non capivo se fosse per il rumore assordante dei resti sotto di noi. «Uh, che maniera scontrosa di rivolgersi al Re dei Gladiatori!»
«Re di cosa?» Chiesi perplessa. Mi guardò deluso. Perciò si affrettò a rimediare, con stizza. «Io sono Mordred, principe di Camelot, figlio di quell’inetto di Re Artù e di sua sorella Morgause».
A quelle parole sgranai gli occhi, arretrai di tre passi e mi portai le mani alla bocca. «Colui che nacque per abbattere il Re Cervo». Esalai impaurita lasciandole scivolare giù. Conoscevo quasi a menadito i miti e le leggende del ciclo bretone e arturiano. 
«Mi conosci allora; molto bene, non necessito di altre presentazioni. Sì, io sono il portatore della spada maledetta Clarent che un tempo appartenne al mio caro padre Artù». Mosse la spada tutto soddisfatto. Non immaginavo che avessero anche un nome: «La spada con cui liberò le genti dall’invasione del popolo sassone e voglio che tu mi porti da colui che brandisce la Sacra Spada Excalibur». Tutti conoscevano questa storia, anche grazie a Marion Zimmer Bradley.
«Perché dovrei?» A quel punto non riuscì più a celare l’impazienza. Fece molta fatica a controllare la voce, per evitare di darle la parvenza di un ruggito di rabbia. «Perché voglio vendicarmi, per avermi trafitto senza pietà. So che adesso prova dei sentimenti, quindi voglio vederlo soffrire in tutti i modi possibili e immaginabili.» s’avvicinò e io arretrai di un altro passo. Accidenti. Lui sorrise di nuovo: «E così reagisci alla paura? Molto bene». Fece per spostare la lama ma tesi le mani verso di lui esclamando: «Aspetta!» Si fermò. «Non c’è bisogno di usare la violenza!»
Mi guardò dritta negli occhi e sussurrò, in tono più dolce e vellutato: «Mi aiuterai, non è così? Pensaci bene, potrei decidere di risparmiarti la vita, se mi darai la risposta giusta». Stavo per dire no. Era ovvio che mi avrebbe ammazzata lo stesso anche se avessi accettato, dopotutto, le regole erano chiare. I morti non potevano restare tra i vivi e, se così era, allora, qualcun altro doveva scendere negli Inferi a prenderne il posto. Il mito di Alceste era un esempio lampante. “Maestro! Maestro? Dove sei? Rispondi!” Lo chiamai ma non mi arrivò niente. Lui non era qui, era rimasto indietro, verso il Regno dei Vivi. Mi balenò in mente un’idea. Lui era armato di spada, mentre io ero disarmata. Non percepivo in lui nessuna costellazione. Neppure un Cosmo (mi ero ricordata come si faceva, ma non riuscivo ancora a percepirli bene) e i miei poteri erano inutili. Ma forse, se fossi riuscita a portarlo al Santuario, ci avrebbero pensato gli altri a farlo fuori. Vero che c’erano anche i Marine, ma forse sarebbero riusciti a insabbiare la questione. Soprattutto il mio maestro, che doveva essere a cercarmi preoccupato. Forse se fossi stata abbastanza veloce, se fossi riuscita a contattarlo… «Farò anche di meglio».
«Ossia?»
«Ti condurrò da lui. Però non so come uscire da qui».
«Non c’è problema, per quello basterà tornare da dove sei venuta». Eravamo appena tornati nella nostra dimensione quando avvertii di nuovo la melodia. Se fossi riuscita a seguirla forse avrei potuto fare qualcosa in concreto. Stavo facendogli fare il giro lungo apposta. Ormai conoscevo abbastanza queste montagne per capire dove ci trovassimo, quali sentieri prendere e quali, invece, non prendere. Lo stavo portando verso il Santuario, sì, ma per la strada più lunga, invece che per la scorciatoia. E questo mi seguiva mentre io, in cuor mio cercavo di risentire quella voce, di sintonizzarmi di nuovo con la grotta e percepire le membra alleggerirsi. “Maestro?” Riprovai.
“Astrid!”
“Maestro!”
“Dove sei?”
“Sulle montagne, chiama aiuto, manda i Gold Saint!”
“Che sta succedendo? Di chi è quel Cosmo ostile che sento?”
“Un morto si è aggrappato a me! Non so come sia successo, mi sono svegliata ed ero in un posto ventoso e spaventoso, camminavo su resti umani!”
“Il portale che collega il Regno dei Morti a questo!”
“Lo conosci?”
“Sì. Dove sei? Che ti ha fatto?”
“Mi sta costringendo a condurlo al Santuario da Shura di Capricorn, lo vuole uccidere e ucciderà anche me!”
“Cerca di rallentarlo più che puoi.” Mi istruì. “Stiamo arrivando, lo sentiamo appena ma stiamo raggiungendovi”. Mi avvisò. “Non so se ho tutto questo tempo se tiene il Cosmo azzerato!” Digrignai i denti. “Non ho altra scelta”.  Forse potevo sfruttare quella sensazione che stavo sperimentando. Accelerai il passo fendendo il vento che aveva iniziato a soffiare, costringendo Mordred ad accelerare il passo mentre quasi i miei non toccavano terra. Quando fui sicura che fosse abbastanza concentrato su di me per non destare sospetti, accelerai ancora e, improvvisamente mi girai quasi con un volteggio e mi ritrovai il filo della lama di Clarent puntata alla gola. Dissolvendo l’incantesimo. «Credevi di prendermi per i fondelli? Non sono nato ieri». A causa della conformazione del paesaggio era obbligato a tenerla così. Forse potevo sfruttarla a mio vantaggio. 
«Vero, ma sei accecato oggi». Replicai e gli premetti repentinamente le mie mani sugli occhi, facendo aumentare la loro luminosità al punto che emulai l’Ipernova ASASSN. La luce che si sprigionò dalle mie mani fu così accecante che illuminò tutta la zona come se fosse pieno giorno. Ma non fui sufficientemente veloce che Mordred, muovendosi, mi tagliò la gola, togliendomi il fiato. Il taglio bruciava mentre l’aria entrava dalla ferita che grondava abbondantemente sangue. Mi afferrai la gola mentre quello arretrava urlando: «I miei occhi! I miei occhi!»
Cercando di tamponare la ferita provai a rialzarmi ma non ce la feci. Ricaddi a terra e tentai di strisciare via, intanto che facevo leva sulla mia tecnica di rigenerazione per risanare la ferita. Sentii le cellule risanarsi sotto la pelle della mia mano e richiudere la ferita che, nell’arco di mezzo minuto, non c’era più. Ormai in iperventilazione ripresi ad arretrare. Mi aggrappai alle rocce per rimettermi in piedi e poi mi alzai e, dopo un momento di stordimento, cominciai la mia fuga. Più simile alla camminata veloce e barcollante di un ubriaco che ad altro, per dirla tutta. Nella mia mente rimbalzava un unico pensiero, neanche fosse un mantra: “Mi ha tagliato la gola. Mi ha tagliato la gola”. Anche se la ferita non c’era più, non riuscivo a togliermi il dolore del momento dalla testa. Dovevo anche scappare, non si sarebbe certo fermato lì e dubitavo che sarebbe rimasto accecato per delle ore. Proprio allora la paura ebbe la meglio e mi alzai definitivamente in piedi e cominciai a correre via, senza neppure sapere dove andavo. Credo di essere andata a sbattere almeno due volte contro dei massi e di essere inciampata altrettante prima che delle braccia d’oscurità mi afferrassero e mi sollevassero in aria di una dozzina di metri. Cominciai a scalciare e divincolarmi e, qualcosa nella mia mente si ribellò. “Non finirà così!” Esclamai e, in quelle parole, tutta la mia voglia di vivere e la mia determinazione eruppero dentro di me, dandomi una forza che non avevo ancora conosciuto. E, le luci fosforescenti comparvero attorno a me. «No! No! Lasciami andare!» Urlai a squarciagola e conficcai una mano nella morsa che mi stringeva. Le luci ci si catapultarono dentro e, l’arto che mi sorreggeva andò distrutto sicché io, con un altro grido, piombai a terra. Due durissime braccia di metallo mi presero al volo, anche se finì per inginocchiarsi sul sentiero. «Presa». Affermò una voce che conoscevo bene al mio orecchio e mi ritrovai a guardare due sorridenti, folli, occhi rossi.
«Lancelot!» Esclamai sorpresa.
«Per servirvi, milady». Scherzò il Cavaliere in Armatura. Così si spiegò il mio atterraggio doloroso.  
Non ebbi il tempo di dire niente che una mano di oscurità si abbatté addosso a noi. Ma Lancelot, continuando a stringermi, saltò via, evitandola. Mi aggrappai istintivamente a lui per non cadere, ma non potei fare niente per impedirmi di non urlare. Atterrammo su un picco, lontano dal polverone che sollevò e, mentre le Creature cominciavano a sciamarci intorno, lui cercò di calmarmi, tenendomi stretta a sé. Ero talmente terrorizzata che non m’importava di ferirmi battendo le mani sulla sua corazza. Non so dove trovò la pazienza di sopportare i colpi da batteria che gli rifilavo. Io non so come feci a non percepire il dolore. Finché non si stufò e me li acchiappò entrambi con una mano sola. Avendo i polsi sottili non fu così difficile: «Calma, fermati, smettila per favore, smettila di piangere, va tutto bene, adesso ci sono io. Respira, ti prego, respira, non costringermi a tramortirti, respira, ecco, brava, così, più piano, così...» Difficile non dargli retta quando un tizio s’insinua nella tua testa e prende il comando del tuo corpo con la telecinesi. Fatto sta che mi calmò davvero. «Lancelot io... Io...»
«Va bene, non preoccuparti, ne parliamo dopo, adesso, potresti allontanare le Creature o è di troppo disturbo?» Domandò, con una vena di ironia che mi lasciò interdetta. Giusto, le Creature ci stavano ancora svolazzando intorno. Feci come mi aveva chiesto. Poi gli domandai: «Perché non siete venuti subito, appena lo avete sentito?»
«Pensavamo fossi capace di stenderlo da te, tanto controlli le Creature, ma non pensavamo che potesse essere Mordred. Quando ho riconosciuto il suo Cosmo sono accorso immediatamente».
«Già, le Creature, i miei poteri, neanche loro, non hanno effetto su di lui, è perché è così potente?» Riuscii ad articolare. Avrei preferito non scoprirlo a questo modo. Il mio salvatore schioccò la lingua contro il palato e una smorfia stizzita comparve sul suo volto: «Temo che sia perché non appartiene a questa dimensione neanche lui e che è morto». Non dissi niente. E lui: «Lo sapevi?»
«Come se non sapessi che non si possono uccidere gli spiriti ma che loro se vogliono, possono uccidere noi? Sì, lo sapevo». Speravo che, in quanto neo risorto, la situazione fosse diversa.  
«Sei fortunata che ti abbia trovato io: gli spiriti sono il mio pane quotidiano. Ti lascio qui, a lui ci penso io». Disse deponendomi a terra, guardandomi negli occhi con intenzione. Ricambiai il suo sguardo, annuii e corsi via. I colpi che si scambiavano i due erano talmente forti che facevano vibrare le rocce come se ci fosse il terremoto e, a un tratto, persi l’equilibrio e caddi in un crepaccio.
Sprigionai un urlo di tale potenza che credetti di essermi lacerata i polmoni, però non raggiunsi mai il suolo perché fui acchiappata al volo da un paio di braccia avvolte in un’Armatura.  Mi ritrovai a guardare il volto di «Shura!» Atterrammo su un sentiero più a valle e si rialzò, continuando a tenermi in braccio. Riuscii appena a percepire la sua mano sulla schiena quando si accorse che ero coperta di sangue. Mi discostò e mi guardò dapprima orripilato e poi furioso. «Guarda chi si rivede, Shura di Capricorn». Salutò in tono arrogante.      
«Mordred!» Ricambiò asciutto e mi strinse automaticamente a sé come se bastasse a proteggermi.
«Oh, l’avete presa, pensavo che Mani di Luce sarebbe continuata a sfuggirmi in eterno».
«Anche tu a quanto pare». Ribatté Lancelot comparendo alle sue spalle, senza elmo, sanguinante, ma parecchio inferocito. «Lancelot! Cosa ci fai qui?»
«Mio re, consideratelo un modo per aiutarvi a ripagare il debito che ho nei vostri confronti». Sorrise il Cavaliere di Cancer dell’altra dimensione. «Fuggite, mi occupo io di questo bellimbusto».   
«Voi non andrete da nessuna parte! Torre di Spade!» Ma Lancelot gli contrappose la «Spada dello Tsei She Ke!» Se Death Mask con un attacco simile si limitava a strappare l’anima dal corpo, l’onda infernale di Lancelot assunse la forma di un nugolo di spade che non solo spazzarono via le sue, ma si conficcarono nel corpo appena risorto di Mordred, strappandogli degli ululati di dolore. «Scappa, io lo fermo!» Urlò il Lost Saint. Non me lo feci ripetere due volte.
«Torna qui, Incantatrice!» Ruggì Mordred mentre correvo a gambe levate tra rocce e sassi. Sussultai e girai la testa per controllare se mi fosse alle calcagna. Quando girai di nuovo la testa non vidi il masso e ci andai a sbattere. Rimbalzai sul medesimo e crollai a terra di schiena. Buttando fuori tutto il fiato che avevo e battei la testa, perdendo i sensi. L’ultima cosa che ricordo di quegli attimi fu il dolore. Quando ripresi conoscenza, sentii dei passi avvicinarsi e la voce irritata e ferita di Mordred. Sussultai e me ne restai immobile, sperando che non passasse di qui. Fui ascoltata, perché mi passò accanto, appena oltre le rocce dove mi ero accasciata. Si guardò attorno senza scorgermi e poi se ne andò lasciando dietro di sé una scia di sangue. Meno male che le mie mani avevano smesso di luccicare da un po’. «Lancelot». Mormorai con un filo di voce, rialzandomi, la testa dolorante. Sibilai piano, facendo attenzione a non fare rumore mentre lasciavo che la Dark Resurrection facesse il suo lavoro. “Maestro?”
“Sono con il Lost Saint, non ti preoccupare, a lui ci penso io, tu pensa a tornare al Santuario, gli altri hanno avvertito la lotta e stanno arrivando. Non preoccuparti per noi, ho usato la tecnica dell’inavvertibilità sui Marine, loro non dovrebbero accorgersi di niente, invece tutti gli altri lo sanno”.
“Cosa è successo a Lancelot?”
“Ha combattuto, ma Mordred è forte, anche troppo e lo ha sconfitto. Fa come ti ho detto, torna al Santuario, ora!” Ordinò perentorio e io scattai. Però c’era qualcosa di strano, perché non riuscivo a tornare al Santuario? Perché gli altri ci stavano mettendo tanto? “Maestro?”
“Che c’è?”
“Perché non riesco a tornare al Santuario?”
“Cosa vuoi dire?” Mi fermai e mi guardai intorno. Perché continuavo a passare e ripassare nel posto in cui stavo costruendomi un osservatorio astronomico? Voglio dire, non ero scema, li vedevo anch’io i miei attrezzi. In un certo senso era come essere nell’arena di Hunger Games e temevo che Mordred sarebbe saltato fuori da un momento all’altro. “Mi sembra di girare in tondo”. Ammisi guardandomi intorno. Respirai dal naso e ne sentii l’odore dolciastro, diverso da quello pulito che si respirava di solito a queste altitudini. “L’ aria è strana”. Lui mi fece eco. “Sì, mi sento, come se stessi vagando in un corridoio pieno di specchi o di vetri, non so spiegarlo”. Alzai una mano davanti a me e, appena toccai l’aria, davanti a me si materializzò un muro di cristallo. «Il Crystal Wall!» Esclamai sgranando gli occhi. “Astrid?” Mi chiamò la voce di Kiki. “Kiki!”
“Cosa ci fai qui?” Esclamò allarmato.
“Sto cercando di scappare ma la barriera me lo impedisce!”
“Io ho eretto quel campo di forza per imprigionarlo. No, vuol dire che tu sei lì dentro con lui?” Esclamò sconvolto. “Sì!” Cominciai a battere le mani sul muro di cristallo per spaccarlo ma inutilmente. “Abbassa la barriera, Kiki! Kiki!” Ma lui non risponde più.
“Maestro!” Chiamai.
«Eccoti qui!» Esclamò la voce di Mordred facendomi sobbalzare. Mi girai di scatto, le mani schiacciate alla barriera. Lo vidi zoppicare sulle rocce e avvicinarsi. Mi guardai intorno alla ricerca di un’arma. Adocchiai un trincetto sul tavolino pieghevole che mi ero portata qui qualche giorno prima e mi avvicinai al tavolo senza staccargli gli occhi di dosso. Lui me lo lasciò fare, sebbene non impugnasse già più Clarent. Lancelot doveva essere riuscito a distruggergliela. Era rischioso, ma forse poteva funzionare. Se era cresciuto secondo i dettami della stregoneria allora forse c’era qualcosa che potevo fare! Afferrai il taglierino e glielo puntai contro. La mia energia fluì dal palmo della mano nel manico. L’altro fece un sorriso che gli deformò i lineamenti già coperti di sangue: «Cosa credi di fare?» Disegnai un cerchio magico attorno a me e strinsi la presa sul manico sperando di non doverglielo piantare nella gola scoperta.
«Guarda che non ti salverà, ora te lo dimostro». La sua arroganza s’infranse contro la protezione spirituale e fu sbalzato indietro da una barriera invisibile. Superato il primo momento di sconcerto rise divertito, si avvicinò più che poté e disse: «Allora è vero che sei veramente un’Incantatrice, Mani di Luce.» e mi arrivò una zaffata di fiato fetido in faccia. Purtroppo i cerchi magici non bloccavano le parole e gli odori.  
Cercai di allontanarlo il più possibile. «Lasciami, animale!» Il suo tocco mi faceva orrore e ribrezzo. Però così facendo commisi la stronzata di uscire dal cerchio magico, sicché, con un movimento fulmineo mi afferrò e mi strinse a sé: «Animale? Io?» Mi schernì divertito, bloccando sul nascere ogni tentativo di liberarmi. Mi strappò il taglierino e lo gettò via. Per essere ferito gravemente era ancora in forze.
Improvvisamente il Crystal Wall andò in frantumi come vetro. Mi separai da lui mentre il rumore assordante trapassava le mie orecchie, strappandomi un gemito. «Allontanati da lei, Mordred!» Esordì allora una voce maschile, la stessa che aveva gridato, svegliandomi, qualche notte prima. Cercai il suo proprietario con gli occhi e la sua figura entrò nel mio campo visivo, posandosi ai miei piedi in tutti i suoi quattordici centimetri d’altezza. «Cocteau?» Domandai incredula. 
Invece Mordred sorrise e si deterse il sangue che gli era colato sugli occhi con una mano, la stessa che tornò a tamponare una delle sue ferite. «Ero sicuro che voi Cavalieri non potevate aver lasciato da sola una fanciulla indifesa come questa. Avanti, mostrati, Santo Dorato!»
«Allontanati da lei, Mordred». Ripeté lentamente la civetta. Ok, adesso ero sicura di essere impazzita. «Oh, dunque siete voi a proferire parola, siete forse giunto in soccorso di questa Sacerdotessa?» Domandò ironico, schernendolo.
«Per l’ultima volta, maledetto maniaco, io non sono una Sacerdotessa dei tuoi tempi! Non ti porterò mai al Santuario!» Sbottai. Improvvisamente fui sollevata per aria, catturata dai fuochi fatui che, grazie al portale sull’Aldilà, infestavano questo posto. Mi trascinarono al portale, eludendo ogni mio tentativo di fuga e che furono spazzati via quando una mano si serrò attorno al mio polso.
Con uno strattone mi riportò nel mondo reale e mi ritrovai dietro la schiena dell’uomo dai lunghissimi capelli bianchi, completamente nudo. A quel punto strillai di terrore. Purtroppo la sua fluente chioma mossa non era sufficientemente coprente e non c’era nebbia. «Mi state dicendo che il simpatico gufettino era… No, no, no, no, no. No! Non voglio crederci! Ho lasciato che un tizio del genere diventasse il mio confidente, quasi il mio animaletto da compagnia? Oddio!» E, ripresi a strillare isterica. Mi guardò da sopra una spalla. «Ehi, stai bene?»  Un momento, ma questo lo avevo visto al banchetto con i Marine, nella Cloth di Gemini e c’ero rimasta pure di stucco nel vedere quanto fosse marcata la somiglianza tra lui e Kanon. «Ma tu sei, sei…!» Esclamai senza riuscire a completare la frase. Il custode della Terza Casa mi redarguì con un secco: «Non è il momento». 
«Sei nudo!» Mi uscì soltanto tra lo spaventato e lo scandalizzato. Facendo ridere a crepapelle il figlio di Artù e irrigidire le spalle e la schiena di Saga. «Pensa a scappare, piuttosto!» Mi urlò invece l’imbarazzante amico di Shura guardandomi da sopra una spalla. Peccato che non mi mossi, tanto ero pietrificata. Suscitando le risate convulse di Mordred.
«Saggia la ragazza, anche se per un altro motivo», commentò Mordred prima di urlare: «Holy sword embodiment!» E diventare un tutt’uno con la sua spada (recuperata chissà come e da chissà dove). L’impressione generale che mi suscitò fu di trovarmi davanti a un grosso ragno con le antenne simili al cappello di un giullare medievale. A posteriori potrei dire di averne colto tutta l’amara ironia: noi guerrieri, giullari e pupazzi nelle mani dei potenti e degli Dèi. Ma in quel momento l’unica cosa sensata che mi venne in mente fu continuare a strillare nella speranza che le Creature ci raggiungessero. «É inutile, qui siamo in un’altra dimensione, anche volendo non possiamo fare niente». Cercò di zittirmi Saga.
«Mettiti qualcosa addosso, per l’amor del Cielo!» Urlai isterica.
«Ma l’hai capito che siamo in pericolo sì o no?» Mi gridò di rimando.
«Sì! Sono circondata da un assassino e uno stupratore!» Strillai a mia volta arretrando.
Mordred ormai si stava spanciando dalle risate, mentre Saga faceva del suo meglio per non mostrarmi le sue grazie. «E non guardare!» Sbottò a disagio, quel poco che vedevo della sua faccia, completamente rosso come un peperone. «Mi stai davanti! Come faccio a non vederti?» A interrompere l’imbarazzante teatrino ci pensò Mordred: «Questa è la situazione più assurda in cui mi sia mai trovato, Oddea, sei divertente ragazzina». Sghignazzò sguaiato battendosi una mano sul ginocchio. «Buon per te che ci ridi». Ribatté la chiamata in causa.
«Quasi quasi non ti uccido, ti tengo come buffona di corte, guarda». Propose l’altro tra un’ultima risata e l’altra.
«Prima devi comunque passare sul mio cadavere!» Dichiarò il gemello di Kanon.
 «Sicuro, non c’è certezza alcuna che tu possa evocare la tua Armatura d’Oro». 
«Può invece». Interruppe la voce di Kanon aprendosi un varco sopra di noi, dal quale calò il Pandora-Box dei Gemelli che si aprì e l’Armatura rivestì il suo proprietario. Ma questo non bastò sicuramente a tranquillizzarmi. Ero completamente indifesa e con la mente in panne. Improvvisamente Saga gemette come se fosse stato colpito: «Saga?» Lo chiamai spaventata. Si inginocchiò portandosi entrambe le mani al costato: «Saga?» Dissi di nuovo, avvicinandomi. Gli posai le mani sulle spalle e lo sentii mormorare; i lunghi capelli che sfioravano il terreno: «No! Non adesso! No!»
«Saga? Che ti succede, Saga? Saga, stai bene?» Mi accorsi che i suoi capelli stavano scurendo. «Vattene via!» Urlò e io mi ritrassi.
«Saga!» Sentimmo chiamare da un’altra voce maschile. Il Gold Saint di Capricorn ci raggiunse.  «Shura! Portala via! Svelto!»
«Saga, che ti succede?» Domandò Shura spaventato dalla prima volta che lo conoscevo. Poi sussultò: «No, non dirmi che è…»
«Svelto!»
Io mi opposi. «No! Non possiamo lasciarlo qui!» Shura mi guardò spaventato. Mi interruppe di nuovo, posandomi una mano sulla spalla per ottenere la mia attenzione. «Ascolta, se Saga dice che dobbiamo scappare allora dobbiamo farlo e anche alla svelta! Non c’è tempo per spiegare, fidati di noi». Poi mi trascinò via. Mentre scappavamo mi accorsi che qualcosa ci stava rincorrendo. Mi girai nella corsa e vidi la sagoma maschile avvolta in un pareo saltare di roccia in roccia. Mentre altre, che arrivavano dal Santuario, stavano dirigendosi in direzione del morto. “Maestro?” Pensai.
La sagoma scomparve. Mordred sferrò la sua Torre di Spade. Shura ingaggiò una feroce battaglia con il figlio di Artù. «Alla fine quella ragazza si è rivelata utile!» Fece il morto mentre combattevano, scambiandosi colpi a volontà. «Mi ha davvero portato da te, reincarnazione di Artù».
«Io non sono il tuo Re!» Ribatté lo spagnolo. Ma fu l’unica delle sue provocazioni cui rispose. Molto spesso, invece, lo vidi cadere trafitto e ferito, ma sempre si rialzò al punto che cominciai a provare ammirazione per la sua tenacia, mentre Mordred fastidio. Questo finché non successe qualcosa e anche Shura, ferito cadde. «Shura!» Urlai gettandomi al suo capezzale.
«Il Re Cervo è morto, lunga vita al Re». Mormorò beffardo il risorto, osservando il cadavere dell’uomo che aveva cercato di proteggermi. Io stessa crollai in ginocchio, fissandolo atterrita con le lacrime agli occhi. «Shura!» Chiamai più piano. Non si mosse. I lucciconi debordarono.
Non c’era più. Era caduto negli Inferi in vece sua. Era tutta colpa mia, se solo non avessi tergiversato sarebbe stato ancora vivo. Una fitta nebbia bianca si sollevò dalla roccia. Erano le nuvole. Mordred avanzò nel mare di nebbia e nuvole e mi si avvicinò. «Hai onorato il tuo compito, Sacerdotessa, non credere che mi sia dimenticato di te». Il maestro non mi rispondeva, ero sola. Adesso restavo solo io come ultimo baluardo di difesa per il Santuario. Appena lo pensai tutte le mie emozioni si spensero di colpo, annichilite dalla sete di vendetta come con Eris. Ma stavolta non avrei aspettato dieci anni per vendicarmi.
Fece per sorpassarmi quando mi alzai e chiamai a me i bagliori che illuminarono la zona. Quando incrociai le braccia gli sbarrarono la strada come una muraglia. Non staccai gli occhi dal corpo neanche un attimo, che la nebbia che s’infittiva nascondeva sempre più. «Ehi! Che scherzo è questo? Cosa sono questi bagliori?» Gemette di dolore quando si azzardò a toccarli.
«Quelle sono le stelle che vivono dentro il mio Cosmo». Ribattei con una punta di rabbia nella voce mentre si espandeva e si materializzava come lingue di fuoco nere, grigie, argentee e bianche.
Rilasciai la stretta e mi avvicinai al defunto Capricorn. M’inginocchiai e intinsi un dito nel suo sangue e mi disegnai una mezzaluna rossa sulla fronte. Parte dell’energia si concentrò nel simbolo. Infine, mi volsi verso il mio avversario tenendo i pugni contratti. Lui m’imitò mentre le luci ci volteggiavano attorno. «Io ti ho resuscitato, io ti rimetterò nella tomba da dove sei uscito». Dichiarai malevola. Sgranò gli occhi.
Per la prima volta utilizzai il vero Potere del Tarocco della Morte. Appena lo usai sentii che lo spirito delle vecchie carte era sopravvissuto e non mi aveva mai abbandonato. Forte di questa rassicurazione cominciai a tornare indietro, diretta al portale che aveva dato via a tutto. Lui fu costretto a seguirmi per non finire scottato. Neanche Clarent poté niente contro i bagliori. Se solo mi fossi svegliata prima. «Da dove arriva questo potere? Supera persino il mio, quello del Re Cervo!»
«Questa è una magia che pochi conoscono e che ai tuoi tempi non era ancora stata creata, ma a quanto pare risulta abbastanza efficace». Soggiunsi perfida. Presi a correre facendomi trasportare dalla sensazione di essere leggera come il vento. In breve tempo fummo di nuovo davanti al portale. Perché Death Mask non c’era? Perché nessuno si occupava di richiuderlo? Ma in quel momento andava bene così. Lo attraversai. Non m’importò del vento sferzante e di dove stavo camminando.
Mordred fu costretto a seguirmi urlando tutta la sua disapprovazione e il suo terrore.         
Shura ci si scagliò addosso con occhi fiammeggianti. Evitai i suoi colpi e fendenti, respingendolo grazie ai bagliori. Poi, sempre con lo stesso sistema lo imprigionai e liberai Mordred, sul tappeto di resti umani, che adesso non sentivo più. «Ho preso chi volevo. Adesso torna nell’Oltretomba dove devi stare». Sibilai, mentre mi portavo dietro il Cavaliere di Capricorn. Dopo qualche secondo Mordred ululò: «Giammai!» E mi si scagliò addosso. Allora urlai con quanto fiato avevo in gola e il mio Cosmo lo spazzò via fino a fargli raggiungere l’Oltretomba per direttissima.
Quando fummo di nuovo fuori al sicuro sciolsi la presa. Percepii il freddo. Qualcosa di freddo puntato alla schiena, come una lama. Uno sguardo affilato come una spada. Mi volsi lentamente verso Shura e sgranai gli occhi. Adesso esibiva due lunghe corna nere, la sua Cloth stava annerendosi progressivamente. I suoi occhi fiammeggianti erano rossi come il sangue, come se le sue iridi fossero una fornace. Cosa diavolo gli stava succedendo? «Shura?» Chiamai esitante. 
«Shura! Fermati! Torna indietro!» Cominciò a urlare Saga? Era quello Cocteau, giusto?
Non si era neanche mosso. Ma fermarsi di cosa? Shura alzò il braccio destro e partì all’attacco, verso di me. Saga cercò di bloccarlo frapponendosi tra noi ma lo Specter riuscì a sbarazzarsene. Io crollai a terra e da lì cercai di rialzarmi ma finii soltanto per ritrovarmi con la schiena appiccicata a una colonna diroccata e urlare: «Shura! Fermati!» Ma non mi udì. Non ebbi altra scelta che cercare di scappare. Mi morsi il labbro per non gridare più volte, mentre mi tagliava la strada con i fendenti di Excalibur. Adesso eravamo di nuovo nella nostra dimensione, se avessi urlato le Creature sarebbero giunte in mio soccorso e avrebbero fatto un’ecatombe. Ma neanche potevo usare di nuovo il Potere dei Tarocchi per fermarlo. Cascai a terra ferendomi le ginocchia e gli stinchi. Mi protessi la testa con le mani per ripararmi dai pezzi di roccia e polvere volanti. Le rocce più grandi facevano vibrare il suolo come una mandria di buoi in corsa. Gemetti di dolore.
Sentii i suoi passi avvicinarsi e alzai gli occhi, che andavano riempiendosi di lacrime. Arretrai mentre con una mano cercavo di liberarli dalle lacrime. Riuscii a rialzarmi in piedi appoggiandomi alla roccia dietro le mie spalle. Preparò il braccio destro. Lo calò con uno slancio che gli sollevò il mantello nero. Sgranai gli occhi ancor più terrorizzata. Avvertii solo lo spostamento d’aria e il lato destro della roccia cadde di lato, sollevando un gran polverone. Sembrò che ogni suono fosse stato cancellato, a parte il battito profondo e impazzito del mio cuore a causa del terrore e dell’adrenalina.
Non ero morta benché davanti a me si dilatasse una distesa di rosso che in un secondo momento riconobbi come i suoi occhi demoniaci. Occhi da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo e che, spalancò ancor di più, mentre i nostri nasi quasi si toccavano. I nostri respiri si rubavano l’aria a vicenda e il suo braccio, ancora teso accanto alla mia spalla sinistra si abbassava.
Non so neanch’io come avessi fatto: ero riuscita a strappargli una stella. L’adrenalina era finalmente entrata in circolo. Vidi i suoi occhi rivoltarsi e le palpebre chiudersi, poi mi crollò addosso, svenuto. «Ehi!» Esclamai per la sorpresa e lo spavento mentre cadevo sotto di lui, non aspettandomi un simile peso. Battei la schiena e la nuca contro la roccia, accasciandomi a terra. Ma quanto pesava questo? Non solo nella caduta mi aveva dato una testata ma mi aveva pure fatto battere la testa.
Che dolore! Un lungo lamento uscì dalla mia bocca. Cercai di mettermi seduta alla bell’e meglio, un po’ dolorante in mezzo alla polvere.
Lui quasi scivolò giù dal mio corpo. Sarebbe scivolato del tutto oltre il consentito, (per non parlare dell’elmo dalle corna affilate) se non lo avessi bloccato. Poi mi accorsi della sua costellazione. L’ “infezione” somigliava a una necrosi: anneriva le stelle come quelle degli Specter.
Mi guardai la mano sinistra, che avevo usato per togliergli l’α che riluceva pigramente a pochi centimetri dal mio palmo. Con la destra, stando attenta a non far cadere a terra quel peso piuma, spolverai via il nero. Riportai alla luce l’oro di ν, β, ρ, ψ e ω. L’operazione richiedeva troppo tempo, così, provai a pizzicare il nero con la punta delle dita.
Trovai il lembo e lo sollevai rivelando la lucentezza delle stelle che aveva celato come una coperta. Cercai di buttarla via ma non si volle staccare da δ, γ, κ, ε e ζ. Perciò non ebbi altra scelta che lasciarla lì, come una sorta di ombra di Peter Pan della costellazione. Infine, rimisi Algedi (questo era il nome della stella α che gli avevo sottratto) al suo posto. Il ragazzo si svegliò e aprì gli occhi. Lo so perché sentii lo sfarfallio delle sue ciglia sul mio braccio nudo. Lo chiamai ma la mia parve più una domanda che un’affermazione. Lui si puntellò sui palmi per staccarsi immediatamente, a disagio. Lasciai cadere le mie e potei finalmente vederlo tornare in sé. Il viola e il nero scomparvero in favore dei suoi colori originali e i suoi occhi tornarono scuri come la notte. «Shura!» Esclamai detergendomi il fiume di lacrime che mi rigava il viso con un palmo sporco. Non ero mai stata più felice di rivederlo. Sembrò sul punto di dirmi qualcosa. Per la prima volta, la sua faccia non era più indecifrabile, il suo sguardo non era più tagliente. Era solo un ragazzo parecchio a disagio che cercava di fare mente locale e articolare le parole per scusarsi. 
Proprio in quel momento una voce maschile scoppiò a ridere, malvagia: «Così, Shura, pensi davvero di poter sfuggire al mio controllo? Allora sei proprio ingenuo come ho sempre sostenuto».
«Arles!» Esclamò e girò la testa per guardarlo e fronteggiarlo. Ma non l’aveva ucciso?
«Credevi davvero che bastasse così poco per mettermi KO? Non per niente sono il più potente tra tutti di voi per un motivo: io sono un Dio! Io sono Ares, il Dio della Battaglia!»
Sgranai gli occhi con rinnovato terrore. Ma questo era fuori come un terrazzo anche nella sua pazzia! «Scomparite!» Così dicendo, s’irrigidì, buttò la testa indietro e la sua persona s’illuminò di un alone dorato: «Galaxian» una galassia si materializzò attorno a lui e, i pianeti che la componevano s’incendiarono «Explosion!» Urlò e ce la scagliò contro a gran velocità, facendomi sgranare gli occhi. Shura mi afferrò e saltò via raggiungendo un’altezza che non credevo possibile mentre la tecnica di Saga faceva scomparire parte del paesaggio roccioso. Mi aggrappai istintivamente al Cavaliere e serrai ancor più la presa quando raggiungemmo quell’altezza vertiginosa. Peccato che non andò molto lontano perché lo sentii trasalire. Qualcosa ci afferrò e ci lanciò con violenza dentro al vortice. Le braccia del Gold di Capricorn si serrarono attorno al mio corpo mentre urlavamo. Come se non bastasse Arles, Saga, chi diavolo fosse, ci seguì. E io, riuscii, non so come a tendere la mano e comandare alla sua Armatura di lasciarlo. I pezzi che componevano il Cloth di Gemini abbandonarono le sue membra e furono risucchiate indietro, verso l’entrata del tunnel. Lo stesso Gemini perse posizione e fu quasi risucchiato indietro. Ma lo stesso non si poté dire di noi. Shura mi strinse lateralmente dopo aver seguito con lo sguardo il commilitone e disse: «Vieni, vediamo dove conduce questo portale». Insieme uscimmo per approdare in una delle Dodici Case vuota e al buio.
«Dove siamo?» Chiesi. Shura non rispose e, per sicurezza, non mi lasciò. A riportare un po’ di luce provvidi io, sollevando i palmi, che si misero a rilucere d’oro. La risposta al quesito che gli avevo chiesto, però, mi giunse dalle mie stesse corde vocali. «Ma questa è la Terza Casa».
«La Terza Casa? Come fai a dirlo?»
«Riconosco il soffitto a cassettoni». Risposi indicando in alto. «Solo la Terza casa ne ha uno, un ricordo del Millesettecento». Alzò il naso all’alto soffitto del corridoio di passaggio e rispose: «Non ci avevo mai fatto caso».
«Tutte le Case hanno qualcosa di simile, me l’ha» mi bloccai. “Detto il mio maestro”. Pensai. Shura mi guardò in attesa che completassi la frase: «detto Kiki». Inventai, ma lui non mi credette. «Non è vero; Kiki non può averti detto niente del genere. Perché menti?»
«Ma è vero». Mi posò una mano sulla spalla e inchiodò gli occhi nei miei. «Non mentire, chi te l’ha detto?» “Il mio maestro e chissà dov’è adesso”. Pensai in difficoltà, stringendo le labbra.
A proposito del maestro, la sua voce mi arrivò chiara e nitida alle orecchie: “Attenti alle spalle!” Urlò. Shura non fece in tempo ad accorgersene che lo acchiappai per la nuca e lo costrinsi a chinarsi, di modo che il colpo di Gemini andasse a vuoto e si scagliasse contro le scale parecchi metri più avanti, distruggendole con un rumore tipo dinamite che esplode.
Lasciai andare il collo di Shura che sollevò la testa a sua volta, gli occhi fuori dalle orbite.
«Sei rapida, persino per evitare il Fantasma Diabolico». Si complimentò il Cavaliere dagli occhi rossi e il Cosmo in espansione che avanzava dritto verso di noi. Ci girammo e lo vedemmo.
Accidenti, credevo che privandolo dell’Armatura avrei ottenuto qualcosa e invece non avevo ottenuto nulla. Il mantello di Gemini allacciato in vita come un lungo fluente pareo che si sollevava e ondeggiava dolcemente, come i suoi capelli, grazie al suo Cosmo.
Shura si frappose di nuovo tra noi. «Credevo di avere a che fare con una stupida serva ma a quanto pare sei più potente e più coraggiosa di quanto pensassi. Sei persino riuscita a separarmi dal mio Cloth. Ad ora solo un’altra persona c’è riuscita, anche se non in un tempo così breve».
Cloth che stava cercando di chiamare tramite il Cosmo, ma l’Armatura non ne volle sapere. Accordandosi al mio volere. Invece risposero i bagliori fosforescenti che presero a volteggiarci intorno. Shura e Arles si guardarono attorno. “L’unico motivo per cui non ti attacca è che ti vuole viva, sei troppo preziosa”.
“Tu lo sapevi?” Gli chiesi mentre mi mettevo in posizione, sebbene non avessi il bastone da naginata e nessun’altra arma a disposizione. Ma i bagliori risposero lo stesso al mio volere addensandosi addosso alla mia persona. “No, non pensavo che l’Oracolo di Atena fosse un Cavaliere di Gemini se no ti avrei avvisato. Accidenti, avrei dovuto essere più attento”.
“Non puoi fare nulla?”
“No, lui non corrisponde ai parametri della mia teoria, questo non so come batterlo senza farmi scoprire e cancellare la memoria”.
«E tu, vorresti combattere contro di me?» Mi schernì l’altro. Non risposi. Anzi, stavo già cercando qualcosa con cui controbattere. Tutto quello che mi venne in mente fu: “Blazar”. Cosa che, grazie all’analogia dei Serpenti non misi assolutamente niente per fare mio e utilizzare. Dal momento che quello che conoscevo bene erano le stelle, allora tanto valeva che le usassi in ogni loro sfaccettatura.
I bagliori si accumularono nello spazio tra le mani. Un blazar (dall'inglese: blazing quasi-stellar object) è una sorgente altamente energetica, variabile e molto compatta associata a un buco nero supermassiccio che si trova al centro di una galassia ospitante. Per dirla in parole povere, somigliava a una trottola come quella d’Inception. Noi, adesso, eravamo al centro della Casa di Gemini, la Galassia. I Blazar sono tra i più violenti fenomeni nell'universo e sono un importante argomento di studio dell'astronomia extragalattica.
Strinsi l’ammasso di bagliori altamente energetici tra le mani. Nello stesso momento in cui Gemini riunì i piedi e discostò le mani dal corpo e fece comparire attorno a sé una seconda Galassia. «Galaxian…» Non fece in tempo a gridarlo che gli schiantai il blazar nel petto. Facendolo bloccare di colpo ed esplodere. Arles si fermò di colpo e strabuzzò gli occhi, mentre io rotolavo oltre la sua testa con un ponte all’indietro, appoggiata a lui. «Saga!» Urlò Shura mentre mi rialzavo.
«Indietro, stai indietro!» Lo bloccai sollevando una mano verso di lui. Poi, chiamai ad alta voce il nome del fenomeno. «Blazar!» Una colonna d’energia si innalzò da Saga. Poi, prese a roteare su sé stessa, mentre il corpo del nemico rimase immutato. “Merda, ho dimenticato che sanno come tenersi saldi atomicamente parlando”. Fa niente, mi sarei arrangiata in un altro modo.
Provò lo stesso a lanciarci contro il suo attacco ma, a un mio cenno, il blazar prese a roteare, risucchiando all’interno del vortice i pianeti in fiamme, spegnendoli e riducendoli in polvere.  
«Che cosa mi hai fatto?» Non risposi ma, la velocità di rotazione attorno al getto aumentò concentrando attorno al medesimo tutta la gravità. Mi feci coraggio e mi lanciai nel nucleo galattico attivo. Ora restava solo da vedere se lui fosse un quasar o un oggetto del tipo BL Lacertae. Meglio sarebbe stato se fosse un blazar intermedio.
I miei pensieri furono cancellati dal decollo immediato che mi strappò uno strilletto.
«Astrid!» Urlò Shura ancorandosi a terra con una mano, ossia spaccando il pavimento. Mentre Arles scoppiò a ridere, indeciso se prendermi per i fondelli o se salvarmi. Ma io non ero un effetto del blazar, benché lo potessi sfruttare a mio vantaggio. Per esempio, con l’effetto Doppler. Una variazione di frequenza di un fenomeno ondulatorio come la luce e il suono quando la sorgente e l’osservatore risultano in moto l’uno rispetto all’altro. E Arles stava cercando di seguirmi attraverso il blazar, mentre io, una volta capito come sfruttare le correnti, potei attaccare. I blazar sono interpretati come galassie attive osservate in direzione del getto relativistico. Questa peculiarità permette di spiegare le caratteristiche fisiche dei blazar: elevata luminosità osservata, variazione molto rapida, alta polarizzazione, e moto apparentemente superluminale osservato nei primi parsec del getto nella maggior parte dei blazar, probabilmente connesso a effetti relativistici del fronte d'onda. Tradotto, grazie a queste caratteristiche da me conosciute e che lui mi trasferiva, potevo colpirlo e disorientarlo, sia sfruttando i grandi anelli opachi, sia la galassia stessa di gas, polveri e stelle, le stesse del suo Galaxian Explosion, che aveva cercato di tirarci addosso.
«Ho trasformato la tua Galassia in un blazar!» Gli urlai, riuscendo a fermarmi davanti a lui, riprendendo in me la proprietà gravitazionale del getto del Blazar quel tanto che bastò per potermi muovere a mio piacimento. Poi, mi scagliai addosso a lui tuffandomi attraverso gli anelli. Perpendicolarmente al disco di accrescimento, un paio di getti relativistici portano via dall'AGN plasma altamente energetico. Il getto è orientato grazie a una combinazione di intensi campi magnetici a potenti venti che arrivano dal disco di accrescimento e gli anelli. Dentro il getto, fotoni ad alta energia e particelle interagiscono tra di loro e con il forte campo magnetico. Questi getti relativistici possono estendersi fino a dieci kiloparsec di distanza dal buco nero centrale.
«Credi forse d’impressionarmi?» Mi schernì e colpì l’immagine residua nata dall’alta velocità. Appena fui vicina gli sferrai un violento pugno in faccia. Cui seguì una raffica intera.  
«Ma tu mi stai quasi tenendo testa!» Esclamò mentre saltavo fuori dalla galassia di polveri per colpirlo, scavalcarlo di nuovo e ritornare dentro il blazar. E aveva ragione, la velocità della massa di plasma che costituisce il getto del blazar può arrivare al novantacinque novantanove per cento della velocità della luce. La stessa velocità dei Cavalieri d’Oro. La differenza era che non era di un generico elettrone o protone nel getto: le singole particelle si muovono in direzioni differenti con il risultato che la velocità netta del plasma si trova in questo intervallo. Ogni volta che gli arrivavo addosso dal getto, in pratica, mi dissolvevo laddove lui provava a colpirmi. Ovviamente si spostava, ma mi tenevo sempre in un modo che lui restasse comunque al centro.
E i blazar avevano anche effetti relativistici che il Cavaliere di Gemini stava scoprendo. Tipo l’effetto Doppler. Ogni volta che mi avvicinavo al getto, gli apparivo più luminosa e spostata verso il blu mentre quello opposto ero più fioca, ossia più vulnerabile, ma tendente al rosso. Inoltre, a seconda dell’angolazione con cui mi spostavo, potevo fargli credere di avere a che fare con un duplicato di me stessa o di sè. Gli infersi delle ferite, ma mi accorsi troppo tardi della trappola di Arles. Il quale, a un tratto, mi afferrò per il collo esclamando: «Presa!» Bloccando tutto il blazar e dissolvendo così la tecnica. «Credevi che mi sarei lasciato infinocchiare da questa tecnica patetica? Tu attacchi sempre a destra, sciocca o con la destra. Sei prevedibile e le tue tecniche sono patetiche. Non penserai che basti raggiungere la velocità della luce e disorientarmi con così poco per sconfiggermi». Proprio allora però un brillio di luce verde sul suo volto lo persuase a lasciarmi andare. Caddi a terra e un fendete d’energia di Shura passò sopra la mia testa. «Ora basta, Arles! Non ti permetterò di torcerle un capello. Lei non si aggiungerà mai alla tua lista di peccati». Decretò. Il Saint con i capelli scuri lunghi fino alla vita e il mantello allacciato sui fianchi a coprirne le vergogne. “Astrid!” Esclamò il mio maestro e lo sentii vicino a me. “Maestro”.
“Perché non hai dato retta al Gold Saint di Capricorn?” Mi sgridò mentre usava il suo Cosmo per curarmi. “Perché non ti sei fatta da parte? Non sei ancora in grado di creare una tecnica veramente funzionante!”   
“Sono l’unica che può fermarlo”.
“Lui non è un Bronze Saint, non fare idiozie, lascia che se la vedano da soli! Non sai ancora controllare questo potere!” Beh, allora avrei imparato. Adesso la gola mi stava già meglio e respiravo decisamente meglio. Capii che era ancora tutto in piedi grazie al mio maestro, doveva essere riuscito a trovare il modo di limitare il nostro raggio d’azione. “Non montarti la testa!” Credo che se avesse potuto mi avrebbe schiaffeggiato come accadde a Kaiser di Leo, dopo il trapianto del cuore del leone. “Piuttosto, perché non è ancora giunto nessuno a bloccarli?”
“Ho limitato i loro Cosmo e sto facendo credere a tutti che non ci sia una battaglia in corso, non possiamo permetterci che il Santuario sia compromesso con gli ambasciatori di Poseidone”. Spiegò. “É tutta colpa mia, non mi sarei dovuta allontanare dalla Tredicesima Casa”.
“Eri stata ipnotizzata, ti saresti allontanata comunque”. Mi giustificò, cercando di alleviare la mia colpa. A un tratto un fendente ci arrivò addosso ma il mio maestro mi protesse usando il suo mantello come scudo. Per un momento riuscii a vedere il braccio avvolto nell’Armatura Dorata sollevare il mantello sbrindellato e bucherellato in più punti per proteggermi. Mi rannicchiai istintivamente contro di lui e percepii il freddo del metallo sotto le mie dita. Indossava una corazza, anche se non potevo più vederlo. Diversa da quella degli altri. In un certo senso somigliava alla Gold Cloth di Gemini, nella forma che percepivo a contatto con la mia pelle.  
I due Saint che si davano battaglia e Shura stava avendo la peggio. Io però, mi ritrovai a essere, non so come, dietro a Saga che rideva a squarciagola come il folle qual era. Dovevo aiutare Shura, ma come? Mi venne un’idea e pregai che funzionasse. “Ti prego, ti prego, fatti vedere, fatti vedere” pregai tra me e me mentre fissavo la schiena di Saga. Chiusi gli occhi. “Andiamo, devo vederti, mi servi”, implorai. Ma ancora niente. “Che stai cercando di fare?” Mi chiese il mio maestro, preoccupato. Lo ignorai. Chiusi gli occhi un’altra volta, con un verso di frustrazione e chinai il capo. Prima c’ero riuscita, perché adesso non ce la facevo? Che ci riuscissi solo quando avevo paura o quando c’erano le Creature? No. Non poteva essere così! Al diavolo il terrore e il panico, se non mi fossi mossa l’avrebbe ucciso! E stavolta non avrei potuto riportarlo indietro.
Sigillai un’altra volta gli occhi, mentre l’ennesimo rimbombo della battaglia si propagava attorno a me. “Devo salvare Shura, avanti! Avanti! Avanti!” E, a questo pensiero anche i miei sentimenti esplosero dentro di me, con la stessa potenza di un vulcano e spazzarono via l’incertezza e la paura, schiarendomi la mente. Finalmente compresi. Era questo il segreto: se volevo vederle, dovevo volerli salvare. Perciò fui in grado di vedere le stelle della costellazione dei Gemelli anche senza l’intervento delle Creature.
Mi alzai in piedi e mi avvicinai. Il mio maestro cercò di richiamarmi: “Cosa vuoi fare? Astrid, fermati! Fermati!” Le costellazioni non erano fisse, nel corso del tempo avevano subito un’evoluzione. Allora se il mio potere aveva a che fare con le stelle, perché, se le potevo rigenerare non le potevo anche cambiare? Sperai che la mia teoria fosse giusta, intanto che lo scintillio sulla punta delle mie dita aveva cominciato a brillare dello stesso alone d’oro dei Cosmi dei due combattenti. Arrivata a meno di un metro toccai la prima stella della costellazione di Saga. L’uomo trasalì come se gli avessi posato una mano gelida sulla spalla. Si girò e mi vide. «Cosa?» Anche Shura si fermò e ne approfittò per balzare via, allontanandosi.
Ora o mai più. “Cosa stai facendo?” Mi ripeté il mio maestro e risposi. “Ora vedrai”.
Eseguii rapidamente la stessa operazione che avevo fatto per rigenerare le altre in precedenza, evidenziando anche le stelle minori. Ottenendo ancora più stelle di quante già non ne conoscessero. Il Saint dai capelli lunghi fino alla vita mi guardò stupefatto. «Che incredibile sensazione di potere! Non ne ho mai percepito sì tanto in vita mia!» Esclamò Arles sollevando le braccia come se avesse potuto costatare la forza del suo Cosmo e strinse i pugni. «Mi sento traboccare di energia!»
«Astrid!» Mi chiamò Shura. Peccato che non avessi ancora finito. Mi chinai e afferrai η con una mano, mentre con l’altra tenevo ben salda κ. Anche se ero spaventata a morte, il cuore batteva così forte da darmi l’impressione che stesse cercando di sfondarmi la gabbia toracica per scappare, ero determinata ad andare fino in fondo. Lui smise di sorridermi e riassunse la sua espressione dura e furiosa. Si era accorto anche lui che potevo muovere a mio piacimento le stelle della sua costellazione, grazie al filo che ero riuscita a creare per unirle.
«Cosa credi di fare? Non penserai sul serio di poter competere con me! Un’altra stronzata non ti salverà, lo sai!» Esclamò il corvino posando su di me i suoi occhi sanguigni. Shura invece aveva sgranato i suoi e si teneva il braccio destro ferito con la mano sinistra. «Astrid!» Esclamò di nuovo. Io lo ignorai. «Questo!» Esclamai a mia volta. Gli passai rapidamente accanto alzando κ fin sopra la sua testa alzando il braccio. La stella cadde dall’altra parte e io la riunii a η e ζ.  Risultato: il Cavaliere dei Gemelli finì impacchettato nella sua stessa Costellazione. Affiancai rapidamente Shura, girandomi per non dare le spalle al pazzo che rideva e mi canzonava a squarciagola. Ma quando provò a muoversi scoprì di non riuscirci: «Ehi! Che scherzo è questo?»
Mi inginocchiai, appigliandomi alla sua gamba. Raccolsi i resti del blazar nella mano e mi rialzai. E, sempre aggrappandomi a lui, che mi aiutò con la mano sana, mi rialzai. La mano stretta a pugno prese a brillare di nuovo di energia dorata. Arles capì il mio intento e rise: «Quanto sei patetica! Erompi mio Cosmo, fino ai limiti estremi dell’Universo!»
Shura scattò per proteggermi ma non accadde niente. Le stelle della sua costellazione non si erano neppure allargate sotto la furia del suo Cosmo Doppio in espansione. Anzi, avevano serrato ancor di più la loro stretta irrigidendosi e, assorbendo l’energia del Cavaliere.
Quando il Cavaliere di Capricorn lo capì si ritrasse e guardò sconvolto il compagno. Il quale provò un’altra volta: «Erompi, mio Cosmo!» Ma, ancora una volta, non successe niente. Persino il mio maestro era sconcertato, lo sentivo, mentre osservava il fenomeno. «Erompi! Erompi!» Urlò di nuovo ma non cambiò niente. Guardò le stelle che lo circondavano prima perplesso e poi infuriato, quando si accorse di non poter essere neanche più in grado di muovere un muscolo. Emise un verso di frustrazione molto simile a un ringhio.
«Saga», mormorò stupito il Cavaliere al mio fianco.
«Che cosa mi hai fatto?» Urlò di nuovo e i suoi occhi rossi mi trapassarono da parte a parte, come se avessero tentato di sostituirsi al suo letale arsenale di tecniche. Facendomi accapponare la pelle. Però, con uno sforzo sovrumano mi imposi di non mostrargli il mio spavento. Le labbra mi si aprirono da sole per rispondere, con una voce calma che sorprese anche me: «É il tuo stesso Cosmo racchiuso nei limiti della tua costellazione a non volerlo».
«Che significa? Liberami, strega, liberami!»
Mi avvicinai a lui che si dimenava invano, intanto che la mia bocca si apriva di nuovo da sola per correggerlo con una frase a effetto: «No, io non sono una strega, sono un’Incantatrice».
Si fermò e mi guardò stupito. Poi vide la mia mano e cominciò a urlare di nuovo le sue minacce. Gli balzai addosso unendo le mani durante il salto, per schiantargliele proprio sulla testa, potenziate dai resti gravitazionali del blazar, facendogli perdere conoscenza. La botta rimbalzò nel mio braccio e per poco non riaprii le dita urlando per il dolore. 
L’uomo cadde a terra su un fianco, svenuto mentre le sue stelle continuavano a legarlo a quel modo. Io, a causa del colpo gli caddi addosso ma rotolai via rapidamente, mentre i resti del blazar si dissolvevano completamente. “Astrid!” Esclamò il mio maestro mentre gemevo di dolore per la botta. Mi presi il polso con l’altra e provai a piegare e flettere le dita. Ma un dolore bruciante mi fece immediatamente desistere. Dovevo essermela rotta.
Mi prese le mani tra le sue dicendo: “Fa vedere”. Poi confermò ciò che avevo già capito. “Sono rotte”. Mi sfuggì un’imprecazione mentre soffiavo tra i denti per il dolore. “Tutte e due?” 
“Sì”. Intanto che Shura si gettò in ginocchio dal suo compagno e lo chiamò. La voce del mio maestro mi riportò a spostare di nuovo l’attenzione: “Aspetta che te le curo”. Mi avvisò, poi usò il suo Cosmo per curarmi le ferite. Nel giro di due secondi il dolore era scomparso e sentivo le mani esattamente come prima. “Fatto”. Mossi le dita senza problemi, anche i polsi erano a posto.    
Lo ringraziai. E lui mi redarguì in tono paterno. “Sei stata incosciente, non avresti dovuto farlo”.
Mi sentii delusa. Non che mi aspettassi una rassicurazione o qualcosa di simile. Credo che i sentimenti che provavo per lui mi stessero già spingendo a fare queste e altre sciocchezze. Volevo che mi notasse, che capisse quanto ero migliorata con i miei poteri, ma ero riuscita solo a fare una figuraccia. Se non altro, avevamo scongiurato il ritorno di un mostro all’interno del Santuario. “O così o saremmo morti tutti. Quanto tempo di recupero ho?”
“Fisicamente parlando sei a posto, non ne avrai bisogno, ma per un po’ evita di prendere a mazzate qualcuno con la gravità”. Rispose, suo malgrado strappandomi un sorriso. Poi mi dette un buffetto scherzoso sotto al mento, come quando ero ancora una bambina. La sua versione addolcita dello schiaffo, immagino, ma che mi aveva sempre strappato un sorriso. “D’accordo”.
“Ah… Se mi fosse stato concesso di restare con te a quest’ora non avresti avuto questi problemi”.
“Ci sarà tutto il tempo che vogliamo”. Gli promisi.
Percepii il suo sorriso, poi glissò su un altro argomento: “Ora vediamo se possiamo fare qualcosa per aiutare anche quel poveraccio”. Così dicendo, volse lo sguardo su di lui. Lo capii perché non sentii più i suoi occhi su di me. E io guardai i due Gold Saint, smettendo di piegare e flettere le dita e aprire e chiudere i pugni. “No, va bene così, per stasera”. Dissi alzandomi e mi spolverai la gonna.
“Sei sicura?”
“Sì, se ho bisogno di una mano ti chiamo.” promisi.
“Va bene, vado ad allertare gli altri, saranno sicuramente preoccupati, poi resto qui fuori se hai bisogno”. Poi si alzò.   
Mi accostai a lui, stando bene attenta a eventuali agguati, anche se il massimo che avrebbe potuto farmi in quel momento, sarebbe stato darmi un morso. Strinsi la mano, che si illuminò di nuovo d’oro. Ero pronta a minacciarlo di nuovo se si fosse svegliato, cercando di mettere a tacere l’istinto che mi diceva di continuare ad accanirmi su di lui. Gli posò due dita sul collo: «È ancora vivo». Decretò sollevato. Dopodiché prese a tastargli la testa, alla ricerca di eventuali ferite.
Si fermò quasi immediatamente, girò la sua verso di me e mi ordinò di andare a bagnare un panno, che tanto conoscevo a memoria le stanze di tutte le Case. Eseguii immediatamente. Quando tornai con il cencio umido, lo usò per tamponargli la ferita in attesa dell’arrivo di Aiolia. 
«Si riprenderà?» Domandai preoccupata. La mia preoccupazione si mutò in stupore, quando i suoi capelli schiarirono progressivamente, fino a tornare bianchi come la neve. «Sì, non preoccuparti, noi Saint siamo molto resistenti». Mi garantì. Lui stesso, avevo saputo, si era ripreso da ferite ben peggiori di quella.
«Bene».
E mentre lo curava, Saga si illuminò di una luce dorata che ci costrinse a chiudere gli occhi e a schermarceli con un braccio. Gemetti di dolore per il bagliore improvviso. Quando scomparve, mi ci volle un po’per rimettere a fuoco i dettagli e vedere nuovamente. Ora, al posto di un uomo, c’era un piccolo gufo con tre topini in testa e un cravattino sotto al piccolo becco, sdraiato su un fianco, all’interno di una piccola gabbietta di ferro battuto fatto con la sua stessa costellazione, che si era rimpicciolita per contenerlo. Le sbarre erano fatte con i fili che avevo creato tra una stella e l’altra e che avevo lasciato si avvolgessero completamente attorno a lui con quello slancio. Creando così sia un fondo che una cupola per la gabbietta, molto simile a un misto tra una cupola geometrica e un pallone da calcio, mentre le stelle erano diventate degli esagoni appuntiti, pallida imitazione della rosa dei venti, che facevano da anello di congiunzione tra un filo e l’altro, assottigliando così le vie di fuga e creando pure un trespolo per il Saint. Sfilai il manto di Gemini dalla gabbia, facendo attenzione a non ferirlo.  Poi, sciolsi il nodo per adagiarmi il manto sulle spalle. Sia per lo shock per le condizioni pietose in cui era ridotta la mia camicia da notte. «Come hai fatto?» Mi domandò Shura, guardandomi strabiliato, ma riuscii a scorgere soltanto il riflesso sui suoi capelli scuri.
«Le costellazioni, sono raggruppamenti apparenti di stelle, io… io, credo di avere il potere delle stelle. Ah, ma che sto dicendo?» Scossi il capo portandomi una mano sulla testa, che non mi doleva più grazie alla Dark Resurrection. “Rinvieniti Astrid, rinvieniti”, mi sgridai mentalmente, prima che qualcuno prendesse sul serio le mie parole e succedesse il macello. “No, non hai pensato male, è effettivamente quello il tuo potere”. Mi confermò la voce del maestro nella testa, di nuovo serio.
“Tu lo sapevi?”
“Lo sospettavo”. Ammise. E mi seppe tanto di cautela nel modo in cui lo disse. Come se non volesse scoprire tutte le carte in tavola. Ancora. Perché? “Ma non eri uscito?” Pensai confusa mentre il cuore mi martellava ancora rapidamente in petto, stavolta anche per lo spavento che mi aveva fatto prendere. “Sì, ma questo non significa che non possa comunicare mentalmente con te, lo sai”.  «Ma quella era…» Mi costrinsi a riportare la mia attenzione su Shura. Mi tolsi la mano dalla fronte: «È ancora la sua costellazione». Lo corressi.
«Tornerà normale?»
«Non saprei». Lui volse il viso verso di me e domandò, preoccupato: «Non lo sai?» Ma il tono tagliente che gli uscì non lo fece affatto sembrare in pensiero.
«Cioè, è la prima volta che faccio una cosa del genere. Sì, credo di sì, anche se non so ancora come». Decisi risoluta. Poi mi accorsi della vicinanza delle Creature alla barriera e le mandai via dal Santuario, muovendo le mani. 

Shura
Se tu non fossi stato presente non ci avresti mai creduto; nemmeno se te lo avessero raccontato.
Avevi visto una ragazzina appena ventunenne, incosciente come non sapevi chi, che si era gettata nella mischia per salvarti. Ad ora avevi sentito soltanto di un’altra ragazzina che fece altrettanto per un altro Cavaliere e quella, era la sorella minore di Aiolia.
Non eri morto davvero, ci voleva ben altro per stenderti. Guardasti la giovane attendente appoggiata a te, che la sorreggevi. Non solo ti aveva esorcizzato ma aveva anche sconfitto Arles e Mordred. Si vedeva che non era abituata a combattere. Forse Kanon c’aveva azzeccato quando si era inventato quella balla.
Nella salita non le avevi posto domande. Non perché non t’importasse, ma perché non era il caso. Eppure, stavolta non sembrava sotto shock come le altre. Sembrava invece piuttosto determinata e sollevata. Invece, dal canto tuo non immaginavi che celasse in sé tutto quel potere. L’avevate sottovalutata e, pure di molto. Non sapevi se provare gratitudine oppure no, dopotutto era molto ambigua e lei stessa non sapeva chi fosse davvero. Per quel che ne sapevate, poteva davvero appartenere a un’altra fazione guerriera.
I tuoi compagni della Quarta e della Quinta vi raggiunsero tempestandovi di domande, improperi e di rimproveri.  Death Mask non vi seguì.
In breve tempo approdaste alla Sesta. Sperasti che Kanon avesse già insabbiato tutto. Sicuramente qualcosa stava già facendo. La tua mente vagliò i possibili candidati atti all’insabbiamento, tra cui Fudo, Shun e persino Ionia. Finalmente qualcosa di utile lo poteva combinare quel vecchiaccio. Appena varcaste la soglia della Sesta, Shun e i medici vi vennero incontro e si attivarono immediatamente per delle medicazioni emergenza. Foste separati da Astrid, che fu portata altrove. Fosti messo seduto su una sedia e ti aiutarono a toglierti la tua Gold Cloth. Aeson ti dette da bere l’acqua sacra e Aiola ti infuse parte del suo Cosmo taumaturgico.
«Lo sanno?» Fu la prima cosa che gli domandasti dopo aver bevuto. Gli ci volle un po’per capire a cosa si riferisse mentre i dottori si raccomandavano di non fare sforzi. Avevi rimediato delle brutte ferite. E il dolore cominciavi a sentirlo tutto anche se sopportavi. «No, non ancora, non ci sono arrivati ordini».
«Ma nessuno ha fatto nulla per insabbiare la cosa?»
«No, non che io sappia».  
«É un bel guaio».
«Sì, ma ce la caveremo». 
Ancora una volta ti ritrovasti a pensare che non poteva aver fatto tutto da sola. Quell’informazione sui soffitti, poi. Come sospettavi, l’infiltrato era in contatto con lei. E se no era molto probabile che stesse cercando di contattarla. Come compiere una scelta diversa? Anche costui poteva averla eletta a vettore. Considerando tutto aveva senso. “Quindi il nemico è un morto?” Pensasti, andando al di là del dolore, forzando il tuo cervello a mettere insieme le informazioni. Informazioni che rigirasti repentinamente ad Aiolia, mentre ti curava le ferite e contribuiva alla formazione dei coaguli.
«Non avrei dovuto riportarla al Santuario». Borbottò quest’ultimo.
«Invece hai fatto bene.» replicò Shun, mentre trafficava con la cassetta del pronto soccorso. Voialtri lo guardaste. «Se no forse avremmo saputo in ritardo di Mordred». Lui non l’aveva mai visto ma gliene avevate parlato. Ambiguità a parte, Astrid aveva fatto molte cose per il Santuario. Per non parlare di come si era prodigata per salvarti la vita. Ricordavi di essere caduto nell’Inframondo, di esserti trasformato in Baphomet, e anche del salvataggio. Ripensasti a tutto e due domande sorsero spontanee: era questo il potere dei Tarocchi? E soltanto espandendo il suo Cosmo era riuscita a rispedirlo nell’Oltretomba. Se fosse stata una di voi (ti accorgesti), non sarebbe affatto stata ai livelli di un Bronze, neanche a quelli di un Silver, ma tranquillamente al vostro livello. Se non fosse stato per la mezzaluna di sangue sulla fronte sarebbe anche stata meno inquietante. Qualcuno le porse un panno per ripulirsi. «Che mi dici di Saga?» Domandasti preoccupato.
«É svenuto ma non è in pericolo di vita». Decretò il medico dei Gold ritraendo le dita dalle fessure della gabbia. Continuò: «Ora lo tiro fuori, datemi un momento». Ma non ci riuscì. Neppure Excalibur e neanche l’acqua sacra sortirono effetti.  Shun ti guardò stralunato, smettendo un attimo di esaminarla: «Di che materiale è? Dove l’avete trovata?»
Quando glielo dicesti lanciasti un’occhiata in direzione del corridoio di passaggio, dove era stata condotta Astrid. Shun ricambiò incredulo, sgranando gli occhi azzurri come laghi: «È uno scherzo?» Anche se tra tutti eravate abituati ad avere a che fare con un bel campionario di stranezze questa le batteva tutte. «No. Se non fosse stato per lei Arles ci avrebbe uccisi entrambi.» spiegasti. 
Potevi dirlo tranquillamente, tanto sapevate quanto fosse potente Saga. L’attuale Gold Saint di Virgo era di poco meno potente del sopraccitato e, poi, non era tipo da commentare, non avevi niente da temere.
Guardasti di nuovo verso la porta del bagno dove si era rifugiata e stringesti le labbra. Se fosse andata avanti così non osavi immaginare cosa sarebbe potuto accadere alle sue gambe. Ricordavi ancora bene il suo campionario di ferite. Non per reale interesse e preoccupazione, quanto piuttosto per pietà. A essere onesto ti sentivi attratto da lei ma in un modo che non ti sapevi spiegare. Non era attrazione fisica e neanche sentimentale. Solo pena. Il Santuario non era luogo per lei. Forse sarebbe rimasta zoppa a vita o sfigurata. Fortuna che potevate contare sulle sue tecniche di rigenerazione. Ti sentisti in colpa per averla messa in pericolo.
Quando tornò da voi, perfettamente risanata, ripulita e con una camicia da notte nuova, ti alzasti dalla sedia e le domandasti: «C’è modo di aprirla?»
«Non lo so, ma se esiste lo troverò». Promise con occhi pieni di coraggio e risoluzione, proprio come se fosse una di voi. 
Quella notte la passaste nella Sesta Casa. Foste sistemati in due camere diverse e la notte la passaste lì. Fortuna che la Sesta non sapeva come di ospedale. Nonostante ciò non riuscivi a dormire. E dire che di solito crollavi come un sasso. Non erano solo gli interrogativi a tenerti sveglio ma anche il dolore fisico. O il potere dell’acqua sacra era affievolito ancora, oppure la sua azione era più lenta di quanto immaginavi. Non ti restava che sperare negli antidolorifici. Ti girasti sulla pancia ma non ci fu niente da fare.  
Improvvisamente una luce fosforescente si allargò nella tua stanza. Scattasti a sedere girandoti verso la porta - il braccio destro alzato. Con tua grande sorpresa ti ritrovasti a guardare - più vicino di quanto credessi - un volto femminile con due occhi fuori dalle orbite. La giovane, infatti, era ferma ai piedi del letto. «Astrid!» Esclamasti rilassandoti. Abbassasti il braccio e accendesti la lampada accanto al tuo letto, sicché lei spense le proprie dita. «Mi hai spaventato». L’accusasti, coprendoti istintivamente il torso fasciato con la coperta.
«Anche tu». Ribatté rilassandosi un po’, ma non era un’accusa. Le chiedesti cosa ci facesse. «Scusa, credevo che dormissi. Non riuscivo a dormire sapendoti ferito». Spiegò in tono di scuse e poi ti chiese se poteva restare a farti compagnia. Le dicesti che forse sarebbe stato meglio se se ne tornasse a letto, ma poi cambiasti idea. Alla luce della lampada ti parve arrossita mentre prendeva una sedia e si sistemava accanto al tuo capezzale. Ti saresti anche ridisteso non fosse per il dolore. Affondasti nel cuscino. «Non ti preoccupare, ci sono abituato». Poi ti sdraiasti di nuovo e chiudesti gli occhi. Stavi per borbottarle di spegnere la luce quando se ne sarebbe andata ma lei ti prevenne: «Sì però volevo provare a rimediare, almeno a questo».
Apristi uno spiraglio tra le palpebre per guardarla di sottecchi, mentre ti giravi sulla pancia, per stare più comodo.  A causa del dolore non potevi muoverti bene abbastanza per coprirti le scapole e il torso fasciati. Lei non si mosse e tu la scacciasti un’altra volta. «É molto gentile da parte tua ma non dovresti essere qui». “E poi è sconveniente”. Pensasti ma lo tenesti per te. Lei si scusò. «Te l’ho detto, non ci riesco».
Capisti che ti avrebbe dato il tormento finché non l’avresti, quantomeno, ascoltata. Sospirasti e decidesti di accontentarla: «Sentiamo, allora, cosa vorresti fare?» Domandasti, girandoti sul fianco verso di lei. «Lasciami provare ad aiutarti». Dichiarò guardandoti a lungo negli occhi, praticamente supplicandoti con lo sguardo. Alla fine non ce la facesti più: «Va bene».
La ragazza curvò la bocca in un sorriso grato, si rialzò e posò le mani sul braccio fasciato più vicino. Con l’altro ti cingevi il busto, passandolo sotto l’ascella.  
Osservasti i suoi movimenti mentre ti tastava i muscoli del braccio, alla ricerca della ferita. Così spiegò lei quando inarcasti il sopracciglio, perplesso. E sì, avevi pensato male, non mentire.
Appena la trovò scattasti leggermente, sibilando per il dolore. Lei serrò la presa ed esercitò una leggera pressione. Ma quello che ti sorprese di più fu che sentisti dell’energia filtrare attraverso la pelle e non sentisti più nulla. Ripeté la stessa operazione con la testa, le spalle, il torso, la schiena e la gamba sinistra, che scoprì apposta. Girasti il capo per seguire ogni suo movimento. Come ci riusciva? «Non so ancora usare le tecniche di rigenerazione su altre persone però so come spegnere i recettori del dolore». Spiegò senza sollevare gli occhi mentre lasciava scivolare un dito sul tuo piede destro fasciato, immettendo energia quando trovò la ferita. «E per questo non c’è bisogno del Cosmo».
«Stai usando la magia?» Domandasti riconoscendo l’energia che ti aveva sottratto molto tempo prima rifluire dentro di te sospinta dalla sua. Non avresti mai creduto una cosa possibile.
«Sì». Dopodiché passò alle altre parti. Per facilitarla cambiasti spesso posizione. Quando finì lasciò che ti ricopristi da solo. Eppure, in alcuni punti, continuavi ancora a sentire dolore. «Ho circoscritto le ferite più gravi, nell’arco della notte il dolore dovrebbe attenuarsi fino a scomparire». Spiegò in risposta alla tua espressione interrogativa, tornando a sedere. Adesso eri di nuovo girato sul fianco, come prima.  
«Grazie».
«Di niente». Poi notò qualcosa sulla tua faccia e si avvicinò di più. Tu ricambiasti la sua occhiata penetrante con una perplessa, ritraendoti un po’. Che, voleva baciarti? Ma lei si fermò assai prima e non ti bloccò. Non distolse lo sguardo e, fu così che ti accorgesti (arrossendo), che stava fissando le tue iridi. «Oh». Commentò senza spezzare il contatto visivo. Ti accigliasti ma la tua bocca si curvò in un sorrisetto involontario: «Cosa?»
«Hai gli occhi viola scuro, non me ne ero accorta». Sorrise come se adesso non avesse più paura di te. Anche tu sapevi di averli di quel colore e che di giorno sembravano neri a una prima occhiata. Mica avevi gli specchi di legno. Però il modo in cui lo disse suonò come un complimento.
Ti portasti la mano alla bocca per nascondere lo sbadiglio in cui ti profondesti. «E i tuoi non sono solo gialli». Te ne uscisti poi quando togliesti la mano. Da lontano sembravano gli occhi di Paracelsius ma da vicino si notava tutta la differenza. Queste erano decine di volte più affascinanti e dettagliate. Era come essere osservati dal Cosmo. Lei chiuse la bocca senza smettere di sorridere, poi si rialzò. Ma le palpebre a mezz’asta le notasti chiaramente, come pure lo sbadiglio in cui si profuse lei stessa. «Ora ti lascio dormire, buonanotte». Ti salutò con un ultimo sorriso, prima di rimettere a posto la sedia e imboccare la via della porta. Ricambiasti e spegnesti la luce.

L’indomani, quando ti svegliasti dal tuo sonno profondo e ristoratore, sentisti lo scrosciare della pioggia fuori della Sesta. Qualcuno bussò alla porta. Dei medici fecero il loro ingresso e, ti aiutarono a indossare degli abiti presi dalla Decima dopo aver controllato le ferite e aver cambiato le bende. Ormai eri abituato a tutti questi controlli. Dopo Shun eri forse il Gold che passava più tempo incerottato e ferito. Persino più di Seiya, che ti venne a trovare. Però fu Shun ad accorgersi della tua ritrovata vitalità. Non ti eri sentito più in forze a questo modo da molto tempo. Ti sentivi traboccante di energia, nonostante il dolore.
«É successo qualcosa, ieri sera?» Ti domandò il secondo padre di Natasha (che la piccola peste chiamava affettuosamente mamma) a colazione.
«Niente di rilevante». Mentisti. Poi ti guardasti attorno e chiedesti di Astrid.
«Non si è ancora svegliata». Rispose il fratello di Seiya mentre ti sedevi e cominciavi a servirti.
«Meglio per noi, cibo in più». Ribatté Seiya. Se non altro non aveva tirato in ballo una delle sue solite opinioni su di lei. Eravate tutti a conoscenza della sua diffidenza nei confronti di Astrid, diffidenza che lo portava a comportarsi come se avesse avuto davanti un nemico, più che una persona. Sotto quest’aspetto era molto simile ad Aiolia. Però lui si limitava a voltare le spalle con un mezzo ringhio e fare orecchie da mercante. Tenendosi per sé tutto l’odio e l’ira. «Non essere così ingordo, Seiya. Cerca di capire quella poverina, ieri sera ha sprecato un mucchio di energia». Rispose Shun. A proposito, lo guardasti: «Hai capito come è riuscita a sconfiggere Mordred?»
«Ho potuto vederlo di persona». In quanto Saint di Virgo era capace di scrutare oltre le dimensioni. E vi raccontò come c’era riuscita, comprese l’origine della mezzaluna rossa.
«Quindi ho ragione, non è una persona normale. Ma allora se ha un Cosmo così potente, perché non l’abbiamo sentito?» Ribatté Seiya.
«Ancora non lo so. A dirla tutta comincio a pensare che la balla di Kanon non corrisponda alla verità. A volte può darsi che nel dire una cosa s’incappi accidentalmente nella verità».
«Cioè che lei abbia davvero perso parte della sua memoria e che fosse effettivamente un’apprendista Bronze Saint dai poteri molto sviluppati?» Tradusse Seiya. Suo fratello confermò con un cenno del capo.
«Ma se così fosse a quale Armatura era designata? Non ho mai sentito di un Bronze con tecniche così». Disse poi il Santo di Sagitter. «Tu che ne pensi, Shun?» Fece poi, guardandolo.
«Milady sa leggere nel cuore delle persone e si fida di lei, altrimenti non le avrebbe mai concesso di restare. Io ho avuto modo di conoscere Astrid e non ho visto malvagità di nessun tipo nel suo animo».
«Non puoi negare che sia pura d’intenti come Atena».
«Non ho mai detto che lo sia. La definizione corretta sarebbe, passatemi il termine, stronza». Rivelò Shun. A te tornarono in mente Death Mask, Sirrah, Kanon, Aphrodite e un po’ anche Milo. «Però non si può negare che abbia fegato e un gran senso di giustizia».
«Oh, finalmente qualcuno che l’ha capito». Ribatté la voce impastata della chiamata in causa, a mo’ di buongiorno, facendovi trasalire. Poi sbadigliò. Vi giraste e la vedeste richiudere la bocca e calare la mano che la nascondeva. Prima di raggiungervi al tavolo ancora assonnata. «Mi fischiavano le orecchie». Scherzò mentre si accomodava e si serviva a sua volta, scoccando un’occhiataccia a Seiya, per la serie: “Te lo sogni che finisci anche la mia parte”. Occhiata cui il Cavaliere di Sagitter rispose con una fulminante. Ma, non si alzò, come invece avrebbe fatto durante l’adolescenza. «In che senso ti fischiavano le orecchie?» E lei gli spiegò che in Italia usavano dire che fischiano le orecchie quando qualcuno parla di loro. Si avvicinò una tazza di caffellatte. «Invece, in Giappone, se non sbaglio, starnutite.» Un lieve sogghigno le incurvò la bocca: «Non oso immaginare cosa succede se avete il raffreddore». Poi bevve. Seiya la guardò esterrefatto. Shun ribatté, sorridendo divertito: «Bè, io non oso immaginare voi con l’otite».
«Touché». Concesse poi fece un cenno del capo, abbassando la tazza. A quel punto prendesti parola anche te e ti rivolgesti a Seiya e Shun: «Come ha gestito la faccenda Kanon?»
«Non l’ha gestita, ha detto che ve ne siete occupati voi e i Marine si sono complimentati per la vostra forza. Nessuno sa che cosa è successo veramente».
«La Terza ha retto agli effetti del blazar?» Domandò preoccupata Astrid spalmandosi la marmellata di pesche su una fetta di pane e burro. «L’energia che ho usato per bloccare il Galaxian Explosion di Arles». Spiegò di fronte alle occhiate perplesse dei due.
«Sì. Poi, Kanon ha provveduto a ristrutturarla con il suo Cosmo».
«Non potevate farlo anche mesi fa?» Domandò la vostra ospite, ragionevole. «Sì, ma con i tempi che corrono preferiamo ricorrere al Cosmo solo in casi di emergenza». Spiegasti tu e la ventunenne si fece bastare questa spiegazione. Poi mangiò.
«Intanto voi due restate qui a riprendervi. Penseremo noi a coprirvi. Per quanto riguarda i Marine, non credo che faranno domande sulla tua assenza, Astrid. Ma sulla tua sì. Pertanto, ti suggerisco di tenere il Cosmo azzerato e di restare qui finché non starai meglio». Ribatté Shun.
«Siete sicuri di farcela?» Chiedesti.
«Sì, non preoccuparti».
«Lo sai che devo continuamente bruciare il Cosmo, altrimenti verrò rigettato via da questo mondo, metti caso succeda qualcosa potrebbe accadere l’irreparabile». Gli facesti notare. Che a volte questo scherzetto te lo faceva ancora, più a te che agli altri. Ma non avevi mai compreso il perché.
«A tenerti ancorato qui ci penso io». Promise Astrid, intromettendosi, dopo aver inghiottito. Poi alzò una mano e materializzò uno dei bagliori fosforescenti a pochi centimetri dal palmo. Che ti porse. Tu ponesti esitante il tuo palmo ancora fasciato e lei fece scivolare il piccolo globo lucente a pochi centimetri dalla tua carne. Stranamente, la sentisti scaldarti la mano come un sole in miniatura. «Che cos’è?» Chiedesti in coro con Seiya e Shun, osservandola.
«É una delle stelle del mio Cosmo. Finché il portale resta aperto hai bisogno di una fonte di gravità più alta di quella terrestre. Non c’è niente di meglio di una stella e il potere della Carta della Morte farà il resto».
«La Carta della Morte?» Ripeté Seiya. Poi: «Tu hai un Cosmo?» Shun glielo confermò.
«La ringraziasti stupito dalla sua sincerità e dalla sua devozione.
«Ma non dovrebbe essere un buco nero, la fonte di gravità più alta esistente?» Rilevò Shun, perplesso. Lei confermò e disse che non poteva crearne uno. Gli effetti sarebbero stati catastrofici. “Giusto”.
«Mi spiegate cos’è questo discorso delle carte? E cos’è un blazar?» Domandò Seiya ma ancora una volta lo ignoraste e tu le domandasti se fosse il potere dei Tarocchi. Intanto il globo di luce si posizionò poco sopra la tua destra come un bizzarro asterisco. Lei annuì e vi spiegò di cosa avesse fatto quella notte quando eri stato scagliato nell’Aldilà. Non sapesti se sentirti a disagio o lusingato. «Ma io non ero morto». Rilevasti. Lei s’immobilizzò un secondo, poi disse: «Neppure sei davvero uno Specter». Da lì in poi ti parve sollevata.      

Shun aveva insistito affinché vi fermaste anche per questa notte, ma tu te ne eri voluto tornare alla Decima. Erano già due giorni che vi trovavate qui. In questi due giorni erano venuti a trovarvi i vostri colleghi, e i tuoi sottoposti. Death aveva scambiato qualche parola con Astrid. Non ci avevi capito molto ma il succo era che adesso sapeva come dare alle carte quel qualcosa in più. Magari un giorno te la saresti fatta spiegare.
La visita meno gradita fu quella dei Black Saints, che erano venuti a trovare la loro regina. Così almeno la consideravano. L’avevano informata su tutto ciò che accadeva nel Santuario e le avevano rinnovato il loro giuramento di fedeltà. Che lei, puntualmente, non aveva accettato concedendogli il beneficio del dubbio. Anche l’ex sottoposto di re Artù venne a trovarvi.
«Hai onorato il tuo debito, adesso?» Gli domandasti.
«Quasi, devo ancora fare qualcosa». Aveva ribattuto enigmatico. Voi due non ribatteste: alle sue stranezze ci avevate fatto l’abitudine.
Anche i lemuriani vennero a salutarvi. Kiki, soprattutto. Tu sogghignasti sotto ai baffi per tutto il tempo che lui rimase in vostra compagnia. Anche quando Astrid fece il tè e ve lo servì a mo’ di spuntino, tanto Shun aveva detto che potevate usufruire della cucina come volevate, a patto che poi rimetteste in ordine. Gliel’avevate lasciato fare perché era l’unica a ricordarsi con precisione dove Shun tenesse l’occorrente per preparare un tè. Memore di quei mesi di servizio come collaboratrice domestica generale.
Non si notava chi fosse venuto veramente a salutare, no, no. Eri indeciso se scoppiargli a ridere in faccia o provare compassione per lui: si notava lontano un miglio che era cotto dell’altra infortunata della Casa della Vergine. Lo avresti tartassato al momento opportuno, come facesti a suo tempo con Saga e con Yoshino.
Per il resto avevate passato il tempo a poltrire. Tu non ricordavi neanche più quando fu l’ultima volta che passasti senza fare niente. O quasi, visto che stavate rispettivamente a vegliare Saga, e tentare di liberarlo. Non si era ancora svegliato. Per avere i poteri delle stelle erano un po’ scarsi, o forse si stava accollando troppe responsabilità e non ce la faceva. Forse non avrebbe dovuto accanircisi così.  Gliel’avevi suggerito ma lei ti aveva guardato poco convinta.   
Death Mask aveva richiuso il portale sull’Oltretomba e tu avevi restituito ad Astrid la sua stella. Le avevi detto che se si stancava poteva anche smetterla di sostenerti ma lei aveva scosso il capo e aveva continuato finché non c’era più stato bisogno. Ma adesso t’interessava di più scoprire come andassero le trattative. I Marine non avevano voluto sapere altro oltre la balla, si erano solo profusi in complimenti sulla comodità di letti e stanze nella Tredicesima. La stesura del patto stava procedendo a gonfie vele. Il Generale di Sea Dragon ti mandò i suoi auguri di pronta guarigione quando seppe che eri rimasto ferito.  
Però, tu e Saga non ve ne eravate andati da soli. «Posso restare da te, stanotte? Dell’ospitalità di Shun ho abusato anche troppo e beh alla Tredicesima, credo che ormai lo sappiano. Però voglio provare a vedere se riesco a fare qualcosa, se non altro, per svegliare Saga. Non ti preoccupare che toglierò il disturbo subito». Promise Astrid guardandoti piena di paura che neanche quel vago tentativo di ironia riuscì a cancellare. Non c’era niente di sensuale nella sua domanda, era solo una ragazza che sperava di restare a casa di un amico per sfuggire un po’all’inferno della sua. Almeno questo eri abbastanza intelligente per capirlo. Perché riconoscevi quegli occhi: erano gli stessi di Aiolia quando tutti lo schifavano per il “tradimento” di Aiolos. Solo che lui non aveva potuto trovare rifugio alcuno. Aveva cominciato a guardarvi con occhi diversi quando lo andaste a recuperare nel Tartaro. 
Stavi per negare quando ti ricordasti di Ionia e allora acconsentisti. «Va bene».
«Sei sicura, Astrid? Lo sai che non c’è problema se resti un altro po’». Le disse Shun.
«Ti ringrazio, ma non c’è bisogno». Disse la ragazza mettendo su Natasha. Anche lei vi aveva fatto compagnia in questi due giorni. «Come vuoi allora ci si vede domani».
Salutaste entrambi il vostro amico e vi avviaste portando con voi Cocteau, che adesso ronfava beatamente nella sua gabbietta. Ti faceva strano trasportarlo così, invece che sentire i suoi artigli sulla spalla e la sua voce all’orecchio. Ancora adesso ti aspettavi di sentirlo parlare, 
ma non fu la sua voce quella che sentisti. Bensì quella di Astrid: «Allora è vero». La guardasti e aspettassi che continuasse. Lei sollevò i suoi occhi su di te: «Quello che ho sentito su di te al Santuario è vero». Specificò.
«Ti riferisci al demone dentro di me che prende il sopravvento ogni volta che perdo il controllo? Sì, è vero. Solo che a differenza di Saga, il mio è un mostro a sé stante che non si sconfigge così facilmente. Mi dispiace che tu lo abbia affrontato». Questa situazione ti dette un senso di dejà-vu. Solo che se allora Yoshino ti disse che non importava, la sua amica invece, sconvolta: «Io… non so cosa dire, davvero». A causa della frangia a tendina non potesti scorgere il suo sguardo. Tanto non l’avresti vista comunque, guardava gli scalini davanti a voi. 
Cacciasti la mano libera in tasca e ribattesti: «Non c’è niente da dire, non potevi saperlo». E ti rendesti conto di aver scoperto un’inconcepibile verità su di lei: non ti conosceva. Non solo perché non ti eri mai molto aperto con lei, ma perché non ti aveva mai letto la mano. Lei conosceva vita, morte e miracoli di una persona solo se leggeva la sua mano, ma soltanto di quella persona. Quel poco che sapeva di te lo dovevi alla lettura che esercitò su Death. La verità era che le mancavano il tuo punto di vista e le tue esperienze, il tuo pensiero, il tuo stesso addestramento. In parole povere, non aveva avuto accesso ai ricordi di nessuno di voi, solo a quelli di Death. Altrimenti avrebbe riconosciuto immediatamente Saga nelle sembianze di Cocteau. Come avevi fatto a non arrivarci prima? 
La guardasti di sghimbescio mentre salivate le scale, passando la Casa di Milo. Il quale, appena vide Saga ancora in quello stato strabuzzò gli occhi e ti tempestò di domande. Cui rispondesti durante il tragitto che vi separava dalla Decima. Solo una volta lì vi lasciò andare, lanciando rispettivamente un’occhiata preoccupata al vostro compagno e un’occhiataccia ad Astrid, che, essendo voltata di spalle, non ricambiò. Una volta superata la casa di Seiya, pronunciasti: «Vieni, vedrò di fare qualcosa per te». La guidasti nel salotto dei tuoi appartamenti privati.
Non che fosse molto diverso dalle altre Case, forse c’erano solo più elementi estremo orientaleggianti. Mancavano i tatami, forse, ma le stampe giapponesi di samurai e di battaglie, tra cui una katana ornamentale e un bonsai sul tavolo da pranzo, c’erano. Con la scusa della ristrutturazione avevi anche fatto sostituire le porte con quelle scorrevoli. Decisamente più facili e più comode da aprire. Ti domandò dove fosse il bagno. Per pura cortesia, chiaro, lei aveva sicuramente fatto le pulizie anche qui.
Glielo indicasti comunque e lei si avviò. Le preparasti il divano meglio che potesti. Le avresti aperto la camera degli ospiti ma l’avevi riconvertita a magazzino da diversi anni. Inoltre nessuno si fermava mai a dormire da te. Non eri quel genere di uomo che si avventa addosso alla fanciulla che passa la notte in casa sua. Come se non bastasse eravate nel Santuario. Non potevate profanare le Dodici Case con un atto che andava contro la verginità della Dea. Ovvio che anche voialtri avevate avuto (più o meno) le vostre esperienze. Anche se non molto approfonditamente (soprattutto considerando le giovani età in cui la vita vi era stata tolta) e un po’incomplete in alcuni casi. Dopotutto eravate solo dei ragazzi. Se volevate passare una serata diversa in compagnia, vi bastava scendere a Rodorio e risalire la mattina dopo. In questo senso ti domandasti come facessero Aldebaran e Shaina. Che c’era di sorprendente? Niente, eri un uomo anche tu, nonostante il ruolo da te rivestito.     
Scacciasti questi pensieri. Non era il caso che la tua ospite percepisse qualcosa di inopportuno da te. 
Le desti qualche coperta e un paio di cuscini per farla stare comoda. «Ecco, spero che ti vada bene». Le dicesti una volta finito e lei ebbe fatto la sua ricomparsa in salotto.
«Andrà benissimo.» rispose abbozzando un sorriso. Si sedette sul divano, si tolse i sandali e s’infilò sotto le coperte. Poi rimaneste a guardarvi, impacciati. Non sapevi cosa dire e cercasti di cavarti dall’impiccio con un: «C’è altro che posso fare per te?»
«No, stai tranquillo». Chiuse gli occhi e si girò sul fianco.
Era la seconda volta che qualcuno ti scagliava una tecnica che portava alla luce il tuo lato oscuro. Già non te l’eri perdonato una volta per le conseguenze, figuriamoci adesso. E, ancora una volta, eri stato salvato. Non sopportavi l’idea che un innocente ci potesse rimettere per quello che eri e per il demone dentro di te. Ma lei scosse il capo, continuando a tenere gli occhi chiusi e la voce che cominciava già a impastarsi: «No, tu non hai nessuna colpa».
Restasti interdetto, nessuno ti aveva mai detto quelle parole, né tu ti saresti mai aspettato di sentirle. «Buonanotte». Dicesti. Lei ricambiò il saluto e non disse altro. Poi ti avviasti alla tua stanza.
Ti coricasti ancora preoccupato ma anche sollevato.

Ti svegliasti a metà della notte per via della sete e andasti in cucina a bere qualcosa. Una volta bevuto mettesti il bicchiere nell’acquaio e te ne tornasti alla tua stanza. Proprio allora Astrid si svegliò di soprassalto.  «Tutto a posto?» Le domandasti.
Lei sussultò, poi si rilassò e la sentisti sospirare: «Sì, credo un brutto sogno». Non ti ricordavi se Yoshino ne avesse mai fatti. Si giustificò in tono sommesso, come se ti stesse chiedendo scusa. «Soffro di incubi da quando è cominciata tutta questa storia. Sogno spesso che qualcuno mi ammazza. In quei sogni muoio sempre per colpa degli Specter, dei Dryad o dell’Albero del Conflitto o per colpa di…» deglutì, «vorrei riuscire a smettere di fare questi sogni, ma non ci riesco». Disse con rabbia e frustrazione. Tu non dicesti niente, non eri la persona migliore per elargire consolazioni. Né quando Lancelot ti affrontò raccontandoti la sua storia e, neanche Mordred. A dir la verità sapevi chiedere scusa ma non sapevi consolare. Tu che ti eri macchiato a tua volta di un peccato gravissimo, per poco non la uccidevi, posseduto nuovamente a causa del tuo demone Ancora una volta avevi perso il controllo. Per questo non ti spiegavi perché avesse deciso di dormire da te. Forse per cominciare subito l’indomani mattina il lavoro di liberazione. Oppure semplicemente voleva la tua compagnia o, con la sua presenza, voleva ricordarti che non eri solo. Tutto era possibile.   
Andasti in cucina e le riempisti un bicchier d’acqua e che poi le porgesti dicendo: «Tieni».
Lo prese un po’stupita e ringraziò sottovoce. Restò a fissarlo per un po’, persa nei suoi pensieri e tu, allora proponesti di cominciare ad allenarsi? Ti guardò un po’stranita: «Allenarmi? Per fare cosa?»
«Per imparare a difenderti. Non dico che devi sottoporti a un nostro addestramento, anche se sarebbe la cosa migliore…»
Lei t’interruppe: «Il vostro addestramento no, non credo che riuscirei a sopportarlo. Non sono una guerriera, non voglio un’Armatura. Combattere non è nella mia indole, non come fate voi». Poi chinò il capo. Davvero, forse era il sonno, forse era che eri stanco, però non la capivi. Soprattutto la sua contraddizione. Ma non era lei che conosceva la naginata?
Ti sedesti sulla poltrona accanto al divano. Mai come ora i suoi occhi ti parvero fatti d’oro liquido. «Neanche in quella di Shun, però combatte lo stesso». Le facesti notare.
«Il suo caso è ancora diverso. Capisci quello che voglio dire? Io non sopporterei di fare del male a qualcuno, figuriamoci di combattere».
«Però per aiutarci sei scesa in campo». E aveva sconfitto Eris. Te lo ricordavi bene come era finita, per poco non ti moriva tra le braccia. E per poco non prendeva Aiolia a bastonate. «Non pensi che potrebbe tornarti utile saper almeno sferrare un pugno? Non dico che devi diventare un Saint ma almeno poterti difendere, pensi che sarebbe così sbagliato? Non tutti sono accondiscendenti come noi, che siamo facilmente minacciabili con un mocio vileda o uno sturacessi» dicesti con un sorrisetto divertito. Sì, anche tu avevi sentito questa storiella, «o una padella. Almeno noialtri abbiamo il senso dell’onore e del dovere, ma non posso garantirti lo stesso per altri guerrieri. In più hai questi poteri che servono per custodire questa Luce Ombrosa, a me sembra una ragione in più per imparare a combattere, non pensi?» Lei bevve un altro sorso e fece un sorrisetto ironico, poi domandò chi avrebbe voluto perdere tempo ad allenarla. Come se fosse feccia. Alzasti le spalle, cercando di ponderare la questione. Intuisti che questa conversazione poteva prendere una piega spiacevole, perciò dicesti: «Non so, prova a chiedere in giro, vedrai che qualcuno lo trovi».
Si passò una mano tra i capelli e ti guardò. Poi sorrise amara: «Perché a voialtri Gold fa schifo allenare un’ancella? Come darvi torto, dev’essere davvero degradante». Ignorasti la frecciatina. Adesso era tornata a considerarsi un’ancella del Tredicesimo Tempio. Prima si considerava un’Incantatrice, adesso di nuovo un’ancella. Bah, non l’avresti mai capita. «Non ho detto questo».
«Lo so». Mormorò in tono sommesso, poi tracannò ciò che restava dell’acqua.
«Perché vuoi proprio un Gold come insegnante?» Domandasti incuriosito. Ti corresse senza guardarti che in realtà preferirebbe che fosse uno di voi dodici. Le ginocchia sollevate fino a toccare il proprio mento. Riformulasti la frase. «Forse perché siete i più forti e forse anche per dimostrarvi che non sono una nemica e che non voglio farvi niente?» La voce le uscì sarcastica.
«Ce l’hai già dimostrato non c’è bisogno di ribadirlo». Rilevasti, parlando più per te stesso che per gli altri. E lei lo comprese, lasciandoti basito, anche se non lo desti a vedere. Era veramente sveglia come sosteneva Death: «Forse a te, ma a Milo, Aiolia o il gemello di Saga, no. Potessi lo chiederei a loro, anche se non ne sarebbero molto entusiasti e come dargli torto! E pensare che lì per lì pensavo che ti stessi offrendo te». Sorrise poi, divertita e scosse il capo. «Eh mi dispiace, io non sono un insegnante.» confermasti. Ciò però non ti impedì di continuare a cercare una soluzione per lei: «Shiryu però sì e anche Castalia e Shaina. Potresti farti allenare da loro. Sono sicuro che non si rifiuterebbero se glielo chiedi. Vuoi che lo faccia io?» Domandasti cogliendo la piega d’incertezza della sua bocca. Non ci sarebbero stati problemi per te scendere tre Case e andare da Shiryu.
«Magari un’altra volta, adesso abbiamo un problema più urgente», disse accennando a Saga.
«Non si è ancora svegliato?» Domandasti impensierito, guardandolo a tua volta.
«Neanche una volta». Affermò lei stropicciandosi un occhio con il palmo.
«Va bene. C’è altro che posso fare per te?» Lei ti guardò, tuffando i suoi occhi luminosi nei tuoi e ti sorrise con gratitudine; «No, va bene così, grazie».
Ti alzasti: «Allora me ne torno a dormire, buonanotte». Ricambiò con una dolcezza e una delicatezza che ti fece palpitare il cuore. Per poco non incespicasti, ma fu un istante così breve che lei non ci fece caso. Una volta in camera tua ti stendesti sotto le coperte e ti addormentasti cercando di non pensare alla tua reazione.
                                                                        
 
Shaka
Ripensasti alla battaglia mentre pregavi per i defunti. Adesso stavate contribuendo a soccorrere i feriti, fare qualcosa per i morti - perlomeno elevare una preghiera. Quando le anime morivano si dissolvevano. Questa guerra non avrebbe neanche dovuto scoppiare. Eravate subito corsi alle mura ben misere rispetto ai bastioni del Santuario e del palazzo di Hades. Quella cancellata di metallo non avrebbe resistito a lungo. Rhadamantys vi aveva mandati qui perché era la fascia più debole. E a giudicare dai pochi Skeleton presenti era anche ovvio che volesse vedervi morti. Lo compatisti: avrebbe avuto una bella sorpresa.
Ti mettesti in posizione e ti ci volle poco per concentrare il Cosmo e levitare. Quando arrivarono i primi colpi sferrasti il tuo Khān e li distruggesti. Se gli avversari erano tutti così sarebbe stata una passeggiata. Camus eresse una barriera di ghiaccio davanti al cancello. Ma c’era qualcosa di strano. Improvvisamente, oltre la lastra vedeste brillare qualcosa. Non faceste neanche in tempo a capire
Una Diamond dust? Chi poteva essere stato? Soltanto i Gold Saint di Aquarius e il Bronze del Cigno conoscevano quel colpo. «No, questa non è la Diamond Dust…»
«Come?»
«É l’Aurora Borealis. Ho aiutato io a perfezionarla». Camus accanto a te tremava e fissava il cancello. L’elmo gli era volato via ma non era caduto. Non avresti saputo dirlo neanche te con certezza, ma era spaventato. «Cosa significa?»
«Ma il suo esecutore dovrebbe…» La polvere si assestò e voi abbassaste le braccia. Non era stato un colpo di inferiore forza, era qualcuno che aveva un Cosmo pari al vostro. Non lo percepivate, probabilmente era un defunto. Una sagoma emerse dalla polvere, le macerie e i fiocchi di neve «Isaak!» Esclamò Camus. Chi?
«Perché ti sei fermato? Colpiscilo!» Lo esortasti. Ma Camus esitò. Non l’avevi mai visto così combattuto. Che diavolo gli prendeva? L’avversario monocolo sferrò un colpo. «Vi trovo bene, nobile maestro». Lo salutò il Generale degli Abissi. La sua scale riluceva.
Gli Skeleton dietro di voi brandivano le falci e attendevano.
Tu credevi che Camus avesse avuto sempre un solo allievo, cioè Hyoga, questo qui chi diavolo era? Ah, probabilmente non doveva essere sopravvissuto all’addestramento. Anche Fianna accanto a lui era spaventata. Eppure non si mosse. Le Creature si tenevano a distanza. Com’era possibile? Ah, già, anche il Marine di Poseidone era uno spirito. «Fianna, vai». Disse soltanto Camus, dandosi un contegno. La bambina lo guardò e obbedì, anche se a malincuore. A giudicare dallo sguardo che gli lanciò prima di uscire dal vostro campo visivo capisti che non sarebbe andata lontano. 
Camus e il suo allievo si fronteggiarono: «Dunque maestro ci ritroviamo dopo tutti questi anni. Mi fa piacere vedere che lei non è più sotto il controllo del nemico».
«Ma in compenso adesso ci sei tu, come è possibile?» Chiese stringendo i pugni. Anche tu arretrasti. Qualcosa ti diceva che eri di troppo. Saltasti sul ramo di un albero e da lì restasti a osservare la situazione. Fianna levitava accanto a te e pregava nella sua lingua natale. Il vento vi portò le parole che si scambiarono. «Non abbiamo avuto scelta, mi dovete perdonare, ma se non vi sconfiggeremo saremo noi quelli che moriremo». Si scusò il monocolo e cominciò a concentrare il suo Cosmo. Poi scagliò l’Aurora Borealis. Fianna si protesse il viso con le mani, mentre tu eressi la tua barriera e la tranquillizzasti. «Stai tranquilla, Camus è più forte di quanto sembra, non si farà sconfiggere facilmente, guarda». La bambina guardò e vide anche lei: Camus era illeso, soltanto un po’più scarmigliato. Avevi avuto ragione, la disparità di forza tra voi Redivivi e i morti era ancora notevole. Camus alzò le braccia nella posa dell’Aurora Execution e tu curvasti la bocca in un sorriso. Anche se non diceva nulla tu percepivi il suo Cosmo e lo sentivi traboccante di dispiacere. Era come se dicesse: “Mi addolora vederti ridotto in questo stato. Non avrei mai voluto vederti così. Se l’unica cosa che posso fare per salvarti e rimandarti nel Cocito allora così sia. Te lo devo in quanto maestro e padre”. Ciononostante non riuscì a sferrare il colpo con tutta la sua potenza. Perché quando la polvere si dissolse anche Valentine si rialzò, dolorante e ammaccato con la Scale a pezzi. «Vattene». Gli consigliò chinando il capo.
«Maestro…»
«Sweet chocolate!» Gridò una voce. E diverse arpie si materializzarono attorno a Valentine e cominciarono a succhiargli la forza vitale. «Valentine!» Esclamò Camus.
«Incompetente. Ecco perché non posso lasciarti da solo neanche un minuto.» lo rimbeccò l’Arpia, sospeso a mezz’aria poco dietro di lui. «Cos’è il tuo cuore di ghiaccio s’è sciolto? Dov’è finito l’orgoglio e la fierezza dei Gold Saint di cui tanto ti vantavi?»
«No, Valentine, non t’immischiare, questo è affar mio».
«Allora vedi di sbrigarti, perché se me ne occupo io di lui non resterà nulla». Poi se ne andò ad aiutare a un altro bastione. Maestro e allievo malconcio tornarono a fissarsi. Sembrava che stessero comunicando in silenzio e senza parole quando: «Perché non attacchi, Isaak?» Domandò un uomo con una cresta che ti ricordò gli hare krishna avanzò verso di loro. Come te teneva gli occhi chiusi.
«Krishna!» Esclamò l’allievo di Camus. Alzasti di poco le sopracciglia. Percepivi una grande forza provenire da lui. E non ti servivano gli occhi per vederlo. Avrebbe potuto essere tranquillamente un tuo discepolo.
Questo era fatto di una pasta completamente diversa da Isaak. Qui Camus si sarebbe trovato in seria difficoltà. Smettesti di levitare e raggiungesti il tuo compagno. Lo chiamasti e questi ti guardò da sopra una spalla: «Prendi Isaak e la bambina e va via da qui».
«Perché?»
«Questo non è un avversario che potrai combattere tanto facilmente». Lui ti guardò per qualche secondo prima di darti ragione e fare come ti aveva detto. Fece cenno ad Isaak di seguirlo e poi i due corsero via. Fianna li seguì. Da questo momento potevate considerare il Marine di Kraken un prigioniero di guerra. Tornasti a guardare il tuo avversario. «Oh, voi dovete essere il Gold Saint di Virgo, colui che si dice sia l’uomo più vicino agli Dèi in Terra». Ti salutò rispettoso.
«Tu parti avvantaggiato, io non ti conosco». Rispondesti garbato.
«Avete ragione, io sono Krishna di Crisaore, il Generale dell’Oceano Indiano è un grande onore per me incontrarvi. Io a differenza di voi porto solo il nome dell’eroe in cui s’incarnò il Dio Vishnù». S’inchinò in segno di rispetto. Tu tacesti.
Quello che ti preoccupava davvero era la sua lancia. Le ferite inferteti dall’Azona tornarono a bruciare. Anche se superficiali era comunque riuscita a danneggiare la tua Cloth. Avevi sentito dire che la golden lance avesse trapassato con estrema facilità la Cloth del Dragone. Non era una notizia rassicurante a prescindere dalla fragilità delle Cloth. E non avevi neanche il mala, ma il mala non era la tua forza. Tu eri sufficientemente forte per spezzargliela. Anche se sarebbe stato difficile. Avevi osservato quel combattimento anche tu dalla Sesta. Se questo tizio non era scemo, probabilmente avrebbe cercato d’impedirti di spezzargliela un’altra volta. Avevi anche un altro asso nella manica. Anche se avesse saputo della battaglia delle Dodici Case, non poteva comunque averti visto in azione. «Mi dispiace davvero che ti sia toccato di affrontare me. Hai una possibilità, se ti inginocchierai a me avrai salva la vita». Concedesti, magnanimo.
«E se mi rifiutassi?»
«Io ti annienterò». Dicesti con calma. In realtà non avevi intenzione di annientarlo. Non era la prima volta che ti confrontavi con qualcuno di nativo dalle tue radici. «Mi dispiace, Mahatma, credo proprio che non lo farò».
«Sia il fato che tu stesso hai scelto». Avresti voluto che ti accontentasse. Perché nessuno lo faceva mai? Solo perché indossavi questa Cloth non significava che avresti esitato a togliere la vita a qualcuno. Non eri né un assassino né un mostro, eri solo deciso. E sapevi bene che se tu non avessi ucciso, il tuo avversario non ti avrebbe riservato la stessa cortesia. «Così sia». L’uomo provò a scagliarti la lancia ma con la telecinesi. «Non è possibile, la mia lancia sacra…»
«Neanche la tua lancia vuole colpirmi. Non è una prova sufficiente per te?» Chiedesti in tono neutro. Ma in realtà avevi cominciato a sudare. Fu il colore del tuo sangue a tradirti. Krishna lo vide e disse: «Allora voi non siete la reincarnazione di Buddha. Questo significa che sono stato ingannato. Sei un impostore!» Esclamò furibondo e ti attaccò con più furia e foga. Se prima aveva esitato ora non esitava più. Non riuscivi nemmeno a bloccarlo con la telecinesi. La rabbia aveva accresciuto la sua forza.  Accidenti. 
«Khān!» Urlasti e lui saltò via per evitare l’esplosione. Accidenti se era rapido. Addirittura ti consigliò di rinunciare e di passare dalla loro parte. Don Avido sarebbe stato generoso con lui. Tu rifiutasti. Tu combattevi per la pace e per Atena. Non ti saresti mai schierato dalla parte di un tiranno. “Non più”. Per questo, sebbene grondante di sangue ti rialzasti e, con un colpo riuscisti a fargli volare via la lancia, che si conficcò nel terreno a qualche metro da voi.
«Mi dispiace ma questa è una guerra e la lancia di Poseidone non è la mia unica arma». Si mise a gambe incrociate e cominciò a meditare. “Sta concentrando il suo Cosmo, probabilmente nel suo repertorio ha un colpo che si basa sul Khān come me, devo stare attento.” Caricò ancora il suo Cosmo. “Forse ho qualche chance di sopravvivere se riuscissi a trovare il suo punto debole, ma qual è?” Non riuscisti a vederlo che esclamò: «Mahā Roşni». E un’ondata di luce t’investì. Ti ritrovasti a fluttuare nel buio. Dov’eri finito? Che posto era questo? Avevi un vuoto di memoria. Ah, già! La battaglia, Crisaore! Maledizione, doveva averti stordito. Dovevi svegliarti.
Improvvisamente udisti una melodia. Girasti la testa a destra e a sinistra alla ricerca della fonte ma non la trovasti. Poi vedesti anche la luce illuminare le membra dietro di te. Sollevasti le braccia e vedesti che t’illuminava il dorso da sotto. Solo allora realizzasti di essere sdraiato. Ma cos’era? Ti girasti e vedesti la fonte di luce e di suono. Era l’album da disegno dell’Azona? Come era arrivato qui? Non ricordavi di averlo portato con te! Da lì stava uscendo quella voce? Fluttuasti fino a raggiungerlo e quando fosti vicino tendesti una mano verso le pagine. La luce s’intensificò e ti avvolse. Riapristi gli occhi immediatamente e vedesti il tuo avversario calare la lancia su di te. L’afferrasti con entrambe le mani e la fermasti. «Cosa? Com’è possibile? Il mio colpo avrebbe dovuto accecarti e condurti alla Dimenticanza e alla morte!»
«Già devo dire che per un attimo mi hai colto di sorpresa». Ammettesti coi muscoli tremanti per lo sforzo. Accidenti, era parecchio più forte di quanto ti aspettassi.
«Mi dispiace davvero, ma mi aspettavo di più dalla reincarnazione di Buddha». Commentò deluso.
«Sei troppo sicuro di te». Lo riprendesti con calma non lasciandoti scalfire. Poi, con uno sforzo sovrumano pure per te, riuscisti a dargli un calcio e allontanarlo. Lui perse la presa sulla lancia e con un balzo tu tornasti in piedi. La lancia nella tua mano mentre tu assumevi la posizione d’attacco. «Voi non avete mai avuto intenzione di spezzarmela».
«In realtà sì, ma anche questo mi va bene».
«Non fa niente, posso colpirvi un’altra volta». Si rimise di nuovo a gambe incrociate. Ma tu ormai avevi capito come funzionava: sfruttava l’energia Kundalini, ossia la sua energia interiore. Il Mahā Roşni indeboliva l’avversario e lo privava della vista. Ma, come pensavo, il suo punto debole lo palesava il suo aspetto e l’attaccamento alle sue radici.  Non avevi altra scelta, avresti dovuto aprire gli occhi. Non farlo, se lo farai perderai la vista! Ti avvisai. “Devo farlo, è l’unico modo!” Curvasti le labbra in un sorriso malinconico. “Ah, sì? Se è così dimmi: qual è l’altro?” Ci provai a cercare qualcosa, una qualsiasi soluzione, ma non ne trovai. E tu, malinconico: “Come supponevo”. Ci voleva qualche secondo per accumulare l’energia del suo Cosmo. Se solo avessi potuto tagliare la sua barriera. Non eri sicuro che la lancia da sola bastasse.  
L’uomo scagliò di nuovo il suo colpo ma stavolta non ti toccò. Improvvisamente sentisti qualcosa agitarsi. Era come il fruscio di fogli di carta smossi dal vento. E il vento soffiava impetuoso. Ti girasti. L’album? L’album da disegno era dietro di te e da lì usciva la luce d’oro bianco che andava dissolvendo il suo attacco.  
«Che diavoleria è mai questa?» Tu cogliesti al volo l’occasione e, con pochi, rapidi colpi, gli sigillasti i chakra con la lancia. I suoi occhi si sgranarono e poi si rivoltarono all’indietro. Un secondo dopo giaceva svenuto al suolo. Ti avvicinasti e lo girasti con la lancia. Normalmente gli avresti dato il colpo di grazia ma era comunque molto forte. Uno come lui avrebbe potuto esserti utile. Perciò piantasti la lancia nel terreno accanto a lui e tornasti dall’album che ancora fluttuava a mezz’aria. Si era probabilmente mosso da solo per venire da te. Avresti dovuto immaginarlo che un oggetto appartenuto a un’Azona non dovesse essere normale. «Vi devo la vita, mia Signora». Mormorasti nella tua lingua natia. Tendesti le mani l’album vi si posò e si richiuse dolcemente. Anche il luccichio scomparve. Proprio in quel momento arrivarono gli Skeleton e tu desti l’ordine di catturare Krishna. Poi, ti avviasti verso l’accampamento.
La battaglia era finita. Non c’erano altri Cosmi ostili.
Alla fine non era stata del tutto inutile e ve l’eravate cavata molto bene. Una volta ripulito e medicato riponesti l’album al sicuro e desti una mano coi riti funebri. Lì vi toglieste l’Armatura e lasciaste che vi avvolgessero in coperte che assorbirono tutta l’acqua. Sarebbe stato meglio fare una doccia calda, ma prima che fossero pronte le tinozze (quanto di meglio potevate permettervi) sarebbe passato un po’ di tempo. A te l’idea non atterriva, non dava neppure fastidio. Camus, essendo abituato ai climi rigidi della Siberia ancor meno. Avevi sentito dire che laggiù facessero anche di peggio che fare il bagno insieme e, poi, dov’era il problema? Eravate uomini tutti e due, tra voi non c’era alcun interesse. Se proprio volevate esagerare sarebbe bastato che entrambi teneste le mutande.
Fino a quel momento non avresti mai pensato che le persone che vissero nel Medioevo europeo si lavassero. Leggenda voleva il contrario, in realtà erano patite di bagni pubblici. Passione che sembravano aver mutuato da quei pochi antichi Romani presenti. 
A malincuore, comunque, lasciaste che alcuni si prendessero cura delle vostre cloth. Nella fattispecie, più che altro, asciugandole e lucidandole. Anche nel riverbero delle fiamme mandavano scintillii che suscitavano l’avidità dei presenti. Ma voi non vi preoccupavate di questo. Soltanto voi Gold le potevate sollevare, in quanto loro legittimi proprietari. Per gli altri sarebbero state pesanti come macigni.
Mentre vi lasciavate medicare faceste il conto dei danni. Grazie a te soltanto una torretta era stata danneggiata. Avevate anche potuto assistere alla devastante forza dei due Specter, che avevano sbaragliato i nemici. Servendosi anche di notevole astuzia e della collaborazione dei loro sottoposti, tra cui Valentine dell’Arpia, che, per il suo padrone scese in campo. Ma la sorpresa vera vi giunse dalla notizia della forza dei vostri alleati, dalla ferocia degli Skeleton e dalla violenza dei popoli di Lady Niniane. Almeno così avevi capito che si chiamasse. La magia e dalla potenza del canto dei Sacerdoti e delle Sacerdotesse era qualcosa di incredibile. Non sapevi che potesse essere così sottile.
Sebbene fosse stata piuttosto cruenta anche sugli altri fronti Isaak si era immediatamente schierato dalla vostra parte. Aveva inoltre insistito per poter parlare direttamente con Lady Pandora. Aveva offerto in cambio le informazioni che era riuscito a raccogliere. Un comportamento che molti giudicarono deplorevole, persino tra gli Specter. Che, pur essendo rivali in accesa competizione, ancora ce l’avevano con l’ex Stella Malefica del Bennu, che passò ai Saint ai tempi della Guerra Santa del Millesettecento. Almeno così avevi sentito dire, ma nessuno volle raccontarti altro.
Tu invece, non ti sentisti troppo crudele con quel ragazzo. Dopotutto eravate militari, eravate in guerra, delle informazioni potevano anche esservi utili.
Non capivi perché la Sacerdotessa di Hades non avesse ancora dato l’ordine di rimontare il campo ma solo di spegnere gli incendi. Ti dispiaceva davvero per il giardino. Decideste di fare qualcosa nel frattempo che la pioggia scrosciante raffreddava l’aria, vi bagnava fino al midollo e trasformava la terra in fango. Non credevate che i Druidi e le Sacerdotesse avessero tutto questo potere. Ed erano solo semplici esseri umani.
Foste richiamati dal popolo cui eravate inevitabilmente diventati amici e, foste invitati a riscaldarvi al falò che avevano acceso in una delle tende. Non vi fu permesso di assistere al colloquio, ma ci pensò Valentine dell’Arpia, macilento eppure ancora in piedi e molto resistente. Fu lui a portarvi Isaak, poi andò dal fabbro per farsi dare una controllata all’Armatura. Per essere meno resistente delle vostre, per fronteggiare spiriti e defunti era efficace. Adesso sapevate perché. Credevate fosse per via della corruzione insita nelle Surplici. Invece erano strutturate diversamente, apposta per proteggere i Vivi che rivestivano dagli attacchi dei morti. Cosa che le vostre non potevano fare.
Tra un gemito di dolore e l’altro mentre veniva medicato, Isaak vi raccontò tutto. Aveva rimandato fino a quel momento, ritenendo più urgente riferire quell’informazione, piuttosto che la propria salvezza. Dopotutto lui era morto.  «Stanno cercando di resuscitare i Primi Cavalieri». Disse il giovane senza un occhio, poi sibilò di dolore e la Sacerdotessa si scusò.
La bambina che girottolava sempre attorno a Camus guardò preoccupata il suo protetto. Il quale ricuciva le ferite di Isaak. Percepisti anche tu l’innocente fitta di gelosia e preoccupazione nell’animo della ragazzina Pitta. Adesso era seduta sul tavolo e cercava di capire che cosa vi steste dicendo. «I Primi Cavalieri? Cosa sono?»
«Sono i Cavalieri al Servizio del primo nucleo divino». Spiegò il giovane ex Marine di Kraken. «Le loro Armature non corrispondono a nessuna costellazione, stella, pianta o attributo dei nostri sovrani; rappresentano la potenza devastante della Natura, le Belve Terrificanti che c’erano prima».
«Come i Titani?»
«No, non come i Titani, come se fossero la personificazione della piena potenza di questi, tranne il Tempo. É da lì che gli Dèi si ispirarono per creare noi». Aggiunse chiudendo entrambi gli occhi per la stanchezza, mentre la donna lo aiutava a distendersi sul materasso.
Camus gli pose una mano sulla fronte e gli sorrise con fare paterno, dicendo: «Sei stato bravo, adesso pensa a riposare». Anche se quelle non erano le condizioni igieniche migliori in cui potesse sostare. Pur essendo uno dei defunti, certe preoccupazioni non mancavano.
«Non va bene». Mormorò Camus mentre tornavate alla sua tenda. Non eravate messi così male in arnese da non riuscire a camminare.
La bambina Pitta che vi trotterellava accanto, mano nella mano con Camus. Forse il Cavaliere dell’Acquario non s’era neppure accorto di averla presa per mano ma alla piccola non sembrava dispiacere. «No che non va bene». Dicesti tu, sentendoti un po’ strano per scambiare tante parole con Camus. Neanche ai tempi della Titanomachia era mai accaduto che parlaste tanto. Per di più senza Cosmo e al di fuori di un Chrysos Synaigen. In un certo senso non avevate mai avuto bisogno di parole; neanche ad Asgard. Il vostro senso di giustizia bastava e avanzava per mettervi tutti in sintonia.
La discussione si protrasse a lungo, anche quando tornaste al tepee che, per sfortuna, Camus e la bambina dovettero ricostruire e rinforzare mentre tu radunasti un po’ di legna asciutta racimolata a giro per l’accampamento e, accendesti il fuoco sotto la cerata, quando questa fu rialzata.
Valentine vi apparve dietro le spalle: «Siete stati bravissimi». Si complimentò affilato, le braccia incrociate.
«Che cosa?»
«Sapevamo che quel prigioniero non avrebbe cantato così facilmente, perciò abbiamo pensato di lasciarlo a voi. E abbiamo avuto ragione, ora sappiamo quali sono le prossime mosse di don Avido». Spiegò compiaciuto.
«Ma allora non te ne eri andato?»
«Certo che no, mi credi così idiota?» Vi tratteneste dall’aggredirlo. «Non fategli del male».
«E perché dovremmo? Per chi ci hai scambiato?» Chiese l’Arpia disgustato. «Se vuoi occuparti tu del tuo cucciolo fa pure, per noi ha già esaurito da tempo la sua funzione. Se lo chiedi a Lady Pandora sono sicuro che non te lo rifiuterà». Montasti addirittura una piccola griglia per riscaldare i piatti, quando poteste mangiare. Nel frattempo ne approfittaste per scaldarvi. Aveva anche cominciato a piovere.
La piccoletta dovette rifugiarsi nello spazio tra le gambe incrociate di Camus (dandoti la tenera immagine di un padre con sua figlia) quando tornò Valentine. Era andato a conferire con la sua Sacerdotessa apposta per Camus e Isaak e aveva fissato un appuntamento per voi l’indomani. Poi si fece spazio sotto la cerata. Maledetta pioggia. Sembrava che i monsoni avessero deciso di trasferirsi in Germania solo per te, come se avessero voluto farti una sorpresa. «Non possiamo restare a guardare così». Disse Camus, quando pranzaste sotto alla tettoia della sua tenda.
«Tu cosa suggerisci?» Domandò beffardo Valentine, accomodato accanto all’ingresso del tepee prima di ficcarsi una cucchiaiata di minestra in bocca. La bambina Pitta seduta a gambe incrociate accanto a lui. Era smontata per permettergli di mangiare. Le vostre razioni vi furono distribuite dal cuoco di Villa Heinstein, quindi non avevate niente da temere.
«L’ideale, mi costa ammetterlo, sarebbe trovare degli alleati, prima che lo faccia Don Avido». Disse Camus. Voi Gold Saint eravate molto potenti, anche gli Specter lo erano, per questo era quasi un affronto ricercare un’alleanza esterna e adesso pure una seconda. «Oh, sì bella idea infangare ancor di più l’onore degli Specter». Commentò Valentine prima di trangugiare un’altra cucchiaiata.
Lo guardaste tutti e tre: «Ma non eravate voi quelli che erano alleati coi Bersekers?»
«Questo quando il Divino Ares se lo ricorda, ma non li vediamo più da millenni». Il rosso si sporse verso il fuoco per insinuarci un altro legnetto. «E, l’ultima volta che le avete viste, erano schierate al fianco di Don Avido». Commentò, rigirando neanche tanto sottilmente, il coltello nella piaga. Oh, sì, era proprio così. Beccandosi un’occhiataccia da parte del bulletto coi capelli rosa e la Surplice dell’Arpia. Se non attaccò briga fu in grazia del patto, della bambina e, della stanchezza. Dopotutto era ancora convalescente.     
«Non tirare troppo la corda, Gold Saint di Aquarius». Suggerì, scontroso.  
In ogni caso non doveste attendere troppo per fare qualcosa. Ci pensò la Somma Pandora a chiamarvi. Oh, Shaka, stavi cominciando forse a parlare come gli Specter? O stavi manifestando il rispetto per la carica ricoperta dalla donna che custodiva il tuo mala? Fatto sta che voi due vi avviaste, lasciando la piccola Pitta con Valentine, che dal canto suo si ritirò nella tenda.

Le fiamme rosseggianti del camino illuminavano il vestito nero della Sacerdotessa degli Specter. Luce ostacolata dalle figure dello Specter della Viverna e di quello del Garuda. Nella sua mano il tridente degli Inferi. Non sembrava ferita solo adirata mentre i servitori e gli Skeleton rimettevano in ordine e pulivano. Accanto a lei il Garuda e la Viverna. Stavano parlando ma si fermarono appena percepirono le vostre presenze.
La Sacerdotessa vi accolse con un: «Devo riconoscere che vi siete rivelati molto preziosi per il buon esito della battaglia. Pertanto io e i Giudici Infernali abbiamo deciso di conferirvi un incarico della massima importanza». Disse, a malincuore. Come se non ci fossero stati altri Specter in grado di assolvere al meglio questo compito gravoso. «Desidero che vi rechiate al Nero Castello, nella parte più profonda del Tartaro, per stringere alleanza con i Divini Erebo e Nyx, sicché liberino di nuovo le bestie infere e la loro progenie e la schierino assieme alle nostre truppe».  
«Il Nero Castello?» Ripeté Camus perplesso. In effetti neanche tu ne avevi mai sentito parlare. E sì che nel Tartaro c’eravate stati per riportare Aiolia e Lythos a casa.
«É la dimora dei genitori degli Dèi Gemelli, nostri alleati». Spiegò la Sacerdotessa dai capelli corvini. «Coloro che hanno il vero controllo del Tartaro. Normalmente manderei qualcun altro, ma ho bisogno che tutte le forze Infere siano qui. Non è necessario che andiate insieme, basta uno soltanto di voi, so che conoscete la strada».
«Sì, conosciamo la strada per entrare nel dominio dei Titani dalla Terra. Il mio collega in passato la sigillò, ma non conosciamo la via per arrivare da queste Divinità primordiali». Dicesti tu.
«Non è possibile spezzare il sigillo?» Chiese la donna.
«Non è impossibile. Il problema è che quei luoghi sono sorvegliati dal Santuario, non possiamo andare lì, spezzarlo e aprire le porte, tecnicamente saremmo morti e la nostra azione causerebbe disturbo ai più». Rispose Camus.
«Dunque il Santuario non sa che vi siete volontariamente schierati con noi?» Chiese la donna, battendo le palpebre stupita.
«No e gradiremmo che restassero all’oscuro».
«Se permettete, mia signora», s’intromise lo Specter della Viverna e voialtri lo guardaste, «ci sarebbe un’altra via; quella presidiata dagli Oneiroi al servizio del Divino Hypnos».
«Ma le tele del Lost Canvas sono andate perdute». Obiettò lei, ragionevole.
«Sì, ma quei luoghi esistono ancora e anche i loro quattro custodi; a quanto sembra, gli Oneiroi sono tornati, solo che questa volta non si sono schierati con noi».   
«Bene, convocateli».
«Sì, Somma Sacerdotessa, ma devo avvertirvi che ci vorrà un giorno, come minimo». Fece la Viverna.
«Ti concedo dodici ore; io intanto sceglierò il drappello di ambasciatori che andrà con uno dei Gold Saint», vi guardò, «decidete voi quale, per il momento siete congedati». Il Giudice Infernale uscì dalla stanza e voi due lo seguiste a debita distanza.  

Alzasti gli occhi al cielo. «Dodici ore sono passate». Dicesti al tuo compagno. E ancora non era successo niente, a parte che eri riuscito ad andare avanti con la lettura. Avevi tenuto l’album al sicuro, in luogo asciutto: il tuo Pandora-Box. L’unico lato positivo era che aveva smesso di piovere e che la maggior parte dell’accampamento era stato rimesso in piedi e, che i Druidi e le Sacerdotesse cantavano una canzone, forse un inno alla Luna, ancora nascosta dalle nubi che venivano trasportate via dal vento.    
«Io non posso venire», disse d’un tratto. Girasti il volto verso di lui. Si vedeva che l’idea lo seccava moltissimo e che aveva preso quella decisione dopo una lunga riflessione. Avrebbe preferito combattere al tuo fianco che restare con gli Specter però; «metterei in pericolo la bambina che mi segue e, ci sono già troppe persone in pericolo a causa mia, potresti andare tu anche per me, Shaka?» Ti chiese il maestro di Hyoga e Isaak. Ti parve naturale che volesse controllare anche il suo ex allievo ritrovato. Per questo non disapprovasti fino in fondo. Ma che c’era da disapprovare quando tu stesso ti saresti tenuto lontano dalla battaglia? «Va bene, mi stavo appunto chiedendo come avresti fatto con lei». D’accordo che era il vostro deterrente contro le Creature, ma ti sentivi di concordare: era pur sempre una bambina ed era un’anima destinata a rinascere, prima o poi. Era ingiusto che fosse impiegata così. Allora avvertiste il manifestarsi di quattro Cosmi di poco inferiori a quelli degli Dèi gemelli. Non li avevate mai percepiti prima.
Volgeste tutti il capo in direzione della Villa. Tu e Camus correste a vedere. Una volta varcata la soglia della sala con il camino, trovaste quattro uomini in Surplice: Oniro il Dio dei Sogni, Morfeo il Modellatore, Icelo delle Fobie e Fantaso l’Illusionista.
«Sacerdotessa di Hades e Gold Saint, non era mai successo che fossimo convocati da una così illustre personalità». Salutò beffardo Oniro.
«Non vi avremmo arrecato tanto disturbo se non fosse necessario». Disse Pandora, sfoderando tutto il suo carisma. Fantaso le si avvicinò. La squadrò interessato sfiorando con dita concupiscenti il mala che si attorcigliava attorno ai suoi fianchi. La Sacerdotessa lo protesse con una mano. Il dio ritrasse le dita e si complimentò con lei:«Siete veramente splendida Donna Pandora, veramente un sogno, neppure io potrei competere con voi». La Viverna sibilò un avvertimento e tu scattasti in avanti di un passo. Il Dio ti guardò dritto negli occhi e ti si avvicinò, incuriosito. «Ma tu lo sei di più, bel Cavaliere della Vergine, la costellazione più di tutti atta a proteggere la giustizia, oh, cosa darei per poter sbirciare nella tua mente anche solo per un po’». Fece sfiorandoti il mento con dita leggere. Tu ritirasti indietro la testa e il Dio rise.
«Smettila di giocare, Fantaso. L’ultima volta che ti sei interessato a un Cavaliere d’Oro è stata la nostra fine». Lo riprese Oniro.
«Stavolta non corro nessun pericolo». Sorrise l’altro fermo davanti a te. Prese dolcemente una ciocca tra le dita e cominciò a lisciarle con delicatezza. Stava ammirando i tuoi capelli biondi. Mancava poco che ti chiedessi che shampoo usassi. Reprimesti il moto di rabbia istintivo e sopportasti stoicamente. «Dunque volete che apriamo le porte per il mondo dei sogni? E sia, ma solo se il Cavaliere di Virgo mi aprirà la sua mente». Questo Fantaso era il capo. «E sia».
«Bene».
«Non così in fretta, prima il Gold Saint deve portare a termine la missione, dopo potrete giocarci quanto volete». Lo bloccò Lady Pandora e Fantaso fece una faccia come a dire: “Accidenti” ma si riprese subito. Era come se dicesse: “Non importa, vorrà dire che aspetterò”.  «Andrete solo voi, Virgo. Sono sicura che saprete cavarvela benissimo». Comandò Pandora senza particolare inflessione nella voce.
«Sta bene».
Fu Icelo ad aprire il varco per il Mondo dei Sogni. Tu avevi la facoltà di teletrasportarti ovunque, ma con i tempi che correvano la via dei Sogni era la più sicura. Almeno le Creature non erano ancora arrivate lì. La fregatura consisteva nel fatto che tu non avevi idea di dove si trovasse il mondo dei sogni e che non conoscevi nulla. Non era come scendere e camminare negli Inferi. Era proprio un altro paio di maniche. Con tuo grande rammarico, avevi bisogno dell’aiuto dei quattro Dèi dei Sogni.
Varcaste il portale tutti e cinque e vi ritrovaste in un lungo corridoio buio. Sui lati c’erano specchi e porte. «Ogni porta è il sogno di una persona». Ti disse Fantaso, con voce sorridente e piena d’orgoglio. Quello che non ti aspettavi, erano i loro sottoposti. «Sommo Icelo». Chiamò una voce femminile, poi: «Presto, raggruppatevi, ci sono i capi!»  Non pensavi che comandassero ognuno una schiera. Pensavi che ognuno di loro presiedesse un ambito e che si occupasse dei sogni di tutti. Fu una specie di delusione. I loro sottoposti si radunarono in due ali nel corridoio e s’inchinarono al vostro passaggio. «Come fate con le Creature?»
«Al momento non ci hanno ancora raggiunti, finché non ci raggiungeranno non evacueremo i nostri sottoposti». Arrivaste alla fine del corridoio e di lì ti lasciarono proseguire da solo fino al Nero Castello. Non sapevi come descriverlo, non era come quelli che t’immaginavi. Era soltanto diverso ed era fatto di cristallo nero che mandava inquietanti bagliori. Le sue guardie erano abbigliate di Cloth come quelle dei Black Saints, però blu scuro. Le guardie chiesero chi fossi e cosa volesti. Rispondesti e fosti ricevuto quasi subito.
La sala del trono del Nero Castello era diversa da quella degli Inferi. Quella degli Inferi era solo oscura, questa era solo buia ma più calda. Intuivi i drappi e le decorazioni, la ricchezza.
Avevi conosciuto i Titani, ma non avresti mai pensato che queste Divinità Primigenie dimostrassero appena una ventina d’anni in più dei figli. La Dea Nyx era come se fosse avvolta in un’aura di mistero e insondabilità, proprio come la notte di cui era padrona. Aveva lunghi capelli neri che sfumavano sul blu e l’azzurro. Il viso era dolce e benevolo. Indossava una tunica blu scuro allacciata sulla spalla destra tempestata di piccoli brillanti. Simulava il buio del cielo. Il corpo era adorno di piccoli gioielli e disegni argentei. Sembravano fatti con il bagliore azzurrino delle stelle.
Suo marito invece sembrava uno di quei re usciti dalle favole. Incuteva rispetto e timore al tempo stesso, ma dove la moglie era più dolce e rassicurante, lui trasmetteva una primordiale sensazione di pericolo. La stessa che l’uomo degli albori provò nelle savane e le foreste. Ma al tempo stesso di forza e mistero, ancor più accentuato. Sul capo di entrambi una corona di stelle.
In mezzo a tutto questo buio tu eri stonato. Eri una macchia dorata in mezzo al buio fiocamente rischiarato eppure non angosciante come la Giudecca. T’inginocchiasti e a parlare fu Erebo. «Benvenuto, Gold Saint di Atena, non ci aspettavamo una vostra visita».    
«E io sono lieto che mi abbiate ricevuto dopo questo lungo viaggio». Ringraziasti cautamente. Non dimenticavi la loro progenie e cosa la tua Cloth simboleggiava per loro. Eppure i due non sembrarono volerti accusare, né sembravano maldisposti nei tuoi confronti. Ed era per via della tua condizione di reincarnazione di Buddha, che ti osservavano incuriositi. «É il minimo che potremmo fare per una così alta personalità, eravamo curiosi di conoscervi. Siete il benvenuto nella nostra umile dimora; alzatevi». Fece la Dea alzandosi dallo scranno nero.
Obbedisti ed Erebo domandò: «Cosa vi porta nelle nostre terre?»
«Sono qui per chiedere la vostra alleanza per conto della Sacerdotessa di Hades, affinché ella possa riconquistare i domini di cui Don Avido sta abusando. So che non è di vostro interesse o competenza, ma gli Inferi hanno bisogno del vostro aiuto e sostegno in questa difficile battaglia». 
«Perché vi preoccupate tanto di una cosa che con voi non ha quasi nulla a che vedere? Noi non abbiamo più rapporti con gli Inferi da molto tempo».
«Io mi preoccupo per tutte le cose viventi, non posso negare il mio aiuto se sono in grado di darlo», spiegasti continuando a tenere gli occhi chiusi e il capo chino. T’inginocchiasti nuovamente, quasi emulando la tua Armatura quando non la indossavi. «Vi prego, non sono qui come vostro pari, ma ve lo chiedo in veste di uomo, per tutto ciò che sta accadendo».
I due ti osservarono. Poi il Sovrano del Tartaro proferì: «Non vedo perché dovremmo».
«Vi prego». Ripetesti, cercando di infondere in queste parole la tua supplica, la necessità. Perché improvvisamente eri a corto di parole. Non eri un oratore, non così, «Se mi concedeste un po’ di tempo, potrei provare a cercare delle parole per spiegarvi le ragioni che mi muovono».
«Un po’ di tempo?» Ti fece eco uno la Regina, interessato.
«Sì, vi scongiuro».
«Faremo anche di meglio». Decretò la Regina delle Tenebre e il marito la guardò. «Ma ora sarete sicuramente stanco, dovrete riposare».
«Nyx» cominciò il Dominatore del Buio ma la consorte lo zittì repentinamente; «So quello che faccio e ti dirò di più: è da un po’ che non abbiamo nuove luci nel nostro giardino». Mille punti interrogativi ti esplosero in testa, ma quello che fu oscuro a te fu chiaro al consorte della Notte.
«Capisco. E sia, ti concederemo il tempo che ti serve, ma alla condizione che stanotte riposiate». Dal nulla comparvero dei servitori, delle anime fosforescenti cui ordinò di scortarti nella stanza degli ospiti più degna della tua persona. Non eri un tipo mondano ma era una grande scortesia rifiutare: «Vi ringrazio moltissimo. Per caso, da voi è giunta una fanciulla?» Domandasti ai regnanti che nel frattempo si erano nuovamente assisi.
«Una fanciulla? Benedetto Cavaliere, qui di fanciulle ce ne sono molte, per caso gradisci qualcuna in particolare, che allieti la tua permanenza?» Ripeté la Dea della Notte battendo le palpebre. Eri sorpreso. Non pensavi che persino gli Dèi primordiali amassero divertirsi. Dopotutto le discinte ballerine ti volteggiavano ancora intorno, come i demoni lascivi tentarono il Buddha nella sua ricerca dell’Illuminazione.
«Non è necessario, la fanciulla che cerco non è una delle vostre».
«Allora temo che non sia passato nessuno».
«Grazie per avermelo detto e perdonatemi ancora per avervi tediato con le mie stupide richieste».
La Signora della Notte ti chiamò e ti si rivolse con dolcezza; «Non sono affatto stupide, sono naturali». Naturali? Dovrebbe essere naturale cercare una persona con la speranza di trovarla? Doveva essere naturale per te, indulgere in queste sensazioni? Niente lo vietava e anche la tua terra era famosa per il kamasutra e altre discipline legate alla sfera amorosa ed erotica. Ma tu non potevi, tu eri l’uomo più vicino agli Dèi sulla Terra.
Anche se in realtà tutto quello che provavi, era in forte contrasto con le nozioni che avevi riappreso una volta tornato a questo mondo. Ricordavi ancora cosa ti insegnavano i monaci e come a te quegli insegnamenti, pensandoci bene, ti sembravano sbagliati. Non ti sembrava, dalle conversazioni con Buddha, che foste mai stati misogini. La misoginia era una forma di rancore, non potevi esserlo e non lo eri. Allora cos’era questa paura? Perché dopo la nostalgia ti metteva paura? Una reazione istintiva? Perché, per via del suo Cosmo? Oh, avere paura era umano e tu eri umano e lei era una Dea era naturale ma era insensato. Tu dovevi portare il messaggio di gentilezza e compassione presso gli esseri viventi, tutti. Allora perché per lei sentivi questo terrore?
Il Buddha stesso congegnò il Sangha monastico, e fu all’interno dello stesso che potevi ritrovare la tua, vostra, promozione attiva degli interessi delle donne e il livellamento degli svantaggi, che altrimenti avrebbero incontrato nella società indiana. Ma ti eri reso conto, che questo non bastava e, ti occupasti in passato, come un genitore avveduto di proteggere la vita delle monache dai pericoli di uno stile di vita ascetico e itinerante. Sia da quelli fisici sia da quelli più lievi come quelli che stava affrontando Asia. Lo facesti con il Patimokkha, ossia le regole monastiche atte a dare alle monache le stesse opportunità sul sentiero della pratica di cui godevano gli uomini. Anche per tenere sotto controllo entrambi i generi. Vi occupaste anche di prevenire monache e monaci dal cadere in ruoli abituali con svantaggio delle monache. Non era servito a niente. La parte femminile del tuo ordine era andata a farsi benedire e le donne ricoprivano un ruolo di servizio volontario presso i monaci, proprio come avevate temuto. Quando te ne accorgesti piangesti per le donne.
Ma qui, furbacchione, non cambiare discorso, stavi sviluppando (e te ne rendevi conto, in quanto maestro d’introspezione) un “comportamento distruttivo”. D’accordo hai sproloquiato abbastanza. Ora ascolta me, che sono la tua coscienza. Guardiamo in faccia la realtà e riprendiamo il filo del discorso, quello vero, che ne dici? E tu scendesti a patto con me, la coscienza e con il Buddha che, paziente, aveva osservato i tuoi tentativi di negazione. O quasi.
Era come se la Azona ti avesse attaccato la sua collera, il suo attaccamento o la sua avidità e tu, nella tua ingenuità, c’eri cascato. Sì eri stato contagiato, si può dire. E il Karma stava presentandoti il conto, rammentandoti i tuoi limiti e il tuo sacro dovere di uomo, ancora prima di Saint. Dopotutto, tu avevi recuperato l’album di Asia. Curiosando, cercando d’interpretare, qualcosa si era risvegliato in te, catturandoti e turbando la tua mente con sogni erotici tutti su di lei. Neanche se la Divina Nyx li avesse conosciuti. Ma lei era la Dea della Notte, era impossibile che non conoscesse questo lato oscuro di te.
Ma a differenza di altri avevi tre strade, il comportamento distruttivo, quello costruttivo o quello neutro. Avresti sottomesso a te la Azona? No, non ne avevi motivo e aborrivi inorridito l’idea. Al limite temevi di farle del male.  Sicuramente (e qui ti posso anche dare ragione) era presto per un’azione costruttiva (ossia farlo per affetto e volontà d’aiutare nella speranza di farla sentire un po’ più felice; e solo la Dea, ora anche tu, sapevate quanto quella giovane ne avesse bisogno).
O forse era ancora più semplice di così. Era solo giunto il momento del risveglio dei tuoi sensi, di quel bisogno intrinseco della natura umana? Quel motivo che ti avrebbe portato a un’azione neutra, ossia solo per sfogo. Sapevi, da quando eri redivivo, che prima o poi sarebbe giunto. Non ti aspettavi che si sarebbe destato così; al secondo incontro. Non c’era nulla di male. Le tue paturnie derivavano dal furto dell’album e dal timore che tu avessi scritto in faccia la tua colpevolezza. Anche se, più che in faccia era più corretto dire sull’addome, visto che era lì che tenevi l’album di solito. Tra armatura e kurta, neanche fosse un rinforzo interno alla Gold Cloth.  
Però, qualcosa dentro di te, ti diceva che non avrebbe dovuto essere questo il motivo del tuo turbamento. A parte la spiacevole tempistica del risveglio dei tuoi ormoni, il motivo fondante era il fatto che un’Azona si aggirasse indisturbata, brandendo la lama appartenuta a Tamerlano, il generale, in queste lande. Apparentemente alla ricerca di qualcosa. Che le sue parole te le ricordavi. Le orecchie le avevi anche tu e la tua lingua natia la conoscevi. Forse era anche per questo, oltre al duello e la tua scoperta, che lei ti era rimasta impressa.
Ma, era tuo dovere aiutarla, non solo in quanto Atena, ma in quanto donna. Per le tue pulsioni sessuali avresti trovato tutto il tempo del mondo. Eri una persona paziente, adesso c’era qualcosa di più importante dei tuoi ormoni ridestati.   
Stufo della tua posizione sdraiata sul letto lussuoso, ti sedesti sul davanzale del terrazzo a gambe incrociate e continuasti la lettura, estraendo il tuo tesoro segreto da sotto al kurta. La poesia che leggesti quella sera fu una delle ultime: Ultima frontiera.

E finiva con per. Per? Era dunque per questo che era partita? Ma la poesia era incompleta come se avesse smesso di scrivere in quel momento. A giudicare dal segno dell’inchiostro, come se le fosse stato strappato di mano. Doveva essere successo allora che era giunta negli Inferi e Atavaka l’aveva intercettata, sicché voi poi vi incontrasti. Adesso, per le ragioni della testa, in accordo anche con quelle del cuore, eri sicuro che non fosse una coincidenza. E di avere la risposta che cercavi nelle tue mani.  
Richiudesti gli occhi percependo il sorriso di Buddha.  
Poi, ti vennero a chiamare per il banchetto. Vero che non potevi né mangiare né bere, però niente ti vietava di presenziare. I due signori dell’Oscurità si scusarono con te, spiegandoti che non potevi comunque rischiare mangiando il cibo di queste terre. Tu non gliene facesti una colpa, anzi, li comprendesti, come comprendesti anche l’enorme rispetto che provarono per te.
Quella sera, la passasti in compagnia di queste due divinità e della sua corte che intrecciò per te danze, canti, balli e fece festa.
L’indomani, un po’ stanco, conferisti con i signori del Tartaro. «Bentrovato, Cavaliere». Ti salutò Erebo, alzandosi dal tavolo dove stava consumando la colazione. «Spero che abbiate riposato a sufficienza, vi aspetterà la prova più difficile di tutte».
«Sono pronto».
Allora Nyx si alzò dal suo trono e, ti venne incontro, poi, ti fece cenno di seguirla dicendo: «Dovrai provarmi la tua fedeltà alla causa mostrandomi la luce più pura che c’è dentro di te». Ti condusse in un giardino pieno di piante fosforescenti. «Questo è il mio tesoro più prezioso, come negli Inferi esistono l’Elisio e il Campo di fiori anche noi non disprezziamo le piante, però siamo un tantino più specifici, i nostri tesori sono la manifestazione dei sentimenti che le persone elargiscono». Spiegò. «Se volete la nostra alleanza, dovrete far fiorire questa luce per me. Ma state molto attento, se non sarà veritiera vi toglierò la vita e le ceneri della vostra anima faranno da concime per la pianta. Se invece riuscirete, potrete ammirare anche voi ciò che si cela dentro il vostro animo». 
Però a convincerli non fu la tua aria di sacralità ma il sentimento che stava sbocciando dentro di te. Sentimento che Nyx materializzò come un fiore e aggiunse alla sua collezione nel regale giardino di Palazzo.
«Come posso far fiorire questo bocciolo?» Chiedesti.
«Nel modo che preferite, potete cantarlo, suonare un’ode, raccontarmelo, disegnarlo, scriverlo, ballarlo, sognarlo, meditarci su. Il tempo che volete metterci lo decidi tu, anche se non ne avete moltissimo, avete detto».
Ti sedesti a gambe incrociate, nella posizione del loto e cominciasti a meditare, mentre la Regina delle Tenebre aspettava.
Un fiore? L’unico fiore che ti veniva in mente era il Loto Rosa che accompagnava le tue tecniche e il tuo Cosmo. Ma il dolore che sentisti al costato ti avvisò che avevi preso la strada sbagliata. No, non era un fiore quello che dovevi materializzare, era la luce dentro di te. Allora provasti a concentrarti sul mondo dei Vivi. Richiamando così a te tutto.  
Il sapore del cibo sulla tua lingua.
Il cuore ti fece male. Eppure tu non ti arrendesti. 
La luce del Sole che scaldava le tue giornate, facendo capolino dalla Sesta per un timido saluto, la luce della Luna che baciava le tue membra stanche mentre riposavi. Le stelle che tempestavano la notte, rendendola culla di tutti i sogni dell’umanità. Il profumo della tua terra e del Santuario, degli amici. Delle stagioni. Questo era quello che volevi proteggere, la tua luce. La tua Dea, che pure avevi accompagnato negli Inferi.
La giustizia, la tua saggezza. Il tuo gravoso compito. 
Eppure ti sentisti perforare l’Armatura. Apristi gli occhi di colpo e vedesti la mano della Signora della Notte ritrarsi. «Risposta sbagliata, caro Cavaliere». Sorrise. 
Ma ora c’era anche qualcos’altro, qualcun altro. Il cui cuore ti aveva salvato la vita. La vedesti di fronte a te. Come nei tuoi sogni. E, improvvisamente capisti perché questa prova era così difficile. Pensarla, aprirti, esporti così era un pericolo per la tua immagine e la tua reputazione. Una reputazione duramente costruita. «No…» Mormorasti mentre l’Armatura si rigenerava da sola.
Percepivi l’eco della morte in tutto il giardino. Tutti quei bellissimi fiori nascevano dalla luce sbagliata. Cavalieri morti per non aver voluto esporsi, forse temendo che rivelarlo li avrebbe sminuiti o avrebbe messo in pericolo le persone che amavano. Oppure perché credevano che non ne valesse neanche la pena.
Come Asia.
E fu come aver ricevuto una seconda illuminazione. Adesso capivi che cosa stava succedendoti, perché sentivi il cuore stretto in una morsa, il braccio sinistro strizzato e qualcosa che cercava di uscire da te dal costato. Avevi visto come operavano gli Evil Seed, non credevi che dentro di te se ne fosse insinuato uno. Né che la sua nascita fosse così dolorosa. Ma non era un Evil Seed, gli Evil Seed non fanno così male, questa era la vergogna di chi viene messo a nudo. La Dea ti stava costringendo ad aprirti, le radici stesse ti stavano aprendo e l’unico modo per eliminare il dolore non era rifuggirlo come credevi, ma saziarlo, andargli incontro. Questo era quello che ti chiedeva. E quel fiore lo nutristi, lo nutristi mettendo tutta la tua luce, tutta la tua speranza, la tua forza, la tua giustizia, la tua tristezza. Gli desti sostanza, infondendovi anche i tuoi sentimenti, la tua umiltà e l’amore che provavi per la spadaccina di cui custodivi il cuore senza permesso. Ecco, questa era la parte peggiore: le avevi rubato il cuore e non avevi intenzione di restituirglielo. Ecco la verità. Tu, novello pescatore, credevi che se glielo avessi restituito, lei sarebbe volata via come le Tennyo delle leggende. Tu ti stavi aggrappando a questo sentimento, ben consapevole che lei ti disprezzava e che forse neanche immaginava ciò che ti turbava. Non ti eri mai innamorato prima d’ora, ma avvertivi distintamente che, se l’avessi incontrata, non avresti dovuto illuderti con delle fantasie. Che poi avrebbero inquinato tutto ciò in cui credevi e vivevi. La volevi conoscere in ogni senso possibile e immaginabile, la volevi amare per quello che era, donna e Dea insieme. E volevi aiutarla a sostenere il peso della sua maledizione, qualunque essa fosse.   
Eppure, scopristi, che nonostante la vergogna, fu come togliersi un peso dal cuore, come se ti fossi confidato con qualcuno. E poi, tutto questo si unì e la luce uscì da te, mentre i tuoi sentimenti, tutto ciò che eri e che provavi, restavano dentro di te.
Apristi gli occhi e vedesti la Dea della Notte accogliere a coppa non un fiore di loto, che ormai aveva perso da tempo quella forma, lo sentivi, ma un fiore che cambiava forma, colore e dimensione per ogni cosa che ci avevi infuso. E la Dea sorrideva commossa di fronte a questo lucente miracolo. Anche tu, non potesti fare a meno di provare stupore di fronte a questo. Dopo tutta la paura che avevi provato, adesso vedevi questa pianta, splendida, mutevole che al tempo stesso racchiudeva te stesso e il resto. Era come se tu avessi catturato la luce e l’avessi conservata tutto il tempo solo per questo momento. E, scopristi, che eri pronto a separartene per il bene comune. Perché tu volevi proteggere tutto il creato, perché se l’avessi fatto, avresti protetto anche la donna che amavi. Ecco il tuo più alto ideale e il tuo sogno più grande, tanto semplice quanto complicato perfino per te, Gold Saint di Virgo. E, quel fiore indefinito, risplendeva come mille splendidi soli in questo giardino. E tu eri sicuro di non aver fallito in quanto avevi incluso ogni cosa.
La Dea ti dette le spalle e lo pose in un vaso che sembrava essere pronto per ospitarlo. Poi si volse verso di te: «É il fiore più bello che abbia mai visto, forse il più bello che sia mai sbocciato in questo giardino, non temere, ne avrò estrema cura e, sappi che, qualunque cosa accada, niente potrà mai offuscare la sua luce». Ti promise. «Hai superato la prova, torna pure nel tuo mondo, Anima Viva, nostro alleato». Fece e, quando riapristi gli occhi, ti ritrovasti sdraiato nella tua tenda senza neanche sapere come c’eri arrivato. Ma, dentro di te, adesso, ti sentivi splendere esattamente come quel fiore, vederlo non te lo aveva affatto sottratto come credevi. Ma anzi, non ti eri mai sentito così bene. Non come se tu avessi raggiunto il Nirvana, ma come se avessi toccato con mano la bellezza del Tutto di cui tu eri solo una piccola infinitesimale parte. E ti eri sentito ricco come non ti eri mai sentito prima.
E piangesti, per la prima volta di gioia, per questo dono.
Quando ti recasti dalla Somma Pandora, la donna trasalì. Credeva che saresti tornato molto tempo dopo, forse, o forse era passato meno tempo del previsto. E, quando l’informasti della riuscita della missione lei si complimentò con te: «Ben fatto, Cavaliere della Vergine».

Ovviamente i signori dell’Oltretomba mantennero la parola e, presto, appena cercaste di riconquistare altri territori, i mostri infernali e le truppe Oscure giunsero in vostro aiuto. Più rispondendo a te che a Lady Pandora.
Presto avreste liberato il terzo e ultimo Specter. Stando ai vostri rapporti era prigioniero nella Foresta di Ametiste di Megres. Una volta uno dei domini delle ninfe Stigie.
Vi inoltraste in quel territorio e doveste combattere contro il Guerriero Divino. La foresta aveva un che di spettrale. Impressione ancor più accentuata dalla presenza di tutti quei cristalli viola di varia grandezza. “Dunque sono queste le ametiste?” Pensasti.
Ma non facesti in tempo a fare qualcosa che presto dovette ingaggiare battaglia contro il Cavaliere. Stavate per avere la peggio quando «Ora basta così». Comandò una voce femminile e vi ritrovaste immobilizzati. Non da un Cosmo o un incantesimo, bensì dal suo sguardo. Sguardo che percepisti anche tu, pur continuando a tenere gli occhi chiusi. Occhi che dicevano “Non t’immischiare e lasciami fare”.
Bloccasti con una mano il tuo commilitone Specter, il quale si bloccò istantaneamente con un ringhio.
Megres la guardò di traverso con i suoi occhi verdi chiari. «E, tu chi sei?»
«Chi sono non ha alcuna importanza». Dichiarò lei avanzando nella Foresta di Gemme. Novella Persefone o Demetra, senza dubbio, visto che dove metteva piede lei le gemme venivano riassorbite dal terreno o dagli alberi, che tornavano a crescere rigogliosi. Nutriti da suo immenso Cosmo. Benché fossero alberi Inferi.
«Non è il vero Megres? Cosa significa?» Domandò lo Specter che avevi bloccato, stupefatto alzando il braccio. Anche tu eri confuso. Di questo, né Shijima né Buddha non ti aveva parlato. 
«Puoi ingannare tutti gli altri, ma non puoi ingannare me». Decretò la giovane, continuando ad avanzare nonostante le gemme e la cristallizzazione del suo corpo. Il Cavaliere di Asgard rise come un folle. «Sei pazza se credi che una misera mezzosangue possa fermarmi! Don Avido mi ha promesso il controllo di queste terre e la libertà, non potrei chiedere niente di meglio».
La ragazza, “Asia”, si fermò un momento. Prima di riprendere la sua avanzata, la sua crociata contro le gemme: «Io so che non sei Alberich di Megres, so che non sei umano, non serve che ti nasconda, Guardiano della Casa di Plutone». Appena disse queste parole, dalla schiena del Cavaliere di Asgard uscirono un paio di ali candide, fatte di puro spirito, che lo avvolsero in un bozzolo di luce.
Quando il bozzolo si riaprì e le belle piume tornarono dietro la schiena della creatura. Di Megres non c’era più traccia, persino il suo Cosmo era scomparso, anzi, era cambiato. Lo percepivi, diverso e più potente di quello di Asia. Al punto che la sola luce annullò gli effetti del suo, riportando questo posto al suo vero, originario e tetro aspetto.
Al posto del vostro avversario, adesso c’era una donna completamente bianca, dai lunghi capelli candidi che a un tratto si sollevavano, somigliando a piume e ali, il bel volto coperto da una maschera di piume, salvo gli occhi, il naso lungo e un abito candido a maniche lunghe e aderente. Non si capiva dove iniziava il suo abito e dove la sua pelle a causa delle piume e delle decorazioni di platino. Un vago alone luminoso partiva dal centro della sua figura e la rivestiva come se fosse una stella. Anche il suo Cosmo cambiò, adesso era pieno di dolcezza e innocenza, purezza. Una luce paradisiaca, salvifica, quella vera, non quella degli avversari che foste costretti ad affrontare nel corso della vostra vita.  Quello era il vero aspetto del Cavaliere di Asgard?
La donna aprì gli occhi scuri, profondi e caldi. Le belle labbra rosee si aprirono e ne uscì una nota musicale, in realtà un sospiro. Come se avesse trattenuto il fiato per tutto il tempo della metamorfosi.
Era più bella persino di Atena. Sembrava figlia del Bene e della Pace, come una candida Colomba, pura come la Pace.
Il tono di voce era diverso da quello udito finora. Dolce, materno, soave e indubbiamente femminile. Anche sconvolto. «Come mi hai trovato? Credevo che il mio travestimento fosse perfetto».
«E lo era, se non fosse che il Cavaliere di Odino appartiene al Valhalla, non alla dominazione Olimpica». Sorrise la giovane spadaccina. Voi non ci avevate mai pensato, credevate che tutti i morti riposassero nell’Hades, non solo alcuni. «I morti vanno nell’Oltretomba in cui credono». Spiegò di fronte ai vostri sguardi smarriti.
«E allora cosa ci fanno qui i Celti?» Le domandasti. “Cosa ci faccio qui io? Io sono buddhista!” Pensasti, roso dai dubbi. Davvero era solo per via del Patto tra Atena e Hades? Davvero una volta morto veramente saresti tornato qui?
«Le loro Divinità sono morte ai tempi di Avalon e sono stati accorpati ai morti degli Dèi Greci». Illustrò lei. Chiaro no? No, perché non bastava vedere una giovane umana, una civile capace di sublimare un ghoul e Skeleton fedeli alla Stella del Passato, lo Specter di Atavaka. Non bastava affrontarla e scoprire che fosse una Azona.  
«Chi sei tu, veramente?»
«Sono la figlia del Guardiano della Casa di Marte». Si presentò la ragazza con la tiara sulla fronte.
Tu sgranasti gli occhi, che già avevi aperto. Questo non l’aveva scritto nel suo album.
La donna sgranò gli occhi: «Il Guardiano della Casa di Marte? É vivo? Mio fratello è vivo?» Chiese la Colomba, poggiandole le belle mani curate sulle spalle, affondando le dita nella sua carne. «Sì, il Drago Rosso è vivo. L’ultima volta che l’ho visto era nella Valle dell’Ade, poco prima della Porta degli Inferi. Anche la Gazza Ladra lo è e si sta già recando al Tempio di Saturno». Gazza Ladra? Ne aveva già trovato un altro prima di questo?
«I sigilli si stanno sciogliendo». Mormorò la Dama Bianca, lasciandole andare le braccia.
«Sigilli?» Domandò Camus e le due donne si girarono a guardarvi, senza però proferire verbo.
«Chi siete?» Chiedesti, mentre la tua vecchia avversaria, “Asia” (ti corresse ancora la tua psiche), scendeva i gradini e veniva verso di voi. Era alta quanto te. Sentivi il suo Cosmo Divino e, al tempo stesso diverso da quelli che conoscevate. Un misto tra quello degli Dèi e quello della Guardiana alle sue spalle, che vi osservava preoccupata. «Un’amica, non temete, non sono con voi, ma neppure contro, non m’interessano le vostre beghe». Mai una volta che dicesse la verità.
Tu che avevi letto il suo album, la sua vita, che avevi scoperto la verità su di lei e lei che svicolava le domande. 
«Perché il Pantheon si interessa di queste faccende? E chi sono i Guardiani delle Case degli Astri? Credevamo che fossero quelli che furono sconfitti dai nostri predecessori». Dicesti.
Intanto gli Specter si avvicinarono incuriositi alla Donna in Bianco. Anche tu sentisti il bisogno di avvicinarti a lei. Ti venne istintivo proteggerla, come se lei fosse un fiore delicato, ancora più di Atena e della giovane Dea che avevi affrontato.
La Dama Bianca, tese una mano verso di loro e mormorò con dolcezza: «Non abbiate paura, noi siamo qui per voi». Poi toccò la guancia dello Specter più vicino e questi chiuse gli occhi, trattenendo il suo palmo gentile con la sua mano guantata di nero metallo. Gli altri si affollarono attorno a lei, inginocchiandosi, improvvisamente ammansiti. Compresi i più feroci. Ma ormai avevi imparato che ogni cosa nell’Hades ha un doppio volto, una doppia valenza, quindi era meglio non fidarsi troppo. Eppure la Dama Bianca ti parve sinceramente dispiaciuta, avresti giurato di sentire vero pentimento nella sua voce. Anche un accenno di pianto: «Cosa vi ho fatto, poveri cari, mi dispiace, mi dispiace davvero». Fece la Colomba, sfilando la mano per toccare gli altri.
«Che garanzie abbiamo che tu non stia mentendo?» Domandasti. In fondo, poteva anche darsi che non fosse la vera proprietaria di quel taccuino.
«Pensa quello che ti pare, affrontami se lo desideri, ma sappi che non m’importa niente di quello che pensi di me. Io so cosa sono, cosa faccio e, non è a te che devo rendere conto delle mie azioni».    
Dichiarò, poi si girò verso la Guardiana della Casa di Plutone e la chiamò: «Colomba Astrale».
La donna la guardò come a dire: “Sì?”
La Vergine Disincantata addolcì la sua espressione e consigliò, in tono più gentile e rispettoso, come se ne riconoscesse l’autorità. «Sarà meglio che anche tu faccia ritorno alla tua Casa».
La Colomba Astrale richiuse la bella bocca e arrossì nonostante la maschera. Ma in un modo delicato, il suo rossore aveva la stessa tenerezza di uno sfumato come gli acquerelli che custodivi gelosamente tra il tuo kurta e la tua pelle. «Hai ragione, vado subito. Ci vediamo presto, Figlia del Drago». Disse prendendole le mani tra le sue, ed esibendosi in una parvenza di inchino. La Figlia del Drago emulò il suo gesto.
Poi si allontanò, presto scomparendo alla vostra vista. Come la Dea vestita di verde. Proprio poco prima che arrivassero le schiere Infere con Lady Pandora e Camus.  
Nove Guardiani per Nove pianeti.
Improvvisamente fosti tu a comporre il seguito della poesia.
«Camus». Lo chiamasti.
«Sì?»
«Io devo andare». Lo devo fare per i miei cari.
Il rosso ti guardò stupito e domandò: «Dove?»
«Devo andare con la Figlia del Drago». Rispondesti.
«Perché?»
Per la Giustizia, la Pace sulla Terra, disponesti. «C’è una cosa che devo fare».
E per il Creato che ho giurato di proteggere.  
Sentivi che non potevi restare lì. Che non avresti compiuto il tuo dovere se fossi rimasto.
Ancora una volta il tuo karma ti spingeva ad accompagnare la Dea che avevi giurato di proteggere e sostenere. Unico Gold con un giuramento simile.
Il maestro di Hyoga sgranò i suoi occhi rossi e, ti guardò con preoccupazione: «Ma Shaka, non puoi abbandonare la battaglia per seguirla, abbiamo bisogno di te. Non hai sentito dove sta andando?»
Sono pronta a sacrificare me stessa.
«Lo so, ho sentito, dì alla Somma Pandora che continuerò a lottare, ma lo farò da solo e con i miei ritmi. Non è tradimento, è solo che voglio vederci chiaro e, temo che stavolta non basterà la meditazione. Non temere, alla fine ci riuniremo tutti nello stesso punto». Promettesti sicuro delle tue stesse parole non appena ti uscirono di bocca.
«Sei sicuro?»
«Ne sono certo».
«Lady Pandora non è stupida e noi stiamo già rischiando tantissimo, ci stiamo aprendo la via ai segreti degli Inferi, la Sacerdotessa di Hades non lascerà mai che tu te ne vada, portando con te quei ricordi; lo sai. Manderà sicuramente dei sicari per ucciderti».
«Che mandi chi le pare; tanto non può uccidermi finché il patto di non aggressione si regge in piedi. Sono disposto anche a morire per proteggere il Santuario». Dichiarasti. Questo non era mai cambiato dai tempi di Asgard.
«Il Santuario? Adesso che c’entra?»
«Tutto. Vado, ho già perso anche troppo tempo». Facesti per muoverti ma sentisti la mano di Camus posarsi sulla tua spalla. Ti fermasti a metà di un passo e ti girasti a guardarlo di nuovo (a occhi chiusi, ovvio) «Buona fortuna». Ti augurò. Tu ricambiasti poggiando la mano sullo spallaccio della sua cloth e annuisti: «Anche a te».
Poi vi separaste e tu ti lanciasti sulle orme di Asia.     
So che sono pronta. 
 
Esistono molte forme di amore al mondo. Voi conoscevate quello per la collettività, quello che vi legava alla Vostra Dea. Adesso comprendevi cosa spinse Shijima di Virgo a rischiare la vita per proteggerla.
Lo stesso volevi fare anche tu.
Per questo le urlasti tramite il Cosmo: “Asia!” quando la individuasti scendere dalla montagna attraverso un sentiero, mentre lei scivolava agilmente giù tra le rocce, leggera come il vento. Aggraziata come una lince in caccia. E la lince si fermò, restando in equilibrio su un masso grande sei volte lei. Si volse verso di te.
Questo lo potevi fare, in quanto al resto, il tuo poteva anche essere un amore sacro. Un po’ come quel quadro di cui avevi sempre sentito parlare da Aphrodite.
Unica cosa che non andava contro ciò in cui credevi e predicavi. Ma era difficile.
Il tuo petto non si alzava e si abbassava più affannosamente per la corsa, tu non avevi di questi problemi, ma lei sì. Lo vedevi, appena percettibilmente, ma lo vedevi.
Ed era difficile.     
“Perdonami”. Ti ritrovasti a dire, tu che eri abituato a elevarti sopra i comuni mortali, dimentico troppo spesso dei tuoi, vostri, stessi precetti. Tu che pretendesti che i Bronze Saint si umiliassero al tuo cospetto, prostrandoti e portandoti il rispetto che si confà a una Divinità incarnata. Dimentico tuttavia della tua compassione e del prezzo da pagare per avere un corpo umano. Ossia il non essere riconosciuto in quanto Dio e i dubbi propri dell’ego, una volta libero di fronzoli e di opulenze. Il riscoprire il vero te stesso dietro le illusioni che tu stesso ti eri costruito. Inorgoglito dalla tua stessa forza, avevi dimenticato che anche chi era meno forte di te poteva esserlo. Grazie alla tenacia e all’impegno, niente era impossibile. E, tu, avevi solo fatto la figura del borioso quando avresti dovuto restare puro come il bambino che si avvicinò all’anziana attendente per aiutarla. Come l’uomo che si batteva attivamente contro la legge della maschera delle Sacerdotesse-Guerriero, lamentandosi a più riprese con Arles, ex pontefice, quando non eri a meditare altrove.
Questo era l’uomo incorrotto che dovevi tornare a essere, mio confuso Shaka.  
“Come sai come mi chiamo?”
Una colpa alla volta, adesso qual era la cosa più importante?
Non era solo per quella superba bellezza; per quegli occhi caldi o per le forme, o per gli ormoni. Non era solo per il Cosmo o la sua storia, mondo, galassia, universo a parte rispetto a te, che eri lì.
Non solo per il nome e il continente che per te, indiano - non - indiano, era casa. Nome che associato a lei catturava la tua anima abbracciandola e contenendola. Sicché tu, piccolo umano, pagassi il sacrificio degli Dèi incarnati, ridimensionando il tuo ego per un corpo.
Lei ti guardò in attesa poi un pensiero le sfiorò la mente e la fece trasalire. Non la sentisti, invece la percepisti. “Hai tu il mio album?” Ti rinnovò la domanda, timorosa e speranzosa al tempo stesso.
In quel momento capisti che i tuoi timori erano infondati. E che avevi un nuovo compito da svolgere.
“Rispondimi! Hai tu il mio album?”
E, bastò sentire quelle parole per mandare a farsi benedire il tuo equilibrio interiore e farti pensare persino l’impossibile.
Tre incontri sono sufficienti per innamorarsi.
Strano come tu, in tre incontri ci fossi caduto subito.
Sì, amore. Amor casto, amor sacro, amor cortese, amor senza parole e senza reale possesso. Per voi non era inusuale mostrare affetto in maniera diversa dagli occidentali. Non avevate bisogno di parole, forse potevi persino soprassiedere sulla tua persona, nella tua dottrina della rinuncia. Così facile, adesso che avevi un obiettivo e una risposta al motivo alla tua resurrezione. Un giuramento di fedeltà come voto nuziale. Fedele ad Atena in morte in vita. Una tomba come letto coniugale per la tua lealtà eterna.
Perché l’ho già fatto una volta
Ti tornarono in mente altre parole che avevi letto su quell’album per il quale lei stava cominciando a disperarsi e a risalire il sentiero. E tu, non ti eri neppure accorto di aver aperto gli occhi.
“Ti prego, rispondi!”
La verità è complicata, hai ragione, avresti voluto dirle. Con molte sfaccettature. Chiaro, ma coinciso. E qual era la tua verità, Shaka? Che sfaccettatura stavi guardando in questo momento?
Per quale ragione eri stato resuscitato?
«Ti prego, devo saperlo, se ce l’hai ridammelo!» Esclamò stavolta a voce a due metri da te. 
Che favola stavi vivendo adesso, Shaka? Non sembrava anche a te di essere finito nella Leggenda della Dea Celeste? No. Non era solo quello. Tu non le avevi rubato l’hagoromo mentre si faceva il bagno in una fonte. Eri lì per un’altra ragione. 
Il tuo cuore batté rapidamente quando adesso lei fu a un metro da te.
Il tuo corpo si mosse da solo e la nobile Asia si fermò di colpo.
T’inginocchiasti al suo cospetto, come anni prima in un’altra Sala, a un’altra Dea. Sguardo basso, rispetto, pugno a terra e ginocchio rialzato.
La giovane ti guardò interdetta e confusa dal tuo gesto. Poi, si addolcì, mitigando un po’ la sua espressione per implorarti, ritraendo la mano per portarsela al cuore, stretta in pugno. Un gesto che le sapevi ormai abituale. «Per favore, rispondi». Disse piano.  
E sono pronta a farlo ancora. Come lo eri tu. 
«Io lo so, perché vivo per servirVi e per aiutarVi nella vostra difficile strada, mia Signora». Rispondesti tra il convinto e il cerimonioso, mentre il cuore ti batteva rapido in petto, come se tu stessi correndo e non fossi un Gold Saint. Poi alzasti lo sguardo su di lei, che ti fissava con due occhi grandi così, mentre il vento cominciava a soffiare in queste terre, come se si stessero risvegliando dopo millenni di sonno. Smuovendovi dolcemente le ciocche e i mantelli. «Vi prego, concedetemi il privilegio di venire con voi». “Sicché anche il tuo cuore sia di nuovo assieme a te”. Pensasti senza esternarglielo.
Testimoni di questo rinnovato giuramento furono un aspro paesaggio roccioso, degli Specter in avvicinamento, il cielo coperto di nubi temporalesche e il vento.   

Lancelot
Da quando Astrid era stata designata come attendente della Tredicesima non avevi più avuto occasione di incontrarla. Salvo poche volte, quelle poche in cui sgattaiolava via dalla Casa di Atena o come quando veniva chiamata a risolvere problemi legati alle Creature.
E ora questo.
Ovvio che non avevi scordato quello che era successo. Eri accorso anche tu a salvarla mentre gli altri cercavano di tenere buoni i Marine. Il contributo più grande però lo dovevate al tuo alleato annidato tra le ombre. Se non fosse stato per lui il Santuario sarebbe saltato per aria. Invece i danni erano stati contenuti e, il Cavaliere della Vergine, sotto ordine del Gran Sacerdote, cancellò la memoria di questi probabili alleati con dispiacere (?). Non avresti saputo dirlo neanche tu, dal momento che, ti era sembrato parecchio determinato mentre usava questa capacità e, i Marine e il loro seguito dimenticavano. Beatificati nell’oblio.
L’avevate salvata appena in tempo, anche se non se la cavava malaccio. Per essere una civile, ovviamente. Il vero problema era giustificare l’assenza del Cavaliere di Gemini, ancora rinchiuso nella gabbietta. Prigione che Astrid avrebbe dovuto sciogliere in quanto neanche le armi di Libra sembravano servire a qualcosa. E, da allora non l’avevi davvero più vista.
Peccato però, ti stava davvero simpatica; non solo per i guai che combinava e il potere che albergava in quel corpo che non ti sarebbe dispiaciuto stringere a te. Come facevi con Integra quando sua sorella maggiore non dava di matto.
Se non la guardavi in faccia avresti potuto scambiarla per la tua antica amante. Che, detto tra noi, avevi intrecciato quella relazione soltanto perché la vedevi solo come un’estensione del tuo re. Fosse stata un’altra non ti sarebbe neanche importato. Ma figuriamoci, tu eri leale ad Artù, che si era riunito al resto dei Cavalieri d’Oro di miss Tomoe.  
Peccato che gli altri fossero così prevenuti nei tuoi confronti. Persino il tuo collega, il Cavaliere d’Ariete della tua dimensione ti teneva d’occhio. Neanche tu avessi dovuto farle fare la fine del Senza Volto che affrontò Hyoga a Tokyo tre anni fa. Però niente t’impediva di incrociarla qualche volta al mercato mentre faceva spese. Il fedele Cocteau sempre appollaiato da qualche parte a tenerla d’occhio. Certe volte avresti voluto farlo allo spiedo, l’Oracolo d’Atena.
Ti aggiravi per il mercato masticando una mela che ti eri comprato dal fruttivendolo, certo che tra poco l’avresti incontrata. Infatti eccola lì, alla bancarella del pesce che si faceva consegnare il cartoccio che poi ripose nel cesto della spesa.
Ti avvicinasti e la salutasti, facendole prendere un colpo che per poco non le fece volare via il cesto.
Ridesti: «Sono mesi che ci si conosce e hai ancora paura di me?»
«Lancelot! Se tu continui a comparirmi alle spalle tutte le volte è ovvio che avrò sempre paura di te».
«Veramente non ero alle tue spalle, sono accanto a te».
«Fa lo stesso».
«No che non è lo stesso».
«Sei venuto qui per farmi perdere le staffe?»
«Per quanto io adori sentire i tuoi insulti contro i reali del tuo Paese no». Scherzasti. Non t’importava che gli altri Stati avessero una repubblica o una monarchia. Eri un Cavaliere mica un politico. E, poi alla fine gira e rigira per essere considerati eroi bisognava ammazzare molta gente. Avevi provato a spiegarlo ad Astrid, una volta e lei ti aveva parlato di questo Gandhi che, da solo e, senza neanche l’uso delle armi, era riuscito a liberare l’India dalla supremazia dell’Impero britannico. Tu l’avevi guardata senza neanche capire di cosa o chi stesse parlando. Perciò lei, rassegnata, ti aveva fatto un rapido riassunto della formazione dello stato d’Inghilterra (anche qui, boh? Ma di cosa parlava questa) dall’Impero Romano a ora, passando appunto per l’Impero britannico. Non ricordavi che le donne fossero così dotte. Anche se tua madre Viviana di Avalon, fu una delle più erudite, ti ritrovasti a pensare che Astrid lo era persino più edotta di lei. Non ti piacque molto sentirti fare la lezione di Storia. Se evitasti di urlarle contro per riparare al tuo onore ferito fu solo perché provenivi da una cultura dove le donne governavano e gli uomini erano i loro dux bellorum. Perciò non potesti fare altro che domandarle: «Dove le hai trovate tutte queste informazioni?»  
«Scuola».
«Prego?»
«Sono andata a scuola e ho studiato in questi anni di vita». Spiegò.
«Ah. Insegnano questa roba a scuola?» Domandasti.
«Certo e anche di più».
«Non m’interessa».
«Chissà perché… Temi forse il peso della cultura?» Ti schernì con un sorrisetto. Tu incassasti il colpo con un’altra risata. Ecco perché la ritenevi una persona divertente. Neanche Miss Tomoe riusciva a farti scompisciare dalle risate come lei. Anche se nel Caso della tua Dea non era rispettoso. «Comunque se ti interessa c’è il corso accelerato».
«Ah, sì?»
«Sì, su Google puoi leggerti tutta la Storia che vuoi».
«Interessante, appena trovo questo Google ci faccio un pensierino». Rispondesti. Lei ti guardò un po’ a disagio con un sorrisetto imbarazzato sulle labbra. Ti accigliasti. Che avevi detto di così strano? Non avevi detto una castroneria. Poi cambiasti discorso mentre lei comprava la carne dal macellaio: «Ho sentito quello che hai fatto a Saga una settimana fa». Tu non c’eri perché eri stato momentaneamente richiamato nell’altra dimensione per fare rapporto a Miss Tomoe. Non ti eri preoccupato di lasciar sola Miss Yoshino, dal momento che Mur era con lei. Facevate a turno, una volta al mese andava lui e una te. 
«Davvero?»
«Ecco a lei, signorina». Interruppe il macellaio porgendole il cartoccio. Lei lo mise nel cesto, sorrise, pagò: «Grazie, arrivederci».
«Arrivederci».
«Non pensavo che tu fossi tanto potente da riuscire a tenere testa a Saga. Shura può considerarsi fortunato, non credi? Se non ci fossi stata tu forse non si sarebbe salvato». Avevi percepito anche tu il Cosmo di Shura cambiare in quello demoniaco, prima che Astrid intervenisse. «Ma, sembra che tu non ne sia felice, mi sbaglio?»
Lei ti trapassò con lo sguardo prima di urlarti: «Come faccio a esserlo? Questo posto brulica di pazzi uno dietro l’altro! Questo non è un Tempio, questo è un manicomio! E, quella con la doppia personalità e, quello che manipola e, quello che si crede il Fantasma dell’Opera e, quello che colleziona teste e, l’altro che è autolesionista psicologico e, l’ammorbato di vendetta nei confronti dell’autolesionista che vuole aiutarlo a stare peggio! E, quello che ha la visione distorta della giustizia e, l’ossessionato stalker e il narcisista patentato, gli indemoniati e i non morti, manca solo quello con il complesso di Dio e poi le abbiamo tutte! E, dulcis in fundo, pare che io abbia scritto in fronte psicologo a caratteri cubitali e fosforescenti, Lancelot! Come diavolo faccio a esserne felice?» Non l’avevi mai sentita gridare prima di allora (non così) e strabuzzasti gli occhi. Quell’urlo fece voltare molta gente verso di voi e, tu, ricevesti delle occhiate di rimprovero da più persone. «Calmati, calmati, non volevo offenderti, non pensavo che…»
Lei avanzò di un passo verso di te, inchiodando i suoi minacciosi e ferini occhi dorati nei tuoi, «Che cosa, Lancelot? Cosa?» Sibilò minacciosa. Ecco, se quando urlava ti spaventava, quando sibilava era capace di eccitarti e, al tempo stesso, intimorirti. Neanche la tua ex amante, la cara regina Ginevra riusciva in una simile impresa. Dovesti compiere un piccolo sforzo di volontà per ritrovare la calma e tornare alla realtà. Realtà dove lei sembrava sul punto di sbranarti come una belva assetata di sangue e, tu, facevi la figura del cretino in mezzo alla piazza del mercato. 
«Cosa? Avanti, dillo! Avanti!» Esclamò livida.
«Che ti fosse successo questo». Riuscisti a dire, ricordandoti per un pelo il filo del discorso.
«Ah. Certo. E, io che pensavo che volessi solo sfottere».
Poi riprese a camminare verso l’uscita del mercato. Evidentemente aveva finito di fare gli acquisti. La seguisti e presto l’affiancasti. «Ehi, io non sfotto, non sono mica Death Mask». Le dicesti, perfettamente calmo. Non eri mica il tipo che attaccava briga con una donna.
«Se, se». Ribatté lei, sarcastica. Tu sogghignasti sotto i baffi e non le dicesti più niente, limitandoti a camminare accanto a lei. «Oggi cucini tu?» Le domandasti dopo un po’.
«Lo sai che non posso più, ormai cucino per la Tredicesima».
«Peccato, la tua cucina mi piaceva». Soprattutto da quando ti eri reso conto che le ricette che conosceva lei erano porzioni talmente piccole da tenere a stecchetto. Ora sì che non ti sorprendeva che avesse la corporatura di un uccellino. Con voi era stata costretta ad aumentare le dosi e metterci un po’di grassi in più, perché altrimenti, erano ricette dietetiche quelle che conosceva. Anche se non sempre il risultato estetico era allettante, il salmone con l’avocado ti era rimasto nel cuore.
«Perché, quella di Death no?»
«Non troppo».
«È sempre la stessa cucina».
«Le mani del cuoco sono diverse». Obiettasti.
«Questo non cambia che sia sempre la stessa cucina».
«Trovo comunque sia un peccato».
«Parlane con il Gran Sacerdote».
«Cosa stai cercando?» Le domandasti notando il modo in cui si torturava il labbro inferiore, come se stesse pensando che non avesse ancora trovato il materiale che le serviva. «Un ottico».
«Un ottico?»
«Sai cos’è?»
Ovvio che lo sapevi, in Giappone ti eri informato su quelle farfalle che il tuo re portava in faccia. E la spiegazione ti aveva talmente convinto, che poi tu stesso, anni dopo, cominciasti a indossarli. «Sì, ogni tanto il mio re ci va per farsi visitare, ma perché lo cerchi? Hai problemi alla vista?»
Lei ti guardò: «No, per niente, voglio costruire un telescopio».
«Un telescopio? E che roba è?»
«È uno strumento ottico per osservare le stelle». Spiegò con un’ovvietà e una semplicità tale che quasi ti offendesti. D’accordo che eri un uomo d’azione, ma non eri così scemo. Per questo la fulminasti con lo sguardo. Santo Merlino, mancava poco che ti facesse il disegnino.
«D’accordo, cosa ti serve?»
«Due lenti, un tubo da spedizione, un seghetto da traforo, un taglierino, della colla forte e un trapano». Elencò brevemente.
«Va bene, ti aiuto io.» ti offristi scrollando le spalle.
«Sei sicuro?»
«Certo, so anche dove trovare qualcuno che può darti una mano a costruirlo».

Saga
A svegliarti dal tuo incubo era stato il canto di una voce femminile: «I ain’t scared no more…» La voce aveva continuato per un po’ e, quando raggiunse l’acuto ti perforò i timpani, facendoti aprire gli occhi di scatto gemendo di dolore. In un nanosecondo fosti assalito da una dolorosa fitta alla testa che ti fece gemere un’altra volta.
Ti ritrovasti a fissare i gradini, fosti sbalzato in avanti, ma sbattesti il muso contro le sbarre. Poi, mentre gemevi di dolore, fosti catapultato all’indietro e vedesti il cielo, prima di sbattere la nuca contro le sbarre e rotolare sul fondo. Poi vedesti di nuovo i gradini e di nuovo il cielo, tutto così, mentre la Prima Casa (era la Prima, vero?) si stagliava all’orizzonte. Fatto sta che quella dolorosa altalena e la discesa, ti stavano facendo venire la nausea. E, a parte quella per espellere i boli dal becco, ti domandasti se potevi effettivamente vomitare come un vero essere umano anche in quelle sembianze.
Ti lamentasti.
Che cosa ti era successo? E, soprattutto, come c’eri finito in una gabbia? Realizzasti orripilato guardandoti intorno. Scorgesti la gonna bordata d’oro che si muoveva con le gambe della tua portatrice alla tua destra. Battesti le ali furiosamente, nel tentativo di liberarti. Ma per quanti sforzi facessi non riuscivi a passare attraverso le sbarre e finivi sul fondo della gabbia. Le ali penzoloni nel vuoto.   
Lei smise di cantare per volgere il viso verso di te e salutarti, ironica, senza smettere di agitare la gabbietta: «Oh, buongiorno, dormito bene?» Non ti ci volle la scienza per capire che la bastarda lo stava facendo apposta.
«Cos’è successo? Come sono finito qui dentro? Perché mi fa male la testa? Liberami subito!» Le ordinasti arrabbiato mentre i topolini sul tuo capino riecheggiavano l’ultima parola che avevi detto. Però eri talmente abituato a loro da non sentirli neanche più.
L’isteria non faceva parte della tua persona, ma la rabbia sì, nonostante la tua natura buona e caritatevole. Già avevi i sensi di colpa per gli attacchi del tuo demone, adesso ci si metteva persino lei? No! Ti saresti sentito meno in colpa se avessi potuto muoverti liberamente. Le avresti fatto le tue scuse, cercando di nasconderle il tuo rimorso. Ma così partiva con il piede sbagliato.
«Neanche per sogno». Ribatté lei, acida.
Battesti le palpebre e alzasti il muso cercando il suo, ma riuscisti a vedere solo i capelli biondi e parte della testa.
«Perché mi hai messo in una gabbia? Io non sono un animale!» Protestasti. 
La ragazza si fermò.
Sollevò la gabbietta e, vacillasti per tenerti in equilibrio tra le sbarre. Quando ci riuscisti ti ritrovasti a fissare i suoi adirati occhi gialli.
«Già è vero, in realtà tu sei un uomo; Saga, giusto?» Sibilò e tu trasalisti spalancando gli occhi. Per poco non arretrasti sul fondo della gabbietta che reggeva con tre dita. «Non ci siamo presentati, prima; io sono Astrid, incazzata di conoscerti. Vuoi sapere perché ti ho messo in gabbia? Bene, ti accontento subito: ti sei finto un animale per controllarmi da vicino senza destare sospetti, non ti sei scollato da me per quasi nessun istante, neanche quando mi cambiavo. Poi mi sei comparso davanti, nudo, come il più grande maniaco erotomane dei giardinetti del mondo e, quello che ti viene da chiedermi, è di liberarti? Lo sai che in altre circostanze ti avrei già denunciato per violazione di privacy, di domicilio, per stalking, atti osceni in luogo pubblico, truffa e tentato omicidio? Bello mio, mi sa che non hai capito bene quello che hai fatto e, dopo ciò, col cavolo che te ne puoi stare appollaiato sulla mia spalla…» come se ci fossi mai stato. Avevi sempre evitato di posarti sulla sua spalla proprio per via della tua natura umana. L’immagine era già grottesca al solo pensarci, figuriamoci se l’avessi fatto davvero. Ma Arles l’aveva fatto e di quelle volte tu serbavi ancora il ricordo con vergogna.
Qualcosa ti diceva che non avrebbe gradito se avesse saputo. «O in casa mia!» Concluse fissandoti con astio. Mai come allora quegli occhi ti ricordarono quelli di un gatto: gialli, affascinanti e predatori. Le mancava solo la pupilla verticale e ti saresti sentito davvero come un uccellino spaventato.
Nessuno tranne Arles era mai riuscito a intimorirti, neanche quel pazzo di Death Mask, che a suo tempo lo seguì più che volentieri per la gloria e il potere.  
Bisognava ammettere che la ragazza sapeva davvero come aumentare il tuo senso di colpa.
Quando aprì bocca temesti che stesse per darti l’ennesima stoccata, invece, disse: «Sfortunatamente non posso accusarti di niente di tutto questo perché, primo, siamo al Santuario, secondo, appari come un animale e, terzo, se anche ti denunciassi alla polizia passerei per mentecatta».   
«Per favore, liberami, lo so che non avrei dovuto ingannarti ma non ho...» Cominciasti ma lei t’interruppe. «Avuto scelta? Era un ordine di Kanon, magari?» Indovinò, inarcando un sopracciglio e portandosi l’altra mano al fianco. Come conosceva il nome di tuo fratello gemello? Ricordavi che Shura lo aveva gridato prima che Arles prendesse il sopravvento, ma non che lei lo avesse immagazzinato subito. Neanche lo avevi pensato. Solo adesso ti rendevi conto di averla sottovalutata e di molto. Non avrebbe potuto competere con nessuno di voi dal punto di vista fisico, ma stava dimostrandosi davvero intelligente e sveglia, per essere così fragile. Non sapevi se continuare a essere arrabbiato o se ammirarla.  
Ti appigliasti a una delle sbarre sul fondo con gli artigli e chiudesti gli occhi per fare un bel respiro profondo. Poi, dicesti: «Mi dispiace, ma temevo che non ti saresti fidata di me se avessi cominciato a parlare e ti avessi detto la verità».
«Al limite avrei pensato di essere impazzita, ma poi l’avrei accettato. Anche se a fatica. Non è mica da tutti accettare l’esistenza di animali parlanti così, come se niente fosse. Però avrei gradito molto di più, invece di continuare a pensare che tu fossi davvero un gufo o quello che sei. Ma tu dovresti comprendermi bene, d’altronde l’altra parte di te è un megalomane da strapazzo».
«Megalomane da strapazzo? Eh? Aspetta un momento, tu hai capito...»
Lei t’interruppe di nuovo: «Che soffri di Disturbo Dissociativo dell’Identità? Certo che l’ho capito. A differenza della maggior parte di voi, abituati a pensare che esso sia un demone che ti possiede e commette peccati con il tuo corpo, io ne so qualcosina. Anche se è la prima volta che mi capita di assistere anche a una trasformazione fisica». Commentò poi.
Riprendeste a scendere e, stavolta, però, lei tenne la gabbietta stretta contro il suo addome con entrambe le braccia cingendola alla stregua di un cesto. Alzasti lo sguardo e la guardasti allibito. «Come hai capito? Ero nei ricordi di Death Mask?» Domandasti incredulo. Era difficile spiazzarti, ma questa ragazza ci stava riuscendo alla grande.
«No, finora il massimo che conoscevo lo dovevo a qualche psico thriller visto in Tv in passato o agli Avengers e altri film della Marvel».
«Intendevo...»
«Sì, ho capito cosa intendevi. In realtà quella parte l’avevo rimossa quasi completamente. Non è divertente ricordarmelo ogni volta. Anzi, non vedevo l’ora che cominciasse a sparire. Nei suoi ricordi compari solo nella tua forma umana, dove il megalomane Arles, Aristotele, Arlecchino, come gli gira di farsi chiamare, ha deciso di diventare Ares, il Dio della Battaglia in contrapposizione ad Atena durante la Titanomachia per inseguire il suo sogno di gloria. Non ti dispiace se scoppio a ridere vero? Perché penso che una simile blasfemia non stia né in Cielo né in Terra».
Distogliesti lo sguardo, incapace di sostenere quelle iridi giustamente feroci: «Tu non sai quello che dici, lui è davvero potente, forse sono stato davvero posseduto da un Dio». Ribattesti spaventato, pieno di sensi di colpa e intimorito.
«Se, ma fammi il piacere! Se quello è un Dio io sono Michael Jackson. Siamo seri, dire di voler essere come un Dio e poi convincersi di esserlo davvero, non cambia la propria natura umana. Un essere umano resterà sempre un essere umano, anche se gli tagli una mano o gli cavi un occhio o lo chiami con un altro nome. Tra parentesi, ci guadagnava di più a farsi chiamare Aristotele. Arles, ma che razza di nome è? La versione regale di Arlecchino? Io ci chiamerei il mio gatto, più che una persona. Suvvia, siamo seri. Ad ogni modo no, Death non ha pensato che fosse importante conservare un piccolo particolare come questo». Rispose lanciandoti un’altra occhiataccia fulminante. In quel momento i suoi occhi potevano tranquillamente rivaleggiare con quelli di Aiolia pur non sprigionando scintille di elettricità.
Fece un respiro profondo mentre tu ti domandavi cosa significasse quel discorso. Che avesse parlato con Death Mask? Era possibile, dopotutto sentivi il Cosmo del Cavaliere parecchi metri dietro alle spalle della ragazza. «Che cosa significa?»
«Che le informazioni raccolte spariscono, prima o poi e, no, non riguardano voi. Io non conosco tutti voi ma soltanto Death, quanto vi ci vuole per capirlo? Tutti voialtri sto imparando a conoscervi».
Questa sì che era una rivelazione.
«Quindi quando leggi la mano non entri anche nella mente delle persone che sono legate a quella che stai leggendo?» Domandasti sorpreso.
Sbuffò: «Parla chiaro, sono ancora semi addormentata e non ho ancora fatto colazione».
Ti esprimesti in parole povere: «Quindi tu non hai letto le nostre menti tramite la mano di Death Mask?»
«Certo che no, il mio potere non è sviluppato fino a questo punto, genio, altrimenti mi sarei uccisa da un bel pezzo».
«Non credo di aver afferrato».
Emise un profondo sospiro per l’esasperazione e chiuse gli occhi, portandosi la mano alla radice del naso. Poi disse: «Ascolta, non ho voglia di parlarne, ok?»
Ti appuntasti di scoprirne di più, dal momento che ti avevano raccontato che aveva usato quel talento per infierire su una Saint attaccabrighe e per arrotondare un po’, prima di essere assunta alla Tredicesima. «D’accordo, non te lo chiederò più. Adesso ti sei calmata?» Tentasti, con voce flebile e ancora piena di rimorso.
Riaprì gli occhi e ti fulminò un’altra volta con lo sguardo. «Sì». Sibilò, con voce dura, troppo dura per essersi veramente rabbonita.
Anche se eri relegato in quella forma, capivi anche tu che i tuoi peccati erano imperdonabili. Eppure, avevi bisogno che lei comprendesse quanto ti dispiaceva non essere riuscito a controllarsi. Per fortuna che c’era stato Shura, altrimenti sì che sarebbe stato peggio. Avresti dovuto ringraziarlo per averti fermato. Ma sapevi benissimo che queste scuse e ringraziamenti sarebbero rimasti impigliati nella tua gola, per uscirne mascherati in altre frasi. «Non pensare di cavartela così facilmente». Disse lei a un certo punto. 
«Non sei una persona incline al perdono, vero?»
«Le tue azioni non sono facilmente perdonabili come desideri, mi dispiace». Rispose abbacchiandoti ancor di più. Ma le desti, inevitabilmente, ragione. «Dove stiamo andando?» Le domandasti allora. «Mi porti a liberarmi?» Chiedesti riconoscendo la Prima Casa. Forse Mur avrebbe potuto aprire questa dannatissima gabbietta.
Lei rispose dopo qualche secondo che passasti tenuto sulle spine. «Eh, no».
«No? Come sarebbe a dire no?» Urlasti volgendoti di nuovo verso di lei.
«Calmati e non urlare, che ci sento. Questa non è una gabbia come tutte le altre, Saga, questa gabbia è la tua costellazione solidificata». Ti spiegò mentre entravate nella Prima Casa.
«La mia costellazione? Aspetta, vuoi dire che non è stato Shura a fermarlo?»
Si fermò di nuovo e aggiustò la presa sulla gabbietta prima di rispondere: «Già, che delusione, eh?»
«Come hai fatto?» Domandasti sorpreso con la mente invasa da milioni di domande. Tu, il Saint più potente al servizio di Atena, un Cavaliere d’Oro addestrato, padrone del Settimo e dell’Ottavo Senso, forse anche del Nono e di un Cosmo Doppio, che veniva sopraffatto da un’ancella del Grande Tempio, anzi no, da un’Incantatrice priva della stoffa del guerriero e dell’addestramento necessario per tenerti testa? Non sapevi se sentirti in imbarazzo o se ringraziarla. Bè, dopotutto ne andava del tuo orgoglio maschile. Ma anche questa era una stupidaggine: quante volte l’avevi messo da parte per implorare l’aiuto della divina Atena sia in battaglia che anche contro quella bestia che albergava dentro il tuo essere? Allora cos’era quella sensazione che provavi? In ogni caso era meglio così, nessuno si era fatto male. Non sopportavi di avere altri innocenti sulla coscienza.  
«Hai presente il mio potere? Bene, quando “il potente Arles” o Ares, come gli gira di farsi chiamare, ha preso il sopravvento e ha tentato di ucciderci, ho collegato le stelle della tua costellazione, quello che dimenticate sempre è che le costellazioni sono raggruppamenti apparenti di stelle, ergo, possono cambiare forma e dimensione nel corso del tempo. Ti chiederai cosa c’entri, ebbene, io, tramite i collegamenti che ho creato, sono riuscita a impacchettarti e impedirti di bruciare il tuo immenso Cosmo Doppio. Quando sei tornato gufo la gabbia si è adattata alla tua forma».
«Oh». Aveva manifestato un nuovo potere proprio per salvare Shura. «Shura sta bene?» Domandasti poi, in apprensione per il compagno. Ricordavi che ti eri dovuto trasformare per affrontarlo quando il demone della sua costellazione aveva preso il sopravvento.
«Non preoccuparti per lui, sta benone, Shun è un ottimo medico e Shura si riprenderà completamente in una quindicina di giorni».
«Perché mi fa male la testa?» Chiedesti quando fosti colto dall’ennesima fitta.
«Per tramortirti ho usato una padella. Meno male che sono riuscita a calibrare bene il colpo, se no a quest’ora saresti all’altro mondo con il cranio sfondato, invece che ancora vivo e in una gabbia».   
«Era la prima volta che tramortivi qualcuno?»
«Sì».
Ti era andata davvero bene.
«Quando mi libererai?» Chiedesti poi.
«Appena capirò come riportare la tua costellazione alla normalità».
«E, quanto ci vorrà?»
«Buongiorno, Kiki». Salutò invece di risponderti.
Ti girasti e ti sporgesti oltre le sue braccia per guardare il giovane Cavaliere della Prima Casa venirvi incontro.
«Saga! Allora è vero che ti sei svegliato. Astrid, stai bene?» Vi accolse preoccupato, poi, sollevato, tornò a rivolgersi a te: «Sono contento di vedere che sei sveglio, ci hai fatto preoccupare».
«Sì, sto bene, Kiki, mi fa male un po’ la testa». Ribattesti tu, mentre la giovane vi guardava.
Il lemuriano spalancò gli occhi viola, indicandoti. «Quella è…»
«La gabbia fatta con la costellazione dei Gemelli e, ehm, Saga?» Disse di nuovo, cercando di indovinare il tuo nome. «Sì». Confermasti. Se avessi potuto sbuffare lo avresti fatto. Tu, che di solito neanche ti sognavi di sbuffare. Neanche pensavi di poterlo fare in questa forma. 
«Avete già fatto colazione?» Chiese l’allievo di Mur, ma rivolgendosi di nuovo ad Astrid e tu strabuzzasti gli occhi. Che, ci stava provando? Adesso? Se avessi potuto sgranare gli occhi come quando eri umano l’avresti fatto. Non pensavi che potesse essere così intraprendente nonostante il carattere flemmatico. Neanche Mur lo era mai stato, a suo tempo. Anzi, non ricordavi proprio di averlo mai visto provarci con un essere umano o vivente in generale. Neanche con un sasso, ora che ci pensavi. Ma neanche che scegliesse un momento così pessimo per flirtare.  
«Sì, da Death».
«Oh, peccato e tu, Saga?»
«Io non ho fame». Sentivi che avresti potuto rimettere se avessi inghiottito qualcosa. Ti agitasti per riportare l’attenzione di Astrid su di te. Non volevi fare da terzo incomodo. La giovane parve trovare il coraggio per declinare l’invito: «Non fa niente, dai, sarà per la prossima volta, posso passare? Devo scendere a Rodorio».
«Certo, ma perché ti porti dietro Saga?» Chiese accompagnandovi lungo il corridoio di passaggio.
«Perché voglio provare ad aiutarlo io». Dichiarò e tu la guardasti stupefatto. Avevi sentito male?
«Aiutarlo tu? E, come?» Chiese stupito e interessato il Custode del Tempio del Montone Bianco.
Lei sorrise: «Te lo dico quando torno, adesso è tardi e ci aspettano». Promise.
«Va bene, allora a dopo Astrid. Saga».
«Kiki». Salutasti.

Astrid uscì dalla Prima Casa e, mentre camminavate, le domandasti, incuriosito: «Davvero hai intenzione di aiutarmi?»
«Certo».
«Come? Dimmelo, ti prego». Chiedesti incuriosito e pieno di speranza e gratitudine. 
«Visto che gli esorcismi sono andati a vuoto, proviamo con la terapia».
«Terapia?» Ti saresti aspettato una terapia d’urto come minimo. Ma lei non aggiunse mai queste due parole. Adesso non avevi la più pallida idea di cosa stesse parlando: «Sì, terapia. Che tu ci creda o no, conosco un paio di persone che sarebbero felici di aiutarti».
«Un caso come il mio? Aspetta, mi porti dallo psicologo?» Tentasti d’indovinare. Anche se vivevate al Santuario non eravate così fuori dal mondo come la maggior parte delle persone tendeva a pensare. Solo che gli psicologi soggiornavano ad Atene e lei non aveva il permesso di lasciare il Santuario.
«Precisamente». E, tu che pensavi che ti avrebbe portato da chissà quale santone all’interno del Santuario.
«Ma al Grande Tempio non ci sono psicologi». Obiettasti confuso.
«Forse quando eri tu il Gran Sacerdote no, ma adesso sì. Ti ricordi l’amico di Galan? Quello che mi sta aiutando a gestire le mie crisi e i vari traumi? Bene, ha un collega arrivato da Atene da poche settimane; si occupa di casi come il tuo e che sarebbe felicissimo di aiutarti. L’avresti mai detto che Rodorio avrebbe fatto la fortuna degli psicologi? Io no, ma forse ce lo saremmo dovuti aspettare. Non preoccuparti per i soldi, ne ho parlato con Aiolia e gli altri, scendendo. Ci ho messo un po’per convincere i più ostinati, ma hanno detto che mi aiuteranno tutti a sostenere le tue spese mediche. Con tuo fratello, Hyoga e Aphrodite ci parlerà Shura quando si sveglierà. Hai capito i Gold? Dovresti essere felice di avere dei compagni come loro. Non preoccuparti per l’orario, Galan ieri sera è sceso a Rodorio apposta per avvisarlo quando gli ho raccontato la mia idea».
«Io non pensavo che…» Balbettasti sorpreso, mentre la commozione s’impadroniva di te. Finalmente Atena aveva deciso di esaudire le tue preghiere. Avevi implorato tante volte che ti salvasse e adesso eri stato ascoltato. Se avessi avuto ancora un corpo umano avresti pianto e ringraziato la Dea ai piedi della sua statua.
La voce di Astrid interruppe le tue elucubrazioni: «Che così tante persone si sarebbero mobilitate per aiutarti? Saga, dovresti smettere di concentrarti solo sulla pericolosità insita in te stesso e, rimorsi vari e chiedere aiuto un po’più spesso».
«L’ho fatto, io… non hai idea di quante volte io l’abbia fatto». Rispondesti sigillando quegli occhi che non avrebbero mai più versato lacrime finché fossi rimasto un animale. Solo gli esseri umani piangono, nessun altro essere vivente può. “E, non hai idea di quante volte la mia richiesta non sia stata compresa, di quante volte abbia lottato per cercare di liberarmene e non ci sia riuscito. Allora ho cercato di fermarlo. Pensavo che la morte avrebbe potuto darmi sollievo e invece no. Sono stato resuscitato tre volte e tutte e tre quella bestia era sempre con me”.
«Forse l’hai chiesto alle persone sbagliate e non ti sei saputo esprimere bene, dopotutto quanti anni avevi quando la malattia si è manifestata per la prima volta? Dodici? Tredici?». Domandò lei con delicatezza, mentre scendeva l’ultimo gradino ed entravate in paese. Sembrava sinceramente interessata e preoccupata.
«Quindici».
«Praticamente un ragazzino». Commentò con lo stesso tono compassionevole e delicato. Sì e, come un ragazzino, ti eri espresso e non eri stato ascoltato. Come se non bastasse eri pure stato maledetto da Chronos, condannato a essere schifato ed evitato da tutti. Tu che pure eri molto rispettato e amato.
«Su, adesso andiamo a mangiare qualcosa e poi andiamo dallo psicologo». Disse tanto per cambiare discorso. Poi ti domandò: «Cosa vuoi mangiare?»
«Non avevi detto che avevi fatto colazione da Death?»
«Ho mentito, in realtà abbiamo quasi litigato».
«Quasi?» Trattandosi di quel provocatore di Death Mask era un record.
Lei fece spallucce: «Bè, il nostro è un rapporto turbolento, con i suoi alti e i suoi bassi. Forse sono una delle poche persone con cui ha un rapporto affettivo sano. Diciamo che non gli ho ancora perdonato di avermi tenuto nascosto la tua vera identità. Lo so che era un periodo non proprio felice, che era sempre via e che non ci parlavamo spesso, ma avrebbe dovuto dirmelo. La sua scusa? Pensavo che lo sapessi. Mica posso ricordarmi sempre tutto, dannazione! Sono un essere umano anch’io». Sbottò ed emise un verso stizzito, che presto si tramutò in uno rassegnato: «Va bè, ormai è andata così. Vuoi qualcosa da mangiare anche tu o pensi di non averne bisogno?» Ti chiese mentre vi avviavate a una locanda con i tavoli apparecchiati fuori della porta.
«Mi offri da mangiare?» Domandasti come se non avessi capito bene.
Lei fece spallucce. «Perché, dovrei forse lasciarti a stecchetto?»
«No, ma…»
«Che c’è? Qualche problema?» Ti chiese guardandoti. Ricambiasti il suo sguardo senza riuscire a spiccicare parola alcuna mentre le persone che vi passavano accanto gettavano un’occhiata alla gabbietta.
Alcuni bambini insistettero per vederti e Astrid li accontentò. E, ti ritrovasti a guardare quelle facce adoranti e a sopportare quelle vocine che raggiungevano picchi che le tue corde vocali avrebbero potuto sognare. Che grande umiliazione. Tu che da Papa eri stato circondato dai bambini adoranti e avevi elargito benedizioni e carezze, adesso ti ritrovavi in una gabbia, sottoforma di civetta e mancava poco che ti accarezzassero loro. Grazie ad Atena gli uccelli rapaci non esternavano l’affetto come i gatti, perché non eri bravo a fingere. Cercasti di tenere il becco il più serrato possibile. Soprattutto quando un bambino si rivolse alla ragazza dicendogli: «É bello, dove l’hai trovato?»
Astrid rispose, alzando la gabbia: «Questo non è mio, è di un mio amico che mi ha chiesto di portarlo dal veterinario per il suo controllo di routine perché oggi lui non può.» la frecciatina la sentisti più acuta che mai. Se avessi potuto fulminarla con lo sguardo lo avresti fatto. Di solito eri un tipo paziente, ma qui si esagerava. 
Una bambina senza incisivi domandò, sputacchiando: «Ma è domestico?»,
«Adesso credo proprio di sì».
Girasti il capo e fulminasti Astrid con un’occhiataccia.
Adesso ti stavi veramente alterando. Solo la Dea sapeva perché diavolo non avevi ancora aperto becco e cominciato a sgridarla.
«Non sembra molto felice.» commentò un bambino, in pena per te.
«Eh, no, il veterinario non piace a nessuno, poi mi sa che non gli piaccio molto». Confermò la bionda.
«Possiamo toccarlo?» Chiese un altro bambino, incuriosito e bramoso di accarezzarti. Tu lo guardasti inorridito. 
«No, se apro la gabbia vola via».
Invece, un’altra ancora, saltellante come un grillo, cercò di farsi largo tra i compagni domandando a raffica: «Come si chiama? È un maschio o una femmina? Se è una femmina fa i gufettini?» alché tu ti ritrovasti a pensare, “Civetta! Sono una civetta!” Pensasti, per poi darti dell’imbecille da solo, “Ma che civetta e civetta! Io sono un essere umano!”
Astrid, ignara di tutto, rispose, paziente, sempre sorridendo: «Si chiama Cocteau ed è un maschio, non fa i gufettini e non credo che sia alla ricerca di una compagna. Mi dispiace». 
«Io ho un gufo reale, dici che se li facciamo conoscere diventano amici?»
“Ci mancherebbe solo questa!” Pensasti mentre il tuo umore sprofondava sotto le zampe.
Un bimbo di otto anni tirò la manica della giacca della madre e, indicandoti disse la frase che avevi temuto di udire quel giorno, più di tutte: «Mamma, me lo compri?»
Volgesti il capo verso Astrid, la quale scoppiò in una risata benevola, divertita da quella domanda. «No, piccini, non è in vendita, mi dispiace».
«Su, bambini, andate a scuola, si è fatto tardi». Disse la donna correndo in vostro soccorso, poi si scusò con Astrid per l’impiccio. «Si figuri, non hanno fatto niente di male». Lei sorrise, rinfrancata e seguì i bambini.
L’ancella riportò la gabbia sull’addome e ti guardò: «Tutto bene?»
«Sì». Dicesti. Per un momento avevi avuto seriamente paura che ti vendesse a quelli lì.
«Scusa se ti ho fatto passare per un animale. Non potevo certo dire la verità, non a dei bambini».
«Non ho detto niente». Se avessi potuto volare via l’avresti già fatto da un pezzo.
La sua voce ti giunse calda e dolce come una carezza: «Ma l’ho sentito lo stesso. Su, dai, non arrabbiarti, sono solo dei bambini, lo sai come sono fatti. Per farmi perdonare ti offro da mangiare tutto quello che vuoi. Ti va?» Offrì, cercando di placarti.
Riprese a camminare.
«La fai facile tu, non posso neanche entrare in un bar o in un posto qualsiasi, moltissimi sono vietati agli animali, anche se io sono un uomo». Ti lamentasti imbronciato. Normalmente non avresti mai detto niente, ma lei, per quanto fosse brava a farsi detestare, ti faceva venire voglia di vuotare il sacco. Perché il tuo becco si apriva da solo e diceva tutto? Ma chi era questa ragazza per farti confessare così? Era lei a farti quest’effetto o eri tu che avevi bisogno di parlare con qualcuno che ti capisse davvero? Dopotutto lei era stata la prima a capire cosa avevi veramente. Che, inconsciamente ti fidassi già di lei?
Lei si morse il labbro e ti guardò impietosita, prima di dire: «Bè, non c’è problema, ci sistemeremo in un posto con i tavoli all’aperto. Abbiamo solo un problema». Fece una pausa, mordendosi il labbro, imbarazzata. “E, ora che c’è?” Pensasti sull’orlo dell’esasperazione. «Non so cosa mangiano i gufi».
«Meno male che lo so io». Rispondesti in tono stanco.  

Kanon
Eri stato uno sciocco. Avresti dovuto immaginarlo che nella rinascita, anche la parte oscura di Saga sarebbe tornata a nuova vita. Ma come era successo? Seiya diceva di averla vista abbandonarlo. A meno che, quello spettro che l’abbandonò non fosse veramente la sua parte oscura e neanche la maledizione che gli lanciasti, bensì la creatura che lo pilotò, forse uno dei figli di Eris. Se non sbagliavi, anche sfogliando i documenti degli anni della sua reggenza, nell’ultimo anno, quando cominciò a manifestarsi la vera Atena e cercò di riprendersi il trono, Eris stava già cercando di impossessarsi del Santuario. Se fosse rimasta una Dryad dentro di lui fino alla battaglia delle Dodici Case? Era possibile, anche se non era bene fidarsi di uno che tuo fratello aveva pestato a sangue e che, in quel momento, era più morto che vivo.
Un istante, la fugace visione di un istante.
Mayura del Pavone, Juan di Scutum, Georg di Southern Cross e le Saintia avevano combattuto direttamente con Eris e i suoi Dryad, i Phantom di Ares. Sapevano come ragionavano. Avresti potuto chiedere anche a Milo di Scorpio e a Mur di Aries, che, ai tempi le combatterono al fianco delle ancelle della Dea.   
Finché era rimasto sottoforma animale non c’erano stati problemi di nessuna sorta. Anche quando l’avevi aiutato inviandogli la sua cloth due anni fa, ti eri accorto di niente. E, adesso tu, ben tre dei tuoi Cavalieri e la vostra ospite, avevano rischiato di rimetterci la pelle a causa della tua disattenzione. Avevi commesso un errore madornale nei confronti del tuo caro fratello maggiore.
Avevi avvertito la perturbazione nei Cosmi la sera prima ed eri accorso più rapidamente che avevi potuto, ma quando eri giunto sul posto non avevi trovato nessuno e non avevi potuto fare niente. A un tratto avevi sentito un’interferenza nel Cosmo di tuo fratello, poi un picco di inusitata potenza, considerando il vostro Cosmo doppio e, infine, più niente.
Avevi temuto che Shura fosse riuscito a ucciderlo. E, avevi pianto, oh, se avevi pianto. Saga era la tua famiglia, l’unico che ti restava e, ancora una volta, non avevi fatto altro che dimostrarti un pessimo fratello minore. Avevi urlato il suo nome e le montagne ti avevano restituito l’eco della tua voce. Qualche ora dopo, quando eri riuscito a ritrovare un po’di contegno e il gelo serale aveva cominciato a farsi sentire su di te, ti eri fatto forza e avevi cominciato la tua lenta discesa. «Non può essere morto, non può essere morto» continuavi a ripeterti come se fosse un mantra. Una parte di te ci credeva davvero, ma se stavi ai fatti, allora il dolore che provavi, diventava ancora più insostenibile. Dicono che tra gemelli ci sia un rapporto speciale, quasi simbiotico, ma nel vostro caso, ormai era così allentato che l’unica cosa che potevate dire che vi accomunava era solo l’aspetto. Forse nemmeno più quello. Però, anche se eravate come due fratelli normali, non significava che non gli volevi meno bene. E, che, ancora una volta, ti ritrovavi a pensare a quanto avessi sbagliato tutto con lui, accecato dall’invidia, dalla gelosia e dalla sete di potere. Che stupido ragazzino che eri stato, avresti dovuto aiutarlo, invece di maledirlo. Perché era stata tutta colpa tua, quella storia era tutta colpa tua. Se non lo avessi maledetto forse quel demone, Dio, qualunque cosa fosse, non si sarebbe mai insediato nell’anima di tuo fratello maggiore e avreste potuto passare le vostre vite insieme come avevate fatto fino a che non ti aveva rinchiuso a Capo Sounion. Avresti voluto chiedergli scusa già durante la Guerra contro Hades, però non eri riuscito neanche a guardarlo in faccia. Forse era stata soltanto la presenza dei tuoi compagni e della tua Dea a impedirti di piangere. Ma adesso, lì con te non c’era nessuno. Non era più necessaria quella freddezza che, oltre a isolarti dagli altri, ti aveva portato a contenerti per tutto questo tempo.
«Oh, Atena, fa che sia salvo, fa che non sia morto, fa che stia bene». Gemesti, pulendoti il viso sporco con il dorso della mano meglio che potesti, mentre ti aggrappavi alle rocce umide per aiutarti nella discesa, graffiandoti la pelle. Ma il dolore provocato dal quelle ferite non rappresentava nemmeno un balsamo per quello nel tuo cuore. Ogni luogo al Grande Tempio ti ricordava lui. Persino i sentieri segreti che stavi percorrendo per tornare alla Tredicesima Casa. Era stato lui a insegnarti questi percorsi e tutto quello che sapevi. Lui, per permettere a te una vita più normale della sua. Però non eri ancora pronto per accettare la sua dipartita e di essere tornato solo. Ciò che avevi temuto più di ogni altra cosa era avvenuta.
Perciò, eri stato molto sorpreso e sconvolto quando i soldati semplici ti avevano rintracciato che scendevi dalle alture e ti avevano raccontato del ritorno di Shura e Astrid al Santuario, adesso alla Sesta che si stavano facendo medicare dal Cavaliere di Virgo in seguito alle ferite riportate. Alla fine i tuoi sospetti sull’intrusione di un nemico entro i confini si erano rivelati veritieri. «Siete riusciti a catturarlo?» Avevi domandato, ben conscio che neanche un miracolo avrebbe potuto mascherare i tuoi reali sentimenti.
«No, signore, ma è ferito, i miei uomini e alcuni Cavalieri d’Argento sono sulle sue tracce, lo prenderemo in queste ore. Vi manderò un paggio appena avrò notizie più esaustive». Promise il soldato.
«Bene, altro?»
«Sì, pare che il cavaliere di Capricorn e un’ancella del Santuario abbiano salvato la vita dell’Oracolo di Atena». Salvato la vita? Ma allora… Saga! Una luce di speranza si accese dentro di te. Lo guardasti ad occhi sgranati mentre la speranza montava impetuosa dentro di te, accompagnata da un sottofondo di terrore. Lo avevi afferrato repentinamente per le spalle e avevi detto, spaventandolo non poco: «L’oracolo d’Atena? Come?» In quel momento non t’importava di mostrarti debole, al diavolo la debolezza. Era tuo fratello e avevi rischiato di perderlo di nuovo, dannazione!
«Pare che il nemico abbia tentato di prenderlo in ostaggio ma che i due siano riusciti a trarlo in salvo».
«Dov’è, adesso? Dov’è?»
«Alla Decima Casa, mio signore». Ti raccontò il soldato.
A quella notizia la speranza si era trasformata in un’ondata di gioia, potente e luminosa come il sole la cui luce spazzava via le tenebre. Il tuo primo impulso fu quello di scaraventarlo di lato e correre da lui. Volevi vedere tuo fratello, però i sensi di colpa si frapposero tra te e questo impulso come un muro e restasti inchiodato sul posto. Già, tu e tuo fratello non potevate sopportarvi più di tanto. C’era ancora quella voragine tra voi che non eravate riusciti a risanare. “Ah, già”, pensasti deluso.
Perciò ti costringesti a lasciar andare le spalle del soldato, ringraziarlo e congedarlo.
L’uomo s’inginocchiò, si rialzò e obbedì.
Lo seguisti con lo sguardo finché non scomparve alla vista. Dopodiché chiudesti la porta della camera da letto, solo per riaprirla subito dopo e uscire, così com’eri, per recarti alla statua di Atena e inginocchiarti lì. Non ti importava dello scompiglio generale che causasti tra le guardie. Non t’importava del tuo ruolo di Gran Sacerdote e dell’etichetta, tantomeno della figura che ci facevi. In quel momento tu non eri più il Gran Sacerdote, né un Cavaliere d’Oro, eri solo un uomo. Un uomo la cui Dea aveva esaudito il suo desiderio più grande. E, la dovevi ringraziare.
Arrivasti alla statua della Dea e lì ti gettasti in ginocchio. «Oh, Atena», dicesti, guardando l’imponente statua mentre fiumi di lacrime solcavano di nuovo le tue guance, offuscandoti la vista. Poi sigillasti gli occhi, trattenendo un gemito di pianto: «Grazie, mia Dea, grazie, grazie!» Esclamasti poggiando la fronte al suolo. E, lì, ricominciasti a piangere, stavolta di gioia. E, le offristi le tue lacrime proprio come offerta votiva e ringraziamento. Perché offerta più sincera di quella non potevi fargliela. Ringraziasti il tuo segretario e facesti il tuo ingresso nella sala del trono deserta. Non solo perché eri abituato a svegliarti presto, ma perché la maggior parte delle volte quella sala era proprio così. Di norma ti saresti recato nel tuo studio privato (debitamente ricostruito e affrescato a tempo di record dai celeri operai mandati dalla Dea. All’inizio ti eri pure meravigliato della loro velocità; te li ricordavi anche più lenti) ma quella mattina dovevi prima di tutto occuparti della questione che più ti premeva: Saga.

Avevi finito la colazione nei tuoi appartamenti privati e ora ti stavi preparando per affrontare la giornata. I servi avrebbero provveduto a pulire non appena avresti lasciato le tue stanze. Non amavi che ti ronzassero in giro e ti aiutassero a vestirti quando potevi benissimo pensarci da solo. Era un’abitudine che ti era rimasta da prima della tua investitura a Gran Sacerdote.
La notizia della sconfitta di Arles stava per spargersi a macchia d’olio per il Santuario. Però potevate ancora fare qualcosa per rimediare.
Ti guardasti allo specchio mentre ti vestivi. Il volto fresco di rasatura e i capelli che avevi pettinato a dovere, purtroppo servivano a poco per attenuare il gonfiore dei tuoi occhi arrossati. Fortuna che avresti indossato la maschera sacerdotale, altrimenti non sapevi proprio come avresti fatto a giustificare il tuo aspetto quella mattina.
«Grazie, Atena, grazie». Non avresti mai cessato di ringraziarla. Poi voltasti le spalle allo specchio e, dopo aver indossato le collane, uscisti. Le guardie si inchinarono in rispettoso silenzio al tuo passaggio.
Il tuo segretario ti attendeva qualche corridoio più in là per illustrarti i doveri di quella giornata.
Doveri che ascoltasti con un orecchio solo. La tua mente ripercorreva i fatti della sera prima. Mandasti a chiamare Shura di Capricorn da un paggio. «E, riferiscigli che voglio vedere anche l’Oracolo di Atena».
Il Cavaliere d’Oro arrivò dopo mezz’ora e s’inchinò ai piedi della pedana. Il viso rivolto a terra in segno di rispetto e sottomissione. «Santità». Ti salutò formalmente.
«Avevo richiesto anche la presenza di Cocteau». Dicesti tu, perplesso. Di solito Shura non trasgrediva mai un ordine, perché adesso sì? Eppure, lui era uno dei Cavalieri più fedeli al Santuario. Ogni ordine era legge per lui.
«Mi rincresce molto portarvi questa notizia, ma quando mi sono svegliato stamani mattina, non era più nella Decima con me. Astrid lo ha portato con sé a Rodorio». Rispose il corvino.
«Astrid? Cosa c’entra la signorina Astrid?» Domandasti in tono gelido e sospettoso, artigliando i braccioli del trono con le dita, come se così facendo avresti potuto impedire a te stesso di balzare in piedi. Eppure le tue gambe sembravano non rispondere all’impulso scatenato dai tuoi sentimenti. «Perché avrebbe dovuto portarlo con sé a Rodorio?» Saresti stato dieci volte più lieto di poterlo almeno vedere, non di apprendere una notizia simile.
«Perché dice che forse lei sa come aiutarlo. Mi ha lasciato un biglietto stamani che ora giro a voi di modo che possiate valutare la sua proposta». Disse sfilandosi dal bracciale sinistro della Gold Cloth una lettera piegata in due.
Gli facesti cenno di alzarsi e portartela, pensando: “Un’ancella del Grande Tempio che ci fa una proposta?” Mentre nella tua mente cominciavi a valutare le opzioni con cui rispondere alla fantomatica proposta che stavi per accingerti a leggere. “Quale audacia!” Già ti era parso che quella ragazza avesse fegato, ma ora che ne avesse così tanto non ti era parso. Forse avresti fatto meglio a tenerla d’occhio ancor più strettamente di quello che facevi invece di lasciarla libera di scorrazzare per le Dodici Case. Forse necessitavi di una nuova segretaria.
Ti meravigliasti della sua scrittura in greco. Anche se ortograficamente parlando c’erano un po’di errori e qualche strafalcione lessicale, comprendesti il messaggio e restasti di stucco.

Già dai ricordi di Death avevo capito che il problema di Saga era grave, ma fino a ieri sera non avevo compreso quanto potesse effettivamente esserlo.
Voi siete abituati a pensare che sia un demone maligno o un Dio che lo possiede appropriandosi del suo lato oscuro ma non è così: Saga è affetto da una malattia mentale, il Disturbo dissociativo d’identità, altrimenti detto disturbo di doppia personalità, che non ha niente a che vedere con la sua costellazione d’appartenenza o con le divinità. Per farvi un esempio pensate a lui come al Dottor Jeckyll e Mr. Hide, oppure a Bruce Banner e Hulk.

Non è una cosa da prendere sottogamba, come credo che finora sia stata presa. Non sparisce così con un abbraccio o delle belle parole o una stretta di mano o una medaglia al valore. O, con un esorcismo. Se fosse stato aiutato nel modo giusto non avrei percepito il dolore del vostro compagno e sentito la sua richiesta d’aiuto. Per questo voglio aiutarlo io. Un collega del mio psicologo si è trasferito da poco da Atene e ha aperto uno studio proprio qui, nel Santuario. Purtroppo però la parcella è salata e il mio salario non è sufficiente per coprirne le spese. Per questo chiedo a voi Cavalieri di organizzare una colletta per pagare la terapia. So che non dovrei essere io a dirvelo e, neanche a scriverlo, ma non conosco altro modo per chiedervelo. Né, abbastanza bene la lingua greca per spiegarvi meglio la mia idea.
Pertanto mi appello alla vostra coscienza e al vostro onore di Cavalieri.
Intanto io stessa mi metterò in moto da stamattina cercando di sottoporre questa proposta anche agli altri Gold presenti nel Tempio. Forse più siamo e più riusciremo a coprire meglio le spese mediche.
Per quanti rancori possano intercorrere tra di voi, non penso proprio che lo lascerete in balia della malattia, ora che sapete di cosa si tratta. Se avete a cuore la sua salute allora sono sicura che questa richiesta non cadrà nel vuoto.
  
 
«Perciò questa è la proposta della signorina av Stjernene». Commentasti sforzandoti di usare le parole che più si confacevano al tuo rango, dopotutto stavi argomentando in veste di Papa, non di Kanon, anche se, ti accorgesti, non ti stava riuscendo tanto bene. E, di certo, il custode della Decima non ti aiutava: infatti, stava aspettando pazientemente che tu continuassi.
Cercasti di sforzarti di passare per il solito freddo commilitone ma non ci riuscisti. “Astrid, la tua ingenuità mi fa ridere. Non lo sai che questo è il destino dei Cavalieri dei Gemelli? Almeno uno dei due è sempre posseduto da questo demone. Questa è la nostra maledizione da sempre e non c’è modo di spezzarla”. Pensasti rassegnato e, al tempo stesso pieno di compassione per la tua giovane attendente.
Nel frattempo lo spagnolo, tornò nella posizione originale. Forse si accorse dei tuoi pensieri perché alzò la testa per guardarti stupito, o, almeno, così doveva essere, peccato che la sua espressione truce e seria la fece passare per tutt’altro. Chinò di nuovo il capo. Se non lo comandavi tu, nessun Cavaliere aveva il diritto di guardarti in viso. «Così Astrid frequenta uno psicologo? Da quanto?» Domandasti incuriosito. A dirla tutta non sapevi neanche che adesso ce ne fossero almeno due al Santuario. Non ti ricordavi che ci fossero, quando eri più giovane. 
«Non mi è dato di saperlo, signore».
«Bè, non importa».
A quel punto, il Cavaliere prese parola: «Non dovete temere per la salute di Saga di Gemini, mio signore. Egli sta bene, è stato visitato dal Cavaliere di Virgo appena ci hanno soccorso. Ha riportato soltanto un bernoccolo dovuto all’utensile che abbiamo usato per tramortirlo. Per quanto riguarda l’intenzione della signorina av Stjernene, credo che non abbiamo nulla di cui preoccuparci. È in buone mani». Se non l’avessi conosciuto bene, avresti detto che stesse cercando di rasserenarti. Come si permetteva?
Poi ripensasti alle sue parole. Dunque era così che erano riusciti a fermarlo. Conoscendo tuo fratello non doveva essere stato facile. Dopotutto lui era il Saint più forte al servizio di Atena. Se non avessi letto la lettera e conosciuto la serietà del tuo interlocutore avresti giurato che ti stesse prendendo per i fondelli. «Credi? Io temo di più per lei che per lui». Confessasti con aria stanca e preoccupata. Anche perché quella ragazza dagli occhi gialli era un’ospite, non era un’ancella a tutti gli effetti.  E poi, anche se Saga era ridotto male, restava lo stesso un Cavaliere addestrato, mentre l’ancella di combattimenti non ne sapeva niente, in confronto a voi. Inoltre, se quello che era scritto nella lettera era vero, tuo fratello non si sarebbe lasciato convincere così facilmente.
Autorizzasti il tuo sottoposto a parlare, perché lo vedevi che aveva qualcos’altro da dire. «Non c’è nulla da temere, la signorina è riuscita rinchiudere Saga in una gabbia sfruttando il suo potere».
«Cioè? Che vorresti dire?»
«Ieri sera, durante lo scontro, ha manifestato due nuove tecniche legate alle stelle: con la prima è riuscita a risvegliarmi dal mio demone, con la seconda ha creato una gabbia che ha annullato tutti i movimenti e il Cosmo doppio di vostro fratello usando la costellazione di Gemini». Spiegò lo spagnolo «Saga è ancora dentro la gabbia, sebbene abbia riacquistato le sue sembianze animali».
Completò dopo una pausa, come se fosse deciso se continuare o no.
«E, questa gabbia, si può spezzare?» Domandasti dopo un po’.
«No, sono le stelle delimitanti il Cosmo dei Gemelli che hanno preso forma solida, soltanto Astrid la può spezzare senza procurare danni a Saga. Il problema è che al momento non ha ancora idea di come fare e non si è ancora ripresa completamente dall’attacco». Doveva averci pensato molto per dirti queste parole. «Ma abbastanza da prendere in mano il controllo della situazione». Commentasti. «Tu hai già letto questo biglietto?»
«Sono stato il primo a leggerlo». Confermò.
«Cosa ne pensi?»
«Non la trovo una pessima idea, credo che dovremmo almeno rifletterci su». Suggerì con delicatezza.
«Adesso dov’è?» Chiedesti riferendoti ad Astrid.
«A Rodorio, volete che la raggiunga?»
«No, per ora non c’è bisogno, grazie, Cavaliere di Capricorn. Siete congedato». “Mi hai dato parecchie questioni su cui riflettere”.
«Sua Santità». Dopo di ciò si alzò e se ne andò.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** I campi della Dea ***


 I campi della Dea


Camus
Era il momento di lasciare la Palude Nera. 
Ti separasti un attimo dalle truppe per riposare un po’. Non che ne avessi realmente bisogno, era solo che non riuscivi a camminare e pensare al tempo stesso. Ti accomodasti sopra un masso.
Era passato un giorno dalla riconquista. Lady Pandora e gli Specter stavano organizzandosi in vista del prossimo scontro. Adesso i Black Saints di Don Avido non avrebbero atteso a lungo come prima. Le ultime battaglie gli avevano dimostrato che facevate sul serio tutti.
Le prossime sarebbero state ancora più dure. Soprattutto adesso che anche Death Mask era sceso in campo. Avevi percepito il suo Cosmo a Sud Ovest rispetto a voi. Una volta salvato il Grifone, catturate le schiere dei Black Saint di stazza e imprigionatele di nuovo; Lady Pandora ristabilì il dominio di Flegias di Licaone. Lo Specter aveva disegnato un inchino, poi era andato a cercare gli alberi migliori con cui ricostruire la sua zattera. I Black Saints gliel’avevano distrutta.
Il panorama infero che si stagliava davanti ai tuoi occhi con tutto il suo fascino inquietante.  Non ti interessava vedere la foresta che avevate riconquistato. Ti interessava di più sapere di questa misteriosa donna. Di questa Azona. Chi diavolo era? Di lei avevi percepito solo un Cosmo normale. Niente di particolare, eppure era riuscito a debellare la tecnica delle ametiste del falso Megres XIII. Non era una persona comune, era chiaro. E la questione sarebbe anche potuta finire lì per te se non fosse stato per quello che era successo dopo. Quello che aveva fatto Shaka ti aveva turbato. E gli Specter avevano pure infierito. Non occorre scervellarti mio caro, a pungolarti ci penso io. Oh, tu sapessi con quanta passione aveva proferito il suo giuramento, con quanto ardore si era inginocchiato a lei. E come l’aveva seguita fedelmente come un cagnolino. Da quando era comparsa l’atteggiamento di Shaka era cambiato. Era ovvio che la conoscesse, come avevi fatto a non pensarci prima?
“Dunque era questa la cosa importante che doveva fare?” Ti chiedesti distogliendo lo sguardo. Il dorso delle mani intrecciate a sostenere il mento. I gomiti piantati sulle ginocchiere. Usare gli Inferi così? Tu non l’avresti mai fatto, nonostante la Guerra Sacra ma qui ti fermasti. “Ah, già”. Bravo, è meglio che tu taccia perché anche tu avevi fatto il doppiogioco, non far finta di non ricordartelo. “Tuttavia questa è ancora diversa”. Ti dicesti.
Non avevi potuto inseguirlo perché l’Azona, una volta liberata la Colomba Astrale non aveva pensato agli altri prigionieri. Perciò tutto quello che sapevi ti veniva dai testimoni oculari in quanto troppo impegnato a liberare Minosse del Grifone. Il quale si andò immediatamente a riunire alle fila e inchinarsi davanti alla Somma Pandora. Comunque un inchino meno spudorato di quello di Shaka. Così ti avevano riferito gli Specter che tornarono dall’inseguimento. Quindi adesso chi avrebbe comandato le creature Ctonie? Shaka aveva affidato il comando alla Somma Pandora, ma le avrebbero obbedito? E lei gliel’avrebbe perdonato? Conoscendola no. Ma se la determinazione che le avevi visto in battaglia e al comando delle truppe durante l’assedio era anche solo la metà di quella sfoderata, allora Shaka era nei guai.
“In cosa ti sei andato a cacciare?” Pensasti preoccupato, alzando un momento gli occhi al cielo degli Inferi. D’accordo che eravate entrambi adulti ed emancipati da un pezzo. Però le azioni di Shaka erano state estremamente rischiose. Non solo temevi che gli Dèi della Notte prendessero a male la sua decisione, dopo avergli affidato le proprie armate, ma chi la sentiva poi Pandora?
Voi Saint eravate in una posizione precaria a prescindere dal Patto. Il Patto non vi proteggeva, infatti, dalle congiure. La sua protezione era relativa e Shaka lo aveva compromesso.  
Non avevi più pensato al voltafaccia di Shaka. Ma si poteva davvero chiamare così? Non lo conoscevi benissimo, ma avevi parecchi dubbi che il suo fosse stato davvero un tradimento. Checché ne dicessero tutti.
Ti stringesti nelle spalle e ripercorresti gli avvenimenti alla ricerca di un segnale premonitore. Ora che ci pensavi quando si era presentato a Villa Heinstein ti era sembrato scosso. Non lo conoscevi molto ma non ti sembrava più lo stesso. Poi cos’era quell’album che vi aveva salvato? Che cosa si era ritrovato tra le mani? Che cosa gli era successo per cambiare tanto?
Se tu avessi potuto vederti dall’esterno, ti saresti sembrato un allievo del tuo compagno. Gambe incrociate, schiena curva e mani a sorreggere il mento. L’espressione pensierosa la faceva da padrone sulla tua faccia, mentre osservavi il territorio senza vederlo. 
Pensa che ti pensa, giungesti alla conclusione che la colpa era di quell’album. Da dove veniva quell’album? Che fosse stregato o che qualcuno avesse stregato il tuo compagno? Non ti sentisti di escluderlo.
«Nobile Aquarius». Ti chiamò uno Skeleton. «Vengo subito». Rispondesti e ti riunisti alla marcia.  
Una cosa era certa: i problemi sarebbero ricaduti sulle tue spalle. Infatti: «Nobile Aquarius, la Somma Pandora vuole vedervi». Ti riferirono poco dopo il vostro ritorno all’accampamento. “Appunto”. Andati al padiglione degli Specter.
Vi eravate accampati in mezzo alla pianura e presto, dopo questa notizia, avreste recuperato tutto, smontato il campo e vi sareste spostati di nuovo. Gli Specter avevano già individuato il luogo adatto.
Appena entrasti nella tenda della Sacerdotessa degli Inferi, fosti accolto da quattro paia di occhiate truci. Poco più in disparte un compiaciuto Valentine dell’Arpia.
«Che cosa significa?» Esordì il Garuda inferocito.
«Aiacos». Lo richiamò la Sacerdotessa. L’uomo la guardò, poi tacque e fece un passo indietro. La donna ti fece accomodare sulla poltrona davanti alla sua scrivania. Poi si accomodò a tua volta dall’altro lato del tavolo. «Immagino sappiate già perché siete qui».
«Sì, signora ma vi posso garantire che io non ne so niente».
«Non mentire! Lo sanno tutti che voi Gold Saint siete dei doppiogiochisti!» Ti accusò di nuovo il Garuda ma la donna lo richiamò di nuovo e si rivolse a te. «Quel che è stato è stato. Voglio sapere che cosa è successo».
«Sinceramente non ci ho capito molto neanch’io». Rispondesti sconvolto. Le raccontasti tutto quello che era successo, compreso il fatto che Shaka ti aveva bloccato. Quando arrivasti alla trasformazione e quel che era accaduto dopo la Sacerdotessa sgranò gli occhi: «Avevano un’arma così potente e non se ne erano accorti. Che fine ha fatto?»
«É scomparsa».
«E la ragazza?»
«Andata».
«Vi dispiacerebbe ripetermi che nomi hanno usato?»
«Colomba Astrale, Drago Rosso e Azona».
A quest’ultimo nome la donna s’irrigidì. «Siete sicuro che abbia detto questi nomi?»
Confermasti, guardandola preoccupato. Perché reagiva così? Era come se conoscesse questi nomi. Sembrava turbata e non sapevi spiegarti perché. Erano così importanti? Non li avevi mai sentiti prima. 
«Mia Signora, lasciate ch’io vada a prenderlo e lo punisca come merita.» continuò Aiacos, smanioso di lanciarsi all’inseguimento. «Non facciamo nulla. Lasciamolo andare e spieghiamo alle creature Ctonie che il loro comandante ha ricevuto una missione e che, momentaneamente, obbediranno a me». Lo bloccò. Lo Specter di Garuda nascose la sua delusione e si inchinò rispettoso. «Sì, mia Signora».     
«Adesso lasciatemi sola, tutti». Vi scacciò.
Non ti volle mai dire che cosa significasse, sapevi che tanta magnanimità era anomala. E anche gli altri Giudici Infernali concordavano.  Tuttavia da allora le cose per te peggiorarono. Continuavi a stilare i piani e le strategie insieme a Lady Pandora e i suoi strateghi, ma spesso nessuno ti ascoltava perché tu e le strategie eravate due cose a parte. Non che fossi scarso, ma le tue strategie erano banali e, in questa situazione dovevate collaborare tutti. Tu non c’eri abituato e la tua autoformazione ti impediva. Quella volta che avevi provato a mettere in pratica una tua strategia Aiacos si era visto parte della nave distrutta e per poco non avevate perso terreno. Se eravate sopravvissuti era stato solo grazie al fatto che avevi rimediato coadiuvato da Fianna. Che aveva allontanato per te le Creature. I Black Saints ti guardavano con rispetto, ma a che prezzo? Anche parte dei vostri combattenti era morta. Credevi di essere abbastanza cauto da considerare tutti i rischi e invece non era così. Questo era un grosso smacco pure per te.  
Adesso Aiacos esigeva un risarcimento con gli interessi. La Somma Pandora non faceva niente per tutelarti e, anche Valentine lavorava contro di te. L’unica cosa che ti proteggeva era la tua amicizia con il popolo celta. Lady Niniane, infatti, ti teneva in grande considerazione, ti aveva battezzato come uno dei suoi guerrieri. Questo ti aveva dato una sorta d’immunità e la fedeltà del popolo della piccola pitta che ti seguiva. I pitti, infatti, rispondevano agli ordini della Sacerdotessa Reale di Avalon. Tuttavia anche così non bastava. Dovevi saperne di più e per farlo dovevi trovare Shaka e l’Azona. Se l’Azona era tanto potente allora tanto valeva reclutarla nelle vostre fila per avere  un’alleata in più. Sottoponesti la tua proposta ai capi della schiera Infera. Per evitare di creare altri dissapori però dichiarasti che avresti continuato a combattere al fianco della Somma Pandora. Gli Specter acconsentirono, a patto che tu tornassi dopo due giorni a partire dall’abbandono degli Inferi. Al termine avrebbero mandato qualcuno a riprenderti e ti avrebbero degradato. Nel senso che non avresti più potuto partecipare alle riunioni e ti avrebbero tolto alcuni privilegi conquistati fin qui. Era un prezzo che eri disposto a pagare e partisti. Non avesti bisogno che di portare con te la tua Cloth. Per le Creature non c’era problema, con la velocità della luce sarebbe stato questione di un attimo e saresti stato laggiù. Così partisti.  
Raggiungesti le rive dell’Acheronte appena riconquistate. Ma fosti bloccato immediatamente da una schiera di anziani: «Fermo là! Chi sei?» Ti bloccasti più per lo stupore che per l’effettivo pericolo.
«Fermi, non fatelo, è un Cavaliere d’Oro! É dalla nostra parte!» Esclamò un’aspirante Sacerdotessa-Guerriero in un italiano con un pesante accento francese, comparendo sopra un masso. I vecchietti si fermarono subito: «Sei sicura, Cherie?» Le domandò uno di loro, che indossava una coppola, guardandola. Cherie annuì. «D’accordo, scusateci». Fecero i nonnetti e, si allontanarono (chi più o meno velocemente) sotto al tuo sguardo stupefatto.
«Non fateci caso, sono ancora scossi per la battaglia». Si scusò la giovane.
«Non fa niente.» mormorasti accompagnando lo strano gruppetto con lo sguardo. Ti guardasti intorno e una domanda iniziò a riecheggiare prepotentemente nel tuo cervello. Pensavi che Death Mask si muovesse da solo. Non che… Atena, non trovavi neanche le parole. Sul serio la sua armata era questa qui? Improvvisamente ti sentisti poco bene.
Oddea, l’Armata Brancaleone era meno scassata! E questa era la vostra linea difensiva? Per di più senza nessuna protezione? Ti venne istintivo segnarti e snocciolare un paio di preghiere, anche se mentalmente. Death Mask avrebbe avuto bisogno di un miracolo e pure in grande stile: non ce ne era uno che si salvava. La tua salvatrice ti chiese se stessi bene.
«Sì, credo, chi sono cioè… chi siete?»
«Noi siamo i guardiani della Bocca dell’Ade». Rispose poi ti si inchinò, come avevi visto fare al Tempio dalle Sacerdotesse-Guerrieri e si presentò come l’ex aspirante Gold Saint di Cancer.
Sgranasti gli occhi e la ragazzina rispose al tuo muto interrogativo. «Certo, credevate che il nobile Death Mask fosse stato l’unico ad addestrarsi per conquistare la Gold Cloth?» La fissasti esterrefatto per un po’, poi ti rinvenisti e le chiedesti di portarlo da lui. La ragazza obbedì, colpita dalla tua gentilezza. Il percorso fu uno dei più inquietanti di sempre. Era come attraversare la Quarta Casa. E tu per raggiungere l’Undicesima l’avevi oltrepassata. Il tragitto fu intervallato di bare spostate da persone, telecinesi o dai fuochi fatui. Si respirava però una certa laboriosità e operosità mischiata a una buona dose d’inquietudine. Dopo due ore lo vedesti intento a parlare con un uomo dalla fluente chioma di un rosso più carico della tua. 
«Death Mask!» Chiamasti pieno di sollievo. Mai avresti immaginato di usarlo con lui: tanto ti sembrava di essere circondato da dei pazzi squilibrati.
I due ti guardarono. Ti scoccò uno sguardo indolente e borbottò qualcosa. Si tolse una cicca di bocca e la gettò a terra per calpestarla con il tacco dell’Armatura. Eppure anche così sembrava un raggio di sole in mezzo all’oscurità.
«Eccoci qui, credo che possiate cavarvela anche da solo. Arrivederci». Ti salutò la Sacerdotessa-Guerriero, prima di andarsene. Lo sconosciuto la imitò dopo averti indirizzato un cenno del capo.
«Cosa ci fai qui? Credevo che fossi insieme a Lady Pandora».
«Come lo sai?» Chiedesti battendo le palpebre.
«Le voci corrono». Rispose con un’alzata di spalle e un tiro di sigaretta e ti guardò in cagnesco: «Te la togli quell’espressione spaventata dalla faccia, per cortesia? Mi stai facendo saltare i nervi».
«Scusa è che non mi sono ancora ripreso». Mormorasti accennando all’Armata Brancaleone alle tue spalle. Death Mask sbottò: «Non ti ci mettere anche tu! Non sono ancora riuscito a farmi dare la maschera di Cherie. É imbarazzante per uno della mia levatura guidare questa ciofeca di armata! Rivoglio i miei incapaci di sottoposti e i loro sottoposti ancora più incapaci! Li vedevo poco, li lasciavo allo sbando ma almeno ero contento e non avevo ostacoli. Porco cane, io me ne stavo bello tranquillo nella mia Casa e devo combattere una guerra di cui non m’importa un emerito accidente, con questo schifo, capisci? Mi hanno dato la bicicletta senza sellino, porca miseria. Avrei anche già finito da solo se non ci fossero quelle dannate Creature!» Si allontanò e tu lo seguisti mentre faceva l’elenco della vergogna inframmentizzato di intercalari italiane. «Vecchietti artritici con il deambulatore, il respiratore, la briscola, vecchiette con l’ampliphon e le calze contenitive, liceali che non sanno dove sbattere la testa, universitari che paiono più un gruppo di boy scout in gita. E ogni giorno aumentano di numero, come se si moltiplicassero tipo amebe. Una ragazzina isterica che credevo di essermi tolto dalle palle per sempre e, dulcis in fundo, un Guardiano di una delle Case degli Astri e sua figlia che me l’ha messa in quel posto perché ho accettato di essere un guerriero della Speranza! Roba da matti, per fortuna che…»
«Aspetta, che hai detto?» Lo bloccasti afferrandogli il braccio e lo costringesti a voltarsi verso di te. Guadagnandoti un’occhiata torva e una minaccia che tu interrompesti prontamente: «Un Guardiano delle Case degli Astri? Ce n’è un altro?»
Il tuo collega liberò il braccio con uno strattone e si bloccò, poi si accigliò. Era fumino e malvagio, ma non era sordo. «Un altro? Come sarebbe a dire un altro?» Domandò colpito e attento. Ti sentisti quasi smarrito a parlarci. Non tanto perché nessuno voleva avvicinarlo e lui non incoraggiava l’amicizia a priori. Né tu in questo momento lo desideravi. «É per questo che sono qui». E gli raccontasti tutto. Death Mask ti guardò stupito a sua volta e ti spronò a raccontargli altri dettagli. Quando finisti di descrivergliela commentò, inarcando le sopracciglia: «Ah, però».
«Però? Che significa però? La conosci?»
«Sì, la conosco, è la figlia del Guardiano della Casa di Marte, il Drago Rosso qui presente». Disse indicandoti un possente guerriero con attributi dragoneschi che fino a quel momento non avevi notato. Era un uomo sui quarant’anni alto e grosso, raggiungeva e superava Aldebaran con la Cloth indosso. Non indossava alcuna armatura, bensì una maglietta grigia su pantaloni neri e anfibi. Le braccia muscolose adorne di bracciali e polsiere tradivano in parte la sua reale potenza fisica. Aveva la carnagione olivastra e scompigliati capelli mossi lunghi fino alle spalle. Una ciocca era adorna di una perlina colorata. Una barbetta di qualche giorno incorniciava la bocca. Aveva il naso aquilino proporzionato e un sopracciglio spaccato da una cicatrice. Gli occhi erano castani. Tuttavia avesti l’impressione che fossero gialli in un primo momento. Le corna ritorte si alzavano ai lati del capo, si lanciavano indietro e risalivano come quelle di un’antilocapra. Sul braccio destro e l’avambraccio sinistro recava due file di sottili tatuaggi. Era una parola araba ripetuta all’infinito, ma non sapevi quale. Ma il dettaglio più impressionante erano le ali di drago, rosse come il sangue ripiegate sulla sua schiena. Il manico di una claymore faceva capolino dietro la spalla sinistra. Le rughe d’espressione tradivano la sua reale propensione al sorriso, maligno. Come quello di Death Mask quando massacrava. Quello era una persona, o meglio, un’entità da cui tenersi alla larga, nonostante l’aura di sacralità che emanava. Persino più forte di quella dell’Azona. Stava rientrando nell’accampamento. Accompagnato da ombre Solo in un secondo momento di accorgesti che le ombre che tanto t’inquietavano nascevano dalla sua. «Noi li chiamiamo Eragon e Arya perché agli sfigatelli qui piace il fantasy. Ecco dov’è finita, per un momento io e il mio maestro pensavamo che avesse disertato. E che Guardiano ha trovato?»
«Detto così sembra che tu stia parlando di una raccolta di figurine».
«Lascia perdere il tono e rispondi».
Glielo dicesti e aggiungesti: «Ma non è tutto…» Death Mask ti guardò interessato e, tu continuasti. Verso la metà scoppiò a sghignazzare: «Shaka. Oddei, Shaka…» La sua risata sguaiata echeggiò ma non contagiò nessuno. Tu non ci trovavi niente da ridere. Neanche quando a racconto finito si piegò in due e si batté la mano sul ginocchio. Ormai completamente in lacrime e con gli addominali indolenziti. Così ti disse. Ti guardò con le lacrime agli occhi dal gran ridere: «É uno scherzo?» Riuscì solo a dire prima di tornare a sganasciarsi. Quando tornò parzialmente serio, gli spiegasti il motivo per cui eri qui. «Ah, vuoi risalire nel mondo dei Vivi?» Domandò il tuo compagno della Quarta. «Precisamente».
Ti guardò e fece uno sbuffo cavallino. «Chi l’avrebbe mai detto che Shaka, ah, al solo pensiero mi viene da ridere di nuovo.». Tu non replicasti. Si dette un contegno: «D’accordo, ma solo per questa volta. Mi sto proprio intenerendo se tutti mi scambiano per una sorta di taxista e usciere. Prima Aiolia, ora tu e basta, cazzo! Ma non sapete muovervi con le vostre gambe? Siete fastidiosi, pretendete un dito e poi vi prendete tutto il braccio! Pagatemi almeno il servizio! Parlando di cose più serie, io alla pessima nomea sono abituato, lo sanno tutti, ma tu? Non è che questo causerà qualche problema alla Somma Pandora? Cos’è, sei forse passato al lato oscuro anche tu? Oppure ti ricordi ancora come si fa a fare il doppiogioco? E non ti offendere, ma tu rispetto a me sei un esperto». Ti punzecchiò sarcastico accennando alla scalata delle Dodici Case nell’Ottantasei. Lui e Aphrodite furono fermati da Mur, ma tu, Shura e Saga eravate riusciti a proseguire. “E tu sei uno stronzo”. Pensasti ma non replicasti, mantenendo la tua espressione neutra. Invece dicesti: «Dimmi una cosa, sai qualcosa di più su questa Dea, questa Asia?» Che tra le varie informazioni le avevi dato anche il nome. Con tua enorme sorpresa anche lui aveva delle informazioni per te. «Non moltissimo, so solo che è una Dea e che è lei la signora che serviamo. Nel momento stesso in cui abbiamo giurato di essere guerrieri della Speranza abbiamo riconosciuto la sua autorità». Spiegò. Poi aggiunse qualcosa sul fatto che tutto il tempo se ne era stata in disparte a scrivere su quel suo album da disegno». Rispose.
Drizzasti immediatamente le orecchie: l’album! Allora era proprio a lei che apparteneva. Non c’erano dubbi. Chi altri si sarebbe portato un album da disegno negli Inferi?
Lui rise, intuendo le domande che ti arrovellavano il cervello. «Credo d’aver fatto la stessa faccia la prima volta che lo ricordai». Questa era stata la parte più strana di tutto il suo racconto, però sembrava che fosse vero. La vera signora del Grande Tempio? Com’era possibile? Non ne avevate mai sentito parlare. Se la vera signora era lei allora chi era la Dea che veneravate? Che fosse un altro complotto? Non sarebbe stata la prima volta. Avevi saputo anche tu di quella bambina. Com’era che si chiamava quella controllata da quel tizio? Avevi saputo che vi avevano combattuto i Bronze Saint ma perché il ricordo di quelle gesta, che pure conoscevi, era così sbiadito di colpo? Un effetto dei colpi? No. Impossibile, avevi la testa dura. Che cosa stava succedendo? Era strano. Che cos’era? Lo mettesti a parte di questo lapsus. Anche lui disse di aver provato la stessa cosa e che tuttora continuava a provarla. Alcune cose stavano sbiadendo dalla sua mente e ne riaffioravano altre. «Memorie sopite?»
Il tuo commilitone caricò il proprio Cosmo: «Giacché vai su fattelo spiegare, Onda infernale dello Tsei She Ke!» Urlò e l’onda ti colpì con inusitata violenza. Non avevi mai pensato che il più debole di voi potesse essere così forte. Perché tu, Anima Viva, adesso eri separata dalla tua componente fisica. Tangibile, materiale, con i bisogni di un Vivo, ma sempre spirito eri. Ora capivi perfettamente che la sua potenza era relativa. Lui era l’uomo che aveva la forza di controllare e comandare gli Spiriti, anche di ucciderli, ecco la verità.  
L’onda ti staccò da terra e ti sbalzò via alla velocità della luce. Ma l’impatto fu così forte che ti mozzò il fiato. Vedesti appena il nero Infero sostituito dal grigio, prima di vedere gli alberi innalzarsi come sbarre attorno a te. Rovinasti a terra e rotolare nel sottobosco per qualche metro sollevando foglie secche e legnetti. 
Quando ti fermasti restasti a terra qualche secondo per riprenderti. Dopodiché ti rialzasti spossato e a fatica, tossendo. Avevi i conati di vomito e ti girava la testa. Rinunciasti ad alzarti e ti mettesti seduto. Chiudesti gli occhi prima di accovacciarti e mettere la testa tra le ginocchia, trovando così un po’ di sollievo. Solo quando passò ti rialzasti. Ma le gambe ti tremavano ancora. Barcollando raggiungesti un albero e ti appoggiasti al tronco. Continuasti a respirare a pieni polmoni intanto che ti abituavi alla temperatura e le tue orecchie smettevano di fischiare.
Quando ti sentisti meglio, scandagliasti l’area con il tuo Cosmo. Individuasti subito quello di Shaka ma non quello dell’Azona. Chissà dov’era andata? A lei avresti pensato dopo, adesso dovevi raggiungere il tuo compagno. Ti avviasti in quella direzione ricordandoti che eri di nuovo tra i Vivi e, stavolta, la bambina celtica, Fianna, non era con te a proteggerti. Avresti dovuto fare molta attenzione. Oh, Shaka ti aveva sentito e stava venendo verso di te. Lo capivi dallo spostamento del Cosmo. Bene.
Avevi appena percorso qualche chilometro e ti sembrava che la foresta fosse tutta simile, ma non uguale. Le lande siberiane erano peggio, questo posto non ti diceva nulla.
Stavi ancora domandandoti dove ti trovassi quando urtasti qualcosa con il piede. Abbassasti lo sguardo per vedere cos’era e vedesti un mattone. Confuso alzasti di poco la testa e vedesti un muro cadente e rovinato dal tempo poco più in là. Aggrottasti le sopracciglia: «Ma cosa…?»
Non facesti in tempo a terminare la frase che fosti afferrato e inchiodato all’albero più vicino. La lama di una spada premuta esattamente sulla corazza. Trasalisti sentendo il metallo sul punto di piegarsi e cedere alla pressione. L’altro braccio di lei di traverso sulle clavicole per bloccarti meglio. Davanti a te un volto serio con due occhi castani. La Dea non ti era sembrata così forte da riuscire a compiere un gesto come questo. 
Cercasti di muoverti ma: «Non una mossa». Ti minacciò Lady Asia. Poi sgranò gli occhi: «Eh? Ma tu non sei Alegre di Black Whale».
«Nossignora». Riuscisti a balbettare reclinando di poco la testa per parlare. Stando attento al filo della spada. Di solito gli Dèi non si abbassavano a tanto, ma questa sì. Questa aveva sempre saputo che qualcuno l’avrebbe raggiunta.
«Mia Signora!» Intervenne Shaka sconvolto.
«Shaka!» Esclamasti tu. Avresti voluto dire altro ma lei te lo impedì continuando a tenerti fermo e minacciarti. Senza staccarti gli occhi di dosso rispose: «Oh, mi hai seguito? Ti avevo detto di restare all’accampamento».
«Ho percepito dei Cosmi ostili in avvicinamento, non potevo restarmene laggiù. Camus, benritrovato, ho sentito anche il tuo. Cosa ci fai qui?»
«Shaka». Ripetesti facendo attenzione a non tagliarti con il solo movimento della mascella. Decisamente, questa Dea non andava tanto per il sottile. «Vi conoscete?» Chiese.
«Sì, lui è Camus di Aquarius, ex custode dell’Undicesima Casa e, per via del Patto tra Atena e Hades, anche del Cocito». Ti presentò.
La Dea si scostò e rinfoderò la spada. Ti staccasti dall’albero, ti portasti una mano alla gola e la sentisti ancora intera. Facesti la spola con lo sguardo tra loro e infine salutasti: «Per servirvi». Dopo aver deglutito. O almeno ci provasti.
«Come ci hai trovati?» T’interrogò la donna, alzando il mento come a darti il permesso di parlare. Rispondesti. Lo sguardo della giovane si illuminò di un lampo di riconoscimento nel sentir nominare il Gold Saint di Cancer. Poi si schiacciò una mano sulla fronte e scosse il capo: «Fantastico. E adesso sono due sotto la mia responsabilità». Borbottò infastidita in hindi.
«Prego?» Chiese Shaka. «Sotto la vostra responsabilità?» Ripetesti confuso e offeso, ma non potesti approfondire che un ululato vi raggiunse, facendovi accapponare la pelle. Vi guardaste istintivamente attorno.
«Lupi, spero». Rispose la Azona rispondendo al tuo muto interrogativo. Lanciò lo sguardo sui rami degli alberi. Come se i lupi avessero potuto attaccarvi dall’alto. Figuriamoci se i lupi vi potevano impaurire. Era lo spero che non ti piaceva. Cosa poteva esserci peggio di un lupo? «Spero?» Domandò Shaka perplesso.
«Spero, sì, altrimenti sono cani selvatici e quelli sono ancora più feroci. Andiamo via». Decretò, poi, si incamminò nella foresta, sfruttando gli ultimi raggi del tramonto.
La cosa che ti sorprese, fu la rapidità con cui Shaka la seguì. Tu ci mettesti tre secondi prima di smaltire lo shock dell’attacco e fare altrettanto.
«Aspettate, che significa che siamo sotto la vostra responsabilità? Che posto è questo?» Domandasti quando l’avesti raggiunti. Non sapesti se porti al suo fianco o dietro. Nel dubbio restasti dietro di lei, mentre Shaka l’affiancava. «Significa che qui le parti sono invertite, in questa Cerca sono io a dover proteggere voi, invece che il contrario». Spiegò girando la testa per guardarti brevemente da sopra una spalla.
«Con tutto il rispetto, Signora, ma noi siamo dei guerrieri addestrati».
«Lo so, ma fidatevi quando vi dico che ora le parti sono invertite. Pertanto, io sono responsabile delle vostre vite e della vostra incolumità. Inoltre, se moriste il Patto tra Atena e Hades crollerebbe come un castello di carte».
«Ma voi siete una Dea.» obiettasti. Non l’avessi mai detto. Si fermò, si volse verso di te, e t’incenerì con lo sguardo: «E allora?»
Ti bloccasti immediatamente. Ti venne istintivo alzare un po’ le mani come a bloccarla subito in caso ti si fosse scagliata addosso. Come sembrava avere tutta l’aria di voler fare. Perfetto, neanche tre secondi e l’avevi già offesa. Non ti era mai successa una cosa simile. Neanche di avere a che fare con una Dea così impetuosa. Per quel che ne sapevi Lady Isabel era molto più delicata. E proprio qui saltò fuori tutta la differenza tra le due. Gli occhi della Vostra Dea erano dolci, innocenti, si potrebbe dire. Ma questi erano seri e per niente puri. Con questa non c’era da scherzare o fare il Cavalier servente. Questa era una di voi: un soldato. «Niente, niente». Ti scoccò un’ultima occhiataccia, poi si girò e riprese a camminare.
Ti aveva fatto venire i sudori freddi ma evidentemente non aveva ancora finito perché aggiunse: «Per rispondere alla seconda domanda, questa è la Foresta Rossa di Černobyl’».  
“Černobyl’?” Pensasti orripilato. Il cuore ti balzò più rapidamente in petto come se avesse messo le gambe e stesse cercando di scappare. Il sangue ti si gelò nelle vene. Il terrore che quella parola t’incuse ti invase e ruppe il sigillo sui ricordi. Persino il canto degli uccelli parve zittirsi ora che avevi realizzato dove vi trovavate.
Nelle foreste vicine alla centrale non ci avevi mai messo piede, ma sapevi. Perciò, questi luoghi intensificarono soltanto il tuo orrore. Se non tremasti fu solo per via del tuo senso dell’onore e della diffidenza. «É un luogo molto tetro e spettrale». Commentasti. E sì che anche gli Inferi non scherzavano. Ma quello che ti preoccupò di più, fu vedere che l’accampamento era nei pressi dell’ex strada principale che conduceva alla città fantasma di Pryp” jat’. Città che conoscevi di fama. Come le numerose leggende sulle mutazioni in seguito alle radioattività che ti avevano procurato un brivido lungo la schiena.
Questo era un luogo che anche a distanza di anni sapeva di desolazione, di rovina e devastazione. Un luogo dove la morte regnava sovrana incontrastata assieme alla natura e altre creature. Come se parte del Tartaro si fosse trasferita in questa regione. Impressione che avesti fin da quando la città fu svuotata e, cominciarono a saltare fuori, come partorite dalla Terra, le prime creature deformi. Come se Gaia fosse stata di nuovo fecondata e avesse ripreso la sua creazione mostruosa.
I primi mostri causati dalle radiazioni, quando gli animali domestici s’inselvatichirono. E, quando cominciarono a circolare le prime leggende urbane sui sopravvissuti dell’immenso spazio colpito. Su questi mutanti. Ritrovarti qui a distanza di decadi non contribuiva a tranquillizzarti. «Signora, non sarebbe più prudente andarsene da qui?»
«Perché? É un posto come un altro». Ti rispose l’Azona.
«Forse non avete la piena consapevolezza del posto in cui ci troviamo».
«Mi dispiace deluderti Camus, ma io questo posto lo conosco bene. Ci sono stata dieci anni fa, in condizioni anche peggiori di quelle in cui vertiamo e ci ho anche combattuto». Aggiunse mesta, come se parlarne scatenasse ricordi molto spiacevoli. «Siamo dovuti passare di qui per una tappa obbligatoria». Disse poi e il suo sguardo si fece assente, come se stesse rivivendo chissà quale ricordo spiacevole. «Speravo di riuscire ad attirare qualche mostro per liberarci dei Black Saint che sono sulle nostre tracce. Anche se non sarebbe comunque servito a granché, ma almeno li avrebbe rallentati mentre continuiamo a cercare».
«Perché qui? É ancora pericoloso, le radiazioni ci sono ancora e non si sa che cosa si aggiri per queste lande». Le domandasti angosciato anche. Anche Shaka espresse la sua preoccupazione. «É quello che le ho fatto presente anch’io».
Lady Asia vi rispose, tranquillamente: «Non ce n’è motivo, in quanto Azona posso sopravvivere in qualsiasi luogo o dimensione senza riportare danno alcuno. Invece voi non avete niente da temere, gli spiriti sono immuni alle radiazioni, il Velo che separa i Mondi li protegge». Concluse, gettandovi uno sguardo fugace. Ti accigliasti. Cosa intendeva dire? Cercasti lo sguardo di Shaka e quest’ultimo ti fece un cenno come a dire: “Poi te lo spiego”. Invece domandasti: «Perché è una tappa obbligatoria?»
«Perché devo recuperare una cosa».
«Un altro Guardiano degli Astri?» Ipotizzasti.
«Se la fortuna mi assiste, spero di sì». Confermò rialzando la testa.
«Perdonate la mia franchezza, ma credete davvero che lo troverete qui?» Domandò Shaka mentre arrivavate a un torrentello e cominciavate a saltellare sulle rocce per guadarlo. Non che fosse chissà quanto esteso. In tre balzi tutti e tre lo superaste. Solo allora ribatté: «Sì; se qui c’è chi penso, allora dovremmo riuscire a incontrarlo presto, setacciando palmo a palmo la Foresta e le città circostanti». 
«I Guardiani scelgono sempre le foreste?» Chiedesti incuriosito, ricordandoti della Colomba Astrale.
«No. É quasi impossibile trovarli, ma diciamo che sono sensibile alla loro presenza». Ti tornò in mente il soggetto e non ti facesti troppi problemi a figurartelo così come lo descriveva.
Camminaste per qualche chilometro prima che lei facesse cenno di fermarvi, sotto un malandato cartello autostradale e coperto di edera. «Fermiamoci qui per la notte». Decretò, poi sfoderò la spada, e tracciò un cerchio magico dal diametro di tre metri tutto attorno a voi e al cartello. Quando finì il tracciato si illuminò di una tenue luce verde per un momento, poi scomparve. Improvvisamente ogni suono scomparve e tutto ti parve immobile. Che diavolo di tecnica era mai questa? «Non temete, ho solo creato una tasca temporale attorno a noi».
«Una che?» Chiedesti.
«Una tasca temporale, un momento nel Tempo dove siamo invisibili al resto del mondo, solo noi potremo entrare o uscire, nessun altro potrà e nessuno ci vedrà e disturberà». Promise. Poi aggiunse: «Non possiamo mangiare niente di ciò che si aggira qui, ma penso che per stasera potremo sopravvivere senza problemi. Dopotutto il vostro addestramento vi permette di fare questo e altro. Bene, anche il mio; un consiglio ve lo do lo stesso, raccogliete della legna da ardere e poi tornate qui».
Obbediste. Tornaste dopo mezz’ora con due grosse fascine mentre lei aveva già raccolto sassi e pezzi di cemento e, scegliendo i rami giusti, accese il fuoco. Istituiste i turni di guardia («Perché non si sa mai») e poi attendeste il calare del Sole. Ma lo vedeste soltanto quando vi parve che fosse passata un’eternità. Ti aspettasti qualsiasi cosa da parte sua, ma se ne restò raccolta, con le ginocchia abbracciate al petto e la testa china, come se piangesse. Più volte la guardasti preoccupato e confuso. Solo dopo qualche ora ti accorgesti che non stava piangendo. Le sue spalle si alzavano e si abbassavano regolarmente, quasi in sincrono con quelle di Shaka. Come se stessero intrattenendo chissà quale conversazione silenziosa. Solo quando foste sicuri di essere al sicuro e le Cloth vi divennero scomode vi spogliaste. Il primo turno lo facesti tu. Poi, a una cert’ora, Shaka ti dette il cambio.
Quella notte, sognasti di essere di nuovo nell’Ottantasei. L’esplosione fu l’unica ragione per la quale Arles non sferrò un attacco diretto ad Atena e ai Bronze. Oh, se conoscevi il disastro della centrale nucleare di Černobyl’; foste inviati proprio tu e Aiolia a cercare di limitare il danno.
Se ti salvasti dalle radiazioni, fu grazie alla sua barriera protettiva. Tuttavia quella barriera non ti esentò dal vedere.
I danni si erano fatti vedere, oh, sì. Non solo per quanto riguardava l’ambiente in generale, ma anche e, soprattutto, dal punto di vista umanitario. Avevi pianto quando avevi visto i cadaveri dei bambini che non si erano salvati. Le mutilazioni e le evacuazioni che aiutaste a gestire.  
E tu piangesti. Tu fosti ridotto in ginocchio dal senso di annichilimento che ti procurò questa visione, quando giungeste sul posto. Tutta quella gente, tutti quegli animali, tutte quelle morti.  
Non eri riuscito a trattenere le lacrime di fronte a quello spettacolo.
La centrale in fiamme sembrava un rogo uscito dalle profondità del Tartaro. Non percepivi nessun Cosmo dentro quell’altoforno a cielo aperto. Oltre crepitio delle fiamme v’era solo un desolante silenzio. Era stato allora che avevi avuto la triste illuminazione: avevi capito che la vostra presenza era inutile. Che non avreste cancellato le radiazioni e che, una volta sciolto il ghiaccio e la barriera, la corsa della nube tossica sarebbe ripresa, inesorabile.
Aiolia stava per lanciarsi tra le fiamme ma tu l’avevi afferrato per un braccio, costringendolo a fare marcia indietro. Lo slancio che però c’aveva messo vi aveva quasi fatti scivolare dal ponte dove vi trovavate: «Cosa fai, Camus? Lasciami andare!» Protestò adirato girando la testa per guardarti.
«No!» Ti eri rifiutato.
Aveva cercato di divincolarsi, ma tu non ne avevi voluto sapere. Allora ti aveva fulminato con gli occhi ed era sbottato: «Perché no? Sei pazzo? Dobbiamo fare qualcosa!»
 «É inutile, Aiolia». Avevi risposto sentendo i tuoi occhi riempirsi di lacrime di disperazione. Ed erano state queste a fermarlo. «Non possiamo fare niente». Avevi aggiunto con voce rotta distogliendo lo sguardo, il capo chino. Aiolia aveva capito e aveva rilassato il braccio.
Poi tutto dentro di te era scomparso, mentre, davanti a voi, le persone si stavano indaffarando per spegnere l’incendio e soccorrere i feriti. Cosa che faceste anche voi, sfruttando la velocità della luce. Ma tu eri più distratto, non riuscivi a sopportare tutte quelle grida di dolore che ti perforavano le orecchie. Tutti quei pianti. Li sentivi e nulla potevi fare per fermarli. Tuttavia al tempo stesso sentivi anche il senso di annientamento che andava espandendosi dentro di te. Da grande come un puntino sembrava assumere proporzioni colossali.
Neanche potevi supplicarli di smetterla o cancellare la sensazione di mancato bersaglio che provavi rivolta a te stesso. Ti aveva toccato da vicino, ancora più della Titanomachia, Eris e la guerra civile. Perché questa devastazione fu provocata da mano umana. Non divina, non titanica e neanche di Saint, ma da esseri umani come voi, te.
Aiolia era stato più stoico di te. Ti aveva sostenuto e spronato a non arrenderti. Avevi cercato di non uscire dalla sua barriera e di non rallentarlo. Ma non ti era mai sembrata un’impresa tanto difficile. Quella notte, la passaste a cercare di salvare quante più vite possibili.
Solo il sorgere del Sole ti aveva ridato un briciolo di forza, ma non era servito granché per la depressione che ti colse. Avresti voluto scappare, ma non potevi, ma neanche potevi abbandonare il tuo compagno. Perché avresti disonorato la tua Armatura, il Santuario e la Dea che servivi. Ricordi che allora eri crollato a sedere? Che fissavi l’asfalto pieno di detriti senza neanche vederlo?
E che Aiolia ti aveva posto le mani sulle spalle, ti si era accovacciato davanti e ti aveva detto, guardandoti negli occhi: «Non preoccuparti, se non ce la fai non fa niente, diremo al Gran Sacerdote qualcos’altro. Non è necessario che vega a sapere del tuo tracollo».
«Non è una cosa molto onorevole per un Saint. Ti sto facendo perdere tempo prezioso». Ti eri scusato, dopo un singhiozzo cui erano seguite nuove lacrime e altre, altre ancora, copiose. Eppure durante la Titanomachia non eri stato così.  «Lo so, ti capisco, anzi, un po’ t’invidio». Ti rassicurò.
L’avevi guardato stupito. «M’invidi? Perché?»
«Perché riesci a esprimere appieno quanto la faccenda sia effettivamente grave». Poi aveva taciuto e abbassato lo sguardo lucido di lacrime di rabbia e frustrazione. Anche lui si sentiva inutile come te e, stava provando con tutto sé stesso a non piangere e a non darsi per vinto. A volte ve lo chiedevate, se valesse davvero la pena vestire l’Armatura e, proteggere l’umanità quando la belva umana era capace di queste tragedie. Che senso aveva proteggere delle creature del genere, anche per voi? Voi che eravate umani? Gli scudi stessi dell’umanità? Questo era troppo anche per te.
Dove neanche la tua vita era mai riuscita a strapparti la fiducia e l’amore nell’umanità, questa visione ci riuscì. Non sapesti neanche tu con che coraggio non ti disperasti ancora di più.
Se mai avevi covato dentro di te la speranza di diventare padre, questa idea scomparve del tutto dalla tua mente. Non avresti mai lasciato che creature con il tuo sangue camminassero su questa Terra. Non avresti mai lasciato che soffrissero o fossero ammazzati da gente come questa. Te lo giurasti quando parlaste con i tecnici e gli ingegneri. I sopravvissuti sapevano a cosa sarebbero andati incontro. Avevano sempre saputo quali problemi strutturali aveva la centrale, quanto instabile potesse diventare. Ciononostante non avevano esitato a continuare. 
Avevi guardato la centrale ardente.  
Aiolia t’aveva detto: «Non guardare, guarda me».
«É difficile ignorare quello che abbiamo appena visto, questo… questo è peggio di ogni altra cosa abbiamo mai affrontato».
I suoi lineamenti si erano contratti in una smorfia di pianto trattenuto. «Sì, lo so». Aveva ammesso, cercando di tenere la voce ferma. Poi ti aveva stretto in un abbraccio fraterno. E tu avevi ricambiato aggrappandoti a lui, piangendo sulla sua spalla. Sigillando gli occhi per non vedere lo spettacolo.   
Il massimo che avevi potuto fare fu restare poco più indietro di lui. Cercavi di renderti utile però ogni tuo gesto era meccanico: il corpo agiva ma la tua mente era immota. Aiolia ti aveva lanciato un piccolo sorriso d’incoraggiamento, come a dire che era contento di vederti di nuovo operativo.
Per l’incendio c’era stato poco da fare. Avevate dato una mano a organizzare l’evacuazione.
Quando Aiolia ti aveva guardato, mentre guidavate l’esodo e parlavate con i soldati dell’URSS, ti aveva lanciato una triste occhiata e un piccolo sorriso. Avevi ricambiato con un cenno del capo ma eri ben lungi dall’esserti ripreso.
E dentro di te già ti ribellavi alla tua decisione. Il tuo amore per l’umanità superava di gran lunga la disperazione, per permetterti di restartene con le mani in mano. Avresti fatto come la Dea. Avresti amato l’umanità, ma non ti saresti più accostato a essa come prima.  Eri abbastanza forte per sostenere questa decisione. Fu così che nacque quella proverbiale freddezza che gettò quella: «patina di brina nei tuoi occhi». Come la definì un giorno una delle tue ex ancelle, in pena per te.
Già eri dell’idea che i sentimenti fossero d’intralcio in battaglia, ma avere questa conferma anche nella vita fu molto triste. Povera Antiochia, così si chiamava quella tua ex ancella che aveva cercato di farti cambiare idea. Era giunta addirittura ad abbracciarti e si era offerta di scaldare il tuo cuore raffreddato al contrario del reattore. E tu di fronte a quelle profferte d’amore avevi distolto lo sguardo, cercando di restare impassibile, pregando che non si accorgesse che la tua era tutta una mascherata. «Mi dispiace». Le avevi detto.
Aveva sciolto la stretta ed era corsa via, in lacrime. «Siete crudele!» Ti aveva urlato.
I suoi singhiozzi erano riecheggiati nel tuo Tempio assieme ai suoi pass sempre più distanti.
Nel sentirli sparire qualcosa dentro di te si era rotto. Avevi cercato di fermare le lacrime; ti eri fatto violenza da solo per evitare di ricorrerla, abbracciarla e implorarla di non lasciarti solo. C’eri riuscito.
“Come diavolo fa Atena?” Ti eri ritrovato a pensare, finalmente conscio che questa strada, questa scelta, non avrebbe portato altro che dolore. Tu che al dolore avevi cercato di fuggire.
Anche se tu avessi dato retta all’impulso e l’avessi raggiunta a cosa sarebbe servito? Lei non aveva vissuto le tue stesse esperienze, non aveva mai toccato con mano tutta la disperazione come te. Non aveva mai saputo cosa significava avere a che fare con la crudeltà umana.
«Sei crudele!» No, non eri crudele, eri ferito. E lei non avrebbe potuto salvarti. Come poteva? Era solo una ragazzina con niente in mano e tante convinzioni sbagliate nella testa. Avevi assecondato per un po’ il suo amore, perché sì ti piaceva davvero. Avevi provato a darle questa possibilità, ma non eravate riusciti a incontrarvi a metà strada. Ci avevate provato ed era giusto che fosse finita.
Lei, prima o poi, lo sapevi, avrebbe voluto diventare madre. Come dirle che tu non volevi figli? Come farla restare con te dopo una notizia del genere? Non c’era modo.
Neanche il Gran Sacerdote se l’era sentita di infierire. Anzi, ti aveva lasciato in pace con il tuo dolore. Milo invece, ti era stato vicino proprio come un fratello. Senza ironia, senza parole, solo con la sua presenza. Dove non era riuscita Antiochia almeno ti aveva raggiunto lui. 
Oh, lui sì che era riuscito a comprenderti, sebbene non vi foste mai parlati granché. «Era tanto orribile?» Ti aveva chiesto in tono mite, quasi esitante, mentre ti teneva stretto a sé di lato, seduti sul divano. Avevi annuito ripetutamente, incapace di sollevare lo sguardo.
Lo Scorpione non aveva ribattuto; si era limitato a tenerti stretto a sé, come se avesse voluto proteggerti e, al tempo stesso, condividere il tuo dolore. Sperando, forse, di riuscire a istillarti anche un po’della sua forza. Tra voi due era sempre stato lui il più forte anche se lui sarebbe stato pronto a giurare il contrario. Ma non era vero, quello che eri l’avevi imparato da lui.   
Oh, lui sì che era riuscito a comprenderti, anche se non a salvarti. Forse, in cuor suo, per quanto avesse provato a trarti fuori dal baratro, sapeva che era inutile. Forse stava cercando di ricordarti in modo diverso. Forse si aspettava già da tempo che un giorno, il mostro nero che ti portavi nel cuore, avrebbe reclamato la tua vita e lo avresti lasciato solo. Speravi solo che sarebbe successo il più tardi possibile. Quando per il troppo calore anche tu saresti evaporato come neve. Sì, forse eri un egoista del cazzo, come ti avrebbe definito lui. Saresti dovuto andare avanti ma non riuscivi proprio a trovare una via d’uscita, tranne la morte.
Il tuo mostro nero ti aveva raggiunto.
Tu solo sapevi quanto fosse forte e fragile al tempo stesso. Ma lui avrebbe sopportato, sarebbe andato avanti e, un giorno, vi sareste riuniti e avreste riposato insieme. Per questo il tuo ultimo pensiero andò anche a lui, mentre Hyoga sferrava l’Aurora Execution con la perfezione che tu non avevi mai raggiunto.
Ti svegliasti con un sussulto. Ci mettesti un po’ per riconoscere questo luogo e il crepitio delle fiamme che ti scaldavano il volto e le parti scoperte della tua pelle, non più appesantita dalla Cloth.
Sentisti il rumore di un panno passato su una superficie e di un dolce canto sommesso.
Voltasti la testa verso quei rumori e vedesti la Dea a gambe incrociate, intenta a lucidare la spada.
Shaka era sdraiato alla sua destra, nel suo giaciglio fatto con il mantello, come il tuo, accanto al falò.
«Un brutto sogno?» Indagò comprensiva. Ti guardò come se avesse veramente voluto sapere cosa attanagliasse la tua mente tormentata.
«No, non era niente». Mentisti tornando a sistemarti sul fianco. La sua voce ti giunse delicata, quasi flautata all’orecchio, nonostante il crepitio del fuoco: «É questo posto, non è così?» Centro perfetto. Avresti potuto mentire ancora, ma che senso aveva? «Sì». Mormorasti sincero guardando le fiamme senza vederle.
«Mi dispiace». Poi, dopo un momento, aggiunse «Sai, non sei l’unico a soffrirci». La guardasti confuso. Come l’aveva capito? Perché te lo stava dicendo? Era forse un monito a essere più cauto o era evidente? «Anch’io soffro enormemente a causa di questo posto». Rivelò rattristata guardando il paesaggio circostante illuminato dalla luce del tramonto intrappolato nella tasca. Perché, che cosa c’entrava? Lei che al massimo aveva ventiquattro anni, cosa poteva c’entrare con queste lande?
«Se questo posto per voi è solo fonte di dolore, perché ci siete tornata?» Le domandasti esitante. Solo dopo ti rendesti conto non aver collegato la bocca al cervello: «Scusate, non volevo impicciarmi».
«No, non preoccuparti, non faccio caso all’etichetta e a tutte quelle cose lì; io ho sempre preferito avere un rapporto paritario con gli esseri umani, di solito non rivelo neanche di essere una Dea. Perciò non temere di offendermi con le tue domande, chiedi pure tutto ciò che vuoi».
«D’accordo». Le ripetesti la domanda e lei eruppe in un sospiro strano, come se all’ultimo avesse trasformato così un gemito di pianto. «Perché nessun nemico ti verrebbe mai a cercare in un posto pieno di dolore per te. Io qui ho perso qualcosa di importante, a volte ci torno, nella speranza di ritrovarlo, ma quello… non c’è più. Di giorno cerco di farmi forza, ma di notte, è come se i miei demoni personali venissero a trovarmi e a tormentarmi e ne ho moltissimi. Un po’ come te».  
Ti mordesti l’interno della guancia distogliendo lo sguardo. Non poteva capire.
La sofferenza era universale, ma non credevi che avesse il tuo stesso bagaglio di esperienze. La zittisti, cortese, ma in tono di scuse, sostenendo la tua testa con la mano. Non poteva comprenderti, voi eravate soldati, agli Dèi cosa poteva mai importare?
«No, è vero, le mie sono più personali». Confermò, più piano.
«Eravate qui, quando accadde?» Chiedesti dispiaciuto.
«No, ma posso vedere com’era questo posto, come avrebbe potuto essere e come invece doveva diventare ed è diventato. Purtroppo quelli come me possono solo scrivere la Storia nella direzione che deve prendere. E a volte, nonostante i mezzi per impedirlo, dobbiamo restare fermi. Perché alcuni avvenimenti esistono per evitare cose ancora peggiori. Un esempio sono i campi di concentramento e di sterminio; un altro è questo».
A quelle parole qualcosa dentro di te si fermò. Lo stupore ti fece inarcare le sopracciglia, poi fu soppiantato dall’ira. La inceneristi con lo sguardo. «Avreste potuto fermarlo?» Domandasti con voce accusatoria sentendo quell’ira montare dentro di te. «Perché non l’avete fatto? Ne avevate i mezzi, il potere, tutto, potevate evitarlo, potevate…» Le parole ti morirono in gola. Benché avessi solo sussurrato, benché fossi praticamente seduto, ti sembrò di aver gridato e di essere balzato in piedi. Tutte quelle persone. Sapere che c’era qualcuno che poteva evitarlo e che non aveva mosso un dito ti fece dimenticare chi lei fosse. Adesso ti osservava perfettamente immobile, come se tu l’avessi congelata con la Freezing Coffin.
Sospirò e posò la spada a terra e pose i gomiti sulla parte morbida delle ginocchia, le punte delle dita unite a guglia nascondevano la sua bocca. Gli occhi bassi. Stava scegliendo le parole con cui ribattere. Sul serio ce n’erano? Ora volevi proprio vedere con che faccia tosta ti avrebbe risposto. Dea o non Dea non aveva giustificazioni.
I inspirò e parlò, con un tono completamente diverso da quello che ti saresti aspettato: con rassegnazione. Ti dette ragione: «Credi che non abbiamo pianto per questo? Credi che noi stessi non ci poniamo queste domande? Credi che ci sia piaciuto sacrificare queste persone per evitare una strage futura ben più grande? Credi che non avessimo cercato un altro modo? Non ce n’erano. Hai idea di cosa sarebbe successo se ci avessimo provato? Io sì e fidati quando dico che non vuoi veramente saperlo». Solo allora rialzò lo sguardo, ma non guardò te. I suoi occhi si rabbuiarono e la sua faccia si piegò in un’espressione di terrore. Come se avesse visto qualcosa di orribile, se lo ricordasse ancora troppo bene e lo temesse. Un gemito di pianto eruppe dalle sue labbra e gli occhi le divennero lucidi, però non versò neanche una lacrima. Quando ritrovò un minimo di contegno continuò: «Tu non sai quanto sia doloroso portare questo fardello senza poter fare nulla. Mentre tu, che puoi congelare gli atomi pensi che le tue tecniche, che il tuo quasi zero assoluto, non siano serviti a niente. Che ti sei dannato per le conseguenze per non aver potuto fare nulla di concreto, pensa a noi che, pur avendo la possibilità di cambiare tutto, non l’abbiamo sfruttata. Sì, noi Dèi Azoni disponiamo di numerose magie del Tempo». Rivelò con dolore e rammarico. Sgranasti gli occhi per la sorpresa, ma ciò non te la rese per niente più giustificabile. La lasciasti continuare, più per mero rispetto che per vero interesse: «Nonostante questo, di fronte a certi eventi siamo impotenti come tutti gli altri. Non possiamo fermarli, non possiamo impedirli, né possiamo cambiarli, se una cosa è così, deve andare così allora dev’essere così. Non è un potere che possiamo usare per il nostro tornaconto personale. É solo preso a prestito, come l’energia vitale, perché non ci appartiene veramente, per questo sarebbe sacrilegio approfittarsene. Proprio come voi non potete usare le armi perché Atena ve l’ha proibito, noi non possiamo cambiare la Storia come ci pare e piace. Solo che, mentre voi con un’arma in mano raggiungete la stessa potenza degli Dèi, già di suo una blasfemia, noi rischiamo di essere sopraffatti dal Potere stesso ed essere manipolati, impazzire nel tentativo di aggiustare le cose o di degenerarle e, condurre il Tutto sull’orlo dell’abisso, senza possibilità alcuna di ritorno». Non immaginavi che anche gli Dèi corressero questi pericoli. «Se credi che per te quel ventisei aprile dell’Ottantasei sia stato uno dei più brutti della tua esistenza pensa a noi, vedila dal nostro punto di vista quanto sia stato orribile. Una delle stragi più grandi dopo la bomba atomica. Riesci a immaginare lo sconcerto e lo sgomento che abbiamo provato quando ci siamo resi conto che avevate imparato a manipolare gli atomi per crearne armi di distruzione di massa? O forse hai dimenticato che anche qui si produceva plutonio per scopi bellici? Immagina noi cosa abbiamo provato nel realizzarlo e quanto ci siamo spaventati. E alla nostra disperazione quando abbiamo visto cosa sarebbe successo e decidemmo di non intervenire per il bene di tutti. Io le grida di quel giorno, l’annientamento, lo shock, il pianto, la disperazione, le sento ancora adesso e non posso fare nulla. Tu almeno hai pianto e sei cambiato solo da quel giorno in poi, noi piangiamo da sempre. Se a volte hai pensato che fosse orribile la vita di un Saint, pensa a quanto sia orribile quella di un Azone. Sapere ma non potere; questo è pure peggio che non sapere e non potere».
Proprio in quel momento, Shaka si girò sul fianco e una sua mano finì vicina al ginocchio della Azona. Lo guardaste temendo di averlo svegliato. A volte di notte anche un bisbiglio può risuonare potente come uno scoppio di cannone. Ma il tuo collega non si destò.
Vedesti la Dea rilassarsi e curvare la bocca in un dolce sorriso e rilassò le spalle.
«Come lo sapete che ho pianto?» Chiedesti, cercando di riprendere il filo. Lei distolse lo sguardo da Shaka per risponderti. E il suo sorriso prese una piega malinconica. «Noi eravamo un passo dietro di voi, anche se siamo piuttosto abili a passare inosservati».
«Perché?»
«La nostra tortura è che dobbiamo registrare tutti gli eventi che accadono, che almeno uno di noi deve recarsi sul posto e verificare che tutto sia andato secondo i piani. Anche per arginare eventuali errori e il potere sprigionato dall’evento stesso. Quel giorno non toccava a me, ma la disgrazia la conosciamo tutti».
«Mi rincresce, non sapevo che» la voce ti si spezzò di colpo perché l’Azona carezzò dolcemente i capelli di Shaka, spostandogli una ciocca che gli era finita sotto il naso. Un gesto tanto bello quanto protettivo e alquanto strano, considerato chi stesse toccando e la discussione che stavate avendo.
Poi tornò a guardarti, stavolta più seria. «Non potevi, infatti. È inutile piangere sul sangue versato. In vita e in morte il sangue scorrerà sempre; il Tempo è una linea infinita tinta di rosso. E la Terra ne sarà sempre macchiata. Non c’è verso di arginarlo e non mi riferisco solo alle guerre».
«Allora che senso ha avuto tutto questo? Creare voi?»     
«Questo è un altro discorso».
«Vorrei conoscerlo».
«Sicuro? Guarda che è una lunga storia che è intimamente collegata a voi».
«Sono sicuro». Ancor più se era effettivamente così.
«D’accordo, ma prima mi devi giurare sullo Stige che non ripeterai a nessuno quanto sto per dirti. Che terrai per te queste informazioni, ora e per sempre, Alexandre Camus Dumas. Che non ne parlerai con anima viva o morta e non ne scriverai mai o lo raffigurerai in nessun modo, anche fosse con il pensiero, il Cosmo, i sogni, i codici segreti, la lingua muta o il linguaggio del corpo. E che custodirai quanto sto per dirti nella tua memoria per sempre. Queste sono le mie condizioni, prendere o lasciare». Due cose ti colpirono subito. Il fatto che conoscesse il tuo vero nome di battesimo e la promessa di dannazione. A ora soltanto tu lo conoscevi ma vi avevi rinunciato da molto tempo. Anche se ignoravi chi fossero i tuoi avevi sempre saputo di chiamarti così, ma lei come lo sapeva? Sempre in virtù dei poteri del Tempo? Non era un’avversaria da sottovalutare.
Quella proposta non era casuale: lo Stige era molto ligio sui giuramenti e i trasgressori sarebbero morti tra le sue acque. Il fatto che lo invocasse significava che era tanto gentile e disponibile quanto diffidente. Che quelle informazioni erano preziosissime. Sarebbe stato un aiuto per il Santuario ma ne valeva la pena? E se per sbaglio avessi vuotato il sacco? E se non esistesse alcuna informazione e fosse tutta una trappola? Poi nelle prossime vite non avresti più potuto proteggere la Dea, ammesso e non concesso che esistessero altre vite.
«Io...» Ti guardò, in attesa. Sì, il Santuario sarebbe sopravvissuto anche senza. Dopotutto non era la prima volta che affrontavate Hades alla cieca. Completasti con un: «non credo di volerlo sapere».
Lei ti fissò un po’ con un’espressione neutra. Piano piano, un sorriso dolcissimo le ammorbidì i lineamenti, trasformandola in una persona completamente diversa. Che strana metamorfosi. Non ti saresti mai aspettato che un semplice sorriso l’ingentilisse così. Che potesse emanare tanto calore e tanta dolcezza.
«Perdonami, non avrei dovuto spaventarti. Pensa a dormire un altro po’, Camus, se dovesse succedere qualcosa vi sveglierò io». Promise in tono materno. «Su, dormi». Ti spronò indicandoti con gli occhi il tuo giaciglio.
Era difficile. Chi ti garantiva che non vi avrebbe tagliato la gola appena assopito? Decidesti di dormire con un occhio solo. Ti stendesti di nuovo, avvolgendoti nel mantello, la guancia sul tuo bicipite: «Scusatemi, ancora, per aver risvegliato queste memorie».
La sua voce ti giunse in un triste sussurro: «Tu non hai risvegliato proprio niente. I miei demoni personali sono sempre qui con me». “E non c’è verso di mandarli via”. Ti parve quasi che dicesse, affranta nel silenzio carico di tristezza che seguì. Tu non eri tipo da colpevolizzarti, ma eri molto generoso a dispetto del tuo potere. Solo in quel momento realizzasti che tu eri un ossimoro vivente.
«Mi dispiace lo stesso». Chiudesti gli occhi. Altro che sonno leggero, eri così stanco che sentivi avresti potuto dormire per decadi. Com’era possibile? Che ti avesse stregato? No. Non l’aveva fatto. Ti aveva solo aperto il suo cuore.
Questa Dea era una brava narratrice, dovesti ammetterlo: era riuscita a farti dimenticare il luogo in cui vi trovavate e la paura che ti incuteva. Era come se fosse riuscita ad avvolgerti con la sua voce calda e rosea e le sue parole. Un po’come se avesse posto una coperta sulle tue spalle persino più materiale del tuo mantello.
Ti sentivi rassicurato e meno solo, non solo come Camus, ma anche come Saint. Atena non era l’ultimo baluardo di difesa, c’erano anche gli Azoni. Nonostante la loro contorta morale. Non potevi pretendere di comprenderla, eppure ti sentisti molto vicino a lei. Sapere che esistevano asciugò le tue lacrime. La tua sofferenza era ancora lì, ma era più attenuata. Eppure quello che provavi era diverso ancora. Non era solo conforto, ma era vera e propria gratitudine. Perché? Ripensasti alla vostra conversazione, arrovellandoti per comprenderlo.
Non ti accorgesti neanche che le palpebre si erano sigillate e il tuo respiro si era già fatto più pesante. Ormai nel dormiveglia, ti venne un’idea che ti riempì di stupore. Stupore che ti fece pensare: “Non può essere”. Era la tua impressione o aveva cercato di consolarti? Con questi sentimenti nel cuore e la consapevolezza in testa, ti addormentasti per davvero.   
Sognasti di trovarti nel buio più assoluto e tu ci fluttuavi. C’era un silenzio talmente pesante e opprimente che persino tu tremavi di terrore. Improvvisamente udisti una voce femminile cantare.“Io conosco questo canto”. Animato dalla speranza ti avviasti nella direzione da cui proveniva e vedesti la luce e la ragazza in bianco a braccia spalancate. “Lady Asia!” Pensasti stupito. Questo sogno aveva qualcosa di troppo reale per essere un parto della tua mente lo capivi dalla luce. Dietro di lei le immagini coi fatti di Asgard scomparivano. Ti avvicinasti e anche il sogno sparì, sostituito da una calda luce rosata. Solo dopo sentisti anche il calore sulla pelle e il cinguettio nelle orecchie. Apristi gli occhi e vedesti delle macchie colorate prima che la luce ti ferisse. Gemesti di dolore. La guancia premuta a terra, l’indolenzimento alla schiena e alle membra, complice anche la forza di gravità. A causa della posizione aveva premuto sulla tua spina dorsale. Fu così che prendesti coscienza del fatto che fossi sdraiato sulla pancia sul sottobosco. Non ricordavi che questa posizione fosse così scomoda. 
Fosti costretto a coprirti la faccia con un braccio. Non c’eri quasi più abituato allo splendore del Sole.  
«Buongiorno». Salutò Shaka. Indossava già la sua Cloth ed era fastidioso guardarlo tanto luccicava.
Ti stiracchiasti maledicendo la scomodità del tuo giaciglio. «‘Giorno». Ricambiasti sofferente. Ti girasti supino, poi abbassasti il braccio e apristi lentamente gli occhi. Mettesti a fuoco le fronde verdi sopra di te. Si prospettava una giornata radiosa. E mai immagine fu migliore di questa, quando le tue narici percepirono l’odore del sottobosco. Non ti eri accorto che sull’asfalto non c’era cresciuta solo l’erba ma anche tutta una serie di piccoli fiori. Ecco cos’erano quelle macchie colorate. La primavera ha uno strano effetto anche sui luoghi più miserandi, non trovi anche tu? Come disse Dylan Dog nel color fest del Duemiladodici, ho scoperto che la primavera arriva anche qui da noi. Ma tu questo numero non avevi mai potuto leggerlo. Però, se avessi potuto, fidati di me che ti sarebbe uscita spontanea. La vita si stava comunque riprendendo e il mondo degli incubi di giorno non era così spaventoso. Ti sarebbe bastato guardare meglio per capire che, anche questi luoghi non facevano eccezione.
Girasti la testa a destra e a sinistra e domandasti dove fosse finita Lady Asia. Non la vedevi proprio. «Si è allontanata un momento, doveva andare a verificare una cosa». Spiegò. Cominciasti a stiracchiarti per ravviare la circolazione e ti mettesti seduto. Eri abituato a fare moto.
Ti pettinasti i capelli con le dita, ti sfregasti gli occhi cisposi. Sì, anche ora risentivate degli effetti del sonno.
Mentre ti sistemavi meditasti sulla foresta. Questo posto era centro di leggende urbane da brivido su creature mutanti e altri animali selvatici. Correva voce che alcune persone non fossero state completamente evacuate. Tu avevi fatto il giro molte volte. Ti eri sincerato apposta che tutti se ne andassero. Alcune case erano effettivamente già vuote prima del tuo passaggio e, non eri sicuro che fossero del personale. A ripensarci adesso ti domandasti se fossero mai davvero esistite.
«Ti ha detto cosa?» Domandasti.
«No, però non mi piace che si sia allontanata così. Anche se mi ha garantito che conosce a menadito questo luogo, non mi piace». Poi aggiunse anche che aveva dissolto la tasca temporale. Ti sembrava strano di poter udire di nuovo i rumori e che fosse mattina.
«Allora perché non sei andato con lei?»
«Perché mi ha ordinato di restare qui». Rispose infastidito. Proprio allora ti tornò in mente il dettaglio che avevi scoperto da Death Mask. Chissà se… «Capisco. Era suo, non è vero?» Inarcò le sopracciglia e se ne uscì con uno «Scusa?» pieno d’incredulità. Non ti lasciasti ingannare. Non ti era sfuggito l’irrigidirsi della sua schiena e l’improvviso raddrizzarsi della sua postura. 
«L’album che ti ho visto leggere a Villa Heinstein e negli Inferi». Specificasti. Lo avevi riconosciuto eccome. Dalla consistenza della carta che avevi visto prima che lo chiudesse e lo mettesse da parte quando gli portavi da mangiare. Era la stessa delle mappe che ti aveva portato l’emissario di Death Mask con cui avevate liberato il Grifone e le domande del vostro commilitone, più lo strano comportamento del tuo compagno ti avevano fatto riflettere. Eri un po’ tardo a fare i collegamenti, ma se no per quale altro motivo l’avrebbe seguita, oltre l’attrazione?
Shaka andò nel pallone per pochi secondi che, subito recuperò la sua altezzosità. «Le mie intenzioni sono molto più nobili di quelle che pensi e non devo renderne atto a te». Fortuna che alla sua proverbiale arroganza eri abituato. Era già così anche a sei anni e quando combatteste i Titani. Fu proprio lui a contenere il loro potere anche se, dopo ieri notte, non ne eri più così sicuro. A parte questo, si rendeva conto dell’intrinseca contraddittorietà del suo discorso?
Sciogliesti la posizione delle tue braccia dietro la schiena per grattarti la nuca. «Sì, Death Mask mi ha accennato qualcosa prima di spedirmi qui».
Neanche la vicinanza dell’Azona aveva contribuito a smussare questo suo lato. Stavi per domandargli altro quando lui ti prevenne: «Mi stai forse accusando di furto?» Chiese in tono duro e deciso. Anche se continuava a tenere le palpebre chiuse, riuscivi a sentire il suo sguardo affilato su di te. «Non sono un ladro, tantomeno un guardone, controllavo solo che non ci fossero importanti segreti militari all’interno. Tu avresti fatto lo stesso se fossi stato al posto mio. Se non fosse che appartiene a una Dea l’avrei già bruciato da un pezzo». S’inalberò. Come no, ma a chi voleva darla a bere? Inarcasti il sopracciglio destro: «Sicuro?» Lo punzecchiasti. Iniziasti a rivestirti delle tue Sacre Vestigia. 
Shaka si strinse la borsa al corpo. «Ovviamente l’avrei fatto pervenire al Gran Sacerdote prima, ma questo è un sacro tesoro che appartiene a una Dea e tu sai quanto mi sia battuto per le donne anche al Santuario».
Lo guardasti stupito: «Veramente no. Non avevo idea che tu fossi femminista».
«Non ho idea di cosa voglia dire. So solo che anche le donne possono raggiungere l’illuminazione quanto gli uomini e che questa possibilità non deve essere loro preclusa. Mi sono sempre battuto, sia per le ancelle che per le Sacerdotesse-Guerriero per quella legge della maschera. Secondo te perché io, la reincarnazione di Buddha, milito tra le fila di una Dea se non per difendere anche i diritti delle donne? É uno dei miei tanti precisi doveri». Ti rivelò, orgoglioso di sé stesso.
Ora capivi perché fosse molto amato e rispettato. E voi tutti vi eravate domandati come mai, vista la sua evidente puzza sotto al naso. Pensavate che la causa fosse il suo distacco. Sulle donne doveva esercitare una sorta di fascino, soprattutto perché non l’avevate mai visto schierarsi apertamente.
«E questo comporta anche un furto ai danni di una Dea? Che illuminazione può mai voler raggiungere una Divinità, anche se incarnata?»
Lui sviò narrandoti di come lo avesse recuperato su precisa richiesta di Lady Asia. «Shaka», sospirasti poggiandoti le mani sui fianchi, come quando Hyoga e Isaac combinavano qualche marachella, «per favore, smettila. La Dea non lo sa, eh?» Gli dicesti poi, impietosito. Perché non si era reso conto che la verità era più che evidente? Lui che tanto pedissequamente aveva perseguito la sua opera di stracciare i veli di Maya ora se ne ricopriva?
Lui però non accettò né l’implicito rimprovero che gli scoccasti con gli occhi, né la compassione nella tua voce. «No. Senti, non c’è bisogno che tu mi dica niente, so benissimo anche da me quello che devo fare. Senza il mio aiuto Lady Asia non potrà mai sopravvivere». Eccolo lì il solito spocchioso di sempre. Ma se era una Dea e pure più aggressiva, battagliera, potente e coraggiosa di Atena! Shaka era montato a tal punto? «Lo sai almeno qual è il vero potere di un’Azona, o quale sia il suo compito?» Chiedesti per sicurezza.
Parve cascare dal pero: «Potere?»
«Non te l’ha detto, allora». Deducesti.
«Non ce ne è stato bisogno, ho già meditato a lungo su questo e le conclusioni mi hanno sorpreso». Ribatté con convinzione. Inarcasti le sopracciglia: «Mi auguro che siano le stesse che so io». Lo informasti e Shaka ti rispose che erano le stesse. «Mi dovresti ringraziare, se non fosse stato per me, probabilmente ti avrebbe sgozzato».
Roteasti gli occhi. «Ti ringrazio». Stavi per porgergli altre domande ma la sua espressione contrariata ti fece desistere. Capisti l’antifona, proferisti soltanto un «Come vuoi.» prima di indossare l’ultimo pezzo. Non era salutare discutere con Shaka, considerando la sua spietatezza. Inoltre, tu eri l’ultima persona ad aver bisogno di un suo rimprovero. «Posso farti solo una domanda?»
«Te ne concedo una». Ribatté gelido.
«Sei davvero sicuro che sia solo per questo che segui Lady Asia?» Calcando bene l’accento su per questo. Sussultò come se tu gli avessi dato un pizzicotto o ficcato le dita nelle costole a tradimento. Arrossì ma non ebbe il tempo di risponderti che la chiamata in causa ricomparve dalla vegetazione. Nel vederti in piedi ti sorrise: «Buongiorno Camus, Shaka, qualche novità?» Chiese poi. Il Cavaliere sbiancò e tornò a esibire la sua solita espressione neutra e distaccata. «É stato tutto tranquillo, mia Signora».
Lei annuì, soddisfatta: «Bene, allora è il momento di metterci in marcia». Decretò. Gli smeraldi lanciarono un brillio. «Non ci fermeremo, cammineremo finché non lo troveremo». V’informò. «Ottimo Milady, avete una pista?» Chiese Shaka.
 
Camminaste fin dopo mezzogiorno. Come la sera prima, l’Azona sembrava dotata di una resistenza sovrumana a dispetto del suo corpo. Il suo stomaco non aveva brontolato neanche un secondo e le sue gambe non erano mai vacillate.
Shaka la seguiva facendo attenzione a ogni cosa, soprattutto a lei. E ne avesti la conferma quando incespicò. Shaka si protese in avanti ma non ce ne fu bisogno perché lei riacquistò subito l’equilibrio. In una situazione normale avresti anche sorriso, ma questa non lo era. Eravate pur sempre nella Foresta Rossa di Černobyl’. Tu invece preferisti concentrarti sui Cosmi. Percepivi quello di Shaka, quello degli escursionisti, ma non quello dell’Azona. Proprio come negli Inferi. Esiste un vero e proprio turismo estremo di questo tipo, con guide e piste. Non avevate incontrato nessuno ed era stato difficile per te ignorare le rovine che occhieggiavano dalla vegetazione. O il rumore delle macerie a ogni passo. T’immobilizzasti di colpo, percependo un Cosmo. Anche i tuoi compagni se ne accorsero. La Dea si bloccò a sua volta e alzò un braccio. «Fermi.» ordinò mentre i mulinelli si sollevavano. Il Cosmo lo sentivate tutto attorno a voi ed eravate più che sicuri che questi mulinelli che vi circondavano fosse opera del nemico. 
Cercaste di proteggere la Dea circondandola. Le braccia tese come a proteggerla. Tuttavia lei sguainò lentamente la spada e v’intimò di non muovervi.
Il tuo cuore cominciò a pulsare all’impazzata. L’adrenalina iniziò a entrare in circolo. Poi, vi arrivò una sventagliata talmente forte che vi mandò tutti e tre a gambe all’aria. Questa non te l’aspettavi. Era stato come essere investito da un tir in corsa. «Che cos’è?» Domandasti rialzandoti.
«É la Tempesta Radiante». Rispose la Dea alzandosi a sua volta facendo leva sulla lama. «Mia Signora, fate attenzione!» Si raccomandò Shaka.  
Il vento si sollevò e vi circondò, costringendovi a chinarvi e alzare le braccia per proteggervi la faccia. Ma questo vento aveva un odore strano.
«Che cos’è?» Urlasti, che quasi non si sentiva più niente a causa dell’ululato del vento.
«Sono radiazioni condensate. Il Guardiano della Casa di Urano manipola i Venti ma anche le radiazioni e l’uranio stesso. Non è un avversario da sottovalutare, inoltre, i suoi attacchi cadono…» In quel momento avvertiste il Cosmo piovervi addosso e dividersi in una pioggia di meteoriti. Foste costretti a ripararvi sotto i mantelli. Shaka protesse la Dea. «Dall’alto verso il basso, un po’ come una nevicata o delle meteore, come si credeva nell’Antica Roma». Finì la giovane.
Un’onda di sabbia si sollevò alla vostra destra. Faceste appena in tempo a girarvi che lei gridò: «Attenti!» Menò un fendente e la sabbia ricadde a terra. «Ahi!» Esclamò con voce maschile e i mulinelli si ritrassero. Si radunarono davanti alle vostre facce e assunsero la forma di un ragazzo nel cuore dell’adolescenza. Aveva candidi capelli lisci e asimmetrici, come se glieli avesse tagliati un parrucchiere impazzito. Due grandi orecchie da volpe artica sormontavano la sua testa. Gli occhi erano gialli con le sclere blu. Se avesse pianto lacrime di sangue, non vi sareste sorpresi. Il naso lungo, le labbra sottili erano nere e tese in un ghigno di una chiostra di zanne acuminate. Aveva la pelle di uno strano colore metallico e la faccia volpina. Indossava un orecchino a forma di foglia, una torque d’oro e degli occhialini tondi da sole con la montatura dorata. Delle grandi code vaporose si ergevano dietro la sua schiena. Era slanciato ma non aveva una corporatura piuttosto muscolosa o sviluppata. Indossava una camicia blu e dei pantaloni neri. La parte inferiore era ancora infilata nel mulinello. Si teneva una mano coperta di sangue iridescente con l’altra. “Questo è un Guardiano?” Pensasti sorpreso. Avevi pensato che fossero tutti come quello della Casa di Marte, almeno la componente maschile. Non che fossero tutti diversi tra loro.
Il Guardiano sollevò lo sguardo dalla ferita e incenerì la Dea. «Sei riuscita a ferirmi». Sibilò.
Lady Asia si rimise in posizione.
Il Guardiano attaccò di nuovo ma tu trasformasti il getto di sabbia in ghiaccio che cadde a terra con un tonfo. Però era strana come sabbia, sembrava composta da sferette minuscole.    
«Ma guarda. Interessante». Commentò la voce del vostro avversario, risuonando tutt’attorno a voi, come se vi stesse circondando. Vi metteste schiena contro schiena. In realtà avreste preferito disporvi diversamente per Lady Asia ma lei non era dello stesso parere.
Attorno a voi s’innalzò una muraglia di sabbia che ricadde su di voi. Non fece in tempo a cadervi addosso che Lady Asia mosse una mano e la muraglia tornò indietro fino a riunirsi nella figura irritata del Guardiano che sorrise affilato: «Ma guarda, non pensavo che due Redivivi e una Dea da quattro soldi potessero resistermi tanto facilmente. E dire che non mi sono nemmeno trattenuto».
A giudicare dalla forza del suo attacco non ne eri così sicuro, ma tacesti. «Astronauta riprendi le tue vere sembianze e seguimi». Comandò la Dea portandosi un pugno sul petto.
«Perché?»
«Il tempo è giunto». Ribatté enigmatica.
«Chi l’ha deciso?»
«Io».
Un sorriso crudele piegò le labbra dell’altro. «Ah, sì? In nome di quale autorità?»
«La mia».
«Sai quanto me ne frega? Dovrete riuscire a obbligarmi, anzi no, a catturarmi per tornare al servizio dei tuoi infami parenti! Ah, sì, adesso mi ricordo, sì. Tu sei la Dea Maledetta, la stupida Dea che crede di poter sfuggire al proprio destino». La ragazza gli puntò addosso la lama. Un’espressione bestiale le deformò i lineamenti.
Il Guardiano della Casa di Urano non se ne curò. Anzi, si leccò qualche goccia di sangue e si rimarginò la ferita: «Perché non diamo una piccola svolta agli eventi? Che cosa succederà se sarò io il primo a strapparti la testa? Credi che il mondo finirà lo stesso?» Propose.
«Di che parla?» Chiedesti.
Un luccichio illuminò i suoi occhi e si rivolse a voi: «Non sapete con chi viaggiate, vero?»
«Stai zitto!» Ululò l’Azona lasciando esplodere il proprio Cosmo. Eravate abituati a quello della Dea Atena ma non pensavate che questo potesse di gran lunga superarlo. Questo era ben oltre il sublime, questo era il noumenos di Kant. In quel Cosmo sentisti racchiusa la vita e la morte ripetuta in un ciclo infinito. Mille voci e mille suoni ne erano intrappolati. Era così forte che la terra tremò e il cielo divenne color oro bianco. L’energia rilasciata spazzò via le foglie, spezzò i tronchi degli alberi più vicini e li incenerì. Quel Cosmo era talmente potente che vi avrebbe uccisi entrambi, Velo o non Velo. Persino questo si deteriorò.
Se non riuscì ad andare fino in fondo fu solo perché l’album vi protesse, creando una specie di barriera che fece da spartiacque per la sua energia.
Shaka spalancò gli occhi per la paura. Fissò Lady Asia come se non la riconoscesse, mentre il Guardiano sogghignava. Per lui il suo Cosmo non era altro che una sventagliata. Dovette provocarla perché ululò a pieni polmoni: «Ti ho detto di chiudere il becco!» E la sua voce si trasformò in un’onda di energia che lo mandò a gambe all’aria nel sottobosco. Il Guardiano rise a crepapelle prima di smembrarsi i miriadi di goccioline che rimbalzarono come palline sul terreno. Arretraste istintivamente e solo allora Lady Asia si fermò e recuperò il controllo del Cosmo. Respirava dal naso. Le spalle che si alzavano e si abbassavano rapidamente. «Lady Asia?» Tentasti mentre anche la barriera scompariva. Shaka sembrava aver perso l’uso della parola. «Lo avete ammazzato?»
«No, quello non muore così facilmente, state attenti potrebbe…» 
«Preso». Sentisti flautare all’orecchio. Prima che avessi il tempo di capire cosa stesse succedendo fosti inglobato dentro una goccia. Provasti a liberarti ma non ci riuscisti, sentivi appena le voci e gli attacchi dei tuoi compagni. Ti dimenasti urlando come un ossesso. Era tutto inutile.  
Proprio quando pensasti che saresti morto, ti sporgesti in avanti e la bolla s’infranse, cadendo a terra in miriadi di goccioline che rimbalzarono sul terreno. Riprendesti fiato sconvolto. Lady Asia e Shaka ti soccorsero. «Stai bene?» Ti chiese lei mentre Shaka si metteva davanti a voi, pronto a difendervi mentre il Guardiano riacquistava la sua vera forma.    
«Che rogna, proprio uno spirito mi doveva capitare, così non c’è gusto». Commentò infastidito vedendoti rialzare carponi. Poi un getto di mercurio ti raggiunse e ti schiantò contro un muro.
Mentre lottavi per restare sveglio ti toccasti il petto, laddove eri stato colpito e quando sollevasti la mano vedesti le gocce. «Non è acqua.» costatasti mentre ti rialzavi dalla pozza di quello strano liquido, che adesso riconoscevi. Ti guardasti le mani e poi le goccioline che, dalle braccia e i capelli, rotolavano via da te. «Questo è mercurio!» Urlasti ai tuoi compagni.  
«Mercurio?» Ripeté Shaka perplesso, prima di schivare un’altra ondata. Neanche i suoi colpi servivano a qualcosa.  
«Accidenti, non l’avevo previsto! Scappate, scappate! Ho detto scappate!» Esclamò Lady Asia allarmata. Obbediste senza pensarci due volte.
In quel momento un’altra ondata vi accerchiò, vi superò e vi sbarrò la strada. «Dove pensate di andare? Ho appena cominciato. Tu sei d’intralcio piccola Dea, non crederai davvero che ti lascerò scappare. Sai troppe cose e osi troppo, hai bisogno di una punizione». Annunciò. Poi si trasformò in mercurio e si lanciò addosso alla Dea. Innalzasti rapidamente una muraglia di ghiaccio ma fosti lo stesso troppo lento. La lama di mercurio ferì l’Azona a un braccio. La Dea gemette di dolore e perse la presa sulla spada. Si afferrò il braccio dolorante. Il mostro attaccò ma Shaka l’afferrò e saltò via appena prima che l’energia la colpisse. Il mantello bianco e parte della lunga chioma distrutti. Il Velo avrebbe dovuto proteggervi dagli attacchi dei Vivi, con i Guardiani non funzionava! Non vi restava che sperare nelle Creature, ma dov’erano finite? Perché non si facevano vive? Raggiungesti i tuoi amici che si stavano riparando dietro la barriera della Dea. «Non hai ancora capito, sciocca Dea? Io non ti lascerò mai il tempo di pensare!» Sghignazzò il Guardiano Volpe continuando a bombardarvi.
«Somma Dea! Usate noi!» Intervenisti.
«Sei impazzito, Camus?» Ribatté mentre concentrava l’energia per rinforzare la barriera che andava crepandosi sempre di più. «Fidatevi!»
Non fece in tempo a finire la frase che il Guardiano cambiò tattica: fosti afferrato per la vita e strattonato indietro. Battesti la testa in terra e ti ritrovasti di fronte la faccia di Milo. Strabuzzasti gli occhi spaventato. «Ciao mio vecchio amico». Ti salutò beffardo. Alzò la Cuspide Scarlatta  e, sempre sorridendo, la calò su di te ma la lama della Dea tagliò quella mano. Il mostro si agguantò il polso mozzato, trapassò Lady Asia con lo sguardo e ringhiò come una fiera.
Lady Asia puntò la spada contro di lui. Dalla mano destra un piccolo pugnale verde. Il respiro affannoso per lo sforzo: «Stai lontano dai miei protetti!»   
«Camus! Che ti prende? Perché ti sei alleato con lei? Ti sei dimenticato della missione? Dovevamo proteggere il Santuario e la Dea! Lei non è la tua Dea, è la nemica, sta in guardia!» Continuò il falso Milo, la mano di nuovo intatta. «Se non mi credi ci penso io a farti rinsavire: Cuspide Scarlatta!»
Shaka gli oppose il Khān ma i colpi rossi erano così forti da mandarlo in frantumi.
Lady Asia vi afferrò per gli spallacci e vi strattonò indietro quel tanto che bastò perché le Cuspidi si schiantassero al suolo.
«Mia Signora!» Esclamò Shaka agitato mentre tu continuavi a fissare Milo.
No. Era impossibile che fosse Milo. Milo non ti avrebbe mai attaccato senza un buon motivo. Non come ad… Dove? Dov’era che era successo? Perché non ricordavi più quella parte? «Ce l’ha con te! Camus, stai attento! Smetti di pensare!» Gridò Lady Asia riportandoti alla realtà.
«Che guastafeste!» Commentò infastidito l’avversario, poi posò una mano a terra e dal suolo fuoriuscirono delle sagome scure e informi che si trasformarono in soldati ombre. E ve li mandò addosso. Parasti un colpo e scopristi che il loro tocco era corrosivo. Ritraesti il braccio urlando e scopristi di non averlo più. Neanche la Cloth era riuscita a proteggervi. «Scappate!» Urlò la Dea.
Fu Shaka a convincerti a restare. Combinaste i vostri Cosmi e riusciste a spazzare via quei mostri. Restasti stupefatto della tua forza, non pensavi di avere ancora tanta energia. Sentivi che potevi attingerne quanta ne volevi, che c’era qualcuno che ti osservava e attendeva. Cos’era questa sensazione?
Non potesti pensarci che un’altra onda di mercurio l’aggredì. Non la vedesti neanche alzare il braccio. Combattevano a una velocità superiore della vostra in tutti i sensi. Lei tese una mano verso l’onda, bloccandola a metà come se si fosse scontrata contro una barriera invisibile. Non era sufficiente: la massa liquida avanzò millimetro dopo millimetro accumulando sempre più forza. Il braccio di lei tremò. La Dea mosse l’altro braccio e menò un fendente che aggirò il liquido. Il fendente tagliò in due il falso Milo che si disgregò in una pioggia di goccioline che rimbalzarono a terra. L’onda decadde e andò a spargersi ai vostri piedi come un lago velenoso. «Milady!» Esclamasti mentre lei si aggrappava a te per restare in piedi. «Sto bene». Fece, portandosi una mano alla testa. «Sto bene». Ripeté.
«Non ti permetterò di pronunciare quel nome!» Esclamò la voce sotto ai vostri piedi, poi il Guardiano si ricompose e Lady Asia si ritrovò a combattere da sola. Nonostante la sua abilità sembrava una bambina maldestra alle prime armi.
A un tratto l’essere bloccò la lama con una mano sola e la cinse, macchiandola del suo sangue velenoso. La sua espressione si tinse malinconico, quando la osservò. Lady Asia trasalì, rendendosi conto di non poterla più muovere. «Oh la leggendaria Tamerlane, era molto tempo che non la vedevo». Riconobbe in tono delicato, come se parlasse di un vecchio, caro ricordo. Il suo volto perse l’espressione di gioia crudele in favore di una più truce e rabbia. «Ma non lascerò che accada una seconda volta, non più, te la strapperò con tutto il braccio». Vedesti solo la luce verde che l’altro Guardiano le prese il braccio destro e strinse la presa. La Dea urlò di dolore e fu costretta ad aprire le dita.
«Lady Asia!» Urlaste. Shaka si gettò addosso al Guardiano ma quest’ultimo fu più rapido e gli scagliò addosso la Dea. Che dette una testata contro il tuo compagno e cadde a terra. Shaka  si accorse solo troppo tardi di ciò che era successo, che in un colpo si ritrovò schiantato al suolo, accanto alla Dea, che, andava rialzandosi dolorante. Un rivolo di sangue d’oro bianco le colava dalla bocca. «Cerchio d’ombra». Comandò il Guardiano e attorno alla gola di lei si formò un collare d’ombra. La ragazza aprì bocca ma non ne uscì alcun suono: «Ecco, adesso ti sfido a chiamarlo!» Ghignò l’altro soddisfatto.
Asia lo trapassò con lo sguardo. Poi, infuriata e spaventata, bruciò finalmente il suo Cosmo aprendo la bocca in un grido muto. Se solo l’espansione aveva causato tutta quella distruzione, l’ardere fu infinitamente più devastante. Vi salvaste solo grazie alle code della volpe di Mercurio. La fiammata d’oro bianco attorno a lei era terrificante. Persino il Cosmo e la Dunamis dei Titani impallidivano al confronto. Ma neanche questo bastò a estinguere la tecnica del mostro che anzi, se la rise. I vestiti e i capelli smossi ma illesi. «Credi di impressionarmi? Stolta!» In un baleno le fu accanto e la schiantò al suolo con una mano. La Dea smise immediatamente di bruciare il Cosmo.
«Lady Asia!» Urlaste.
Vi rialzaste nonostante le ferite e correste da lei. Lady Asia tremava e si dimenava nel tentativo di liberarsi, il Guardiano era talmente forte da bloccare il suo spostamento. Ogni volta che cercava di bruciare il Cosmo e sembrava sul punto di teletrasportarsi, tornava solida. Cercò di artigliare quel braccio e toglierlo, ma non ci fu verso.
«Come, la volete proteggere ancora? Non capite proprio allora.» vi ritrovaste al punto di partenza  e al tappeto. «Com’è possibile che non capiate che mi basta fare così per mandarvi KO?»
Ma anche così trovaste la forza di rialzarvi e di essere sbalzati via ancora. Per lui era un gioco, per ma per voi no. Ogni volta che vi rialzavate puntavate i piedi. Eravate pronti a combattere anche a costo di spaccarvi le gambe nei gambali.
«Proprio non vi arrendete?» Chiese il Guardiano mentre vi lasciava raggiungere la Dea priva di sensi. Vi lasciò avvicinare. «No. Noi non ci arrendiamo. Abbiamo giurato di proteggerLa e lo faremo!» Dichiarò Shaka. Il Guardiano vi scagliò al punto di partenza. Rotolaste per cinquanta metri prima di fermarvi. Stavolta entrambi feriti e provati per lo sforzo. Ogni esplosione era più forte della precedente. Anche se avevate capito come faceva non serviva a nulla. «Stupidi umani, possibile che non comprendiate mai quando è il momento di fermarvi? Datemi retta, arrendetevi». Consigliò. Improvvisamente tutto il dolore della battaglia vi sopraffece e vi ritrovaste schiacciati al suolo, boccheggiando. Non avevate mai sofferto tanto neppure quando vi sacrificaste al Muro del Lamento. Ora le parole di Lady Asia vi erano chiare, come era chiaro che il Guardiano stesse giocando con voi.
Una mano ti afferrò per i capelli e ti sollevò la testa. Il Guardiano si era sdoppiato e le sue copie si stavano occupando di voi. Presto vi avrebbero uccisi.
Non sapesti neanche tu dove trovasti il coraggio di boccheggiare: «No, non possiamo arrenderci». Cercando di sforzare la voce ad articolare parole comprensibili. Sentivi la bocca piena di sangue e tossisti. Non avevate neanche più le forze per stare bocconi. Shaka ci provò, ma vacillò e crollò di nuovo al suolo, mentre tu ti sentisti tirare indietro nella tua stessa coscienza. «Noi, non ci arrendiamo, siamo i Cavalieri della Speranza». Appena lo dicesti, vedesti il sogno di quella notte. Lady Asia che cantava per voi e che vi proteggeva nel Limbo e che aveva quasi perso la vita per voi tredici. Ora sapevi cos’era quella distesa oscura. Lady Asia nel castello degli Specter che stava per essere sopraffatta e voi che la raggiungevate e la proteggevate. «Noi siamo i vostri Cavalieri». Disse Aiolos.
«Qualsiasi cosa succeda potete contare su di noi. Chiamateci e arriveremo da voi». Promise Milo a nome di tutti. Shaka che le restituiva il suo scettro. Tu che annuivi convinto a sottolineare le sue parole. Ora sapevi chi fosse. La guardasti: «Lady Asia». Mormorasti. Come avevi fatto a non riconoscerla? Non era una nemica. Le copie di mercurio vi lasciarono andare e si riunirono all’originale. Che vi lasciò avanzare di nuovo, ma di lui non v’importava più. «Lady Asia». Chiamò Shaka a sua volta con il tuo stesso tono.  
Riusciste a strisciare lentamente lottando contro il dolore. Eravate prossimi a perdere i sensi. Vi ribellaste entrambi. Non adesso che l’avevate ritrovata.  
«Oh, sì, la vostra presunta capacità di compiere miracoli. Sì, certo, come no». Commentò aspro il Guardiano. Si avvicinò alla Dea. Un ghigno di gioia perversa gli deformò il volto mentre ridendo protendeva le mani artigliate verso di lei: «Ho vinto io!» Gioì. Poi le tenebre dell’incoscienza ti catturarono.
A svegliarti fu il ruggito inumano. La terra tremò come durante l’esplosione di un vulcano. Un potentissimo Cosmo ardente soppiantò quello del vostro avversario e avvolse ogni cosa precipitandovi nel terrore più puro. Era pregno di sì tanta ostilità e furia, che vi fece gelare il sangue nelle vene. Era il Cosmo di un mostro assetato del sangue dei cadaveri di mille massacri. 
Sollevasti la testa per guardare la scena. Il cielo era rosso come se riflettesse le fiamme di un incendio gigantesco. Sembrava di essere finiti all’Inferno vero e proprio e il Guardiano della Casa di Marte sembrava il demone suo sovrano. Il Guardiano di mercurio lo salutò allegro: «Ma guarda chi si vede, fratello».
Il Drago Rosso si limitò a fissarlo in cagnesco, fremendo. Era la seconda volta che lo vedevi e, non avevi alcuna difficoltà a riconoscere che fosse la persona perfetta per custodire la Casa di Marte. Poi notò la Dea che lottava per sollevarsi da terra.
Gli occhi dell’essere si restrinsero in fessure roventi. Poi girò di nuovo la testa verso il fratello: «Come hai osato?» Gridò, furibondo.
Costui rise divertito. «Come, ti preoccupi per questa mocciosa che ci ha dato tanti grattacapi? Non dirmi che non avresti voluto ridurla così anche tu!»
«Questa mocciosa è mia figlia!» Rilevò adirato il Guardiano della Casa di Marte.  
«Davvero? Scusa tanto». Se ne uscì sorpreso e ridanciano il guardiano volpe, incrociando le braccia. «Lady Asia!» Urlò Shaka e tutti la guardaste. Era crollata al suolo e non si muoveva più.
Il Drago Rosso ululò rabbioso e liberò il Cosmo. L’onda d’energia fu così forte che ogni cosa s’incendiò. Tu e Shaka vi schiacciaste al suolo proteggendovi la testa con le braccia. Avevate già sperimentato la forza di un Guardiano ma non pensavate che avreste preso quasi letteralmente fuoco. Vi rotolaste in terra nel per spegnere le fiamme, scoprendo con orrore che anche le cloth avevano preso fuoco. Era impossibile! Non bruciavano così facilmente!
«Come hai osato?» Ringhiò.
Spegnesti le ultime vampe e lo guardasti. Desiderasti scomparire seduta stante: con quell’espressione bestiale e il fumo che gli usciva di bocca sembrava un drago.
Il fratello scoppiò a ridere - appena affumicato: «Su, andiamo, non essere così paranoico, sta benissimo, non le ho torto neanche un capello». Queste parole andarono ad alimentare la sua rabbia.   
Si spostò così rapidamente che non lo vedeste neanche e gli appioppò un violento gancio. Il Guardiano della Casa di Mercurio cadde KO. Il Drago Rosso soccorse l’Azona.
Shaka, ridotto anche peggio di te, cercò di strisciare da lei ma fu superato da una scia di fuoco che separò i tre. Il Guardiano Volpe si ritrasse immediatamente, scottato. Quando si era ripreso? Quando si era mosso? Smise immediatamente di ridere. Il Drago Rosso scomparve e ricomparve davanti a lui. Lo afferrò per il collo. Il fratello cominciò ad annaspare e scalciare. Gli occhiali gli caddero dal naso. «Lasciami, fratello». Implorò spaventato.
«Non sono tuo fratello! Non dopo quello che hai fatto!» Sibilò, più piano. L’altro capì di aver tirato troppo la corda. Sgranò gli occhi e - spaventato: «Perdonami, stavo solo giocando».
«Io no!» Digrignò denti di nuovo il mostro e un filo di fumo gli uscì dalla bocca. 
«Ti prego, possiamo parlarne…»
«Parlarne? Come? Con che coraggio dopo quello che hai fatto?»  
«No, hai ragione, non possiamo parlarne non possiamo parlarne, possiamo…» L’altro lo lasciò franare al suolo e il Guardiano Volpe raccolse gli occhiali.
«Fa silenzio! Tu adesso te ne torni alla tua Casa e ci resti. E una volta che sarà finita tutta questa storia, non voglio più rivedere la tua brutta faccia in giro per molto, molto tempo, è chiaro?!» Minacciò. Non aveva bisogno di proferire le minacce in questione: la distruzione che aveva portato era più che sufficiente.  
«Sì». Balbettò con un filo di voce, annaspando, prima di dissolversi.
Il Guardiano rimasto fece un respiro profondo per calmarsi. Le fiamme si spensero e anche il fumo che usciva dalla sua bocca scomparve. Poi tornò dalla figlia. Le sollevò la parte superiore del corpo dal suolo, le batté la mano su una guancia per svegliarla. La Dea batté le palpebre e riaprì gli occhi. «Padre?» Domandò perplessa, come se non ci credesse neanche lei. «Sì, sono qui.» confermò sollevato. La Dea svenne di nuovo.
Il genitore la depose a terra e fece leva sui suoi punti di pressione. Lady Asia gemette e cominciò a tossire. Solo allora il Guardiano si occupò anche di voi. Forò un polpastrello della figlia e vi passò una goccia del suo sangue dicendovi di berla. Obbediste e dopo qualche secondo il dolore che vi aveva attanagliato si dissolse e le vostre energie tornarono forti come prima. Tu e Shaka vi guardaste stupefatti: persino le vostre Cloth erano di nuovo integre. Poi, raccolse un’altra goccia e la lasciò cadere al suolo. Il sangue della Dea rigenerò tutta la zona e voi non tratteneste un moto di stupore.  
Restaste a vegliarla in silenzio finché non si destò. Battendo le palpebre, domandò: «Padre, allora sei qui, mi hai sentito davvero. Che è successo? Dov’è il…»
«É andato alla Casa di Mercurio, ora pensa a riposare».
La giovane chiuse gli occhi e mormorò: «Sì». Poi le carezzò la testa con una delicatezza inaspettata. Andò a recuperare la lama verde e il pugnale e glieli mise accanto. Restò tutto il tempo a vegliare su di lei, che riposava. «Si riprenderà?» Domandò Shaka, preoccupato.
Solo allora vi trapassò con i suoi crudeli occhi cremisi: «Cosa credevate di fare? Pensavate sul serio di proteggerla? Dovete essere fuori di testa». Vi rimbrottò. Ti sentisti rimpicciolire mentre la paura ti strizzava le viscere come fossero un cencio bagnato. Era solo grazie alla Cloth che non ti tremavano le ginocchia. Non avevate mai avuto a che fare con una creatura simile: superava in inquietudine e terrore persino Loki di Asgard e l’Hades intero. Quegli occhi non erano umani: quelli erano gli occhi di un drago infilato in un corpo umano. Provaste a spiegarvi ma non avevate giustificazioni per il vostro fallimento. «Cosa credevate di fare?» Vi chiese di nuovo.
«Lasciali stare». Biasciò la giovane ancora distesa a terra, beccandosi un secco rimprovero a sua volta. L’Azona non tacque: «Dico sul serio, sono sotto la mia responsabilità».
«Responsabilità un corno, ti rendi conto che non sei capace di proteggere nessuno?» Lei lo fulminò con un’occhiataccia: «Grazie tante per la fiducia, eh?» Il Drago Rosso parve essersi reso conto di ciò che aveva detto e si scusò. «Comunque grazie per essere venuto».
«Meno male che ti ho sentito e che avevo già dei sospetti.» e vi raccontò come gli erano venuti. Aveva percepito i vostri Cosmi e poi l’aveva sentita chiamarlo. Poi le disse che la Colomba Astrale e la Gazza Ladra erano già nei rispettivi Templi. Le domandò cosa stesse succedendo e perché non lo avesse informato. L’Azona sorrise divertita e rispose che sapeva che se l’avesse fatto gliel’avrebbe impedito. «E a ragione!»
Tu e Shaka vi scambiaste un’occhiata e arretraste di qualche metro. Non vi eravate mai sentiti così in imbarazzo e così di troppo. I due discussero ancora a lungo poi il Drago Rosso la salutò e scomparve. Solo allora vi riavvicinaste. Lady Asia era seduta, aveva le spalle rigide e una faccia rassegnata. «Milady», tentasti e lei ti guardò. Poi disse: «Su, riprendiamo».
Shaka chiese della Volpe. «É alla Casa di Mercurio, si può dire che il nostro compito l’abbiamo fatto, anche se per metà. Mio padre mi ha detto che l’Astronauta è ancora qui, forza, rimettiamoci in marcia».  Rispose. Ma quando si alzò impallidì e crollò di nuovo a terra.
«Milady!» Urlaste in coro.
Proprio in quel momento arrivarono anche le Creature.
 
Shiryu

L’esplosione di quei Cosmi tremendi l’avevate sentita tutti. Prima quello che aveva fatto vibrare la terra e ogni vostra cellula, poi quello che l’aveva fatta tremare. L’esplosione che aveva generato quell’onda di energia che vi aveva messo KO. Infine quello che vi aveva fatti svenire tutti.  
Se pensavi che non ci fosse niente di più grande del Cosmo di una Divinità ti sbagliavi. Ti rialzasti dolorante da terra e ti massaggiasti la testa. Che diavolo era stato? Non eri riuscito a capirlo. Aphrodite, che era accanto a te in quel momento, aveva commentato: «Io conosco questo Cosmo».
«Ah, sì? Di chi è?»
«L’Azona». Aveva detto in tono cupo.
«Chi?»
Aphrodite ti spiegò ogni cosa, non senza una buona traccia di rabbia nella voce. Esistevano entità di questo tipo e non ne eravate a conoscenza. Dovevate prepararvi a una nuova battaglia. Forse la più cruenta e sanguinosa di tutte quelle che avevate combattuto. E non eravate neanche al completo. Non che fosse un così grande problema, però ti domandavi se stavolta sareste bastati.
Dovevate ringraziare che i Marine di Poseidone se n’erano andati ignari. Ti domandavi solo quanto ci sarebbe voluto prima che anche loro si mettessero in azione.
Shunrei aveva accettato tutto passivamente, ormai c’aveva fatto il callo. Invece tu no. Eri preoccupato anche per Ryuho. La Dama degli Smeraldi incombeva sulla vita di tutti coloro che combatterono contro Mars e Pallas. Shura doveva essere contento considerando che Ionia era uno di questi.
Per questo trovavi che non fosse una pessima idea che tuo figlio si stesse sottoponendo a un allenamento intensivo. Anche Astrid si stava allenando. Nel tuo giardino ogni mattina all’alba da quando l’avevate processata prima dell’Ostrakon. Per questo le lasciavi sempre un bastone appoggiato al tronco del salice. Era una specie di gioco tra voi. Ti eri quasi abituato a sentirle allenarsi. Vero che non percepivi il Cosmo di Sole Piangente, ma quello di Paradox sì. Era stato basandoti sul suo che eri riuscito a capire cosa stessero facendo.  
Da un lato ammiravi quell’ancella. Ti ricordava una creatura dei boschi di cui abbondavano le leggende occidentali. Forse una fata dei boschi, te la saresti figurata.
A te non dispiaceva che qualcuno visitasse questo giardino. Pur essendo perfetto per meditare a volte lo trovavi tristemente vuoto.
Ma le brutte notizie non erano finite: le Creature nel loro sciamare a Est avevano mietuto delle vittime e Astrid non era riuscita a salvarle. Era stata la prima volta che i suoi poteri facevano cilecca e non sapevate ancora spiegarvi il motivo. Che ci fosse un limite di tempo entro cui agire? O che non avesse avuto sufficienti energie? Non sapevi neanche se l’onda che vi aveva travolto avesse avuto qualche effetto su di lei. 
La voce del Venerabile Shion ti strappò ai tuoi pensieri. “Ne sono morti ancora, eh?” Osservò tristemente. Come al solito la sua telepatia gli permetteva di comprendere in anticipo alcuni eventi. Era come se sul Santuario si fosse posato un presagio di morte e sventura.  “Forse è il momento per me di rientrare in servizio”. Annunciò l’anziano ex Gran Sacerdote e lo sentisti slacciarsi la benda. Assumesti un’espressione sbigottita. «Venerabile Shion?» Domandasti con il tono di chi non ha capito bene. “Shiryu, ho retto il Santuario per duecentotrent’anni. Ho combattuto in prima fila nelle Guerre Sacre per ben due volte, una delle quali come traditore. Sono stato io a sconfiggere Yoma di Mephistophele e a lanciare l’Anti-Spell quando le dimensioni hanno cominciato a fondersi. Non sono un giovanotto di primo pelo ma resto sempre un Cavaliere d’Oro, benché io non indossi più l’Armatura. Non me ne resterò con le mani in mano mentre i giovani muoiono. Mi sono riposato anche troppo, adesso è tempo di agire”. Quando raggiunse la Settima lo facesti passare.
Al ritorno, verso sera, ti annunciò che il Gran Sacerdote aveva acconsentito.  
In un secondo tempo scopristi che l’Ex Pontefice aveva convocato il Bronze Saint di Sculptor, di Fornax e quest’ultimi erano partiti per una missione in Jamir. Che aveva in mente il Venerabile?

In un secondo tempo Ryuho ti raccontò cosa era successo in infermeria. Castalia e Shaina erano state reintegrate in servizio e la maestra di Seiya aveva ripreso a lavorare in astanteria. Anche lei e Neera avevano portato i corpi all’obitorio della struttura. Lì c’era anche Astrid che era stata convocata per salvare i defunti in extremis. Ma non c’era riuscita ed era scoppiata in lacrime. Ryuho l’aveva messa seduta su una sedia. Astrid si era portata le ginocchia al petto, vi aveva affondato la faccia e aveva pianto. Il disastro era successo quando Neera aveva detto, in tono contrito: «Mi dispiace, nobile Castalia».
«Non è colpa tua». L’aveva confortata posandole una mano sulla spalla. Poi era andata a prendere la macchina fotografica per le foto che avrebbe inviato a Shun di lì a poco.
Astrid aveva rialzato la testa dalle braccia e l’aveva guardata. «Sei stata tu». Aveva mormorato. Poi la sua espressione si era accesa di odio rovente. Gli occhi non sembravano neanche umani. Si era alzata in piedi e aveva afferrato un lenzuolo candido del morto come se avesse voluto tirarlo via. Cominciò a fremere come una belva: «Sei stata tu! Tu li hai ammazzati!»
«Cosa? Ma di che parli? Sono state le Creature!» Aveva ribattuto la Saint sconvolta.
«Balle! Se fossero state le Creature io le avrei resuscitate!» Era sbottata Astrid.
«A volte i tuoi poteri fanno cilecca». Si difese la mora ma Astrid non demorse: «É impossibile! I miei poteri non fanno mai cilecca, a meno che qualcun altro non si metta in mezzo e agisca prima di me!»
«Era mai successo prima?» Le aveva chiesto Castalia e la bionda aveva risposto di no, che non aveva provato la volta scorsa, ma era sicura che fosse così. Alle tue orecchie le sue affermazioni persero immediatamente ogni credibilità ma continuasti ad ascoltare. Castalia allora le aveva domandato perché pensasse che la colpevole fosse lei. E Neera aveva continuato a ripetere che non aveva fatto niente e che era svenuta. Ma Astrid non le aveva creduto e aveva continuò a inveire: «Non mentire, una come te non sviene per un semplice bernoccolo!» Neera aveva cercato di ponderare la questione: «Magari i tuoi poteri hanno un limite di tempo». 
«No perché le stelle di Aphrodite non hanno subito cambiamenti!» Sbottò a sua volta.
A quel punto Ryuho s’era intromesso, che ogni tanto ne avevano parlato: «Cosa? Ma avevi detto…»
«Lo so quello che ho detto! Le stelle di Aphrodite non sono cambiate perché erano già luminose come fiaccole quelle che sono riuscita a ricreare». Spiegò.
«Non è quello che ho detto io». Fece notare la Silver Saint. 
«Ho sentito la cazzata che hai sparato! Sono io che ho questi poteri, so io come funzionano, non tu!» Sbottò l’altra sporgendosi verso di lei, le mani improvvisamente lucenti di un alone bronzeo. La Sacerdotessa-Guerriero s’irrigidì e arretrò di un passo, alzando le mani per difendersi. Castalia si spostò istintivamente la compagna d’arme dietro le spalle. Ryuho invece scattò in posizione d’attacco ma neanche questo bastò a fermarla. Che Astrid esclamò: «Allontanati da lei! É pericolosa!» La fissava come se fosse stata un mostro da abbattere. 
«Non è vero!» Pigolò Neera, spaventata dietro di loro.  
«Adesso calmati, Astrid! Calmati subito o dovrò chiederti di uscire!»
«No che non mi calmo! Stai proteggendo un’assassina, scostati!»
«Astrid!» L’avevano richiamata.
«Non voglio combattere con un’amica, Castalia». Aveva minacciato.
«Nobile Castalia…» Squittì la Silver alle tue spalle e quella vocina e il Cosmo spaventato di Neera le avevano fatto prendere la sua decisione. «Vattene!» Astrid la guardò come se non la riconoscesse. Provò a protestare ma tu non glielo permettesti: «Esci!» Ripetesti perentorio. Astrid non si mosse. «Esci subito da qui!» Ripeté la maestra di Seiya fissandola negli occhi. Non immaginavi che avesse un temperamento focoso. Non dovesti neanche attendere troppo per capire a quanto potesse spingersi. Ti bastò attendere quella sera stessa. Quando udisti il Cosmo spaventato di Neera dare battaglia a qualcuno nella Quinta Casa. Quando accorresti vedesti Aiolia cercare di separare le due. Ma non era Neera a dare problemi, era Astrid, che stava cercando di opporsi alla telecinesi di Aiolia e urlava come un’indemoniata: «Lasciami, lasciami andare! Lei sta rubando dei documenti da queste Case! É lei l’assassina, lasciami!» Neera urlava a sua volta che non era vero e cercò il tuo sostegno mentre Aiolia lasciò la presa e, spostandosi alla velocità della luce, riuscì a darle un colpo alla nuca e tramortirla. Astrid svenne e Aiolia la portò via. «Mi occuperò io di Astrid. Neera, ritieniti sotto la mia protezione».

Milo
Il terreno ai tuoi piedi era pieno di cenere. Il vento ululava prepotente attorno a te smuovendoti vestiti e capelli. Un brivido scosse le tue membra. Conoscevi questo posto, era il corridoio di passaggio tra i due Mondi. Tu non avevi dimenticato niente della tua resurrezione e quel suono, quella sensazione che il terreno sotto di te si disfacesse, te la portavi impresse a fuoco nei tuoi sensi. Soprattutto nel tatto e nell’udito. Stavolta era l’olfatto a non rispondere. Non c’era odore di putrefazione. Ti guardasti attorno e la nebbia si diradò. I cadaveri decomposti si trasformarono in terra. Mano a mano che la nebbia arretrava scoprivi le lapidi del cimitero che un tempo ospitò anche il tuo vuoto sepolcro. Ma non era quel luogo, era la Tredicesima Casa, ridotta a un cumulo di macerie. I refoli di vento sollevavano coriandoli grigi e polveri tutto attorno a te. Fu così che scopristi di stare respirando i resti del Santuario.   
Apristi gli occhi e balzasti a sedere madido di sudore.
Ti portasti le mani alla fronte recuperando il contatto con la realtà. «Era un sogno, solo un sogno». Mormorasti a te stesso per tranquillizzarti. Ma era difficile. Ti alzasti, sentendo l’aria farsi pesante. Ti vestisti e uscisti. Salire fino all’Undicesima non ti era sembrato il caso. Non con Hyoga qui. Finché la Dea non avesse deciso di tornare a Tokyo non avresti potuto fare alcunché. 
Visto che non avevi niente da fare, ti vestisti e decidesti di fare una camminata a passeggiare per il Santuario. I confini erano abbastanza larghi, una ventina di chilometri e coprivano un’area che andava dalla costa fino alle montagne. L’Acropoli era solo la porta d’ingresso.
Oh, come avresti voluto tornare all’isola che ti aveva dato il nome. Lì sì che stavi bene. Se solo questa situazione si fosse risolta in fretta.
Forse ti avrebbe fatto bene scendere alla spiaggia. Ma, per quanto bella fosse, non sarebbe mai somigliata a quelle della tua isola. Quell’isola che quando c’era il sole illuminava l’acqua. L’isola con quel paesino di pescatori dove avevi preso casa. L’isola che ti evocava le atmosfere rilassate di Down under dei Men at Work o di I won’t let the sun goes down on me di Nick Kershav. Nonostante le tematiche trattate. Che c’erano delle volte che ti sentivi rilassato nella tua bella isoletta, a guardare le onde del mare o a prendere il sole in spiaggia, in tempi di pace. Checché ne dicessero le persone, tu eri più rilassato di quanto sembrassi.
La spiaggia di notte fa un effetto molto diverso, soprattutto in primavera. Soprattutto qui, al Santuario. E ora era troppo tardi per mescolarsi alla movida ateniese che cominciava a ripopolarsi di turisti. Di fumare non se ne parlava, di sbronzarti ancora meno e di vedere paesaggi naturalistici che, nell’ombra della notte sembravano appartenere a un’altra realtà, non ti sentisti.
Quella sera, con la coda dell’occhio, mentre uscivi, scorgesti una luce per i sentieri delle montagne. Sulle prime avevi pensato di esserti sbagliato, ma, guardando bene c’era davvero. Così, la seguisti.
In breve tempo, dopo aver risalito le Case, ti ritrovasti a passeggiare sui sentieri impervi. Avresti potuto placcare il fuggiasco in un battibaleno ma non lo facesti. E non solo perché a un tratto lo perdesti di vista. «Maledizione». Borbottasti infilandoti una mano nella chioma prima di cominciare a frugare la montagna in lungo e in largo.
Erano le tre del mattino quando ti arrendesti, anche se per niente stanco. L’ addestramento ti aveva reso molto più resistente di una persona comune. E volevi trovare l’idiota che si aggirava per le montagne a quest’ora. Era sicuro come l’oro che non fosse uno dei vostri sottoposti, nessuno metteva mai piede tra le montagne di notte. Neanche gli Specter furono così avventati.
Sulla via del ritorno, quando ormai ti eri convinto di esserti immaginato tutto, scorgesti la luce. O meglio, a farti voltare in quella direzione, fu l’odore di legna bruciata.
Seguendo quell’odore vedesti anche la luce rosseggiare tra le rocce situate una decina di metri più in alto, vicine al sentiero. “Ecco perché è sparita”. Pensasti. Dopodiché la seguisti e, fu così che trovasti una piccola conca circolare tra le rocce e il terreno, dove era pure riuscita a crescere l’erba e qualche arbusto, dal diametro di circa cinque metri. Lo spiazzo non era completamente pulito, infatti c’erano molte rocce di varie dimensione a rendere il terreno molto simile a un percorso a ostacoli. Tra cui, vedesti, un tavolino di quelli pieghevoli con tanto di sedia sotto un’altra cerata.
Una grossa roccia piatta a tre metri dal focolare fungeva da tavola e, anche da pedana. Era addossata alle altre tramite altre rocce più piccole.
Il centro esatto era illuminato da un falò che risplendeva nella notte scoppiettando e mandando scintille al cielo. A un metro di distanza c’era una cerata sistemata su un’impalcatura che fungeva da tenda di fortuna per Astrid. La ragazza era seduta sotto la tenda ed era illuminata dalla luce del focolare e da quella, più vicina, della lucerna.
Il fuoco sospettavi l’avesse acceso per scaldarsi, nonostante la giacca a vento e i vestiti pesanti che indossava. E come darle torto? La notte era molto fredda a quest’ora. Però non ti aspettavi che Astrid, zitta zitta, avesse costruito tutto questo. A te invece questo privilegio, durante l’addestramento, non ti fu neanche concesso, ricordi? Dovevi diventare uno scorpione in tutto e per tutto, secondo quel pazzo del tuo maestro. Lo prendesti come una sfida e come un gioco, nonostante il dolore dell’allenamento e del veleno dello scorpione che ti veniva iniettato nelle vene per aumentare la tua resistenza. La sfida consisteva nel resistere fisicamente e assorbire il veleno nel Cosmo, per rilasciarlo poi nella Cuspide Scarlatta. Solo adesso riuscivi a vederne la crudeltà e l’estremismo. Non avevi avuto neanche il conforto di un riparo, né uno zaino come quello che lei si era portata dietro e che ora era adagiato alla sua destra. Ti prendesti la mano destra nella sinistra e la massaggiasti come tante volte avevi fatto nella tua infanzia per lenire il dolore.
Tornasti a guardarla e assottigliasti gli occhi: cercava di aggiustare un cannocchiale? «Oh». Ti sfuggì sorpreso, quando realizzasti che cosa si trattasse.
Lei trasalì e drizzò la testa di scatto smettendo di armeggiare. Gli occhi grandi e spalancati.
Poi ti riconobbe e si rilassò. «Mi hai spaventato». Ti accusò. Ti ficcasti le mani nelle tasche della giacca. «Scusa, pensavo mi avessi sentito arrivare».
«No, non ti avevo sentito, come sapevi che ero qui?»
«Non lo sapevo, ho solo visto una luce e l’ho seguita. É bello, qui». Dicesti, tanto per dire qualcosa, dopo aver lasciato vagare lo sguardo sul panorama.
«Grazie e scusami, non era mia intenzione allarmare il Santuario».
«Non hai allertato nessuno a parte me. Sembra quasi lo Star Hill». Commentasti. Quasi, eh.
Un sorriso divertito le curvò gli angoli della bocca: «Perché, ci sei stato?»
«No, io», sentisti le tue guance scaldarsi mentre ti raddrizzavi e ti cingevi una gamba con un braccio, «non sono degno di salirci. Solo chi ne è degno e il Grande Sacerdote possono scalare quella montagna e scrutare il moto degli astri. Tu invece, cosa ci fai qui?» Ti rispose che veniva a osservare le stelle. Visto che neanche lei poteva salire sullo Star Hill si era dovuta accontentare. E poi non poteva tenere gli attrezzi nella sua stanza. Ah, quindi era a questo che servivano le sue gite domenicali? «Perché non puoi?» Lei ti spiegò perché e aggiunse che: «Mi serve una visuale a trecentosessanta gradi. Questa conca è perfetta, le rocce poi riparano dalla corrente».
«Non ci potresti venire di giorno?»
«Di giorno non ci sono le stelle. Vengo qui anche per fare il conto non delle stelle, quelle non posso contarle, ma delle costellazioni, così posso capire chi c’è ancora e…» La voce le morì in un decrescendo.  
«Ho capito ma non potresti lavorare a queste cose di giorno?» Ti rispose che di giorno lavorava come ancella e anche per Shura e Saga. Disse anche qualcosa sui colleghi che lasciasti perdere. Ma restasti di stucco quando disse che Kanon avrebbe potuto buttare all’aria il Santuario se fosse sparita. Che esagerata! Ma ora non avevi voglia di parlarne. «E così te la svigni».
«Sì e no». La guardasti confuso e lei spiegò, più chiaramente: «Non so se si possa definire svignarsela cercare un po’ di tempo per sé stessi o un posto in cui starsene un po’ in pace. E poi non sono mai uscita dai confini del Santuario per cui, non credo che il mio sia uno svignarsela a tutto tondo. Credo che somigli più a un uscire in giardino». Alzò le spalle.
«Alla faccia del giardino!»
«Eh, che pignolo, vieni qua sotto che c’è la guazza». T’invitò poi accennando all’impalcatura con la cerata a fare da tetto, rischiarata dalla lanterna. «Dai che se no ti becchi il raffreddore». Aggiunse a fronte della tua occhiata scettica. Come se tu avessi dovuto avere paura di un po’ di muco o del naso tappato. Però non ti costava niente accontentarla. Dopotutto erano sere che non avevate una conversazione civile. Perciò obbedisti, anche se dovesti abituare la vista al chiarore della lampada a olio. C’era anche un bel tepore qui sotto, vero? “Non tanto, dovrebbe sistemare meglio la tenda, sento uno spiffero alle zone basse”. «Fai attenzione, per favore, c’è tutta la mia roba sparsa in giro». Si raccomandò. Parlaste un po’della questione di Neera e volle sapere cosa ne pensassi. Le dicesti la verità. Secondo te aveva esagerato, però era stato un bello spettacolo: non avevi mai visto il gattaccio tanto in difficoltà. Avrebbe dovuto farlo più spesso. Ma se c’era anche solo un filo di verità nelle sue convinzioni, allora doveva impegnarsi per dimostrarlo e non così. Non le facesti la paternale, non ne aveva bisogno e non t’importava.
Ti dette ragione. Poi tornò ad armeggiare col cannocchiale. Osservasti i suoi movimenti e poi le domandasti che cosa stesse facendo. «Sto cercando di regolare le lenti, purtroppo quando ci guardo dentro vedo tutto sfocato; ed è già un miglioramento, prima non si vedeva niente, ora spero che con questo ci riuscirò».
«Non sei molto brava a costruire cannocchiali, eh?» La prendesti in giro. Curvò la bocca in un sorrisetto divertito. «No, in realtà per niente, è la prima volta che ci provo». La guardasti stupito. Adesso si spiegava perché fosse così rozzo alla vista. Non male ma tu, sì, tu, non fare il gradasso, tu non avresti neanche saputo da che parte cominciare.
«Lo so che non è un granché, ma piano piano conto di sostituire i pezzi e renderlo decente».
«Comprarsene uno no?» Domandasti sistemandoti sul fianco.
Lei alzò le spalle mentre continuava ad armeggiare con il cannocchiale. «Avevo chiesto di usare la Bronze Cloth del Telescopio ma non mi hanno ascoltato». E così si era arrangiata. Chiedesti se potevi fare qualcosa per aiutarla e lei disse di no, poi ci ripensò. «Dammi una mano a collaudarlo quando ho finito». Ribatté continuando ad armeggiare con l’oggetto. Quando finì uscì dalla tenda. La imitasti e seguisti le sue istruzioni. Le raddrizzasti il treppiedi e glielo apristi. Poi lei ci posò sopra il cannocchiale e, mentre lo assicurava sull’impalcatura, finalmente comprendesti: «Ma è un telescopio!» Un sorriso divertito per la serie: “Finalmente ci sei arrivato”, curvò la sua bocca. «Perché non me l’hai detto subito?»
«E perdermi quest’espressione sbigottita? Giammai». Rise. Incassasti scoccandole uno sguardo severo. Tornasti a guardare lo strumento, confuso e le chiedesti dove avesse trovato il tempo e i materiali. Ti rispose che era successo poco prima di portare Saga in terapia. E che Mur e Lancelot l’avevano aiutata. Aveva faticato moltissimo a trovare le lenti giuste. Che i suoi le avevano insegnato a costruire questi e altri oggetti. «A proposito, di giorno quando ho un momento libero, preferisco ripassare tutto quello che so sull’astronomia. Meno male che la biblioteca della Tredicesima è molto fornita, peccato che sia...» cercò il termine giusto, «datata».
«Datata?»
«Sì, datata, per esempio non ha Le mie risposte alle grandi domande di Stephen Hawking o Dal Big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, sempre dello stesso autore, oppure L’altra faccia dell’universo di Luca Amendola, ma anche l’Atlante di astronomia.  Pensa che sto ancora aspettando che escano i volumi di mio nonno».
«Tuo nonno scrive libri? Non sapevo che gli astrofisici li scrivessero».
«Più che altro dissertazioni, dispense e appunti. L’ultima volta che l’ho sentito aveva detto che stava lavorando a una nuova  raccolta; l’aveva intitolata Scrigni del Tempo. Credo che fosse una raccolta su uno scrigno di pianeti e qualcosa sulla teoria delle stringhe e della relatività».
«Eh?» Domandasti, adesso completamente smarrito. Di che diavolo stava parlando?
Astrid si girò a guardarti e scoppiò a ridere, divertita: «Hai la stessa faccia di Saga quando mi metto a ripassare tutto quello che so. Devi sapere che esistono fenomeni spaziali noti come scrigni di gioielli e scrigni di pianeti. Gli scrigni di gioielli sono ammassi stellari aperti, come quello NGC Quattromilasettecentocinquantacinque presente nella costellazione della Croce del Sud. Se fossimo nel punto giusto del globo e, avessimo gli strumenti adeguati, te lo farei anche vedere, ma dovremmo accontentarci».
«Quindi gli scrigni di pianeti sono...»
«Per spiegartelo dovrei ripartire dalla Costellazione del Toro che, per nostra sfortuna, non è visibile in questa stagione».
«Sembra lungo». Commentasti.  
«Ma è abbastanza interessante». Ti assicurò con occhi brillanti. In realtà non te ne importava quasi nulla ma già che c’eri, decidesti di sentirla. Anche perché lei sembrava non stare più nella pelle per parlartene. Lei ti fece cenno di avvicinarti mentre regolava il telescopio.
Obbedisti, roteando gli occhi: «Ebbene miliardi di anni fa, il nostro Sistema solare era un turbinio di gas e polveri che ruotava intorno al nostro Sole appena nato. Nelle fasi iniziali, questo cosiddetto disco protoplanetario non aveva caratteristiche specifiche, ma presto parti di esso iniziarono a fondersi in gruppi di materia, i futuri pianeti. Con il tempo il disco polveroso lasciò il posto alla disposizione relativamente ordinata che noi conosciamo oggi. Questo scenario di formazione del nostro Sistema solare è stato ricostruito dagli scienziati in base alle osservazioni di dischi protoplanetari attorno ad altre stelle, abbastanza giovani da essere in questo momento nel processo di formazione planetaria. Utilizzando A.L.M.A.».
«Utilizzando che?» Domandasti cercando di seguire il filo dei discorsi.
«É l’acronimo di Atacama Large Millimeter Array, è un radiointerferometro situato a cinquemila metri d’altitudine nel deserto di Atacama in Cile, è stato costruito sei anni fa. É uno strumento astronomico derivato da più radiotelescopi che serve a determinare posizione e struttura geometrica e fisica delle radiosorgenti».
«Radio, per caso funziona con le onde radio?» Domandasti, sperando di averci azzeccato. Tu l’unica cosa che sapevi legata alla radio era quella a transistor che avevi portato al mercatino dell’usato prima che cominciasse tutta questa storia.
«In definitiva sì, le osservano. Dicevo, è composto da quarantacinque antenne radio e situato nel deserto di Atacama in Cile, che nome per un telescopio, eh? Il gruppo di ricercatori ha eseguito un’analisi di giovani stelle nella regione di formazione stellare del Toro, una vasta nube di gas e polveri situata a quattrocentocinquanta anni luce da Terra. Ora sia chiaro, con questo telescopio non pretendo di arrivare a vedere così lontano, ma a mostrarti qualcosa di altrettanto stupefacente sì, con un po’di fortuna. A parte questo, osservando l'emissione della polvere di trentadue stelle circondate da dischi protoplanetari, i ricercatori hanno scoperto che ben dodici mostrano anelli e divisioni, strutture che hanno interpretato come tracce dalla presenza di pianeti nascenti. Scrigni di pianeti. «Solo che mentre alcuni dischi protoplanetari appaiono uniformi, come dei "blob" privi di strutture interne, in altri erano già stati osservati anelli luminosi concentrici separati da divisioni. Poiché gli studi precedenti si erano concentrati sulle stelle giovani più brillanti, che sono le più facili da osservare, non era ancora chiaro quanto questi dischi con strutture ad anelli fossero davvero comuni nell'Universo. I risultati di questa ricerca sono quindi i primi a essere statisticamente significativi proprio perché i dischi oggetto delle osservazioni sono stati selezionati indipendentemente dalle loro proprietà. Ora, studiando le caratteristiche degli anelli e delle divisioni osservate con A.L.M.A. alla ricerca di possibili spiegazioni alternative, gli scienziati hanno potuto escludere che tali strutture potessero essere il risultato di effetti dipendenti dalle proprietà stellari, come ad esempio le ice lines, confermando quindi la presenza di pianeti appena nati quale origine più probabile di queste affascinanti formazioni. I calcoli effettuati. per avere un’ idea della tipologia di pianeti che potrebbero formarsi nella regione di formazione stellare del Toro, hanno dimostrato che gran parte degli anelli sembrano causati da pianeti gassosi delle dimensioni di Nettuno o delle cosiddette super-Terre. Solo due dei dischi osservati potrebbero potenzialmente ospitare pianeti giganti come Giove. Secondo una ricercatrice in dischi protoplanetari strutture come anelli e cavità, cioè gli spazi vuoti, sono molto comuni e, le strutture osservate nel Toro, dovute alla presenza di pianeti di piccola massa, operando insieme ad altri processi, producono queste affascinanti strutture. Un collega dei miei aggiunge che l'osservazione della morfologia dei dischi potrebbe affermarsi come una nuova metodologia per rilevare la presenza di pianeti attorno a stelle giovani, complementare agli studi sui pianeti extrasolari che in genere si concentrano su stelle adulte, dell'età del Sole. Inoltre questo metodo permette di osservare pianeti altrimenti non rilevabili, in quanto troppo poco massicci e troppo lontani dalla loro stella
«
Ho letto che in futuro, il gruppo di ricerca intende modificare la collocazione delle antenne di A.L.M.A. per ottenere una maggiore risoluzione e osservare strutture su scale dell'ordine della distanza Terra-Sole, rendendo le antenne sensibili a grani di polvere più grandi, ci pensi?» Domandò entusiasta, guardandoti di nuovo. Forse dimentica che per te queste informazioni erano solo arabo. Eppure l’aveva raccontato in un tono talmente entusiasta che era riuscita a stupirti. Non pensavi che bastasse così poco per vederla tanto eccitata. «Non immaginavo che una domanda così semplice richiedesse una risposta tanto articolata».
Lei rise divertita poi tornò seria e si offrì: «Se c’è qualcosa che non hai capito provo a rispiegartelo».
«Eh, in realtà mi dovresti rispiegare quasi tutto». Ammettesti confuso e imbarazzato. Lei ridacchiò e ti accontentò, parlando più terra terra. «Che cosa sono le ice lines?» Domandasti poi. Questo termine ti aveva preso da subito. «Puoi anche chiamarle limite della neve. Identificano la particolare distanza dalla giovane stella centrale all’interno di una nebulosa protoplanetaria, in cui la temperatura è sufficientemente bassa da permettere ai composti contenenti idrogeno, come acqua, ammoniaca e metano, di raggiungere lo stato solido». Il cuore dette un colpo più forte degli altri. “Camus.” «La locuzione è presa in prestito dalle scienze della Terra, indica la profondità alla quale solitamente una falda acquifera si suppone congeli; profondità di congelamento o...»
«Frost line». Mormorasti. Ora capivi perché il Gold dell’Undicesima padroneggiasse le tecniche del ghiaccio.
Ma se Astrid sapeva queste cose e aveva questi poteri allora… «Quindi potresti persino replicare le tecniche di Aquarius?» Domandasti a metà strada tra lo speranzoso e il preoccupato. Da un lato ti sarebbe piaciuto che anche lei le conoscesse, dall’altro, volevi conservare il ricordo di Camus.
Improvvisamente ti sentisti in colpa nei suoi confronti. Come avevi potuto sperare di trovare qualcosa di Camus in lei? Il senso di colpa si trasformò in vergogna e sentisti il bisogno di andartene. Ma qualcosa ti fermò: non potevi piantarla in asso. Vi trovavate entrambi sulle montagne che circondavano il Santuario. Non erano sicure di giorno, figuriamoci di notte. E se fosse caduta? E se si fosse persa? Impossibile, non era un’imbecille.    
Cominciasti a pensare a delle scuse per levare le tende da lì. Questa conversazione stava diventando troppo pesante per i tuoi gusti. «Ho i miei dubbi». Rispose dubbiosa. La risposta ti spiazzò.  «Perché?» Chiedesti.
Appoggiò una mano sul telescopio. «Per prima cosa non so neanch’io l’esatta portata dei miei poteri, seconda cosa, non m’interessa e, terza cosa, la mia sembra essere più magia che una tecnica. Per replicarla mi serve di diventare la Gold Saint di Aquarius».
Te la immaginasti in Armatura e non che le stesse male, ma puntava parecchio in alto: «Ma non è mica necessario, basta anche essere un Bronze Saint, come il Cigno o la Corona Boreale». Ridacchiasti.  
«Ah, sì? Non lo sapevo, comunque, guarda un po’e dimmi se non è uno spettacolo affascinante».
Guardasti anche tu e non potesti trattenerti dall’aprire la bocca, stupito. Stavi osservando una stella in tutto il suo splendore. Non immaginavi che quei puntini biancastri fossero composti da così tanti colori. Bianco, giallo, rosso e azzurro con tocchi di verdi che si mescolavano tra loro come lingue di fuoco. La corona dorata.
Era come se Astrid ti avesse mostrato il buco della serratura da cui potevi intravedere tutto l’Universo. Pura perfezione, poesia assoluta. Non avevi mai pensato di indulgere in questi piaceri, di fermarti un attimo e di scrutare il cielo per il semplice gusto di farlo. Neanche da piccolo. Eri troppo distrutto per arrivare a sera senza crollare addormentato e, anche di sera non era facile, considerato che di notte, fa freddo ovunque ci si trovi. Specialmente se il tuo addestramento avviene all’aria aperta. In quei momenti puoi fare quello che vuoi, ma le stelle saranno le ultime cose che guarderai.  «Oh, ma è…»
«Bellissima, vero?» Domandò orgogliosa, neanche l’avesse creata lei. Convenisti con lei, ancora in tono estasiato. Ora riuscivi a capire perché avesse sempre il naso per aria e perché uscisse di notte. Non pensavi che una singola stella potesse essere tanto bella. Se una era così, allora chissà com’erano tutte le altre.
«Dammi una mano a spostare il telescopio che ti faccio vedere un’altra cosa». Ti staccasti da quella visione e le desti una mano a spostarlo. Più volte doveste modificare l’angolazione e lei dovette controllare che si vedesse bene. Poi si fermò sopra una roccia piatta e abbastanza grande per ospitarvi entrambi. Adesso eravate talmente concentrati che il vento che spirava dolcemente passarono in secondo piano.
Quando controllò di nuovo si aprì in un sorriso soddisfatto: «Sì!» Poi si tolse e ti cedette il posto.
Così tu ti ritrovasti a guardare la stella più strana che avesti mai visto. Che diavolo era? Perché sembrava tagliata a metà? «Che cos’è?» Chiedesti perplesso.
Lei ti rispose sorridente: «Saturno».
Sgranasti entrambi gli occhi avendo per un secondo la bizzarra visuale del pianeta e della notte circostante. Chiudesti un occhio. «Sul serio?» Domandasti, la voce permeata del suo stesso entusiasmo, girando la testa verso di lei. Era la prima volta che avevi l’occasione di vedere un pianeta del Sistema Solare così da vicino. Non che fosse mai stato un tuo sogno, eppure, sentisti il bisogno di continuare a osservare e osservare ancora. Oh, ma in che mondo eri vissuto finora?
«Oh, sì». Sorrise, poi sentisti il suo sorriso scomparire dal suo tono di voce, quando parlò in seguito: «Mi dispiace solo che il mio telescopio sia così rozzo; con uno normale non avrei tutti questi problemi». 
«Non fa niente, tanto ci vedo ancora bene». Per fortuna non avevi bisogno di chinarti troppo per guardare nel telescopio.   
«Sei sicuro?»
«Assolutamente, ho una vista da falco. Perché sembra che sia tagliato?»
«Oh, a seconda della sua posizione lungo l’orbita solare, gli anelli si mostrano sotto angolazioni diverse, per la combinazione dell’inclinazione dell’asse del pianeta e della sua orbita rispetto alla nostra. Per due volte, durante la rotazione di Saturno attorno al Sole, gli anelli ci appaiono di taglio e, poiché sono davvero sottili, scompaiono alla vista». La guardasti e ti accorgesti che i suoi occhi brillavano di scaltrezza, come se non avesse ancora finito. Infatti se ne uscì con un sorprendente: «Quello che non sai è che Saturno è a colori». Le facesti eco a metà tra lo stupito e il “perché, dovrebbero essere in bianco e in nero?” «Non vivaci come quelli di Giove, però è caratterizzato da sfumature tenui. Le bande sono meno marcate, forse per la minore frequenza di formazioni nuvolose che si generano a maggiore profondità o per la presenza di idrocarburi negli strati più esterni. Comunque dovrebbe essere azzurro con bande rosse tenui e gialle, tutte sfumate e gli anelli sembrano d’oro». Non immaginavi che fosse così.
Una gelida brezza soffiò in quel momento, costringendola a stringersi nei vestiti pesanti. A te non disse niente. «Io conosco soprattutto la mitologia, neanche troppo bene, a essere sinceri». Ti avevano insegnato a riconoscere la stella polare. Non che ti servisse altro, l’isola di Milo era pur sempre un’isola di pescatori in mezzo al mare. Poi non esisteva che un Gold si perdesse.  
«É una buona cosa». Ti sorrise incoraggiante.
Scoppiasti in una risata amara: «Non saprei, per me queste leggende sono reali. Tornano utili, se per caso un giorno ti capita di dover affrontare il Minotauro, o chissà quale altro mostro. Ma nella vita di tutti i giorni…» Alzasti le spalle.   
«Non è inutile è pur sempre qualcosa da raccontare. Lo sai? Se avessi deciso di terminare gli studi, probabilmente al quarto anno io mi sarei data alla divulgazione scientifica».
«Ti ci vedo, saresti stata molto brava». Un’ombra passò sul suo volto. Non era questa la reazione che ti saresti aspettato. Facesti per aprire bocca e domandarle se stesse bene, magari dirle che non intendevi offenderla, ma lei ti sorrise di nuovo: «É la stessa cosa che mi dicono anche i miei ragazzi».
«I tuoi ragazzi?» Ripetesti confuso. Ti spiegò chi fossero, i ragazzini cui dava ripetizioni. «Oh, si usa ancora studiarle?» Chiedesti sorpreso. La Divina Atena aveva fatto le cose in grande se l’aveva trasformata in una scuola a tutto tondo. Prima tutto questo non ti aveva mai sfiorato la mente, adesso invece non facevi che pensarci. «Perché, tu non le hai studiate?» Domandò andando a riavvivare il fuoco.
«Un po’ così. Credo di avere appena la licenza elementare, ma per quello che mi può servire mi basta. Dopo tutto noi Saint abbiamo una vita abbastanza semplice, ci accontentiamo di poco». Spiegasti portandoti una mano sul fianco e alzando gli occhi alla stellata lucente.
Il rumore del ciocco che veniva gettato nel falò ti fece voltare verso di lei. Si occupò del fuoco finché non tornò a risplendere di una bella fiamma viva. Il chiarore non riusciva a raggiungervi, perciò la visuale era ancora buona. Il calore poi, ti arrivava a malapena. «Allora è già tanto, ti ricordi com’era la scuola?» Ti chiese scaldandosi un po’ al tepore delle fiamme scoppiettanti.
«Dura, non so come sia adesso, ma i nostri insegnanti erano molto severi con noi. Soprattutto con noi dodici. Ognuno di noi è stato allevato e istruito da un maestro in vari angoli del globo. Io per esempio, sono stato addestrato nella mia isola natia, l’Isola di Milo, che mi ha dato il nome. La maggior parte del nostro addestramento è tutta improntata a farci sviluppare il Cosmo e raggiungere il Settimo Senso il prima possibile. Al mio non importava granché che io avessi una cultura, si limitava a lasciarmi qualche ora libera tra un pasto e l’altro perché potessi svagarmi e giocare un po’. É stato solo dopo aver conquistato la mia Cloth che sono potuto venire qui e imparare qualcos’altro e, comunque, non sarei capace di fare calcoli complessi. Quelli spettano solo ai Cavalieri di Aquarius e di Gemini».
«Perché?» Chiese tornando da te e girò il telescopio in un’altra direzione, prima di tornare a osservare. Ti fece capire che continuava ad ascoltarti. «Perché il primo manipola le energie fredde e, per forza di cose, deve studiare fisica per riuscirci. Il secondo per riuscire a sfruttare le tecniche come l’Another Dimension, deve approfondire i suoi studi. Con Saga e Kanon, per esempio, potresti parlare tranquillamente di fisica e astrofisica senza problemi. Con me e gli altri, no, a meno che non t’interessi sentirmi parlare in lingue diverse».
Lei fischiò, ammirata. Poi chiese: «Quindi per sfruttare le vostre tecniche vi basate su una disciplina?»
«Boh? Non ne ho la più pallida idea. Se devo essere onesto credo che tutti siamo stati addestrati almeno alla biologia e all’anatomia umana e a calcolare. I più bravi erano Mur e Shaka». Le spiegasti chi fosse quest’ultimo.
Un ricordo sbiadito ti balenò in mente. Ti accigliasti e ti prendesti il mento tra pollice e indice. «Però… mi ricordo che c’era un aspirante Saint, che ci ha insegnato i rudimenti della matematica. Non ricordo più la sua faccia, è passato tanto tempo. Ricordo solo che ero la sua dannazione perché non riuscivo neanche a fare un’addizione decentemente e, spesso l’avevo fatto dannare perché marinavo le sue lezioni». Un sorriso divertito incurvò la tua bocca e, Astrid, a giudicare dalla sua espressione divertita, non ebbe alcuna difficoltà a crederti. «Credo che fosse un aspirante Gold Saint perché, anche quando usavo la velocità della luce per sfuggire alle sue grinfie mi anticipava sempre e riusciva catturarmi».
«Sempre da solo?»
«Sì, per quello che ne so. Ricordo di aver provato a carpire il suo segreto ma di non esserci mai riuscito, era come se fosse dappertutto. Mi domando se non fosse una sua peculiarità o una sua tecnica». Già, i primi tempi finiva sempre che ti caricava in spalla come un sacco di patate e ti costringeva a tornare a studiare sotto le risate di Aiolia. Eravate stati costretti a studiare insieme tutte le estati che i vostri maestri vi portavano al Santuario per discutere dei vostri progressi.
E inevitabilmente, finivate tra le grinfie di quest’aspirante Saint che, non solo provvedeva a fornirvi l’istruzione che vi mancava, ma anche a riacchiapparvi. Le tue convinzioni si rafforzarono perché ripensandoci, ignorava le tue proteste: “Io sono un Gold Saint! Io sono il Gold Saint dello Scorpione! Lasciami! Mettimi giù! Mi devi il rispetto che mi merito!” Ricordi come ribatteva? “Ah, sì? Molto piacere. Sarai anche un Gold Saint ma sei ancora un bambino e come tale ti tratto”.
“Non è vero! Tu sei cattivo! Solo perché sei grande e grosso non significa niente! Io posso distruggerti solo con un dito”. Lo minacciavi sputacchiando a causa della finestrella tra i denti da latte.
Ma queste parole non gli facevano né caldo né freddo. “Sì e poi hai pensato a cosa dire al Vecchio Shion? Perché è stato lui a incaricarmi di darvi un’istruzione e non me ne andrò finché non avrò completato il mio lavoro. Inoltre non credo che sarà felice di sapere che hai ucciso il tuo maestro e compagno d’arme. Non lo sai che è proibito per legge?” Era riuscito a zittirti. Non avevi trovato scappatoie e ti eri dovuto arrendere.
Tuttavia era una brava persona perché, pur di non farti perdere la faccia, ti metteva giù e ti spronava a camminare davanti a lui.
La cosa buffa era che più che le facce ti ricordavi il paesaggio. Le giornate di sole, il candore delle rocce e l’intensità dell’azzurro risaltato per contrasto.  «Non ne ho mai parlato con il Venerabile Shion». Facesti poi, riemergendo dai tuoi ricordi e lei si fece da parte per permetterti di scrutare a tua volta. Stavolta, stavi osservando, una stella strana. Non riuscivi a capire bene. Ti togliesti dal telescopio e battesti le palpebre, poi tornasti a guardare.
«Il telescopio ha qualche problema?» Chiedesti. 
«No.» rise prima di spiegarti che stavi guardando: «α Canum Venaticorum, Cor Caroli per fare prima. Benché entrambe appaiano bianche, alcuni osservatori hanno riscontrato tenui sfumature di colore. Forse a causa della composizione chimica inusuale della più luminosa. Invece il nome Cor Caroli significa Cuore di Carlo, in onore a Carlo I d’Inghilterra. Credo che sia una nana bianca». Aggiunse poi, pensierosa. Le chiedesti cosa fosse. «Eh, se mi chiedi questo dovrei attaccare a spiegarti tutto per filo e per segno, non so quanto possa interessarti».
«Come, ti sei già stufata di parlarmene?» Scherzasti sorridendo. E lei ribatté allegra che aveva anche lei qualche domanda. «Davvero? Pensavo che una come te non ne ponesse. Sai, la lettura della mano e tutto il resto». Spiegasti gesticolando. Lei tacque due secondi per l’imbarazzo prima di porti la prima, incuriosita: «Perché credi di non sapere niente?»
«Non è ovvio? Non potrei mai rivaleggiare con te, che sembri sapere tante cose e mi domando come fai».
«A me è sembrato che come oratore non te la cavassi poi così male. Salta fuori una persona completamente diversa quando parli, sai?»
«Cerco sempre di evitare inutili spargimenti di sangue. É un compito ingrato per molti affrontarci.» spiegasti, senza nascondere la tua pietà. In fondo eri una persona misericordiosa. Continuò a sorriderti con quell’espressione dolce. Poi domandò: «Sei davvero sicuro che non ci sia alcun punto di collegamento tra me e te, dal punto di vista del sapere?» Confermasti e le domandasti se volesse chiederti altro. Ti chiese quanti anni avessi quando diventasti un Gold Saint. «Sei». Rispondesti spiccio. Non amavi parlarne. Non che qualcuno te l’avesse mai chiesto.
Spalancò gli occhi inorridita, poi se ne uscì con un impacciato: «Io a sei anni guardavo ancora i cartoni». Che ti strappò una risata divertita. Saggiasti il nome della stella: «Canum Venaticorum. Il Cane Minore, non era uno dei due cani di Orione?»
«Proprio lui, il Cane Maggiore è vicino a lui e Orione…»
«Orione che fu punto dallo Scorpione e assunto nel firmamento; invece, secondo un’altra leggenda, pare che fosse innamorato di un gruppo di ninfe, le Pleiadi, che, per sfuggirgli, si tramutarono in colombe e ascesero al cielo. Se fossimo ancora a dicembre o a gennaio te le indicherei». Dicesti.
«Tuttora, a causa della rotazione terrestre, la costellazione di Orione pare rincorrere le Pleiadi». Completò e ti sorrise. «Vedi che qualcosa sai anche tu?» “Cosa?” Pensasti stupefatto. Quella fu la prima grande lezione che t’impartì, ossia che tutto è collegato. Continuaste a parlare ancora a lungo. Fu felice di condividere con te le sue conoscenze. Aveva un modo caldo di spiegare le cose, come se cercasse di tenere sempre attiva la tua attenzione. Addirittura a volte, ti spiegava quello che non capivi tramite paragoni con le leggende. Oppure le tracciava su un bloc notes che aveva estratto dallo zaino, quando eravate scesi dalla pedana a ravvivare il fuoco. Lì vi eravate scaldati, avevate bevuto dal termos e ti aveva spiegato quello che non capivi. Rideva con te quando ti scappava qualche battuta.  
Fino a questi momenti avevi mai pensato che materie come quelle che la sua disciplina abbracciava potessero essere così interessanti.
Gli unici momenti che vi fermaste fu per bere un po’ d’acqua che si era portata dietro dal Santuario.
Per la prima volta la vedesti felice e nel suo Elemento. Brillava di felicità, gliela leggevi negli occhi.
Anche se a volte dovevi aiutarla a trovare i termini giusti nella tua lingua vi divertiste. A un certo punto lei tirò fuori il telefono per vedere che ore fossero e quando leggesti anche tu ti accorgesti che era tardi. «Devo completare il giro». Ti scusasti, sperando che andasse comunque tutto bene. Che figura ci avresti fatto se un nemico fosse riuscito a infiltrarsi? «Capisco».
«Dovresti tornare alla Tredicesima». Le consigliasti. Lei sospirò e disse che lo sapeva.  
«Vuoi che ti accompagni?» Ti offristi nel tentativo di recuperare un po’ l’atmosfera che si era venuta a creare. «Non serve, ho ancora la lanterna, cambio l’olio e me la posso cavare anche da sola».
Sorridesti divertito. «Va bene. Buonanotte, Astrid».
«Buonanotte, Piattola».
«Ancora?» Sbottasti. Lei ti sorrise, affilata, ma senza cattiveria: «Sempre».
«Buonanotte».
«Piattola». Ti richiamò e ti girasti un’altra volta, con un sospiro. «Che c’è?»
«Volevo dirti che se vuoi puoi venire a vedere le stelle con me, tanto io la sera sono sempre qui, se non piove».  
«Grazie ci penserò, buonanotte».
«Buonanotte anche a te». Poi te ne andasti. Solo dopo ti rendesti conto che era riuscita a farti dimenticare le tue preoccupazioni. 

Shun
Avevi esaminato le foto dei corpi carbonizzati che ti erano stati mandate. Eri tornato a Tokyo in compagnia di Hyoga e Natasha per seguire una conferenza. All’inizio eri stato tentato di dirgli che potevano anche restare al Santuario. Se non fosse che Natasha non si era voluta separare da te. E Hyoga aveva accettato di venire. Con il senno di poi avevano fatto bene, visto quello che era successo.
In quanto Gold Saints avevate molta più libertà d’azione di prima. Per la verità voi eravate sempre stati più liberi degli altri, considerando la vicinanza alla Dea. La strategia di Kanon non la capivi ma se riteneva giusto lasciarvi tutta questa libertà allora andava bene.
Ma a cosa serviva?
Avevi scrutato tra i mondi e quello che avevi visto ti aveva lasciato sconvolto.
Lo scontro, le Case degli Astri che andavano recuperando i loro inquilini. Che diavolo stava succedendo? Cosa stava progettando la Dama degli Smeraldi? Avevi raccontato tutto a Hyoga e pure lui era preoccupato. Ancora di più per l’evidente tradimento di Camus e Shaka. Quelli non potevano essere loro.
Come avresti voluto chiedere consiglio a tuo fratello maggiore. Ma lui era scomparso chissà dove e al telefono non rispondeva. L’ultima volta che l’avevi visto era circondato da fuoco e fiamme. Sembrava una dimensione alternativa e stava combattendo con indosso la Shin Cloth ma non avevi potuto vedere granché.
Mettesti via il telefono e tornasti ad ascoltare il relatore della conferenza. Seduto al tuo posto in mezzo al pubblico, non potesti fare a meno di ripensare a ciò che stava succedendo. Un terzo delle città del mondo si era svuotato, quei pochi che restavano presto sarebbero morti.
Cercasti di pensare ad altro ma non ci riuscisti. Tutte quelle persone erano morte. I tuoi compagni d’arme stavano morendo sotto ai tuoi occhi. La cosa più triste, per un medico era proprio questa. Nonostante la tua laurea, i tuoi studi, tu eri impotente, neanche Hades poteva darti una mano. Il Dio degli Inferi stava zitto, ritenendosi estraneo.
Proprio allora sentisti il tuo telefono vibrare insistentemente nella tua tasca.  Lo estraesti e vedesti che era una videochiamata di Shiryu. Ti alzasti e, facendo attenzione a non inciampare nelle gambe dei presenti, abbandonasti la sala. Ti trovasti davanti Shiryu e Paradox. Non ti ci volle la scienza per capire perché avessero chiamato proprio te. Salutasti entrambi e poi, dopo avergli detto che eri occupato e che avevi al massimo dieci minuti, ascoltasti cosa volevano.
A fine del racconto sospirasti. «Ancora lo stesso sogno, Paradox?» Domandasti alla giovane allieva di Shiryu, percependo il suo tormento. Stavolta, piuttosto che restare a tormentarsi, aveva preferito chiederti aiuto. Anche se in wireless non potevi fare alcunché. Ma eri il Gold Saint di Virgo e, avevi già accumulato una discreta esperienza nel campo del misticismo. Per questo avevi accettato il caso di Paradox. «Sì, non fa che tormentarmi tutte le notti». Rispose angustiata. E ne aveva di motivi per esserlo. Non le era mai successo prima di fare un sogno ricorrente come questo. Ogni volta si aggiungevano dei particolari. Stavolta, si erano aggiunte anche la meridiana dello Zodiaco con le torce accese. Chiedesti cosa ne pensasse Astrid e lei rispose che non gliel’aveva ancora detto. «Sta cercando di aiutarmi a incanalare il mio dono come può e io sto cercando di aiutarla a capire come può funzionare il suo». Conoscendola era inutile domandarle perché non lo lasciasse fare a Kiki. Dopotutto Astrid aveva tantissimo in comune con i lemuriani. Se solo Paradox non fosse stata così gelosa delle persone cui si affezionava e amava. E dire che Kanon aveva approfittato della situazione per far sì che fosse Paradox stessa ad accompagnare Saga dallo psicologo. In quanto anche lei affetta dallo stesso problema, poteva comprendere in anticipo i segnali del ritorno di Arles e sconfiggerlo. Era un’ex Cavaliere d’Oro anche lei, dopotutto. Solo che la sua fedeltà non cambiava come la personalità. La cosa che ti sorprese fu che lei disse che secondo lei era un messaggio per qualcun altro. Solo che non sapeva per chi e perché lo stesse ricevendo lei. Era l’unica cosa su cui lei e sua sorella concordavano. «Forse perché il destinatario non riesce a riceverlo e quindi ripiegano su una persona sufficientemente forte per farlo». Ipotizzasti e mentre lo dicevi capisti che era così. «E con la mente in ricostruzione che ha, non mi sorprende affatto».
«Non lo so, magari è solo un sogno». Onestamente avevi i tuoi dubbi.
Percepisti un movimento davanti a te. Rialzasti lo sguardo e spalancasti gli occhi trattenendo il fiato per la sorpresa. Di fronte a te si era aperta una visione sull’altro mondo. Di solito le scorgevi dentro la nebulosa di Andromeda, che, da quando padroneggiavi il Settimo Senso, eri capace di sfruttare anche così. Ma questa era la prima volta che si apriva da sola.
Avesti la panoramica di Tokyo e un flusso di anime quasi lillà a contrasto con la notte. E poi una donna, appoggiata al muro a braccia conserte che osservava. Si accorse del tuo sguardo e si girò verso di te. I suoi occhi nocciola ti fissarono incuriositi. «Aida?» Ti sfuggì sgomento. Lei ti guardò come a dire: “Sì? Posso fare qualcosa per te?” Poi, al suo fianco vedesti volteggiare delle figure rettangolari e dorate grandi quasi quanto il suo busto e altrettanto alte. Ti ci volle un po’ per capire che cos’erano. Ti accorgesti che da quando l’avevi visitata era peggiorata. Poi la visione scomparve e tu tornasti alla realtà, dove le voci di Shiryu e Paradox ti chiamavano.
Non eri sicuro neanche tu di cosa fosse accaduto.

Quella sera a tuo fratello maggiore avevi solo detto che dovevi riferire un messaggio importante ad Astrid da parte di sua madre. Solo che non avevi detto quale. Ti eri limitato a dire che non erano cose belle.
Non te l’eri sentito di tornare al tuo appartamento, così eri andato a casa di Hyoga e Natasha.
Dopo che avevate messo a letto la bambina eravate tornati a parlare della Dama e Hyoga si era rabbuiato. Anche se ti aveva ferito vederlo così, non ci potevi fare niente. Natasha si era accorta del suo cambiamento di umore e aveva cercato di risollevargli il morale.
Hyoga ti versò da bere e tu lo ringraziasti distrattamente. «Che c’è, Shun? Sembri preoccupato».
«Stavo ripensando a quell’onda d’energia e alla Dama degli Smeraldi».
«Pensi che sia il caso di fare qualcosa?»
«Non lo so con certezza. Penso che sia il caso di tenere d’occhio Astrid e i superstiti della Guerra Sacra contro Mars e Pallas. Se la Dama sta cercando coloro che combatterono quelle battaglie allora anche noi siamo in pericolo». Hyoga annuì con aria grave: anche voi avevate combattuto al fianco di Kouga e delle nuove leve. Quello che non sapevate spiegarvi era come mai la Dea avesse permesso alla Dama di uccidere Kouga. Quando eravate accorsi l’avevate trovata in lacrime accanto al capezzale del giovane Pegasus. I funerali si erano tenuti da poco e voialtri vi eravate radunati per assistere. Persino Yuna, Apus (in sedia a rotelle), Raki, Kiki, Paradox, Integra, Sirrah e Ionia erano venuti al funerale. Per quanto riguardava Souma e molti allievi della Palaestra dispersi eravate convinti che fossero morti.
Era stato Hyoga, mesi prima, a mettersi sulle tracce degli altri compagni di Kouga di Pegasus. Ed era sempre stato lui a trovarne le tombe grazie all’aiuto di Mama, la sua amica trans poliziotta. Era un’eccellente detective e collaborava in pianta stabile con Hyoga, mentre Kanon disquisiva direttamente coi leader mondiali. Gli sforzi congiunti di Kanon e Mama portavano sempre qualche buon risultato.
«Non capisco perché Aphrodite se la sia lasciata sfuggire». Commentò il biondo accomodandosi sulla poltrona davanti alla tua. «Non lo capisco neanch’io. Ma dopo quello che abbiamo sentito penso che anche se avesse provato a catturarla…» Il Cosmo della Dama era tremendo. Non avevate mai sentito una roba del genere, prima. «Secondo te è una Dea?» Chiese Hyoga. E la cosa che più vi preoccupava era che questa combatteva in prima linea. Ricordavate perfettamente la battaglia contro il Gran Dio Zeus e come Shura si era sacrificato. Se stava possedendo il corpo di quella ragazza forse avevate un piccolo vantaggio. Ma molto piccolo. «Non lo so».
«Pensi che dobbiamo lasciarla fare? O dobbiamo intervenire subito?» Domandò lui guardandoti.
«Penso che la cosa migliore sia cercare di proteggere quanti più di noi. Se la Dama non manifesta il suo Cosmo non possiamo trovarla».
«Però tu puoi provare a cercarla».
«Ho già tentato ma non è facile, è come se riuscisse a sfuggirmi e ora so anche perché».
Sapevi a cosa stava pensando Hyoga e quando ti alzasti gli battesti una mano sulla spalla. «Vado a dormire, buonanotte». Poi ti avviasti alla tua camera degli ospiti.        
  
Eri tornato al lavoro all’ospedale di Tokyo. La Dea ti aveva concesso di lasciare la struttura del Santuario in via definitiva. Adesso aveva assunto un tuo collega che era un pioniere nel campo della chirurgia. Così adesso potevi muoverti con più libertà di prima.
La prima cosa che facevi dopo il tuo turno era cercare la Dama tra le dimensioni e controllare le Case degli Astri. Hyoga invece aveva ripreso i contatti con Mama e stava cominciando a condurre ricerche sulle Case degli Astri e la Dama degli Smeraldi.
Al Santuario era tutto tranquillo. Per curiosità desti un’occhiata anche ad Astrid e la trovasti in una viuzza di Rodorio che parlava con Milo. Probabilmente si erano incontrati a Rodorio e ora lui la stava riaccompagnando alla Tredicesima. Lui stava cercando di dissuaderla a girare da sola. Non aveva neanche tutti i torti e lei, invece, lo rassicurò. Alla fine lui si convinse e la salutò. Poi s’infilò in un’osteria.  
Trenta metri dopo la giovane si ritrovò la via ostacolata da un uomo. Anche se quello era un soldato semplice. Cosa voleva da lei? Perché sembrava tradito e risentito? Lì per lì la giovane non ci fece caso. «Oh, buonasera. Mi avete spaventato».
Invece di scusarsi, l’uomo avanzò verso di lei con incedere minaccioso e andò subito al sodo: «Perché non sei venuta alla taverna, stasera?» Lei s’irrigidì e sgranò gli occhi. Però rispose incerta che aveva avuto da fare. «Con il Gold Saint di Scorpio?» Domandò lui con disprezzo. Sapevate di non essere amati da tutti i vostri sottoposti, ma così platealmente no. 
«Anche fosse perché vi dovrebbe interessare?» Chiese lei, sulla difensiva.
«Dovresti saperlo il perché».
«No». Fece adesso intimorita.
«Ma come, mi hai letto la mano!» Esclamò l’altro e Astrid parve cascare dal pero. «Davvero?»
«Certo! Sono due settimane che mi leggi la mano e le carte».  Rispose il suo poco gradito corteggiatore. Lei aggrottò la fronte: «Ok, intanto ve lo siete inventato; la mano si legge una volta sola e sono sicura di aver avuto altri clienti oltre a voi».
L’altro le dette ragione: «Sì, per quello sì, per le carte sono sempre io».
«Sì, mi ricordo, ma non capisco cosa volete» Specificò lei, stavolta guardinga, ma il suo tono di voce ti diceva che avesse intuito il motivo che si celava dietro la sua insistenza. Ed era ben più grande della superstizione. A giudicare anche da come stava reagendo non doveva neanche essere la prima volta che succedeva. «Secondo te? Che cosa posso mai volere da te? Il mio numero te l’ho già lasciato, perché non mi hai chiamato?» Ah, era questo il motivo? Lei obiettò di non capire cosa volesse lo stesso, che il suo rifiuto era più che chiaro e che non voleva essere usata così. Non aveva bisogno di un uomo che ci provasse con lei passando per il lavoro. Per lei era una gravissima mancanza di rispetto. Non era mica una sozzona come la Batgirl del film di Azzarello e anche come una certa Solo Anal di una serie di film che non avevi visto. In realtà usò un altro termine ma per amor di rispetto soprassediamo. Il soldato non la prese bene: «Brutta stronza! Ridammi i miei soldi, imbrogliona!»
«No!»
«Osi forse trasgredire l’ordine di un soldato della Dea? Ma io ti…» Fece per acchiapparla e tu sgranasti gli occhi. Facesti per intervenire, ma non ce ne fu bisogno. Astrid attaccò a sua volta, dandogli una bastonata con un furiage sune. Ossia un colpo portato alle gambe partendo dalla posizione di guardia chudan. Altro termine tecnico della naginata. Ma l’uomo parò con il proprio avambraccio. Si separarono e lui la guardò stupito.
Lei tornò in posizione di guardia, per la precisione di waki ni kamae. Un piede davanti e il bastone parallelo ai fianchi. Avevi sentito dire che era in possesso di questa tecnica e, molte volte, si era alzata presto la mattina per esercitarsi. Proprio allora da una stradina laterale sbucò un altro soldato: «Ehi! Cosa sta succedendo?» Il vigliacco l’accusò di essere una ladra che lo stava derubando. Astrid si difese urlando che non era vero. Ma mosse il bastone per tenerli entrambi a distanza. L’aggressore continuò a rincarare la dose e il secondo soldato si accodò a lui, intimandole di ridargli le sue cose. «Non è la sua roba, me la sono costruita io».
«Ah, sì? E cosa sarebbe?»
«Sono strumenti ottici, mi servono per studiare il cielo notturno!»
«Li hai costruiti rubando i miei soldi, pretendo un risarcimento».
«Non è vero!»
«Allora hai violato i confini del Santuario!»
«No!»
«Allora che ci fai in piedi adesso con una borsa piena di strumenti ottici?»
Astrid non seppe che rispondere, se non che il primo si avvicinò eludendo la guardia e le ghermì la borsa. La bionda se ne accorse, si girò come una biscia e gli sferrò un colpo alle tempie, liberandosi.   Il collega cercò di afferrarla ma Astrid roteò il bastone da destra a sinistra, con la parte inferiore del medesimo. Che si andò a schiantare negli attributi di quello a sinistra.
Il primo, ripresosi, cercò di balzarle addosso ma stavolta si ritrovò il bastone piantato nello stomaco fino al mono ucki (ossia la parte curva della lama, se fosse stata una vera lama da naginata). Subito allontanato. Si mise parallela ai bestioni poi, alzò rapidamente il bastone e li colpì in rapida successione. Il primo con un colpo alle gambe abbassandolo, poi alla gola e l’altro direttamente alla gola buttandolo a terra.
Eseguì un harai, ossia deviò il braccio di uno come fosse stata una lama, volteggiò su sé stessa e abbatté uno joge buri sul secondo. Un colpo verticale dall’alto verso il basso. Qualcuno cercò di farle lo sgambetto ma lei non glielo permise. Riacquistò subito l’equilibrio e continuò a tenerli tutti e due a distanza. Era imprevedibile, non seguiva uno schema fisso, alzava il bastone e lo muoveva in un modo mai banale. Era una combattente discreta, se faceva qualche errore riusciva a rimediare subito grazie alla velocità e alla prontezza di riflessi. Ora che ci facevi caso, stava combattendo alla stessa velocità dei Bronze Saint. Per questo non riuscivano a starle dietro.  
Quello ancora parzialmente illeso chiamò il compagno che si contorceva a terra in preda al dolore. Ma la ragazza gli abbatté il bastone sulla testa proprio alla nuca, mandandolo a fare compagnia al compare. Proprio allora il primo tornò all’attacco. Astrid sollevò il bastone e lo affrontò. Presto lo mandò a gambe all’aria, con dei bernoccoli sulla testa e altri lividi e botte. Poi, lo tenne lontano da sé, continuando a tenerlo d’occhio.
Il soldato si rialzò e fece per attaccarla ma lei avanzò minacciosa di un passo e materializzò i bagliori e, con essi, finì la sua opera di terrore. L’aggressore si fermò di botto, spaventato.
«Questo era solo un assaggio, posso fare ben di peggio. Raccogli il tuo amico e non mi disturbare oltre». Comandò. L’uomo preferì darsela a gambe, come un codardo. 
La ragazza si rilassò solo quando fu sicura di essere sola. Almeno lei era al sicuro.
 
Avevi cercato più e più volte una spiegazione a quella visione improvvisa che si era aperta davanti a te. Avevi scrutato tra i mondi, ma tutte le volte vedevi solo te stesso che t’imbambolavi a fissare il vuoto. C’avevi messo un po’ a capirlo, ma era ovvio che fosse uno specchio. Com’era possibile? Perché non potevi vedere oltre? “Non ti è concesso”. Ti rispose la voce di Shaka.
“Shaka?” Pensasti sorpreso e la tua immagine riflessa assunse le sue fattezze. “Che cosa sta succedendo? Perché non posso vedere?”
“Non puoi vedere tutto, ci sono cose che neppure noi possiamo vedere”. Ti rispose.
“Allora dimmi che cosa succede, ti prego. Chi è la Dama degli Smeraldi? Chi sono i Guardiani delle Case degli Astri? Dimmelo, che sta succedendo?”
“Non lo so ancora, ma ti do un consiglio, state alla larga da questa storia”.
“Che vai dicendo? Non possiamo starne alla larga, se è una nemica…”
“Statene fuori”.  Ripeté, poi la sua immagine si dissolse e tornasti a scrutare il tuo volto.
Richiudesti quella finestra sulla realtà con un sospiro di frustrazione. Non eri l’unica persona che monitorava gli altri mondi. Ovviamente non lo facevi meditando quasi ventiquattro ore su ventiquattro come Shaka, ma lo facevi. La mente di corse al podio a forma di fiore di loto nella Sesta. Tu non eri degno di salirci, non eri un illuminato. Né ti interessava esserlo, ma non riuscivi a smettere di pensare a tutto quello che stava accadendo. Sapevi solo che Astrid stava lottando per impedire a voialtri di morire ma che, al momento non ci riusciva. C’era un assassino tra le vostre schiere e lei non sapeva chi fosse. Per fortuna che c’erano Kiki e Raki con lei, perché altrimenti sarebbe stata ancora più esposta di prima. Spesso vi eravate ritrovati a discuterne, a pranzo qualche volta, quando Natasha era a scuola. Hyoga non voleva che la bambina ascoltasse questi discorsi. «Forse dovrei portarla via da qui». Ipotizzò congiungendo le mani, pensieroso, tradendo la sua paura. «Non è più sicuro».
«Nessun posto è sicuro. Portarla qui o nasconderla là non cambierà la realtà delle cose».
Hyoga sospirò sconfitto.

Seiya
Il periodo di lutto era finito eppure sentivi già la mancanza di quel ragazzino. “Kouga, giuro sul mio sangue che ti vendicherò”, pensasti guardando il cielo. Era tanto coraggioso, era davvero un degno Saint e un bravo bambino. Non sarebbe dovuta finire così. Avresti trovato il suo omicida.
Tornasti nella tua stanza a Villa Kido e posasti gli occhi sulla spada di Amaterasu. La spada era rimasta a te e non eri più riuscito a liberartene. La toglievi dal suo supporto solo per lucidarla ogni tanto, ma non la usavi mai neanche per allenarti. Ti ricordava troppo lo smisurato potere che avevi liberato e il modo in cui Shura ti aveva fermato.
Andasti da Lady Isabel e l’implorasti di metterti sulle tracce dell’omicida ma la Dea sgranò gli occhi inorridita e rifiutò la tua richiesta. La guardasti sbalordito. Perché no? Kouga era anche suo figlio! Non ti spaventava lo smisurato Cosmo del suo omicida, avevi combattuto contro gli Dèi e ne eri uscito vincitore. «Non puoi, Seiya!» Era sbottata Lady Isabel balzando in piedi.
«Ma Milady, perché?»
«Non puoi». Aveva ripetuto lei. Avevi guardato altrove: «Capisco». Poi te ne eri andato. Aveva provato a richiamarti ma non c’era stato verso.
Avresti trovato quel maledetto omicida, avevi riconosciuto quel Cosmo, era lo stesso che aveva portato via Kouga, solo rilasciato. Ora che lo conoscevi l’avresti trovato ovunque.
Non era la prima volta che ti separavi dalla Dea, avevi anche una vita. Da quando eri uscito dal coma prima e poi dall’albero di Mars (per finire poi di nuovo intrappolato nel coma) eri stato lontano. Avevi preferito andartene e non ti eri sentito più degno di indossare le Sacre Vestigia del Sagittario, un tempo appartenute ad Aiolos.
Ti appoggiasti al parapetto del ponte e guardasti l’acqua scura che scorreva sotto di te senza vederla. Proprio mentre la fissavi sentisti dei colpi di tosse. Girasti il capo perplesso e incontrasti un’affascinante signora con lunghi capelli mossi e neri, la pelle abbronzata e gli occhi nocciola. Era ancora molto bella, nonostante le prime rughe. L’avevi già vista da qualche parte: «Signor Seiya, vi ricordate di me? Sono Aida Foscavalle, la madre di Astrid». Si presentò, di fronte al tuo sguardo smarrito e incantato. Ti ci volle un po’ per ricordartela. La signora aveva dato spettacolo a Rodorio mescolandosi alle danzatrici di tisfeteli. Una danza greca. Eri rimasto a guardarla colpito dalla sua vitalità. Anche la figlia si era aggiunta a lei che, fino a quel momento aveva cantato assieme ad alcuni servi sul palco. Anche tu eri stato chiamato, per questo lo dicevi con cognizione di causa.
La ragazza aveva intonato una canzone che piaceva a sua madre dopo aver istruito il pubblico. Poi la signora l’aveva acchiappata per ballare. Astrid si era divincolata ed era tornata sul palco. Aida aveva riso divertita. La lunga gonna che le si sollevava un po’a ogni giravolta e il sorriso che albergava sul loro volto ti erano rimasti impressi. Ancora di più quando aveva danzato con te.
Ti voltasti completamente verso di lei: «Ah, sì! Sì, sì, mi ricordo, come state?» Vi stringeste la mano. Ci avevi messo un po’ a riconoscerla. Era più emaciata e stanca. «Bene e voi?» Decidesti di non contraddirla e rispondesti alla seconda domanda. Ti espresse il tuo cordoglio e poi aggiunse che: «Ci sono delle attività energetiche anomale e sono venuto a controllare».
«Le Creature?» Domandasti preoccupato. Di solito le persone non dovevano essere coinvolte nei vostri affari. Meno ne sapevano e meglio stavate. Ma questa signora era la stessa che, avevi sentito dire, aveva predetto lo scoppio della Guerra Sacra con Eris. Poteva esserti d’aiuto. «Non solo».
Le domandasti di raccontarti tutto. Lei si cacciò le mani nella tasca della giacca. Tu l’imitasti inconsciamente.
«Non saprei. So che è un’attività Cosmica. Magari sono le stesse che hanno ucciso Kouga».
«Non credo». Lei ti raccontò comunque quello che stava succedendo. «E se ci fosse la stessa mano dietro?» Poi ti convinse ad aiutarla, si offrì addirittura di darti la posizione dell’assassina una volta completate le sue indagini. A niente erano serviti i tuoi tentativi di farle cambiare idea. Impelagarsi con il vostro mondo poteva essere pericoloso, era meglio andare con lei. Perché gliene parlavi? Perché tu in fondo, eri ancora quello stesso ragazzino che, se non fosse stato per Tatsumi (Mylock, “É uguale”) avrebbe affidato il ritrovamento della Gold Cloth di Sagitter ai poliziotti invece che di occuparvene di persona. Se la signora Aida era anche lontanamente potente come la figlia allora era doppiamente in pericolo. In quel momento il tuo cellulare cominciò a squillare. Ti scusasti e rispondesti. La voce di Hyoga ti assalì: «Ma dov’eri?»
«In giro, perché?» La tua missione era segreta, il Gran Sacerdote era stato categorico. Non poteva permettere che anche i tuoi fratelli abbandonassero le loro posizioni.
«Sempre il solito idiota. Quante volte ti abbiamo detto che non devi scomparire così senza avvertire? Non ti si riusciva a trovare!.
«L’hai trovato?» Domandò la voce di Ikki. Poi, subito dietro si aggiunse Shun: «Dov’era?»
«Ragazzi, va tutto bene, sto bene...»
«No che non stai bene! Ti rendi conto che c’è un’allerta e te ne vai a zonzo come se niente fosse? Ma io non lo so, te lo sei bevuto il cervello!»
«Che idiota». Commentò Shiryu. La  signora al tuo fianco nascose una risatina dietro la mano.
«Si può sapere dove sei?» Chiese poi Hyoga. Glielo dicesti e giù un’altra raffica di insulti da parte dei tuoi fratelli minori e maggiori. Dopo che attaccarono ti scusasti con la tua ospite.
Lei si scusò a sua volta per le risate. «Non assistevo a una scena divertente da tanto tempo».
Riprendeste a camminare.
Mentre passeggiavate ti raccontò cosa l’avesse condotta qui. Si era accorta che dopo la sparizione della sua migliore amica, nonché tata di Astrid, in Europa e in tutto il mondo stavano succedendo delle cose che avevano a che fare con gli spiriti. Non l’aveva mai fatto prima d’ora. Si sentivano sempre e una volta ogni due settimane si vedevano. Era andata in Germania a vedere e quando era arrivata a casa dell’amica aveva trovato solo macerie e i nastri della polizia. Aveva provato a chiedere alle autorità ma aveva ottenuto poche risposte. Le carte le dicevano che era viva ma lei non si fidava. Conosceva la sua amica ed era sicura che fosse spaventata, dovunque fosse. E che avesse bisogno di lei. «Temo che le sia successo qualcosa e che abbia a che fare con tutto quello che sta succedendo». Aveva provato a parlarne anche con le autorità ma non avevano voluto ascoltarla.
Così aveva preso le ferie dal giornale e aveva cominciato a investigare. Le sue indagini l’avevano portata qui quando aveva ricevuto una visione di Shun che la guardava sbalordito. Le carte l’avevano guidata fino al Giappone. «A quanto pare ho fatto bene». Concluse. Le chiedesti da quanto fosse qui. «Quasi due settimane, ma non ti credere, anche prima che tutta questa storia cominciasse io stavo già viaggiando».
«Davvero?»
«Per lavoro, gestisco un’azienda che pubblica guide turistiche, il mio compito è trovare i posti più belli, le mete migliori e redarre rapporti, diciamo così, sugli itinerari. Ora che Astrid è maggiorenne ed è al sicuro al Santuario, posso anche tranquillizzarmi per lei». Spiegò. Si capiva che la sua migliore amica e sua figlia erano le persone più importanti per lei: quando ne parlava la sua voce si faceva più calda. Ti disse che era riuscita a prendere una stanza in un hotel.
Più volte, mentre camminavate, foste costretti a fermarvi di tanto in tanto, soprattutto quando ti accorgesti che era molto affaticata. Più volte tossì e le mancò il fiato. Non era nelle tue corde piantare in asso qualcuno, a prescindere da chiunque fosse. Soprattutto della persona che poteva aiutarti.
Verso l’ora di pranzo andaste a mangiare qualcosa. Fu lei a scegliere, ti portò in un ristorante che non avevi mai visto. Ti spiegò che l’aveva scoperto grazie al suo lavoro e che se lo ricordava bene.
Era un bel posto e i prezzi erano abbordabili persino per te. Vi accomodaste a un tavolo e vi portarono i menù. Ordinaste e, mentre parlavate, il cameriere tornò con le vostre ordinazioni. A un tratto, dopo aver finito di distribuire i piatti: «Mi scusi, ma lei non è il Bronze Saint di Pegasus? Quello che combatté nelle Galaxian Wars?» Confermasti un po’in imbarazzo. La gente a volte ti riconosceva e te lo chiedeva. A quel punto l’uomo s’illuminò tutto e cominciò a tempestarti di domande. Ti chiese pure l’autografo che tu gli facesti volentieri.
L’espressione adorante del tuo connazionale si ampliò. Mancò poco che si prostrasse, commosso ai tuoi piedi: «Grazie per essere venuto qui, grazie, grazie! Sono onorato di averla come cliente!» Dopodiché uscì dalla saletta lasciandovi soli. Tornasti a guardare Aida e la vedesti sorridere divertita. «Avete un bel seguito, eh?» Commentò divertita.
Sentisti le tue guance scaldarsi: «A quanto sembra. Non pensavo che esistessero ancora persone che si ricordavano di quello show». Ammettesti imbarazzato. La donna batté le palpebre per la perplessità. «Perché no? Anch’io me lo ricordo».
Adesso fu il tuo turno di stupirti: «L’avete visto anche voi?»
«Certo, facevo un tifo sfegatato per il Saint di Pegasus». Rivelò con un gran sorriso.
«Oh, se volete posso fare un autografo anche a voi». Ti offristi lusingato.
«Nah, non ce n’è bisogno, io sto già pranzando insieme a voi, credo di essere già più fortunata di quel cameriere e poi ho finito per conoscere quasi tutti i partecipanti di quel torneo! Cosa posso volere di più?» Ti sorrise di rimando.      
Le sue parole però riportarono alla mente tutto ciò che era successo e il tuo entusiasmo scomparve. «Già, a proposito, mi dispiace davvero per come siete venuta a conoscenza di tutto… Noi non abbiamo mai avuto intenzione di coprire Death Mask quando ha portato con sé vostra figlia».
«Anche a me, non vi nego che potendo vi denuncerei tutti».
«Se volete potete, almeno me e i miei fratelli facciamo tutti Thule di cognome».
«Siete tutti figli del Duca?» Chiese stupita.
Confermasti e continuasti la tua confessione: «E Lady Isabel è stata adottata, quindi teoricamente anche lei di cognome fa Thule. Se almeno così posso rimediare in parte a ciò che hanno fatto, allora così sia». Ti sembrava equo. Questa donna aveva creduto di aver perso la figlia, aveva vissuto dei mesi d’Inferno. Non riuscivi neanche a immaginare cosa si provasse, né volevi farlo: sarebbe stato troppo duro. E poi cosa era mai la giustizia umana a fronte di una Guerra Divina? Non era niente che non avreste potuto sopportare. Sarebbe stata una gran bella macchia sulla reputazione del Santuario, ma avrebbe ripagato la signora di tutto. Avevi saputo che Lady Isabel pur sapendo cosa era successo non aveva mai fatto nulla per questa famiglia. Anche Hyoga e Shiryu non erano mai stati d’accordo con la sua decisione di tenerla entro le mura del Santuario senza avvisare la famiglia. Con la tecnologia della Fondazione Grado avrebbero dovuto fare qualcosa. Considerati i vari agganci del Santuario poi ne valeva la pena? Solo dopo ti accorgesti che non aveva quasi toccato cibo, al contrario di te. Che ti avesse avvelenato? Che fosse una spia nemica? No, non era possibile. Perché avrebbe dovuto farlo?
 Aida si servì a sua volta e mangiò. «Avevate ragione, è tutto squisito». Decretasti alla fine, sazio.
Lei ti sorrise, contenta. «Sono contenta». Sospirò e un’ombra oscurò nuovamente il suo sguardo. 
Finiste di mangiare, pagaste e ve ne andaste.
Passaste tutta la giornata  a giare nelle varie prefetture più vicine ai luoghi da lei evidenziati. Più volte la dovesti aiutare perché era sempre stanca.  Passaste anche di fianco al Colosseo Grado.
Vederlo ti riportò alla mente ogni cosa, compreso il ricatto di Lady Isabel. E provavi solo dolore e rancore. Non ti era mai fregato niente di Alman di Thule. Neanche volevi portare il suo cognome. Tu non ti sentivi figlio suo, tu eri un figlio delle stelle, tale ti consideravi e così ti andava bene.
A Tokyo ti sembrava che il passato camminasse accanto a voi. Un passato di cui francamente, non ti fregava un fico secco. Non dovevate niente a quell’uomo che vi aveva tenuti rinchiusi come bestie in un canile. Addirittura la recinzione elettrificata. Voi eravate tutti frutto delle sue numerosissime scappatelle, niente di più.  
Aida si accorse del tuo turbamento, ti strinse dolcemente il braccio e ti portò via - in barba al galateo giapponese. Eri troppo scosso per pensarci adesso. «Scusatemi, Aida-san».
«No, non c’è nulla di cui scusarsi, avrei dovuto pensarci quando ho insistito per passare di qui. Perdonatemi, è stata una enorme mancanza di rispetto da parte mia».  
 
La luce del mattino irradiava la biblioteca della Tredicesima e faceva risplendere i suoi capelli di una lieve aureola dorata. Come avresti potuto dirglielo? Ti torcesti le mani e ripercorresti gli eventi trascorsi appena tre giorni prima.  
Invincibile e libera erano le parole con cui avresti descritto Aida-san, se qualcuno ti avesse chiesto di parlargli di lei. Come lei ti sembrava mentre quella sera ti accompagnava per le vie della città. Ti aveva detto di aver trovato una sorta di centro di raccolta per spiriti. Avresti preferito che lei non venisse, ti sembrava molto stanca, ma lei aveva insistito. Non si arrese neanche quando dopo aver attraversato un ponte, cominciò ad ansimare per la fatica. «Vi sentite bene?» Le avevi chiesto.
«Sì, sì». Ti aveva risposto alternando colpi di tosse ad ansiti con un’espressione dolorante. Cominciavi a pensare che stesse mentendo. Cercasti di persuaderla a tornare indietro ma fu inamovibile. Non ti sentisti di biasimarla, non era mica una Saint. Era normale che il suo fisico ne risentisse. Considerando tutto, poi, non era neanche anormale che stesse poco bene. 
Perciò non avesti altra scelta che prenderla in braccio. E fu così che scopristi che era leggerissima, quasi come una piuma. Sembrava che dovesse volare via dalle tue braccia al primo colpo di vento e ti venne istintivo stringerla. Lei appoggiò la testa sulla tua spalla e si scusò per quest’intralcio. «Non fa niente». Rispondesti dopo aver respirato il suo profumo. Era diverso da quello di Lady Isabel, ma era buono, sapeva di fresco e di pulito. E ti piacque.   
Forse a causa di quello che faceva si stava privando del suo meritato riposo. Dopo qualche centinaio di metri fu di nuovo in grado di camminare e ti portò a un tempio shintoista. La mettesti giù e lei si dovette riabituare alla sensazione di essere di nuovo coi piedi per terra. Per fortuna non vomitò. Le ci vollero giusto cinque minuti, durante i quali tenesti d’occhio il Black Saint con il Cosmo.
Nel frattempo chiamasti a te la Gold Cloth di Sagitter che ti raggiunse subito e ti rivestì. Anche se questo avrebbe attirato le Creature. Non importava. «Un tempio?» Esclamò la tua accompagnatrice sgranando gli occhi. «Perché un tempio? Finora avevano colpito solo nei cimiteri, perché questo cambio di programma? Qui dentro si sente fortissima l’opera della magia». Disse poi.
«Davvero? Io non sento niente». Mormorasti lanciando lo sguardo verso le lapidi. T’istruì a percepire la magia. Era come percepire il Cosmo, solo che si doveva ascoltare più attentamente. 
«É qui che è successo?»
«Sì. Non vi preoccupate, ho già purificato personalmente la zona e chiuso ogni eventuale passaggio tra il regno dei morti e questo».   
«Ditemi una cosa: come pensate di difendervi in caso di attacco?» Chiedesti, guardandola.
Lei cacciò le mani in tasca e rispose. «Userò il Potere dei Tarocchi». Di nuovo quel potere.
«Vostra figlia lo ha menzionato spesso».
«Sì, mi ha detto quello che ha fatto per aiutarvi. Ti avrà anche detto che non ne può parlare, giusto? Non preoccuparti, se ci sarà occasione potrai vederlo all’opera coi tuoi stessi occhi». Ti promise, sperando però che non dovesse accadere, lo capisti dal suo sguardo. «Purtroppo non so spiegarti bene come sono andate le cose e cosa ho visto, ma forse, se tu riuscissi a percepire qualcosa…»
«Purtroppo non sento niente neanch’io, temo che dovrete portarmi con voi se vogliamo saperne un po’ di più».
«Non si potrebbero usare le carte per avere un quadro preciso della situazione?» Suggeristi in uno dei tuoi rarissimi lampi di genio.
«L’ho già fatto. Ho scoperto che c’è una Guerra Santa negli Inferi e che i nemici pensano di ingrossare il loro potere rapendo l’energia vitale di altre persone».
La guardasti sbalordito: «Cosa?»
«É così».
«Non sono solo le Creature?»
«No se uccidi prima le persone, l’anima si stacca e se ne va prima che le creature la tocchino. I nostri nemici le catturano e le infilano da qualche parte per usarle come batterie».
«L’avete già detto a vostra figlia?»
«Sì. L’ho chiamata la sera stessa che ha scoperto che alcuni dei vostri Saint hanno iniziato a morire e il suo potere non è bastato. In questo momento se ne sta occupando al Santuario. Per fortuna è più potente di me».
«Davvero? Aspettate, ma se è così significa che al Santuario c’è un assassino!»
«Sì, l’ho già detto a mia figlia ma temo che non mi abbia ascoltato, vi prego, chiamate il Gran Sacerdote, avvisatelo».
«Chiamerò Kiki, riferirà tutto lui». Tirasti fuori il telefono dalla tasca.  Improvvisamente Aida-san urlò. «Seiya! Attento!» E ti spinse a terra. Qualcosa passò sulle vostre teste e si schiantò addosso a una lapide.
«Accidenti, c’ero quasi!» Berciò una voce maschile. Un Black Saint. Vi rialzaste e le chiedesti se stesse bene. Lei confermò e poi guardò nella direzione da cui era arrivato il colpo e sgranò gli occhi: «Un Black Saint? Ma non erano tutti al Santuario?» Chiese. Guardasti anche tu e ti stupisti a tua volta. «Lo credevo anch’io». Ammettesti. La forma della Black Cloth ti ricordava qualcosa, o meglio, qualcuno. Avesti un flashback di Castalia crocifissa a testa in giù tra i flutti del mare. Il Santo Decaduto ignorò le tue parole: «Ehi, ragazzo, se non vuoi farti del male consegnami la donna che è con te».
«Seiya…»
«State indietro, Aida-san. Perché, chi sei? Che cosa vuoi?» Dicesti rivolgendoti al Saint.
«Voglio la signora». Stavi per aprire bocca quando Aida ti anticipò: «Non se ne parla neanche, la signora non è interessata».
«E dire che ero venuto qui per chiederglielo con gentilezza». Mentì il vostro avversario fingendo d’intristirsi. «Il vostro contributo sarebbe magnifico e di grande aiuto per la nostra causa. Il nostro capo vi tiene in grandissima considerazione, venite con me, collaborate, nostra alleata e verrete ricompensata». Spiegò tendendo la mano verso di lei, ma Aida-san non si mosse.  «Non so di che farmene di una simile collaborazione. Io sto bene dove sono».
Il vostro aggressore sogghignò. «Il mio capo sapeva che avreste detto così, perciò mi ha ordinato di prelevarvi con la forza in caso di rifiuto». Ciò detto si mosse velocemente verso di voi ma tu  lo vedesti e lo intercettasti.  La sua mano si scontrò con la tua e il Black Saint arretrò sbalordito.
«Porta rispetto alla signora. Ti ha detto di no e allora è no, non ti hanno mai insegnato a non toccare le donne, sbruffone?»
«Seiya-kun, quest’uscita è totalmente fuori luogo». Sospirò la signora alle tue spalle. E tu la guardasti: «Eh? Che ho detto di male?» Lei ti guardò con un sopracciglio alzato come a dire: “Davvero me lo chiedi?”
Il Black Saint ti attaccò di nuovo. Provasti a ribattere ma eri in seria difficoltà, nessuno dei tuoi attacchi sembrava avere effetto. “Com’è possibile? Sarebbe dovuto già essere morto!” Pensasti spaventato. L’avversario rise intuendo i tuoi pensieri. «Credi forse di farmi qualcosa, Cavaliere? Io sono già morto!» Trasalisti. Proprio in quel momento vi separaste con un balzo. Lui alzò gli occhi sopra le vostre teste e sorrise soddisfatto: «Neanche le Creature possono niente su di noi, ma su di te sì. Addio Gold Saint di Sagitter!» Improvvisamente le Creature discesero su di voi, attirate dal richiamo del tuo Cosmo ma non fecero in tempo a disturbarti che azzerasti il Cosmo e quelle ti passarono accanto senza toccarti. Il nemico batté in ritirata: «Non finisce qui, verrò a prendervi di nuovo!» Poi scomparve nel nulla.  
Ti avvicinasti alla signora e le domandasti se stesse bene. Lei disse di sì, anche se si vedeva che era un po’scossa. Usciste dal cimitero e, solo allora ti rendesti conto della sirena antiaereo e delle persone che scappavano in preda al panico. Alzasti gli occhi un momento e vedesti il nugolo di Creature, solo dopo sentisti anche il rombo dei motori dei caccia. Il Giappone aveva schierato persino le forze armate? Non avesti il tempo di guardare che dovesti fare attenzione alle persone che correvano in ogni dove.
Trovaste un rifugio e lì osservaste tutto, compresa la disfatta dei soldati e la caduta dei caccia in fiamme sulla città, bloccate dalle catene di Shun e dagli scudi di ghiaccio di Hyoga. «Hyoga, Shun!» Esclamasti e facesti per correre da loro ma la signora ti bloccò e tu restasti lì. Soprattutto per le parole di Death Mask che ti tornarono alla mente: “Se tu accorri sempre in loro aiuto significa che non hai fiducia in loro”. Anche adesso era così. Death Mask aveva ragione: i tuoi amici non erano stupidi, se la sarebbero cavata benissimo.      

«Che cosa voleva dire?» Chiede

il paesaggio attorno a voi cambiò, divenendo blu scuro come la notte. Una strana nebbiolina azzurra fluttuava attorno a voi. Il Black Saint provò ad attaccarti ma il suo colpo rimbalzò su una barriera di energia dorata che non apparteneva a te. Che stava succedendo? Ti guardasti intorno e vedesti la signora avanzare tranquillamente verso di voi. Le mani in tasca, camminava in mezzo a tutta questa devastazione come se fosse la regina.
 
Lamairgos di Heracles digrignò i denti, infastidito. «Stai indietro, mi serve la tua anima intera non a pezzi, donna. Non montarti la testa».
«Chi sei tu, piuttosto, che osi giocare impunemente con le anime delle persone». Ribatté piccata. In un certo senso ti ricordò Shaka. Ed era veramente adirata per queste azioni. 
«Non ho tempo da perdere con donnine inutili, sei venuta a consegnarti?»
«No, a fermarti».
«Buona questa, vorrà dire che ti tramortirò e porterò via». Le lanciò un attacco ma questo si abbatté su un muro invisibile. Lamairgo rimase di sasso. «Com’è possibile che tu abbia deviato il mio attacco? Non dovresti riuscirci!»
«Anch’io ho qualche asso nella manica». Dichiarò lei. Il vento cominciò a soffiare attorno a voi. Presto nell’aria cominciaste a vedere il baluginio dorato di figure rettangolari. Che cos’erano? Ma ancor più sorprendente fu quando sentisti il Cosmo della signora accendersi e ribollire e la magia di cui parlava. Era come un torrente in piena, una nota prolungata di un diapason all’orecchio. Attorno a voi si delineò la figura luminosa della Luna. 
Lamairgo arretrò di qualche passo sconcertato e intimorito, mentre sotto di voi la Lama della Luna si trasformava nell’Ammasso del Presepe. E poi, in mezzo, compariva la Porta degli Inferi, chiusa.
Il Black Saint provò a ribellarsi ma non ci riuscì. «Credevo che fosse uno scherzo, non è possibile, non dovrebbe esistere!»
«Aida-san!» Esclamasti.
«Laimargo di Heracles, finalmente ci incontriamo». Esclamò e dietro di lei comparve la figura della Giustizia alata, con la spada in mano e la bilancia nell’altra. I vestiti e i capelli della signora ondeggiavano al vento. Emanava una tale aura di solennità che per un attimo ti sentisti di fronte a una regina. «I peccati commessi dalla tua anima sono troppo gravi per permetterti di scorrazzare liberamente in questa città». Decretò alzando il mento.
«Maledetta, cosa credi di fare? Pensi che due o tre figure in croce possano farmi qualcosa?»
«Io ti condanno a restare nell’Oltretomba». Comandò.
«Tu non farai proprio niente!» Replicò il Black Saint del passato.  
«Tornatene da dove sei venuto, spirito maligno!» La Giustizia spalancò le ali e, con un grido belluino si lanciò addosso al Black Saint, colpendolo in pieno. Lui cadde al suolo e tossì sangue. Tu sgranasti gli occhi allibito mentre quello alzava la mano e osservava il palmo coperto di rosso. «Cosa?» Esclamò spaventato intanto che la Porta della Luna si apriva.
«Il potere dei Tarocchi mi permette di agire sui Vivi quanto sui Morti anche se non sono una negromante». Spiegò la signora mentre la Giustizia catturava il Black Saint e lo rispediva nell’Aldilà. Il suo grido vi accapponò la pelle.
La porta della Luna si richiuse e poi scomparve, così come la Morte e la Giustizia. Infine, anche il cielo notturno e l’ammasso del Presepe scomparvero, lasciando il posto alla strada lastricata.
Ma anche Aida perse i sensi e cadde a terra. «Aida!»  Corresti da lei e la portasti via.

Si svegliò solo all’alba. L’avevi riportata a Villa Thule e l’avevi vegliata tutto il tempo, non sapendo bene cosa fare. A un tratto lei si svegliò e ti vide: «Seiya…» Mormorò con voce roca. «Dove…» Rispondesti alla sua domanda e poi lei ti chiese dove fosse Laimargo, dopo essersi schiarita la voce.
«Sconfitto. Il portale chiuso». Le portasti un bicchier d’acqua. Ma ebbe bisogno di una mano in quanto le sue tremavano troppo. Quando tolse le labbra dal bicchiere tu ne vedesti l’impronta insanguinata. Sgranasti gli occhi e lasciasti cadere il bicchiere che s’infranse a terra.
«Mi dispiace, Seiya, non volevo che vedessi». Mormorò lei con un sospiro stanco, girando la testa altrove, con un’espressione contrita. Quel sangue non era il risultato di un morso sulla lingua.  
«Perché? Vi ringrazio per tutto quello che avete fatto per agevolarmi ma ora basta. Non c’è più bisogno che voi vi mettiate in pericolo. Pensate a voi adesso, avete chiesto troppo al vostro corpo, concedetevi di riposare».
Contrasse la faccia in un’espressione addolorata: «Non posso». Poi cominciò a tossire forte, ancora più delle altre volte e fu costretta a girarsi nella tua stretta per prendere il fazzoletto e, così, tu scopristi, per la prima volta, che stava tossendo sangue.
Sussultasti mentre la povera donna nascondeva (inutilmente) la bocca e il suo segreto dietro la stoffa.  «Signora Aida…» Mormorasti quando lei, con occhi lacrimanti, smise di tossire. Un’espressione afflitta, come se stesse per scoppiare a piangere, albergava sul suo viso. «Ora capisci perché non posso? Io sono malata, Seiya. Avevo già dei sospetti a gennaio, prima di venire in Grecia al Santuario sono andata a farmi visitare e bum!» Scoppiò in una triste risata che tradiva tutta la sua paura e si lasciò sfuggire un altro colpo.  
Tu eri come la Nike di Samotracia. Non avevi mani, né braccia per stringere a te le persone, però avevi le ali e con esse, potevi proteggerle e ripararle dal freddo. Avresti voluto poterla aiutare davvero. «É già in metastasi, i medici dicono che se inizio in tempo le cure avrò qualche chance, ma… Ma ho già avuto una parente che ha fatto la chemio e… so cosa vado incontro. Per questo voglio dare significato alla mia vita prima che sia tardi. Se c’è qualcosa che posso fare, non esitare a chiedere, non ti sarò d’intralcio. Qualsiasi cosa ti serva, per favore, dimmelo».
Poi riprese a tossire e cacciò subito il fazzoletto davanti alla bocca. Era così fragile ed esile tra le tue braccia. Non ti era parso, all’inizio, quando la conoscesti al Santuario. E sì che ti aveva colpito molto allora, proprio per la sua vitalità e la sua positività. Non ci volevi credere, ti sembrava impossibile. Eppure in lei avvertivi ancora la forza, la stessa vitalità. Ma era inutile ingannarsi: lo vedevi anche tu che i vestiti le stavano larghi, le pendevano proprio addosso. Che ogni volta che tossiva era sangue quello che buttava fuori. Che respirava a fatica.
Eri un Saint, il tuo dovere era proteggere le persone. Eri stato mandato qui per questo, oltre che per scongiurare qualcosa di terribile. E, mentre tutto adesso aveva un senso; dall’aiuto che ti aveva dato alle informazioni che aveva raccolto per te, ti sentisti impotente e al tempo stesso molto vicino a lei. Il tuo cuore prese a battere con più forza e sentisti le guance scaldarsi.
Anche tu eri così, solo che la tua consunzione era più lenta, meno evidente e meno invasiva. Era più come un lasciarsi andare.
Cosa dovevi fare? Non ti era mai successo di avere a che fare con una persona così. Il tuo primo dovere era proteggere gli innocenti, ma capivi questa donna. La ferita al tuo petto si fece risentire. Tu capivi cosa si provava a essere un peso e capivi la sua volontà. «Signora Aida, voi conoscete a menadito questa città, potreste aiutarmi?» Le sussurrasti, con gentilezza. E lei acconsentì.
Insieme avevate affrontato l’ultimo Black Saint. Alla torre di Tokyo. Credevi che la signora non avrebbe sopportato il viaggio e invece sì. Mentre combattevate, aveva però avuto un mancamento.
«Uh, le tue condizioni sono peggiorate». Commentò il Black Saint con un sorriso malevolo.
«Lasciala stare, la tua battaglia è con me!» Esclamasti senza spostarti dalla tua posizione.
Il Black Saint si appoggiò alla finestra, incrociando le caviglie. Si aprì invece in un gran sorriso. «Ti sbagli Cavaliere, non sei tu che ci dai tanti problemi; potrei ucciderti e non te ne accorgeresti nemmeno».
Cominciasti a disegnare con le mani le tredici stelle della tua vecchia costellazione. E tu ti sentisti rinfrancato nel costatare che dopotutto Pegaso non ti aveva abbandonato con la promozione a Gold Saint. «Pegasus Ryu Sei Ken!» Esclamasti prima di lanciare il tuo attacco. Ma riuscisti solo a distruggere la struttura retrostante al nemico e parte del tetto.
«Seiya, fermati!» Esclamò Aida a sua volta prima di essere colta da un altro attacco di tosse. Proprio mentre ti fermavi. “I miei colpi non gli fanno niente, com’è possibile?” «Lui non è Vivo, non puoi colpire i morti, solo il Gold Saint di Cancer può». Urlò Aida intuendo i tuoi pensieri, prima di annaspare per via del fiato corto.
Il Black Saint atterrò sulla ringhiera a braccia conserte e piedi uniti: «Già, almeno così credevamo, vero, strega? Che cosa hai dato in cambio per essere così potente? Una magia così non si ottiene dal nulla, allora? Cos’è che hai dato? Aspetta, non me lo dire forse lo so: la tua vita, non è così?»
Guardasti la tua alleata orripilato. La donna ti guardò a sua volta a occhi sgranati, una mano sul collo, mentre cercava, faticosamente, di respirare.  
«Sì, diglielo, Aida». La spronò in tono canzonatorio il vostro avversario. Lei abbassò lo sguardo, ormai il fiato regolarizzato.
«Aida, è la verità?» Lei si morse il labbro inferiore, distolse lo sguardo e annuì. «Cos’avete fatto?» Chiedesti orripilato mentre la sostenevi, tenendola per le spalle. «Il patto dei Tarocchi richiede un Prezzo da pagare. Ma per fare questo, non bastava più solo la mia felicità, serviva molto di più, anche se ciò significa usare la magia nera». Spiegò con un’espressione triste.
Il Black Saint rise sguaiato: «Anche se il tuo corpo è inutilizzabile e il tuo Cosmo è mediocre, la tua anima è come una fiamma viva e con quel potere immenso che racchiude ci sarai comunque molto utile, Aida Foscavalle di Pisa».  
«Che cosa?» Esclamasti frapponendoti di nuovo tra lui e la madre di Astrid. 
«Non hai ancora capito, Gold di Sagitter? Tutto questo altro non era che una trappola per lei e tu me l’hai portata. Mi serviva solo un’altra anima e la sua era quella giusta».
«Bastardo, non ti permetterò di prenderla». Facesti, mettendoti in posizione di attacco e bruciasti il tuo Cosmo, che t’illuminò di quell’aura dorata tipica dei Gold Saint.
Ma il Black Saint si limitò a incrociare le braccia e a sorridere: «E chi la tocca? Non ce ne è bisogno. Né posso ucciderla, altrimenti perderebbe il suo prezioso potere. Ci vediamo negli Inferi, Aida». Esclamò ridendo sguaiato prima di tuffarsi nella porta dimensionale.
Ti sporgesti per vedere e ti venne male solo a vedere l’ampiezza del portale: era più grande di tutti gli altri. Ti arrabattasti per cercare una soluzione. Forse avresti potuto fare qualcosa facendo evolvere la tua Cloth in Kamui. Ma non avevi più la Cloth di Pegasus. Non sapevi se anche questa potesse evolvere. Forse avresti potuto usare il Cosmic Star Arrow, ma avrebbe richiesto comunque l’uso del Cosmo e soltanto Astrid avrebbe potuto tenere a bada le Creature. La signora non ne era in grado perché lei stessa era dotata di un piccolo Cosmo. Le Creature, leste, si radunarono sotto di lei, affamate come squali. E c’erano le Creature, farlo le avrebbe fatte avvicinare ancora di più. Ma se tu eri in una posizione di stallo, a risolvertela, ci pensò la signora. Lei ti affiancò e ti prese la mano. Tu la guardasti spaesato e incontrasti la sua espressione dolce, malinconica e speranzosa. Erano gli occhi di una persona che stava cercando di aggrapparsi alla vita un’ultima volta e che, presto, avrebbe detto addio al mondo. Sembravano gli occhi di un’amante che dice addio all’amato. E, tu lo sapevi, vero? Perché spesso avevi avuto quegli occhi per Lady Isabel. Quello sguardo ti bruciava negli occhi e spesso alla Dea lo avevi rivolto. “Se devi proprio morire allora avresti voluto farlo con impressa nella mente l’ultima bella immagine del mondo”. Ti eri sempre detto, forse senza neanche essere consapevole di questo pensiero. E, di solito tu avevi Lady Isabel.
Percepivi quello sguardo, ma per la prima volta di riflesso. «Dì alla mia bambina che la amo più di qualsiasi cosa al mondo». Ti pregò guardandoti con occhi lucidi. Il vento che, ululando, le vostre chiome.
«No signora Foscavalle, Aida, non fatelo». Implorasti ricambiando la stretta. Lei sorrise commossa dal tuo trasporto e sfilò dolcemente la mano e tornò a guardare nel vuoto, verso il portale violetto pervaso da energia sotto di voi. Le afferrasti i polsi. «Signora Foscavalle!»
La donna dalla chioma nera come l’ala di corvo si girò e ti sorrise. Poi si liberò dolcemente dalla tua presa. «Va tutto bene, questo vi darà qualche tempo in più, anche se va contro tutto ciò in cui credo».
Scuotesti il capo: «No, Aida, non fatelo».
«Devo farlo, per favore, non voglio finire i miei giorni soffrendo e non voglio che la mia anima finisca nelle loro mani. Questo è l’unico modo». Spiegò malinconica mentre le lacrime abbandonavano gli angoli dei suoi occhi e venivano trasportate via dalla corrente. 
Ti incorniciò il volto tra le mani e ti baciò. Poi si ritrasse e, senza staccare gli occhi dai tuoi, mosse un passo indietro. «Aida, no!» E si gettò nel vuoto. Le figure delle Carte che avevano tenuto a bada le Creature fino a quel momento si alzarono di quota per qualche metro e si trasformarono i fiotti di energia dorata che ricadde verso il portale superando in velocità la signora e, sprigionando una luce e un’energia immensa che ti costrinse a schermarti gli occhi per non essere accecato. Ma anche così riuscisti a sentire con chiarezza l’agghiacciante grido di dolore di Aida, mentre le Creature la raggiungevano. E tu non potesti fare altro che assistere impotente al suo sacrificio.
Poi, tutto si acquietò e tornò normale, come se non fosse mai successo niente.
Sentisti i tuoi occhi riempirsi di lacrime che, presto, ti inondarono il volto. Il dolore esplose dentro di te, riducendoti presto in ginocchio, mentre la cenere veniva trasportata via dal vento tranquillo, del Regno dei Vivi.
Ti portasti una mano alla bocca, mentre continuavi a piangere. Perché non l’avevi afferrata? Urlasti il suo nome dall’alto del palazzo con tutto il fiato che avevi in gola.
Tornasti in Grecia con gli occhi arrossati e un peso sul cuore. La prima cosa che facesti fu di vedere Astrid. Trovasti la figlia di Aida china su un libro, seduta alla scrivania sotto una finestra. I raggi del sole le colpivano pelle e capelli ammantandola di un vago alone bianco e giallo che si rifletteva sulla parete e gli oggetti vicini in un buffo gioco di luce. Mentre era così ti ricordò Aida, per un momento la vedesti al suo posto, mentre guardava giù dalla balaustra.
Tossicchiasti e Astrid si girò verso di te e ti salutò, sorpresa di trovarla lì. «Seiya». Ti chiamò la voce di Astrid.  Per un momento ti mancò il coraggio. Vi scambiaste qualche vuoto convenevole. Poi, prendesti un po’ di coraggio e iniziasti, contrito: «Astrid... Io non so come dirtelo».
La giovane ti guardò con occhi spaventati. Poi, le facesti notare la fascia da lutto che portavi al braccio e le porgesti il ciondolo di sua madre dicendo solo: «Mi dispiace».
La ragazza si morse il labbro, tremando. Gli occhi improvvisamente colmi di lacrime: «No, Seiya, no, dimmi che non è vero, ti prego, dimmi che non è vero…» Tu continuasti a distogliere lo sguardo, addolorato e lei scoppiò a piangere. Poi corse via prima che tu avessi il tempo di fare qualcosa.

Astrid
Stavo lavorando per riuscire a riaprire quella gabbia. Ma tutto quello che ero riuscita a ottenere era solo un fioco brillio. “É già un miglioramento”.  M’incoraggiò il mio maestro. Ormai avevo la certezza che solo io potessi percepirlo, se adesso mi stava accanto anche in pieno giorno e alla presenza di altri Gold Saint. 
Aveva ragione. Ma non poteva continuare così, prima, dovevo liberarmi di un altro peso.
Il maestro intuì le mie intenzioni perché mi posò una mano sulla spalla e disse: “Qualcosa mi dice che andrà bene”. Coprii la sua mano con la mia e annuii.
Poi andai verso la Nona. Feci un gran respiro prima di entrare. Attraversai il corridoio di passaggio e poi svoltai verso gli appartamenti privati. «Seiya». Lo chiamai quando lo vidi in salotto che cercava di raddrizzare un quadro.
Il fratello di Shun si girò e mi guardò stupito di trovarmi qui. «Astrid». Esclamò. «Come stai?» Mi chiese dopo, balbettando, preoccupato. Forse di aver urtato i miei sentimenti con quella domanda tanto ovvia quanto inopportuna. Eppure nei suoi occhi leggevo un sincero dispiacere e il pentimento per essere stato latore di brutte notizie.
Una domanda di circostanza, per quanto fosse veramente desideroso di saperlo. Ma a giudicare dalla sua faccia credette di aver fatto una gaffe perché si affrettò a scusarsi. 
L’imperatore Mutsuhito de L’ultimo Samurai fece la stessa domanda che posi io a Seiya. La stessa voce rotta: «Com’è morta?» Ma Seiya non mi avrebbe mai risposto: «Io ti dirò come è vissuta». Seiya accontentò la mia richiesta.
E quando seppi della sua malattia, delle sue ultime parole per me, mi sentii un po’ meno triste. Sapere che mi voleva bene era rincuorante, anche se avrei preferito non stringesse mai questo patto.
Quando lui finì di raccontare, sempre temendo di peggiorare il mio umore, lo ringraziai. «Grazie, Seiya, per esserle stato accanto nei suoi ultimi momenti. Grazie davvero».
Lui annuì, poi, mi disse: «Tua madre mi ha lasciato delle informazioni per te, a proposito di tutto quello che sta succedendo. Ha detto che le ha raccolte perché credeva che potessero esserti utili. Vuoi ascoltarle?» Il cuore prese a balzarmi in petto. Mia madre aveva cercato di… «Sì». E, Seiya mi raccontò ogni cosa. Alla fine lo abbracciai e gli sussurrai: «Grazie». All’orecchio.
Quella sera celebrai le esequie a modo mio.
Passeggiai dalla Tredicesima alla spiaggia, passando per i sentieri dei servi. Non volevo essere seguita da nessuno, né volevo essere fermata da alcuno. Apprezzavo il sostegno che mi davano i miei amici e Castalia e Juan, ma questa era una cosa che dovevo fare da sola.
Durante il tragitto raccolsi un ciottolo e me lo rigirai tra le dita tutto il tempo, pensando ai bei momenti passati con la mamma e pregando gli Dèi che mi assistessero nel darle l’estremo saluto.
Presi un bel respiro profondo e, poi, lo lanciai nell’acqua. Pregando che ci saremmo riviste nella prossima vita.
Mia madre avrebbe voluto così. Niente fronzoli, niente preghiere. 
Mi sentii posare un mantello sulle spalle da due mani gentili. Mi girai e vidi Kiki, in piedi accanto a me che mi guardò con occhi pieni di dolcezza e preoccupazione. Sembrava chiedermi scusa con lo sguardo per aver interrotto questo momento. Tesi le labbra in un sorriso mesto, cercando di rassicurarlo, perché in realtà non aveva interrotto proprio niente. Appoggiai la testa sulla sua spalla e lasciai che lui mi cingesse le spalle con un braccio. Mi dette un bacio sulla testa e vi posò il mento.  
Poi, mi ricondusse al Grande Tempio.
O almeno era quello che stavo cercando di convincermi. «Mamma...»
Le parole di Seiya continuavano a rimbombare nella mia mente, implacabili. «No, no, no, è impossibile. Non può averlo fatto, non può». Improvvisamente ogni cosa aveva perso d’importanza.
Quello che credevo su Neera, quello che stava succedendo, tutto. Improvvisamente mi sentii come se il mio mondo fosse andato in pezzi, lasciandomi più sola di prima. Death Mask era sparito dalla circolazione e io sentivo la mancanza del mio amico. Dov’era andato?
Avevo bisogno di parlare con lui, almeno questo. Al mio dolore avrei pensato da sola poi, ma mi mancava parlargli. Mi erano tornati in mente i momenti che aveva passato al mio capezzale in infermeria e come mi era stato vicino. Anche se era un poco di buono avevo bisogno di rivederlo, sapere se stava bene. Ormai mancava dal Santuario da troppo e io mi sentivo sempre più smarrita.
“Non è da te abbatterti così”. Disse il mio maestro. “La ragazza che conosco io combatterebbe anche quando non ci sono più speranze. La ragazza che conosco io non si ferma mai perché riesce a vedere ciò che gli altri non vedono!” Lo sentii esclamare mentre mi attaccava ripetutamente. Mi ritrovai schiacciata contro la roccia, sentivo il respiro del mio maestro sulla pelle mentre mi urlava: “Che diavolo stai facendo? Svegliati!”  
«Come puoi chiedermi questo? Mia madre è morta! É morta!» Urlai sia con la mente che con le parole. Crollai a terra bocconi. Il viso rigato di lacrime. «Mamma, mamma, no…» Per un attimo vidi il volto sorridente di mia madre e sentii ancor più il vuoto.
Per tutte quelle volte che avevamo litigato e non le avevo mai chiesto scusa. Tutte quelle volte che avevo urlato contro di lei, che non aveva mai alzato la voce, per tutte quelle che avevo preferito restare fuori casa che stare con lei. Come, come avevo potuto essere così meschina?
«Mamma…» Chiamai tra le lacrime, mentre dentro di me si apriva una voragine di niente, che faceva ancora più male del dolore. Singhiozzai, poi mi raggomitolai abbracciandomi le ginocchia e affondandoci il viso. Il mio maestro s’inginocchiò e mi strinse a sé: «Devi scusarmi. Noi Saint non sappiamo cosa si provi a perdere qualcuno di caro. Noi siamo tutti orfani, alla morte siamo abituati. Ma tu no per questo ti starò vicino finché non troverai il coraggio di diventare abbastanza forte da sopportare tutto questo». Promise e io mi aggrappai a lui, continuando a piangere.
Fui ritrovata  più tardi, quando il sole era già tramontato, da Kiki e Raki e ricondotta al Santuario.
I lemuriani mi tennero compagnia e mi stettero vicini tutto il tempo. La notizia non era trapelata, era rimasta tra noi.
Per quel giorno tutti rispettarono il mio dolore.
Tranne Kanon. Non interruppe niente, si limitò solo a essere più discreto e meno invasivo del solito.
Mi disse però che ringraziava mia madre per le preziose informazioni che aveva raccolto. «Ci saranno molto utili, in questa Guerra».
Io mi limitai a giocherellare con il cibo nel piatto e piluccare di tanto in tanto. Il dolore e la tristezza mi avevano chiuso lo stomaco.
Kanon mi lasciò andare. Finalmente, questa seduta era durata più del previsto e, solo gli Dèi sapevano cosa era andato perduto e cosa no.
La Dea non aveva acconsentito a dare retta al mio progetto. Non era la prima volta che mi capitava, ma è diverso quando lo dici a un barista o a un negoziante. No, qui c’era in ballo molto di più, come facevano a non capirlo?
“Vai a vedere le stelle?” 
“Sì”.
“Vuoi che venga con te?”
“No, grazie”.
“Allora buonanotte”. 
“Buonanotte”.
Quando avevo capito come agivano le Creature, non immaginavo che in realtà agissero a questo modo su ogni forma di vita. Pensavo che agissero solo sui Saint e tutti quelli che usavano il Cosmo, non su ogni essere vivente. Avevo dimenticato che chiunque può avere un Cosmo. 
Anche mia madre. Il suo volto comparve di nuovo davanti a me e serrai gli occhi, raggomitolata sul fianco. “Mamma.” Pensai e mi accorsi solo dopo di non essere più sola.  
Avrei voluto credere alla baggianata di Dragonheart, secondo la quale quando un’anima draconica muore viene assunta nel Paradiso dei Draghi verso la costellazione omonima. La stessa baggianata, raccontata con altre parole che vuole che quando una nuova anima venga assunta in cielo, nasca una nuova stella. Ma non c’era nessuna nuova stella. Le stelle non erano niente di tutto questo. Le stelle sono solo sfere di gas che rilasciano l’energia prodotta dalle reazioni chimiche che avvengono nei loro nuclei. Punto, basta, stop. Non c’è nient’altro. «Non c’è nient’altro». Mormorai sconfitta portandomi una mano alla fronte, come se avessi potuto impedire al dolore di uscire da me. 
«Ehi». Mi salutò la Piattola entrando nel cerchio di luce del falò. 
Alzai lo sguardo sconsolata: «Ehi».
«Di nuovo qui, eh?» Mi chiese, come se cercasse un pretesto per fare conversazione. Il fiato usciva condensato in nuvolette, dalle bocche sebbene fosse aprile. A queste altitudini era normale. Come per me era diventato normale mettere vestiti pesanti quando mi recavo quassù. Non avevo altra scelta se non volevo morire di freddo.
«Di nuovo qui. E tu? Alla fine hai considerato davvero la mia proposta». Mormorai, cercando in me la voglia di parlare, di insegnargli, che non c’era più annichilita dal dolore.
«Sì, diciamo che ho trovato quella chiacchierata piuttosto interessante». Ammise.
«Mi fa piacere sentirlo». Risposi lacrimosa, con un sorriso stiracchiato. Ma non avevo voglia di parlare.
«Senti… Ho saputo quello che è successo e mi dispiace, davvero». Disse poi, impacciato. Rivelando il vero motivo per cui fosse venuto a cercarmi. Annuii, ma non dissi niente.
Lui si avvicinò e si accucciò davanti a me, guardandomi preoccupato e ostruendo il calore e la luce del fuoco. Si allontanò e, quando non sentii più i suoi passi, piansi apertamente, sfogando tutte le mie lacrime e la mia tristezza. Così, a poco a poco mi placai.
Ero sdraiata sul fianco a fissare le braci del focolare che avevo acceso in fretta e furia.
Mi asciugai le lacrime e mi soffiai il naso con un fazzoletto. Avevo le mani intirizzite e sentivo le membra più fredde. Senza il fuoco a scaldare l’ambiente l’umidità aveva ripreso il sopravvento. E, come l’umidità che prendeva il sopravvento, mi sentii un niente di persona. Tutto questo potere e poi non serviva a niente Non era possibile. Perché tutto stava cadendo in pezzi a questo modo? Perché?  
A un certo punto qualcosa si posò sul mio corpo.
Lì per lì credetti che fosse la cerata che aveva ceduto ed era crollata dall’impalcatura, ma poi, mi resi conto che questa cosa era di un materiale diverso ed era caldo. «Tieni, se no prenderai freddo». Disse la voce profonda di Kiki. Sussultai per la sorpresa e mi rialzai sul gomito, trovandomi addosso il suo pastrano nero e lui, a mezze maniche, che cercava di riaccendere il fuoco.   
«Cosa vuoi fare, adesso?» Mi domandò.
«Mi andava, di parlarti di mia madre, sempre se, ti vada».
«Sì, certo che mi va».
E le raccontai tutto di lei, di come aveva lottato contro il pregiudizio a causa di assassini che coltivavano lo stesso hobby, della travagliata storia d’amore con mio padre, della sua amicizia con la zia e del periodo trascorso in Germania. Di come avesse sempre cercato di non farmi mancare niente, di quanto mi volesse bene. Di quanto fosse stonata e come mi avesse insegnato l’Astrologia.
«Credo che mia madre lo sapesse, anche prima, di voi, che quello che mi era successo non fosse un gioco sfuggito di mano». Dissi poi, pensierosa. «Credo che abbia cercato di proteggermi anche da questo. Ma evidentemente non c’è riuscita. É da lei che ho imparato a essere forte, a cavarmela da sola e adesso… Adesso non c’è più».
«Io credo che tua madre sarebbe orgogliosa di te».
«Credi? Lei mi augurava sempre tutto quello che non aveva avuto lei. Un matrimonio stabile, una vita serena, una famiglia, un buon lavoro, una bella casa, magari un cane o un gatto».
«E invece sei qui».
«Sì; ma non è necessariamente un male. Dopotutto, io non mi sono mai trovata bene nello stereotipo che mia madre sperava seguissi». Ridacchiai tristemente. Non mi ci vedevo in versione casa e chiesa. «Gli altri tuoi parenti lo sanno?»
«Non lo so, non so neanche se glielo debba dire o no».
«Secondo me dovresti».
«La fai facile, vero? Cosa devo dire a mio padre? E ai miei nonni materni?»
«La verità. Il come temo che spetti a te deciderlo».
Seguii davvero questo consiglio. Il mattino dopo e dopo una colazione che fu un pranzo per via della fame. Mio padre scoppiò in lacrime dall’altra parte del telefono.  

La primavera stava restituendo a questo posto la bellezza che nell’estate seguente sarebbe fiorito in tutta la sua gloria e splendore. Si potevano già sentire le prime avvisaglie della stagione. Non so se è sempre così Sembrava di nuovo di essere in un altro mondo, come nella spiaggia o nella grotta delle Creature. La sensazione era la stessa e presto mi parve che tutto diventasse come quella volta che trovai la grotta. Mi avvicinai a un fontanile e ci girai attorno, ascoltando lo scrosciare dell’acqua.    
Passai un po’di tempo a esplorare il giardino e poi mi accomodai sull’erba a godermi i raggi del sole. Mi parve quasi di sprofondare nel morbido tappeto erboso e le piante che mi solleticarono la pelle delle braccia scoperte dall’abito a mezze maniche. I fili d’erba parvero quasi abbracciarmi e intrecciarsi alle mie dita.
Chiusi gli occhi.
«Indicami la via». Mormorai.
Poi forse mi addormentai perché quando aprii gli occhi le nuvole avevano assunto una tinta arancione e rosea e il cielo ancora dipinto di quell’azzurro verde mare cominciava a risplendere di tocchi di giallo e fucsia che presto sarebbero sfociati in colori ancora più carichi e accesi come una fiamma e avrebbero lasciato il posto a un ultimo arcobaleno prima di scomparire oltre l’orizzonte. In un dolce sfumato che forse solo il pittore più abile sarebbe riuscito a immortalare e rendere su tela alla perfezione.   
Mi alzai di nuovo in piedi e salii su, in alto, fino a superare il tetto della Sesta. Oltrepassai la barriera e mi ritrovai ad osservare dall’alto le Dodici Case. Dodici come lo zodiaco.
E, improvvisamente, trovai una pista: la parola zodiaco derivava dal greco zōdiakòs a sua volta composta da zòon, l’animale, l’essere vivente e hodòs, cioè strada, percorso. Appena lo pensai le dodici costellazioni zodiacali comparvero attorno a me come se formassero un cerchio. E, tra le mie mani, apparve il Sole delle dimensioni di una sfera di fuoco grande quanto un pallone da pallavolo.
Poi alzai con una mano la sfera sopra la mia testa e quella rimase sospesa lì e, mi ritrovai a osservare i dodici settori in cui era divisa la cintura zodiacale. Mi girai su me stessa come a simulare il percorso annuale compiuto dal Sole attorno alla Terra e  vicino alla mia testa comparve la Luna e mi rammentai che le stelle della fascia zodiacale erano utilizzate dagli astronomi mesopotamici come punti di riferimento per registrare la posizione del Sole e della Luna. Improvvisamente Lo zodiaco si spostò in posizione verticale e scese davanti a me, come se fosse una sorta di mappa stellare. E, mi ricordai che, anticamente, molto più anticamente del Mulapin, la coppia di tavolette del Settecento a.C., vengono elencate diciassette stelle/costellazioni poste nel “Sentiero della Luna”. E, io avevo davanti a me questo sentiero. Anche se nel V secolo  con il perfezionarsi degli strumenti di osservazione, i babilonesi preferirono dividere lo zodiaco in dodici segmenti di trenta gradi ciascuno, assegnando convenzionalmente a ognuno il nome di una costellazione. Ma era diverso ancora: dovevo fare una distinzione tra zodiaco tropicale e zodiaco siderale. Perciò mossi le braccia di lato come aprire un portone e le costellazioni si illuminarono di una luce bianca e si sdoppiarono portando con sé le altre cinque costellazioni di troppo dalla mappa, ponendole altrove.
Strumenti di osservazione, astronomia e astrologia. Già, una volta queste due discipline erano un’unica grande disciplina. Una volta gli esseri umani guardavano al cielo con occhi diversi. Pieni di meraviglia e rispetto, forse soggezione. Forse, dovevo riscoprire anch’io questa meraviglia.
Forse era questo ciò che mi mancava e che mi aveva portato a cercare di rifuggire le stelle nella mia adolescenza. Non erano solo numeri e misurazioni di gas ed energia luminosa. Io non la vedevo così.
“Dov’è la via?” Mi domandai. “La via è nel mezzo”, fu la risposta che trovai.
Allora quello che dovevo fare per rinnovarla, altro non era che riscoprirla.
Ma come?
Sentivo che la cosa che dovevo fare era andare avanti, rispolverando le mie conoscenze.
Dodici costellazioni dalle coordinate longitudinali ora legate ai punti equinoziali, la cui posizione varia a causa della precessione degli equinozi. Ma quelli babilonesi erano ancorate alle costellazioni dello zodiaco. E la loro conoscenza di queste forniva le coordinate dei punti di inizio e di termine delle costellazioni babilonesi. Un’arte divinatoria per misurare uno degli elementi naturali, il Tempo. Sotto ai miei piedi apparve la sagoma di un orologio con le lancette in corrispondenza dei dodici segni. 
Mi chinai e quando feci per toccarla le mie dita si illuminarono di giallo. Con essa scrissi la formula di Huber per le coordinate babilonesi di quelle tropiche            

λ (B) = λ (T) + 3.08 + 0.013825 y
 
in cui y è l’anno in coordinate astronomiche. In pratica i due sistemi coincidevano circa nel Duecentoventidue a.C. Poi la formula andò a incastrarsi nel complicato disegno che stava sorgendo sotto ai miei piedi.
Astronomia e Astrologia unite alla radice da una base comune. Come avevo fatto a dimenticarlo?
Apparve la figura di mia madre davanti a me. «Mamma!» Esclamai sorpresa nel vedermela davanti. Aveva ancora il viso solcato dalle prime zampe di gallina e il collo era ancora magro. I capelli lunghi più dei miei, scuri come la notte e i vistosi orecchini a cerchio. Sembrava quasi un’apparizione divina.  «Tutto è collegato, bambina mia». Mi disse sorridendo prima di scomparire e al suo posto comparve di nuovo la mappa astrologica. Collegato, come gli elementi, come le stelle della costellazione di Saga. Ma le costellazioni erano raggruppamenti apparenti di stelle. Non erano veramente collegati. “Ma chi ha deciso che lo fossero?” Mi rispose una voce femminile che conoscevo, anche se non rammentavo dove l’avessi già sentita.  
La bocca mi si aprì da sola per ricalcare le parole della piccola omologa dei miei ricordi: «Perché deve essere per forza collegato? Perché non può esserci qualcosa di staccato?» 
Tornai a concentrarmi sulla mappa dello zodiaco e, tendendo una mano verso di esso, la spostai sotto ai miei piedi. Mi alzai di nuovo in volo e, muovendo le mani come ad ampliarlo, esso rispose al mio comando. E, in mezzo ad esso, comparve il Santuario con le Dodici Case. Case, settori, campi, come avevo fatto ad essere così cieca? Erano sinonimi! Sinonimi della suddivisione della carta natale di una persona. Rappresentavano il percorso del Sole e dei pianeti nell’arco di una giornata, dall’alba di un giorno alla successiva.
Appena comparvero anche i pianeti si andarono a disporre quasi sul fondale dell’immagine del Santuario.
Ma all’inizio non si chiamavano così le case. Nel Tetrabiblos di Tolomeo i loro nomi erano rispettivamente: Oroscopo, Il cancello dell’Ade, La dea sum, Imum Coeli, La buona sorte, La cattiva sorte, Occidente, Inizio della morte, Dio, Medium Coeli, Demone buono e Demone cattivo.   
Appena lo pensai sotto le figure dei segni zodiacali comparvero queste parole e io mi ritrovai a pensare che, in un certo senso, raffigurassero aspetti dei loro guardiani. Mur che a volte se ne usciva con commenti legati all’interlocutore come se fosse effettivamente una valutazione o il responso di un oroscopo. Mi ricordavo ancora di quella volta che disse a Death: «Quell’Armatura ti si addice veramente».
La Prima Casa rappresentava il modo di presentarsi agli altri, la prima impressione, la personalità immediata, l’indole, l’istinto e le informazioni sull’aspetto fisico. Mur e Kiki, infatti, si nascondevano dietro una maschera di calma. E Mur non aveva niente da invidiare a Death Mask in quanto macabrietà e sadismo. Erano gli esaminatori.
Il cancello dell’Ade, la fermezza di Aldebaran, il suo modo di combattere e la sua stazza che, effettivamente sbarravano la strada proprio come un cancello quasi invalicabile. Che però, si poteva aprire se si toccavano i punti giusti. 
La Seconda Casa rappresentava i valori concreti che abbiamo intorno a noi e su cui possiamo contare, un tempo identificabili con la terra, oggi con il denaro, i beni materiali e le necessità primarie come il cibo, la gelosia come possessività della persona amata, l'immediato futuro e la necessità di sopravvivenza e di sostentamento.
La dea sum, il Cosmo Doppio dei Gemelli, che li rendevano potenti quasi quanto Lady Isabel. Le due nature dell’essere umano, la dicotomia tra Bene e Male, il nous, la scintilla divina dentro la carne umana. Filosofia. Ma anche Dante, con la sua discesa nell’Altro Mondo. In questo momento eravamo ancora nella selva oscura. Letteratura. E, di nuovo Astronomia, con la notte. Il periodo d’osservazione delle stelle.  É l'ambiente circostante immediatamente vicino a noi e come lo viviamo, è la casa dei fratelli, dei cugini, degli amici più cari e dei colleghi di lavoro, della socievolezza e della curiosità verso quanto ci circonda, delle pubbliche relazioni, del nostro modo di esprimerci e di parlare. È anche la casa dei piccoli viaggi, degli studi adolescenziali. Allora se è così, io se, avessi dovuto farmi il tema natale, mi trovavo ancora nella Terza Casa.
«Tutto è collegato». Mormorai, persino io, ma in che modo?
Andai avanti e passai all’Imum Coeli. O Fondo Cielo, che indica la mezzanotte e la posizione della IV Casa, la sua cuspide o campo. I nati attorno alla mezzanotte hanno il Sole a Nord vicino all’Imum Coeli, all’opposto del Medium Coeli, cioè il mezzogiorno.
L’ambiente di origine e finale dell’esistenza del soggetto con il significato più ampio l’inizio e la fine degli accadimenti delle cose. Death non era solo il Custode delle anime dei morti, ne era il traghettatore. Non era una maschera, ne era uno dei suoi volti. Lui si prendeva i doni della vita. Era questa la malinconia che si respirava nella sua Casa. E, lui lo sapeva. I suoi vecchi deliri non erano così a vuoto, allora.
É la famiglia, l'ambiente di origine in cui siamo cresciuti, il focolare domestico, i genitori, la nostra infanzia e il modo in cui tutto questo ha condizionato il nostro essere, è la casa delle tradizioni e dei legami ancestrali, della memoria e del nostro modo di fermare il tempo, ad esempio collezionando qualcosa. Può esser interpretata come percezione soggettiva, mentre altre teorie sostengono che illustri la situazione oggettiva. Di fatto l'una condiziona l'altra.
Poi passai alla Quinta, cioè la Casa di Aiolia, che rappresentava La buona sorte. Lui che a vederlo splendeva come il Sole e che portava speranza scacciando le tenebre. Che inconsciamente tutti i Cavalieri rispondessero alle loro costellazioni zodiacali? La buona sorte asservita alla conoscenza, la conoscenza che sciaccia le tenebre. L’alba. Ma allora La cattiva sorte? L’ignoranza? Come se fosse una sorta di ruota che gira? No, non era così.  Non andavano contemplati in due modi differenti come credetti nella mia adolescenza, ma uno come specchio dell’altro.
Adesso vedevo gli errori di percorso che avevo compiuto nella mia scoperta, ed era ora di correggerli. In Astrologia la Quinta Casa è quella della voglia di vivere e divertirsi, del potenziale creativo e della capacità di lasciare un segno, un'opera letteraria o un'opera d'arte, ma anche senso creativo inteso come carica erotica e sessuale, procreazione e, per esteso, educazione dei propri figli. È anche la casa degli eccessi e dell'atteggiamento nei confronti dei rischi, come può essere il gioco d'azzardo. E la Sesta è il dovere, le regole da rispettare, la routine quotidiana e il modo di affrontarla, il lavoro di tutti i giorni, l'adattamento verso il quotidiano e le sue regole, la disciplina e il rispetto degli altri ma anche di noi stessi. Quindi è anche la cura che abbiamo del nostro corpo e la nostra salute, come curiamo i nostri malanni e il nostro aspetto, per esteso il nostro modo di abbigliarci. Indica le zie.
Tornai a concentrarmi su essa.
Luce e buio. Luce come sentimenti positivi, quanto di più bello c’era nella vita, Buio come sentimenti negativi. Perché altrimenti Aiolia, che tutto in lui ricordava il sole, il suo segno di fuoco lo emanava, allora era così cieco e negativo? E, perché un illuminato come Shaka era così ottuso nella sua illuminazione? Nella Luce ci sono le Tenebre e nelle Tenebre c’è la Luce. Non Luce e Buio veri, ma interiori. La sfera emotiva. Ying e Yang, non una ruota, una bilancia. Ma quand’è che questa Luce si offusca? Quando le accade qualcosa di brutto. Ad Aiolia cosa era successo per diventare così? E, perché a Shaka mancava la compassione, l’umiltà e l’umanità tutto tronfio e preso come fu ad asservire il suo compito di reincarnazione di Buddha? La Bilancia della Giustizia. La capacità di discernere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ecco cosa rappresentavano. Ma la Bilancia? Cioè l’Occidente?  Che senso aveva? Il luogo forse? Un momento, Tolomeo era egiziano. La Bilancia andava interpretata nel senso della sua gente. La Bilancia delle proprie colpe e l’Occidente era l’Al di là, forse l’ago dell’Equilibrio. Se non mi ricordavo male a Shiryu era toccato proprio il compito di sentenziare il mio verdetto. La Linea di confine. Il Discendente che inizia la sequenza delle Case al di sopra dell'orizzonte e i significati si contrappongono alle precedenti. La settima, opposta all'Io-ascendente è la Casa degli Altri, del nostro modo di legarci a loro, ad es. con una società per affari, è la casa della convivenza, delle scelte di responsabilità, dei contratti, incluso il matrimonio, è la collettività e il modo in cui viviamo le reazioni con il prossimo. Rapporti con sorelle.
E, dopo di ciò l’Inizio della morte, l’Ottava Casa. Il segno che più di tutti era collegato alla mitologia egizia in quanto sette scorpioni erano al servizio di Iside e uno scorpione punse Orione per la mitologia greca. Il giustiziere che dava una chance di redenzione. Come succedeva quando si moriva. O, almeno mi era parso dal momento che la morte non mi aveva neanche sfiorata, per quanto l’avessi desiderato. Colui che puniva e redimeva. La disciplina, ecco cosa simboleggiava. Ed era opposta alla seconda-denaro e avere, rappresenta il denaro che avremo, magari in eredità, come sapremo gestire la nostra situazione economica futura, quindi rappresenta anche il denaro nel senso di "dare": debiti, rate, mutui. È una casa misteriosa, profonda, occulta, è il sacrificio, il significato che diamo alla morte, ma è anche potenziale creativo, fascino, magnetismo, l'inconscio e l'attrazione per l'occulto, la realizzazione spirituale. Può essere vita o morte, sacrificio o indulgenza. Al negativo rappresenta la segretezza, gli amori nascosti, il mistero, la falsità.
Poi c’era Dio. Questo era il concetto più difficile. In senso Astrologico era opposta alla terza-ambiente circostante, rappresenta l'ambiente lontano, i lunghi viaggi, l'estero e il modo di relazionarci con le persone straniere. È anche la casa dei viaggi mentali e dell'evasione attraverso discipline filosofiche, dell'etica, degli studi superiori, del clero, degli ideali. Indica anche gli zii, cugini.
Chi è Dio? Cos’è? Il Sagittario in che modo è connesso a Dio? Qualcosa che non si spiega. Ma come si trova? Staccandosi dai luoghi che si conosce, che siano fisici o mentali. Il Sagittario era figlio di un Dio, una parte di lui, un’emanazione. Il Sagittario è la Mente nella sua complessità, la parte inferiore, cioè l’Es a forma di cavallo, per l’istinto. La parte superiore è l’Io cosciente. Ma il Super Io, la morale, dov’è? Dio cos’è? Poi ripensai al concetto di Dio in antichità, tramite i miti: personificazioni della forza della Natura come il fulmine. In effetti gli attacchi del Sagittario oltre che alle frecce erano legati al fulmine. Qual è il compito di un Dio? Aiutare l’umanità, infonderle speranza e guidarle verso la Luce, la pace. Il compito di Lady Isabel, forse era per questo che il Sagittario era uno dei Cavalieri più fedeli della Dea assieme al Capricorno. Ma, se, in questo caso, Dio, fosse Daimon? Era un concetto parecchio diverso ma Lady Isabel era la Dea, l’armatura del Sagittario aveva le ali quindi un messaggero tra i due mondi, proprio come un angelo e, secondo Platone era Eros questo messaggero. Se simboleggiasse l’amore? Dio come Amore. Ecco in che senso.
Ed era l’amore che poteva portare verso la luce del Medium Coeli, il mezzogiorno, la Vita. Forse non era un caso che la spada Excalibur fosse stata affidata proprio al Capricorno. Il momento del giorno al massimo del suo apice eppure a un passo della sua decadenza. Il massimo della forza e prossimo a calare al tempo stesso. Ma non era solo questo, era anche un segno di mezzo. Il segno di Pan, il Dio delle Foreste. La forza selvaggia della Natura. E, Shura la temeva ingiustamente. Prima o poi avrei dovuto farci una bella chiacchierata. Inizia dal Medium Coeli ed è opposta alla quarta-origini. Rappresenta la realizzazione professionale che avremo, la fuga dal nido di origine, il successo, l'indipendenza, i riconoscimenti che avremo o non avremo, l'ambizione e la decisione ad inseguire determinati obiettivi, la forza di abbattere gli ostacoli.
Poi il Demone buono. Cos’è il Demone Buono?  L’acquario, colui che versa l’acqua nella bocca del pesce. Colui che nutre il Demone Cattivo. Spiegherebbe le Rose Demoniache di Aphrodite. Già, il concetto di Angelo non esisteva nella popolazione egiziana. E l’Armatura dell’Acquario ricordava vagamente un demone, anche se dalle forme più dolci rispetto a quelle del Capricorno.
Ma non era solo questo. L’Undicesima era opposta alla quinta-eccessi è la casa dell'equilibrio, della moderazione, del controllo, di come ci muoviamo nel contesto sociale e delle amicizie che impariamo a coltivare, la nostra moderazione, la capacità di individuare progetti e portarli a compimento ingegnandoci. È associata anche alle nuove tecnologie e al modo in cui ci rapportiamo ad esse. E, la Dodicesima era quella che chiudeva il cerchio in quanto opposta alla sesta-regole e concretezza e rappresenta noi di fronte al mondo e alle difficoltà della vita, è il modo in cui riusciamo a gestire la nostra interiorità, i nostri sogni, la meditazione, la sensibilità, l'emotività, la solitudine, il sublime, l'insofferenza verso la routine e la materialità a favore della spiritualità. Ricapitolando avevamo i Pianeti disposti in una particolare posizione rispetto alla linea dell’orizzonte delimitata dall’asse orizzontale Ascendente-Discendente. La disegnai con una mano e con l’altra disegnai l’asse verticale Medium Coeli - Imum Coeli. Ma l’asse che m’interessava in questo momento era quello verticale che univa la Casa del Sagittario e la Casa del Cancro. Eros e Thanatos. Due forze al servizio della Guerra. In effetti erano questi i motivi per cui si lottava.
 Ma lottando si finisce per logorarsi, fino a morire o a marcire dov’era il tempo per rimettersi in sesto?
Cosa simboleggiavano queste Case nel loro insieme? Io ci avevo sempre visto una persona nel suo insieme, ma nel suo insieme era comunque incompleta. Mancava qualcosa, ma non capivo cosa fosse.
Tutto è collegato, ma allora cosa è andato perduto? Un Elemento? Non credo, nello zodiaco erano considerati solo i Quattro Elementi principali. Il Fulmine e il Legno e il Metallo non c’entravano niente, ma neanche il Tempo. Ci stavo ancora pensando quando sentii una voce dirmi: «Molto bene, hai fatto un enorme progresso, hai compreso la dualità delle forze, ora devi solo andare avanti». Mi guardai attorno e vidi di nuovo mia madre, che mi sorrideva. «Mamma.» mormorai.
Lei mi sorrise di rimando: «Bambina mia».
«Mamma!»
Le corsi incontro e l’abbracciai commossa. Poi mi incorniciò il viso tra le mani e disse: «Sei cambiata tantissimo, piccola mia, sono fiera di te».
«Mamma, io, mi dispiace, mi dispiace per quello che è successo, io...»
«Non ti preoccupare, io lo sapevo».
«Lo sapevi?» Domandai stupita. Mia mamma sorrise triste: «Da molto tempo sapevo che prima o poi sarebbe successo». 
«Tu sapevi? Perché non mi hai mai detto niente?»
«Perché non volevo vederti con quest’espressione triste, tesoro. Non l’avrei sopportato». Appena lo disse i ricordi delle nostre litigate della mia adolescenza tornarono a galla e si proiettarono attorno a noi come un film. Ma ora... era diverso, al ricordo di quei litigi mi sentii gli occhi pieni di lacrime e mi morsi il labbro per trattenere un singulto. Ora che ero adulta, alla luce di questi fatti, potevo vedere anche i suoi tentativi di proteggermi. Cielo, erano così evidenti da essere fraintesi. Che ragazzina sciocca e senza cervello che ero stata. Ero troppo presa a crescere, a commettere i miei errori da non vedere oltre il mio naso. L’abbracciai di nuovo e piansi apertamente: «Scusa mamma, se lo avessi saputo io...»
La mamma mi strinse a sé come faceva quando ero bambina e mi spaventavo per i fulmini. «Ssst, non piangere, va tutto bene, è tutto passato, stai tranquilla», disse carezzandomi la schiena. «La mia piccola stellina», mi chiamava allora e anche in quel momento mi chiamò di nuovo così. Mi tenne stretta a sé finché non mi sentii meglio. Anche se ormai le avevo lavato i vestiti con le mie lacrime. Mi passò un fazzoletto e mi asciugai le lacrime e mi soffiai il naso. «Hai ancora molta strada da fare, piccola mia. Ora va e torna a casa». Mi disse. Proprio allora sentii qualcuno chiamarmi e fui riattirata verso la terra, verso il mio corpo. Mia madre alzò il braccio in segno di saluto mentre io urlavo che non volevo lasciarla.
Quando aprii gli occhi, mi scoprii ancora nel morbido abbraccio del prato di Shun, a guardare il sole che stava tramontando.
Mi alzai a sedere con la sensazione che qualcosa in me era cambiato. Che avessi appena fatto una scoperta di cui ricordavo i particolari. Ma non era di quelle che mi aspettavo, era di quelle che coinvolgevano lo spirito e la mente.
Una scoperta la cui conseguenza potevo ammirarla sulla mia pelle. Infatti, quando mi guardai, mi accorsi di aver manifestato l’aura nera e cupa come l’oscurità più profonda che, come una fiamma danzante nasceva dalle mie membra. Ma il nero più s’innalzava più sfumava sul grigio, l’argento e il bianco e, dentro di esso volteggiavano bagliori fosforescenti come stelle in movimento. Allora non era la mia immaginazione l’altra volta. Mi aspettai di veder comparire anche le Armature ma non successe nulla. Stavo solo splendendo. Valeva questa parola anche nel mio caso? Mi guardai incuriosita nel riflesso della fontana che, grazie alla luce del tramonto, potevo ancora vedere. «Sì, certo che so dov’è». Disse la voce di Shun. «L’ho lasciata in giardino giusto qualche ora fa».
Appena sentii la voce di Shun mi ricordai di dove mi trovavo ed ebbi paura. Loro non sapevano dell’aura nera! Svelta mi andai a nascondere tra le piante.
Se qualcuno mi avesse vista all’interno del Santuario non volevo immaginare cosa sarebbe potuto succedere. Un’aura nera come questa poteva essere fonte di guai per me. Già molte persone non mi potevano soffrire, aggiungiamoci anche questo e sarebbe stato il colmo.
«Ma, nobile Shun, qui non c’è nessuno». Obiettò una voce maschile.
«Siete sicuri?» 
Scivolai tra le fronde di un cespuglio di caprifoglio e lì restai nascosta ringraziando l’oscurità crescente, che mi avrebbe concesso una protezione maggiore. “Ma che cazzate dico?” Sarebbe durata poco. Dovevo sbrigarmi a smettere di luccicare, altroché! luce nera non scomparve poi mi ricomposi e mi avviai dentro la Casa. Pensavo che sarei stata colta da un attacco di ansia, invece non successe niente. Mi sentivo calma, perfettamente calma. Semmai erano i servi ad essere in fermento. Perché un paio di miei colleghi stavano parlando con Shun. Li conoscevo di vista, se non erro erano Alessio e Mitanni: «Non avete visto dove può essere andata? L’abbiamo cercata dappertutto».
«No, purtroppo no, l’avevo lasciata in giardino ma non c’è più».
«Cosa? Di chi state parlando?» Domandai facendo il mio ingresso, stropicciandomi un occhio. I tre si voltarono verso di me e partì un coro di «Astrid» e dei, «Dov’eri finita? Ti abbiamo cercato dappertutto!» E, mi si avvicinarono.
«Ero in giardino, mi sono appisolata, scusate...» ma non feci in tempo a completare le scuse che  uno dei due mi agguantò per il polso e mi trascinarono via. «Vieni, sbrigati, dobbiamo correre alla Tredicesima». Disse il primo e, il secondo: «Grazie di tutto, Nobile Shun di Virgo». Poi ci seguì. 
«Cosa succede?»
«Ti abbiamo cercato dappertutto, sei sparita per due giorni!» Esclamò agitato Mitanni. Considerando che alla Tredicesima mi consideravano alla stregua di un ricordino di piccione da evitare, mi sorprendeva che anche la mia presenza fosse richiesta. «Sbrigati!» 
Fui immediatamente relegata in cucina. E, la prima cosa che mi dissero, dopo “lavati le mani” fu «Perché hai delle foglie nei capelli?» Foglie che mi affrettai a togliere e dare una mano in cucina. Non me la cavavo così male come Lythos. Anzi, in realtà io e l’arte culinaria andavamo molto d’accordo.
Le rivelazioni che avevo ricevuto mi resero disattenta. Mia madre mi aveva appena restituito un po’ di speranza. Aggiungiamoci anche il fatto che non sarei potuta andare al mio osservatorio personale ed era fatta. L’unica cosa da fare era lavorare e meditare insieme.
Feci un bel respiro profondo.
Dunque, dov’ero rimasta?
I segni zodiacali.
Avevo appena riscoperto le basi dell’Astrologia, ora non restava che andare avanti. Per mia madre, per me, per il Santuario. Non potevo lasciare che le informazioni che mi aveva lasciato cadessero nel vuoto. Non me lo sarei mai perdonato.
Le Dodici Case rappresentano aspetti della personalità di una persona. Ma perché sono così sconclusionate? Perché non c’è armonia tra i Dodici segni? Cosa è andato perduto? No, non potevo restare qui a preparare la cena, dovevo sapere.
Mi guardai attorno e mi assicurai che nessuno facesse caso a me, poi me la svignai senza dire una parola dalla cucina.  Purtroppo per Elsa, Mitanni e Mylock, non potevo trattenermi oltre come avrebbero desiderato. Avevo del lavoro da svolgere e non potevo permettermi di perdere tempo. Kanon era stato categorico.
Perciò mi recai di nuovo al giardino della Sesta Casa. Mi parve quasi che qualcuno mi chiamasse ma la voce non proveniva dalle mie spalle, bensì da davanti a me. Era la stessa voce di qualche mese fa, che mi aveva condotta alla grotta.  
Approdai nel giardino dopo averne aperto la porta e tornai a sedere sotto l’albero. Chiusi di nuovo gli occhi e ripresi la meditazione lasciandomi guidare dalla sensazione impellente. Ero sorpresa, non mi aveva abbandonato nonostante che fossero passate delle ore. Tanto meglio. I concetti erano ancora freschi e vivi nella mia mente.
Immaginai di nuovo di essere sospesa nel cielo e recuperai rapidamente lo zodiaco.
Le Case generalmente si potevano estendere sia su un solo segno zodiacale, su due (in maggioranza) e su tre (in misura minore) o più mano a mano che ci si avvicina ai circoli polari.
Si dividono in angolari, corrispondenti ai segni cardinali, succedanee corrispondenti ai segni fissi e in Cadenti corrispondenti ai segni mobili. Spezzai la meridiana a metà, facendola diventare una linea e poi la spezzai altre tre volte, ottenendo tre segmenti da quattro case.  
I segni cardinali sono segni zodiacali in cui si trova il Sole all’inizio di ciascuna stagione, cioè in Ariete, in Cancro, in Bilancia e in Capricorno. Cancro e Capricorno vengono anche chiamati segni solstiziali, mentre Ariete e Bilancia segni equinoziali. Disegnai sotto ciascuno di essi il simbolo di un sole o di una luna per distinguerli. Poi tracciai i rapporti con le case. Unii con una linea che creai con il movimento della mano l’Ariete con la Bilancia e il Cancro e il Capricorno, realizzando la “croce cardinale”.  Poi spostai questa croce e la rimisi al suo posto. E, passai alla contemplazione dei segni fissi o solidi. Cioè quelli in cui si trova il Sole nel pieno di ciascuna stagione. Toro, nel pieno della primavera, Leone nel pieno dell’estate, Scorpione, nel pieno dell’autunno, Aquario nel pieno dell’inverno. Unii il Toro allo Scorpione e il Leone all’Acquario realizzando la “croce fissa” e la unii alla “croce cardinale”. Infine passai ai segni mobili o bicorporei perché siti tra due stagioni, cioè Gemelli, Vergine, Sagittario e Pesci e la loro croce era definita “croce mobile”. Guardai la mia opera. Che cosa avevo ottenuto? Una suddivisione stagionale.
Una suddivisione stagionale di caldo e freddo, di secco e umidi, di Elementi! In Spagna gli Elementi venivano divisi così! Ecco cosa avevo ottenuto!
I tre segni corrispondevano a un Elemento Magico. Di nuovo i collegamenti! Eccoli! Tutto è collegato. Adesso stavo esplorando di nuovo il territorio della magia. E, se fosse stata davvero magia quella che dovevo operare per ripristinare il segno di Saga? E, io, cosa avevo fatto? Avevo usato il mio potere per seccare un segno che umido non era, lo avevo reso solido quando invece era mobile. Terra, quando invece era aria. Dovevo riportarlo alla sua costituzione originaria.
Ma come? Richiamai alla memoria il ricordo della sua cattura, avevo usato il mio potere in base a un’analogia basata sull’astronomia, ma l’avevo solidificato in base all’astrologia. Ma l’avevo fatto perché avevo avuto paura. Paura, blu, segni d’acqua. Il collegamento era evidente.
Ecco perché non c’era un manuale di istruzione per l’uso di questi poteri, li usavo inconsciamente in base alle mie conoscenze. Ma tratteggiai di fronte a me la costellazione dei gemelli e, con le mani, la richiusi su se stessa appena mi presi il pugno nell’altra mano. Chiuso, statico, come la Terra, o il Metallo. Appena aprii la mano e le separai, la costellazione tornò al suo posto. Aperto, in movimento, come l’Aria. 
Potevo usare anche le analogie astrologiche per sfruttare i miei poteri. Sorrisi mentre facevo ulteriori progressi. E, potevo farlo, solo usando le mie mani. Altro che Armature e Cosmo! Io avevo davvero il Potere delle Stelle! 
Adesso potevo farlo, adesso potevo davvero liberare Saga. E, appena giunsi a questa conclusione, mi sentii invadere da una nuova forza. Una forza che spazzò via tutta la tristezza e i dubbi provati finora e che si ritrasse su se stessa per assumere l’aspetto di una fiamma danzante all’altezza del mio petto. Una fiamma mandante forza, determinazione e anche una certezza così assoluta da toccare le vette del trionfo. Una carica che cresceva dentro di me, dalla parte più profonda della mia persona, aumentando la mia forza e facendomi sentire invincibile.
Subito un altro ricordo prese forma dentro di me. La prima volta che la sentii, d’inverno. Quando battei per la prima volta il mio maestro. Era Natale ed eravamo in Umbria dai miei nonni materni quando uscii a giocare in giardino. E il mio maestro mi raggiunse portandomi il bastone. «Adesso, maestro?» Domandai incerta.
«Adesso». E, dopo qualche infruttuoso tentativo sospirò e smise. Posò la punta del bastone in terra. «Gli esiti delle battaglie tra i Saint dipendono da quanto si brucia il Cosmo. Tu non sei ancora riuscita a risvegliare il tuo, a questo punto forse direi che è meglio lasciar perdere». Annunciò, sconsolato.
Sgranai gli occhi: cosa? Il maestro continuò: «Tu non sarai mai una Saint e io ho sprecato il mio tempo per nulla». E mi voltò le spalle. No, dopo tutto quello che era successo, non poteva finire così. E fu allora che sentii esplodere la rabbia dentro di me. Una rabbia ardente come non ne avevo mai sentita prima.  «Ehi, maestro». Dissi rialzandomi da terra. Lui si girò verso di me con un’espressione neutra in volto. «Non ho sentito la campana». Decretai con la mia vocetta da bambina, trapassandolo con gli occhi.  «Che?» Domandò confuso e per niente impressionato.
«Non - ho - sentito - la - campana.» scandii reprimendo la vergogna. Non era la stessa cosa la stessa frase di Rocky V. Detta da una bambina di otto anni, in effetti, sembrava una stupidaggine fatta e finita. Eppure dirlo non fece altro che incendiarmi ancora di più. L’energia sembrava esplodere da me increspando l’aria.  «Vuoi continuare?»
«Sì».
«Va bene». Sospirò. Poi si rimise in posizione. Ma per me non era più un gioco. Detti retta all’Acqua che la miko del tempio shintoista aveva rilevato in me. Mi fu molto facile credergli, quando si è piccoli è più facile credere alla magia che da adulti. E, se questo era il mio potere, allora era tempo di ascoltarlo. Asseconda i suoi movimenti. Mi sussurrò la voce dell’Elemento. E io lo feci parando e schivando. I colpi dei bastoni risuonavano tutto attorno a noi nel campo.
E ora avanti, più veloce. Ed io eseguii. Prendi la mia fluidità. Comandò ancora e le mie membra si rilassarono istantaneamente, come se si fossero spogliate della pesantezza.
Il mio corpo si fece più leggero e più sciolto, come acqua. Come quando ballavo. Come lui quando, muovendosi come un serpente per schivare i colpi, sembrava fatto di onde.
Senza che lo avesse premeditato roteai il bastone e lo colpii con l’Ichi Zuki, ossia la parte inferiore del manico con una finta che con la disciplina non c’entrava niente.
Per la prima volta da che lo conoscevo, il maestro sgranò gli occhi verdi sbalordito. Non ero mai riuscita a schivare tutti quegli attacchi e a colpirlo da quando mi aveva preso sotto la sua ala.
E, riuscii a portare la punta del bastone alla sua gola. Sgranai gli occhi, tornando in me e, sentii l’energia ardente di cui ero nucleo e che si espandeva attorno a me. Non ero mai stata più consapevole di ciò che mi circondavo. Percepivo ogni cosa con esattezza e la sentivo parte di me.     
«Che cos’è questo?»  Domandai sbalordita ritraendo il bastone dal suo collo mente le lingue di energia nera grigia, argentea e bianchissima mi avvolgevano. I bagliori fosforescenti che si muovevano tutto attorno a me e sentivo una melodia e una voce che permaneva ogni cosa in un dolce canto.  Lui mi sorrise, fiero e mi posò una mano sulla testa, mentre ansimavo per recuperare fiato: «Questo è il tuo Cosmo».
«Il mio Cosmo? Da come me ne avevate parlato io credevo…»
«Infatti, in realtà non lo usiamo così, ma sembra che tu, invece, sia riuscita a risvegliarlo senza doverlo per forza bruciare. Questa è una cosa che non si vede tutti i giorni».
«Ma quindi non è stato uno spreco di tempo?»
«No, non lo è stato».   
“Io ho un Cosmo”. Pensai stupita e, questo pensiero, mi accompagnò anche al risveglio.
Ma quella voce… Di chi era quella voce? Perché ero capace di sentirla? Un momento e se…
Aprii gli occhi mi ritrovai coperta d’umidità, distesa a terra, sull’erba rugiadosa e le membra infreddolite. Il cielo era dipinto con i colori dell’alba. Eppure anche così non smettevo di sentirmi parte del Tutto. Non pensavo di aver sprecato così tanto tempo. Aspetta, cos’era che stavo per ricordare? Mi sentivo a un passo da un’importante scoperta. Mi portai una mano alla fronte nel tentativo di spremermi le meningi. «Andiamo, cos’era?»
Poi sentii di nuovo quel canto e quella melodia. Mi guardai attorno ma non vidi nessuno e non percepii niente. Ma questo era reale, non potevo essermelo sognato. Non così. Ero più che sveglia, anche perché mi tirai pure un pizzicotto. Ma la melodia non scomparve.
Poi sentii la risata del sogno, stavolta più profonda e intervallata di note più alte, femminili. Una risata divertita, ma non di scherno. Una di incoraggiamento.  
Quella voce che mi aveva accompagnato finora, non era quella della mamma, apparteneva ai miei ricordi. Alzai la faccia al cielo mentre le stelle venivano cancellate dalla nascita del nuovo giorno.
Finalmente ci sei arrivata, eh? Mi chiese divertita, staccandosi dal canto corale.
Quella voce che mi aveva guidato nell’infanzia era la voce delle stelle. Io ero capace di ascoltare la voce delle stelle e di essere un tutt’uno con il Cosmo.
«Ah, l’alba.» dissi riavendomi dal mio stupore.
Mentre il sole sorgeva mi resi conto che parte dell’energia che mi pesava sul cuore fino a quel momento era scomparsa e che il dolore si era fatto più sordo. Mi sentivo un po’più forte. Non come all’inizio, ma sulla buona strada per accendere in me quella speranza che mi avrebbe guidato. Almeno, la strada l’avevo trovata.
Mi sentivo almeno un po’ diversa, adesso e, quella strada, adesso non mi intimoriva.
Ora non mi restava altro da fare che chiudere il rito. 
Mi alzai, mi spolverai sul sedere e sulla schiena e poi divaricai un po’ le gambe. “Laddove la notte cede il posto al giorno, io il sentiero tra le stelle troverò.” Pensai. Elevai le mani alte, sopra la mia testa e, le abbassai, prima una e poi l’altra, ai lati del mio corpo, per lasciarle ricadere e depositare a terra l’energia che si era raccolta a pochi centimetri dai miei palmi.
Poi tornai alla Tredicesima, passando, però dalla scalinata delle Dodici Case con ancora in mente quella musica. Shiryu e Milo non c’erano, Seiya dormì ancora della grossa. Tutti gli altri non si accorsero neanche di me.
Alla Tredicesima mi lavai e mi cambiai velocemente. Fu solo a quel punto che mi guardai di nuovo allo specchio: ero cambiata. Ero più bella, più agile e più scattante. Mantenevo la corporatura magra ma il cambiamento più grande era nei miei occhi. Rilucevano di una forza nuova e di una speranza che prima non c’erano. Era come se, in un certo senso, avessero catturato la luce del sole e fosse andata a sostituirsi alla luce originale, caricando il giallo delle iridi di nuova forza e vitalità.
Poi, andai in cucina per la colazione e a lavorare. Mylock, quando seppe che ero di nuovo qui, mi redarguì aspramente e mancò poco che mi sferrasse una bastonata a causa del sorriso che non abbandonava il mio viso. Però fu fermato dall’assistente di Kanon che mi cercava: «Dov’eri finita? É da ieri sera che ti cerchiamo!» Esclamò irritato. Cercai di recuperare un po’di contegno, non volevo che l’assistente di Kanon mi licenziasse. Lui sì che era davvero temibile in quanto occupava una posizione di poco inferiore a quella del Portavoce di Atena in terra, altro che Mylock. «Scusatemi, signore».
«Fa che non accada più».
«Non posso prometterlo». Mi sfuggì. L’uomo si volse di nuovo e, dopo avermi trapassata con gli occhi mi domandò, minaccioso: «Come scusa?» Repressi l’istinto di arretrare di un passo.
«Il Gran Sacerdote mi ha ordinato di liberare suo fratello, sto lavorando senza sosta a questo. Mi ha dato solo pochi giorni, ho pensato che se avessi cominciato subito…» Spiegai ma lui m’interruppe; «Non se è vero o no, ma ora sei attesa, spicciati».
Fu solo quando guardai Kanon negli occhi, quella mattina, che capii cosa mi era successo: adesso avevo lo sguardo deciso di un Saint. Ma nessuno parve accorgersene. 
A Shura prese un colpo quando mi vide, seduta di spalle sulla soglia della Decima a guardare Rodorio, quel pomeriggio stesso. «Astrid!» Esclamò. Ero venuta apposta per liberare il suo amico dalla gabbia. Volsi il viso verso di lui e gli sorrisi. «Buon pomeriggio».
Lui mi guardò perplesso. Potevo quasi intuire cosa stesse pensando quando mi domandò, preoccupato: «Stai bene?»
«Sì», risposi con un sorriso. «Dov’è Saga?» Chiesi poi.
«É in Casa, perché?»
«So come liberarlo». Annunciai, risoluta.
Lui sgranò gli occhi viola scuro: «Davvero?»
«Sì».
Mi seguì dentro mentre. La spostai su un cuscino del divano e m’inginocchiai di fronte a lui, che sonnecchiava ancora. Poi alzai le mani che subito presero a luccicare di quella luminescenza dorata dei Cosmi dei Gold. Anche la gabbia di Saga s’illuminò allo stesso modo, quasi che fosse una reazione a catena. E, per la prima volta sentii la materia di cui era composta risvegliarsi sotto la patina di metallo. Le stelle erano attente e pronte ad ascoltarmi. «La legge di Murphy…» mormorai e, un sorriso m’increspò le labbra mentre sentivo di nuovo di essere parte del Cosmo.
«Come?»
«Niente».
Si mise dall’altra parte del divano, le mani appoggiate sullo schienale.
Posai un pugno nel palmo di una mano e aprii le dita.
Le stelle della costellazione di Saga, presero a brillare più intensamente e si espansero.
Quando allontanai le mani l’une dalle altre, la gabbietta si aprì alla stregua di un bauletto. Alzai i palmi verso di essa e, con un movimento fluido, la spinsi indietro, liberando definitivamente il suo compagno d’arme.
La risistemai con la punta delle dita, di modo che riassumesse la sua forma originaria e, quando le mie dita smisero di brillare, anche la costellazione scomparve.
Proprio in quel momento Saga aprì gli occhi, batté le palpebre e domandò, trovandovi a fissarlo, Shura allibito e io sorridente. «Ho fatto qualcosa? Come mai mi state guardando a quel modo?»
Solo dopo realizzò di essere libero. La prima cosa che fece fu aprire le ali e alzarsi in volo, fare il giro della stanza e posarsi sulla spalla di Shura.
«E, non avete ancora visto niente». Dissi io, con un sorrisone. Mi guardarono con tanto d’occhi. «Cosa ti è successo?» Mi chiese poi Saga, confuso, dalla spalla di Shura.
Solo allora lo guardai con un mezzo sorriso e risposi: «Tutto».    

C’era un’espressione particolare che da piccola amavo e che non usavo più da tempo: “Non ho sentito la campana”.
Adesso, questa battuta ce l’avevo bene in testa. Come non mi capitava più da tempo quando il mio maestro mi spronava a rialzarmi e a combattere di nuovo o a provare gli esercizi un’altra volta. Era stato lui a insegnarmi a non arrendermi, instillandomi la tenacia. Ed era sempre stato lui a spianarmi la strada.
Non so cosa si provasse a ricordarsi della vita precedente. Non avevo mai sperimentato la sensazione. Neanche sapevo se avessi vissuto altre vite prima di questa. Quello che sapevo era che se ricordare era aggiungere dei pezzi alla mia identità, completare un puzzle lasciato incompleto troppo a lungo, allora era così. Adesso che i ricordi stavano tornando alla luce mi sentivo cambiare. Ma in meglio, mi sentivo più forte di prima. Avevo riscoperto la sensazione delle squame di Snakye sulla mia pelle, la naginata, le tecniche legate al Cosmo. E ciò che ne conseguiva.
D’un tratto realizzai. Se io ero capace di usare queste tecniche, allora avevo un Cosmo. Per forza era così. Altrimenti per ricucire le ferite e usare la Dark Resurrection, avrei dovuto usare la Magia Nera, andando contro il Rede. 
Ma non potevo raccontare niente di tutto questo ai miei amici. Non volevo che mi vedessero sotto una luce diversa ancora, anche se non volevo neanche essere sempre la damigella in pericolo. Stavolta volevo essere io quella che attaccava e si salvava da sola.
Avevo bisogno dell’aiuto di qualcun altro. Per questo andai alla ricerca delle persone che potevano aiutarmi, a perfezionare il mio stile di lotta e usare i miei poteri.
«Milady». S’inchinò il Black Saint.
«Avete detto che volevate aiutarmi, non è così?» Chiesi. Sapevo che erano tipi poco raccomandabili, ma se fossi riuscita a portarli dalla mia parte, senza che conquistassero niente, forse… Era rischioso e stupido, ma non avevo altra scelta. Non era neanche detto che dovessi utilizzare subito questa carta ma sperai di non farlo.
Contrariamente alle mie previsioni accettarono immediatamente, lasciandomi basita. «Sissignora».
«Allora aiutatemi ad allenarmi, ho degli arretrati da smaltire». Dissi io.
«Siete sicura, mia Signora?»
«Sì». Sentivo che era questa la strada giusta da prendere. E, mi dispiaceva per Kanon, la Tredicesima e il resto dei miei colleghi, ma io non ero una di loro. Non era nelle mie corde piegare la testa e sottostare agli ordini. Non quando adesso si era ridestato il fuoco che mi scorreva nelle vene, assieme all’energia.
Sapevo solo che la strada che dovevo percorrere era questa e che in fondo, sarei giunta a scoprire tutta la verità. «Siate i miei maestri, insegnatemi a lottare, affinché io possa sopravvivere, come un tempo fece Ikki di Phoenix». Come mi raccontò Shun.
«Come desiderate». La voce si era sparsa in fretta. Adesso tutti sapevano che mi allenavo con i Black Saints e, spesso, le persone venivano ad assistere. Per avere maggior libertà di movimento mi ero comprata delle tuniche più corte. Facevano tanto Dea Artemide secondo l’iconografia umana ma a me andava bene così.
In teoria non era vietato che i Saint richiedessero l’aiuto di paggi e ancelle per allenarsi. Era strano vedere me, farlo e di mia spontanea volontà. Adesso apertamente e, sotto le grida d’incitamento dei miei allievi della Palaestra.
A volte loro stessi partecipavano e, fu anche grazie a loro che cominciai a usare in modo diverso il Potere delle Stelle. «Non aver paura di attaccare, noi non cadiamo così facilmente!» M’incitò Kouga di Pegasus che aveva solo quattro anni più di me. Anche se non vidi mai i Gold Saint quando mi allenavo io assieme al gruppo dei Bronze, fu bello allenarsi così e vedere come Bronze e Black Saints fecero fronte comune fin da subito per insegnarmi a combattere al meglio delle mie possibilità. Probabilmente se avessi continuato su questa strada avrei trovato l’assassino dei Saint e avrei persino potuto provare a catturarlo. E questa possibilità non mi sembrava più al di fuori della mia portata. «Dunque sei tornata alla carica, eh?» Domandò la Bronze Saint di Indus quando raggiunsi gli spogliatoi per recuperare le mie cose. «Sì».
«Non so cosa tu abbia in mente, ma stai facendo una cazzata».
Girai la testa verso di lei, tuffando i miei occhi nei suoi, inespressivi della maschera. Lei s’irrigidì e, dentro di me sogghignai compiaciuta, ma continuai a mostrare la mia espressione determinata. «Questo è tutto da vedere». Ribattei determinata. Dopotutto, non avevo ancora sentito la campana.

Shiryu
Dopo aver dato la triste notizia non aveva saputo fare altro che andarsene. Avevi cercato di persuaderlo a rimanere. Eravate sempre stati abbastanza legati voi due. Ma lui aveva declinato l’offerta. Aveva detto: «Vado a realizzare le ultime volontà di Aida-san». C’avevi messo un po’per capire. Soprattutto quando Hyoga ti aveva chiamato tutto concitato, asserendo che un anonimo vi aveva denunciati tutti per complicità di rapimento.
Tu non avevi detto nulla. Se da un lato ti eri indignato per questa scelta, dall’altro aveva fatto la cosa giusta. Perciò tenesti per te l’identità dell’autore della soffiata.  Per essere precisi, tale soffiata aveva colpito soprattutto la Dea e voi cinque, gli altri si salvavano ancora un po’perché non avevano un cognome. Ma ormai la reputazione dei Saints di Atena si era macchiata.
Lady Isabel avrebbe dovuto spiegare tutto ciò in mondovisione. Adesso tu, Shun, Seiya, Ikki e Hyoga e i vostri fratelli rimanenti eravate indagati. Mentre la polizia italiana stava finalmente prendendo in considerazione il caso. «In realtà Astrid stava per denunciarci quando Aurel la rapì. Aveva deciso che sarebbe andata a denunciarci il giorno dopo». Disse Kiki, rispondendo alle tue domande quando vi recaste a Goro Ho.
«Non la biasimo di certo, a causa nostra la sua vita è cambiata drasticamente». Dicesti propendendo per la ragione. In quanto portatore della Cloth della Bilancia tu più di tutti sapevi che cosa volesse la giustizia. E questo era giusto, eppure un brivido di terrore ti risalì su per la schiena. «Adesso come faremo con Death Mask e Aphrodite?» Chiedesti.
«Pagheranno lo scotto anche loro immagino. Appena Kanon verrà a sapere della notizia e si inventerà qualcosa per insabbiare lo scandalo».
«Tu non hai intenzione di dirglielo, vero?»
«No». Restasti molto colpito. Nonostante che gli fosse fedele, era la prima volta che agiva contro di lei. Lo agguantasti per la spalla: «Non puoi farlo, Seiya! Tradiresti la Dea!»
«No, Shiryu, farei solo ciò che è giusto! Ma non ti rendi conto che abbiamo subito tutta una vita a causa di Alman di Thule e di Lady Isabel? Quante volte abbiamo piegato la testa e quanti dei nostri amici sono morti per soddisfare la volontà di questa Dea? Tutte le legnate che abbiamo preso e le volte in cui abbiamo rischiato di morire? Hai già dimenticato come siamo cresciuti prima che ci spedissero ad addestrarci a giro per il mondo? Amico mio, tu ci hai rimesso la vista, io sono stato ferito gravemente e ho perso anni della mia vita inchiodato su quella sedia a rotelle. Nessuna Cloth può valere il prezzo di tutta questa sofferenza e anche nessuna gloria». Restasti stupefatto nel sentire la sua spalla tremare e il suo gemito di pianto. L’avevi visto piangere prima ma questa era la prima volta dopo molto tempo: «La Dea stavolta si è spinta troppo oltre. Ha sbagliato».
«Ma Seiya…»
«Mi dispiace amico mio».
Capisti quello che provava. Avevi cercato di non pensarci per tutti questi anni, ma aveva ragione. Una parola dentro di te aveva preso forma nel corso del tempo e l’avevi scacciata. Adesso eccola qui, risvegliata dalle parole di Seiya e dai ricordi della vostra infanzia. Le bastonate di Tatsumi, l’indifferenza di Alman di Thule, il bullismo di Lady Isabel, l’abbandono da parte dei vostri genitori, la recinzione elettrificata. E adesso il reato di complicità di rapimento perché nessuno aveva pensato di avvisare la famiglia di Astrid. No. Era troppo anche per te, che eri il guerriero della giustizia per eccellenza. Sentivi anche tu da che parte pendeva la bilancia. «Fai come credi, Seiya, ma se permetti un consiglio…» bisbigliasti qualcosa all’orecchio del tuo miglior amico. Il quale, quando ti discostasti, rispose: «Grazie, amico». Poi l’avevi lasciato andare.

«Lo farà davvero?» Chiese Hyoga dall’altra parte del telefono. La sua rabbia sembrava essersi placata. Avevi chiamato gli altri tuoi amici per spiegargli la situazione. Non l’avevano presa bene. Soprattutto Hyoga e Shun che si erano rifatti delle vite all’infuori del Santuario.  Soprattutto Shun, che sarebbe stato sicuramente radiato dall’album dei medici. Anche se tutti vi eravate categoricamente rifiutati di portare il cognome del vostro genitore comune. I tuoi fratelli erano sopravvissuti all’attacco delle Creature a Tokyo ed erano riusciti a mettersi in salvo a loro volta. All’inizio non avevano capito che cosa avesse portato Seiya a prendere questa decisione. Solo dopo qualche minuto di riflessione c’erano arrivati e avevano smesso di polemizzare. «Sì».
«La fondazione Grado ci rimetterà». Considerò Hyoga.
«Sì». Eppure la cosa non ti faceva né caldo né freddo.
«Jabu ci farà a pezzi».
«É possibile». Rispondesti con calma.
«E ci toglieranno il Cloth». Continuò Hyoga. Inspiegabilmente ti scappò una risata piena di sollievo. Non ci avevi mai pensato, ma l’idea di perdere la Cloth non ti faceva così paura. «Possibile. Ma almeno avremo la nostra giustizia anche noi».
«Sempre che le autorità diano ascolto a Seiya». S’aggiunse Shun, preoccupato poi domandò come avrebbero fatto con le testimonianze se fossero stati chiamati in aula a deporre. Ammesso e non concesso che sia la Fondazione che il Santuario non lo bloccassero prima. Capisti immediatamente che si riferiva a Ikki, che tanto per cambiare era disperso un’altra volta. «Dici che ci dovremmo preparare a una tempesta mediatica?» Chiese poi Shun.
«É probabile. Per ora sono riuscito a fargli rimandare tutto alla fine di questa storia, altrimenti non ci sarà nessuno da denunciare». 
«Avresti dovuto persuaderlo a denunciare tutto subito». Ponderò Hyoga. Da quando era diventato padre era molto cambiata la sua visione della vita. Non avrebbe mai permesso che sua figlia patisse quello che voi avevate patito. Ancora adesso stava lottando con gli assistenti sociali per continuare a occuparsi della piccola Natasha. Se aveste perso la causa, lui avrebbe perso l’affidamento di sua figlia. La sua preoccupazione più grande era che tutti scoprissero i vostri scheletri nell’armadio. Era difficile d’accettare anche per lui la vostra vecchia condizione. E non era detto che gli avvocati riuscissero a dimostrare che non sapevate nulla di questo rapimento.   
 
Mur
Avevate aiutato la Dea e le avevate promesso di restare con lei. Ma adesso qualcun altro aveva bisogno di voi. Dov’era? La stavate cercando come ossessi ma non riuscivate a trovarla. Sapevate che era in pericolo.
Tu e Shaka eravate quelli che si stavano controllando di più in questa faccenda. Ma sapevi che la calma del tuo amico della Sesta era più apparente che reale. Gli posasti una mano sulla spalla coperta dalla Cloth e lo rassicurasti dicendo: «Vedrai, la troveremo».
«Lo spero, senza il suo Scettro non ce la può fare». Rispose lui guardando lo scettro che reggeva tra le mani. Lungo due metri col manico nero. All’altezza del ginocchio, la parte inferiore del bastone era infilata in una guaina dorata appuntita. Invece all’altezza della testa un’altra guaina inanellata lo adornava. Sull’anello superiore si allargavano i due omega ribaltati e i serpenti opposti ornamentali che fissavano le due ali di farfalla di smeraldo e oro che si aprivano a ventaglio ai lati della gemma. Al centro era fissato un grosso smeraldo romboidale che vi stava illuminando la strada.     
Poi avevate sentito il suo grido e vi eravate precipitati in quella direzione. Presto avevate visto quella luce che si era allargata. Ci eravate saltati dentro e avevate sentito un brivido come quando si spicca un balzo più alto del normale. E l’avevate vista riversa su un fianco. I lunghi capelli castani le coprivano il volto.
Gli Specter stavano per sopraffarla. Usasti lo Stardust Revolution e gli aggressori furono sbalzati indietro. La giovane Dea si mosse, si rialzò a sedere e si guardò attorno disorientata prima di alzare il volto e vedervi.
La riconoscesti all’istante. Quegli occhi castani non li avresti mai scordati. Non sembrava avere più di quindici anni. «Voi?» Esclamò riconoscendovi mentre i vostri cuori si allargavano per la gioia e il sollievo. Eravate arrivati in tempo. Poi tutto era diventato bianco e ti eri svegliato.
Questo sogno non ti aveva lasciato neanche quando ti eri svegliato quella mattina. Ti eri lavato, vestito, pettinato ma continuava a restare vivido. Non era un sogno qualsiasi, conoscevi a menadito la situazione nei sogni. Avevi sentito dire che riesci a distinguere i sogni dai ricordi perché nei ricordi c’è sempre una sottotrama che ti permette di intuire tutto.      
Lo studio nella Prima Casa sembrava una versione ridotta della vostra torre in Jamir. Con la differenza che aveva appeso al soffitto modellini di Cloth dipinti a mano. Tralasciando questo dettaglio e le porte era quasi uguale. L’odore ferroso del sangue permeava la stanza da sotto il profumo del detersivo alla lavanda. Ormai neanche un nebulizzatore sarebbe riuscito a toglierlo. Sparsi qui e là pezzi di oro, argento, oricalco e altri materiali ingombravano il pavimento.
I vari rotoli coi progetti delle Cloth che studiava e riparava erano appesi alle pareti. Aveva appreso varie arti della forgiatura nel corso della sua vita. Eri stupito dalla sua bravura. Era un piccolo genio, avevi sentito le sue prodezze nella guerra contro Mars e Pallas. Lui da solo riusciva a manipolare le Cloth. Un potere molto simile a quello di Astrid. A proposito della ragazza, un ritratto di lei su carboncino era appeso al muro davanti alla scrivania. Un sorriso divertito affiorò sul tuo volto. Ma a chi credeva di darla a bere? Si erano accorti anche i muri della sua cotta. Ma era per lei che aveva mandato in missione i suoi sottoposti oppure no? Kiki era un ragazzo molto giudizioso, sarebbe stata una cosa davvero strana se c’entrasse Astrid in questa faccenda.   
Non conoscevi bene i piani di Kiki. Trovavi assurdo che decidesse di mandare due Saint in una missione astrusa come questa. Per questo avevi deciso di accompagnarli.
Si era appisolato al tavolo del lavoro. Era proprio come diceva Raki: ultimamente era strano. Dormiva poco la notte, mangiava poco ed era sempre distratto e propenso a sospirare. Kiki non era un guerriero come te. Aveva conquistato il Settimo Senso però non aveva ereditato anche la voglia di combattere. Purtroppo quella non si poteva ereditare con la Cloth. Kiki era più un costruttore che un guerriero. Sin da piccolo aveva sempre preferito riparare le Cloth che combattere. Non era proprio portato, per questo eri molto stupito nel vedere che impegnandosi era riuscito a raggiungere questi risultati. Lo raggiungesti nel giardino dove stava insegnando a Raki a lottare col pensiero. Per voi Lemuriani anche questo era importante. Tu non ci avevi pensato a insegnarglielo quando eri ancora il suo maestro. Sotto questo punto di vista eri stato manchevole. Raki sembrava piuttosto in difficoltà a giudicare dalla faccia contratta, mentre Kiki era calmissimo. Sembrava quasi che dormisse.
Probabilmente l’idea gliela doveva aver data Astrid. Ti eri accorto anche tu che la ragazza aveva un eccellente controllo dei suoi pensieri in vostra presenza. Era come se fosse abituata a comunicare con terzi con la mente. Questa era una cosa che non si sentiva tutti i giorni.
Però sembrava essere migliorata moltissimo da quando era arrivata. Le sedute stavano cominciando a dare i loro frutti. Astrid stava lottando con tutta sé stessa per impedire all’ansia di divorarla e di isolarla. Ma non ci stava riuscendo. Erano i suoi stessi poteri a isolarla. Per te era chiara la paura dei civili e dei suoi colleghi nei suoi confronti. L’interesse a studiarla di Kanon, l’odio di Neera e di molti altri. Anche tu le riconoscevi una certa pericolosità. La riconosceva lei stessa e ne era spaventata. Il fatto che fosse riuscita a difendersi da sola da un’aggressione la diceva lunga su quanto si fidasse di voi. Non potevi biasimarla, il vostro rapporto era partito molto male. Quello tra voi della Prima non ne parliamo. Non si fidava più da quando Kiki si era lasciato sfuggire che leggesse nel pensiero. Ma tutti i Saint conoscevano quest’arte. Per ora era solo Raki ad avere la sua completa fiducia. Mentre Yoshino, Paradox e pochi altri avevano la sua amicizia. Kiki stava lottando con tutte le sue forze per riallacciare i rapporti da quando era tornata. Ma lei era diventata ancora più schiva.
Andasti in cucina a mangiare qualcosa. Mentre mangiavi riflettesti. Cominciavi a chiederti se tutto quello che stava succedendo non avesse a che fare con lei. Che cosa vi stavano nascondendo gli Dèi? Persino Miss Tomoe era strana. Le Creature avevano già cancellato buona parte di tutto ciò che c’era nell’universo presso cui prestavate servizio. Quella dimensione presto o tardi sarebbe morta definitivamente  e con lei anche l’Antipapa Aiolos e gli altri Gold Saint. Probabilmente dovevate aspettarvi qualcosa anche da loro. Lancelot lo sapeva per forza, ma non era interessato a parlarne. La sua mente era persino peggio di quella di Death Mask. A proposito, quanto ci voleva prima che portasse a termine il suo compito? Aveva solo salutato Astrid e se ne era andato. Aveva lasciato un messaggio alquanto strano che avevi recato tu stesso a Kanon. Che era in missione per conto della Dea dei Cavalieri della Speranza. Mah. Lì per lì avevi pensato si trattasse di Atena, ma da quando avevi avvertito quei Cosmi a Nord Est non ne eri più così sicuro. Quell’ondata aveva steso anche tu. E da allora non avevi fatto che fare questo sogno. Neanche ascoltare la radio o allenarti, riparare Cloth, ti aiutava. Avevi sempre in mente quella ragazza e il suo sguardo sorpreso. No, anzi, quella Dea che somigliava così tanto a Lady Isabel. 
Avevi cercato nei meandri della tua memoria ma oltre quel ricordo non eri ancora riuscito a recuperare altro. Ti domandasti se il Venerabile Shion ne sapesse qualcosa. Al momento la cosa non ti preoccupava troppo, ma avresti preferito parlarne prima con Shaka. Se solo avessi potuto stabilire un contatto telepatico con lui senza problemi l’avresti fatto. Ma questo significava usare il tuo Cosmo per bypassare il Velo che separava i Mondi. E le Creature non ti avrebbero lasciato scampo.
Ancora più angosciante era che non avvertivi più i Cosmi dei Bronze Saint che Kiki aveva mandato in missione ed eri preoccupato. Non sentivi neanche più i loro Cosmi ed eri sicuro che anche il tuo ex allievo se ne fosse accorto.
I due finirono di allenarsi verso l’una.
«Che cosa c’è, Kiki?» Gli chiedesti a pranzo. Raki non pranzò con voi, preferì andare a trovare Astrid. Era da un po’che non la vedevi e ti dispiaceva sapere che una ragazza così tranquilla e posata avesse un tale carattere attaccabrighe.
«A che vi riferite?»
«Non pensare che io non m sia accorto di cosa stia succedendo e che tu hai mandato quei Bronze in missione in Jamir». E gli domandasti perché. Lui giocherellò un po’ col cibo prima di rispondere «Ho deciso di condurre delle ricerche in Jamir».
«Perché?»
«L’altro giorno stavo leggendo un libro sulla nostra terra e mi son tornate in mente alcune leggende legate alla nostra regione. Mi sono reso conto che quella zona ha qualcosa che non va. Perché proprio lì ci siamo stabiliti? Perché abbiamo messo lì la nostra casa? É solo per le miniere di oricalco? Cosa stiamo custodendo davvero? Perché voglio studiare anch’io il Cosmo e voglio sapere se quello che sta succedendo si è già verificato in passato».
«Vuoi aiutare Astrid». Deducesti. Il tuo ex allievo arrossì come un peperone ma si limitò ad annuire. «Non ce la faccio a vederla così». Aggiunse parlando quasi più a sé stesso che a te.
«É molto nobile da parte tua».  
«Sarei andato anch’io se non fosse per Raki. Mi preoccupa il fatto che non sia ancora riuscita a conquistare il Settimo Senso». Spiegò. Era una mezza verità, era palese. Però non dicesti nulla.
«Capisco, vuoi che vada con loro?» Ti offristi e lui ti guardò stupito come a dire: “lo fareste davvero?” Mosse il capo in un cenno d’assenso.
Allora sorridesti, lo salutasti e raggiungesti i giovani Bronze Saints. Ti sarebbe bastato uscire dalla barriera per poter usare il teletrasporto. Avevi un limite di tempo di ventiquattro ore prima che scattasse la caccia all’uomo ma eri sicuro che ce l’avresti fatta in anche meno tempo.   
Uscisti dalla barriera e, una volta lontano da occhi indiscreti, ti teletrasportasti alle rovine in Jamir. Ti prendesti un momento per osservarle. Erano stati i Silver Saint a distruggerla e da allora non c’eravate più tornati. Chissà dove si erano addestrati Kiki e Raki.
Avvertisti dei passi alle tue spalle. Ti girasti e vedesti il capo degli spiriti del Cimitero dei Cloth venirti incontro. I brandelli di Cloth ancora attaccati alle sue ossa. «Nobile Mur». Esclamò con voce monocorde. Avendo perso i tessuti non poteva più dare la giusta intonazione alle sue parole. 
«É un piacere anche per me rivedervi». Salutasti con un cenno del capo, per nulla impressionato. Eri lieto di vedere che le Creature non li avessero distrutti. Dietro di lui gli altri guardiani del luogo. Li salutasti e una volta finiti i saluti, le domande e le risposte, chiedesti: «Avete visto i Bronze Saint che sono stati inviati qui?»
«Sì, ci hanno fatto un mucchio di domande astruse sull’oricalco, le sue vene e dopo aver sentito le nostre risposte si sono diretti a Nord Est».
Perché a Nord Est? Laggiù c’era solo il filone di oricalco ma niente di più. «Hanno detto che dovevano recuperare un tesoro e che era laggiù».
“Dev’essere la cosa di cui parlava Kiki”. Pensasti. La vostra regione era forse quella con più leggende di tutte le altre e molte erano legate alle Cloth e ai Saint stessi. A Nord Est, sulla prima vena di oricalco era situata l’antica forgia dei primi costruttori di Cloth. Se avevano portato con loro le Cloth era possibile che le Cloth stesse li avessero guidati fin laggiù.
«Andrò anch’io». Annunciasti.
«Anche voi vi metterete sulle tracce del tesoro della montagna?» Chiese uno degli scheletri. 
«Sì».
«Allora buona fortuna Gold Saint di Aries. Il guardiano non sarà così indulgente».
«Mi sapreste dire qualcosa di più su costui?» Chiedesti, che non ricordavi di averlo mai visto.
«É uno spettro come noi tuttavia non sappiamo che Cloth indossi, dicono che sia antico come queste terre e che da tempo immemore vegli su quelle lande. Probabilmente è pure impazzito a causa della solitudine e del suo compito. Fate molta attenzione, Sommo Mur. Non è uno spirito da sottovalutare. Si dice che fosse molto abile con il lancio dei coltelli e che fosse molto veloce e silenzioso come un’ombra».
Uno spirito antico? «Lo terrò a mente. Vi ringrazio».
«State in guardia». Si raccomandarono un’ultima volta prima di lasciarti andare.
Ti avviasti a Nord Est. In tanti anni queste zone erano cambiate moltissimo, c’era solo meno neve di quanta ricordassi. Anche la posizione di certe rocce che usavi come punto di riferimento erano cambiate. Come se un lemuriano le avesse spostate. C’erano anche alcuni crepacci come se in quel punto il terreno fosse franato. Ma nulla che non potevi superare con un salto.
Tu degli spettri non avevi mai avuto paura. Erano solo ombre di un passato antico. Le uniche ombre che meritavano davvero la tua attenzione erano le Creature. Ma mai prima d’ora avesti la sensazione che un’ombra ti seguisse. Non lo vedevi che con la coda dell’occhio, ma era una sagoma nera che saltava di roccia in roccia.
Probabilmente era il custode. Decidesti di fargli credere di non esserti accorto di lui.     
Appena raggiungesti la montagna dell’oricalco sgranasti gli occhi e ti affrettasti a nasconderti dietro una sporgenza. Le Creature stavano sciamando proprio poco più in là. Il cuore prese a martellarti in petto e un brivido freddo ti corse lungo la schiena. Cosa ci facevano qui? Che cos’era successo? Azzerasti immediatamente il Cosmo. Maledizione. Se loro erano qui significava che qualcuno doveva aver usato il Cosmo. E non era sopravvissuto. Forse era per questo che non riuscivi a percepire i Cosmi dei Bronze Saint. Non avevi bisogno di sbirciare per sapere che era così. Eri arrivato troppo tardi.
Aspettasti che le Creature se ne andassero e solo allora raggiungesti ciò che restava dei due Saint. Avevi già visto altre vittime delle Creature ma era la prima volta che ti sentivi toccato così da vicino. Non provavi più tanto terrore da quando affrontasti gli Specter per la prima volta.
Stavi osservando i cadaveri carbonizzati quando il vento prese a soffiare, smuovendoti i capelli. Non avevi gli stessi poteri rigenerativi di Astrid. Per un momento considerasti l’idea di andare a prenderla e tornare subito, ma la scartasti. Già si fidava poco di voi, non potevi anche metterla in pericolo. C’era uno spettro qui e per quanto lei fosse potente non era addestrata.  Se non altro potevi offrire degna sepoltura ai caduti.    
T’inginocchiasti tra i due corpi e cominciasti a usare la telecinesi per raccogliere le ceneri prima che le disperdesse il vento.
Avevi appena cominciato a usare i tuoi poteri quando qualcosa ti sibilò vicino all’orecchio sinistro e spostò le tue ciocche. Non era un colpo di vento. Apristi gli occhi e spostasti lo sguardo in quella direzione. Il custode.
Tornasti a far finta di niente. I muscoli in tensione e pronto a balzare in qualsiasi momento. Le orecchie tese. Chiudesti gli occhi e sentisti i sibili. Balzasti indietro e tra le ciglia scorgesti tre coltelli neri conficcarsi nella roccia prima di sparire. La fenditura nel terreno era della stessa dimensione di quella che avevi visto sotto i mucchietti quando avevi usato la telecinesi.
Percepisti altri sibili e ancora una volta balzasti per schivare. Ormai lo avevi scoperto, perciò il guardiano urlò: «Shadow knifes!» Ma ancora una volta lo evitasti. Non potevi permettere che le Creature accorressero di nuovo.
Ancora peggio fu ritrovarsi sotto al fuoco incrociato. Accidenti, questo non l’avevi preventivato. Il custode era davvero molto veloce. Sembrava essere in due posti diversi contemporaneamente.
Ma non era di queste ombre che dovevi temere. Avevi combattuto molte persone ma era la prima volta che incontravi un avversario capace di controllarle. Era la prima volta che avevi a che fare con un guerriero del genere. Il tuo primo istinto fu quello di riflettere. Non potevi mostrarti un nemico e non potevi usare il Cosmo. Dovevi essere cauto.  Perciò lo chiamasti. «Guardiano della Montagna, so che siete qui». E la tua voce rimbalzò sulle rocce.
Lo spettro non rispose e tu gli comandasti di mostrarsi, che non volevi combattere contro di lui. Gli dicesti che eri giunto qui per il tesoro ma che non eri intenzionato a impossessartene con la forza: «Vi chiedo il permesso di prenderlo». Concludesti e attendesti. Qualche secondo dopo una voce incolore piovve dall’alto dietro di te. «Noi spettri non concediamo i nostri tesori tanto facilmente».
«Lo so bene, per favore, mostratevi e parliamone faccia a faccia». Ribattesti.
«Quando i tempi si fanno disperati spesso cadono le illusioni del Velo di Maya e ciò che li ha tenuti in piedi finora». Ribatté enigmatico, dopodiché sentisti anche il rumore dei passi. Sollevasti la testa nella sua direzione e presto vedesti il lanciatore di coltelli. Era uno scheletro come quelli del cimitero delle Cloth. Indossava ancora i brandelli della sua Cloth ma non ricordavi di averne mai vista una di questa foggia particolare. Non riuscivi a capire chi fosse, la Cloth era troppo danneggiata per comprenderlo e quel poco che vedevi copriva solo diagonalmente il suo proprietario. Era alto più o meno quanto te ed era molo meno massiccio degli altri spettri. 
«Con chi ho l’onore di parlare?» Chiedesti educato. Con questi spettri avevi passato così tanto tempo da non avere paura alcuna di loro. Neanche questo era diverso. Qualcuno vedendovi avrebbe detto che eravate finiti nel video di Seven Nation Army dei The White Stripes ma per te era la normalità. 
Ti accorgesti di una presenza alle tue spalle e, sulla roccia, vedesti la sagoma nera di prima. Strabuzzasti gli occhi quando ti rendesti conto che non aveva un volto definito, giusto i lineamenti appena abbozzati se girava la testa di profilo. Altro non era che un’ombra.
Fu la voce del custode dinanzi a te a farti spostare lo sguardo: «Io sono Rodorio, lo spettro della Cloth dei Capretti. Semmai dovrei essere io a riporvi la stessa domanda, se la vista non m’inganna voi dovreste essere sparito da queste lande trentatré anni fa».  
«Corretto, mi dispiace non esserci mai incontrati prima».
«Prima non eravate venuto qui con l’intenzione di impossessarvi del sacro tesoro». Rispose ancora la voce.
Dunque questo custode si attiva soltanto se si minaccia il suo tesoro. Deducesti ancora. 
“Rodorio della Cloth dei Capretti?” Pensasti guardingo. Non avevi mai sentito parlare di questa costellazione e del suo Saint. Ancora meno immaginavi che si chiamasse come la cittadina ai piedi del Santuario. Ma era capacissimo che fosse una tua lacuna. Essendo che il tuo addestramento era finito molto prima, non ti ricordavi che il tuo maestro te ne avesse mai parlato. A dirla tutta era raro che i Gold Saint conoscessero tutti i membri dell’esercito di Atena o le costellazioni. Ignoravi che solo due secoli prima fossero molte di più. Adesso ti spiegavi perché tutte quelle Cloth nel cimitero. L’avevi sempre viste, ti eri sempre chiesto chi fossero stati ma pensavi fossero solo dei caduti delle Guerre Sacre. Ma questo solo dopo che Aiolia venne da te per resuscitare la Cloth del Leone. Prima eri troppo piccolo e spaventato per pensarci. E dopo eri stato troppo impegnato a tirare su e addestrare Kiki.
«Dovete perdonarmi ma non vi ho mai visto prima». Ti scusasti mentre con la coda dell’occhio tenevi d’occhio la sua ombra. Avevi visto anche tu che aveva una posa diversa da quella del corpo materiale. Se infondeva il Cosmo nell’ombra non potevi fare molto.
«Certo che non mi avete mai visto. Da quando ho ricevuto il sacro compito di vegliare su questa montagna non mi sono mai staccato da qui neanche una volta». Replicò il guardiano, poi ti chiese se anche tu avessi voluto tentare la prova.
«Certamente. Ma ditemi, posso sapere che cosa custodiscono le viscere di queste rocce?»
Il guardiano ti accontentò. «Il segreto dell’arte dei primi fabbri lemuriani al servizio della Dea della Guerra». Sgranasti gli occhi, sorpreso. Se era così erano documenti importantissimi ed estremamente delicati. Sarebbe stato un lavoraccio estrarli. Avevi sentito dire che certi oggetti o mummie abituate a un dato clima, spesso si dissolvono anche al primo colpo di vento. Così era stato per alcune mummie delle necropoli etrusche, che erano sopravvissute intatte fino a quel momento. Perciò anche se fosti riuscito nell’impresa, la vera impresa sarebbe stata conservare quei documenti.
«Desiderate tentare?» Chiese educatamente.      
«Sì».
«É piuttosto semplice in realtà: dovete distruggere la montagna». Ribatté l’ombra del custode invece sua incrociando le braccia.
«Ma se la distruggo distruggerò il tesoro». Obiettasti.
L’ombra scrollò le spalle. «Sono sicuro che un Saint del vostro calibro riuscirà nell’impresa».
Facile a dirsi per lui. Probabilmente i Bronze Saint non c’erano neanche arrivati fino a questo punto.
Pregasti mentalmente la Dea di infonderti la saggezza. Come si estraeva qualcosa senza romperlo? Non ne avevi gli strumenti ma avevi i tuoi poteri. Ed erano basati sul cristallo. Forse avresti potuto cristallizzare la montagna, almeno per capire dove si trovasse lo scrigno e quanto in profondità dovevi lavorare. Forse dovresti ascoltare anche me di tanto in tanto, sai? Ma tu m’ignorasti.
Non avevi mai provato una tecnica del genere prima ma vedesti ogni roccia sfumare fino a diventare trasparente e rivelare i filoni di oricalco tutto attorno allo scrigno d’oro.
Bene, e ora che cosa avevi risolto? Non molto a dir la verità. Dopodiché provasti a replicare il Crystal Vortex di Kiki per aprirti un pertugio nella montagna. Ma la tecnica s’infranse sul cristallo senza successo e fosti costretto a proteggerti la faccia con le braccia. Tossisti per il polverone che avevi sollevato. L’impatto di respinsione fu talmente forte che ti ritrovasti sbalzato indietro tu stesso.  
Ti rialzasti a sedere dolorante e ti detergesti un rivolo di saliva che ti era colato, sul mento. In bocca sentivi il sapore del sangue. Credevi che fosse la tecnica giusta. Invece non era cambiato nulla. Forse perché non reagiva al tuo tipo di potere. “Come?”
Non è evidente? Chiunque abbia lanciato quest’incantesimo era più forte di te. Forse soltanto un potere altrettanto forte potrebbe scioglierlo. Probabilmente era pure la stessa persona che aveva condannato questo spettro alla solitudine. Non dirmi che non te ne sei accorto anche tu. Andiamo, una persona che comunica con la propria ombra? Che le da tutte le forme che vuole? Non è solo dimostrazione di forza. C’è dietro una tristezza intrinseca che tu non potresti mai capire. “Perché non posso?” Perché il tuo fu un esilio volontario a cui poi ponesti rimedio prendendo Kiki con te. “Continuo a non capire”. Non è difficile, vedi? Questo spettro combatte con le ombre, lui stesso è un’ombra, davvero non riesci a capirlo? Le ombre per esistere hanno bisogno di luce. Una volta anche costui doveva avere la sua luce.
Appena lo dissi ti tornò in mente quella ragazzina del tuo sogno. E poi le sue mani ingioiellate materializzare tante piccole scintille verdi. Improvvisamente sentisti il calore in mezzo al petto.
Non può esistere la luce senza l’ombra e l’ombra non può esistere senza la luce. E avesti la visuale di quella piccola scintilla di luce verde nel buio.
“Ho capito!” Pensasti e la sentisti risplendere dentro di te. 
Proprio allora il custode e la sua ombra ti affiancarono. Guardasti lo scheletro. «Mi dispiace», «Tempo scaduto, Gold Saint». Aggiunse l’ombra, poi colpì.
Ridagli la sua luce.
Avresti potuto parare il colpo, ma apristi la mano e la luce verde che brillò sopra il tuo palmo lo fermò. Nello stesso momento avesti anche una visione. Vedesti la Dea alzare il braccio e cristallizzare la montagna. Poi la Divinità bianco vestita si girò e si avviò verso di te guardando un’ultima volta le rocce.
La visione scomparve e ti rendesti conto che Rodorio non ti aveva neanche sfiorato. Ma anzi, era caduto in ginocchio. La sua ombra era scomparsa.  «Somma Asia?» Domandò incredulo continuando a fissare il tuo palmo, la mascella tremante mentre cercava di formulare la frase.
La luce verde regredì fino alle dimensioni di una scintilla e restò sospesa sopra la tua mano. Poi, tornasti a guardare il fantasma. «Come? É questo il suo nome? La conoscete?» Chiedesti perplesso.
«Certo che la conosco, tutti i Saint della Dea Atena la conoscono. Era da molto tempo che non La sentivo più». Allungò le dita scheletriche verso la scintilla come se avesse voluto sfiorarla. Dalle sue orbite vuote percepivi il suo sguardo commosso e speranzoso. Sentivi che era perso nei suoi ricordi. «Ma è passato tanto tempo, credevo che non l’avrei sentita mai più. Lei mi ha affidato questo compito». A pochi centimetri dalla stella ritrasse le dita.
«Lei è una Dea minore al servizio di Atena, non è così?» Chiedesti a mezza voce dopo qualche secondo. Era la prima volta che parlavi così piano.
«Sì». Rispose lo spettro senza muovere la mascella. Adesso capisci dove volevo arrivare? Ti rendi conto del piccolo parallelismo tra il tuo allievo e questo spettro?
«Non siete in collera con lei?» Domandasti incuriosito. Ma sei anche consapevole di star giocando col fuoco? “In che senso?” Stiamo parlano della Divinità che l’ha confinato qui, non pensi che sia controproducente per te rammentargliela? Voglio dire, non sai come potrebbero essersi evoluti i suoi sentimenti. “Sentimenti? Puoi stare tranquilla, il rapporto tra una Dea e il suo accolito resta sempre invariato qualsiasi cosa succeda”. Sarà, ma per me tu sei cieco. “In che senso?” Ma stavolta non ti risposi più. Era inutile parlare con te di queste cose, tu non sapevi neanche che cosa si provasse.
Checché io ne dicessi era proprio perché questo scheletro non era come Dokho che ti sentivi di poter osare. Di solito non t’interessavano le faccende amorose dei Saint. Né di chiedere del loro rapporto con la Dea, ma era interessante. «No, Lei fu la mia luce per molto tempo. Sono morto per Lei e se fosse necessario morirei ancora e ancora». Dichiarò poi.
«Chi è la Somma Asia?»
Lo Spettro spostò la testa verso di te: «Non lo sapete? É la Somma Dea Gran Sacerdotessa e fondatrice dell’ordine dei Saint, la Dea che invochiamo quando dichiariamo di essere Cavalieri della Speranza. I Cavalieri della Speranza combattono per lei e solo per lei».
Questa sì che era una sorpresa: «E Atena?»
«La Somma Asia ci ha creati per aiutare la Dea della Guerra, ma noi rispondiamo soprattutto alla Divina Asia. Tutti noi». Rispose ancora lo spettro.
No. Ti portasti la mano alla bocca mentre le tue certezze crollavano come un castello di carte.
Eri sconvolto. Non immaginavi che questo fosse il segreto dietro il vostro ordine. Quella formula che credevi avessero inventato i Bronze era il modo di ricordare le vostre vere origini. Ecco perché eravate quasi un’autogestione rispetto all’autorità della Dea. Inconsciamente lo sapevate che lei non era… No. Era impossibile. Avevi perso la vita per questo? Eri stato resuscitato per una menzogna? Lo spettro stava mentendo? Dunque la ragazza coi capelli striati d’argento era Lei?
«Dimmi di Lei. L’hai vista?» Chiese angosciato artigliandoti le spalle e scuotendoti. Per essere un morto ne aveva di forza in quelle ossa.   
«Non di recente». Ammettesti dispiaciuto di non potergli dire di più. Ti lasciò andare e ti chiese di descrivertela. L’accontentasti. «Oh, è proprio come me la ricordavo». Costatò sorpreso e sollevato, anche se era difficile dirlo visto che la sua voce non aveva particolari inflessioni. Poi sollevò la testa verso di te e disse: «Questa scintilla è un segno, la prova che voi siete destinato a prendere il tesoro. Vi concedo un altro tentativo».
Si scostò e ti lasciò di nuovo spazio.
Ti rialzasti e ti spolverasti i vestiti. Ti guardasti attorno circospetto per vedere se le Creature si avvicinavano ma non c’erano. Non si vedevano neanche all’orizzonte. Nonostante ciò non ti fidasti. Tornasti a guardare la parete di cristallo.
Eri partito bene prima, ma non dovevi perforarla dovevi semplicemente toglierla. Improvvisamente capisti: era una teca e come tale la dovevi sollevare. Ma come? Il tuo Cosmo da solo non bastava.
Come aveva fatto la Divina Asia? Ti faceva ancora strano pensarlo ma ricacciasti indietro il pensiero. Ora non era importante. Avresti potuto usare la telecinesi ma non eri così forte da sollevare una montagna intera. Frantumarla sì ma a pugni e non potevi rischiare tanto.  Improvvisamente ti tornò in mente la voce della Dea. Guardasti di nuovo la tua mano chiusa a pugno.  La sollevasti e l’apristi di nuovo. La scintilla era ancora lì a mezz’aria sul tuo palmo. Forse valeva la stessa cosa per le Cloth, forse questa scintilla poteva esserti utile. 
Non avevi le stesse capacità di Kiki ma riuscivi lo stesso a capire dov’era la crepa che avresti dovuto intaccare se avessi voluto dissolvere la roccia.
Gonfiasti il Cosmo e lo facesti confluire nella luce. Tendesti la mano verso la roccia
Provasti a usare quella combinandola alla tecnica e la montagna rispose davvero. Avevi sentito le parole che aveva usato. Provasti a emulare la sua posa e concentrasti il Cosmo sulla stella che assunse sfumature più calde.
Sentisti l’oricalco dentro la montagna rispondere al tuo potere e il cristallo stesso cominciò a tremare e riempirsi di crepe. La terra emise un boato e prese a tremare ancora più violentemente. Numerose faglie si aprirono sotto ai tuoi piedi. La polvere si sollevò e ti andò negli occhi ma neanche così desistesti. Poi s’infranse e le schegge e i pezzi ascesero al cielo e si polverizzarono cadendo come polvere ai tuoi piedi. Poi la terra si placò e tu perdesti l’equilibrio e cadesti bocconi per terra. Tossisti e ti sfregasti gli occhi lacrimanti. La luce del sole ti sembrava più intensa e ti sembrava che ci fosse più vento di prima. Alla fine avevi davvero distrutto la montagna. Lo scrigno!
Trasalisti, ti raddrizzasti e ti inerpicasti su per il cratere immenso e guardasti giù, nella buca. Non avevi mai visto tanto oricalco in vita tua, sì e in mezzo c’era anche lo scrigno d’oro che risplendeva al sole.
Scendesti dall’altura facendo attenzione a non perdere l’equilibrio e ruzzolare nella polvere di cristallo e oricalco. Sbattesti anche contro qualche roccia di cristallo ma neanche questo ti fermò.
Arrivasti davanti allo scrigno e lì lo spettro ti raggiunse. Lo sentisti dal rumore dei suoi passi sulla polvere e il ghiaino. Attendesti il verdetto.
«Avete dimostrato grande prontezza e ingegno. Prendeteli, i progetti sono vostri». Rispose con voce sorridente. Una voce diversa da quella che accomunava tutti gli spettri del cimitero delle Cloth. Questa era viva, aveva di nuovo un timbro e un colore.  
Lo ringraziasti e prendesti lo scrigno d’oro scoprendolo più leggero di quanto ti aspettassi. Solo allora ti voltasti verso di lui, tenendo lo scrigno sotto braccio e lo guardasti stupito.
«Che cosa farete adesso?» Lo spettro sorrise divertito. Tutto ti saresti aspettato fuorché questo. Non te ne eri accorto ma aveva ritrovato le sue membra, come se una donna delle ossa avesse cantato su di lui per riportarlo alla vita. Aveva recuperato ogni singola goccia di sangue e capello. Lo sentivi che era ancora uno spettro, ma non immaginavi che avesse quest’aspetto.
Era un giovane dai lunghi capelli ricci neri e gli occhi scuri con la carnagione abbronzata. I vestiti integri sotto la Cloth dei Capretti. Era più grande di te di soli quattro anni ma il suo volto esprimeva furbizia, allegria. La Cloth aveva un elmo a diadema come quello dei Bronze Saint. Il busto e le spalle erano protetti dagli spallacci a forma di teste di capretti. Ai fianchi una sorta di gonnellino di metallo. Gli schinieri e i gambali risplendevano d’argento nella luce. La Cloth aveva rifiniture nere come gli occhi del suo proprietario. Ma l’ombra che faceva eco alle sue parole non c’era più.
Scrollò le spalle: «Il mio compito è terminato, finalmente posso andarmene» Sorrise commosso reclinando il capo all’indietro, lasciando che i raggi del sole baciassero la sua pelle.
«Allora arrivederci, Saint dei Capretti». Il Cavaliere ti sorrise un’ultima volta, poi si librò in aria e scomparve in un lampo di luce.
Anche tu te ne andasti.
Con la telecinesi riuscisti a recuperare i resti dei Bronze Saints e offristi loro degna sepoltura. Per le Cloth purtroppo non c’era nulla da fare. Dopodiché ti teletrasportasti di nuovo al Santuario.
Lì trovasti Kiki assopito sul divano. Lo svegliasti scrollandolo leggermente e poi gli passasti lo scrigno. «Maestro, ci siete riuscito, ma… dove sono…?»
«Sono morti. Mi dispiace, Kiki». Il giovane abbassò gli occhi. «Ah, e io che speravo che ce l’avessero fatta».
«Le probabilità di riuscita erano molto scarse, anch’io ce l’ho fatta per miracolo». Raccolse lo scrigno e disse: «Grazie mille per esservi preso questo disturbo, maestro».  
«Cosa contiene quello scrigno?»
«L’unica cosa che mi permetterà di fare qualcosa di straordinario». Rispose Kiki enigmatico. Ma tu capisti. «Astrid?» Da un lato l’avevi immaginato, ma dall’altro non l’avevi proprio considerato. Ti sentisti di rimproverarlo per questa cavolata. Aveva mandato i suoi uomini al macello per uno scrigno d’oro da dare alla ragazza che amava? Ma sul serio? Poi però ti ricordasti che tu avevi fatto di peggio e te ne stesti zitto. In nome della Dea anche tu avevi fatto cose orribili. Su questo non ci pioveva, come mandare dei ragazzini al massacro, pur sapendo che le riparazioni alle Cloth non sarebbero bastate.

Hades
Erano passati dei mesi dall’ultima volta che avevi ricevuto notizie degli Specter. Per la precisione da quando il Gold Saint di Cancer era sceso nel tuo territorio a combattere contro i Black Saints ribelli del passato. Un ghigno increspò la tua bocca. E così gli Azoni erano sopravvissuti, eh? “Buono a sapersi”.  Pensasti ironico. E dire che pensavate di esservi liberati del dominio di Saga con la sua morte. Dunque la Grande Volontà non si era estinta come avevate creduto tutti.
Probabilmente erano sopravvissuti anche tutti gli altri, non solo la potente Azona senza Wing. Così sapevi che si chiamasse. Ma tu guarda che coincidenze alle volte. 
Tu saresti stato quello che avrebbe dovuto bloccare la loro definitiva avanzata, avevi già architettato tutto. Adesso, attendevi notizie in proposito. Ma finora c’era stato solo un preoccupante silenzio radio. Non potevi usare i poteri del Cosmo di Shun perché non ti apparteneva e non eravate una cosa sola. E non potevi neanche usare il tuo perché se no quel cretino del Cavaliere di Leo sarebbe scattato come una molla. Accidenti al Patto che avevi contratto con Atena.  
Non ti eri più fatto sentire dallo scontro con Eris. Ovvio che ti eri accorto dello zampino della Dea della Discordia, ma se non eri intervenuto era perché non t’importava.
Avresti voluto tornare subito alla tua dimora e al tuo vero corpo mitologico, quasi pronto nell’Elisio, ma non potevi. Il tuo spirito non poteva sopravvivere se ti fossi allontanato da Shun. Il Saint che, pur temendoti, aveva mostrato pietà nei tuoi confronti al punto che ti salvò dalla scomparsa dell’Elisio. Mentre fuggivano ti aveva visto ridotto a un  bagliore dai colori scuri adagiato sulla terra tremante. Ti aveva raccolto, portandoti con sè. Così, aveva salvato il Signore dell’Oltretomba di nascosto anche se sapeva che negli Inferi la gratitudine non esisteva e che non avrebbe dovuto farlo, a meno che non avesse voluto morire. Ma il suo stucchevole buon cuore aveva preso il sopravvento sulla ragione, forse nella speranza che potessi rivelargli come salvare il fratellastro.
Appena giunti in superficie, la luce del sole ti aveva ferito gli occhi: «La luce…» Avevi sibilato tra le sue mani a coppa. Mentre chiudeva la fila di persone che scendevano dalla collina. Odiavi la luce del Sole. Per un attimo avevi pensato che volesse annientarti così, invece lui ti spostò in una mano per schermarti con l’altra. Tu lo osservasti, colpito dal suo gesto.
Che una parte di te fosse rimasta in lui o quel Saint misericordioso era troppo idiota per non accorgersi di quello che aveva fatto?
Atena per fuggire vi aveva teletrasportati tutti su una collina e, adesso, i fratelli del Saint di Pegasus piangevano assieme alla Dea qualche metro più in là rispetto a voi. Anche Shun avrebbe voluto piangere, aveva già il volto rigato di lacrime, ma con te tra le mani non ci riusciva. 
«Sì, questa è la luce del Sole». Aveva detto con voce rotta mentre i raggi dell’astro scaldavano la sua pelle. Sentendoti a disagio avevi lasciato vagare lo sguardo sul paesaggio circostante senza dire niente, nell’attesa che la smettesse di frignare.  
«Perché mi hai portato qui?» Gli domandasti quando ti riconobbe. Ti aveva salvato senza sapere che eri tu: «Non eri forse tu che più di tutti, mi volevi morto per aver parassitato il tuo corpo, Shun di Andromeda? Incarnazione traditrice, proprio come la principessa di cui porti fieramente il nome?»
«Sì, però non me la sono sentita di lasciarti lì. Non so cosa è stato ma sentivo di non poterlo fare». Spiegò cercando di smettere di frignare.
«Umano, dovresti sapere che non esiste la riconoscenza negli Inferi». Lo rimbeccasti.
«Ma qui non siamo negli Inferi». Ribadì e tu tacesti, lasciandolo piangere.
Era passata una settimana, prima che Atena scoprisse che eri ancora vivo. Sebbene avessi continuato a essere un bagliore tascabile. Anche se preferivi il palmo di una mano o un cuscino.
Nello stesso arco di tempo erano cominciati i problemi con le anime. Ti eri accorto anche tu dell’aria di tensione che si respirava e delle numerose presenze che infestavano ogni luogo. Poltergeist, maniaci, ladri, assassini, stupratori, passavano accanto ai Vivi, disturbandoli o ferendoli senza ritegno. E il mondo si stava avviando verso la sovrappopolazione. Neanche i malati terminali morivano più, costretti a subire l’agonia eterna.  
Era stato allora che Shun aveva capito. Poteva anche essere un ragazzino di diciassette anni, ma non era stupido. E, con le Gold Cloth distrutte e andate perdute nell’Elisio poi, sarebbe stato quasi impossibile anche solo cercare di rimediare al danno.  
Sulle prime avevano pensato che fosse una cosa buona. Ma quando le anime avevano cominciato a lottare con gli esseri umani per possederli si erano ricreduti. Neanche Atena riusciva a comprendere tutto ciò mentre cercavano di limitare il problema ponendosi a guardia del Santuario e di Seiya, all’epoca ancora sotto i ferri.
Atena sembrava distrutta. I suoi occhi erano vacui, quasi spenti e passava tutto il tempo in ospedale, in attesa di notizie. Non sapevi neanche da quanto tempo non mangiasse o non dormisse. Il Suo Cosmo Divino non avrebbe potuto supportarla ancora a lungo. Per quello che ti importava ci godevi. Così imparava a distruggere i tuoi domini e le tue legioni senza ritegno.
Appena accumulasti un po’ di potere, richiamasti a te i tre Giudici Infernali. E, proprio in quel momento sopraggiunse anche Shun, in pigiama, roso dalla paura, vi aveva visto e aveva urlato qualcosa che aveva fatto voltare i tuoi tre fedelissimi. «Andatevene immediatamente!» Poi si era avvicinato, talmente sconvolto da non aver neanche chiamato a sè la tua Armatura. 
Se non lo avevano attaccato era stato solo per il tuo tempestivo ordine: «Aspettate, fermi! Shun ti chiedo di calmarti, li ho convocati io stesso qui, ma non possono toccarmi. Le loro anime umane non sono abbastanza forti per toccarmi come invece può fare Pandora o un altro Cavaliere d’Oro. Inoltre, se mi allontanassero dal tuo Cosmo, io finirei per morire veramente».
«Il nostro Signore ha ragione, umano. Le nostre mani non sono degne di toccarlo ». Aveva replicato lo Specter della Viverna con voce incolore incrociando le braccia. «Perché dovrei credervi? Voi non sapete neanche cosa sia la riconoscenza». Aveva ribattuto il Saint di Andromeda.
«Ma qui non siamo negli Inferi». Aveva rilevato Minos scrutandolo da sotto la zazzera bianca, zittendolo.
A quel punto eri intervenuto: «Giacché sei qui penso che ti interesserà sapere quello che avverrà e, ritieniti fortunato, di solito non condivido informazioni con nessuno, neanche con i miei collaboratori più fidati o la Sacerdotessa Pandora. I miei sudditi mi stavano riferendo che presto gli Dèi muoveranno battaglia contro Atena per ristabilire l’onore di noi Divinità sopraffatte. Anche se ridotto in questo umiliante, disdicevole, stato pietoso, resto sempre una Divinità. C’è un motivo se esiste l’Aldilà e non è per soddisfare la mia sete di potere e di dominio sul mondo intero. No, anche se può essere usato per questo scopo come hai notato e come progettano altri miei colleghi sovrani del Regno dei Morti. L’Aldilà esiste come luogo a sé stante per regolare il controllo delle anime e delle pulsioni umane. Senza la minaccia dell’Inferno non ci sarebbe la paura e la promessa del Paradiso non allevierebbe i loro tormenti. La paura non spingerebbe mai gli esseri umani a essere migliori ad ambire alla pace e la gloria del Paradiso e il mondo cadrebbe nel Caos già più di quanto non sia. Per non parlare poi del ciclo delle reincarnazioni. Le anime che vanno altrove senza neanche essere purificate dai loro peccati, che si reincarnano apposta per vivere e sollazzarsi negli stessi piaceri che le hanno ingrassate e condotte alla perdizione? Per non parlare di quelle persone che si approfittano di loro solo perché possiedono una briciola di potere affine al Mondo dei Morti. Quali disastri può provocare chi controllandole può usarle per i propri scopi? E, se questi scopi non fossero benevoli? Cosa accadrebbe? Comprendi, umano? Adesso che non esiste più l’Inferno, le anime vagano indisturbate provocando il Caos. E se qualcun altro degli altri sovrani infernali rovesciasse addirittura il Tartaro nel Mondo dei Vivi? Hai mai paventato questa possibilità? Oh, non fare quella faccia, non dirmi che pensavi davvero che io fossi l’unico Signore incontrastato dell’Oltretomba. Secondo te qual è la funzione principale dei miei centootto Specter? E perché in ogni esercito divino che si rispetti esistono dei soldati che hanno il controllo sulle anime, anche in quello della tua amata Dea, come i Cavalieri del Cancro e della Vergine? Ti sei mai domandato perché? No? Te lo spiego io: per impedirgli di fuggire e per continuare a far sì che la ruota della Vita e della Morte continui a girare. C’è sempre bisogno di qualcuno tra le varie fila che se ne occupi, non solo tra i civili. Quello che finora sta accadendo altro non è che solo un piccolo assaggio di una catastrofe ancora più grande».
«Sei serio?» Ti chiese stupefatto. Prima di allora non aveva mai pensato all’Aldilà in quest’ottica e, finalmente, comprese appieno.
«Ehi!» Era intervenuto il Garuda, avanzando di un passo: «Porta rispetto al nostro Signore, Saint di Atena. Non rivolgerti a Lui con questa famigliarità, tu non sei nessuno». Lo ammonì con ferocia ma non fece altro. La stanza era piombata nel silenzio finché non aveva domandato. «Dunque cosa volete che faccia? Perché me lo state dicendo?»
«Il motivo lo puoi anche immaginare». Sogghignasti. E lui aveva capito.
«Non giocare con la mia pazienza, Hades. Non voglio farti del male ma se mi costringi non esiterò a colpirti». Lo avevi avvisato, sorprendendoti della tua stessa ferocia e della tua malvagità. Ma che ti era preso? Neanche negli scontri precedenti ti era mai successo.
I tre Giudici Infernali lo avevano guardato stupefatti, ma lui non ci aveva fatto caso, la sua attenzione era tutta per te. «Io ti ho avvisato, umano». Avevi ribattuto compiaciuto.
Da quel giorno avevi preso il vizio di portarti dappertutto, infilato in una tasca alla stregua di una moneta. Se non fosse stato per la tua negatività, quasi non avrebbe fatto caso a te, silenzioso com’eri.
Potevi persino indovinare i suoi pensieri. Si sentiva quasi in colpa per aver salvato un individuo che, per di più, si stava riorganizzando sotto i suoi occhi. Se suo fratello avesse saputo… non osava nemmeno pensarci.     
Poi, esattamente come avevi previsto, il Caos era andato intensificandosi e si erano succedute le Guerre Sacre con le altre Divinità. Fu allora che ti rivelasti un prezioso alleato. Eri riuscito a recuperare una piccola parte del tuo esercito, l’avevi riorganizzato e avevi contribuito ad arginare il Caos fino a farlo scomparire. Lui ti aveva chiesto se sapevi quello che facevi e avevi ribattuto sempre in tono compiaciuto e al tempo stesso ammonitore: «Non sottovalutare mai le milizie Infernali, umano». Al contrario delle sue nefaste previsioni, si erano rivelati altamente capaci ed efficienti, una volta rimessi in riga. Avevi lasciato Shun ad assistere a tutte le volte che manovravi i tuoi uomini. Per la prima volta vide gli Specter con occhi diversi e percepì il timore riverenziale che essi stessi emanavano e dovevano avere, quando non erano pronti a lanciarsi in battaglia. Sfruttando la loro condizione, i tuoi uomini erano riusciti ad aiutare i Saint senza che nessuno se ne accorgesse. Persino Hypnos e Thanatos avevano risposto al Tuo richiamo. Dapprincipio avevano guardato il tuo ospite con sospetto, ma se questa era la tua volontà, non avevano voce in capitolo.
Quando il Caos si placò decidesti di rivelare la verità a Lady Isabel.
Shun l’aveva fatta accomodare prima di vuotare il sacco. La ragazza lo aveva ascoltato senza parole, forse incredula. E, come prova, il ragazzo ti estrasse dal taschino della camicia. Lei si era portata le mani alla bocca per trattenere un grido.
«Cosa hai, fatto, Shun!» Aveva esclamato inorridita. Il Saint di Andromeda era riuscito a convincerla a lasciarti lì. Anche perché, si era accorto che stavi morendo comunque, troppo anche soltanto per fluttuare. Anzi, stavi proprio per tirare le cuoia. Ammesso che uno spirito potesse morire. A quel punto eri intervenuto: «Atena ascoltami. Non ho chiesto io di essere salvato e, ti posso garantire che la rabbia che provo nei tuoi confronti supera ogni tua immaginazione. Ma, allo stato attuale delle cose, posso ancora avvertirti. Uccidendomi hai infranto l’Ordine Naturale delle Cose. Posso avvertire chiaramente il turbamento che si è venuto a creare nell’Aldilà con la scomparsa dei miei domini. Stavolta hai superato il limite consentito, anche per te. Zeus non te la farà passare tanto liscia».
«Cosa dobbiamo fare, allora?» Aveva domandato sconfitta.
«Lasciami ripristinare l’Ordine nel Cosmo. Sai anche tu che è la cosa più saggia da fare. Se non credi alle mie parole, credi almeno ai fatti: se l’Inferno e l’Elisio tornassero, allora avresti qualche possibilità in più di salvare i tuoi amati Cavalieri d’Oro». La Dea aveva sgranato gli occhi: «Come sai che…?»
«Devo davvero dirtelo?» Aveva domandato, retorico, l’altro.
«No».
«Bene».
«Puoi davvero ripristinare tutto?» Aveva chiesto l’umano.
«Allo stato attuale no, ma se potessi avere un corpo fisico in cui è rimasta anche una minima parte del mio Cosmo, potrei». La Dea ti aveva guardato orripilata. Poi si era rivolta a te, luce adagiata sul palmo del ragazzo: «Dunque è questo il tuo piano? Approfittarti del corpo giovane e incorrotto di Shun per riprendere il tuo piano di conquista della Terra? No. Non te lo permetterò mai!» Ed era scattata in piedi, colma di rabbia. Lei, che questa parola non sarebbe neanche dovuta esistere nel suo vocabolario. Il tuo ospite, spaventato, aveva cercato di ripararti anche con l’altra mano, portandoti al suo petto come se tu fossi un animaletto spaurito da proteggere invece che il Sovrano dell’Averno. Tu ti facesti una bella risata, prima di ammonirla: «Quanto sei ingenua, Atena. Non capisci che ti sto invece, proponendo un patto molto più equo di quello che mi hai propinato tu durante la Guerra? Hai un bel coraggio a darmi del traditore quando tu stessa non avevi nessun’intenzione di mantenere la tua parola. No, allo stato attuale delle cose io non ci guadagno proprio niente a impossessarmi di un corpo refrattario alla Mia presenza. Normalmente neanche lo chiederei, dal momento che avevo risvegliato il mio corpo mitologico e, tu sai bene quanto me di chi è la colpa per la fine che ha fatto. Però, sai anche che i miei poteri sono molto più deboli, se ridotto così. Pensaci bene, vuoi davvero giocarti anche la più piccola possibilità di salvare i tuoi amati Cavalieri?» Domandasti mellifluo.
«Non osare neanche nominarli». Sibilò l’altra.
«E chi ne ha l’intenzione? Ho una proposta molto più interessante, invece: tu mi lasci incarnare in un ospite puro di cuore, io ristabilisco l’Ordine Naturale delle Cose e, forse Zeus si convincerà ad ascoltare le tue ragioni». Atena tacque a lungo soppesando la tua proposta e cercando una scappatoia. Alla fine i suoi occhi si velarono di tristezza e sospirò prima di cedere: «Immagino che tu abbia già scelto il candidato, giusto?»
«Certo, ed è l’unico che ancora risponde ai requisiti necessari. E lo sa anche lui ». Disse il Dio con voce trionfante.
«Shun?» Chiamò la Dea, in pena per te. Lui la guardò prima di annuire a malincuore. Non avrebbe mai voluto ospitarti di nuovo, come tu non avresti voluto tornare a dimorare in quell’umano.
Sfoderasti l’asso che avrebbe sancito il patto. «La scelta è solo tua, dipende da te».
Ma la Dea aveva scosso il capo, tenendo gli occhi chiari bassi e aveva detto: «Non è mia la scelta». 
Il frignone s’imbarazzò nel proferire queste parole: «Io, credo di aver già deciso da un po’, Milady». Proferì con occhi pieni di lacrime. Lady Isabel aveva girato il viso contratto in una smorfia da un’altra parte. Poi vi aveva guardati di nuovo e aveva detto: «Va bene, allora ho anch’io delle condizioni da apporre al patto».
«Sentiamo».
«Voglio che i vecchi rancori siano dimenticati, che i nostri domini e i nostri sudditi siano in pace tra loro. Che ci sia sempre uno spirito di collaborazione fra di noi e tra i nostri sudditi e che non si uccidano a vicenda. Ma, soprattutto, tu non possegga mai il corpo di Shun per i tuoi loschi scopi e, la vostra convivenza non deve in alcun modo alterare la pace o interferire con i suoi doveri di Cavaliere d’Oro e, gli permetterai di continuare a vivere qui sulla Terra».
Avevi saggiato la sua proposta prima di rispondere: «D’accordo». Poi avevate spiegato a Shun come riaccoglierti.
Perciò, si era fatto forza e ti aveva ingoiato aiutandoti con un bicchiere d’acqua neanche fossi stato un medicinale. Aveva avuto paura soprattutto quando ti sentì espanderti e infilarti nelle sue membra. Adesso sapeva cosa doveva provare un guanto o un calzino e, non era una sensazione piacevole. Esultasti trionfante prima di tornare serio e gli riferisti il primo di una lunga serie di messaggi per la Dea. «Dille da parte mia che la ringrazio. Ora, come promesso, ristabilirò l’equilibrio». Riferì.
Poi, come offerta di pace, quando i processi terminarono, una tua controparte di un altro universo riportò alla vita sia alcuni dei loro compagni sia parte del tuo esercito. Purtroppo non disponevi ancora di energia sufficiente per fare molto altro. Quella sarebbe tornata con il tempo.
Con l’aiuto dei poteri telecinetici di Kiki dell’Ariete, ricostruisti Castel Heinstein in Germania. Per fortuna i tuoi  sottoposti avevano provveduto a ripulire lo scempio lasciato dai fanatici delle sette nere che, percependo l’energia dell’Oltretomba, avevano eletto quel luogo loro santuario. La tua rabbia era stata grande. Talmente grande che per poco non contagiava anche il tuo ospite. Ma come potevi restare impassibile di fronte a quella profanazione? “Insulsi umani! come osate insozzare i miei domini?” Ululasti nella tua testa. Provocandogli una serie di fitte come se avesse indossato una corona di spine.  
Pandora si era spaventata quando ti aveva visto. Temeva che l’avresti punita per il suo tradimento. Eri tentato, in effetti, ma quell’idiota del tuo ospite ti aveva trattenuto con la sua  pietà, di fronte a quegli occhi violacei pieni di paura.
Perciò ti eri limitato a legarla ancor più strettamente agli Inferi di prima. Adesso ci sarebbe davvero voluta l’eternità per lei, per liberarsi del tuo giogo.
Con il tempo il tuo potere si ristabilì e riportasti alla vita altre persone. E, stando al patto, Aquarius, Virgo e tutti quelli che avevano già un erede erano rimasti nell’Oltretomba in qualità di Guardiani di determinate zone. A parte Leo. Al posto suo si era offerto il fratello maggiore del tuo ospite per poter meglio sorvegliare eventuali fughe di anime fuggiasche. In quanto ex Bronze della Fenice, era molto più adatto di lui per questo compito. Le ragioni erano diverse e non tutte condivisibili, però erano le loro scelte e le avevi rispettate. Tornasti al presente, a quella bella giornata di sole che ti stavi godendo. «Hai avuto le risposte che cercavi?» Ti chiese Shun mentre riposavate sul terrazzo di Villa Thule.
«Non ancora». Rispondesti al tuo ospite.
«Almeno spiegami perché tutto questo interesse nei confronti di Astrid. Che cosa dovrebbe essere, lei?» Domandò.
«Se è quello che penso, la risposta ai nostri problemi». Mormorasti pensoso, in uno dei tuoi rarissimi slanci di generosità, rari come un raggio di sole dopo mesi di pioggia incessante. Batté le palpebre sorpreso: «Cosa?»
«Chiama subito Pandora». Gli ordinasti invece cambiando discorso. Sospirò ed eseguì ringraziando che non fossi telefono dipendente. La voce della tua Sacerdotessa trillò dalla cornetta. «Mio Signore».
«Che notizie dal Regno dei Morti?» Domandasti prendendo possesso delle corde vocali e del corpo del suo proprietario, relegandolo in un angolino del suo stesso essere. 
In realtà ogni notte, mentre il tuo ospite dormiva, prendevi possesso del suo corpo per qualche minuto. Il tempo necessario per monitorare la guerra civile negli Inferi. Ovvio che sapevi cosa succedeva nei tuoi possedimenti. Potevano farti fesso due volte, alla terza per forza che stavi allerta. E dopo addirittura tre patacche di corpi non desideravi altro che tornare negli Inferi.
Ma non ci avresti rimesso piede come ShunHades, solo come Hades, una volta che la Giudecca fosse stata riconquistata.
Hypnos e Thanatos avevano quasi finito di assemblare il tuo corpo mitologico e provvedevano affinché nei Campi Elisi i Black Saints e Don Avido non mettessero mai piede.
Se non fosse stato per la loro sorella maggiore Ker, la stessa che aveva fatto sì che Saga fosse posseduto dalla nascita, a quest’ora avresti perso anche loro. Poi si era unita a loro nella lotta contro i Black Saint. I quali, a lungo andare, si erano fatti l’idea che avvicinarsi al Muro del Lamento fosse ormai sinonimo di morte. 
Ma adesso attendevate soltanto il momento giusto per stringere Don Avido nella morsa. Pandora e gli Specter dai lati, loro da dietro e il Cavaliere di Cancer da davanti. «Abbiamo recuperato alcuni degli Specter che erano scampati alla precedente ondata, ma sono sempre meno a causa delle Creature. Le nostre spie mi dicono che hanno cominciato a invadere il nostro Regno. Sempre più Skeleton e Specter le hanno avvistate».  
A quanto pare le precauzioni sviluppate durante la Guerra Sacra con Artemide non avevano più effetto. Questa non ci voleva. Anche perché avevi scoperto di non essere capace di resuscitarli. Potevi influire sulla vita e sulla morte, ma l’esistenza era un’altra cosa. Cancellare completamente ogni traccia di una vita, questo andava oltre ogni tuo potere e immaginazione. E anche oltre il potere del Cavaliere di Virgo.
Se poi foste stati in Guerra tu e Atena ti saresti divertito ad aspettare che i suoi Saint morissero da soli a causa dell’influsso delle Creature, primo tra tutti Seiya, che sentivi più provato degli altri, anche se fingeva il contrario.  Alla fine, quando la congedasti, lei si raccomandò: «Mio signore, vi prego, siate prudente».
Ti lasciasti passare queste parole da un orecchio all’altro. L’unico motivo per cui l’avevi resuscitata era perché era il tuo braccio destro. Sebbene avesse cominciato a spezzare le catene karmiche che la legavano a te, aveva ancora molta strada da fare prima di liberarsi definitivamente del tuo giogo. Avevi sottovalutato la giovane vita che scorreva in lei e la sua brama di libertà. Avresti dovuto immaginarlo che una sedicenne del XX secolo non sarebbe mai stata adatta a guidare il Regno dei Morti e le tue armate. A malapena Atena stessa riusciva a gestire le sue stesse fila. Anzi, mancava poco che si autogestissero per conto proprio.
Anche se eri irato avevi avvertito in lei il pentimento, la paura, e il suo attaccamento alla vita, oltre che il bisogno di vivere, di assaporare e toccare con mano quei colori che la tua rinascita le aveva sottratto. Quelle emozioni che sono proprio degli esseri umani, ecco.
Questa Pandora era molto diversa dalla Sacerdotessa che guidò le tue armate nel millesettecento. Forse era stato questo il tuo errore più grande: non conoscevi bene tua sorella maggiore. Altrimenti avresti compreso di cosa aveva davvero bisogno. Persino Eris viveva in uno splendido Eden, ricco di vita e pace. Odiavi ammetterlo, però stavi imparando tantissimo dal tuo giovane ospite. Al punto che a volte sentivi la necessità di prendere possesso del suo corpo e viverli in prima persona. Sentivi persino il richiamo della carne per il gentil sesso, cosa che, non sentivi più da quando avevi cominciato questa sanguinosa serie di guerre con Atena.
Comprendevi cosa avesse spinto la tua Sacerdotessa a tradirti. E, questa comprensione ti aveva aperto un mondo. “Grazie a te ho ricordato che il mondo non è grigio, il cielo è azzurro, l’erba è verde e il sangue è rosso”. E, che nell’Inferno, questi colori erano assenti. Che queste parole non erano che la punta dell’iceberg di una mancanza che divorava l’anima. Un’anima che bramava di assaporarli anche con gli altri quattro sensi, non solo con la vista. L’erba aveva anche un odore, il cielo aveva un sapore quando pioveva, e il sangue aveva una densità che sembrava quasi dolce al tatto.
Persino quelli dell’Elisio non erano niente perché tu non eri rimasto a goderteli. Solo perché? Per aiutare un amico in difficoltà ai tempi del mito. Invece che mandarlo a quel paese come avresti dovuto fare. Questo però non l’avresti mai confessato ad anima viva, neanche a Shun, che pure era la persona a te più vicina in assoluto. Non era bene che quell’umano si immischiasse negli affari di una Divinità. Ancora adesso che erano passati molti anni, però non ti fidavi più completamente di lei. Invece, ora che erano tornati a militare tutti e tre nelle tue fila, avevi parlato ai tuoi luogotenenti di Astrid e stavi cominciando a maturare un piano. Ciò che all’inizio ti sembrava pura fantasia, adesso andava concretizzandosi nella tua testa. Grazie soprattutto ai recenti avvenimenti. Ti eri proprio dovuto ricredere: più ricordava più si rivelava capace. 
Il problema era attuarlo; la ragazza non era mai da sola e, ridotta a uno straccio com’era, non ti serviva. 
Siccome Hypnos e Thanatos non usavano i telefoni e, anche se li avessero avuti non avrebbero avuto campo nell’Elisio, avevi chiesto ai due, tramite Pandora, di condurre una serie di esperimenti su Astrid per verificare il suo potere. Era stato anche grazie al loro intervento che era riuscita a raggiungere i compagni di Shun sulla Luna, perché, a rigor di logica, nessun vivo abbandona mai la Terra di sua spontanea volontà per recarsi altrove. Le anime hanno sempre una vaga paura di abbandonare il pianeta, quando incarnate. Pertanto ti eri raccomandato con Thanatos e Ker di non ucciderla, ti serviva viva.
Atena a forza di incarnarsi ripetutamente si stava dimenticando quello che tu avevi capito fin dall’inizio. Ossia il segreto della Luce Ombrosa. Sì, la Luce Ombrosa avrebbe giocato un ruolo chiave se tu fossi riuscito a spedirla sul campo di battaglia.
Chi l’avrebbe mai detto che questa leggenda potesse essere reale. Restituisti il corpo a Shun. Secondo i patti non dovevi interferire con la sua vita e il suo dovere, ma non avevate mai accennato al prendere in prestito il suo corpo per comunicare con le tue schiere. Di norma non t’importava moltissimo di loro, però se un nemico esterno le minacciava e le decimava t’importava. Dopo la Guerra Sacra non avresti mai più permesso a chicchessia di entrare nei tuoi domini tanto facilmente. Avresti atteso di avere altre informazioni, poi avresti deciso tu stesso il da farsi. Ma per ora avresti atteso un altro po’. La giovane Luce Ombrosa faceva proprio al caso tuo.
Per questo, quando la sentisti chiamare il tuo nome, prendesti a prestito le energie da Shun per aprire le porte con cui scrutava i mondi e mandare un messaggio telepatico alla Luce Ombrosa. In breve tempo copristi la distanza che vi separava e toccasti la sua mente con la tua. La sentisti sussultare ma le parlasti: “Luce Ombrosa”. “Sì?” Chiese guardinga.
“Sono il Dio Hades, il Signore dell’Oltretomba e degli Specter”. Ti presentasti e da lei ti arrivò un moto di paura. “Sto per morire?” Chiese intimorita.  
“No. La tua ora è ancora lontana.” La rassicurasti. Si rasserenò un poco ma poi tornò a domandarti: “Allora mi avete sentito”. 
“Sì”. Confermasti ma le lasciasti intendere che fosse una cosa rara. La Luce Ombrosa ti chiese se potesse farti una domanda e tu glielo concedesti. “Mia madre è negli Inferi?” Fosti tentato dal dirle una bugia ma conoscevi già l’odio che provava per le schiere di Atena e i bugiardi. Shun l’aveva avvertito molte volte. Perciò le dicesti di no e aggiungesti che eri venuto da lei per chiederle un favore. “Ho bisogno della tua forza. Sei l’unica a cui posso rivolgere una richiesta simile. Saresti disposta a raggiungere le mie schiere negli Inferi e combattere contro i rivoltosi? In cambio ti darò qualsiasi cosa tu desideri”.
“Scusate se ve lo chiedo così, ma perché dovrei?” Le spiegasti di nuovo che lei era l’unica persona che potesse combattere anche con le Creature. Come se non bastasse che fosse riuscita a esorcizzare due posseduti e combattere contro Mordred. “L’avete mandato voi, non è così?” Intuì con un guizzo di rabbia. Era più sveglia di quanto immaginassi ma ciò non fece che colpirti ancor più positivamente. Eri troppo abituato agli incapaci e ai rintronati dei tuoi sottoposti. Una mente fresca come la sua avrebbe dato sicuramente una svolta a questa guerra. Avrebbe persino potuto ribaltare le sorti del conflitto.  
“Mi dispiace molto di averti causato dei problemi ma avevo bisogno di capire quanto fossi forte e non sono affatto deluso”. Ti scusasti. Se da un lato percepisti che era lusingata, dall’altro sentisti anche la sua rabbia, ma l’ignorasti. Le spiegasti in che situazione vertevano gli Inferi e che se lei non avesse contribuito allora i nemici avrebbero vinto e per tutti voi sarebbe stata la fine. Le spiegasti anche che tu eri potente, e che non ti pesava per nulla concederle ciò che avrebbe desiderato. A questo punto restasti abbastanza sorpreso quando lei disse: “Vi ringrazio dell’offerta, ma è impossibile anche per voi, la persona che vorrei rivedere si è suicidata e non si trova negli Inferi o nei Campi Elisi”. Tuttavia lo sentivi anche tu che stava fremendo dal chiederti qualcosa. Attendesti. Poi alla fine ti richiamò e rispondesti. Meditò un po’ sulla tua richiesta.
Sembrò giungere a una conclusione perché domandò: “Se accetto, voi scioglierete il sigillo sulla mia memoria?”
Niente di più facile.
Ti scappò un mezzo sorriso divertito per la sua umiltà. Eri un Dio avresti potuto fare molto di più di così, ma gliene fosti grato lo stesso. Voi Dèi non avevate mai pensato ai mortali come inferiori, anzi, portavate un grande rispetto per loro. Se non ti fosse importato, poi, non avresti mai cercato schiere umane o lavorato per aiutare gli umani a spurgare i loro peccati. “E se dirai di sì avrai piena libertà di movimento in quanto risponderai a me e me soltanto”. Una posizione così elevata non ce l’aveva neanche Pandora e neppure i tre Giudici Infernali. E percepivi da lei l’ambizione. Era tentata, si sentiva.
Sorridesti soddisfatto, mancava pochissimo.
Lo sentivi che a lei non importava nulla di quello che stava succedendo in Grecia. Che aveva voglia di combattere, menare le mani, vendicarsi su tutto e tutti. Che avrebbe messo i suoi problemi da parte per sfogarsi un po’. Lo sapeva che era una sorta di patto col Diavolo, non era stupida. Che di macchiarsi di peccati non le importava. Come sapevi anche che aveva già un’opinione migliore di te che dei Saint della Dea della Guerra e della Sapienza. Almeno tu glielo stavi chiedendo e mica a tutti è concessa un’avventura come quella di Orfeo, Enea o Dante.
“D’accordo”. Decretò alla fine, “rimuovete il sigillo e io verrò. Anche se prima avrei un’ultima cosa da fare”.
“E sarebbe?”
“Smascherare un impostore”. Avevi già capito a chi si riferisse.
“Va bene”. E poiché eri misericordioso, le insegnasti come fare per chiamarti qualora riuscisse nell’intento. Le sarebbe bastato solo pensare il tuo nome. “Me ne ricorderò”. Promise, poi tu ti accomiatasti.     

La giovane Luce Ombrosa si mise subito all’opera. Il giorno dopo, infatti, la terra tremò. Non era un fenomeno esclusivamente naturale, lo sentivi. Era il pianeta intero che tremava. Non c’era niente che un Dio non potesse riconoscere o fare, perciò materializzasti a te lo specchio di Pandora, approfittando del sonno di Shun. E gli ordinasti di mostrarti la giovane Luce Ombrosa e il terremoto. Se avevi visto giusto c’era lei dietro tutto questo.  
La scena si mostrò al momento della scossa. Avesti una panoramica dell’arena. Vedesti la Saint di Indus affrontare Astrid davanti a tutti i soldati radunati lì sugli spalti. Quella ragazza aveva qualcosa che non ti convinceva, ti ricordava qualcuno. Non era uno scontro alla pari, in nessun senso. La Luce Ombrosa non indossava neanche degli abiti che le permettessero un’ampia libertà di movimento. Non riusciva neanche ad attaccare decentemente, ogni suo colpo veniva parato senza problemi. L’avversaria se la rideva e, più di una volta la buttò al tappeto sotto le risa degli spettatori.
Poi mentre la Luce Ombrosa si rialzava a fatica, la Saint raccolse un sasso e glielo tirò. La centrò in testa facendola di nuovo svenire. «Potremmo anche lapidarla, lei è la causa di tutte le nostre disgrazie». Propose la Saint e le sue compagne le dettero corda. Raccolsero i sassi. Nessuno l’avrebbe protetta. Ti sbagliavi perché le pietre si fermarono tutte a mezz’aria. «Raki!» Esclamò la giovane mentre la piccola lemuriana e il nuovo Gold Saint di Aries la raggiungevano e l’aiutava a rimettersi in piedi. «Cosa stai facendo? Non è un comportamento degno di un Cavaliere di Atena!»  La rimbrottò Kiki mentre Raki soccorreva Astrid, tremante e dolorante. Lo spavento e la rabbia incendiavano il suo sguardo. Le Saint chiesero perdono.
Le aguzzine desisterono subito. Maestro e allieva fecero per portarla via ma lei s’impuntò e richiamò la capobanda con voce lamentosa. «Aspetta». La Saint di Indus si fermò. Anche i due lemuriani cercarono di richiamare la ferita. Che cosa voleva fare? Perché voleva buttare al vento i loro sforzi? «Non ti è bastata la lezione, stupida serva? Te ne devo dare ancora per insegnarti a non impicciarti degli affari altrui?» Rispose la mora con aria annoiata.  
«Io non sono una serva.» replicò la bionda mentre si staccava da Raki. Eri sbigottito, non pensavi che fosse tanto forte. Quel colpo avrebbe ucciso chiunque ed eri più che sicuro che non avesse usato alcuna tecnica rigenerativa. Eppure, il fuoco che le ardeva dentro lo vedevi anche tu. L’aria vibrava attorno alla sua persona. «Credi di farmi paura? Credi di riuscire a sopraffarmi? Quelli come te sono destinati a scomparire». E queste parole fecero trasalire tutti.
«Cosa? Come ti permetti?»
«Chi si vanta di essere il più forte, il più potente o il più pericoloso prima o poi sparisce da sé». Specificò. Poi aggiunse: «É la regola di quelli come me. E, le tue stelle, stanno già scomparendo con te e presto le seguirai». Decretò alzando l’indice verso di lei come se stesse lanciandole una maledizione.
«Astrid, adesso basta!» Le urlò Raki in coro allo «Stai zitta!» di Neera.
«Le vedo, sono così deboli…»
«Stai zitta!» La colpì di nuovo, mandandola lunga, distesa sulla sabbia dell’arena. Ma neanche così si arrese. Era viva e dolorante, la sabbia doveva averle portato via almeno la parte superiore della sua epidermide. Invece, con tuo grande sconcerto, la scopristi illesa e sghignazzante.
Si rialzò e con un movimento del polso materializzò dal niente un bastone da naginata di Cosmo dorato. Cosmo? Dove lo aveva trovato?
«Che c’è? Che c’è da ridere?» Le domandò fingendo una spavalderia che in realtà stava andando incrinandosi. Astrid rise sguaiatamente e la sua risata si propagò per tutta l’arena, ormai ammutolita. Poi manifestò il suo Cosmo in tutta la sua gloria. Non assomigliava a niente che avessi mai visto prima. Era una fiamma nera come la notte che, innalzandosi assumevano sfumature più chiare fino ad arrivare al bianco. Al suo interno stelle fosforescenti di varie dimensioni brillavano e si muovevano seguendo un percorso tutto loro. Quell’inquietante Cosmo silente si espanse fino a coprire un raggio di cinque metri. A quel punto solo una piccola parte degli spettatori non urlava per il terrore. Era come guardare un rogo, solo che la strega al suo interno non ne veniva intaccata. Era così alto che superò persino le mura dell’arena e spostò l’aria e fece tremare il suolo. 
«Astrid!» Esclamò Shiryu percependo tutto.
«Che le succede?» Urlò qualcuno spaventato mentre Shura cominciò a urlare alla folla di stare indietro.
La ragazza ignorò tutti mentre continuava a ridere reclinando il capo all’indietro. Smise a poco a poco. Raddrizzò il viso e guardò la Silver. Si terse un occhio annebbiato dalle lacrime e, reggendosi al bastone barcollò verso di lei. La Saint spaventata cominciò ad arretrare, intimandole di stare lontana, gonfiando il proprio Cosmo. Ma in confronto a quello di Astrid somigliò a una macchia fioca. Qualcuno le urlò di fermarsi. Astrid continuò la sua claudicante avanzata verso la Saint.
Il suo bersaglio cercò di attaccarla ma il Cosmo nero di Astrid la protesse assorbendo tutti i colpi.
Arrivata a meno di un metro dall’avversaria, lasciò il bastone, che si dissolse e lei incespicò. Tese le mani verso di lei e le artigliò le spalle per reggersi in piedi, quasi le cascò addosso. Come se tutto ciò le fosse costato un’enorme fatica.
Neera trattenne il fiato rumorosamente e cercò di scostarsi ma Astrid non la lasciò andare.
Il suo Cosmo cominciò a placarsi e affievolirsi.
Erano tutti pietrificati. Persino tu eri turbato.
La bionda reggendosi a lei riuscì a rimettersi dritta, alzare la testa e sorriderle: «Le vedo, oh, sì, le vedo. Sono così deboli che paiono scintille. Volendo potrei cancellarle persino io stessa». E ne era in grado. La terra prese a tremare più violentemente.
«Lasciami stare!» Urlò Neera mentre Aiolia la colpiva alle spalle con un colpo di taglio e la faceva svenire. Il suo Cosmo scomparve e gli elementi si placarono mentre il Gold Saint di Leo la sorreggeva. «Astrid!» Urlò il Saint di Aries. Avevi visto abbastanza. Recidesti la tecnica e poi rimandasti lo specchio da Pandora.   

Camus
«Milady!» Chiamasti allarmato volgendo la testa di scatto verso di lei.
L’energia andava condensandosi tutta in un punto solo. In Grecia, al Santuario, nell’Arena. Poi  esplose e tornò a invadere e pervadere ogni cosa. Tanto era forte spostò le massi nuvolose sulle vostre teste, scoprendo i raggi del sole, che vi costrinsero a battere le palpebre e schermarvi gli occhi con le mani o le braccia.
Cosa stava succedendo?
Lady Asia volse il volto verso il cielo sopra di voi. «Sì è svegliata, alla fine».
«Che cosa si è svegliato?»
«La Luce Ombrosa». Dichiarò con un sorriso e si rialzò a sedere. Gli occhi brillanti. Sembrava che avesse ritrovato improvvisamente tutta la sua forza. Ma non ne eri per nulla sicuro. Vi eravate teletrasportati grazie al suo potere in un ambulatorio e lì la Dea si era fatta medicare. Come sapeva che era un ospedale affiliato al Santuario per te era ancora un mistero. Ma se aveva a che fare con voi allora qualcosa doveva per forza sapere. Si era fatta ricucire una ferita abbastanza importante sul fianco, che il suo Ichor particolare avrebbe fatto il resto.

 

Stavi camminando con lo sguardo basso, perso nei tuoi pensieri.
Il tempo è relativo, soprattutto quando ti immergi nei ricordi. I confini spazio temporali si annebbiano e se ti concentri è quasi come rivivere un film. Un film costellato di momenti no, però. Tu eri un soldato, non avrebbe dovuto importartene niente. Tu eri parte dell’èlite del Santuario. Allora perché ti sentivi una recluta alle prime armi? Perché? Perché questa sensazione di fallimento non andava via?
Poco più avanti, Shaka e Lady Asia stavano studiando un piano d’azione quando a un certo punto la sentisti camminare vicino a te e parlarti: «Non sono ancora cieca, me ne accorgo che tu sei ancora più demoralizzato del tuo compagno».
La guardasti, non ti eri minimamente accorto del suo spostamento, poi, raddrizzasti il volto e vedesti Shaka camminare avanti a voi, apparentemente ignaro di ciò che succedeva alle sue spalle.
«No, sul serio, non è niente, è…» Ma lei non ti lasciò continuare. Anzi, fermò Shaka e gli disse: «Scusa un momento, devo dire una cosa al tuo compagno, in privato». Non potesti fare a meno di guardarla sorpreso. Non era mai successo che una Dea ti prendesse in disparte anche solo per questo. Era un gesto così umano che non c’eri abituato.
Il biondo indiano annuì e restò di guardia.
Vi allontanaste di tre metri, lei sospingendo dolcemente te, tenendoti una mano sulle scapole. Poi ti fermò e spostò quella mano sul tuo braccio. Cosa ancora più inusuale, per te, ti guardò dritto negli occhi. Con quei caldi occhi dello stesso colore del cioccolato fondente, che alla luce cangiarono su una tonalità molto più chiara e morbida, color cioccolato al latte. Occhi seri, eppure incredibilmente dolci. Anche la sua voce lo era, quando ti parlò. «Camus, io non sono Atena, anche se sono una Dea, sono un soldato, tanto quanto voi, o forse meno, ma riesco a capire quando un mio compagno è giù di morale a causa di uno smacco».
Cosa non da te. Nella vita avevi subito tanti di quegli smacchi e di quelle sconfitte e non ti eri mai arreso. Il fatto che il Drago Rosso avesse preso suo fratello per la collottola e l’avesse spedito a calci nel culo alla Casa di Urano, era solo un altro paio di maniche. Se potevi evitare di combattere evitavi, ma se combattevi, allora dovevi andare fino in fondo. Tu, che i sentimenti li reprimesti, adesso ti ritrovavi ad ammettere che non ti avevano mai abbandonato. Ma che anzi, ti avevano guidato dal mostro nero. Soprattutto la paura per Hyoga. E adesso non era un po’ la stessa cosa, Camus? Ma per chi avevi paura, stavolta?
«Mi dispiace». Sussurrasti.
«Di cosa?»
«Di non avervi saputo proteggere, di aver lasciato che questo posto avesse la meglio su di me». Confessasti rammaricato. Un sospiro doloroso eruppe dalle tue labbra. Chinasti il capo, più per nasconderle i tuoi occhi afflitti e lucidi che per altro.
Lei se ne restò in silenzio per un po’. Poi ti sfiorò il braccio destro e, con un gesto più impacciato, ti strinse il bicipite. Se tu non avessi avuto indosso il Cloth, probabilmente ti avrebbe stretto la spalla. Guardasti quella mano e poi incontrasti il suo sguardo, carico di speranza, di malinconia e di dolcezza. «Ti capisco, credimi, ti capisco. Ieri sera ti ho detto che questo posto è foriero di dolore per me, no? Ho dimenticato di dirti come faccio a sopravvivere».
La guardasti incuriosito, speranzoso che stesse per elargirti un appiglio. «Come?»
«Mi focalizzo su qualcos’altro, qualcosa che per me è foriero di gioia. Una canzone, nel mio caso: Fields of gold, di Sting». Ti rivelò e il suo sorriso si espanse, divertito. «La stavo cantando tra me e me ieri sera per tenermi sveglia». T’ informò.
Non eri molto ferrato in musica e non ti sembrava neanche di conoscere questo gruppo.
Le uniche volte che ci avevi avuto a che fare erano state anche quelle in cui ti eri recato al Santuario per assistere alle esibizioni del Silver Saint della Lyra. Come riusciva a togliere lui gli affanni e addolcire anche i cuori più malvagi, come quello di Death Mask o di Arles, era un mistero. 
Lei scorse il tuo sguardo smarrito e riprese il filo: «Bè, non importa. É vero che la mia vita non è facile, ma si arriva a un punto in cui si sceglie se continuare a scegliere di vedere solo le cose negative o se vedere anche cose positive. Io ho scelto di vedere le cose positive. É così che faccio io. É quasi come fare un pellegrinaggio che ti porta da qualche parte e poi, torni alla tua vita di sempre. Solo che qualcosa dentro ti resta e, poi, queste cose belle le porti con te, al pari dei tuoi demoni personali. Solo che non si mescoleranno mai. E così, ritrovi un po’ di serenità».
«Capisco». Le dicesti.
Lei ti sorrise e ti dette un buffetto affettuoso sulla guancia. Ti trattenesti dal lanciarle un’occhiataccia, solo in virtù del suo status. 
«Io i miei campi d’oro li ho trovati, ora tocca a te trovare i tuoi». Ti guardò, in attesa che tu ti calmassi un po’.
Effettivamente non ci avevi mai pensato prima. Non avevi mai pensato a qualcos’altro. Non che ti fossi martoriato, non eri autolesionista psicologico, eri solo troppo sensibile. La verità era che sotto lo strato di ghiaccio, nascondevi un cuore capace di amore. Un amore sconfinato che ti portava a essere generoso e, che, ti portò ad amare come dei figli i tuoi allievi. Altrimenti, non ti saresti mai sacrificato per amor di Hyoga. Trovando così un buon compromesso tra il tuo istinto che ti urlava di volerlo proteggere ancora e il mostro nero che ti condusse alla morte. «Poi, non dimenticare, che abbiamo trovato il Matto e l’abbiamo piegato a noi, proprio grazie a te».
Ma poteva essere un buon suggerimento. Allora, visto che tutte le tue scelte finora si erano rivelate deleterie, perché non provare a cambiare strada? Che volevi che ti succedesse ancora? Dopotutto tu eri già morto.
Ti sorrise un’ultima volta. Poi si allontanò. «Riprendiamo la marcia». Comandò.
Shaka lasciò che la superasse e poi la seguì, tu facesti altrettanto, riflettendo sulle sue parole.
E poi lo percepisti anche tu. «Milady!» Chiamò Shaka.
«Ci siamo!» Disse Lady Asia e, poi, corse nella direzione da cui proveniva a gran velocità.
Voi due la seguiste e per un momento, solo uno, la perdeste di vista, solo per rivederla qualche metro più in là. Doveva essere scattata.
In poche falcate la raggiungeste e vedeste un uomo uscire da una casupola.  Era sulla trentina. Era alto e slanciato. Sembrava un modello di una qualche pubblicità di vestiti, solo più sporco.
Aveva le guance scavate, il naso lungo, i capelli biondi lunghi fino alla nuca ricci e scompigliati color miele ma dalla radice castana. Gli occhi erano color nocciola e aveva la carnagione punteggiata di lentiggini dorate. Indossava una camicia azzurra, jeans strappati sul ginocchio e scarpe da tennis e vi guardava sorpreso. Immobilizzato come un coniglio di fronte ai fari di una macchina. Ma la sua espressione di terrorizzata aveva ben poco. Perché poi vi fulminò con lo sguardo. «Sì?» Chiese guardingo.
«Astronauta?» Domandò Lady Asia e questi confermò con un cenno del capo. 
«Sì?» Chiese di nuovo.
«Devi venire con noi». Disse la giovane dopo aver tirato un sospiro di sollievo. «Sono Asia degli Azoni e sto radunando i Guardiani delle Case degli Astri».    
«Perché?»
«Perché è arrivato il momento, non sai cosa succede?»
«Sì e non m’importa. Piuttosto, avete visto mio fratello? Prima ho percepito una battaglia e a un certo punto è arrivato persino il Drago Rosso e poi più niente».
«Eravamo noi».
«Adesso i miei fratelli dove sono?»
«In viaggio verso le Case degli Astri, se parti adesso sei ancora in tempo per raggiungerli».
L’Astronauta alzò gli occhi al cielo e sbuffò: «Che noia». Lady Asia sgranò gli occhi, mentre voi due assumeste la posizione difensiva. Personaggi come questo potevano rivelarsi molto insidiosi. «Come?» Domandò lei.
«Gli esseri umani sono così noiosi, conoscine uno e li conoscerai tutti. Tutti con gli stessi bisogni, gli stessi pensieri, persino gli stessi movimenti e le stesse reazioni». Spiegò l’Astronauta scompigliandosi la zazzera con la ricrescita. «E gli Dèi, oh, per favore, quelli non sono certo meglio! Per capirli basta soltanto esasperare quei tratti degli esseri umani, soprattutto i difetti, ed ecco fatto. Non mi sorprende che tu abbia deciso di incarnarti, dev’essere una tale noia vivere nel Mondo Celeste».
«Non ti sto chiedendo di tornare a casa ma di tornare alla Casa di Urano e presiederla in attesa della Luce Ombrosa!» Specificò la giovane dai capelli striati d’argento.
«Ho sentito, non sono sordo e la mia risposta non cambia, avrei solo a che fare con un altro patetico essere umano uguale a miliardi di miliardi di altri. Ti dirò di più, a me non dispiace che tutto stia finendo, è sempre meglio della noia mortale». 
«La Luce Ombrosa è diversa!» Ribatté Lady Asia.
«Se anche fosse a me cosa me ne frega? Le tue belle parole non mi convinceranno mai». 
«Ma devi andare! É il tuo sacro dovere!» Al solo udire quelle parole si volse di scatto, cambiando completamente espressione. Gli occhi brillavano come fanali innaturali, risaltati dal trucco nero. I denti sembravano più aguzzi di prima: «Il mio sacro dovere?» Ruggì con tutta la sua potenza di polmoni, facendovi accigliare ancor di più per il fischio nelle orecchie.
La figlia del Drago Rosso trasalì e arretrò di un passo, mentre voi serraste ancor più la difesa.
Intanto l’aura che circondava l’Astronauta divenne rossa come il sangue e i suoi tratti si affilarono. Alcune ciocche si appuntirono in sei corna ai lati del capo, le sue basette si allungarono fino a sfiorare il collo e la barba gli crebbe fino a cingergli le mascelle squadrate, lasciando libero il mento. Gli occhi divennero completamente bianchi.
Il suo corpo s’ingrandì e si espansero dei tatuaggi informi che andarono ad annerire alcune zone della sua pelle. I brandelli dei suoi vestiti pendevano dal suo corpo peloso e muscoloso.
Se il Matto Celeste vi aveva terrorizzati, questo fu persino peggio. «Il mio sacro dovere? Hai una vaga idea di quello che stai dicendo, scherzo della natura? Cosa ne sai tu della sacralità e del dovere? Io non ho niente di sacro da rispettare! Per quel che mi riguarda potete anche estinguervi tutti, non devo né a te né agli Dèi servigi che non sono richiesti! Io non muoverò neanche un dito per quella feccia che mi ha demonizzato!»
«Non costringermi». L’avvisò.
«Voglio proprio vedere. Tempesta Radiante!» Urlò lui e l’energia vi si scagliò addosso. Shaka cercò di opporgli il Kān ma il suo attacco fu polverizzato in un istante. Lady Asia parò il colpo opponendo la sua spada di piatto. E quando si era mossa?
«Lady Asia!», «Asia!» Esclamaste sorpresi. Gli smeraldi nel pomolo e nell’elsa emisero una luce verde che, crescendo repentinamente, andò a scontrarsi con quella gialla dell’Astronauta e la respinse, proteggendovi. «Uh, hai usato i poteri del Tempo». Commentò divertito l’entità davanti a voi.
In un lampo entrambe le luci si estinsero.
«Ma guarda, allora non sei indifesa come credevo. Peccato che non resisterai a questo, Onda d’Urto!» Alzò il braccio, vi concentrò una sfera di Cosmo e ve la lanciò. In breve la sfera esplose trasformandosi in una tempesta di vento che vi catturò immediatamente e vi staccò da terra.
Se non volaste via fu grazie ad Asia, la quale vi recuperò materializzando delle corde smeraldine e vi ritirò a terra. Il vento cessò e le corde rientrarono nelle tre gemme della sua spada.
«Hai usato Tamerlane apposta come ancora!» Esplose il Guardiano.
«Precisamente. E ho decelerato il tempo di modo che potessimo combattere senza temere l’arrivo delle Creature». Spiegò lei.
«Furba». Si complimentò lo zio. «Ma non abbastanza».
Improvvisamente Lady Asia si sentì mancare e, vedeste un anello d’energia attorno alla sua gola. «Togli questo se ci riesci».
«Ora basta così». Comandò Shaka, beccandosi l’occhiata riprovevole del Guardiano. «E tu che cosa vuoi?» Chiese, infastidito. Shaka, non rispose subito, si limitò a espandere il suo Cosmo. 
«Misero insetto, cosa credi di fare? Il tuo Cosmo non è niente, hai capito? Niente!» Shaka non rispose mentre l’altro continuò a inveire e a schernirlo.
Ma in quel momento la Dea si frappose davanti a voi in ginocchio, tendendo le braccia verso di lui ed entrambi sgranaste gli occhi. Come conosceva questa posa? «Usate il vostro Cosmo alla piena potenza e unitelo al mio!» Comandò la Dea nella posa dell’Atena Exclamation. Voi l’imitaste e liberaste la vostra energia tutta in una volta, che colpì il Guardiano.
Distruggendo così anche il collare che le impediva il respiro, ma non debellandolo. Il Guardiano, infatti, aveva solo le punte dei capelli affumicate ma niente di più. E poi rideva divertito. 
«Non è possibile, non gli abbiamo fatto niente!» Esclamasti tu.
Invece, il biondo indiano fu più pragmatico e passò immediatamente all’azione. «Per la tua presunzione ti toglierò i sensi a uno a uno, a cominciare dalla vista. Tenbu Hōrin». Comandò, togliendo così i sensi al vostro avversario. Il quale sgranò gli occhi e la sua espressione cambiò di colpo per la sorpresa. «No, Shaka! Sei impazzito?»
«Milady, state indietro per favore, adesso l’udito». E il Guardiano si piegò in due gemendo di dolore. 
«Fermo!» Strillò la Dea e si parò davanti allo zio a braccia spalancate.
«Lady Asia!» Urlasti e Shaka ti fece eco, spaventato, fermandosi appena in tempo, prima di piegare la faccia in una smorfia di rimprovero. Aprì bocca per dirle di togliersi ma lei urlò, anticipandolo:
«É come con me! Non è un umano! Non lo annienterai mai togliendogli i sensi!» Tu sgranasti gli occhi e Shaka sussultò.
«Che vuol dire?» Chiedesti tu.
Come a sottolineare le sue parole, il Guardiano, piegato in due, le braccia penzoloni, cominciò a ridere malefico.
Asia sussultò e si girò verso di lui. Che adesso era circonfuso di un alone rosso come il sangue. I suoi occhi erano diventati bianchi. «Peccato che tu sia una guastafeste, mi hai rovinato la sorpresa». Improvvisamente il suo Cosmo cominciò a crescere a dismisura, superando persino quello della Vostra Dea. Raddrizzò il volto dai tratti ancora delineati da delle righe nere e guardò la Dea. «E, visto che hai decelerato il tempo, posso scatenarmi in tutta tranquillità». Ciò detto, dalla sua schiena si ersero delle ali d’aquila immense e rosse.
«Significa che più sensi gli toglierai, più lo costringerai a rivelare la sua vera natura. É come se tu togliessi le briglie a un cavallo imbizzarrito. O come se tu lasciasti entrare uno squalo affamato nella tua gabbia». Spiegò rapidamente lei.
I capelli del Guardiano crebbero fino all’ombelico e s’ispessirono, si lisciarono e divennero neri a eccezione delle punte, che restarono bionde. Il nero che aveva delimitato i suoi occhi si ramificò a formare delle vene e il tatuaggio di un drago ad ali spiegate che si alzava dal suo petto fino a raggiungere con il capo la sua guancia sinistra. La muscolatura si gonfiò, stracciando così i vestiti. Dal suo corpo emersero degli ispessimenti che poi si separarono dalla carne andando a trasformarsi in un’armatura che rivestiva la sua figura, mentre i brandelli della maglia e della camicia cadevano ai fianchi, trattenuti dalla cintura. Poi anche questi si ricucirono andando a formare un drappo che fasciò l’Armatura come una tunica.
I brandelli ai polsi si trasformarono in polsiere e nastri lunghissimi, dello stesso tipo che portava anche al collo e ai capelli che, nel frattempo si erano lateralmente accresciuti e un nastro era andato a legarglieli in una coda dietro la testa.    
Il suo Cosmo splendette di rosso prima di cangiare sui colori di un tramonto estivo. Nonostante questo, non riuscisti a reprimere un brivido di terrore. Quella creatura cosa diavolo era? Anche la sua voce era cambiata, si era fatta più virile e ancora più profonda. Il suo sorriso era una chiostra di denti argentei e affilati.
Poi si lanciò addosso alla Dea ma Shaka fu più veloce e la spinse via. Il Guardiano l’atterrò e si volse immediatamente, ricevendo una pomolata in piena faccia dalla Dea. La cui figura era circonfusa da un alone bianco.
Intanto tu, con il tuo Cosmo, stavi cercando di congelare dall’interno le membra del Guardiano, ma il suo calore interno stava mettendo a dura prova le tue capacità. Avevi capito che gli attacchi diretti coi Guardiani erano inutili, perciò stavi provando questo, indiretto.
Peccato solo che lui se ne accorse e con una sventagliata del suo Cosmo ti mandò a sbattere contro una roccia e, con degli anelli di energia t’immobilizzò. Tu cominciasti a lottare per liberarti e Shaka attaccò, ma l’avversario non si lasciò distrarre. Afferrò il tuo compagno per il collo e lo lanciò in aria. Alzò il braccio e caricò un colpo ma Asia urlò: «No!» E si lanciò contro di lui, deviando il colpo. Il raggio d’energia andò a colpire la cima di un albero, incendiandola.
«E levati!» Sbottò infastidito il guerriero scrollandosela di dosso come se non pesasse niente. 
Shaka ricadde al suolo aprendo un piccolo cratere a causa dell’impatto. «Shaka!» Esclamaste entrambi ma percepiste entrambi il suo Cosmo. Era vivo, solo un po’ stordito.
Riprendesti a concentrare il tuo Cosmo e cercare di far esplodere gli anelli d’energia. Cercasti di usare il koliso e poi espandere il Cosmo per distruggere entrambe le tecniche. Se ci riuscisti fu solo perché Lady Asia lanciò un pugnale verde verso di te. La piccola lama toccò l’anello d’energia che t’imprigionava e lo distrusse. Vedesti l’energia solidificarsi e poi, mentre il pugnale cadeva a terra, finalmente riuscisti a espandere il tuo Cosmo e a congelare almeno due metri di terreno attorno a te.
«Il famoso segreto di Tamerlane». Mormorò il Guardiano mentre Asia recuperava il piccolo pugnale e lo ricongiungeva all’elsa.
«Lascia stare i miei protetti, Guardiano». Sbottò lei mentre lui blaterava qualcosa a proposito dell’utilità della sua mossa di riunire spada e pugnale.
Il petto che si alzava e si abbassava repentinamente per lo sforzo, gli abiti inzaccherati e stracciati in più punti.  
«Ah, non ti permetterò mai di chiamare a te la tua Wing!» Esclamò il Guardiano senza dare cenni di aver sentito il colpo.
«Non commetterò un’altra volta lo stesso sbaglio». Ribatté lei e il biancore sfumò rapidamente sul verde. Lo zio le afferrò il collo con una mano. Lei sgranò gli occhi, il bagliore del suo Cosmo si spense e, annaspò in cerca d’aria. Gli occhi sgranati. Ma decisa a non arrendersi.
«Non impari mai, eh? Sei ancora in piedi, piccola patetica Dea?» La canzonò divertito l’avversario.
«No! No! Lasciatela stare! Lasciatela andare!» Cominciò a gridare il tuo compagno della Sesta, dimenandosi con una foga inaspettata. Cosa che fece scoppiare a ridere di gusto l’Astronauta.
«Lasciate stare Lady Asia! Lasciatela!»
«Fate male a me, piuttosto!» Supplicò a gran voce l’indiano cercando di opporsi all’immenso potere del vostro avversario. Ma la sua preghiera rimase inascoltata.
«Ma sentilo, fa del male a me, piuttosto. Vi ho già detto che non nutro alcun interesse, per voi, per quel che mi riguarda potreste anche andarvene. Mi sorprende invece che non l’abbiate già fatto. Tenete così tanto a questa stronzetta? Strano, visto che la conoscete da neanche pochi giorni!» Vi canzonò.
Shaka continuò a strepitare: «Lasciatela! Non fatele del male! Asia!» Urlò più forte che mai il tuo collega quando lei lanciò uno strillo di dolore a causa di un’improvvisa ferita che gli procurò il suo aguzzino.
Il nome di lei, divenne un ululato angosciato e straziante che ti fece sgranare gli occhi per lo spavento e guardarlo. Anche se solo per un secondo. 
Con uno sforzo sovrumano pure per voi, cominciò a muoversi, nonostante il blocco degli atomi impresso sulle vostre membra. Le radiazioni erano veramente il suo pane quotidiano. La sua faccia era rossa, le vene e i muscoli in rilievo per via dello sforzo cui si stava sottoponendo. Gemiti bestiali gli uscivano di bocca per lo sforzo, assieme alle lacrime di dolore perché il Guardiano aumentava il blocco su di voi a ogni vostro movimento. Vi avrebbe potuto spezzare le ossa. Anche da spiriti. Il terreno sotto di lui iniziò a cedere sotto al suo peso.
Anche tu cercasti di lottare.
Dovevate agire in fretta. 
«Ti prego…» Lo supplicò la Dea cercando di allentare la stretta. Ma era come cercare di allontanare un carrarmato per una persona normale.
L’astronauta sorrise malefico. «É da un po’che non lo faccio, per la precisione da quando mi sigillaste.» fece distogliendo lo sguardo da lei, che annaspava e scalciava nel vano tentativo di liberarsi. Il colore che il suo volto stava assumendo fece montare in voi il panico. Dovevate sbrigarvi!
Il biondo mosse le dita una per una. Indice, medio, anulare e mignolo, sollevandole e riabbassandole una per una e una dopo l’altra, con una grazia che non vi aspettavate. «chissà se ne sono ancora in grado». La Dea, mentre lottava con tutte le sue forze per non svenire, i lineamenti deformati dal panico, prese a supplicarlo: «No, ti prego…»
Poi la disgregò in miriadi di atomi.
«No! Asia! Asia!» Urlò Shaka, rialzandosi improvvisamente e correndo, incespicando da loro. Ma ormai lei si era polverizzata e il suo pulviscolo era entrato a far parte di questi luoghi.
«Spostati, bamboccio». Ordinò l’Astronauta e, con un semplice movimento del braccio, lo scagliò via.
«Shaka!» Esclamasti.   
«Bene. Te non ti tocco neanche, lo vedo da lontano che non sei più nemmeno capace di alzare il capo». Commentò sprezzante.
Il tuo collega più potente era stato sconfitto come il più debole dei soldati. Lui, che, ricordavi, da solo, tenne testa a te, a Shura e a Saga durante la Guerra Sacra contro Hades. Che dovette usare quella stessa tecnica disonorevole, per sconfiggerlo e mandarlo nel Regno dei Morti. Anche se fu soprattutto una sua decisione.
«No!» Lo sentisti esclamare, con voce stentorea, rialzandosi a sedere con fatica. Un rivolo di sangue gli colava sul mento. L’elmo perso chissà dove. 
Il vostro avversario sollevò le sopracciglia. «No?»
«Ti sbagli su tutto. Lei non può essere morta. Non così facilmente, ho già provato a ucciderla io stesso, prima di decidere di seguirla, non l’abbandonerò certo adesso. Anche se hai annientato le sue spoglie fisiche Lei è ancora qui, da qualche parte». Esclamò con più convinzione, a voce più alta, cercando di darsi coraggio con le sue stesse parole. Il volto bagnato di lacrime in netto contrasto con la sua espressione determinata. Era la seconda volta che lo vedevi piangere. Anche se stavolta, non era per commozione. «E voi dovreste proteggere gli Dèi e gli esseri umani, non cercare di ucciderli». Lo rimbeccò ritrovando il suo solito tono da guru spirituale.
«Ti ricordo che noi Guardiani siamo stati banditi, non dobbiamo più niente né agli Dèi né all’umanità».
«Eppure avete bisogno di noi e non esitate a distruggerci. Cosa state cercando davvero? Volete distruggere voi stessi, oppure gli Dèi? É forse perché non riuscite a sopportare l’onta di non essere riusciti a proteggerli molto tempo fa?»
L’uomo con i capelli biondo miele lo trafisse con lo sguardo e gli urlò, adirato: «Non parlare così alla leggera di cose che non ti riguardano!» Poi lo colpì con il proprio Cosmo, ma Shaka gli oppose il Kān con tutta la sua forza respingendolo, sebbene con uno sforzo sovrumano.
Non avevi mai visto Shaka così.
Alla fine però l’attacco dell’Astronauta ebbe la meglio. Shaka si spostò usando la velocità della luce e, quando lo vedesti di nuovo, ti accorgesti che la sua espressione era di nuovo neutra; come la sua voce. «É inutile che provi ad attaccarmi. In questo momento sei stanco, mentre io ho potuto recuperare un po’d’energia». Disse.
«Quale energia? Io traggo nutrimento dalle radiazioni di questo posto. La mia fonte è inesauribile».
«Tutto, prima o poi finisce». Ribatté caustico il tuo compagno.
Ti domandasti come fosse possibile. Da dove la prendeva tutta questa speranza? Che fosse l’amore evidente che provava per Asia a spronarlo a combattere, anche solo per vendetta? Era impossibile, ma era così che appariva. «Cerchi forse di fare qualcosa, Cavaliere della Vergine?» Domandò il Guardiano compatendolo.
«Non puoi averla sconfitta così facilmente, Lei non è così indifesa. Esclamò, assumendo con fatica la posizione del loto. La sua posizione da combattimento.
Come faceva ad aggrapparsi ancora alla speranza?
L’Astronauta gli lanciò uno sguardo e un sorriso pieni di pietà. «Osi forse insinuare che mi sia sfuggita? Non senti che il suo Cosmo è scomparso? Oppure», ampliò il sorriso, che assunse una piega di sadismo. Le sue iridi lanciarono un innaturale brillio divertito, che persino tu riuscisti a scorgere, «stai cercando un pretesto per scagliarti contro di me, solo perché ho ammazzato la donna che amavi? Credi che io sia scemo? Che non mi sia accorto di come urlavi e hai cercato di proteggerla? Qui siamo ben oltre un rapporto di Cavaliere e Divinità, Virgo. L’unico che pensa che il tuo sia un segreto sei proprio tu».
«Le tue parole sono irrilevanti per me e non combatterò con di te. Non macchierò le mie mani del tuo sangue». Dichiarò lapidario.
«Ah, no?» Ribatté l’altro ghignando, a metà strada tra un incredulo: “non ho capito bene” e uno scettico “sei serio?”    
«Qui c’è qualcuno di più adatto di me per sconfiggerti». Decretò. Poi scomparve, teletrasportandosi altrove. Lasciandovi soli.
Shaka aveva parlato bene, ma come poteva non essersi accorto del suo errore? Tu non eri affatto all’altezza della situazione. Come si può chiedere a uno sconfitto di sconfiggere qualcun altro? Perché non si era accorto che eri impotente? 
Chinasti il capo, abbattuto.
Il volto contratto in una smorfia di pianto mentre le lacrime sgorgavano copiose dai tuoi occhi, scuotendoti. Affondasti le dita nel terreno, scavandoci dei solchi e trattenesti un gemito di dolore.
«Atena». Implorasti con voce rotta.
Non poteva essere. Di nuovo. Ancora una volta non eri riuscito a rendere onore alle tue Sacre Vestigia e a proteggere la Dea. Anche se non era l’Atena che conoscevate voi era pur sempre colei che le sarebbe succeduta. E, peggio ancora, non eravate riusciti a fermare l’Astronauta dal distruggerla. Lei non sarebbe tornata in vita come Lithia.
Morta la Dea anche voi eravate inutili.
Il Guardiano della Casa di Urano si accorse dei tuoi gemiti e si volse a guardarti: «Piangi, Cavaliere di Aquarius? Perché? Dopotutto quella là non la conoscevi nemmeno e il tuo collega un vigliacco della peggior specie». Domandò perplesso. Ma neanche adesso rialzasti la testa. Invece stringesti i pugni, raccogliendo manciate di terra con le dita.   
“Mi dispiace, Lady Asia, mi dispiace!” Pensasti sconfitto e disperato. Ci avevi provato con tutto te stesso. No, ci avevate provato con tutti voi stessi. Avevate fatto il massimo e non era bastato. E ora? Il mondo sarebbe precipitato nel Caos e il Guardiano avrebbe fatto scempio della Terra. Chi se ne importava di voi e del Drago Rosso dopo quello che avevate appena perso?
Voi eravate i difensori del domani e, ancora una volta, non eravate riusciti a difendere nessuno. 
Il Drago Rosso aveva ragione, non eravate davvero capaci di proteggere la Dea da un altro Guardiano. Perché eravate solo dei semplici esseri umani.
Questo non era un gioco come, realizzasti appieno, erano state finora le Guerre Sacre. Sì, adesso riuscivi a vedere tutto con gli occhi del Drago Rosso e anche di una Dea. Le Guerre Sacre erano un gioco.
Questa che avevate appena perso era solo un assaggio delle vere Guerre Sacre tra Divinità ed Esseri Supremi. E voi, tutti voi, anche facendo evolvere le Cloth, non sareste mai riusciti a sostenere. Questo andava davvero oltre le vostre possibilità.
Queste, erano le battaglie degli Dèi. E voi non eravate affatto preparati a sostenere scontri tra esseri ancora più forti delle Divinità stesse. Come potevate voi, se neanche una Azona ci era riuscita? Quanti altri ne esistevano oltre questi? Quante minacce si sarebbero mai rivelate?
Eravate solo dei semplici umani.
«Atena…» Piangesti stringendo i pugni. Altre lacrime piovvero a terra. Perché non smettevi di disperarti così? Shaka ti aveva dato un compito perché si fidava di te. Ma come potevi? Anche il tuo Cosmo d’Oro era esaurito.
«Bè, se non hai intenzione di fare qualcosa, io me ne posso anche andare. Ci si vede in giro». Ti salutò.
Poi ti volse le spalle e andò a raccogliere la spada, piantata in profondità nel terreno.
Eppure, non riuscì a estrarla. Lo sentisti borbottare, dapprima divertito e poi, a mano a mano che continuava a fallire, sempre più infastidito e irritato.
«Perdonatemi, perdonatemi, Atena». Mormorasti tra un gemito e l’altro. “Ancora una volta vi ho delusa”. La colpa di chi era per questo? Per il tuo dolore? Per le parole aspre del padre di Lady Asia? Oppure, più semplicemente, era questo posto a farti stare così male? A renderti così poco reattivo? 
Appena lo pensasti qualcosa, dentro di te, si ribellò.
Stringesti il pugno avvolto nella cloth dorata e ti tornò in mente il bel volto della Dea. La stessa Dea che dette l’Ichor per voi pur essendo Lei stessa in grave pericolo di vita. Per far evolvere tutte e dodici le Armature d’Oro. Anche se avevate a disposizione un solo colpo a testa e tutti sacrificaste la vostra vita. Anche qui sarebbe stato necessario? Ma così saresti morto davvero. Che senso aveva avuto il suo sacrificio, a quei tempi, se ora ti arrendevi così?
«Puoi farcela». La sentisti dire.
Alzasti la testa, sorpreso e la vedesti, circonfusa di luce, sorriderti. Una splendida apparizione come quel giorno. Era riuscita a sentirti anche qui? Anche così? «Atena…» Mormorasti sorpreso ma lieto di vederla. La prima cosa bella dopo tante disgrazie.
Lei ti sorrise con una dolcezza che non credevi fosse capace. Tu avevi perso la vista, il tatto, l’olfatto e il gusto quando fosti al suo cospetto. Ti rimase soltanto l’udito. Non sapevi neanche tu come facevi a essere ancora in piedi. Oh, se solo tu avessi potuto vederla quella notte. Un suo solo sorriso sarebbe valso come ricompensa per il tuo dolore. «Puoi farcela, mio Gold Saint, io sono sempre vicino a te e lo sarò per sempre».
No, voi eravate dei guerrieri. E neanche dei semplici guerrieri. Ti dicesti. Tu eri un Gold Saint. Il Cavaliere dell’Acquario della Dea Atena.
Poi, una seconda figura ci si aggiunse, o meglio, soppiantò la prima e, vedesti Lady Asia, intrappolata, che, cantava. Non una melodia senza senso, ma una con testo. Una voce d’oro che ti fece palpitare il cuore e riaccese in te la speranza. “É ancora viva!” 
«Cosa?» Esclamò l’Astronauta smettendo di lottare con la spada.  
Fu allora che ti tornarono in mente le parole di Lady Asia. Trova i tuoi campi d’oro. E tu avesti l’illuminazione. Sì, il problema era questo posto. Ma i ricordi più belli che avevi erano legati a Hyoga, alla tua nipotina Natasha, ad Isaac e alla Siberia, oltre che a Milo.
Tu non avevi campi d’oro scolpiti nella memoria, l’oro per te aveva un significato diverso.
Ma qualcosa che a essi potevi paragonare ce l’avevi. Qualcosa di freddo sia al tatto che alla vista, con il tenue dell’azzurro ghiaccio delle giornate più terse. Lo stesso colore che poteva raggiungere la stessa gradazione degli occhi Milo e superare il cobalto del mare siberiano. Un blu così scuro da sembrare nero, che faceva risaltare come non mai quel niveo candore capace di spellare nelle giornate di sole, se non mettevi la crema solare. 
Tu e il ghiaccio, la tua casa.
I tuoi campi non erano d’oro. Non avrebbero mai ondeggiato al vento e, non sarebbero mai proliferati come il grano, ma, ai tuoi occhi così risplendevano. Anche se erano di ghiaccio. Mai come adesso ti sembrarono molto più accoglienti di questo posto. Bastò il loro ricordo a scacciare le tue paure. Che furono soppiantate da un senso di fede, speranza e felicità che andò ad alimentare il tuo Cosmo. Lo sentisti pulsare dentro di te e comprendesti cosa dovevi fare.
Sì, tu sapevi cosa fare e il Guardiano stesso avrebbe imparato a non scherzare con un Santo d’Oro della Dea Atena. Soprattutto con l’Uomo dello Zero Assoluto o quasi.
Sentisti di nuovo l’energia pronta a rispondere al tuo volere, ancora una volta.
La temperatura attorno a voi si abbassò di colpo e, dalle nubi di tempesta, cominciarono a discendere lievi, i fiocchi di neve.
«Neve?» Domandò l’Astronauta, perplesso guardandosi attorno. Tese una mano dagli artigli di metallo per raccoglierne uno, come se farlo avesse potuto confermare la veridicità della visione. Come se non fossero bastate le nuvolette di fiato condensato che uscivano dalle vostre bocche e la pelle d’oca che sicuramente doveva avere. 
Tenesti lo sguardo basso, puntato alla terra che andava congelandosi progressivamente sotto di te. Precipitando in un nuovo inverno, quel tanto che bastò a te per modificare il paesaggio circostante e inglobare tutto nel ghiaccio. Come il falso Megres XIII inglobò la foresta delle Ninfe Stigie con le sue gemme. Facendo somigliare quel posto un po’di più alla tua casa.
Il fratello del padre di Asia rise lì per lì: «E questa nevicata fuori stagione dovrebbe spaventarmi?» Poi usò di nuovo il suo potere ma il vento caldo non riuscì a sciogliere la neve.
Abbassasti ancor più la temperatura, adesso chiunque avrebbe battuto i denti, ma questa temperatura a te non diceva niente, era a malapena una dolce brezza in confronto al gelo che potevi davvero evocare. Avevi un legame, dopotutto, con una certa parte di Inferi, allora perché non sfruttarlo? Te ne bastava solo una parte. 
Il vento gelido rispose al tuo comando e soffiò su di voi. Ma non l’avevi evocato con tutta questa potenza. Era come se gli Elementi avessero deciso di aiutarti e il Cocito stesso, non avesse che atteso il tuo ordine. Pronto a piegarsi a te come un servo fedele in attesa di disposizioni.     
Ti rialzasti proprio mentre il ghiaccio si ispessiva attorno a ogni cosa, trasformando il paesaggio in una landa ghiacciata, il tuo territorio.
«Cos’è questo Cosmo enorme?» Domandò il Guardiano, tra lo stupito e l’intimorito. Poi sussultò: «Non mi dire che sei tu, Gold Saint di Aquarius».
Per tutta risposta, alzasti le mani e il ghiaccio rispose al tuo comando, sommergendo completamente la foresta. Non avevi mai usato appieno il tuo potere di Redivivo. Quello che ti aveva raccontato Milo, di quella volta che l’avevi usato sotto l’influsso dell’Antipapa, ti aveva turbato. Mentre Černobyl’ invece… Ma ora non avevi più paura, se non potevi vedere quello che ti intimoriva, allora non c’era problema. E, sì, era un’azione da Saint, come cavarsi gli occhi per evitare di essere pietrificati dallo sguardo di Medusa. Questo ghiaccio erano le tue bende per contrastare i tuoi demoni personali, proteggere la Dea e la pace sulla Terra al meglio delle tue possibilità.
Perché tu eri il Gold Saint di Aquarius, custode dell’Undicesima Casa del Tempio di Atena, ed era l’ora di ricordarlo anche a te stesso.
Guardasti il Guardiano, ritrovando la tua impassibilità. Mentre il tuo avversario, che dovette balzare via per evitare di finire inglobato nel ghiaccio, sembrò perdere tutta la sua baldanza.
Però restò sospeso a mezz’aria grazie alle ali che dispiegandosi cambiarono colore diventando d’oro fatte di polveri di nebulose che mandavano bagliori candidi. Come se fossero costituite da minuscoli brillantini che, muovendosi, luccicavano.
“Accidenti”. Non avevi calcolato che potesse levitare.
L’altro si guardò ai piedi mentre il ghiaccio continuava a crescere ed espandersi. «Com’è possibile? Credevo che non ti fosse più rimasto neanche un briciolo di Cosmo, da dove la prendi quest’energia?»
«Per molto tempo…» Mormorasti, mentre il tuo Cosmo aureo risplendeva attorno a te, come alimentato dalla voce di Asia. Certo che era la sua, solo lei poteva mettersi a cantare in una situazione simile. Il suo canto risvegliò qualcosa nella tua memoria, era come se ti fosti aspettato che lei l’avrebbe fatto. Come se tu l’avessi già conosciuta prima, così bene, da riuscire a prevedere ogni sua mossa. Almeno, era così a livello inconscio.
Sì, conoscevi questa voce, solleticava la tua memoria e ti ricordava un periodo di stasi e di pace. Non sapevi dire se era un sogno o no, ma di quel canto tu ne avevi avuto bisogno come un fiore del Sole. Ora capivi, capivi davvero il significato dei campi d’oro. Con quelle parole intendeva dire: “Succede a tutti di smarrire sé stessi, l’importante è ritrovarsi. Fai un respiro profondo e riprendi a lottare”. E tu a quelle parole desti ascolto. E quel respiro profondo lo facesti davvero, scrollandoti di dosso, come per magia, tutto quanto.  Permettendo al tuo Cosmo di espandersi ancora, facendo sgranare gli occhi al tuo avversario. «Come?»
«Per molto tempo ho lasciato che i fantasmi del mio passato mi tormentassero. Asgard e ora anche qui. In nome di questi fantasmi e dei debiti che credevo di avere, ho tradito la Dea una volta. Non la tradirò una seconda. Risplendi mio Cosmo!» Urlasti facendo evolvere la Gold Cloth. E il tuo Cosmo esplose, sollevandoti il mantello e i capelli, mentre le punte del tuo elmo si allungavano ancora di più ai lati della testa e dalla tua Armatura si allargavano dei teli dorati, che simulavano le acque del tuo segno zodiacale. Gli spallacci della tua Armatura si duplicarono e i copribicipiti s’ingrandirono, così come le protezioni ai fianchi.
Improvvisamente non ti importò più delle Creature. Saresti riuscito a finirlo prima del loro arrivo effettivo.  Avevi già fatto questo una volta, era il momento di farlo ancora.
Spiccasti un balzo e restasti sospeso in aria grazie alla forza del tuo Cosmo, che riluceva come una bolla d’energia dorata attorno a te. Da lì, richiamasti a te i ghiacci del Cocito. I quali risposero facendo tremare la terra e spaccare il ghiaccio per innalzarsi in picchi di gelo acuminato attorno a te, come i petali di un fiore. Sebbene dalle fattezze di gigantesche dita scheletriche.
Nuvole nere si addensarono sopra di te, cancellando completamente i raggi del sole e la neve e il vento s’infittirono. La corrente cominciò a ululare con una forza che questi luoghi non avevano mai conosciuto, facendo piazza pulita di ciò che avevi temuto e spostando anche l’Astronauta. Il quale, non riuscì a opporre resistenza e si ritrovò sbalzato via.
Ma non ti bastava e lasciasti che buona parte del Cocito arrivasse da te, plasmandosi alla tua volontà in un’immensa Armatura di ghiaccio che ti avvolse. Impenetrabile persino alla cuspide scarlatta di Milo, nonostante la sua fredda trasparenza.
Urlasti, dandoti la carica per muoverla con il Cosmo.
Il gigante di ghiaccio ruggì a sua volta e, come foste una cosa sola attaccaste.
L’Astronauta batté le ali e le trasformò in due flussi energetici che andarono a sbattere contro i pettorali del gigante, fermandolo con gran fatica, ma avevi ancora le braccia libere. Cercasti di acchiapparlo. Il Guardiano smise di attaccarti percependo il freddo tagliente su di sé e si scostò prontamente rotolando di lato. Non fece però in tempo a rialzarsi che fu sbalzato via da una stalagmite di ghiaccio che sorse prontamente dal suolo ai tuoi piedi.
«Credi che questo possa bastare? Che il Cocito possa avere qualche effetto su di me? Ti sbagli, Tempesta di fuoco!» E, chiamò a sé il calore più intenso che riuscì a evocare, avendo come effetto di sciogliere la tua creazione e di ritrovarti bagnato fradicio. Ma solo quella.
Ti guardasti rapidamente attorno mentre il gigante di ghiaccio si scioglieva e la distanza tra te e il terreno diminuiva drasticamente. Vedesti un tetto di un palazzo condominiale.
Prendesti una breve rincorsa e saltasti. Dopo un volo di qualche secondo atterrasti sul tetto e riprendesti immediatamente il controllo del ghiaccio.
Quello che aveva sciolto, dopotutto era pur sempre il Cocito, no? Bene. Il ghiaccio e la neve risposero al tuo volere e l’acqua smise di scorrere per congelarsi nuovamente e risalire rapidamente il palazzo e raggiungerti, come una pianta di edera si arrampica sul suo sostegno. Poi dirigesti i fusti di ghiaccio di modo che si scontrassero con il tornado infuocato e i pezzi, che tu mantenesti allo stato solido, si mescolarono al tornado che cadde finalmente al suolo, ritrovandoti nell’occhio del ciclone. Ma non riuscì a scalfirti perché tu condensasti di nuovo l’acqua e il vapore e la trasformasti nella tempesta di neve perfetta. Che ti protesse da quel calore insopportabile. Poi, tendesti il braccio e gli ghiacciasti le fiamme e il calore.
«É inutile che provi ad attaccarmi, io riuscirò sempre a congelare ogni tuo attacco, qualunque esso sia». 
«No!»
Tu urlasti un’altra volta e, espandesti la tempesta con violenza con tutta la forza di cui eri capace. E oltre ancora, sprigionando ancora più energia di quanto ti aspettasti. La stessa energia che non avevi mai sentito così intensa. Era così forte che faceva male persino a te, dentro le vene e nelle ossa, benché tu fossi uno spirito. Ma non potevi fermarti ora che il ghiaccio era qui.
Il tornado di fuoco si spense.  
Il Guardiano si ritrovò sballottato qui e là prima di raddrizzarsi e urlare, «Non mi lascerò battere da un umano!» Ebbe il tempo di dire solo questo che i frammenti acuminati lo colpirono, sospinti dalla forza dei venti artici, che avevano risposto, richiamati dalla forza del Cocito e dal vero potere dell’Acquario. Non immaginavi che il pieno potere della tua costellazione fosse questo.
Dal suo Cosmo riuscisti solo a capire che era rimasto ferito in più punti, compreso al lato sinistro della testa. Eppure, anche così non si arrese.
Provò ad attaccarti lanciandoti la sua energia ma il tuo Cosmo e la bufera erano talmente forti che non riuscirono a penetrarli. Alimentati dalla tua sola forza di volontà, tu, eri pronto a giocarti il tutto e per tutto. Per Shaka e per Atena.
Non ci fu neanche bisogno dell’Aurora Execution. Il ghiaccio con cui avevi avvolto la foresta si sciolse, subito soppiantato da una nuova coltre, che s’innalzò in alte volute verso di te e si andò a trasformare in un mostro sotto al tuo completo controllo.
Ma questo non spaventò il Guardiano. Il quale, pur essendo ferito e sconvolto, non intendeva affatto arrendersi. «Credi che questa piccola bufera possa farmi qualcosa?» Espanse di nuovo il suo Cosmo ma non distrusse il ghiaccio. Anzi, il ghiaccio assorbì la sua energia per irrobustirsi ancora di più. La prendesti come un’occasione per congelare ancora di più gli atomi attorno a lui e piegare il Cocito al tuo volere. Non ti eri mai sentito un tutt’uno con il tuo elemento prima d’ora. Neanche in vita.
Per la prima volta in vita tua, scatenasti il tuo potere distruttivo in tutta la sua piena potenza, come non avevi fatto ad Asgard contro Surt. Riuscendo persino a superare la potenza che avevi avuto all’epoca. 
Adesso era il momento buono.
Ti mettesti in posizione per sferrare il tuo colpo più potente. Per Atena, per Hyoga e per la tua nipotina. I loro volti comparvero per un momento davanti a te, come a darti la forza necessaria.
E, nella bufera del ghiaccio infero, gli spiriti che lo abitavano, anime congelate, si unirono a te e, insieme al gelo della loro prigione, formarono un immenso drago nel bel mezzo dell’Aurora Execution. Che, impennandosi verso il cielo, lanciò un ruggito assordante.
«Credi di farmi paura? Ah!» E, con un urlo, gli scagliò una bomba di calore. L’impatto sollevò una cortina di fumo e di vapore. Ma subito il sorriso del tuo avversario venne cancellato, nel notare il drago e te, ancora in piedi. Il drago, infuriato come te di una rabbia lucida che non avevi mai provato, s’innalzò ancora più minaccioso.
Adesso il Guardiano non rideva più.     
«Aurora…» Il drago s’inarcò. «Execution!» Urlasti e il drago attaccò spalancando le fauci e abbattendosi su di lui. Con il potere del ghiaccio gli impedisti ogni via di fuga e cominciasti a congelare i suoi muscoli, costringendolo all’immobilità. Il tuo ghiaccio era così forte che il suo calore non bastò per scioglierlo, anzi, sollevò solo una coltre di vapore che venne spazzata via dal vento della bufera. 
Il Guardiano urlò e cercò di fuggire ma il drago lo raggiunse e, con un salto, ti ponesti davanti all’animale per sferrasti il tuo colpo migliore che arse tutto come in un incendio di ghiaccio. «No!» Urlò l’Astronauta ferito mentre cercava di rialzarsi.
E l’Aurora colpì.
«Basta così!» Esclamò la voce della Azona. Improvvisamente udisti il rumore di una lastra di vetro che si rompe e tutto attorno a voi si propagarono delle crepe luminescenti. Tutto si cristallizzò. Come se qualcun altro avesse usato il tuo stesso potere congelante su una zona ancora più ampia. Sgranaste gli occhi per la sorpresa e vi guardaste intorno per quel poco che poteste muovervi.
Eppure non s’era aggiunto altro ghiaccio al tuo. 
Aggrottasti le sopracciglia. L’intero tuo corpo s’immobilizzò e, per quanta forza tu ci mettessi, non riuscisti ad avanzare.
Provasti ad attaccare ma non riuscisti a muoverti neanche di un millimetro. Il Guardiano ti guardò spaventato tamponandosi una ferita iridescente sulla spalla.
Eppure anche così riuscì a cadere in terra, sulla schiena e rialzarsi a sedere per arretrare spaventato e gemere per le ferite importanti che eri riuscito a procurargli, imbrattando l’azzurro scivoloso del ghiaccio. «Non lo vedi che è ferito?» Ti chiese la voce femminile con dolcezza all’orecchio destro. «Rewind». Comandò poi.
E foste catapultati all’indietro nell’immediato. Con vostro grande stupore vedeste ogni cosa regredire come quando si pigiava il tasto del rewind dei videoregistratori. Vedendo tutto questo non riuscivi a credere di essere stato tu a liberare tutta quella potenza. E, tornaste indietro, rivivendo ogni cosa, parlando, pensando al contrario, vedendo ogni vostro colpo rientrare in voi e nella Terra da dove l’avevate evocati, fino al momento in cui lo incontraste. Se pensavi che fosse finita lì ti sbagliavi. Vi sentiste entrambi afferrare per le spalle e strattonare all’indietro da una forza travolgente. Foste catapultati a terra, abbattendovi al suolo sulla schiena, con una forza tale che vi fece male nonostante le corazze.
Solo allora il tempo ripartì e stravolti dal peso, sprofondaste di cinque centimetri al suolo. 
Vi rialzaste entrambi sui gomiti con fatica. Avevate i muscoli tirati e l’adrenalina ancora in circolo. Sui vostri corpi, però, non c’era più alcuna traccia delle ferite e dei colpi che vi eravate scambiati.
Vi guardaste attorno. Tutto era immacolato, come se non fosse mai successo niente. Il sole splendeva e gli uccellini cantavano allegri in quella parte di foresta, incuranti della vostra presenza. Persino la casupola del Guardiano era ancora in piedi. Eri sbalordito, dunque era così grande il potere di un’Azona? Ora capivi perché gli Dèi temessero tanto queste Divinità minori.
Vi rialzaste a sedere, doloranti e ti massaggiasti la testa, usando il tuo Cosmo per raffreddare il livido sulla nuca.
Sentisti dei passi alle tue spalle. Ti girasti e vedesti la Dea illesa, avanzare verso di voi.
«Lady Asia!» Esclamasti sollevato e felice di rivederla sana e salva. Poi, il turbamento si fece posto dentro di te, andando a mescolarsi con la felicità per sfociare nel dubbio. Allora tutto quello che avevi fatto era stato reale? Era solo un sogno? Come c’era riuscita?
Scorgesti una persona alle sue spalle. Spalancasti gli occhi e trattenesti il fiato rumorosamente per l’incredulità, riconoscendolo. «Shaka!» Il tuo commilitone, era sano e salvo. Anche lui ti raggiunse, un vago sorriso dipinto in faccia. Tese la mano e tu l’afferrasti, sgranando ancor più gli occhi. Era reale, era tutto reale, anche loro, non solo il paesaggio. Il tuo compagno ti aiutò a rimetterti in piedi.  
La Dea vi superò e si rivolse al Guardiano. «Ti è bastata la lezione, Astronauta?»
«Tu! Mi hai preso in giro? Come hai potuto? Non ti perdonerò mai!» Gonfiò il suo Cosmo, che assunse la colorazione rossastra.
Entrambi scattaste a proteggere Asia, anche se tu eri ancora dolorante e barcollante. Ma la Dea vi bloccò sollevando un braccio. Non per dirvi di lasciarla sola, bensì perché non c’era bisogno. Per quanto il vostro avversario cercasse di ritrasformarsi, arrivato a un certo punto, la sua trasformazione regrediva fino a scomparire.
Il Guardiano della Casa di Urano si guardò le mani sgomento e poi rialzò lo sguardo. La indicò, accusatorio: «Tu! Che cosa hai fatto?» Lei non rispose e il Guardiano cercò di trapassarla con un fiotto d’energia che gli uscì dal dito ma lei scomparve e l’energia bucò il terreno dove prima c’eri tu.
Degli uccelli si alzarono in volo, spaventati.
Se non fosse stato per Shaka, che ti aveva spostato, quel raggio ti avrebbe bucato una gamba.
Lady Asia invece riapparve alla vostra destra a tre metri di distanza da voi; la stessa espressione seria. Le braccia conserte, come se il Guardiano non l’avesse mai attaccata.
«No, com’è possibile?» Esclamò quest’ultimo. «Tu non puoi fermare il Tempo!»
«Infatti non l’ho fatto, ho usato il Paradosso di Zenone fin dall’inizio». Rispose la Dea.
Aggrottasti la fronte. Il Paradosso di Zenone? Ma non era quello secondo cui se Achille e la Tartaruga si sfidavano vinceva la tartaruga perché lei partiva per prima e faceva sempre un passetto più avanti di Achille?
«Il paradosso di Zenone?» Ripeté suo zio, poi spalancò gli occhi, capendo: «Brutta…»
La figlia del Drago Rosso sollevò le sopracciglia un momento e domandò: «Credevi davvero che mi sarei battuta con te, senza prendere le dovute precauzioni fin dall’inizio, soprattutto ora che ho dei compagni di viaggio?»
«Asia…» Mormorasti tu, sorpreso, mentre il Guardiano della Casa di Urano ringhiava furente, «Allora che cos’era quella cosa che ho ucciso?»
«Una bambola creata con le Sabbie del Tempo e un’illusione solidificata. Io mi sono limitata a seguire la scena da lontano fin da quando abbiamo affrontato Il Matto». Rivelò lei. Le Sabbie le volteggiarono attorno in un piccolo mulinello, prima di posarsi sul suo palmo e scomparirvi. Poi l’abbassò e disse, come se se lo fosse ricordato solo in quel momento: «Oh, e avete combattuto tutto il tempo in una tasca temporale, perciò, tutto quello che è accaduto lì dentro non ha avuto ripercussioni sull’esterno. Scusa l’irruenza ma ho ritenuto necessario bloccare il tuo Cosmo per evitare di attirare le Creature. In quella forma non sei poi così potente, eh?»  Lo compatì. Le braccia incrociate.
«Quindi non siete mai morta?» Le domandasti, sentendo un grosso peso sollevarsi dal tuo cuore, nonostante lo stupore e il dubbio. Non pensavi che avesse messo su un piano. 
La tua superiore ti guardò da sopra una spalla e ti sorrise: «No. Il Cavaliere di Virgo a un certo punto se ne è accorto. Temevo che avrebbe fatto saltare la mia copertura ma è stato bravo, ha recitato divinamente». Si complimentò.
Se solo avesse saputo che Shaka non stava recitando… Guardasti il tuo compagno, che restò impassibile. A eccezione del pomo di Adamo che si mosse su e giù, segno che stava inghiottendo, probabilmente parole che avrebbero potuto sfuggirgli e tradirlo.
«Non puoi farmi questo, io sono il Guardiano della Casa di Urano!» Protestò lo sconfitto.      
«Tecnicamente tu sei solo un reietto», rilevò la vera vincitrice per niente impressionata, poi sciolse la stretta, «non hai più diritto di essere chiamato Guardiano e di essere rispettato come tale, sei un’onta vivente, un ricercato. Ma c’è una buona notizia per te, gli Dèi sono disposti a perdonarti per i tuoi sbagli e a restituirti i tuoi pieni poteri e la tua carica, se tornerai ai tuoi sacri doveri e presiederai alla Casa di Urano ancora una volta». Annunciò, spalancando le braccia e tendendole verso di lui, come per accoglierlo. «D’altronde, non è questo che hai sempre voluto, al di là del tuo desiderio di divertirti? Dovresti esserti divertito abbastanza per sconfiggere tutti i secoli di noia trascorsi».
Il Guardiano cercò una soluzione, lo vedesti da come e distolse lo sguardo, stringendo i denti. Poi li digrignò, frustrato e la guardò con astio. «E sia». Si arrese e tornò completamente dritto, ma il fastidio non abbandonò i suoi tratti. Nonostante questo tese una mano verso di lei, con un sorriso arrogante. Mano che lei strinse.
L’Astronauta disse: «Dovremmo rifarlo qualche volta, è stato abbastanza divertente».
«Abbastanza?» Replicò l’altra, scettica e vagamente offesa. 
«Ora non darti delle arie, ragazzina». La stretta si sciolse e il Guardiano le passò accanto, cacciandosi le mani in tasca. «Ci vediamo».
Lei non gli dette le spalle ma anzi, lo accompagnò con sguardo serio e determinato, guardingo.
Il fratello del Drago Rosso vi oltrepassò senza degnarvi neanche di un’occhiata. Poi si girò, sfilò una mano dalla tasca e le puntò l’indice contro. Sempre con quel sorriso soddisfatto stampato in faccia: «Guarda che ci conto che ci sfideremo ancora».
«Vedremo, ma solo noi due e nessun altro». Concesse con la stessa prudenza del Re Sole.
L’altro le sorrise. «Ovviamente». Dopodiché le fece l’occhiolino e il saluto militare, prima di girarsi un’altra volta e scomparire nel nulla.
Solo allora lei si rilassò.
«Come state? Siete tutti interi?» Vi chiese, guardandovi preoccupata.
«Sì, Lady Asia, grazie per l’interessamento». Rispose Shaka, il fantasma di un vago sorriso sulle labbra sottili.
Lei annuì rassicurata. «Bene. E tu, Camus?» Domandò rivolgendo lo sguardo su di te.
Ti accorgesti di guardarla ancora senza parole. Dentro di te non sapevi cosa provare. Sconcerto per la sua furbizia, paura per la forza e il carisma che aveva dimostrato? Oppure offesa per avervi manipolati come giocattoli per soddisfare il desiderio di azione di un Guardiano annoiato? Anzi no, anche il Guardiano era stato manipolato allo stesso modo. Allora era questo il vero potere degli Azoni? Era così che scrivevano la Storia? Ora capivi perché erano tanto temuti persino dagli Dèi Maggiori come Lady Isabel. Lady Asia, di Lady Isabel, aveva solo una somiglianza fisica, ma era completamente diversa da lei.
Camus.
Il tuo nome, pronunciato da lei, che ti guardava con quell’espressione sinceramente preoccupata, non fece altro che alimentare il tuo fastidio. Che ne sapevate voi che non vi stesse manipolando anche adesso? «Sto bene, grazie, Lady Asia». Dicesti, con voce gelida. Poi ti rialzasti a tua volta. Non avevi bisogno del suo aiuto, ce la facevi anche da solo. 
«Adesso possiamo anche andarcene da qui».
«Non c’è nessun altro?»
Lei confermò: «No, qui non c’è nessun altro».          

Shaka
Chissà quale Divinità a te sconosciuta dovevi ringraziare per aver fatto sì che lei non si fosse accorta di nulla, eh? «Prossima tappa, Milady?» Chiedesti ossequioso, cercando di nascondere il tuo imbarazzo. Non pensavi che fosse tanto evidente. «Prossima tappa ci troviamo un albergo e ci rifocilliamo un po’, sono a pezzi».
Ripensasti a tutte le cose che avevi urlato quando avevi creduto che fosse morta e arrossisti come un peperone. Ma tanto non potevano vederti perché vi eravate rimessi in marcia. Non avevi mai urlato cose del genere prima, era strano anche per te. Come erano strani i flash che avevi da un pezzo a questa parte. Flash di lei quindicenne avvolta nel tuo mantello e appoggiata a te. Era ferita, lo intuivi, ma non voleva che tu vedessi la ferita. Doveva essere tanto brutta?
La cosa che davvero ti sorprendeva era che più che lei, ricordavi giusto la voce. E la sua preghiera di non aprire mai gli occhi.
Ma il profumo di gardenie, oh, quello te lo ricordavi benissimo. Mascherato sotto al profumo di loto. Ricordavi di esserti divertito insieme a lei. Ricordavi schiamazzi e grida di gioia, ma anche la consistenza della pelle del suo volto sotto le tue dita. E il tocco della sua mano sulla tua faccia. Più la preghiera di non aprire gli occhi.
Ricordavi di aver colto delle gardenie per Lei e di avergliele offerte. Che l’avevi ospitata e che la sua stanza nel tuo tempietto diroccato in India profumava di gardenie.
E tu gli occhi li avevi tenuti chiusi, finché non aveva cantato e ti eri girato a guardarla. Era stato allora che avevi scoperto il suo volto e che era una Dea. Erano ricordi strani e anomali eppure sentivi che ti appartenevano. Ma oltre ai sentimenti non ben identificati che provavi per lei, ti accorgesti di rilevare anche somiglianze di potere. Aveva decelerato il tempo fin quasi a cristallizzarlo, riusciva a muoversi ancor più velocemente di voi. Solo per dirne alcune. Il suo potere era qualcosa di spaventoso. Come anche il suo lato manipolatorio e calcolatore. E tu non eri un tipo facilmente impressionabile.
Eppure, ripensandoci, una parte di te voleva farle le tue scuse per aver sottovalutato le sue parole. Ti dispiaceva non averle dato retta. Alla fine aveva ragione, vi eravate rivelati un fardello e se eravate vivi lo dovevate solo all’album che custodivi.
Avresti dovuto ridarglielo e lasciarla andare ma l’idea ti faceva orrore. E poi che cos’era davvero questa Dea? Cosa facevano davvero gli Azoni? Lo scambio di battute tra lei e l’Astronauta era ancora ben vivido nella tua testa. Che collegamento c’era tra tutti loro, la Cerca e la Luce Ombrosa? Che cos’erano davvero quelle Creature? E perché provavi quelle sensazioni e quei ricordi riguardo a Lady Asia?

Milo
Un Cosmo.
Se ci pensavi non ci credevi. Ma era logico, ogni essere vivente l’ha in sé. Le Creature puntavano soprattutto a questo e voi Saint e guerrieri devoti a una Divinità eravate come piatti preferiti di un buffet per affamati. Ma sapere che anche lei ne aveva uno così sviluppato era una novità assoluta. Anche tu dall’Ottava avevi visto quella colonna nera che si era innalzata dall’arena dei combattimenti, arrivando quasi a sfiorare il cielo plumbeo, eri rimasto sbigottito.
Ancora di più quando avevi saputo a chi apparteneva.
Questa pasqua era destinata a essere piena di sorprese, non solo per il contesto. Ma perché una cosa Astrid l’aveva azzeccata: la lettera che avevi affidato al corvo di Jamian non era mai arrivata a destinazione. Lo stesso Jamian era venuto da te a dirti che cosa era accaduto. E a te questa storia aveva cominciato a puzzare di bruciato. E se quello che era accaduto nelle piantagioni sul finire di aprile non fosse stato che un diversivo? Il Bronze Saint di Serpens aveva detto che i serpenti erano stati chiamati da qualcuno. Odysseus sicuramente. Era lui che vi aspettavate che attaccasse. Ma lui, sempre stando agli ex Bronze, non si serviva di fischietti a ultrasuoni per chiamare a sé i suoi squamosi servitori. E se Astrid non fosse stata paranoica? Se nella sua disperazione avesse scoperto effettivamente qualcosa? Non era il tipo di ragazza che impazziva senza un motivo, anche se eri sicuro che il lutto c’entrasse qualcosa.
«E se fosse posseduta da una Divinità?» Domandasti pensieroso al gattaccio della Quinta che quella sera si era fermato a bere con te ad Atene. A volte le Creature e tutte le disgrazie sembravano così lontane.
«Impossibile. Se così fosse avrebbe manifestato gli stessi sintomi di Saga quando era sotto l’influsso di Ares, oppure di Kyoko quando era posseduta da Eris». Decretò Aiolia, stranamente tranquillo, nonostante il casino. Ti domandasti se avesse fatto bene a prendere la Saint di Indus sotto la sua ala protettrice. D’accordo che spesso e volentieri le fanciulle s’affidavano a lui però Neera non era indifesa. Quanto sarebbe occorso al micio per accorgersene?
«Hai ragione».
Posasti la penna e accartocciasti il secondo foglio su cui stavi scribacchiando. Te l’eri fatto dare dal barista con la scusa di scribacchiare un numero di telefono.  
«Credevo che tu e Camus foste migliori amici». Commentò il tuo amico, accigliandosi.
«No, in realtà non è esattamente così. In realtà il rapporto d’amicizia tra me e lui sta nascendo ora». Rivelasti grattandoti il capo.
«Allora perché spesso porti fiori alla sua tomba e vai a trovare il suo corpo nella bara di cristallo ai sotterranei della Tredicesima?» Ti chiese, confuso.
«Per non scordarmi il suo viso. Per associare quelle parole, quelle lettere a un volto, ancora. I fiori, beh, mi sembra scontato presentarmi a casa di qualcuno senza un presente, anche se, in questo caso, stiamo parlando di una tomba. Non posso certo portarci una bottiglia di ouzo». Sospirasti e ti stiracchiasti sulla sedia prima di spiegargli. «Tutti avete avuto quest’impressione perché da piccoli ci costringevano a studiare in gruppi, quando d’estate ci riunivano per darci un’istruzione base, ricordi?»
«Poco».
«Beh, a me sarebbe piaciuto studiare insieme a te, che mi somigli un po’, per affinità elettiva e caratteriale, diciamo. Invece il nostro maestro ci accorpò perché Camus era più serio e più portato per lo studio, rispetto a me. Credeva che la sua presenza mi avrebbe influenzato positivamente, magari che saremmo diventati amici. L’unica cosa che io e Camus abbiamo in comune da allora, è il ricordo di un’amicizia». Ti piegasti sulle ginocchia, pensieroso. Cercasti le parole giuste per esprimere questi concetti. «Non so come spiegartelo, è una bella cosa, è come quando rivedi una persona che in passato ti aiutò molto e, che, ora che non c’è più bisogno, che stai bene quella persona sta lì e tu ti senti inadeguato perché lei improvvisamente è diventata inutile. Eppure, quando la guardi, quella persona dice che non c’è bisogno di preoccuparsi per lui, che se la caverà. Ma tu sai che se avesse bisogno di una mano, tu gliela darai, in nome di questo ricordo. E, fidati che non è un ricordo legato all’infanzia, io facevo di tutto per scappare da quelle tediose lezioni, Camus credeva che fossi un cretino già allora, io per contro, lo trovavo noioso».
Il gattaccio ti guardò completamente spiazzato. E tu inarcasti un sopracciglio, perplesso. Perché ti guardava così? Alla fine lo vedesti aprire bocca e uscirsene con un: «Noi credevamo che…»
«Che?»
«Che ci fosse qualcosa tra voi».
«Qualcosa cosa?»
«Non lo so, qualcosa». Ammise arrossendo.
«Avete percepito la stessa cosa che abbiamo sentito io e lui, a volte le persone riescono davvero a vedere un effettivo legame». Alzasti le spalle e continuasti: «se ci pensi bene, io e Camus da vivi avremmo scambiato almeno quattro parole in croce. Ora non si può più neanche parlare con qualcuno che tutti pensano che stiamo insieme. Da parte mia, anche se sono logorroico e lo dimostro male, ho sempre nutrito un gran rispetto per Camus».
«Ma allora Hyoga…».
«Veglio su di lui perché mi ha confermato i nostri dubbi su Atena e perché, da quel poco che so di Camus, so che teneva moltissimo a lui, proprio come se fosse suo figlio, dovresti saperlo anche tu, se ti ricordi di Černobyl’. Io gli ho solo dato una mano ad alleviare i suoi tormenti».
«Perché tu?»
«Non so, pena, immagino, oppure perché in un certo senso speravo di non perdere un punto fisso della mia infanzia. E poi siamo compagni di battaglia, se non ci sosteniamo tra di noi, chi altri può farlo?» Chiedesti guardandolo.
«Allora ad Asgard…»
«Non pensavo d’imbattermi proprio in lui e, sicuramente, non così. Per il resto sai anche tu che ho un carattere fumantino, gattaccio».
«Sì, lo so bene, artropode».
«Sai, scrivendoci adesso, mi fa sentire la sua mancanza e mi fa sentire in colpa».
«Perché?»
«Perché sto imparando a conoscerlo solo ora che è morto e, più lo conosco, più mi do dell’imbecille per non averlo fatto quando era vivo».
«E Astrid, allora?»
«Astrid? É… eh, è difficile da spiegare». Distogliesti lo sguardo. «Non è Camus, su questo non ci piove e non è neanche Shoko o Kyoko. Non sono così scemo da non essermi accorto che lei divenne la Saintia del Cavallino solo perché incontrò me ed ebbi pietà di lei e della sua sfortunata sorella. É una persona completamente diversa. Mi diverto a punzecchiarla e lei si diverte a ricambiare, tutto qui. Mi rendo conto che non è onorevole per un Gold del mio calibro, ma abbiamo così poche distrazioni che non ti dovresti sorprendere, se ogni tanto scoppio anch’io. A non tutti basta una seduta d’allenamento in arena o un nuovo addestramento per sfogarsi». Ultimamente poi, ti sembrava che più ti avvicinavi a lei, più assimilavi qualcosa di lei, più lei prendeva qualcosa da te. Non te la ricordavi tanto coraggiosa e determinata prima. O forse era solo perché fino a poco tempo prima pensava di essere normale. Ma la sua normalità era la normalità di un Saint.

Mentre eravate sulle scale delle Dodici Case Aiolia ti chiese: «Tu credi che lei possa essere legata in qualche modo al Cavaliere di Ophiuchus?» Non aveva più toccato l’argomento per il resto della serata, dopo che gli avevi spiegato il tuo rapporto con Astrid.
«Le prove che abbiamo sembrerebbero puntare in quella direzione. E sai cosa significa».
Sfortuna. Se dietro c’era davvero il Gold Saint di Ophiuchus c’era solo da fare gli scongiuri. Oh, sì, non c’era margine di errore. Se evitavate gli orpelli e guardavate alla sostanza, davanti a voi non c’era una civile, bensì un Saint e di quelli più potenti, per giunta. La tredicesima costellazione dello zodiaco era rientrata nell’ellittica ancora una volta.
Erano gli unici momenti in cui, secondo la leggenda, il Santo d’Oro di Ophiuchus resuscitava e gli era concesso di combattere insieme a tutti gli altri dodici. La profezia risaliva al tempo della maledizione di Odysseus, quando si diceva che i suoi capelli fossero ancora biondi come il grano e non bianchi come la neve.
«Però noi un Santo di Ophiuchus ce l’abbiamo già». Obiettò Aiolia.
«Sì, è vero».
«Mettiamo caso che non sia ad Astrid che sta puntando, ma che sia Shaina. Dopotutto è una Silver Saint ed è infinitamente più esperta di Astrid; se davvero ci fosse un’Apocalisse o una Guerra Santa, Shaina sarebbe una candidata ideale a vestire le sacre vestigia di Ophiuchus. Astrid invece che cos’è?» Disse il fratello minore di Aiolos.
«Astrid non è niente, se guardiamo ai fatti. Ha del potenziale, ma non ha un’Armatura. Il massimo che mi viene in mente quando penso a lei è che è un’atleta».
«Ma se invece la profezia puntasse su Astrid?»
«Sai anche tu a cosa si va incontro». Shaina e Astrid si sarebbero dovute eliminare vicendevolmente. O una o l’altra, non potevano coesistere due Saint protetti dalla stessa costellazione. Quella di Aiolia era un’eccezione in quanto Ikki aveva momentaneamente rinunciato al titolo di Cavaliere di Leo, riprendendo a indossare la Bronze Cloth della Fenice.
Come conoscevate anche voi la scappatoia che c’era in questi casi. O Shaina o Astrid. Il tutte e due e il suo contrario non erano ammissibili. Questo era il mondo dei Saint. E già una volta avevi sbagliato a lasciare in vita una creatura nata sotto una stella sfortunata. Non era colpa tua se Eris si era impossessata di Kyoko e, ancora non te lo perdonavi. Adesso il Gold Saint di Ophiuchus. «Oh, Astrid». Sospirasti.
Salutasti Aiolia e poi scendesti in infermeria. Dovevi fare qualcosa.     

Bussasti sullo stipite della porta e Kiki si girò verso di te. «Oh, Milo, sei venuto a trovarla?» Chiese distogliendo lo sguardo dall’amata per guardarti. Tendesti le labbra in un sorriso divertito. A volte la sua cecità era veramente spassosa. Come faceva a non essersi accorto di essere innamorato lo sapeva solo lui. «Sì. Come sta?» Accennasti con il mento alla ragazza febbricitante e addormentata.
«Non si è ancora svegliata. Le ferite erano più gravi del previsto, fortunatamente la Dark Resurrection in questi casi è molto utile». Rispose.
«Sì».
Il rosso assottigliò gli occhi e domandò: «Stai bene, Milo?»
«Sì, è che… fa strano vederla così, lei così combattiva…» Mormorasti, guardandola. Ancora non ci credevi. Ma sentivi che era la cosa più giusta da fare.
«Lo capisco, anche per me è lo stesso».
«Quando glielo dirai?» Domandasti cacciandoti le mani nella tasca della giacca di pelle.
«Che cosa?»
«Oh, andiamo, non fare il finto tonto, lo sai cosa». Il giovane lemuriano ti guardò spiazzato.
«No, davvero, non capisco a cosa tu ti riferisca».
«Vabbè, fa conto che non abbia detto niente, d’accordo?» Se voleva restare con il paraocchi erano cavoli suoi, non avevi niente da obiettare.
Il giovane Aries si stiracchiò la schiena, facendo scricchiolare le vertebre e si alzò dalla sedia dove era rimasto accomodato finora. «Allora vuoi restare un po’ con lei? Così vado a prendere qualcosa da bere, che ho una sete…»
«Buona idea, prendi qualcosa anche per me».
«Certo, vuoi qualcosa in particolare?»
«No, scegli tu».
Guardasti Astrid che giaceva nel letto, profondamente addormentata. Avevi detto la verità al tuo collega della Quinta, ma gli avevi taciuto di come mutava il vostro rapporto, dal giorno alla notte.
Perché gli avevi detto così? Perché non lo avevi mandato direttamente a casa? Perché si sarebbe insospettito, ecco perché. Ma si sarebbe insospettito comunque, dal momento che ufficialmente voi due non vi sopportavate. E Kiki non era così maligno da leggere nella mente altrui senza senso.
Allora cos’era che ti aveva fatto dire così? Paura? No, no di certo. Neanche l’idea di affrontare Death Mask, Aphrodite, Shiryu e Shun ti impensieriva. Kanon lo sapeva quanto te che Astrid poteva essere pericolosa. Presto avresti sfoderato la cuspide scarlatta e... E… il pensiero ti riempì di tristezza e di pietà. Ti tornò in mente la prima notte che avevate condiviso le vostre conoscenze. Non l’avevi mai vista tanto felice. Neanche tu lo eri mai stato.  
Presto avresti posto fine alla sua vita. Dovevi farlo, era tuo dovere. Per il Santuario e per la Dea.
Il mondo si reggeva su equilibri ancora più precari di quanto credevano. Ma che cosa stavi facendo?
Lei era una tua amica, volevi davvero farle questo? Non c’era scelta, se volevi salvare tutti avresti dovuto farlo. Ma se tu l’avessi fatto il Santuario ne avrebbe perso in forza. E tu ti saresti trasformato in un secondo Shura. A vegliare su Yoshino in vece di Astrid. No, non volevi diventare lui e tu, soprattutto, non eri sotto l’influsso di nessun Genro Mao Ken. Tu potevi ancora avere possibilità di scelta.
Solo in quel momento ti accorgesti di avere il volto rigato di lacrime di rabbia, tristezza e ingiustizia. Non era giusto. Quello che stavi per fare non era giusto. Lei non l’avrebbe voluto. L’avresti privata per sempre delle stelle che tanto amava e che stava condividendo con te. Non avevi mai condiviso qualcosa con qualcuno prima. Non così. 
Per questo, quando la guardasti, tu scegliesti ancora di seguire il tuo cuore. Quel tuo cuore che risparmio Shoko di Equuleus, lo stesso che sancì la redenzione del vostro Papa. Riusciva sempre ad avere la meglio. E adesso ti pesava come un macigno nel petto, sì tanto che ti portò a cadere bocconi del letto e a piangere, nascondendo il volto tra le mani. Non eri riuscito a farlo. Con che coraggio avevi anche avuto questo pensiero. Lei non era infetta, non si meritava tutto ciò.  
La profezia diceva che la rinascita del Tredicesimo Cavaliere avrebbe portato solo morte e distruzione per il Santuario e la Dea Atena. Astrid aveva le carte in regola per essere quella reincarnazione. Tu che a queste cose non ci credevi, non avevi dubbi. E piangesti, piangesti per quello che stavi per fare. Stringesti la sua mano tra le tue. «Perdonami, Astrid, perdonami io… perdonami, non so cosa mi sia preso, perdonami». 
«Sapevo che non l’avresti fatto». Disse la voce di Kiki, alle tue spalle. Sussultasti e lo guardasti spaventato. «Kiki!»
Il Gold Saint di Aries ti guardò serio. Le braccia conserte e l’espressione neutra. «Credevi seriamente che non avessi capito per quale motivo eri qui? Ce l’avevi scritto in faccia. Se tu avessi anche solo provato a gonfiare il tuo Cosmo ti avrei spedito sull’Himalaya o nel profondo degli abissi senza pensarci due volte.» Rivelò calmissimo e qualcosa ti disse che l’avrebbe fatto davvero. Si avvicinò e ti porse un fazzoletto. Ti ripulisti il volto mentre Kiki, in piedi accanto a te, ti guardava. «Il Venerabile Shion mi ha parlato della Profezia del Tredicesimo Cavaliere quando mi addestrò. Per nostra fortuna pare che Kanon la ritenga una stupidaggine». Aggiunse dopo un po’.
«Anche Kanon lo pensa?» Domandasti stupito. «No ma lui non è legato a queste superstizioni, lo sai».
«Ma molti altri sì». Commentasti tu, guardando di nuovo la giovane addormentata.       
«Capisco la tua posizione, ed è proprio per questo che noi Gold che siamo dalla sua parte la proteggiamo anche ora. Noi siamo d’accordo con Kanon, non crediamo che lei sia la reincarnazione di Odysseus e non è neanche detto che sia il Gold Saint di Ophiuchus della profezia».
«Come fai a esserne sicuro?»
«Il potere delle Stelle, dei Tarocchi, la Luce Ombrosa, la chiromanzia. Più che a un Gold Saint somiglia a Kanon».
Ok, adesso ti eri perso. «Cioè?»
«Kanon è l’ex Dragone di Mare e l’ex Cavaliere di Gemini, riunisce in sé le tecniche di entrambi, un po’ come Astrid. Questi due sono più simili di quanto pensano. So che vuoi bene ad Astrid anche tu, mi sono accorto anch’io di quello che hai fatto per lei, poco tempo fa e ti ringrazio».
«Perché se sapevi che soffriva non ci sei andato tu?»
Un lampo di dispiacere brillò nelle sue iridi: «Perché probabilmente non mi avrebbe ascoltato. Io non sono bravo a esprimermi e poi, ho anche altri problemi».                   

Kiki
Avevi mentito bene a Milo. La verità era che eri spaventato all’idea che lei potesse non farcela.
«Dite che si riprenderà?» Chiedesti mentre i medici visitavano Astrid. Le avevano dato dei sedativi. Anche il più piccolo avvenimento come la febbre, bastava a farle avere delle crisi, certe volte. Lei non lo avrebbe mai ammesso, ma anche il ciclo a volte le scatenava. I motivi più stupidi erano i peggiori. Combinandosi poi a tutti i problemi che l’avevano assalita ti domandavi quanto ancora avrebbe sopportato prima di spezzarsi.
Era quasi passato un anno, aveva quasi imparato a controllare l’ansia. Però non poteva controllare i traumi.
«Ha ancora la febbre, non è mica in fin di vita. Un trentasette e otto, ma niente di grave o incurabile». Dichiarò il medico cercando di tranquillizzarti.
Restasti con Astrid tutto il pomeriggio.
Quando si svegliò verso l’ora di cena, ti accorgesti che piangeva nel sonno. Anche a te era successo qualche volta, solo che lei non stava piangendo di dolore. Solo dopo avvertisti l’influsso: “Hades?” Pensasti orripilato. “Una promessa è una promessa. Adesso rompo il sigillo”. Vedesti il Cosmo del Dio brillare da lei e poi scomparire. Cos’era successo? Che cosa le aveva fatto? Astrid contrasse il volto in una smorfia di dolore Non avresti dovuto farlo, ma eri troppo curioso. Inoltre se fosse stata una trappola di Hypnos non te lo saresti mai perdonato. Così le leggesti nella mente.
La vedesti precipitare in un baratro oscuro da cui provenne una profonda voce maschile che non avevi mai sentito: «Ricorda».
“Sì, io devo ricordare. Io devo ricordare, io ricordo!” Disse lei. E, con questa formula precipitò. Le immagini riempirono immediatamente il buio, arrestando la sua caduta.
E vi ritrovaste in un ospedale. Degli adulti parlavano tra di loro e una donna ancora col camice d’ospedale indosso piangeva disperata tra le braccia del marito. «Il medico dice che non ce la farà. La mia bambina, oh, la mia bambina».
«Non è detto, amore». Cercò di rassicurarla lui ma lei era inconsolabile.
Guardasti di fronte a te e vedesti una Astrid di appena pochi mesi, nella sua culla. Sudava copiosamente ed era attaccata a un respiratore. Improvvisamente, sulla sedia accanto al letto comparve l’uomo della volta scorsa. “Dev’essere il primissimo ricordo di Astrid!” Pensasti.
Ti avvicinasti anche tu alla culla per capire di cosa si trattasse e quasi facesti un balzo indietro. Era rachitica. Non avevi mai visto un neonato messo così male.
La diagnosi dei medici era sangue marcio.
“Astrid ha rischiato di morire a causa della sua stessa forza a una così tenera età?” Pensasti sorpreso, poi guardasti nuovamente la bambina.  La sua figura si illuminava a tratti, dei colori e dei bagliori del suo Cosmo.
«Il tuo sangue non riesce a sostenere la tua forza e la tua forza ti sta logorando». Dichiarò l’uomo, ma la bambina addormentata non lo sentì. E, anche se avesse potuto sentirlo, non avrebbe potuto capirlo. Eppure, con la manina, strinse forte il dito di Odysseus appena lo avvicinò alle sue, piccolissime. «Se andrai avanti di questo passo morirai. Hai bisogno di midollo osseo, il mio dovrebbe essere sufficiente».
La scena si spostò in ospedale dove dei dottori stavano parlando fuori della porta con i genitori della bambina e la tata della medesima, vegliata dallo spirito.
«L’operazione di trapianto di midollo osseo è andata bene, adesso non resta che trovare anche il donatore compatibile per debellare la malattia di vostra figlia». Stava dicendo.
«E quanto ci vorrà?»
«Non temete, stanno preparando il necessario in questo stesso momento».
Vedesti lo spirito di Astrid girovagare incuriosita per l’ospedale. Era strano che una bambina così piccola non avesse paura di un posto come questo. Neppure tu eri mai stato così coraggioso alla sua età. E, sì che in fatto di orrido anche il tuo maestro se la cavava benissimo. Ti ricordavi ancora bene la volta che ti rispedì Shiryu dallo Jamir in una bara.
Invece, la piccola sembrava divertita. Forse perché dovevano essere passati mesi dall’ultima volta che aveva potuto giocare. Il suo sorriso non scomparve finché non giunse nella stanza delle trasfusioni e vide l’uomo dai capelli d’argento scambiare qualche parola con i medici: «Ma il mio sangue d’Oro è universale, è zero, ma ha numerose proprietà, credimi, può salvare quella bambina».
«Io vorrei tanto aiutarti, amico mio, ma…»
«Qual è il problema? Che non sono un donatore ufficiale? Cos’è più importante per te? Il fatto che io non abbia mai donato sangue a questo ospedale prima, o la vita di quella bambina?»
«Non è questo, è che ho esaminato il tuo sangue ed è risultato strano, ho rilevato la presenza di enzimi e corpi estranei che potrebbero ucciderla».
«Sciocchezze. Paracelsius, mi conosci da tanto tempo, dovresti sapere anche tu che se dico una cosa ti puoi fidare. Io non ho mai creduto a quella profezia, perché dovresti crederci tu, che con il Santuario hai poco o niente a che vedere? Sai bene quanto me che il mio sangue è l’unica cosa che può renderle una vita normale. Te lo chiedo come amico, lascia che lei riceva il mio sangue. É vero, c’è il sangue di Medusa, ma anche quello dell’Ichor del Divino Apollo, che ho ereditato in quanto reincarnazione di Asclepius. Se non vuoi farlo neanche in nome della nostra amicizia, allora fallo per il giuramento di Ippocrate».
«É questo che mi preoccupa e se il tuo sangue le aprisse anche il Nono senso? E se le Divinità poi la cercassero? L’avrai messa in pericolo per tutta la vita».
«Lei non sarà mai in pericolo». Giurò con convinzione il Gold Saint Maledetto.
«E se diventasse il mostro di cui parlano?»
«Non lo diventerà, io glielo impedirò».
«Ah, amico mio. Va bene, ma giurami che non lo stai facendo per usarla per i tuoi scopi personali».
«Lo giuro».   
«D’accordo, preparati. L’operazione richiederà un po’ di tempo».
«Lo so».
La bimba osservò la scena con la testolina inclinata di lato. Poi, dei fuochi fatui le si avventarono addosso. Urlò terrorizzata e si ritrovò di nuovo nel suo corpicino.
La scena cambiò. 
Lo spirito che l’aveva vegliata fino a quel momento le pose una mano sulla fronte e subito si illuminò del suo cosmo dorato. I suoi occhi si accesero di un giallo talmente intenso da risplendere nella penombra. Poi la tolse e lei tornò normale e anche gli occhi dell’uomo si spensero. Guardasti Astrid e vedesti che adesso non sudava più e il respiro era tornato regolare. Fece un respiro profondo e si rannicchiò meglio sotto le coperte. Il viso disteso. Lo sconosciuto sorrise, poi si alzò dalla sedia e se ne andò.
La scena cambiò di nuovo.
La piccola omologa di sei anni di Astrid, ormai guarita, era seduta al tavolo a fare i compiti quando si alzò e andò in corridoio, forse diretta in bagno. Lì per la prima volta, vide l’uomo. Trasalì spaventata. «Non avere paura, Astrid». E tu provasti un moto d’imbarazzo per lui. Non era che fosse partito proprio benissimo, te ne rendevi conto anche tu.
«Tu chi sei?»
«Sono il tuo maestro». Rispose questi, sorridendo. Lei non si fidò neanche un po’: «Ho già delle maestre, non me ne serve un altro e il papà e la mamma mi hanno detto di non parlare con gli sconosciuti. Dimmi chi sei, cosa vuoi!» Esclamò usando il libro come se fosse uno scudo.
L’altro si abbassò alla sua altezza, per nulla intimorito, e le disse: «Voglio guidarti lungo le vie della conoscenza, vie che non ti insegneranno mai a scuola».
«Davvero?» Domandò la piccola, diffidente, sempre in tedesco. 
«Sì».
Ti ritrovasti in un’ampia stanza luminosa che, in un certo senso, ti ricordò Villa Thule. La differenza era che i pavimenti erano di parquet e che era arredata con preziosi, antichi mobili. Vedesti anche immagini di pregevoli cornici abbellire le pareti, assieme ad affreschi, arazzi e candide tende. 
Sul tappeto persiano davanti ai tuoi piedi vedesti Astrid che sfogliava un libro e s’impegnava a leggere, compitando le parole con il ditino. Seduto accanto a lei il suo precettore (?) Non poteva essere suo padre, lo avevi visto e conosciuto. Costui era piuttosto alto e prestante, ma appariva sfocato in confronto ad Odysseus. Che invece appariva più che chiaramente in ogni più piccolo particolare. Dalla lunghissima, spettinata chioma argentea agli occhi erano verdi e truccati con ombretto blu e un trucco egiziano.
Poi la scena cambiò e vedesti Astrid davanti alla libreria. L’uomo sfocato la osservava arrampicarsi sulla sedia e prendere un altro libro. E poi, sentisti due voci, una maschile e una femminile litigare come iene dall’altra parte. «Tu non mi capisci!» Strepitava quella femminile.
«Cosa?! Cosa c’è da capire? Quello che fai è illegale, ti costerà una multa o peggio! Cristo; e se qualcuno ti chiedesse delle profezie di morte? Ti rendi conto di quello che fai? Potrebbero toglierti la bambina! Potrebbero arrestarti per complicità in omicidio!» Rispose la voce e, sentisti che erano in vivavoce e che quella era una telefonata.
Astrid trasalì e lasciò cadere il libro. Non poteva capire di cosa parlassero, sapeva solo che sua madre stava litigando qualcuno. Anche l’uomo assieme a lei voltò la testa verso la porta.
«Mi credi davvero così stupida da fornire certe profezie? Non sono la Saponificatrice di Correggio!» Sbottò la donna.
La bambina scese dalla sedia e sgambettò in punta di piedi verso la porta con aria preoccupata.
Poi la vedesti fermarsi di botto e stringere la boccuccia. Gli occhioni gialli si riempirono di lacrime. Lasciò il libro e andò a sbirciare e vide sua madre e la tata al tavolo. La tata di cui la tua amica ti aveva tanto parlato, era seduta al tavolo, quasi in disparte, come se fosse indecisa se concedere un po’ di privacy alla madre di Astrid o se restare e supportare l’amica.
Anche se ti dava le spalle, potesti vedere la gonna del suo abito lillà e violetto e i suoi lunghi capelli neri, quasi uguali a quelli della donna che stava sbraitando. La faccia paonazza di rabbia e bagnata di lacrime. Probabilmente era sua sorella.
«Gesù, Aida…» Sospirò la voce maschile dall’altra parte. «Ti ho solo telefonato per metterci d’accordo per il prossimo viaggio da fare con Astrid. Perché ogni volta che ci sentiamo devi sempre provocare questi litigi?»  
Astrid si morse il labbro con più forza e si sforzò di restarsene di non piangere. Non capiva quello che stava succedendo, ma sapeva che era qualcosa di grave. 
L’uomo sfocato l’affiancò e le mise una mano sulla testa. La bambina lo guardò e poi tese le braccina verso di lui, in una muta richiesta d’aiuto. L’adulto la prese in braccio e la portò via,   
La scena cambiò di nuovo.
Già da piccola Astrid dimostrò il suo caratterino. Fomentato e incoraggiato dall’uomo sfocato che era sempre con lei e che lei chiamava “papà”. Ciò non faceva che causare dissapori tra lo sfocato e l’Ophiuchus. «Certo che la stai educando bene». Disse un giorno quest’ultimo.
L’altro ridacchiò divertito: «Faccio solo del mio meglio». Come no, mancava solo che si divertisse a pestare le persone e poi lo sfocato avrebbe cresciuto una bulletta in piena regola. “Ma i genitori di Astrid a che cosa pensavano quando l’hanno educata?” Ti ritrovasti a pensare.
Salvo quelle volte che le capitava qualcosa di brutto, ogni volta che lo incontrava lei lo canzonava. Soprattutto sui suoi capelli: «Hai litigato con il parrucchiere?» Era il suo insulto preferito. Cosa trattenesse il suo salvatore dallo zittirla a suon di sculacciate non lo sapevi neanche tu. E sì, che tu non eri neanche un tipo violento, ma Astrid da piccola avrebbe fatto saltare la mosca al naso anche a te. 
Un giorno, forse Natale, la ragazzina gli rifece il solito verso, ma si vedeva che era stufa di ripeterglielo e che lui fosse sull’orlo dell’esasperazione. «No, perché?» Rispose alla fine.
«Da quant’è che non vedi una spazzola?» Il poveraccio la guardò senza capire a cosa si stesse riferendo. «Scusa?» Chiese inarcando le sopracciglia.
«Aspetta». Corse in bagno e quando tornò gli ficcò in mano la spazzola e fece le presentazioni più astruse che avesti mai sentito: «Ecco, maestro, questa è la spazzola, spazzola, questo è il mio maestro. Ah, dimenticavo, buon Natale». Infine se ne tornò in salotto dalla tata e dalla madre, lasciandolo basito e con la spazzola in mano.
La situazione tra loro cambiò quando arrivò Pasqua e le tre donne ricevettero la visita dei parenti per trascorrere insieme quella festa.
I nonni di Astrid vivevano in campagna e, la bambina, approfittando del sole e della bella giornata andò a scorrazzare nel campo vicino. Stava inseguendo una farfalla quando, questa si posò su un fiore. La bambina stava per toccarla quando sentì qualcosa strisciarle vicino e sibilare.
S’immobilizzò, raggelata. Abbassando lo sguardo notò che era una vipera. La nonna le aveva insegnato a distinguerle, per questo lo sapeva. La lingua dell’animale le lambiva la caviglia a ogni sibilo.
Astrid restò immobile, spaventata. Ma non poté impedirsi di cominciare a tremare. Serrò le palpebre, preparandosi al peggio. Ma, prima che succedesse, sentì una ventata passarle accanto e poi la voce maschile che conosceva bene: «Adesso va tutto bene, puoi aprire gli occhi». Lei obbedì, seguì la direzione della voce e trovò il suo maestro in piedi che la guardava e la vipera non c’era più. La bambina scoppiò a piangere, si alzò e corse ad abbracciarlo. Lui si chinò e le pose le mani sulle scapole e l’altra spalla mormorando rassicurazioni. La scena cambiò di nuovo.
Adesso era estate. Eravate in un bosco sconosciuto e Astrid giocava con un aquilone mentre il suo maestro, poco distante la osservava. A un tratto la bambina volse la testa verso di lui e disse: «Non racconti più niente?»
«Vedo che non mi ascolti».
«Ma io ti ascolto sempre».
«Davvero? Dov’eravamo rimasti?» La sfidò bonariamente con un sorrisetto.
«Alla Prima Guerra Sacra, dove Atena e i primi Cavalieri combatterono contro Poseidone».
Ti prese un colpo solo a sentirla nominare. Quell’uomo gli stava narrando la storia del Santuario? Allora era da lì che provenivano tutti i suoi ricordi?
Avevi capito che non era una persona normale, ma così no! Chi era davvero quell’uomo? Un Saint? Poteva darsi. Altrimenti non ti spiegavi come mai ne parlasse con cognizione di causa. Come infatti si rivelò. «Poi che successe a quei ragazzi?» Chiese la bambina.
«Divennero i primi Saint di Atena». Ribatté l’uomo e tu sgranasti gli occhi. Allora era davvero un Saint. Ma tu li conoscevi tutti e negli anni dell’infanzia di Astrid tu eri già in servizio da un po’.
«Tu sei uno di loro?»
«Sì».
«Quale?»
«Io sono l’Ophiuchus». L’Ophiuchus? Non era possibile. L’Ophiuchus era Shaina. Ma questo qui allora chi era? Perché stava mentendo? Lo guardasti in faccia e vedesti che era sincero. Il Saint dell’Ophiuchus? Aspetta un attimo, l’unico Saint uomo dell’Ophiucus che conoscevi era… Trattenesti il fiato rumorosamente per lo stupore.
La bambina tirò giù l’aquilone e dichiarò, tutta entusiasta. «Voglio essere anch’io una di loro». “Astrid voleva essere una di noi?” Ti domandasti ancora più sconvolto.
L’uomo sorrise benevolo e declinò la sua richiesta dicendo: «Per diventarlo bisogna sottoporsi per anni a un duro addestramento mortale. Molti ci rimettono la vita nel tentativo».
La piccola gli abbracciò le gambe e prese a supplicarlo: «Ma io sono all’altezza, maestro, sono pronta per superare qualsiasi prova. Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego».
«Qualsiasi?» Domandò canzonandola dolcemente.
«Sì». Dichiarò lei risoluta staccandosi dalla sua gamba, tutta trepidante.
Per un momento temesti il peggio: gli addestramenti dei Saint non erano acqua di rose.
«Bene, allora va a prendere il libro delle vacanze e fai tutti gli esercizi». Decretò l’uomo puntando un dito in direzione del sentiero. Tu sospirasti di sollievo.
La piccola emise un lamento, poi tornò all’attacco: «Per favore. I compiti posso farli dopo. Per favore, per favore».
«L’hai detto tu, qualsiasi cosa, no? Allora va a studiare, poi, quando avrai finito i compiti vedremo di fare qualcosa».
Lei lo lasciò andare dopo avergli scoccato un’occhiataccia e si avviò al sentiero borbottando «Uffa», accompagnata dallo sguardo dell’adulto a braccia incrociate. «Ehi, l’aquilone». La richiamò.
«Lascia stare, tanto se lo dico alla tata ci pensa lei a recuperarlo». Ribatté la bambina cacciandosi le mani nelle tasche della salopette, mollando un calcio a un sasso.
La scena seguente vedesti Astrid e quell’uomo. Lui aveva le mani avanti e lei le sue strette in pugni come un piccolo pugile. L’altro si fermò subito e le disse di tirare fuori i pollici dal palmo, altrimenti se li sarebbe fratturati. La ragazzina eseguì immediatamente. Poi il maestro la istruì: «Concentra il peso nella parte del corpo, così, vedrai che sarà molto più potente. Hai capito?»
Astrid annuì e fece come gli aveva detto. 
«Bene, adesso colpisci».
La bambina obbedì ma l’uomo si scostò e lei, per lo slancio cascò a terra, sull’erba, sulla pancia. Dove scoppiò a piangere: «Cattivo, ti sei spostato!» Lo accusò rialzandosi a carponi. Il visetto paffuto bagnato di lacrime.
«Non ho mai detto che non l’avrei fatto». Si giustificò l’altro reprimendo un sorrisetto divertito.
La versione bambina della tua amica si mise seduta, con le mani a coprire il volto in lacrime. «Sei cattivo, non vale!» Continuò a frignare.
Vedesti questa scena ripetersi altre volte. Finché, un giorno, che Astrid indossava un vestito verde con i fiorellini gialli, non cascò di nuovo. «È inutile, sono una frana!» E stavolta, pianse disperata, quasi urlando. Il poveraccio, a disagio, si inginocchiò sul ginocchio destro e cercò di consolarla. Le aveva appena posato una mano sui capelli che lei smise di piangere e, rapidamente, gli mollò un pugno sotto la cintura. Facendolo piegare in due e gemere di dolore.
Per evitare di cascarle addosso, riuscì a voltarsi su un fianco e accasciarsi al suolo. Anche tu sibilasti tra i denti. Cavaliere o no, un colpo sotto la cintura è sempre un colpo sotto la cintura.
Lei sgranò gli occhi e domandò, preoccupata: «Maestro, stai bene? Ti ho fatto male?» 
«No, non è niente. Io e te dobbiamo fare un discorsetto sui colpi sleali e la lealtà». Disse poi con la voce parzialmente normale, quando si mise a sedere e si fu riavuto un po’.
La bambina si tamponò gli occhi con un palmo e tirò su con il naso: «D’accordo, ma stai bene?»
«Mai stato meglio». Mentì il poveraccio mentre tu soffrivi assieme a lui. Neanche Raki era stata così discola. La piccola gli posò le manine sulle spalle e cercò di guardarlo in volto.
«Allora adesso mi insegni a diventare un Saint come d’accordo?» Fece tutta gioiosa mentre alle sue spalle la voce maschile dello sfocato se la rideva divertito.
«Sì, va bene, dammi solo cinque minuti», la implorò con la faccia semi piantata in terra per evitare che lo vedesse sofferente. Anche se ti dava le spalle, riuscivi a intuire perfettamente la sua espressione dolorante. E, lei prese a esultare e balzare in aria tutta contenta riempiendo la campagna della sua risata argentina. Poi gettò le braccina al collo dell’altro, che si era quasi raddrizzato e, quasi lo buttò a terra, con il rischio di mollargli un altro colpo. Ma un secondo gemito di dolore di lui la fece staccare di botto come se si fosse scottata: «Ti ho fatto di nuovo male?» Chiese preoccupata con gli occhioni gialli sgranati.
L’altro scosse il capo. Lo sforzo di tenere un tono di voce normale ben evidente: «No, ora no».
Improvvisamente ci fu un boato e poi un vuoto.
La scena ci mise qualche minuto per riformarsi. Che cos’era successo? Stavolta, sempre lo stesso bosco, ma il cielo era coperto da un sottile strato di nubi bianche. Astrid, vestita con un canottiera viola con le spalline di perline colorate e pantaloncini giallo ocra, con un bastone in mano.
Il suo maestro inginocchiato di fronte a lei, che le spiegava il naginata. Anche lui con un bastone di legno in mano che aveva tanto l’aria di essere il manico di una scopa privo della saggina. A un certo punto, per spiegarle le mosse le disse: «Fa come faccio io». E, prese a muovere il bastone di fronte a sé, nello spiazzo tra i due, che era di circa due metri. La distanza ideale tra due combattenti. Astrid lo imitò rossa come un peperone.
Lui s’inginocchiò e mise l’arma alla propria sinistra. Lei lo imitò.
Odysseus pose la mano destra vicino la sommità del bastone e l’altra un po’ più indietro con una lieve torsione del busto.  Poi si alzarono in piedi, tenendolo alto con la mano all’altezza della vita. «Questo è il saluto».
Poi passarono ai movimenti basilari.
Dopo un po’, lei gli domandò, con la faccia ormai viola per la vergogna: «Ma ne sei proprio sicuro?» mentre cercava di imitare, come in uno specchio, i suoi movimenti.
Lui si sciolse dalla posa del joge buri (ossia il colpo verticale dall’alto verso il basso) e la piccola lo imitò, un po’rigida e sudata. «Lo stretching non va più bene?» Continuò. E, da quelle parole ne percepisti già tutto l’odio che provava per il riscaldamento. 
«Visto che sei ancora rigida come un tronco di legno non ho altra scelta». Sospirò il poveraccio.
Dovesti ammettere che questo Saint ci stava andando piuttosto leggero con lei. Alla sua età ne avevi buscate già tante, troppe che ne avevi perso il conto.  
Poi vedesti Astrid a otto anni con il grembiule e i capelli legati, nell’aula insegnanti, per aver pestato a sangue un ragazzino che aveva osato prenderla in giro. Lei aveva solo qualche graffio, mentre il bambino (decisamente più grosso e massiccio di lei, nonostante la giovane età) frignante, seduto accanto a lei, aveva la faccia tumefatta, gli mancavano i denti davanti ed esibiva un braccio parzialmente steccato. Invece la tua amica aveva solo qualche graffio e un’espressione trionfante.
Maestro e allieva si trovavano nella cucina della villa che avevi visto all’inizio. A un certo punto, la bambina si tagliò un dito con un coltellino. Le sue spalle furono scosse da un sussulto e trattenne un gemito di dolore tra i denti. Non era una ferita profonda, era solo un buchetto su cui si stava già formando una stilla rossa come un lampone. Tuttavia i suoi occhi gialli erano pieni di lacrime.
«Adesso, maestro?» Domandò con voce tremante.
«Adesso richiudilo come ti ho insegnato».
«Ma brucia».
«Lo so, però è un dolore buono, come quando la mamma ti toglie una spina da un dito». Spiegò lui e lei mosse la testa in un cenno d’assenso. «Forza, fa un bel respiro profondo e rigeneralo. Tu sei come me, ce la puoi fare».
La piccola annuì e chiuse gli occhi, concentrandosi. Il dito si illuminò di luce dorata e quando smise di brillare la ferita era scomparsa. 
Restasti di stucco, riconoscendo la tecnica di rigenerazione. “Aveva imparato a usare i suoi poteri già allora?”
La scena cambiò di nuovo. Vedesti la bambina di nove anni camminare accanto all’uomo, lo zainetto in spalla e la faccia imbronciata. A un certo punto alzò lo sguardo verso di lui e lo chiamò. «Maestro».
«Dimmi».
«Si può essere più cose insieme?»
«Che intendi con più cose insieme?»
«I miei amici a scuola mi prendono in giro perché sono sotto il segno dell’Ophiuco e dicono che invece io sono del Sagittario. Mamma mi da ragione mentre per il mio papà sono solo cavolate e poi dice che mi sto applicando molto meno in astronomia. Ma non posso dirgli che sto imparando questo da te. Non so più cosa fare». L’uomo si fermò e, dopo averci pensato un po’, le domandò: «Dimmi, Astrid, tu cosa sei?»
«Io? Sono una bambina». Rispose un po’spaesata, quando ne comprese il senso.
«E poi?»
«Sono… un essere umano».
«E per me?»
«La tua apprendista?» Tentò.
L’uomo annuì. «E per i tuoi maestri?» Domandò ancora.
«Un’alunna».
«E per tua nonna?»
«Sua nipote». Disse incerta, ma ancora ben lungi dal capire.
«Per tua mamma e tuo papà?»
«La loro bambina». Un’occhiata eloquente dell’altro la corresse: «Una figlia». 
Soddisfatto le domandò di nuovo: «E, per i tuoi compagni?»
«Un’amica?»
«Ecco, vedi quante cose sei?»
Astrid ci pensò un po’su prima di illuminarsi e annuire. «Allora, posso essere sia un Sagittario sia un Serpentario?»
«Certo che puoi, piccolina».
Adesso Astrid aveva dieci anni ed era seduta nella posizione del loto. Tra le mani rifulgevano brillii fosforescenti, ma, non appena aprì gli occhi, scomparvero. «Non ci riesco». 
«Proviamo di nuovo». Disse l’uomo, paziente.
Proprio in quel momento un gruppo di Skeleton uscì dalla boscaglia e si lanciò addosso alla bambina. “Skeleton? Cosa ci fanno qui, nel mondo dei vivi? Un momento, ma quel mausoleo è… Non è possibile!” Quello era il mausoleo del Castello degli Heinstein in Germania! Allora era lì che Astrid trascorreva le vacanze?  
«Astrid!» Gridasti. Ma lei non poteva sentirti. Provò persino a usare i suoi poteri per difendersi ma erano talmente flebili che i soldati di Hades non ci fecero neanche caso. La piccola andò nel pallone e la luce nera che aveva cominciato a balenare sulla sua pelle si spense. “Cos’è quella roba?” Ti domandasti.
I soldati l’attaccarono e tu spalancasti gli occhi: «Astrid!» Urlasti di nuovo. Facesti per lanciarti in suo soccorso ma il suo maestro fu più veloce e la protesse. I suoi occhi divennero gialli con la pupilla verticale, come quelli di un serpente.
Proprio allora Astrid venne acciuffata per la collottola e sollevata in aria da uno Skeleton. «E, tu dove scappi?»
«No, mettimi giù! No! No!»
La bambina lo guardò con occhi pieni di lacrime mentre l’uomo percepiva l’avvicinarsi di un Cosmo. Vi giraste entrambi e vedeste un Cosmo violaceo, pregno di una maledizione. Poi, una Gold Cloth comparve dal nulla che rivestì la figura del maestro di Astrid da capo a piedi. «Un Gold Saint!» Esclamò uno dei nemici, sorpreso.
«Vattene tu, se non vuoi fare la sua stessa fine!» Minacciò un altro.
«Restituitemi la mia allieva e io me ne andrò». Negoziò il Saint Maledetto.
«Questa mocciosa ha violato i sacri confini, deve essere punita».
«No! No, maestro!» Implorò Astrid dimenandosi per liberarsi dalla presa del soldato. Il Saint li guardò e cercò di negoziare la sua liberazione ma gli Skeleton non vollero ascoltarlo, così disse: «Dunque non avete intenzione di lasciarla andare? Devo dedurre che la vita vi stia così poco a cuore?»
Affrontò i nemici e li sconfisse poi sopraggiunse una voce femminile: «Astrid!»
«Tata!» Una donna dai capelli neri con le iridi di un dolce viola chiaro e un vestito bianco sbucò dai cespugli e la raggiunse trafelata. “Chi è, quella?” Ti domandasti mentre la donna l’abbracciava e la prendeva in braccio. «Ti ho detto cento volte di non allontanarti che è pericoloso!»
«Scusa, scusa». Piagnucolò, il volto nascosto nella sua spalla. 
«Non fa niente, l’importante è che tu stia bene». Poi la bambina si rivolse al (sgranasti nuovamente gli occhi) Gold Saint Maledetto d’Ophiuchus! Riconoscevi l’Armatura perché l’avevi vista sui libri di storia alla biblioteca della Palestra del Santuario durante il tuo soggiorno in Grecia, prima della tua fuga in Jamir. Quello era il Leggendario Odysseus? Cosa ci faceva lì? Non era morto e sepolto? Come avevi fatto a non arrivarci prima?
Astrid si accorse che l’uomo se ne stava andando e urlò, tendendo una manina verso di lui: «Aspetta! Aspetta! Maestro!»
«É tutto passato, Astrid. È tutto passato». La bambina però continuava a piangere a dirotto tra le sue braccia.
La scena sfumò e si riformò. Era notte e Astrid correva a per di fiato per la boscaglia della proprietà della villa, illuminandosi la via con una torcia. «Sei sicuro che sia qui, Snakye?» Domandò guardando per un attimo in terra, tra l’erba. Ove vedesti un serpente strisciare rapidamente accanto a lei.
«Sicurissimo, Astrid. L’ultima volta che l’ho veduto si stava dirigendo da queste parti».
«Altolà!» Esclamò una voce maschile e i due si fermarono sussultando.
Ti guardasti intorno anche tu ma non vedesti niente. Astrid puntò la pila a terra e illuminò le spire di un serpente che si alzò come un cobra e sibilò: «Non vi è concesso procedere oltre».
«Samael!» Esclamò Astrid riconoscendolo, «Dov’è? Dimmi dov’è, ti prego, potrebbe essere nei guai!»
«Anche se fosse non permetteremo mai che voi, la sua sacra allieva, vi cacciate nei guai per salvare lui. Tornatevene indietro, il Gold Saint di Ophiuchus è capace di occuparsi da solo della faccenda».
Ma la bambina si impuntò: «No! Se tu sei qui significa che lui è vicino! Dimmi dov’è!» Ordinò.
Si trovava in una cantina e l’uomo aveva le braccia fasciate. Astrid osservava quelle bende preoccupata, ma cercando di non piangere a dirotto. «Sei venuta a cercarmi lo stesso, perché non hai dato retta a Samael?»
«Ero preoccupata per te, maestro. Ma, tu sanguini!» Esclamò accennando alle numerose fasciature sporche sulle braccia, la testa e il collo del maestro.
«Non preoccuparti per me, le bende sono solo sporche, è solo che non ho ancora avuto occasione di cambiarle e di farmi un bagno. Ricordi cosa ti ho sempre detto? Possiamo rigenerarci all’infinito se lo desideriamo, ma questa non è una buona scusa per cominciare a tagliarsi. D’accordo?»
Lei lo guardò spaventata alla sola idea. «No, no!»
L’uomo sorrise e le scompigliò i capelli con una mano. «Su, da brava, adesso lasciami riposare».      
La scena sfumò per ricomporsi di nuovo e la vedesti passeggiare nello stesso grandissimo giardino, in compagnia del capellone. Era cresciuta, dimostrava già dieci anni e, quella persona di cui tu non riuscivi a scorgere il viso le stava parlando del mito di Asclepio. Notasti che le braccia di Astrid erano completamente incerottate.
«C’è qualcosa che vuoi dirmi, Astrid?»
«Mia mamma non vuole che io ti parli, dice che devo starti lontano, che tu vuoi farmi del male».
«Tua madre dice questo?» Lei si fermò e lo guardò, stava per mettersi a piangere: «Ti prego, dimmi che mia mamma si sbaglia». Odysseus (di nuovo nella sua Cloth) stava combattendo contro alcuni Dryad quando una di queste riuscì ad afferrare Astrid che prese a gridare per il terrore.
Odysseus si girò, tese una mano verso di lei e gridò: «Non toccarla!»
La Dryad rise e lo provocò: «Vediamo se hai il coraggio di colpire la tua apprendista, Cavaliere».
«Non dovresti sottovalutare mai i tuoi avversari, mostro, potrebbe essere il tuo errore più grande». Gli occhi del Saint si accesero di giallo, le pupille si assottigliarono fino a diventare due tagli verticali e gli occhi si sottolinearono di una minacciosa riga arancione.
Il cielo si fece tempestoso e i suoi capelli presero ad agitarsi esattamente come le serpi della Gorgone Medusa.
La Dryad smise di ridere e si guardò attorno, guardinga e spaventata. Poi riportò l’attenzione sul Saint e, così facendo, privò la nemica dei cinque sensi per mezzo dell’Anesthesia.
Astrid cadde a terra e lui urlò: «Corri via!» per scappare via mentre l’uomo dava il colpo di grazia alla nemica. Ma, presto si ritrovò circondato da altri Ghost Saint e se ne liberò evocando decine e decine di serpenti che morsero e uccisero i nemici.
Alla fine, in piedi restò soltanto lui. Il Cosmo violaceo che danzava attorno alla sua figura.
Poi, mentre i lamenti dei nemici si alzavano dal suolo, alzò entrambe le braccia e, tramite la forza immensa del suo Cosmo riuscì ad aprire un portale sulla dimensione delle moire. E da lì, fuoriuscirono delle catene dorate che si diressero in massa verso gli avversari circondati da serpenti.
«Maestro, basta!» Urlò lei ma l’altro non l’ascoltò. «Basta!» Urlò di nuovo a pieni polmoni e i serpenti cominciarono a sibilare, come se qualcosa li stesse infastidendo.
Il Cavaliere non se ne accorse. Ma tu sì, con tua grande sorpresa, vedesti Astrid. I capelli sciolti agitati dalla brezza e i vestiti sporchi che lo chiamava. Poi, nella poca luce tutto attorno a loro, cominciò a delinearsi una fiamma nera attorno alla personcina di Astrid. Ma era talmente rapida che non riuscivi a capire cosa fosse. Fatto sta che i serpenti cominciarono ad arretrare. Quei pochi che provavano ad attaccare subito si ritraevano come scottati.
Lei spalancò le braccia e il cerchio attorno a lei si fece ancora più ampio fino a inglobare quasi tutti i nemici. Improvvisamente dal cielo cominciarono a manifestarsi i bagliori fosforescenti i quali, fluttuando, andarono a impedire alle catene di raggiungere le vittime agonizzanti. Dietro Astrid vedesti comparire un uccello rapace che non faceva parte delle vostre costellazioni. 
Il Cavaliere si accorse finalmente che qualcosa non andava e urlò alla fonte del disturbo di farsi vedere. Proprio allora Astrid saltò fuori del suo nascondiglio e urlò: «Maestro!»
L’uomo si volse verso di lei e strabuzzò gli occhi, spaventato nel realizzare cosa stava per fare. Ritrasse il bastone di Asclepius e la rimbrottò: «Astrid! Vattene via, è pericoloso, non puoi stare qui!»
«Adesso basta! Maestro, basta! Basta!» Urlò invece la bambina, i piccoli pugni contratti e le braccia rigide lungo i fianchi. Poi gli afferrò una mano e cercò di trascinarlo in direzione della villa: «Smettila, maestro! Andiamo via, torniamo a casa!»
L’uomo ritrasse la mano con uno strattone e le ordinò: «Vai via, Astrid!»
«Non senza di te!» Ribatté ostinata afferrandogli il mantello sbrindellato. L’uomo fece per replicare quando una catena si gettò addosso a lei. La bambina non fece in tempo a schivarla.
«Attenta!» Urlasti. Il Gold Saint bloccò il suo colpo per rispedirlo addosso a un Ghost Saint che andava rialzandosi, il quale finì trafitto. Appena fatta la sua vittima, le catene si ritrassero e il portale si richiuse.
Improvvisamente Astrid parve rendersi conto di ciò che stava succedendo e andò nel pallone.
I bagliori e le ombre svanirono, mentre lei cadeva a terra, sul prato. La faccia contratta in una smorfia di sofferenza e tossiva incessantemente. Odysseus evocò rapidamente la Fiamma dell’Ade per fare piazza pulita dei nemici. Dietro di lui Astrid cominciò ad avere una crisi di panico.
Il Saint si girò e le diede un colpo di taglio con la mano tra capo e collo che la tramortì, poi l’afferrò prima che cadesse a terra. Le posò una mano sul petto e il respiro della ragazzina si regolò istantaneamente. Infine le guarì le ferite, la prese in braccio e la portò vicina alla villa.
L’adagiò ai piedi di un castagno e restò a contemplarla per un po’, mentre cercava qualcosa da dirle: «Ho fatto male a coinvolgerti nel mio mondo. Credevo che standoti vicino e insegnarti a usare la tua forza potesse aiutarti, potesse darti una solida base cui aggrapparti e sostenerti, per scongiurare la profezia, ma ho sbagliato tutto. Le tue lacrime nere ne sono la prova». Si scusò carezzandole la fronte. «D’ora in poi, sarà meglio per te dimenticarmi. Addio e che Atena ti protegga». Mormorò, ma si vedeva che dispiaceva anche a lui abbandonarla.
Poi si alzò e se ne andò, passandoti accanto.
Tu restasti a guardare la scena allibito per due motivi. Il primo che non avresti mai pensato che una tale blasfemia potesse uscire da quella bocca. Il secondo, che i suoi occhi erano ancora gialli.  
Era di nuovo notte e Astrid correva affannata per il bosco. «Maestro! Maestro dove sei?» Urlava. Torcia elettrica alla mano, per trovarlo.   
«Astrid?» Le domandasti, confuso, vedendola così. A differenza delle altre volte, stavolta lei ti udì e fece un salto per lo spavento. Poi si volse e ti vide.
Si stava svegliando.
Allora le andasti incontro, le mani tese verso di lei. «É tutto a posto, Astrid. Va  tutto bene».  Cercasti di dirle.
«Kiki!» Esclamò, riconoscendoti.
«Astrid».
«Kiki!» Gridò e ti corse incontro tendendo le mani verso di te, crescendo a ogni passo fino a raggiungere di nuovo l’età che le conoscevi. Poi ti gettò le braccia al collo e l’impatto del suo corpo sul suo fu molto più realistico di quanto ti aspettassi. Sentivi il suo corpo adulto premuto contro il tuo, i suoi gemiti di pianto al tuo orecchio sinistro e le lacrime di lei bagnarti la spalla.
Apristi gli occhi e vedesti la tua amica osservarti, con la faccia rigata di lacrime. Poi
si discostò, per guardarti in faccia, continuando ad avvolgerti in un abbraccio. Trasalisti per la sorpresa nel ritrovartela così vicino.
Arrossisti come un peperone. 
«Ho ricordato. Io ho ricordato». Gemette sorridendo. Il suo sguardo era mutato. Non c’era più quell’insicurezza e quell’indecisione di fondo che le conoscevi. La sua fragilità si era attenuata, adesso, dalla consapevolezza e dall’incredulità.  
«Ricordato cosa?» Domandasti mentre ricambiavi la stretta. Le tue braccia ti parvero pesanti come il piombo, o forse era solo quel poco d’imbarazzo che ti restava a fartele sentire così. In cuor tuo lo sapevi già. Avevi pregato che fosse solo un sogno. Che Milo si fosse sbagliato. Ma non era stato così. Aveva ragione e tu ti eri aggrappato alla speranza che si sbagliasse con tutte le tue forze. Come ora ti aggrappavi a lei. Come se temessi che potesse esserti strappata via da un momento all’altro.
«Tutto, io ho ricordato tutto».
«Tutto? Che significa tutto?» Domandasti confuso. Tu pensavi che fosse un sogno, anzi, no, speravi con tutto te stesso che fosse un sogno.
«Il perché conosco la naginata, il Cosmo, perché conosco così bene il Grande Tempio, perché conosco le vostre leggende e la vostra storia. La Dark Resurrection, l’Anesthesia, la Legge del Risveglio, l’Hypnotherapy e… e… tutto il resto. Snakye, i Driadi di Eris e gli Specter di Hades. L’uomo che mi ha aperto la via della conoscenza, il mio maestro». Elencò lei staccandosi da te e tamponandosi un occhio con una mano, accompagnando il gesto con una risatina nervosa. L’altra ancora sulla tua spalla. «Come ho potuto essere così cieca? Come ho potuto dimenticarmene? Come ho potuto dimenticare chi sono?» Tirò su col naso ben poco educatamente.
Tu non avevi la più pallida idea di cosa fare. Ma, da come ne parlava, dal rispetto che traspariva dalla sua voce, ne sentisti la stima e il profondo affetto e la gioia per averlo ritrovato, ritrovasti lo stesso tono che usavi tu per riferirti al tuo maestro. 
«Era così facile, così logico, ha senso». Disse. Sì, un senso ce l’aveva. Il senso era che adesso sapevi il suo segreto più grande e, ora, sapevi anche che i vostri sospetti sull’intruso erano fondati. Aiolia aveva avuto ragione fin dall’inizio senza saperlo.
E, ora che era rientrata in possesso dei suoi ricordi, Astrid ti sembrò un’estranea. 
«Di cosa stai parlando?» Le chiedesti a quel punto, togliendo le mani dalle sue scapole. 
La guardasti in faccia e vedesti che stava cercando di trovare le parole giuste per spiegare tutto quello che aveva appena ricordato e vissuto «Io sono l’apprendista del Gold Saint d’Ophiuchus». Dichiarò stupefatta, come se non ci credesse neanche lei, guardandoti dritto negli occhi.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Quia Averno Tributes ***


Quia Averno Tributes

 

 

 

Aldebaran
Il rombo di tuono risuonò come un ruggito in tutto il Santuario. Sperasti che non iniziasse subito a piovere, perché Yoshino non aveva portato con sé l’ombrello. Era andata a trovare la sua amica e, per la prima volta da che era entrata in contatto con il tuo mondo, o meglio, tornata a farne parte anche lei, eri preoccupato.
«Forse non avremmo dovuto lasciare che andasse da sola». Se ne uscì Shaina stringendosi nelle spalle, preoccupata. La guardasti. In tua presenza non indossava mai la maschera e la sua espressione la diceva lunga sui suoi pensieri.
Il messaggio telepatico di Kiki era risuonato forte e chiaro nell’aere. Dopo un momento di annichilimento, il Gran Sacerdote aveva subito preso in mano la situazione. 

 

Il Chrysos Synaigen si era svolto telepaticamente sfruttando i poteri telepatici di Kiki, che aveva fatto da antenna affinché tutti voi poteste ricevere e comunicare.
Aiolia e Milo avevano sbottato in coro con Seiya. Il quale aveva subito pensato a Lady Isabel e si era inalberato, subito seguito dai suoi fratelli e anche da te, più discretamente.
Shura aveva fatto scena muta finché non era arrivato il momento di intervenire nella riunione. Ossia quando aveva sollevato la questione della presenza di Odysseus all’interno del perimetro e aveva suggerito un piano di attacco.
Kiki era rimasto in silenzio come Aphrodite, entrambi riflettevano. Potevate quasi sentire i loro pensieri che comunicavano su una frequenza a parte. Facevano così molto spesso da quando Kanon decise di farli collaborare per risolvere il mistero del monastero. Ma se era facile intuire che stessero elaborando una probabile strategia, nonostante che i pensieri di Aries fossero più oscuri. Probabilmente stava pensando alle Armature e alla vostra inferiorità numerica. Shun tempestava l’assemblea di domande e rispondeva a quelle di Milo a proposito di tutte le cure che le aveva somministrato. Aiolia, il solito impulsivo, proponeva di istaurare una vera e propria caccia all’uomo. Milo invece era più subdolo, suggeriva di aspettare e attenderlo arroccati nelle Dodici Case come al solito. Perché era chiaro che Odysseus avesse due obiettivi: la testa della Dea e la sua allieva.     

 

C’era un piccolo problema che andava ad assommarsi a quelli già presenti: adesso di Dee Atena ve ne erano due. Questo significava che dovevate dispiegare le forze.  
Affidaste la strategia ad Aphrodite e a Kanon. Saga era stato scartato in quanto ancora in terapia. Era stato veramente difficile convincerlo a restare nelle retrovie. L’unico motivo per cui si era piegato era che aveva piena fiducia nelle vostre capacità. In fondo, tutti voi eravate dei Gold Saint., eravate più che sufficienti per difendere le Dee e il Santuario.
Forti di questo pensiero, vi eravate così organizzati tramite le informazioni che il Venerabile Shion vi aveva fornito. Vi eravate divisi in tre gruppi, ma, nessuno di voi avrebbe dovuto sapere dell’altro una volta che i nomi erano stati fatti. Sicché, nel caso fosse comparso Odysseus, anche se vi avesse letto nel pensiero, non avrebbe saputo né dove si trovassero i restanti, né quanti fossero, né chi fossero.
Pertanto, Lancelot, Mur, Shaina, Shun e te, avreste protetto Yoshino. Avevate faticato molto per convincerla a non andare da Astrid quella sera. Yoshino era stata in pena tutto il tempo per la sua amica e sapere questa nuova minaccia la spaventava. Ma aveva capito che era necessario, anche senza l’intervento di Shura. Il quale aveva deciso di restare al fianco della Custode della Luce Ombrosa. Kanon aveva organizzato le forze di modo che i più potenti tra i Gold Saint si radunassero attorno ad Atena, perciò  Shun si era schierato al fianco della Vostra Dea su alle Dodici Case, come avevano fatto anche Shiryu, Hyoga e Seiya.
Milo ti aveva fatto un grandissimo favore a lasciare che Shaina restasse al tuo fianco per stanotte, così avresti potuto proteggere anche lei. Troppe volte avevi temuto per lei e avevi pregato che si salvasse. Anche se era una potente Silver Saint ed eri orgoglioso che una donna così bella, fiera e forte stesse al tuo fianco, non avevi saputo impedirtelo. L’amavi troppo, ecco la verità e per lei avresti combattuto anche con il doppio delle tue forze. Se fosse stata in pericolo saresti corso da lei. Come in Giappone i primi anni passati insieme. La guardasti e, lei, come se avesse percepito il tuo sguardo su di sé, volse il volto mascherato verso di te. Sapevi che anche lei stava ricordandosi di quel giorno che fu mandata a controllare che il Cosmo che aveva percepito fosse effettivamente il tuo. Quello che non si era aspettata, fu anche il primo soldato dell’Altra Dimensione, inviato dall’Antipapa per recuperare la neonata Yoshino.
Quella che sarebbe diventata la tua consorte ci rimase di stucco quando tu la salvasti, seppur sprovvisto di Armatura. ancora di più quando tu ti prendesti cura di lei. Nello scontro aveva riportato qualche ferita. Avevi cercato di darle meno tormento possibile e questo l’aveva sorpresa ancor di più. Anche se indossava ancora la maschera l’avevi capito lo stesso. anche se a volte, nel sonno l’avevi sentita mormorare «Cassios». Ma non le avevi mai chiesto spiegazioni per rispetto.
Con il tempo lei si era aperta un po’ con te e aveva cominciato a darti una mano con Yoshino, che era già vivace all’epoca e, come tutti i neonati, piangeva di notte. 
Non avresti saputo dire quando tra voi fosse scoccata la scintilla, ma, piano piano, grazie anche all’aiuto inconsapevole di Yoshino, capisti di provare qualcosa per la tua sottorango. Avevi sentito molte storie su di lei al Santuario. Ce l’aveva proprio messa tutta per farsi temere e rispettare. Ma non pensavi che nascondesse tanta dolcezza. Pensasti che Seiya fosse fortunato. Avevi visto anche tu la ferita della donna in mezzo alle scapole, laddove la freccia d’oro l’aveva colpita, respinta dal Cosmo di Poseidone, ti disse.
E, fu proprio a causa di Seiya, di quel ragazzino allegro e caparbio che sorrideva quasi sempre, che decidesti di non sfiorarla senza intenti puri. Amava Seiya, si vedeva, anche se le pesava non poterlo raggiungere a Villa Thule.    
Quando i soldati dell’Altra Dimensione erano tornati, guidati da un Silver Saint dal Cosmo tutt’altro che benevolo, rivelandovi chi fosse davvero quella bambina, Shaina ti aiutò. Insieme proteggeste la giovanissima Atena respingendo le forze nemiche.
Solo quando scomparvero lei, per la prima volta, si tolse la maschera di fronte a te. E ti aveva sorriso, timida. Da allora non vi eravate più lasciati.
Ovvio che il vostro amore non aveva precluso il vostro lavoro. Lei aveva addestrato Kouga di Pegasus e tu avevi continuato a vegliare su Yoshino, aiutato anche dal Venerabile Shion, che poi si era messo in contatto con te una volta percepito il tuo Cosmo.
Insieme, voi tre concordaste che quella serie di eventi non era normale. E, presto, vi sareste dovuti ritrovare ad affrontare dei nuovi nemici. Avreste dovuto addestrare qualcuno, ma il Venerabile si offrì di pensarci lui, dopotutto, voi adesso eravate genitori. Anche se non avevate alcuna idea di come avessero fatto a oltrepassare la barriera che separava le realtà. Neppure il Venerabile Shion, che ai tempi era ancora nascosto in un monastero shintoista, una volta terminato l’apprendistato di Kiki, aveva saputo dirvi qualcosa. Ma questo lo scopriste solo nove anni dopo. Fino a quel momento avevi pensato di essere l’unico Gold Saint risorto. E, se c’era qualcuno che, in questo frangente poteva aiutarvi, era proprio lui. In quanto ex allievo di Odysseus doveva aver assimilato qualcosa da lui. E, fu sempre lui a ordire una trappola nei suoi confronti. L’uomo che avreste dovuto affrontare era più infido di uno spirito e astuto come pochi. Non per niente aveva partecipato alla Guerra di Troia e aveva espugnato la città. Avreste usato la stessa tecnica di Mur contro Myu della Farfalla durante la Guerra Sacra per impedirgli di scappare.
«È un rito che non viene più eseguito da tempi immemori, ma è così che la Signora di Avalon eresse la barriera sul Santuario dei Celti durante l’Età del Ferro.» v’illustrò e voi tutti lo guardaste stupiti. Non avevate mai sentito parlare di una tale tecnica, ma poi, lui disse che non era una tecnica bensì magia.
Sgranaste gli occhi: «Ma noi Saint non sappiamo usare la magia. L’unica che potrebbe farlo è Astrid». Obiettò Aiolia ragionevole. Ma il Venerabile scosse il capo, continuando a tenere le braccia incrociate: «Non è necessario l’aiuto di Astrid per questo, basterà il benestare della Dea e la collaborazione di tutti e Dodici, sempre che per la Divina vada bene».
«Fate quello che dovete». Concesse Kanon a nome della Dea. L’uomo annuì e  
Per realizzarlo avreste usato la luce, creando una vera e propria rete luminosa. In base a dove avreste avvertito qualcosa, allora lì avreste trovato Odysseus.
«Venerabile Shion, siete certo di ciò?» Domandò Shura preoccupato facendosi avanti e voialtri lo guardaste. Un unico pensiero vi balenò nella testa: Ionia. Lo chiedeva principalmente per questo.   
Infatti, secondo i piani, fu lui il primo a scendere in campo quando, concentrando i vostri Cosmi

 

«Maestro Odysseus». Salutò il venerabile Shion. Il Cavaliere Maledetto si volse verso di lui.
«La barriera di luce». Commentò. «Non mi sarei mai aspettato che saresti ricorso addirittura a un incantesimo di tale portata pur di trovarmi».
«A mali estremi, estremi rimedi».
«Così si suol dire».
«Dunque adesso immagino che vorrai combattere contro di me».
«Così sembra, venerabile maestro». Odysseus chiuse gli occhi e sospirò: «Così sembra».
Battere un lemuriano nel suo stesso campo era un’impresa impossibile, eppure, il nobile Shion ci riuscì.
L’ex Cavaliere dell’Ariete stava per scagliare il colpo finale quando Odysseus gridò: «Maestro!» Con la voce dell’attuale Gold Saint di Ariete. Il venerabile Shion si fermò. «Kiki!» Esclamò e l’immagine di Odysseus andò in pezzi. Poi, lo scagliò lontano con la sua psicocinesi.
«Venerabile!» Urlaste. Mentre tu e qualcun altro correva in aiuto del Sommo, Odysseus fece per muovere un passo ma Hyoga glielo impedì con il Koliso combinato con il Restriction di Milo.
Anche se non fu lo stesso sufficiente, in quanto il Cavaliere maledetto se ne liberò espandendo il suo Cosmo. Ma non riuscì lo stesso a muovere un passo che si ritrovò imprigionato in un cerchio di sigilli di Atena. 
«Un cerchio di sigilli?» Domandò stupito.
«Precisamente». Asserì Kanon facendo la sua comparsa. «Non avete idea di quanto tempo io abbia atteso per poterli usare».
«Le stesse parole che il vecchio Sage rivolse al Dio del Sonno». Commentò Odysseus.
Il vostro compagno perse i sensi e te lo ritrovasti fuori dall’arena che Kanon aveva creato con i sigilli della Dea. Lo soccorresti chiamandolo ma l’uomo era resistente, infatti, si rialzò a sedere, dolorante.
«Come al solito credi ancora di essere l’unico capace di saper padroneggiare la telepatia».
Il Venerabile si deterse il rivolo di sangue che gli era uscito dalla bocca con la mano. «Ma non sono neanche più lo stesso Cavaliere inesperto che affrontaste quella volta, due secoli or sono». Ribatté il Venerabile assumendo una posizione d’attacco. Il Cosmo ribollente. Nonostante la benda sugli occhi e le protesi bioniche, incuse lo stesso un forte timore. Anche se così menomato, era comunque letale. «Desideri confrontarti con me?»
«No, desidero sconfiggervi, Starlight Extintion».
Ma Odysseus evitò il colpo e ingaggiarono battaglia finché il Venerabile non crollò al tappeto. 
A quel punto si fece avanti Shun. «Vi conosco», lo salutò il Tredicesimo Gold Saint, osservando l’Armatura dell’ex Bronze, «Siete il successore di Shijima di Virgo».
«Se vi ricordate di me, allora sapete anche che non voglio che ci siano spargimenti di sangue».
«Neppure io li desidero». Si accordò il Gold Saint di Ophiuchus, che era pur sempre un medico legato al giuramento di Ippocrate.
«Allora comprenderete bene le ragioni per la quale vi pregherei di tornare nell’Oltretomba e desistere da questa campagna, prima che ci pensino le Creature».

 

«Rolling defense». Odysseus curvò la bocca in un sorriso compassionevole e improvvisamente Shun cominciò ad accusare la fatica e la stanchezza. Crollò in ginocchio mentre la sua difesa rotante rallentava. Non aveva mai sperimentato la forza di Odysseus adesso. Né la sua astuzia. «Che cos’è questa? Perché ho così sonno?»
«Questa è l’Hypnoterapy, buon riposo, Cavaliere di Virgo».
Ma era presto per lui per cantare vittoria. Infatti, il paesaggio attorno a lui cominciò a mutare.

 

Odysseus si guardò attorno non riconoscendo l’ambiente dell’Another Dimension e voi altri lo accerchiaste. Neanche vi guardò. Chiuse gli occhi e domandò, retorico: «Credete che questo possa bastare per imprigionarmi?»   

 

«Non sottovalutare la tenacia dei Cavalieri d’Oro». Lo rimbeccò Kanon, comparendo nelle sue vesti sacerdotali e con decine e decine di sigilli di Atena con sé.
Il Gold Saint di Ophiuchus lo osservò senza battere ciglio. Era come se la presenza di Kanon, attuale Pontefice del Santuario, non gli dicesse niente. E la cosa ti fece preoccupare come poche volte era accaduto. «Credete che sia saggio restare qui a giocare? Aprite gli occhi, non sono io il nemico, qui e, prima che ve ne accorgerete, sarete già in disparità numerica».Vi sgridò Odysseus. E, proprio in quel momento percepiste i rumori della battaglia sottostante a voi. «Per oggi vi lascio andare. Non male, ma, come ho sentito dire spesso, lo spettacolo deve continuare». Si accomiatò il Gold Saint di Ophiuchus. Ciò detto vi dette le spalle e scomparve nell’Another Dimension.
Poi, la tecnica si dissolse e, con essa, anche la presenza del Gold Saint di Ophiuchus.   

 

«Cosa intendeva dire che non era lui il nemico a cui dovevamo prestare attenzione?» Domandasti guardando Kiki. Un lampo passò nelle sue iridi violette e sgranò gli occhi: «Non si stava mica riferendo…»
«Le reclute!» Esclamò Lancelot sgranando gli occhi rossi. E, parte voi che eravate scesi in campo, correste ai dormitori, animati dalla speranza che Odysseus mentisse. Ma così non era stato. 
Tu non avevi combattuto, ma eri stato il primo a giungere al dormitorio e avevi trovato alcuni Bronze e Silver Saint e i soldati semplici stremati e feriti dalla battaglia che si rialzavano o prestavano soccorso ai feriti.
Andasti incontro a Ionia che stava sorreggendo Geki dell’Orsa, che si premeva una mano sulla testa ferita. «Nobile Aldebaran!» Esclamò l’ex Saint di Capricorn vedendoti. «Ionia, Geki, che cosa è successo?»
«Non lo so, a un certo punto siamo stati attaccati».
«Da chi?»
«Dagli Specter».
«Gli Specter? Com’è possibile? Come hanno fatto a entrare nel Santuario? Non dovrebbe esserci la barriera?»
Aiutasti l’ex Capricorn ad affidare Geki alle cure dei medici che erano accorsi e andaste ad aiutare altri feriti. La battaglia era stata così cruenta che parte del dormitorio era crollato, probabilmente alcuni ragazzini erano rimasti intrappolati sotto le macerie. Alla sola idea il cuore cominciò a battere rapidamente e sgranasti gli occhi per la paura. «Non lo sappiamo, abbiamo dato tutti noi stessi per proteggere le matricole».
L’unico motivo per cui le Creature non erano accorse per pasteggiare coi vostri Cosmi, era la presenza di Astrid. Che adesso che aveva sprigionato il suo Cosmo aveva rinforzato la barriera. Ma bastò alzare il naso al cielo, per vederle svolazzare via, oltre la barriera.
Dopo quest’avvenimento, Kiki richiese un colloquio urgente con la Dea e il Gran Sacerdote. Se scopriste ciò che accadde fu solo grazie ad Aphrodite, che s’intrufolò nella Sala delle udienze e, a quel punto, la Vostra Dea chiamò a raccolta voi Gold nella Sala della Meridiana.  

 

Alcuni di voi erano in piedi, mentre altri erano accomodati in terra a gambe incrociate o in ginocchio. Tutti voi formavate comunque una mezzaluna attorno allo scranno della Divina. La quale, assisa sul suo trono di pietra, proprio tra le statue di Pesci e Ariete, vi osservava con aria compassata. Ma il cuore della Divina era grande, potevate solo immaginare quanto per lei tutto questo fosse grave e pesante. Probabilmente lei stessa si stava chiedendo il perché di tutta questa situazione. Ammesso che ci fosse un perché.
Il pensiero ti corse immediatamente a Yoshino e sperasti che stesse bene.  
«La situazione è disperata». Iniziò Kanon senza troppi giri di parole dopo che concludeste il rapporto. Sarebbe voluto partecipare anche Saga, ma era ancora in congedo. Secondo i medici era più importante che mai fornirgli quella sicurezza e quella protezione che non aveva potuto avere in passato, durante la riabilitazione. Saga stava seriamente giocandosi l’Armatura D’Oro nel periodo sbagliato. Possessione demoniaca o no che fosse.
A pensarci ora era un bene che Odysseus non l’avesse trovato, altrimenti avrebbe potuto aizzarlo contro di voi in qualche modo. Non conoscevi il Tredicesimo Cavaliere e, onestamente, non eri neppure certo che rispettasse il giuramento di Ippocrate. Quell’uomo era molto astuto e sapeva come ingannare le persone, si era fatto alleati sfruttando il debito che questi Gold avevano con lui. Ma voi non avevate alcun debito nei suoi confronti.  
L’unica cosa di cui eri certo era che i parigrado di Shaina si stessero occupando di ristabilire l’ordine. Sperasti che Shaina stesse bene con tutto se stesso.
Era facile parlare di Saga, vero? Ma anche tu, mio caro Aldebaran, eri compromesso. Il Toro Selvaggio aveva finalmente un punto debole. «Siamo vulnerabili e le nostre forze stanno calando sempre più rapidamente». Persino voi stessi vi sentivate più deboli e stanchi quando bruciavate i vostri Cosmi per combattere. E la preoccupazione per tua moglie e tua figlia non accennava a diminuire. Ancora una volta il tuo pensiero corse alla tua bambina. Se voialtri avevate manifestato questo problema allora non osavi immaginare quanto potesse essere grave per Shaina e Yoshino. La tua bambina ti sembrava un po’ più spenta rispetto a prima. Che avesse cominciato a manifestare analoghi sintomi?
L’unico che sembrava ancora normale era Shura. Lui c’era abituato da tempo, ormai, a questa situazione di svantaggio. Oltre che a considerarsi già morto da tempo, proprio come un vero samurai. «Stando alle sentinelle sopravvissute, gli Specter sono comparsi dal nulla nel bel mezzo del cortile della Palaestra e da lì si sono diretti ai dormitori. Ma i ragazzini hanno opposto resistenza, questo ci ha dato un leggero vantaggio, prima che gli insegnanti riuscissero ad accorrere». Rispondesti tu.
«Bene, avete un’idea di come siano riusciti a passare?» Chiese il fratello minore di Saga ignorando la faccia scontenta di Aphrodite. Avevate fatto male i conti, non avevate minimamente pensato che i vostri alleati facessero una mossa simile. «No. Ho controllato dappertutto e ho guardato nelle menti di tutti gli abitanti di Rodorio, ma non ho trovato nulla. Quindi possiamo escludere la possibilità di una talpa o di un traditore tra noi».
«Che Odysseus e gli Specter abbiano agito in concomitanza?» Ipotizzò Aiolia uscendo dal suo mutismo per la prima volta da quando la sua squadra aveva fatto rapporto.
«No, non mi è parso, credo che sia stata una coincidenza, altrimenti non avrebbe tradito i suoi alleati».

 

«Stiamo pur sempre parlando di Odysseus di Ophiuchus. É molto astuto, potrebbe averci ingannati tutti».
«No, non credo sia così». Se ne uscì Aphrodite a un certo punto e voi tutti lo guardaste. «Odysseus ha solo agito in concomitanza con loro, perché Astrid si è ricordata di lui solo adesso». Rivelò mentre Kiki lo guardava esterrefatto, ma senza aprire bocca. Erano rarissime le volte in cui il giovane Ariete si sbilanciava a questo modo.
«Sei sicuro, Aphrodite?» Domandò Shura.
«Ma perché gli Specter avrebbero dovuto allearsi con lui?» Chiese Hyoga.
«Non l’hanno fatto, infatti». Replicò il Gold Saint dei Pesci. «Odysseus non può sapere del Patto di non aggressione e di alleanza tra noi e gli Specter perché…»
«Era già morto, allora». Completasti tu e il tuo collega, un po’seccato per quest’intromissione, annuì. Era come se tu gli avessi rubato tutta la scena. 
«Non esattamente». Vi contraddisse Kiki e adesso guardaste il giovane Saint di Aries, che girò la testa verso il giovane Virgo e gli domandò: «Quando è stato stretto il patto, Shun?»
«Sei mesi dopo la scomparsa degli Inferi, perché?»
«Questo conferma le tue supposizioni, Aphrodite. Odysseus non poteva saperlo, ma è possibile che sia risorto in quell’occasione, come Aldebaran avrebbe fatto pochi anni dopo e, si sia nascosto fino alla nascita di Astrid. Ho potuto osservare i ricordi della ragazza, mentre recuperava definitivamente la memoria e ho scoperto che lui l’ha accompagnata lungo l’arco di quasi tutta la sua vita vissuta finora. Le ha persino donato il suo midollo osseo per sopportare peso del suo Cosmo, alla nascita».  
Molti di voi, te compreso, sgranaste gli occhi per questa rivelazione. Finora sapevate che soltanto il suo sangue fosse compatibile con quello delle altre persone, non pensavate che anche altre parti di lui lo fossero. «Le ha donato il midollo osseo?» Ripeté Aiolia in coro con te. Hyoga invece si accigliò: «Perché avrebbe dovuto farlo?»
Aphrodite rispose: «Per il potere che custodisce, mi sembra ovvio; anch’io se scoprissi un potere simile farei di tutto per preservarlo, svilupparlo e accrescerlo e proteggerlo onde evitare che cada nelle mani dei miei avversari». Meditò pensieroso.

 

«Ah, sì, la Luce Ombrosa o quel che diavolo è», fece Seiya, capendo al volo il suo ragionamento.
«Aspetta, ma anch’io le ho donato del sangue dopo la battaglia contro Eris, com’è possibile che sia ancora viva?» S’intromise Milo.«Per di più il suo sangue non mi è sembrato d’oro come narrano le leggende».
Era vero, il sangue di Odysseus era compatibile con quello di tutti gli altri Saint ed esseri umani al mondo, ma non valeva il contrario. Lo svedese meditò su per un po’, ma fu Shun ad aprire bocca e rispondere: «Probabilmente Odysseus deve averle tolto il sangue e sostituito con il suo».
«Oppure, nottetempo, deve averle fatto un’ulteriore trasfusione, di modo che il suo sangue andasse a distruggere quello di Milo».
«E se invece la spiegazione fosse diversa ancora?» Domandò la Vostra Dea, prendendo parola per la prima volta nell’assemblea. «Cioè, che intendete, mia Signora?» Domandò Kanon.  
«Non so come spiegarlo bene visto che sono stata estranea ai fatti fino a questo momento, ma ci provo. Milo, di che colore hai detto che era il sangue di Astrid quando le hai donato il tuo?»
«Rosso». Rispose il tuo collega scoccandole un’occhiata perplessa. La Dea si rivolse al fratello di Seiya. «Shun, tu le hai fatto una visita completa poco tempo fa, le hai anche fatto le analisi del sangue?» Capiste subito dove voleva andare a parare. «Sì, le infermiere che se ne sono occupate sono corse da me spaventate per dirmelo e quando l’ho visto era d’oro. Non come una malattia, non esistono malattie che ti fanno diventare il sangue di questo colore in particolare, ma c’è dell’altro, ho controllato tre volte, sembra che abbia cambiato gruppo sanguigno rispetto alle analisi originarie che le facemmo quando Aphrodite e Death Mask la salvarono. Il suo gruppo sanguigno era B, adesso appartiene allo stesso di Odysseus e di voi, milady». Rivelò, ben conscio di trasgredire il rapporto paziente-dottore.
Tu guardasti Aiolia e Shura; con Astrid, il numero di Saint recanti Ichor nelle vene era aumentato a tre. Non poteva essere una coincidenza.
La Dea spalancò gli occhi e non disse altro, ma a prendere parola furono Aiolia e Seiya, all’unisono: «Questo significa che, volendo…»
«Potrebbe attivare la misophetamenos e potrebbe aver acquisito altre proprietà che prima non aveva». La notizia fece ammutolire tutti voi. La Divina si accigliò pensierosa.
Seiya balzò in piedi, i pugni contratti: «É per questo che finisce sempre per richiamare a sé ogni sorta di nemico? Non è solo per la Luce Ombrosa da lei custodita e le magie che può operare con essa?»
«Temo proprio sia così». Confermò la Dea, dispiaciuta.
«Volete dire che con il recupero della memoria, Astrid ha subito una metamorfosi anche a livello fisico?» Chiosò Shura sgranando gli occhi a sua volta.
«Sì». Mormorò l’erede di Shaka, pensieroso, in vece della vostra Signora. Anche Kanon e voialtri concordaste. «Ma a parte quanto riferito, il suo DNA non ha manifestato modifiche di altro tipo, per adesso». Si sentì in dovere di aggiungere in tono lugubre, quasi più tra sé e sé che a voi. «Non sappiamo se ha ereditato altro da lui». 
«Ma perché adesso e non prima?» Chiese Aiolia guardando Kiki.
«Probabilmente perché qualcuno aveva sigillato i suoi ricordi e rimarginato le sue ferite, può darsi che quando le hanno apposto il sigillo, abbiano anche chiuso le proprietà curative del suo sangue. E lei, da quando ci ha incontrati, ha cominciato a romperlo». Rispose quest’ultimo.
Kanon si volse verso la Dea che sedeva al suo fianco e domandò: «Mia Signora, non sarebbe meglio apporre un nuovo sigillo sulla signorina av Stjernene onde evitare che usi accidentalmente tecniche proibite per un Saint?»
«Vi riferite alla misophetamenos?» Domandò la Dea ricambiando il suo sguardo e il Gran Sacerdote confermò con un cenno del capo. Ma la Somma Dea non fece una piega: «Non c’è di che preoccuparsi, non arriverà a tal punto, solo io posso usare quella tecnica».
Ma il Portavoce di Atena in Terra fece un cenno di diniego e le ricordò, preoccupato: «Non credo che sia il caso di sottovalutarla, ha dimostrato molte volte di riuscire ad arrivare dove i Saint arrivano dopo anni di studio e impegno».  
La Divina non proferì verbo.
«Nei suoi ricordi che fine faceva Odysseus?» Chiedesti allora, tu.
«Non l’ho mai visto nei suoi ricordi, invece ho trovato questo». Rispose Kiki (con la coda dell’occhio ti parve di vedere Shura inarcare un sopracciglio) e vi mostrò uno scorcio di un cielo tempestoso che si apriva a mò di tromba d’aria, per lasciar passare delle catene dorate culminanti con una punta triangolare affilata molto simile alla catena di Andromeda.   
Alcuni di voi si sporsero verso di lui: «Che cos’è questo?», «Una nuova tecnica?», «Che tipo di tecnica?» Kanon rabbrividì e la Dea trattenne il fiato rumorosamente, riconoscendola. «É una tecnica proibita».
«Una tecnica proibita?» Ripeté Seiya e, Aiolia, «Che cos’è?», Milo, «Non ne ho mai sentito parlare prima».
«Esistono delle tecniche il cui utilizzo è stato proibito dalla Dea in persona molto tempo fa. Questo è uno dei misteri cui solo il Grande Sacerdote può accedere, ma non avrei mai immaginato di assistere all’esecuzione di una di esse. É la Moira».  
Milo e Aiolia sgranarono gli occhi, mentre Seiya e gli altri trasalirono. Tu aggrottasti la fronte: «Perché la conosce? È stata lei a evocarla?»
«Non è chiaro, i suoi ricordi sono molto confusi». Si scusò Kiki.
«Cavaliere di Aries, cerca di scoprire qualcosa di più su questa faccenda». Ordinò Kanon, poi prese a darvi istruzioni sul da farsi. Tra cui, proclamare lo stato d’allerta e vi ordinò di tornare alle vostre Case.
Una volta nella tua Casa mandasti a chiamare i tuoi sottoposti tra i Silver, i quali avrebbero provveduto a informare anche i restanti Bronze. Ne erano morti altri da quando Astrid si era ammalata, ed eri preoccupato. Per questo tirasti un sospiro di sollievo mentale quando li vedesti giungere tutti.
Desti loro le disposizioni, dopodiché tu e Milo scendeste a vedere i bambini.
«Adesso dove stanno?» Domandò Milo.
«Sono tutti in infermeria, al momento». Rispose Shun. «Ho finito di visitare l’ultimo poco fa. Sono ancora molto scossi, ma solo pochi hanno riportato lesioni gravi e ancora meno sono morti a causa delle macerie. Ma mi hanno riferito che alcuni sono dispersi». 

 

«Trovateli». Ordinasti in tono spiccio. «Cercate di trovarli il prima possibile». Ti raccomandasti, cercando di mantenere tu stesso una calma che non avevi, sebbene avessi le membra avvolte dalla tua Gold Cloth. Una volta, in Brasile, una chiromante ti aveva spiegato che la tua carta era il Papa. Un baluardo, un qualcosa che ti permetteva di restare retto e saldo, un pezzo degli scacchi, anche. E, in effetti, sembravi veramente una torre dorata.
Ma ora, del Papa, ti sentivi solo l’Armatura e non ti sentivi più tanto retto e saldo come prima.
E se te ne accorgevi tu, era tutto dire. Non che tu fossi un idiota, non lo eri affatto.      

 

Una volta date tutte le disposizioni necessarie ai Silver e ai Bronze, la prima cosa che avevate fatto era stato mettervi immediatamente sulle tracce di Odysseus. Se, come sostenevano i Custodi della Prima e della Dodicesima, Astrid era la sua discepola, allora il suo maestro non era lontano. E, in nome di Atena, era compito vostro trovarlo.
Ma non potevi chiedere questo sacrificio a tua moglie, davvero non potevi. Neanche lo volevi. Il solo pensiero ti distruggeva. E, infatti, non ne avesti bisogno. Perché fu lei a dirti: «So cosa sta succedendo e voglio aiutarvi anch’io». Il suo Cosmo d’argento ribolliva. Era pronta a lottare e a tirare fuori il suo caratteraccio pur di lanciarsi in quest’impresa. 
Nonostante la paura e l’amore che nutrivi per lei e il desiderio di proteggerla, non te l’eri sentita di dirle di no. Anche perché, se tu l’avessi fatto, lei avrebbe ribattuto per le rime. Non era quel tipo di donna che restava a casa a fare la calza mentre il suo uomo era in pericolo.
A questo pensiero un sorriso involontario curvò le tue labbra. Era inutile provare a imporle qualcosa. Solo la  Divina aveva questo potere. «Sei sicura?»
Strinse i pugni con ancora più forza. «Sono sicura».
«Allora vengo anch’io». S’intromise una voce. Vi giraste e vedeste vostra figlia. «Vi prego, posso aiutarvi».
«No, tu non puoi Yoshino».
«Perché no?»
La tua consorte fece per ribattere ma la fermasti posandole una mano sulla spalla. Le avresti parlato tu: «Perché uno degli obiettivi del Gold Saint Maledetto è proprio la testa di Atena e tu sei Atena, è troppo pericoloso. Ho un’immensa fiducia in te, ma quello che ti ho detto quando ho sconfitto Mordred vale ancora».
«Lo so papà, ma…»
«Yoshino, va alla Decima, lassù sarai più al sicuro».
«Non posso, papà, mamma, non posso farlo, non voglio lasciarvi andare incontro al pericolo. Non posso sopportare che voi possiate…» La sua voce si spezzò. «Per favore, non vi sarei d’impiccio».
E così, alla fine, vi eravate arresi. Yoshino era molto meno indifesa della Vostra Dea, inoltre, stando a contatto con Shun e voialtri Gold, aveva imparato a usare un po’il proprio Cosmo. Shura non avrebbe approvato la decisione di Yoshino, ma era meglio che non ne sapesse niente.
«Dove dobbiamo andare?» Domandò la tua bambina.
Per tutta risposta, tu e tua moglie volgeste lo sguardo verso le Case restanti, per la precisione, nell’enorme spiazzo tra l’Ottava e la Nona. Anche se sapevate che Milo e Seiya stavano già monitorandolo. Seiya con particolare attenzione, forse persino più di Milo.      
Tua moglie non amava tornare in questo posto. Non dopo quello che aveva provato a causa del Gold Saint Maledetto ventinove anni fa. Anche se l’aveva salvata Marin, lei si ricordava tutto fin troppo bene e, se avesse potuto, il Gold Saint sarebbe finito ben volentieri preda dei suoi artigli. Dopotutto lei era pur sempre Shaina, la donna nelle cui unghie dimora il fulmine.
E, colei che non era mai stata insignita ufficialmente del titolo di Cavaliere d’Oro in quanto, non avesse mai risvegliato il Senso Supremo.
Risaliste le Case senza troppi problemi. Alla Quarta trovaste Lancelot e Sirrah. Lancelot decise di accompagnarvi e lasciaste la custodia della Casa a Sirrah che, per quanto inquietante fosse, era un ex Gold Saint.
Alla Quinta Aiolia cercò di farvi desistere dal salire e mancò poco che si scatenasse una Guerra dei Mille Giorni, se Yoshino non lo avesse convinto a farvi passare. Alla Sesta Shun si limitò a dirvi di stare molto attenti e a Yoshino di usare il suo Cosmo per difendersi. A quel punto, Yoshino decise di restare alla Sesta. Se necessario vi avrebbe aiutati a distanza con l’aiuto di Shun. E tu fosti grato all’ex Bronze per l’aiuto. Odiavi ammetterlo, ma in questo momento era l’unica difesa più grande di cui disponevate. Alla Settima Ryuho e Paradox cercarono di farvi desistere ma Shiryu vi accordò il permesso, guidato dalla Bilancia.   
Il vero problema, dopo Aiolia, sarebbe giunto adesso.
Milo era uno dei primi che poteva ritrovarsi ad affrontare il Gold Saint decaduto. Appena metteste piede nella sua Casa vi venne incontro. «Non posso lasciarvi passare». Annunciò. Aveva già capito i vostri intenti. Gli era bastato uno sguardo, uno solo, soprattutto a Shaina, che era la sua seconda in comando. «Nobile Scorpio…» Iniziò lei.
«No, la mia risposta è no, non possiamo sapere quando attaccherà, l’unica cosa certa è che probabilmente se lo farà si manifesterà qui e servirgli su un piatto d’Argento il suo successore e la Divina Atena è una mossa idiota». Non avevi pensato che anche Milo fosse a conoscenza di questa storia ed era ovvio che fosse preoccupato per tua moglie. Eri felice che anche a lui importasse qualcosa e anche un po’geloso. Nonostante che sapessi che lui glielo stava impedendo per te.   
Eppure, alla fine, anche Milo fu costretto a farvi passare. Seppur con riluttanza. Non approvava per niente il piano di usarla come esca, anche se usciva dalla testa della medesima Shaina.
Perciò adesso eravate qui.
Sembrava quasi di entrare in un’altra dimensione. Ti stupisti a pensarlo tu stesso. Non ci avevi mai fatto caso prima, in tutti questi anni di servizio e, ora, ti domandavi come fosse stato possibile. Eppure era così evidente.
Ogni suono all’interno di questo posto ti sembrava più ovattato, ogni cosa sembrava che avesse occhi per scrutarvi. In quel momento ti ricordasti che i serpenti erano al servizio di Odysseus e che erano loro che trasportavano e custodivano la sua Gold Cloth. «Fate attenzione, il Cavaliere Maledetto ha potere sui serpenti, potrebbe averne messi alcuni di guardia in questo posto». Ti raccomandasti, anche se erano animali a sangue freddo ed era più facile incontrarli di giorno che di notte.
L’aria stessa sembrava viva ed era calda, come il respiro di una persona. L’atmosfera stessa era satura di Cosmo. Le rovine che si confondevano con il paesaggio sotto la luce delle stelle e delle fiaccole, emettevano ondate di Cosmo.
Guardasti tua moglie preoccupato. «Tutto bene?» Le domandasti sfiorandole un braccio con il dorso della mano. Lei sussultò. Poi ti guardò e annuì. Con la maschera non riuscivi a capire che cosa pensasse. Lei, che era trasparente e fragile come il cristallo, così facile da leggere senza la maschera. Ma con quella ritornava la vecchia, potente Silver Saint che diede parecchio filo da torcere a Seiya e compagni prima di dichiararsi per via della legge delle Sacerdotesse-Guerrieri.  
«Sì».
«Tu pensi che lui possa essere qui?»
«Deve essere qui per forza, avverto il suo Cosmo aleggiare da queste parti».
«Ti chiama ancora?»
«No. Non sta chiamando me. Questo Cosmo mi riconosce, mi sfiora e mi passa accanto, ma non sta chiamando me». Rispose sollevata. Ma il sollievo durò poco, perché se il bersaglio non era lei, «Allora chi?» “Che stia chiamando Astrid come sostiene Aphrodite? Oppure peggio, nostra figlia?” Entrambe erano candidate probabili per una sua eventuale chiamata. «Speriamo che non chiami Yoshino».   
«Dunque questo era il Tempio del Santo d’Oro d’Ophiuchus?» Domandò Lancelot, raggiungendovi. Sembrava uno scolaretto in gita e, di quelli piuttosto rumorosi e fastidiosi. Era come se stesse cercando di attirare l’attenzione.
Shaina strinse i pugni lungo i fianchi, poi guardò il paesaggio circostante e rispose: «Sì, sono proprio queste le rovine».
«Sono ribollenti di energia». Costatò lui rabbrividendo. Eppure neanche così il suo sorriso folle fu sostituito da un’altra espressione. Era come se ne fosse estremamente affascinato.  
Improvvisamente vi rendeste conto di camminare sull’acqua. Abbassaste i piedi e vedeste il liquido.
«Mi dispiace per voi, ma non posso permettervi di avanzare oltre».
«Cosa?»
«Lancelot! Che diavolo stai facendo?»
Il Lost Saint del Cancro sogghignò mentre usava la sua tecnica mortale. «Mi dispiace, ragazzi, mi era stato detto che dovevo portarvi qui e così ho fatto». Ribatté in tono leggero, come se parlasse di sciocchezze.
«Fatto? Perché?» Esclamò Shaina.
Lui sogghignò e vi puntò l’indice contro: «Sekishiki Mei Kai Ha!» Esclamò e la sua tecnica vi colpì.
«Lancelot!» Gridaste prima di essere colpiti. Ti parasti davanti a tua moglie, facendole scudo con il tuo corpo, ma quello che otteneste fu solo di essere spintonati. Shaina si aggrappò a te per non cadere e tu puntasti le gambe per tenerti in piedi, anche se l’onda riuscì comunque a piegarti.  
Vi guardaste e lei annuì rispondendo alla tua muta domanda. Tirasti un sospiro di sollievo e poi vi volgeste entrambi per affrontare il Lost Saint che vi osservava soddisfatto con un pugno sul fianco. Un sorriso sornione, quasi pazzo, dipinto in faccia.
«Lancelot! Che razza di scherzi sono questi?» Sbottaste in coro e Shaina fece per avvicinarsi al Lost Saint quando fu sbalzata indietro da un muro invisibile e tu le impedisti di cadere acchiappandola al volo. Lei si portò una mano al volto coperto dalla maschera e poi si rialzò. Segno che stava bene. Entrambi a questo punto cominciaste a battere i pugni contro la barriera. Ma era come abbatterla su un muro di stoffa elastica che assorbiva ogni vostro colpo senza tuttavia lacerarsi. «Facci uscire!», «Abbassa la barriera!»
Lui curvò la bocca in un sorrisetto beffardo. «Desolato, ma non posso, lui mi ha chiesto di portarvi qui e io l’ho fatto».
«Lancelot!» Ruggì Shaina con più foga. Ed entrambi pensaste a Yoshino. Ora che voi eravate qui lui… No! Non dovevate pensarlo, voi sareste usciti da qui.
«Di chi stai parlando?» Domandasti tu. Poi sentiste il sibilo. Abbassaste lo sguardo e vedeste che il lago velenoso che delimitava il velo si trasformò in una fossa di serpenti che traboccò e gli animali cinsero la zona costringendovi ad arretrare. Soprattutto Shaina che era più vulnerabile di te. Tu nella tua Armatura eri al sicuro, la sua non la copriva interamente. Le lasciava scoperto il collo, la testa i fianchi, le cosce, le braccia e, soprattutto, le gambe e i piedi.     

 

Anche bruciando il Cosmo, per ogni serpente che si allontanava o veniva fatto a pezzi, due prendevano il suo posto, come le teste dell’Idra. Non aveste altra scelta che arretrare, tu soprattutto per proteggere Shaina. La quale non disse niente e si limitò a tenere d’occhio i serpenti.
Vi ritrovaste circoscritti in una circonferenza dal diametro di cinquanta centimetri, quando una voce profonda e tranquilla ordinò: «Lasciateli». Giraste le teste nella direzione della voce e, vedeste, in piedi tra le rovine, a due metri di distanza, un uomo di dieci centimetri più basso di te. Pur avendo smesso i Panni d’Oro di Ophiuchus, nulla perse la sua aura. Emanava ancora carisma e potere, un magnetico mix che solo voi sapevate di poter esercitare. Questa era la prova che era come voi, un vero Gold Saint. La chioma indomabile ed eccezionalmente lunga ti ricordò tantissimo la chioma di Medusa dei miti. Non riuscisti a capire di che colore fosse perché alla luce della falce di Luna, sembrava completamente bianca come la tunica a mezze maniche lunga fino alle caviglie che indossava. Sulla spalla sinistra era drappeggiato un mantello che si allacciava diagonalmente al torso tramite la cintura di corda, somigliante a una fusciacca.

 

I serpenti obbedirono e si ritrassero, nascondendosi nelle ombre fino a tornare un tutt’uno con esse, come se non fossero mai esistiti.
Ti tornò in mente una leggenda a proposito di un condottiero greco che, in barba alla legge della lealtà, decise di attaccare l’esercito nemico di notte ed ebbe l’idea di cospargere sé stesso e il suo esercito di polvere bianca, facendosi passare per spiriti. Impressione rotta soltanto dal colore scuro dei bracciali che, interrompendo quel candore, facevano presagire che le mani fossero una cosa a parte rispetto al resto del corpo. Ma non era solo questo, c’era qualcos’altro: un’aura di morte e distruzione, ma anche di pezzi ricuciti insieme come il mostro di Frankenstein.
Il vostro avversario se ne accorse, perché puntò i suoi luminosi occhi dorati su di te e domandò, tranquillo: «C’è qualcosa che non va, Gold Saint di Taurus?» Proprio allora comprendesti, sgranando i tuoi occhi azzurri e per poco non arretrasti: quei bracciali ti ricordavano delle manette. Era come se si fosse portato dietro dall’Oltretomba i resti delle catene che lo tenevano imprigionato.    
Da quel poco che riuscisti a scorgere comprendesti di aver davanti un Saint. E, non uno qualunque, dal Cosmo corrotto che emanava, capisti che fosse un Gold Saint.
Anche se non potevi vederlo bene in viso a causa della distanza, il suo sguardo lo percepivi benissimo, come anche il colore luminoso dei suoi occhi. Era come se avesse dei fanali gialli al posto delle iridi.
Si sedette sul masso, portandosi più in ombra rispetto a prima, accentuando l’idea che ti eri fatto di lui. Il suo Cosmo d’oro corrotto cominciò a vibrare nell’aria circostante.
Ora più che mai percepiste tutta la pericolosità e la potenza di quella persona. Per lui non eravate nulla di più che semplici burattini che avrebbe potuto spezzare con estrema facilità.  
«Odysseus di Ophiuchus». Esclamò tua moglie, accorrendo rapidamente.
Ti girasti verso di lei e tendesti un braccio come a fermarla: «Sta indietro Shaina!» Urlasti e lei trasalì e si fermò di colpo, restando però in posizione di attacco. «Non ti permetteremo di prendere la testa di Atena». Minacciò da lì, mentre Odysseus osservava la scena impassibile.
«Ma io non sono qui per la sua testa». Rispose quest’ultimo senza scomporsi. «La sua testa non m’interessa, ma se serve per raggiungere i miei scopi, allora la prenderò di nuovo».
Tornasti a voltarti verso di lui. «Non ti conviene scherzare con noi, tutto il Santuario sa che sei qui, i miei colleghi della Nona e dell’Ottava sono pronti a intervenire per arginarti e così anche tutti gli altri e il Lost Saint dell’altra dimensione può rispedirti da dove sei venuto».
«E, palesando il mio Cosmo avete rilevato tutti la mia posizione, capisco, guardate in basso». Lo faceste e vedeste numerosi serpenti tutti attorno a voi sibilare e schioccare le mascelle. Cercasti di arretrare. Accidenti, dovevate aspettarvelo che Odysseus di Ophiuchus non si sarebbe mosso da solo. Ma non pensavi che i suoi serpenti sarebbero sbucati anche di notte. I serpenti erano creature a sangue freddo, di notte dovevano dormire, no?
Anche Shaina si ritrovò circondata. La sentisti rifugiarsi su un masso per sfuggire agli aspidi.
«Non mi fanno paura i tuoi servitori e loro non possono perforare la mia Cloth». Dichiarasti spavaldo, in una passabile imitazione di Aiolia. 
Il Gold Saint di Ophiuchus incrociò le caviglie sulla roccia cui si era appoggiato e ribatté, lentamente: «La tua no, ma la sua sì». Sgranasti gli occhi quando capisti a chi si stava riferendo e che cosa stesse guardando. Shaina per quanto potente fosse non poteva controllare i serpenti e, anche il Bronze Saint di Serpens sotto questo punto di vista era inutile. Maledisti te stesso per non aver dato retta a Milo.
Il cuore ti batté più rapidamente in petto per la paura.
Girasti repentinamente la testa verso tua moglie e la vedesti che cercava di arretrare dai serpenti: «State indietro! Indietro!» Urlò cercando di tenerli d’occhio più che poteva. Sarebbe bastato un morso su una coscia o su un braccio per metterla fuori dei giochi. «Shaina!»
Lei mise un piede in fallo e cadde a terra. I serpenti si gettarono sibilando addosso a lei e tu facesti per precipitarti in suo soccorso ma altri serpenti ti sbarrarono la strada, comparendo da sopra i massi all’altezza delle tue dita. Già, anche la tua Sacra Armatura aveva un punto debole e, non erano le corna in questo caso. «Non è una mossa saggia voltare le spalle a un avversario». Soffiò Odysseus in tono flautato.
Digrignasti i denti: aveva ragione. Ti ritrovasti diviso tra il tuo dovere e salvare tua moglie, girato di tre quarti, con gli occhi che saettavano da lei, che lottava a l’altro che osservava la scena tranquillo.    
«Non pensare a me!» Ti gridò lei e il Gold Saint catturò nuovamente la tua attenzione dicendo: «Puoi stare tranquillo, non le faranno niente di male. Ho detto loro di immobilizzarla, non di attaccarla».
«Che cosa vuoi?» Esclamasti. 
«Dov’è la mia allieva? Ditemelo o prenderò la testa della Nostra Dea». Minacciò. 
«Dovrai passare sul mio cadavere per riuscirci!» Esclamò tua moglie. “Shaina!” La chiamasti con il Cosmo e lei ti sentì e rispose “Cosa c’è?”
“Se continueremo a combattere alla cieca non riusciremo mai a uscire”. Lei digrignò i denti, frustrata. Non era una persona paziente ed era molto impulsiva. “Lo so”. Ammise, ragionevole, nonostante l’ira e la frustrazione per la propria incapacità. 
Non vi sareste mai arresi. Mentre Shaina provava a sfondare il muro con il suo Thunder Claw tu ti girasti ad affrontare Odysseus. «Vuoi combattere contro di me?» Chiese quest’ultimo, simulando uno stupore che non provava affatto. Tu sottolineasti le tue intenzioni assumendo la posizione d’attacco del Gold Saint del Toro. Odysseus chiuse gli occhi per un momento e sospirò. «D’accordo, se è questo ciò che desideri». Poi la sua figura si illuminò completamente di una luce dorata e, quando la luce scomparve, indossava i Panni Dorati dell’Ophiuchus e riaprì gli occhi, adesso rossi come il sangue.
«Fermi! Basta!» Esclamò la voce di Yoshino. Vi giraste e la vedeste correre da voi, accompagnata da Milo.
«Yoshino! Cosa ci fai qui?»
«Vattene! Non è posto per te, questo!»
«Voi siete la Divina Yoshino di cui ho tanto sentito parlare». Costatò il Gold Saint di Ophiuchus, incuriosito. Lei ricambiò il suo sguardo e confermò. «E voi siete Odysseus di Ophiuchus, il maestro di Astrid av Stjernene».
«Per servirvi». Disse cerimoniosamente quest’ultimo, disegnando un piccolo inchino, portandosi una mano al petto. Poi tornò dritto e voi riprendeste a urlare alla vostra bambina di fuggire da lì. Eravate così spaventati che non vi accorgeste neanche che i serpenti erano arretrati da lei, come tenuti a bada dal suo sublime Cosmo.   
«Nobile Odysseus, ascoltatemi, so che avete servito fedelmente il Santuario e vi sono grata per aver protetto la mia amica, ma tutto questo non è necessario, non è necessario far sprofondare il mondo in una nuova Guerra Sacra, ditemi che cosa volete».
Il Gold Saint la fissò per un po’ prima di rispondere: «Divina Yoshino, il vostro coraggio è ammirevole e si vede che tenete veramente ai vostri genitori e a tutti i Saint, anche se non appartengono alla vostra dimensione d’origine. Trovo tuttavia ridondante da parte nostra arroccarci dietro sciocche convinzioni e belle parole quando quello che desidero sappiamo entrambi qual è. Ho saputo che è sotto la vostra ala protettrice, dunque è a voi che debbo rivolgermi allora».
«Astrid è sotto la protezione di tutto il Santuario, non solo della mia». Dichiarò. Ma non ebbe il tempo di dire altro che Lancelot le fu alle spalle, la trasse a sé e minacciò di decapitarla con una mano, strappandole un grido di orrore: «Desolato, miss Yoshino». Scherzò costui.
«Come vedete, Lady Yoshino, non c’è spazio per le trattative. Spero che perdonerete l’irruenza del mio compagno, ma abbiamo fretta».  Si scusò il maestro di Astrid. Lancelot si accodò a lui nelle scuse: «Mi dispiace tanto, milady Yoshino, ma devo farlo».      
«No!» Urlaste entrambi e, stavolta, l’ira e la paura furono sì tante che tu e Shaina, combinando il Thunder Claw con il Great Horn, riusciste a lacerare, quel tanto che bastò, il Velo per sfuggire alla trappola del Lost Saint. Anche tu ti muovesti per seguirla, ma una morsa impedì ogni tuo movimento: «Dove vai, Cavaliere? Avevi detto che avresti combattuto contro di me». Chiese retorico il tuo avversario e tu, comprendesti che ti aveva bloccato tramite i suoi poteri telepatici. Sgranasti gli occhi spaventato: fino a questo momento non pensavi fossero così forti.
Il quale si staccò immediatamente da Yoshino sgranando gli occhi rossi per lo stupore. Yoshino cadde a terra e Shaina cercò di colpire il tuo parigrado ma questi, una volta ripresosi dalla sorpresa, la mandò al tappeto con una manata di taglio dietro alla testa.
«Shaina!» Urlasti tu, che non eri stato altrettanto veloce e Odysseus ti aveva costretto all’immobilità. «Mamma!» Strillò Yoshino spaventata. Poi ti sentisti sollevare per aria e trasalisti. Yoshino se ne accorse e girò il volto verso di te: «Papà!» Gridò mentre Odysseus ti trascinava di nuovo al centro del ring delimitato dai massi e dai serpenti.
Cercasti  di divincolarti, bruciasti il tuo Cosmo per sciogliere la sua presa mentale e ci riuscisti perché cascasti a terra. Ma non facesti in tempo a rialzarti che ti ritrovasti la mano di Odysseus a un palmo dal viso e un improvviso torpore s’impadronì delle tue membra. Nello spazio tra le sue dita, vedesti il Gold Saint, di nuovo con gli occhi gialli dalla pupilla serpentina e un mezzo sorriso malefico dipinto in volto. «Buon riposo». Ti augurò.
Fu allora che comprendesti che non avevi affatto sciolto la sua tecnica. Mentre le tenebre dell’incoscienza ti chiamavano a sé, lui ti girò attorno e ordinò ai suoi sottoposti di controllarti.
Anche se la presa del Cosmo di Odysseus era molto forte, cominciasti a lottare contro il suo effetto.
Balbettasti il nome di tua figlia quando ti girasti e cominciasti a strisciare verso Odysseus. La stanchezza ti appesantiva le palpebre e le tue membra erano come addormentate e prive di energia. Non riuscivi neanche a bruciare il tuo Cosmo.
L’uomo dai lunghi capelli bianchi e il manto stracciato e sporco si avvicinò sempre più a tua figlia, che guardava atterrita la scena, chiamandoti a gran voce. Cercasti di rialzarti ma ricadesti subito a terra.
Proprio allora i serpenti di Odysseus si avvicinarono sibilando a te e, per puro miracolo, riuscisti a evitare che una di quelle creature ti azzannasse al volto. Arretrasti. «Yoshino».       
Odysseus fece per avvicinarsi a vostra figlia e tu gridasti: «Yoshino!» Improvvisamente un rettangolo di luce si palesò tra di loro, assumendo la forma della Morte nell’immaginario collettivo, se non fosse stato per le grandi ali d’angelo che si ergevano dietro la sua schiena.
Mulinando la sua falce a manico lungo, allontanò Odysseus che fece un balzo indietro per schivare i fendenti. Anche tu ti fermasti mentre il nuovo arrivato cinse le spalle di Yoshino con un braccio scheletrico e la trasse a sé, strappandole un gemito sorpreso.
«Yoshino!» Esclamasti.
«Papà!» Rispose lei mentre, ti accorgesti che gli orli del manto della Morte risplendevano dei bagliori fosforescenti di Astrid. Li stessi che avevi visto quando lei sciolse la tecnica pietrificante di Argor di Perseo.
Yoshino si rese immediatamente conto che la Morte Alata era giunta in suo soccorso e smise di temerla.  
Odysseus si allontanò di scatto, sì come Lancelot. «E tu chi sei?» Domandò mentre con la Dark Resurrection si rimarginava la ferita che questa persona travestita da Morte ritraeva la sua falce dalla lama insanguinata. Vostra figlia urlò, ma poi, si accorse che questo nuovo venuto risplendeva di un lieve bagliore come quello di un Cosmo d’Oro. Ma la Morte? Cosa c’entrava con Astrid se… ti tornò in mente che lei era una lettrice di Tarocchi. Da quel poco che sapevi, la Morte faceva parte del mazzo.
Oppure era solo uno scherzo dovuto allo stato in cui vertevi, che era molto simile alla paralisi del sonno. L’energia silente che permeava quelle figure era la stessa di questo nuovo venuto. Ma allora… «Astrid!» Esclamasti. E Yoshino, udendo quel nome, smise di urlare e dimenarsi. «Astrid?» Ripeterono Lancelot e Odysseus guardando la figura incappucciata. Anche se quest’ultimo lo disse più come se se lo fosse aspettato. Un sorriso sinistro affiorò sul suo volto, mentre si rilassava. Come aveva saputo? Eppure ti avevano detto che era in astanteria perché ammalata a causa di una carenza nel suo sistema immunitario.
Carenza che, evidentemente, non aveva influito sulla Luce Ombrosa.
Dopotutto, anche se un’apprendista Astrid era una di voi, era ovvio che cercasse di proteggere Yoshino. Anche se non eri sicuro che lo facesse solo per dovere. Era come se, così facendo, Astrid vi stesse dando il via libera per combattere senza remore. Soprattutto a te, in quanto la Morte poi si spostò e, raccolse anche tua moglie, che, superato il primo istante di timore e stupore, allacciò un braccio al collo di vostra figlia. La quale prese a chiamarla ripetutamente, rassicurarla su questa nuova protettrice e, a cercare ferite su di lei. Che, per contro, cercò di tranquillizzarla.  
Rassicurato da questa visione, riprendesti a bruciare il Cosmo con più forza e ti scrollasti, con uno sforzo sovrumano, gli effetti di quello di Odysseus da te. Il quale se ne accorse e si tolse da lì prima che tu lo raggiungessi con il Great Horn.
«Mia Signora!» Esclamò Lancelot e avanzò verso di lei, ma la Morte, continuando a cingere madre e figlia, mosse la falce verso di lui, costringendolo a restare dove si trovava. Il Lost Saint sibilò di dolore e su una delle sue guance si aprì un taglio rosso gemello di quello che si colorò subito sul suo braccio sinistro.
Yoshino sussultò, guardò la figura e, aggrappandosi al manto nero, prese a supplicarla: «Astrid, non lo uccidere!»
Ma la Morte restò impassibile e continuò a tenere d’occhio il Lost Saint.
Shaina si sfilò dall’abbraccio protettivo della carta di Astrid e prese Yoshino in braccio: «Io la porto al sicuro!»
«Vai!» Le urlasti di rimando e Shaina si girò e corse via mentre tu e la Morte vi sareste occupati di questi avversari. O almeno così credevi ma la Morte puntò la falce verso di te. Spalancasti gli occhi colto alla sprovvista. «Astrid! Che stai facendo? Aiutami a sconfiggerli, non…!» Non facesti in tempo a finire la frase che dovesti evitare il fendente della falce con un salto. «Astrid! Si può sapere che ti prende?» Urlasti quando atterrasti su un masso.
Perché adesso si ribellava contro di te? Che fosse stata tutta una trappola e avesse deciso di ucciderti già in partenza? Poteva anche essere, dopotutto tu eri la persona più vicina a Yoshino insieme a Shaina. Ma perché fare fuori prima te invece di lei che era meno potente? «Stai dalla parte di Odysseus?» Gridasti alla Morte Alata che continuava a incombere su di te, costringendoti ad arretrare passo dopo passo.
Preso com’eri a schivare quei fendenti, ti accorgesti solo troppo tardi che ti aveva costretto a imboccare le scale e stava costringendoti a scendere.
Lo capisti quando sentisti il Cosmo stupito e allarmato di Milo.
«Ne ho abbastanza, Great Horn!» Urlasti e le scagliasti addosso quest’attacco, che fece scomparire la figura della carta e, così, tornasti alle rovine. Lì ritrovasti i due avversari, ma, prima che potessi colpirli, Lancelot fece per colpirti di nuovo con L’Onda Infernale, che stavolta evitasti. Meno male che il dolore delle ferite gli impediva di ragionare lucidamente come prima. «Lancelot! Lo stesso attacco non funziona più di due volte su un Saint!» Gridasti, ma non potesti lo stesso fare molto perché ricomparve la Morte che, con un frullo d’ali si frappose di nuovo tra te e i tuoi avversari prima di scagliarsi addosso a Lancelot.          
Il quale, continuandosi a tenere il braccio ferito, cominciò a ridere dapprima sommesso e poi sempre più sguaiato. Soprattutto quando utilizzò il proprio potere per evitare un fendente della figura e riapparve su un masso più distante.
Temporaneamente al sicuro, rovesciò la testa indietro e rise «Mi senti, Astrid? E’ un ottimo potere, ma è inutile! Anche se hai la Luce Ombrosa, resti sempre un’apprendista che non ha risvegliato il Settimo Senso! Spade dello Tsei She Ke!» Urlò e la Morte finì tagliuzzata dall’attacco di Lancelot. L’energia di cui era costituita riassunse la forma di una carta d’energia grande cinquanta centimetri e larga trenta e volò via. Lasciando tua moglie e tua figlia alla sua mercé.
Questa non ci voleva. Pensavi che la Luce Ombrosa fosse invincibile, ma nessuno di voi aveva mai provato a contrastare il suo potere. Questa era una pecca mastodontica nella vostra difesa. «Astrid!» Urlasti in coro con tua figlia che cercò di liberarsi dalla stretta di Shaina, senza successo.
«Non temere per lei, sta benone». Vi rassicurò il Lost Saint. «Ho solo annientato il suo incantesimo, non la sua persona».
Ma la carta non se ne era ancora andata. Infatti s’alzò di quota e, disponendosi orizzontalmente s’allargò per calare su di voi come un telo. Vi riparaste tutti la testa tra le braccia e, improvvisamente, i serpenti scomparvero e tu ti ritrovasti di nuovo nel Mondo dei Vivi.
Odysseus continuò a restare appoggiato alla colonna mentre l’energia defluì, si sollevò, riacquisì la sua forma di Morte alata con la falce e si scagliò contro di lui. Il quale evitò l’attacco con un movimento che ricordò quello dei serpenti.
Ma il suo bersaglio non era stato il suo maestro, eri tu. Aveva, infatti funto da diversivo per permettere a una seconda figura, il Sole, comparire e irradiare improvvisamente la sua luce su di voi, costringendovi a chiudere gli occhi. Nel mentre ti irradiava percepisti in quella luce anche il Cosmo della Vostra Dea. “Divina Atena?” Pensasti stupito mentre la sua energia ti rinvigoriva. Era impossibile che appartenesse ad Astrid, ogni Cosmo è unico, proprio come la persona cui appartiene e, questo, era senza dubbio quello della Divina. Quando scomparve, però, sentisti il torpore che, finora avevi combattuto, abbandonarti e la tua energia scorrere di nuovo nelle tue vene.
Dopodiché questo scomparve e, con esso, anche il Cosmo purificatore della Dea.    
Sentisti emettere un verso al tuo avversario. Ti rialzasti e lo guardasti, sembrava divertito dalla situazione.        
Non potevate andare avanti così. Odysseus ti era superiore sopra ogni senso. Dovevi tentare un’altra strada. La strada della diplomazia. Anche se era difficile, ma dovevi riprovare.
«Fermati, risolviamo questa faccenda in un altro modo! Non voglio passare mille giorni a combattere contro di te. Dimmi che cosa vuoi, Odysseus?»
«La mia richiesta è molto semplice, voglio la mia discepola, consegnatemela e tutto finirà».
«Cosa le vuoi fare?»
«Semplicemente guidarla verso il suo destino. Ora dimmi dov’è».
«E farla diventare un ricettacolo per il tuo spirito? Giammai».
Il Tredicesimo Gold Saint assottigliò gli occhi, adesso rossi e ripeté: «Dov’è?»
«Non te lo dirò mai».
«Potrei provare a rintracciarla io, se permettete». S’intromise Lancelot, continuando a sorridere beffardo. «Dopotutto, io sono una delle persone che meglio la conosce, posso immedesimarmi in lei e trovarla». A questa notizia strabuzzasti gli occhi. Anche così poteva effettivamente essere trovata.
«Perché lo fai, Lancelot?» Urlasti e l’ex Cavaliere della Tavola Rotonda ti guardò impassibile, quasi infastidito e tu, continuasti: «Perché lo fai? Lei è una tua amica! Perché la tradisci?»
Quest’ultimo ti guardò simulando sgomento: «Ma non è da adesso che lo faccio. È da un po’che sono a conoscenza dell’esistenza del signor Odysseus».
«Cosa?»
«É da molto tempo che sono al corrente dell’esistenza del Signor Odysseus, in effetti sono stato il primo di voi a trovarlo» e ti mandò un’immagine, un suo ricordo. Di sé stesso che camminava per i sentieri tra le montagne fino a giungere in una radura erbosa e parlare con Samael. Uno dei serpenti messaggeri di Odysseus.  
E anche a nasconderlo finora. Ecco perché non l’avevate mai trovato. Non era solo perché era un fantasma. Neanche Kiki, che era capace di vedere cose che nessuno poteva, soprattutto legate alle Cloth, era mai riuscito a individuarlo tramite essa. Lancelot l’aveva schermato. «Tu, hai fatto il doppiogioco per tutto questo tempo?» Urlasti allora, mentre Lancelot si poneva al fianco di Odysseus. La cosa che vi sorprendeva era che il Lost Saint non avesse ancora perso la sua Cancer per un simile tradimento. Neppure Death Mask arrivò mai a tanto.
«Scusate, miei cari, ma non ho potuto fare a meno di ascoltare la richiesta d’aiuto del mio socio». Si scusò l’ex Cavaliere della Tavola Rotonda, sfoderando il suo sorriso beffardo.
«Come hai potuto, Lancelot? Yoshino si fidava di te! Noi ci fidavamo di te!» Urlasti, ma le tue parole non lo scalfirono affatto. Il traditore alzò le spalle e le lanciò un sorriso beffardo: «Che vi devo dire? Ho il cuore tenero e non sono riuscito a restare impassibile alla toccante storia del Tredicesimo Cavaliere».
Improvvisamente Shura ti mandò un messaggio tramite il Cosmo: “Aspetta Aldebaran, non muoverti, non fare niente”.
“Perché?”
“Non è veramente qui, i nostri attacchi gli passerebbero soltanto attraverso”. 
Non ascoltasti altro che Odysseus esclamò: «Basta così, bambini impertinenti, ve lo ripeto un’altra volta; dov’è la mia allieva? Che cosa le avete fatto?»
«Lei è al sicuro, perché, cosa vorresti farle, tu? Vuoi usarla come ricettacolo per il tuo spirito corrotto? Traviarla e far sì che porti a termine la missione della tua maledizione? Non te lo permetteremo mai». Esclamò di nuovo Shaina, ottenendo soltanto di fargli curvare le labbra in un sorriso di compatimento.
«Vedo che non me lo volete dire, d’accordo, non mi lasciate altra scelta: se entro la prossima luna piena non mi sarò riunito a lei, allora assalirò il Grande Tempio e prenderò la testa di Atena, come nel XVIII secolo. Queste sono le mie condizioni, o la mia allieva oppure la Nostra Dea, cosa scegliete? Buona decisione e, vi avverto, non sono un tipo molto paziente». Poi si dissolse nell’aria e non vedeste più nessuno. Anche Lancelot sembrava essere scomparso.
Solo allora percepisti il tumulto nei Cosmi alla Palaestra. Che cosa stava succedendo?
Ti rialzasti e corresti in quella direzione superando tutte le Case. Quando arrivasti vedesti i sottoposti di Shura cercare di radunare e rassicurare i bambini nei loro pigiamini. Shaina, in particolare, aiutata da Yoshino, stava cercando di tranquillizzare una bambina in lacrime che continuava a urlare: «Dov’è mia sorella? Dov’è mia sorella?»
Ti avvicinasti e Shaina ti raccontò tutto, dopo averti domandato se tu stessi bene. Yoshino continuò a tenere la bambina stretta a sé ma era felice di vederti sano e salvo. Non ti pose domande, dal tuo sguardo capì che era il caso di parlarne in un altro momento.
«Come si chiama tua sorella?» Domandò Shura, comparendo accanto a voi all’improvviso, facendovi sussultare.
«Saoirse». Poi corse via e tu lo seguisti.
«Cosa fai qui Aldebaran?» Ti domandò mentre correvate fianco a fianco per le strade e spiccavate un balzo per raggiungere i tetti e saltare da lì in poi, di tetto in tetto, all’inseguimento dello Specter.
Shura lo individuò contro luce della Luna e scagliò uno dei fendenti ma tu lo bloccasti: «No, rischi di colpire la bambina!»
«Il tuo compagno ha ragione!» Lo schernì lo Specter e Shura digrignò i denti. Il problema era che entrambi non disponevate di tecniche di cattura.
L’unico che poteva effettivamente fare qualcosa era… “Rientrate, ci penso io” Ecco, appunto.
“Sei sicuro, Kiki?” Domandò Shura e al suo assenso disse “Ok, tu intrappolalo, noi ci occuperemo di salvare la bambina”.
“Va bene”.
E, immediatamente, la barriera della Dea venne rinforzata dal Crystal Wall. Vi accorgeste, però, che circondava tutto il Santuario come se fosse stata una gabbia in alcuni punti. Ma non aveste il tempo di domandarvi perché in quanto individuaste Myu vicino alla Prima Casa e, un secondo dopo, anche verso Rodorio e, poi, anche verso i sentieri che collegavano il Santuario alle montagne. Vi fermaste sulle rocce. «Che sta succedendo?»
«Myu non può uscire da qui, è in trappola, sta sicuramente giocando con la nostra mente». Disse Shura scrutandosi attorno con aria frustrata. Non aveva mai amato i giochi di pazienza quando non aveva tempo. La fretta era il suo tallone d’Achille ed era palese che lo Specter ci stesse giocando, in quanto era riuscito addirittura a farvi percepire il suo Cosmo in tre, no, quattro, cinque, punti diversi. «Che cosa sta facendo?» Domandasti preoccupato, guardandolo, «É come se si stesse comparendo in più punti».  Non potevate neanche focalizzarvi sulla bambina, in quanto il Cosmo di entrambi rimbalzava nella Trappola di Cristallo eretta da Kiki. “Kiki, distruggi la trappola ad aree, altrimenti non riusciremo a localizzarli!” Ordinò Shura. “Ma se lo faccio scapperanno!”
“Non c’è scelta, fallo!” Il lemuriano obbedì e, tu e Aldebaran vi lanciaste all’inseguimento dello Specter dai poteri psichici.
E lo trovaste che stava cercando di portare via la ragazzina. Shura ingaggiò battaglia con lui, intanto che tu andasti a controllare la seconda zona dove si era elevato il Cosmo e avevi capito dove cercare, perché rilevasti anche la presenza dei soldati e dei sotto rango, che cercarono di impedire la fuga allo Specter.
«Fermati, Myu della Farfalla!» Esclamasti allo Specter che teneva tutti lontano da sé con le Fairy evocate direttamente dagli Inferi. Alcuni sottoposti erano a terra, privi di vita. Conoscevi il suo nome perché Kiki nell’ultima riunione ne aveva parlato, a proposito della sua pericolosità. 
«Il lemuriano è scaltro, ma non quanto me». Commentò lo Specter quando ti vide arrivare. Come aveva fatto a indovinare che ve ne aveva parlato Kiki? Era la prima volta che lo vedevi. Era alto pressappoco quanto Mur, ma aveva i capelli di un altro colore e scuri. Non era un lemuriano. La cosa che ti colpì era che era un giovane di bell’aspetto. Era come se per gli Specter il tempo non esistesse neanche, dal momento che costui non dimostrava più di diciannove anni. Ma quello che ti sorprendeva di più, era proprio la sua Surplice. Adesso capivi perché si chiamava così; aveva la forma di una farfalla. Come tale, sulla sua schiena si aprivano delle grandi e variopinte ali dalle listature evidenziate di nero. I suoi occhi erano scuri, come se fosse sprovvisto di sclera.
«Libera subito la ragazzina».
«Desolato ma debbo rifiutare la vostra proposta, il Cavaliere di Aries non ha rispettato gli accordi, pertanto noi siamo autorizzati a prenderci quanto ci spetta».
«Gli accordi?» Ripetesti accigliandosi.
Lo Specter ti guardò simulando stupore. «Oh, non ditemi che non lo sapevate, mi dispiace per voi». Ma era comunque uno Specter quello che stava parlando, non potevate fidarvi a priori di costui. Ma, proprio come scopristi quando ti scagliasti addosso a lui, ne risultasti scagliato immediatamente di lato. «Spiacente, Cavalieri, ma non mi lascerò abbattere una seconda volta come ventinove anni or sono». Sogghignò mentre ti rialzavi. L’avevate sottovalutato. «E, a differenza di allora, il mio Cosmo è notevolmente aumentato, Fairy degli Inferi». Al suo ordine, le farfalle che finora avevano svolazzato placidamente qui e là, ti si scagliarono addosso e tu fosti costretto a usare il Great Horn per liberartene. Ma quando la strada fu libera, scopristi anche che lui era scomparso.  
Proprio in quel momento, Kiki distrusse una delle barriere e sentisti Shura combattere contro lo Specter.
Accorresti in suo aiuto e lo trovasti sul fondo di un crepaccio che saltava di roccia in roccia alla ricerca della bambina in mezzo a (sgranasti gli occhi) bozzoli di seta di ogni dimensione. Ma, tutto quello che vedesti fu il tuo commilitone gridare il nome della piccina che era stata risucchiata nel bozzolo di Myu della Farfalla. E questi? Da quanto tempo erano qui? Improvvisamente percepiste un barlume del suo Cosmo. «Saoirse!» Esclamò lo spagnolo e si precipitò a tagliare la seta ma, quando lo fece, il bozzolo si rivelò essere vuoto. Lo Specter della Terra Misteriosa aveva già trasportato la piccola aspirante Saint negli Inferi.

 
Camus
Avevate lasciato la Foresta Rossa da un paio di giorni. Tu non ti ricordavi come, dal momento che avevi perso i sensi a metà del pomeriggio del primo. Intuivi solo che era stato Shaka a trasportarti. Per quanto Lady Asia fosse stata forte, dubitavi seriamente che il tuo collega avrebbe lasciato che s’incaricasse di tale compito. Poi con l’Armatura non eri mica leggero.
Ma Shaka sicuramente non aveva accusato alcuna fatica. Lo stesso che adesso se ne stava placidamente in meditazione, sotto la finestra della stanza del vostro albergo a pochissime stelle. Non avevate fatto niente, in realtà, ci aveva pensato Lady Asia sfruttando una tasca temporale che aveva creato per l’occasione. In pratica occupavate la stanza ma non potevate interagire con i loro effettivi inquilini. Il che era fastidioso, ma era comodo ed era un bene. Anche se eri separato dal tuo corpo, ne avvertivi tutto il peso. Non amavi troppo questa sensazione, ti sentivi un fantasma, Lady Asia invece, sembrava esserci abituata. «Non guardarmi così» Ti ammonì, quando avevi capito come era riuscita a procurarsi questa stanza, da quel poco che ti aveva raccontato Shaka. Non avresti mai pensato che sarebbe ricorsa alla magia in mancanza di un portafogli con soldi, documenti e carta di credito.
«Non approvo il metodo, ma neanche lo posso disapprovare». Commentò solo Shaka. «Non potevamo lasciarti all’aperto, avevi bisogno di un posto caldo dove riprenderti».
Proprio allora la Dea era uscita dal bagno e aveva replicato, dopo averlo fulminato con lo sguardo: «Potrei dire la stessa cosa anche di te, perciò non ti atteggiare, anche tu sei nella sua stessa situazione».
«Mi permetto di dissentire, milady». Replicò il tuo collega volgendo il volto verso di lei, sempre tenendo gli occhi chiusi. «Noi Cavalieri d’oro siamo addestrati a sopportare fatiche ben peggiori di queste».
La Dea tacque e ascoltò impassibile tutto il sermone del tuo collega. Quando finì sorrise con aria scaltra e posò una mano sulla maniglia per appoggiarcisi: «Grazie, Shaka, ma si dà il caso che tu ti riferisca alla vostra condizione originaria, qui siete spiriti e con un evidente calo di energia, o vuoi forse nascondermi il fatto che ti tremano le gambe da quando abbiamo combattuto contro l’Astronauta? Dì la verità, è stato sfiancante anche per te combattere con due Guardiani. Non mi sorprenderei neanche se tu avessi riportato delle ferite che ti ostini a nascondere sotto l’Armatura». Cloth che, per inciso, non si era tolto. «In più, ci terrei a farti notare che la meditazione non nutrirà mai il tuo corpo spirituale come il cibo, quindi te lo sogni di meditare a tempo perso finché avrai di nuovo fame; se muori in questo stato, considerati morto per sempre, reincarnazione o no di un Illuminato che tu sia e, finché sarete sotto la mia tutela, col cavolo che vi lascerò morire di fame. Non ci tengo ad avere anche voi sulla coscienza».
Un pesante silenzio scese su di voi come una cappa. Non sapevate questo. O meglio, tu sì, l’avevi intuito, dal momento che ti veniva fatto recapitare il cibo ogni volta che finivi le scorte nella tua izba nel Cocito. Ma non sapevi che fosse anche per questo. Avevi immaginato che fosse per via del fatto che la Dea non volesse che vi alimentaste del cibo dei morti per le vostre anime, ma non che ci fosse anche questo motivo dietro. Né, francamente, avevi idea di quanto tempo avesse effettivamente passato Shaka senza nutrirsi.
Lo guardasti preoccupato. Lo vedesti sforzarsi di mantenere il tono e l’espressione neutra, mentre diceva: «Anche se fosse», ammise il tuo commilitone, dopo quella che ti parve una lunga lotta con sé stesso, «in India, la mia terra d’origine, ci sono persone capaci di sopravvivere senza mangiare e senza bere; io sono capace di meditare per giorni e giorni».
Lady Asia gli scoccò un’occhiata scettica e annoiata, come se avesse sentito questi discorsi per anni e li avesse bollati come un delirio allo stato puro. Tu eri indeciso se ridere o se accodarti al parere della Dea. Per una volta concordavi con lei. Incrociò le braccia e sospirò, appoggiandosi allo stipite con una gamba incrociata sull’altra: «Lo so, anch’io sono indiana». Stavolta entrambi sollevaste le sopracciglia. «Allora, vuoi continuare a elencarmi le prodezze del nostro Paese oppure la pianti e adesso ascolti me?» Così vi aveva istruito sul da farsi. In quanto spiriti non potevate nutrirvi di energia, quelli erano anime cannibali che era meglio non incrociare mai sul proprio cammino.  
Strano ma vero, vedesti il tuo collega incassare chinando il capo. Checché ne dicesse sul Nirvana, era ancora molto legato alla vita, anche come spirito, per scomparire in essa. Infatti, disse, in tono conciliante: «Vi ascolto».
La giovane vi spiegò come fare per procurarvi da mangiare. Vi sarebbe bastato scendere nelle cucine e prendere ciò che volevate senza timore di ciò che sarebbe successo. E qui entrambi vi accorgeste del sorriso che fiorì sulla sua faccia e del brillio divertito delle sue iridi scure.
Che vi stesse prendendo per i fondelli?
Il pensiero ti corse di nuovo all’esplosione di Cosmi che avevate avvertito e le parole di Lady Asia in merito.
Come faceva a dire che quei Cosmi terrorizzati stavano affrontando la Luce Ombrosa? Voi non ne sapevate niente e, soprattutto, non avevate sentito il fantomatico Cosmo che si era risvegliato.
Apristi la porta e facesti per uscire. A trarti da questa riflessione ci pensò il tuo collega che, disse: «Voi non venite?» Domandò Shaka girando il volto verso di lei. Ti girasti a tua volta.
Lei si stiracchiò sulla sedia e scosse il capo, continuando a sorridere sorniona: «Tra poco, ora non ho voglia». Non avevi mai visto la Vostra Dea in atteggiamenti come questo, non ne avevi avuto proprio in tempo. Distogliesti lo sguardo, imbarazzato: la Vostra Dea non si prendeva tanta libertà con voi e, poi quella scollatura era indecente perfino per una Divinità, nonostante che la collana d’argento con il pendente che le scendeva tra i seni e si tuffava sotto il tessuto, (ormai l’avevi capito) serviva a sorreggere la camicia, probabilmente anche i lembi e ad evitare che si scoprisse più del dovuto. Come una sorta di zip a cui erano stati tagliati i lembi del tessuto.
Fino a questo momento non ti eri accorto del corpo della Dea, ma adesso fu impossibile non notarlo e distogliesti lo sguardo, imbarazzato, pregando che Shaka non se ne accorgesse.
«Come volete», disse quest’ultimo, apparentemente ignaro di ciò che ti passava per la testa. Dopodiché ti superò. Apriste la porta, più per effettiva abitudine che per reale necessità (anche se anime vive non eravate sicuri di poter oltrepassare la materia, almeno durante la battaglia avevate appurato che non era così). Mentre scendevate, però, ti sovvenne un altro pensiero, più impellente; ma Shaka sapeva come rapportarsi con le persone?
Vero che avevi vissuto a lungo al Santuario, però era anche vero che tu avevi sfruttato in un modo più produttivo del suo la vostra libertà data dalla carica. Era risaputo, infatti, che voi Gold godevate di molta più libertà di un semplice Saint. E tu eri entrato in contatto con la società, sapevi come funzionava, non eri così tagliato fuori dal mondo come sembrava all’apparenza. Shaka, sotto questo punto di vista, era messo peggio, lui non aveva neanche la tessera sanitaria. Tu avresti, al limite, dovuto rinnovare la tua e inventarti qualcosa di credibile per giustificare una resurrezione. Il tuo compagno della Vergine, invece, era completamente digiuno di queste cose. Dopotutto lui era la reincarnazione di Buddha, cosa vuoi che se ne facesse un illuminato di queste bazzecole?
Queste bazzecole potevano rappresentare un enorme problema.
Ti appuntasti mentalmente di domandargli se avesse una vaga idea di come funzionasse la società umana in generale, onde evitare disastri. Guardasti in faccia la realtà, tra la Dea Azona e Shaka, non avresti saputo dire chi dei due fosse più disadattato dell’altro.     
«Qualche problema?» Ti domandò il tuo commilitone.
«No, nessuno».
Shaka, a quel punto, fece un timido tentativo di conversazione, infatti ti domandò, in tono mite: «E’ per via di quello che è successo nella Foresta Rossa?»
«Eh? No, è tutto a posto». A dir la verità, adesso che avevi dimostrato a te stesso che eri capace di superare questo e altro, eri molto più tranquillo di così. Gli gettasti un’occhiata da sopra una spalla: «Piuttosto, Lady Asia ha trovato quello che doveva cercare?»
«Sì».
Lo guardasti vagamente stupito: «Ah, non erano i due Guardiani?»
«Non solo. Aveva perso una cosa molto importante in quella foresta».
«Ah, e tu l’hai vista?»
«Naturalmente».
«E che cos’era?»
«Una penna». Rispose semplicemente.
Vi fermaste per lasciar passare una coppia che entrava nel ristorante e ne approfittasti per lanciargli un’altra occhiata, per vedere se ti stava prendendo in giro. Ma era difficile stabilirlo da un’espressione neutra e pacifica come la sua. Decidesti di accontentarti di questa sua versione. Una penna, ok… doveva essere qualcosa che aveva un grande valore sentimentale per lei, altrimenti non ne vedevi la ragione.
Arrivaste nella cucina dell’hotel e vi scambiaste un’occhiata, vabbè, parolone, dal momento che l’altro continuava a tenere gli occhi chiusi. Poi, prendeste quello che volevate, come vi aveva detto Lady Asia.
Una volta che faceste ritorno in camera, lei vi spiegò questo fenomeno raddrizzandosi dalla sedia. «Questa si chiama clonazione». Rispose alle vostre mute domande, continuando a sorridere divertita, quando vi vide tornare sconvolti e vagamente colpevoli, con il cibo. Inspirò e continuò: «Gli spiriti hanno la facoltà di clonare quello che desiderano, che sia cibo, vestiti, telefoni, libri. Quella di cui vi nutrirete in questo caso, è l’essenza del cibo che avete estrapolato dalla materia. In altre parole è come se vi nutriste dell’idea in sé di cibo che avete preso». Gettò un’occhiata al piatto e inarcò un sopracciglio: «Vorrei anche dirvi cosa avete preso, ma non conosco la cucina di questo Paese». Guardasti i piatti, a occhio sembravano una zuppa e degli arrosti con condimento di verdure.  
«Anche le persone?» Domandaste in coro.
«No, quello no». Poi si alzò e si avviò verso la porta.
«Dove andate?» Domandò Shaka perplesso. Lei lo guardò da sopra una spalla e sorrise: «A prendere qualcosa da mangiare».
«Perché non siete scesa con noi?»
«Ho pensato che sarebbe stato meglio non affossare troppo il vostro orgoglio. Con le facce che sicuramente avrete fatto, sarei scoppiata a ridere senza ritegno alcuno». Ridacchiò maliziosa.
«Non siamo così permalosi». Le facesti notare, cercando di non sembrare troppo imbarazzato. Ma davvero, non sapevi come comportarti con questa Dea. Shaka invece era diventato rosso come un pomodoro.
Quando uscì dalla stanza lo guardasti e facesti per dirgli che la sua fiamma era un tipo malizioso, ma lui lo intuì e ti sibilò: «Non dire niente».
Attendeste che la Signora tornasse prima di cominciare a mangiare. Restò abbastanza stupita dalla cortesia che le riservaste. Era come se non fosse abituata ad avere a che fare con altri esseri viventi in generale. Comunque mangiò insieme a voi. Tu avresti preferito di no, anche se non lo desti a vedere. Non ti fidavi ancora di Lady Asia. Dopo quello che aveva fatto era impossibile per te non guardarla con sospetto: non era da tutti organizzare a tempo di record una trappola come quella e menarvi tutti per il naso. Avevi creduto davvero che fosse morta, ma non ti immaginavi potesse essere così subdola.
Eppure, da quando avevi combattuto nella tasca temporale e avevi sconfitto il tuo vecchio demone, ti sentivi più rincuorato. Sì era strano a dirsi, però era proprio così. Eri ancora ben lungi dal non temerlo, ma almeno adesso, sapevi di avere i mezzi per sconfiggerlo. Avresti tanto voluto dirlo a Milo, eri sicuro che lui sarebbe stato orgoglioso di te. Ti avrebbe sicuramente regalato un sorriso smagliante, si sarebbe posto le mani sui fianchi e avrebbe detto: “Era ora, amico mio! Ero sicuro che ce l’avresti fatta!” Che, nonostante il carattere brusco, era anche il più premuroso e giocherellone tra tutti voi.
E al pensiero del tuo amico un sorriso si delineò sul tuo volto, facendoti persino dimenticare dove ti trovavi e con chi.

Quando scese la notte, da bravi Cavalieri (di nome e di fatto) lasciaste il letto alla Lady. E da qui si generò un piccolo battibecco su chi avrebbe lasciato il letto a chi. «Io sono abituata a dormire per terra». Vi disse scoccandovi un’occhiata perentoria. Ma Shaka insistette altre due volte e, solo allora lei cedette. Così voi vi prendeste il pavimento e la poltrona, un’altra volta.
Solo quando foste certi che si fosse assopita chiedesti spiegazioni al tuo commilitone. «Perché Lady Asia è rinata in India; da noi si usa rifiutare fino a due volte prima di cedere a un invito». Ti spiegò serafico. E tu che credevi che fosse un disagiato. «Di solito è anche disdicevole stare nella stessa camera di una fanciulla». Aggiunse dopo qualche secondo, come se ci avesse pensato.
«Questo lo è un po’dappertutto, ma credo che a lei non importi più di tanto».
«Piuttosto, cosa ne pensi?»
«Di cosa?» Gli domandasti smettendo di grattarti la fronte.   
«Di tutta questa storia».
«Sinceramente non so ancora che pensare e, tu? Lo sapevi che esistevano questo genere di Divinità?»
«Francamente ho sempre avuto il sospetto che ci fosse qualcosa che non andasse, ma non mi sarei mai immaginato una schiera di Divinità capaci di controllare il Tempo e, creature ancora più potenti dei Titani». Già, i Guardiani. Se ci pensavi non avevi ancora recuperato tutta la tua forza. Il riposo a cui ti eri sottoposto non ti aveva giovato molto. Se tu da Redivivo eri capace di tutto questo potere non osavi immaginare i Guardiani, dal momento che, quando eravate usciti dalla tasca temporale, era ancora in forze e illeso. Persino nel suo Cosmo non avevi avvertito tracce di fatica per tutta la durata del combattimento. E, anche Shaka se ne era accorto. Ti appoggiasti allo schienale e gli domandasti: «Che cosa intendi con qualcosa che non andasse?»
«Non ti sei mai accorto che c’erano delle incongruenze di fondo in tutto?»
«Incongruenze?»
«Sì, come se ci fossero stati dei buchi nella trama, non so come spiegarlo bene, ma prova a immaginare la Storia del Santuario come una storia di quelle che puoi leggere nei libri.» Annuisti e lui riprese il discorso, «Ora ripensa a tutto quello che è successo fino a qui. Non noti anche tu dei buchi?»
«Sì, ma questo perché noi abbiamo una percezione relativa della realtà. Noi siamo individui che possono conoscere solo ciò che gli è utile di sapere, se non abbiamo interesse a conoscere altro, allora non ci premureremo mai di scoprirlo e, quel qualcosa resterà sempre sconosciuto alla nostra persona. Per esempio, per ogni cosa che so, ce ne sono altrettante e anche di più, che non so».
«Giusto, ma questo perché la nostra percezione è più limitata rispetto all’insieme, se volessimo conoscere tutto l’insieme, dovremmo essere nella testa e nelle vite di otto miliardi di persone, Divinità, animali e piante compresi». Rilevò. Non capivi perché stesse usando su di te la tecnica della maieutica socratica (l’arte di Socrate di far partorire le anime), ma stesti al gioco, incuriosito. Anche perché era la prima volta che avevi una conversazione con Shaka. «Ma tu che sei un Illuminato che cosa hai visto?»
«Visto è una parola grossa, non è che ho visto, è che ho intuito e non sono neanche sicuro dell’esattezza e della veridicità di ciò che ho percepito». Lo guardasti stupefatto. Questa poi, Shaka, che credeva di avere la verità assoluta, incerto. Il biondo inspirò prima di cominciare a spiegare: «Da quando siamo risorti per la terza volta e abbiamo combattuto nella Guerra contro il Gran Dio Zeus, siamo entrati in contatto con altre realtà parallele. Noi stessi, attualmente, ci troviamo in una realtà alternativa, creata dalle azioni degli Dèi e dalla fine del conflitto tra le due Dimensioni. Io e Mur ne abbiamo parlato tanto, allora e, siamo giunti alla conclusione che i portali come questo non si aprono da soli e, che esiste sempre una causa. Ti dirò di più, hai presente l’elenco dei nostri predecessori?»
«Sì, certo».
«Ti sei accorto che nello stesso periodo c’è stata una “mattanza”?»
«Ti riferisci alla Guerra Sacra del Millesettecento?»
«Proprio quella».
«Bè, è normale in Guerra…»
«Sì, in Guerra lo è, ma non prima e non nell’èlite». Era normale in tutte le caste che qualcuno cercasse di fare l’arrampicatore sociale e di accumulare ancora più potere. Ma che fosse successo questo, non tanto. «Stai parlando del tradimento di Zaphiri di Scorpio e la morte di Lugonis di Pisces?» Tentasti.
«Anche. Non so se lo sai, ma quando eravamo vivi, bè, più vivi di adesso, l’archivista dei Saint, la Bronze Saint di Horologium, stava investigando proprio su questo periodo».
«D’accordo, ma perché darsi la pena di investigare su una Guerra Sacra?»
Quello che disse ti lasciò completamente spiazzato: «Perché Atena rinasce ogni cinquecento anni, non duecento».
«Cosa?»
«Sì, segui il mio ragionamento, la Divina Atena rinasce ogni cinquecento anni, proprio come una fenice. In questo secolo è rinata nel Millenovecentosettantatre, ricorda molto il dio indù Vishnu, che si reincarna periodicamente per salvare il mondo dal Chaos, ma anche Gesù Cristo, dal momento che è una sorta di Messia e, stando alle leggende, la sua prima impresa è stata la lotta con Lucifero. Ma, quel cinquecento, ricorda anche un’altra creatura leggendaria».
Ti ci volle un po’ per capire che si riferiva a «La Fenice». Infatti, la Fenice rinasceva ogni cinquecento anni in un Tempio a Eliopoli. E se la  Fenice avesse semplicemente cambiato residenza? E, qui, Shaka, sganciò la bomba: «Allora perché ci sono documenti che attestano la sua rinascita ad altri periodi della Storia, intermedi a questo ciclo di incarnazioni cinquecentenari?»
«Tu cosa pensi che voglia dire?»
«Probabilmente che nel Millesettecento non ci fu solo una “mattanza”, ma che ci sia qualcos’altro che ci hanno nascosto finora».
«Secondo me non può essere così. Pensaci, è facile, muoiono i precedenti maestri dei Cavalieri che combatterono la Guerra Sacra e gli succedono quelli che combatterono al fianco di Sasha».
«Sei sicuro che sia andata così?»
«Sì, certo».
«Allora perché in un lasso di tempo così breve ci sono Mistoria e Degel di Aquarius? Perché tu sei stato addestrato da Mistoria e non da Degel? Perché Death Mask è stato addestrato da DeathToll di Cancer invece che da Manigoldo? E perché, persino io, nelle mie generazioni precedenti, ho come predecessori Shijima il Laconico e Asmita nello stesso anno?» Il discorso di Shaka stava prendendo una piega inquietante. «Cosa vorresti dire?»
«E se ci fosse stata una scissione negli eventi, che ha portato alla formazione di due realtà parallele che poi si sono unite?» Non ti era inusuale parlare di questo, a seguito della tua rinascita ci avevi riflettuto molto anche tu, assieme a Milo, quando non eri in compagnia di Hyoga e della tua nipotina. Ma se ciò che avevate ipotizzato allora si fosse verificato molto tempo prima non l’avevi mai ponderato.
Spalancasti gli occhi: «Una scissione Spazio-Temporale? Ma per avere una cosa simile bisognerebbe…»
«Viaggiare nel Tempo». Disse per te. Anche un bambino con un minimo di fantasia ci arrivava. Ok, no, forse un bambino con un’intelligenza media no, ma uno prodigio come voi dodici sì. Inspirò e continuò: «Se non ti ricordi la Divina lo ha fatto per salvare Pegasus e noi l’abbiamo seguita». E, questo ve lo ricordavate perfettamente. In quanto di nuovo spiriti, eravate capaci di ricordare ciò che avevate fatto in questa forma, avevate anche i ricordi di Asgard e della Guerra Sacra contro Zeus, ma, riconoscevi anche tu, che vi mancava un pezzo. «Però non sono più tanto sicuro del fatto che ci siamo riusciti in virtù del Cosmo e del nostro legame con la Dea». Concluse, pensieroso.
«Credi che qualcuno ci abbia aiutati, quella volta?» Domandasti preoccupato. Questo significava che c’era qualcosa di ancor più pericoloso di quello che avevate affrontato, nell’Oltretomba.
Shaka ci pensò. C’erano numerosi buchi nei vostri ricordi. Ora cominciavi a sospettare che non fosse solo l’incoscienza della morte o la memoria che, a volte, doveva dimenticare alcuni passaggi per evitare di ingolfare il cervello. E, finalmente, comprendesti dove volesse andare a parare. «Tu credi che dietro tutto questo ci sia lei?» Domandasti accennando a Lady Asia addormentata sotto le coperte.
«É possibile, in fondo può manipolare il Tempo».
«Ma non può viaggiarci dentro, voglio dire, come farebbe?»
«Forse può».
«Che te lo fa dire?» Chiedesti. Non ti saresti mai aspettato che Shaka mantenesse una certa lucidità mentale in presenza della Dea di cui si era infatuato. Questo significava che non si fidava completamente di lei, sebbene lei desse invece l’impressione contraria. Altrimenti perché avrebbe dovuto accettarlo come compagno di viaggio ed estendere anche a te la sua protezione, se non si guardava al Patto? Perché ti aveva mostrato quella parte di sé? Ti era sembrata troppo sincera per essere una bugiarda.      
«Hai presente le nostre tecniche? Non trovi che somiglino un po’alle magie del Tempo che lei è in grado di operare? Bene e, se avessero una base comune?»
«Una base comune? Non mi sembra che lei abbia la forza per congelare gli atomi, può solo rallentare il tempo, oppure accelerarlo e creare tasche temporali e illusioni solide.» Elencasti alzando gli occhi a destra, poi tornasti a guardare lui: «Mi sembra che ci sia una sostanziale differenza tra congelare e decelerare soltanto, inoltre, il ghiaccio e il Tempo sono composti di sostanze completamente diverse. Al limite è Saga quello che potrebbe avere più tecniche in comune con lei. Nei ranghi inferiori l’unica che mi viene in mente che possa avere qualche attinenza con lei è la Bronze Saint di Horologium, però non penso che possa effettivamente usare i poteri di cui decanti. Ma dimmi, che somiglianze hai rilevato tra le tue tecniche e le sue?»
«Ancora non lo so, sento di essere vicino a comprenderlo, ma non so cosa possa essere».
«Poniamo il caso che tu abbia ragione, a che cosa serve la Luce Ombrosa e questi Guardiani? Da dove vengono queste Creature?».  
«Non ti saprei proprio dire». Ammise. Poi girò il volto verso la Dea girata sul fianco: «Tuttavia, credo che la Sua comparsa non sia casuale come può sembrare come neanche, questo senso di famigliarità che sentiamo per lei. Provi lo stesso anche tu, no?» Confermasti, anche se non con la stessa intensità che invece provava Shaka. Se no, non avresti pianto per lei quando avevate creduto che l’Astronauta l’avesse uccisa. Non eri così debole, ma, di fronte a un’ingiustizia, anche in momenti simili, ti infuriavi come pochi al mondo. Invece quelle lacrime erano state una rivelazione. Avevi scoperto di volerle bene, come se fosse un’amica. Ora lo capivi. Altrimenti, non ti saresti confidato così facilmente. Stare insieme a lei ti era famigliare, un po’come con Milo, lo percepivi sulla tua pelle questo senso di sicurezza che emanava. Però non ricordavi dove l’avessi incontrata e perché. Era questa la cosa che ti angosciava, e se si fosse rivelato tutt’un inganno? Dovevate essere prudenti. Pertanto chiedesti: «Cosa suggerisci di fare?»
«Per ora aspettiamo e vediamo il da farsi, non possiamo elaborare delle congetture con  così pochi elementi a disposizione».
«D’accordo, cominci tu il primo turno di guardia?»
«Non credo che sia necessario, queste tasche temporali ci schermano in tutto e per tutto, ma, se ti fa piacere, d’accordo».
«Svegliami, mi raccomando».
«Contaci».           
Allora chiudesti gli occhi e cercasti una posizione più comoda sulla poltrona. “In che cosa siamo coinvolti?” Pensasti prima di lasciare che il sonno ti avviluppasse nelle sue maglie e ti portasse nel suo mondo incantato.    

 

Sognasti di ritrovarti di nuovo nell’accampamento di Lady Pandora e vedesti la piccola Fianna, poi, vedesti un’orca nuotare nella terra della Foresta Rossa, fendendola come fosse acqua. Poi l’orca aprì le fauci e ti svegliasti madido di sudore con un gemito, raddrizzandoti di scatto sulla poltrona. Il tuo scatto fece destare anche Lady Asia, che, si girò verso di te e, fece aprire gli occhi a Shaka: «Che è successo?» Ti chiesero, lui sussurrando incuriosito e lei preoccupata.
«Un incubo, solo un incubo».
«Lo stesso?»
«No, ho sognato, un’orca».
«Un’orca?» Domandò Shaka inarcando un sopracciglio.
«Sì, era… tutta nera, metallica». Facesti portandoti una mano alla testa, mentre cercavi di calmare te stesso. Il cuore batteva furioso tra le tue costole.
Lady Asia disse, senza staccarti gli occhi di dosso:  «Dove?»
«Come?» Domandasti togliendo la mano, guardandola. Non aveva acceso la luce. Quella della luna, che filtrava dalle finestre era sufficiente a illuminarla, mentre ti guardava, seduta sul letto.
«Dove era la balena? C’era anche altro nel sogno?»
«Sì era… qui».
L’Azona trasalì.
«Milady?» Domandò Shaka confuso. «Raccontami tutto il sogno, sbrigati».
«Perché, Milady? Era solo un sogno».
«Ho un brutto presentimento, ecco perché». La accontentasti e lei, dopo averti ascoltato in silenzio, si rilassò e disse: «Stai tranquillo, era solo un incubo». Le chiedesti se fosse sicura e lei confermò dicendo che non c’era niente di cui preoccuparsi. Poi gettò un’occhiata alla radiosveglia e  si passò una mano tra i capelli striati d’argento per ravvivarli e s’infilò di nuovo la tiara: «Non mi rimetto a dormire, non ne vedo il motivo visto che tra cinque minuti sarebbe dovuto cominciare il mio turno di guardia».
«Ma, mia Signora…» Protestò debolmente il tuo collega. «No, Shaka». Lo fermò con dolcezza, «Ho riposato anche troppo a lungo».
«Ma…»
«Potreste restare almeno a letto».
«Perché mai? Sono tutta intorpidita». Commentò prima di nascondere uno sbadiglio dietro la bocca e stiracchiarsi come un gatto. E, se tu facesti del tuo meglio per non guardare all’altezza del suo petto (era pur sempre una Dea, in fondo e, poi eri dritto davanti a lei. La stessa lei che poteva reagire malissimo se se ne fosse accorta) Shaka invece, un occhio ce lo buttò eccome, approfittando della penombra. Tu la penombra la ringraziasti per celare invece il tuo rossore e anche qualcos’altro.
Distogliesti lo sguardo lanciandolo altrove e, ti accorgesti dell’occhiataccia fulminante che ti lanciò il tuo collega della Vergine. Perfetto.
In ogni caso, non riposasti granché lo stesso, anche durante il giorno. Anche se la Dea ti aveva assicurato che non era niente, tu non eri convinto. Avevi un brutto presentimento, per questo, mentre Shaka dormiva (nello stesso letto precedentemente occupato dall’Azona, che glielo aveva ceduto) tu, chiedesti alla successiva Atena di andare in ricognizione: «Sei sicuro?» Ti chiese, preoccupata, «Non hai ancora recuperato le tue forze».
«Quelle che ho sono sufficienti, non temete, Milady, starò bene».
«E, sia».   
Avevi setacciato la foresta, ma non avevi trovato niente. Forse la Azona aveva visto giusto. Allora perché quella sensazione non ti abbandonava? Eri rientrato in paese e stavi riflettendoci quando un piccione volò a pochi centimetri dalla tua testa. Anche se eri più di Là che di Qua, ti abbassasti lo stesso. Non avevi mai amato questa particolare specie animale. Soprattutto per la loro tendenza ai voli radenti, stile kamikaze. Ora che ci pensavi, non avevi mai neanche pensato a quale animale ti piacesse effettivamente. Non che fossero cose di vitali importanza, però era anche un modo per ricostruire un ponte che avevi distrutto. Non come quello che distrusse Shura, ma quello interiore, così potevi definirlo, con te stesso.
Non sapevi perché ci pensavi, ma forse era perché eri rimasto solo troppo a lungo. Con Milo, per quanto gli fossi grato e sentisti questo ricordo di affetto nei suoi confronti, non avevi chissà quale rapporto. Con Hyoga ti sentivi suo padre e sapevi che era così che ti vedeva anche quest’ultimo. Uno dei grandi rimpianti che sentivi di avere quando non pensavi alla situazione in cui vertevate, era proprio la tua famiglia. Anche se era in fondo al tuo cuore ti mancava molto. Soprattutto adesso che si era allargata con il ritrovamento di Isaac.  
Avesti una fitta alla testa e ti portasti una mano sul capo. Lo sforzo che avevi impiegato nella tasca temporale per usare tutto il tuo Cosmo si era fatto sentire. Avevi, infatti, dormito per tre giorni per recuperare le energie e, ancora, sentivi di non averle recuperate completamente, nonostante le premure di Shaka e le cure di Lady Asia. La quale, nonostante tutto, ti guardava ammirata, adesso, si potrebbe dire, anche orgogliosa. Anche se non sapevi e non capivi perché, mentre ti aiutava come poteva. Vi eravate rifugiati in una città Ucraina abbastanza lontana da Černobyl’, ormai rinchiusa nel suo sarcofago come una mummia egizia.
Se ci pensavi, ancora non ti capacitavi di ciò che era accaduto. Né comprendevi come avessi fatto a sprigionare tutta quella potenza, superiore persino a quella che avevi sfoderato ad Asgard. Se tu ti fossi ricordato di Hiroshima, mio dolce Camus, non ti saresti sorpreso più di tanto.    
Rientrasti in albergo passando davanti al receptionist senza che questi si accorgesse della tua presenza. Altro trucco che avevi imparato da quando avevate abbandonato quei territori: se volevi essere visto, allora le persone ti vedevano, se volevi toccare qualcosa, allora lo potevi toccare. Era come se tu ti stessi avvalendo di un principio simile a quello che ti permetteva di congelare gli atomi, per interagire con il Mondo dei Vivi.
Asia e Shaka ti avevano spiegato che voi due vi trovavate nell’intersezione tra il Mondo dei Vivi e quello dei Morti. Il piano inferiore del Piano Astrale, si potrebbe definire. Se ci pensavi un leggero brivido correva lungo la tua spina dorsale. Avevi già sperimentato cosa significasse risorgere negli Inferi e tornare nel Regno dei Viventi. Anche se non avevate avuto tempo per soffermarvici, era come se qualcuno avesse deposto un piccolo blocco di marmo sulle vostre spalle che vi aveva affaticato più del dovuto. Invece, ritornare qui ora, non ti diceva niente, ti sentivi solo meglio, rispetto a quando sostavi nel Regno di Hades. Era come se tu fossi un pezzo di un puzzle che avesse ritrovato la sua collocazione. E lo sentivi, come lo sentiva il tuo commilitone, ma come potevi non sentirlo, il richiamo della tua carne imprigionata in quella teca al Santuario?
Spesso, come un musulmano prega rivolto verso La Mecca, ti giravi verso Sud Ovest dove sapevi esserci il Santuario della Vostra Dea. E, altrettanto frequentemente, Shaka ti aveva posto una mano sulla spalla e tu, avevi incontrato il suo volto a occhi chiusi e il suo cenno d’assenso: “Sì, lo sento anch’io”. E a volte, diventava difficile non sentirlo. 
Mentre salivi le scale sospirasti. Meno male che avevi deciso di uscire a prendere una boccata d’aria, ne avevi approfittato per compiere un giro di ricognizione. Eri sicuro che Eaco ormai si stesse muovendo, il tempo era scaduto per forza. Ma chissà da quale parte sarebbe sbucato, adesso, che esistevano numerosi varchi verso il dominio degli Inferi. Per ora non avevi avvistato né la sua temuta Ala, Violate di Behemoth, né gli Skeleton. “Che si sia dimenticato di me?” Pensasti aggrottando la fronte, mentre ti prendevi il mento tra indice e pollice. “No, impossibile”. Qualcosa ti diceva che non fosse così, ma non riuscivi a percepire il suo Cosmo. In effetti, ti eri accorto, di non essere più capace di percepire il Cosmo di chi si trovava all’Altro Mondo, da quando Death Mask ti aveva spedito qui. 
Lasciasti passare una coppia di turisti che scendeva e poi ripartisti. 
Avevi monitorato con il Cosmo la situazione al Grande Tempio e l’angoscia si stava facendo divorante. Che cos’era quel Cosmo gigantesco? Superava in potenza persino quello di Aiolia e Kanon. Si avvicinava a quello della Divina Atena.
Eri ancora assorto in questi pensieri quando tornasti nella stanza che occupavate.       
Appena apristi la porta sussultasti e facesti un passo indietro per lo spavento. Lady Asia era sospesa a mezz’aria a gambe incrociate, la schiena un po’curva e la testa china, quasi ciondolone sul petto. con le braccia si cingeva le spalle, come se stesse cercando di ripararsi dal freddo. I capelli le sventolavano dolcemente attorno. Le maniche della camicia verde ondeggiavano verso l’altro come se una dolce brezza le sollevasse. Anche gli orecchini erano sollevati.
La mantella stava su una sedia a parte, accanto alla spada verde.
Per un attimo temesti di averla deconcentrata e invece neanche sembrò registrare la tua presenza. Non solo perché teneva gli occhi chiusi, risplendeva di oro bianco a intermittenza. Shaka la osservava incuriosito con gli occhi aperti.
“Cosa sta facendo?” Domandasti a Shaka, quando ti fosti ripreso. “Sta cercando di rilevare la presenza del prossimo Guardiano”. Lo guardasti stupito, non solo perché non credevi che ciò fosse possibile, ma era il “Come?” che ti sorprendeva, considerando che il tuo compagno non le aveva ancora restituito il suo album da disegno.  
“Scandagliando il globo intero con i suoi poteri, così ha detto, quando ho chiesto spiegazioni”. Una smorfia di fastidio le increspò il viso e si abbassò dolcemente. I suoi piedi toccarono terra di taglio, poi anche i polpacci e il resto di lei si adagiò dolcemente a terra. I capelli, i gioielli e le vesti smisero di volteggiare, ricadendo dolcemente nella loro posizione originaria. Riaprì gli occhi con uno sbuffo seccato.
«Avete trovato qualcosa, Milady?» Chiese Shaka, in tono speranzoso, richiudendo i suoi.
«Purtroppo no. Oh, quando sei rientrato?» Ti chiese, accorgendosi finalmente di te, quando sollevò gli occhi.
«Proprio adesso». 
«Hai trovato qualcosa, almeno tu?»
«No, mi dispiace».
«Sei più tranquillo, adesso?»
«No». Ammettesti. La Azona chinò il capo, ancora seduta a terra e mormorò: «Allora è grave per davvero».
Quel pomeriggio decideste di ripartire. Fu una partenza abbastanza rapida, in realtà. La Azona dovette solo raccogliere le sue poche cose e dissolvere la tasca temporale una volta usciti dall’albergo, che comunque era abbastanza scomodo per i tuoi gusti. Nessuno sembrava fare caso allo strano abbigliamento della Vostra Dea, anche se era difficile che passasse inosservata.
Secondo i piani, avreste camminato a passo d’uomo fino all’uscita del paese, solo una volta nella foresta, avreste ripreso la velocità della luce e oltre (nel suo caso).
Peccato che, una volta coperti una dozzina di metri dopo il limitare del bosco, ti bloccasti di colpo. «Cosa c’è, Camus?» Ti domandò la giovane, accorgendosi del tuo cambiamento.
«Sento un odore strano». I due annusarono l’aria ma non sentirono niente di rilevante. «Che cosa?» Ti chiese Asia. «Non so, sembra un vino sul punto di diventare aceto». Perché percepivi l’odore di entrambi.
La giovane ti si accostò, preoccupata. «Sei sicuro?» Ti chiese e, anche lì, lo sentì anche lei, l’odore.  Confermasti guardandoti attorno, persino la luce era la stessa del sogno.
L’espressione del volto della Azona s’indurì: «Alegre». Sibilò, poi imprecò, facendoti inarcare le sopracciglia (non eri abituato a sentire una Divinità imprecare). Anche Shaka inarcò le sopracciglia per quest’uscita poco elegante.
«Alegre?» Chiosò.
«Di Black Whale, uno degli ufficiali di Don Avido. Ci ha trovati». Spiegò. Conoscevate entrambi questi Black Saint, avevate letto anche voi il rapporto sulla missione di Venezia di Manigoldo di Cancer e Albafica di Pisces.
«E ora?»
«Dobbiamo scappare e…»
«Non andrai da nessuna parte, dolcezza!» Esclamò Alegre emergendo dalla vegetazione, l’immancabile bottiglia di vino rosso in mano. La Dea s’irrigidì e tu e Shaka scattaste a proteggerla. Ma il Black Saint del Millesettecento v’ignorò e, dopo aver tracannato un sorso dalla bottiglia, si pulì la bocca con la mano e disse: «Non mi è piaciuto affatto quel giochino al museo».
«Davvero?» Chiese lei, mutando espressione, lo capiste dal tono di voce.
«State indietro, Milady, ci pensiamo noi a costui». Diceste. Questo almeno potevate farlo, dopotutto, il Black Saint era un vostro pari.  
Lady Asia si volse e sorrise divertita, raccogliendo la sfida: «Scommettiamo, sprecone?»
Proprio in quel momento, Shaka comunicò con le vostre menti. “Milady, lasciate che me ne occupi io”. Si offrì il tuo collega e lei domandò, senza staccare gli occhi di dosso al nemico. “Sei sicuro, Shaka?” Ribatté lei, facendo eco anche al tuo pensiero e lui asserì. “Porta in salvo Lady Asia, di questo posso occuparmi anch’io”.
“Fa attenzione, Shaka, dette parecchie grane ai Cavalieri d’Oro del Millesettecento che lo affrontarono”. Lo avvisò lei, nervosa.
“Costoro non erano me. Non preoccupatevi, vi raggiungerò presto”. Promise il suo connazionale. “D’accordo”.
Shaka poteva effettivamente fare qualcosa, disponeva della tecnica del ciclo della trasmigrazione, avrebbe mandato quel Black Saint direttamente all’Inferno se necessario.
Cominciaste a scappare. Avevate percorso cinquecento metri quando Lady Asia sussultò e si bloccò. Ti girasti verso di lei e la vedesti a occhi e bocca sgranati. Lo sguardo puntato nel vuoto come se vedesse qualcosa. Guardasti nella sua direzione ma non vedesti niente.  «Milady?»
«Dobbiamo tornare indietro».
«Milady?» Domandasti di nuovo, però come a chiedere, “come, scusate?” Lei si girò, angosciata: «Dobbiamo tornare indietro, sbrigati!»  E tornò indietro a gran velocità. Tu non avesti altra scelta che seguirla, soprattutto, quando ti accorgesti del Cosmo Infero che stava avvicinandosi alla zona della battaglia. Aiacos!
I tre giorni erano passati.
Tornaste da Shaka e lo trovaste nella posizione del loto. Neanche si girò quando vi sentì tornare e la giovane Dea lo chiamò. «Milady», rispose lui, «non dovreste essere qui, sta arrivando lo Specter di Garuda».
«Anche peggio, alzati, presto!» Esclamò lei.
«Non dovete preoccuparvi io…»
«Sì, invece, per loro sei un disertore!» Rilevasti a tua volta con urgenza nella voce. Non gliel’avevi ancora detto, questo.  
«Ma io avevo detto…»
«Gliel’avevo detto, ma non mi hanno voluto ascoltare». Rispondesti. Solo allora Shaka si alzò in piedi e ti volse il viso con gli occhi chiusi da sopra una spalla: «Il Patto?»
«Adesso non pensare al Patto e vai via, presto arriveranno le Creature».
«Dov’è Alegre?» Domandò la Dea che, fino a quel momento non aveva fatto che guardarsi intorno. «L’ho rispedito all’Inferno, dove deve stare. Per quanto riguarda lo Specter, non c’è problema, li ho già affrontati e…» Si vantò, borioso, mettendosi in mostra per lei. Solo che a quel punto la giovane perse la pazienza e lo interruppe: «Andiamo adesso. Questo è un ordine. Se è vero che hai deciso di seguirmi, allora ti ordino di farlo!» Esclamò Lady Asia con un tono che non ammetteva repliche.  Era una donna molto forte, questo dovesti riconoscerglielo, ma tu non la trovavi così attraente e carismatica come sembrava invece trovarla il tuo compagno.
«Ma lo Specter?»
«Ci penserò io». Ti offristi repentinamente tu e i due volsero la testa verso di te, mentre il Cosmo del Garuda si faceva ancora più vicino e incombente. «É me che vuole, si fermerà soltanto se mi avrà preso».   
«Tu pensi di poterlo fermare? D’accordo». Ti accordò la Dea, dopo averti lanciato un’occhiata fiduciosa. Tu annuisti e congelasti istantaneamente degli Skeleton che, armati di falce, si scagliarono addosso a voi. Dopo averli rinchiusi nella Freezing Coffin, zittisti immediatamente il tuo Cosmo, giusto in tempo per evitare che le Creature calassero in picchiata su di voi. Shaka si era già affrettato a fare da scudo alla Dea.
Le Creature si allontanarono pigramente e tornaste a concentrarvi sulla battaglia imminente.
Pure i sicari, questa ti mancava. Aiacos era più folle di quanto pensassi. Il Drago Rosso aveva ragione, non potevate difenderla da esseri superiori. Le sue battaglie non erano le vostre, ne avevi avuto una prova tangibile anche tu, ma potevate difenderla dai servitori umani dei vostri avversari e dei vostri alleati.   
«No, in realtà spero soltanto che capisca che non può darvi la caccia per un malinteso». Che Lady Asia era colpevole tanto quanto Shaka, in quanto aveva privato l’esercito infero di un valido elemento, già di suo un alleato. Lady Pandora riusciva a malapena a controllare le bestie che i Signori della Notte avevano affidato a Shaka.
«E tu pensi che sia una buona idea? Non hai pensato che magari questo metterà anche te in pericolo?»
«Non preoccupatevi per me, me la caverò benissimo». Rispondesti, animato da una nuova determinazione. Poi quando fu abbastanza vicino, li esortasti ad andarsene. Lady Asia ti scoccò uno sguardo angosciato, ma né lei né Shaka si mossero. «Andate!» Urlasti allora con più convinzione.
Shaka si girò e pose una mano sul braccio della giovane, che lo guardò. «Andiamo, Milady». La quale annuì e lo seguì.
Ti girasti verso lo Specter che si stava dirigendo verso di voi a gran velocità e facesti un respiro profondo prima di gridare: «Fermati, Eaco di Garuda, non è Lei il nemico, fermati!» Esclamasti. Ma il suo bersaglio non era mai stato lei, o Shaka, come avevi pensato, eri sempre stato tu. Infatti  
obbedì, ma solo per afferrarti per il collo e sbatterti contro un tronco d’albero con tutta la forza di cui era capace. Difatti, spaccò l’albero che cadde a terra con un rumore di legna infrante, chiome fruscianti e uccelli spaventati che si alzarono in volo.
Cercasti di reagire ma scopristi, con tua grande sorpresa, di non poterlo fare. Lo Specter sembrava invincibile, persino il Cocito non riusciva ad arrivare da te, bloccato com’era dal suo Cosmo, intanto che le Creature vi svolazzavano attorno, incendiando ogni cosa al loro passaggio, ma senza avvicinarsi allo Specter, come se neanche esistesse. Strabuzzasti gli occhi. Com’era possibile tutto ciò?
Cercasti di smettere di gonfiare il tuo Cosmo, perché era solo per via di quello che le Creature erano ancora qui. «Certo, bravo, sì, gonfia pure il tuo Cosmo quanto vuoi, ma non riuscirai a liberarti di me, la mia Surplice mi permette di essere immune ai colpi e ai poteri degli spiriti». Ti rivelò e tu sgranasti gli occhi. «Magari quando eri vivo saremmo potuti anche essere pari, ma qui sono io a essere più forte di te». Sogghignò avvicinando la sua faccia alla tua, di modo che tu potessi vedere bene il suo ghigno e i suoi occhi lucenti di follia, trionfo e arroganza.
Cercasti di sottrarti alla sua presa, ma lui strinse ancora più forte. Allora, annaspasti, lottando per restare cosciente: «Perché fai questo? Sei un Silver Saint anche tu, sei fedele alla Divina Atena, perché…?» Ti ricordavi che lui era Suikyo di Crateris, il predecessore di Aeson, no? Stando ai rapporti del Venerabile Shion, anche costui come te, aveva pianto lacrime di sangue. Se qualcosa dell’ex Cavaliere d’Argento esisteva ancora, allora era il caso di riportarlo allo scoperto. Ma gli occhi del Garuda non piangevano  come ti eri aspettato. Questi occhi neri erano accesi di una luce folle e basta.
«Cosa pensavi di fare, Gold Saint di Aquarius?» Ti canzonò: «Credevi forse che mi sarei fermato solo per due belle paroline sulla giustizia e la fedeltà ad Atena? Per chi mi hai scambiato? Io sono uno dei Giudici Infernali, sono uno dei comandanti del Grande Hades e sono venuto qui per reclamare ciò che mi hai promesso! Hai finito di giocare al latitante, adesso torni negli Inferi con me e stai certo che il viaggio di ritorno sarà una vera sofferenza per te. Sarà la mia vendetta la ricompensa per tutte le volte che mi hai preso in giro!»
Ciò detto si girò a guardarti e, un folle sorriso si delineò sulle sue labbra. Neanche il luccichio dei suoi occhi ti piacque. Benché fosse l’ex Silver Saint della Cloth di Crateris del Millesettecento, Suikyo, di quell’uomo non restava più niente. L’amico d’infanzia dei Venerabili Roshi e Shion non esisteva più da tempo, ormai.
Il tuo tentativo di appellarti a queste memorie era fallito. Ciliegina sulla torta, rincarò la dose annunciandoti che: «Visto che tu mi hai privato del mio divertimento, allora anch’io ti priverò di qualcosa, ma non ti dirò cosa né quando lo farò».
Sgranasti gli occhi e il tuo pensiero corse istintivamente ad Isaac. «Non puoi farlo, è contro il Patto».
Se tu avessi mai visto un demone in vita tua, avresti saputo che con loro, in quel momento, Eaco aveva molto in comune. La paura che ti incuteva la percepivi tutta e t’impediva di mantenere il tuo solito contegno. Non ti eri mai sentito così inerme prima d’ora. Impotente sì, ma inerme mai. Adesso che conoscevi anche il segreto delle surplici eri spaventato e vedevi gli Specter e gli Skeleton sotto una luce nuova.
Non avevano rivelato tutti i loro poteri nel corso di questi secoli.
Ora capivi anche tu cosa provò il dottor Faust nel vedersi davanti un demone dell’Inferno. «Ma io non infrangerò il patto». Ti promise, avvicinando un poco il volto al tuo, per imprimerti nello sguardo il colore dei suoi occhi e tutta la follia da cui essi trasparivano. Poi la stretta sul tuo collo si sciolse e il Garuda ti lasciò lì, voltandoti le spalle.      
 
Ma ora avevi problemi più grossi cui pensare. Per esempio come giustificare tutto questo a Lady Pandora. La risposta ti giunse immediata quando la Somma Sacerdotessa si adombrò e ti congedò. Ma non era questo a preoccuparti. Shaka si era messo nei guai, esattamente come temevi. Il che poteva significare due cose: o si sarebbe rifatta su di te, facendo del male al tuo ritrovato allievo e alla piccola, oppure avrebbe mandato sulle tracce di Shaka e della Azona dei sicari.
Sicari, possibilmente al soldo di Atavaka.
Ti grattasti la testa pensieroso: un’Azona.
Stando a quello che eri riuscito a capire dopo la scomparsa della Colomba Astrale e del rinsavimento degli Specter, c’era movimento anche nella zona retrostante il palcoscenico. Finora non avevi mai pensato di vedere le vostre vicende come rappresentazioni teatrali improvvisate. Avevi già intuito che gli Dèi vi usassero, anche la vostra, per quanto cercasse di non farvelo pesare.
Ma non ti saresti mai aspettato che dietro di loro ci fosse qualcun altro a sostenere il Tutto.
Avevi già sentito parlare degli Azoni dal tuo maestro, ma non avevi mai pensato che ne avresti incontrato una e che, il tuo commilitone si unisse a lei. 
D’accordo moltissime cose, ma non ti saresti mai aspettato questo. Si diceva che fossero leggende, secondo i vostri insegnanti erano altri nomi degli Dèi, non Dèi a parte. Dèi dei quali non si sapeva niente. Ma se erano potenti quanto avevi percepito dal Cosmo della Azona che vi aveva aiutato, allora era preoccupante.
Chi erano? Che cos’erano? Com’erano? Quando erano stati creati? Perché erano stati creati? Quanti erano? Cosa volevano? Che poteri avevano? Per chi lavoravano? Queste ultime due domande in particolare ti angustiavano. Mai quanto le parole di quella Azona: Sono la figlia del Guardiano della Casa di Marte.     
Avevi ritrovato Isaac, che adesso era curato dalla piccola pitta cui non avevi mai chiesto il nome. E, l’avevi portato assieme a te nella tenda, quando si era ripreso. Con grande disgusto di Valentine ma se ne era rimasto zitto quando avevi decretato che avrebbe messo un terzo sacco a pelo anche per lui. Di sera la bambina preferiva dormire assieme agli altri bambini della sua tribù. Avevi anche avuto modo di conoscere l’unico membro rimasto della sua famiglia. Tutti gli altri si erano già reincarnati. Suo fratello maggiore. Il quale a malapena ti sopportava, solo perché la Somma Niniane aveva decretato che Fianna ti stesse accanto e ti aiutasse.
«Fianna, eh?» Domandasti alla bambina, guardandola. Lei alzò le piccole spalle e mormorò qualche scusa che stavi cominciando a capire. Le scompigliasti i capelli indomabili con una mano e lei ti guardò sbalordita. «Non preoccuparti, non te l’avevo mai chiesto».
«Allora non sei arrabbiato con me?» Ti chiese esitante nella tua lingua madre. Aveva una vocina tenera e dolce, in accordo con la sua persona. Eppure la guardasti con tanto d’occhi e non solo perché, per la prima volta, ti aveva parlato nella tua lingua, dopo le lezioni che le avevi dato. Ma perché adesso sembrava davvero la bambina che sarebbe dovuta essere. «No», le sorridesti. 
Lady Pandora non si aspettava una risposta simile quando le raccontasti quello che avevi scoperto.
«Un’Azona». Mormorò stupefatta fissando un punto nel vuoto.
«Sapete chi sono?» Domandasti sorpreso dalla sua espressione sgomenta. E, poi, era la tua impressione o quel poco di colore che aveva era sparito?
«Sì», ammise la donna sedendosi. «Credevamo tutti si fossero estinti. Allora è suo il Cosmo che ho sentito in Thailandia e poi negli Inferi contro Virgo». Mormorò a mezza voce.
«Cosmo?»
«Sono capace di percepire il Cosmo altrui». Rivelò la corvina e tu strabuzzasti gli occhi per la sorpresa. Lei riprese a borbottare tra sé e sé: «Adesso ha un senso, l’intensità che ho rilevato in questi mesi con ciò che mi hai riferito da parte del tuo allievo».
«Signora, voi sapete a cosa si riferisce Isaac?»
«Non l’hai ancora capito, Aquarius? Quella  Dea appartenente a un ordine che si credeva estinto da secoli. Gli Dèi stessi tremano quando compare uno di loro, gli Azoni sono il collegamento tra le Divinità e i loro controllori, sono coloro che fanno sì che noi possiamo continuare a esistere, tutti noi, non solo gli Dèi che serviamo».    
«Sì, mi ha detto che sono i custodi della Storia».
La Sacerdotessa di Hades ti guardò, spaventata e, al tempo stesso avida di sapere: «Cos’altro ti ha detto?»
«Nient’altro, ma ho avuto un assaggio dei suoi poteri e sono formidabili». Ammettesti ancora spaurito dal ricordo di come era riuscita a intrappolare e ingannare l’Astronauta. E Shaka era andato con lei perché se ne era innamorato. Pregasti che fosse capace di scappare in caso le cose fossero andate storte. Se era persino più potente di quanto immaginavate c’era di che esserne preoccupati: un Azone da solo poteva arrivare dove neanche un Cavaliere d’Oro sarebbe mai riuscito. E, fino a ora, avevi sempre creduto che più in su del livello che avevate raggiunto, non ci fosse altro.  
«Per nostra fortuna, gli Azoni non si intromettono nelle faccende degli Dèi. Non avremo problemi da parte loro. Hai scoperto cosa ci faceva qui, invece?» Chiese apparentemente rilassata. A tradirla era l’irrigidimento delle spalle.
«Sì, signora, è sulle tracce dei Guardiani delle Case degli Astri».
Pandora sgranò gli occhi violetti. «I Guardiani delle Case… è impossibile». Anche lei li conosceva?
«Eppure non lo è, io stesso e i miei compagni del Cancro e della Vergine abbiamo avuto a che fare con ben tre, no, quattro Guardiani».
«Quali erano?»
«Il Guardiano della Casa di Marte, il Guardiano della Casa di Plutone, quello della Casa di Mercurio e quello della Casa di Urano».
«Mancano Terra e Luna, Venere, Giove e Nettuno». Mormorò pensierosa.
«Non c’era anche Saturno, mia signora?» Interloquì Minosse del Grifone.
«Se la mia ipotesi è giusta, quello l’ha già trovato». Non avevate mai visto Lady Pandora tanto sconvolta.
A quel punto osasti porre una domanda: «Che cosa sta succedendo?»
«Questi non sono affari che ti riguardano, esci da qui! La tua presenza non è più richiesta!» Ti scacciò Rhadamantys parandosi di fronte a te, minaccioso.
Tentasti di protestare ma lo Specter della Viverna ti scacciò. «Fuori!» E tu non avesti altra scelta che obbedire.    


Aphrodite
Il rapporto di Aldebaran lasciò tutti sconcertati. Non solo per la rivelazione del coinvolgimento di Kiki nella faccenda dei bambini, ma mai avresti mai pensato che Lancelot potesse essere un traditore. Il tuo sguardo corse istintivamente a Shura, il quale non lasciava trasparire alcuna emozione, oltre all’ira. Ira nei confronti del giovane Ariete, in quanto avrebbe dovuto riferirglielo subito: i ragazzini erano pur sempre sotto la sua protezione.  
Era come durante la Notte degli Inganni, quando, ancora bambini, foste incaricati di fermare Aiolos e lui tagliò quel ponte. Gli leggesti in faccia quella stessa risolutezza di allora. Il volto in ombra per metà. Era come osservare il Bene e il Male dipinti sullo stesso volto.
Un fragile equilibrio in cui lui oscillava come un pendolo e sceglieva, coraggiosamente, di stare nel mezzo.
Lo stesso che lo aveva portato a recidere quel ponte e a decretare la salvezza della neonata Dea e la morte del suo modello. Solo adesso lo capivi. E ti sorprendesti di comprenderlo adesso invece che prima. Ma forse era perché allora fosti solo un bambino e non sempre i bambini colgono tutte le sfumature come invece fa un adulto.  
Perché ci pensavi adesso, allora? Perché proprio adesso e non anni addietro, quando era il momento di pensarci? Perché? Forse non c’era una risposta alla tua domanda. Alcune domande non ne hanno necessariamente una, come alcuni rami senza foglie. Le avevi sempre viste così questi interrogativi e, non che fossero mancati, ultimamente.     
Le domande in questo mese te le eri poste, anche se non eri un investigatore come Aiolia. Però eri uno stratega ed eri colui che si occupava di proteggere Astrid con Death. Certo che non l’avevi lasciata sola, anche se era colpa sua di un mucchio di cose era pur sempre una tua amica. Le volevi bene, per quanto tu potessi voler bene a qualcun altro all’infuori della tua magnifica persona.
Ma non eri un tipo asfissiante, lasciavi alle persone che venivano poste sotto la tua tutela tutta la libertà di cui necessitavano.
Solo perché ti rimiravi allo specchio continuamente, non significava che tu fossi completamente estraniato dal mondo. Per esempio, sapevi perfettamente che Astrid passava tutte le mattine dalle Dodici Case per scendere ad allenarsi alla Settima e ora anche dove stendevano i panni, assieme a Lady Yoshino e a Paradox. Eri un po’geloso di Paradox, dovevi ammetterlo; con la sua presenza distoglieva le attenzioni di Astrid da te. E, sinceramente questo t’infastidiva. In effetti, tra te e Paradox era stata una silenziosa guerra aperta da quando la Custode della Luce Ombrosa era tornata al Santuario. Anche se non ti eri mai esposto apertamente, Paradox era perfettamente conscia della tua presenza.
Soprattutto ora che era primavera, quasi estate e le piante ti parlavano. Lei non poteva distruggere le piante a suon di Galaxian Explosion. E le rodeva il fegato per questo.
Perché le piante erano le tue spie, non solo le tue rose. Le tue spie erano presenti dappertutto e su tutto ti aggiornavano, pur non avendo occhi e bocca per parlare o un cuore battente. Nessuno avrebbe mai sospettato che una piccola margheritina potesse rivelarti chissà quali segreti. Come per esempio, i pisolini segreti della tua protetta tra i frutteti. Li avevi visitati e li avevi trovati rustici, in un certo senso, però non erano neanche così brutti a certe ore del giorno. La tua amica aveva buon gusto, si respirava un’aura di pace e tranquillità, lì. Anche se in quanto a bellezza non poteva neanche competere con il giardino-serra della Dodicesima.
Oppure, quello che aveva fatto Astrid per debellare l’invasione di serpenti, non avresti mai pensato che sarebbe ricorsa all’aiuto del Bronze Saint di Serpens. Oppure, per rompere il sigillo sulla sua stessa memoria meditando nel giardino della Sesta. Non ti aspettavi però che, meditando, avesse perso il contatto con la realtà e avesse passato varie notti a mezze maniche. Anche se in Grecia era pur sempre maggio e la notte alle tre del mattino non è comunque caldissima, anche con il riscaldamento globale. Queste in particolari erano state piuttosto umide. Per questo, quando aveva rivelato il suo Cosmo, tu non avevi fatto una piega.
Kanon poteva sforzarsi di cacciarti fuori dalla sala delle udienze quanto gli pareva, finché avrebbero continuato a coltivare il Giardino della Tredicesima e ornare le stanze di fiori, soprattutto la camera della Dea, niente ti sarebbe mai sfuggito. A parte Lady Asia.
Quando le piante ti avevano riferito che lei era giunta al Santuario passando per la Quarta e, dunque anche dalla Dodicesima, ti era preso un colpo. Soprattutto quando si era infilata nella camera della Divina per conferire con lei. E, stando al colloquio e al Cosmo Divino che si era sprigionato, che avevi finalmente compreso la reale natura di colei che ti aiutò in Thailandia. Non ne avevi mai parlato con nessuno, neanche con la Divina. Non tanto per una questione di potere, quanto perché neanche tu sapevi cosa pensare. Eri rimasto che il dominio del Tempo appartenesse a Kronos, Kairos e alla Divinità del Tempo in sé, non ad altri Dèi. Se non altro, adesso sapevi che intenzioni avesse quella giovane. Ma cosa significavano le sue parole? Era dunque tanto grave?
Ti guardasti per la millesima volta allo specchio alla ricerca di segni di deperimento, o forse, delle tue stelle. Quelle stelle che lei aveva detto che adesso erano ridotte a semplici fiaccole. Ma tu non le potevi vedere neanche se ti fossi sforzato.
E dire che, in queste notti, avevi scrutato la volta celeste come se avesse potuto dare una risposta, una parola di conforto per il dolore che sentivi. Un dolore sordo all’altezza del petto, ma che ti stringeva il cuore in una morsa e ti faceva inumidire gli occhi. La morte la sentivi vicina, anche se i suoi segni non erano visibili sulla tua pelle. Allora era questo che provavano le persone normali? Morire eri già morto e risorto. Ricordavi ancora la paura che la Nebulosa di Andromeda ti aveva suscitato e poi il buio. Ricordavi anche la tua seconda caduta e la terza e la quarta. Sempre in battaglia e sempre da guerrieri vittoriosi.  
Perché il destino aveva scelto di riversare la sua crudeltà proprio su di voi? Che cosa avevate fatto voi dodici per meritarvi tutto questo?     
«Dobbiamo spostare i bambini». Decretò il Gran Sacerdote. «É evidente che il bersaglio sono loro».
«Sua Santità, voi sapevate già qual era l’intento degli Specter?» Domandò Aiolia.
«Il Cavaliere di Aries me ne aveva messo a parte da tempo ma non credevamo che le loro condizioni fossero disperate a tal punto».
«Condizioni disperate?» Ripeté sconvolto da tanto menefreghismo.
Kanon ribatté, con calma: «Per quale altro motivo, se no, violerebbero un trattato in tempo di pace? I rapporti con il Signore dell’Oltretomba sono stabili e non ci sono contrasti né con lui né con la sua luogotenente. Deve essere successo qualcosa di grave negli Inferi per spingerli a questo…»
Aiolia fece un notevole sforzo di volontà per non vomitargli addosso tutto ciò che pensava. Si limitò a digrignare i denti e a fulminarlo con lo sguardo a più riprese. Si vedeva lontano un miglio che disapprovava gli ordini.
Tu invece ti accigliasti e ti domandasti: “Sì, ma che cos’è questo?” Cosa stavano cercando di fare gli Specter? E voi, dovevate lasciarglielo fare? Questa era la cosa che temevi di più. Scoprire che avreste dovuto insabbiare tutto questo? No, era una cosa che andava ogni oltre crudeltà perfino per voi. Almeno questo avresti dovuto pensare, ma tu eri uno dei tre che tempo addietro sostenne Saga e la sua usurpazione, ricordi? Tu nei segreti e nelle situazioni scomode ci sguazzavi come un pesce perché eri di natura infida come le bellissime rose che curavi. Non è così, mio caro Aphrodite? Mio valoroso cavaliere a capo di un potente, letale, esercito floreale? Eh, Re di Fiori?    
Il difficile sarebbe stato convincere quella retta zucca vuota di Aiolia che il mondo non era sempre in bianco o in nero e che a volte esistevano le sfumature. Che a volte era necessario sacrificare alcune pedine per vincere una battaglia. Di questo eri sicuro che ci avrebbe pensato Shura al momento giusto, oppure Shun o qualcun altro. Adesso era meglio che il Leone d’Oro se ne tornasse sbattendo i piedi alla Quinta e restasse a sbollire. 
Ti appuntasti mentalmente di fare delle ricerche, prima che altri mostri e altrettanti nemici saltassero allo scoperto e vi attaccassero. Perché la vostra forza, ormai era tale solo all’apparenza. Già. Mostri e nemici, ecco da cosa eravate circondati. Dovunque tu ti girassi vedevi solo questi.
In quanto migliore stratega tra i Gold non avevi tutta questa necessità di infiltrarti nella Sala del Trono e ascoltare (origliare, sii sincero) tutte le udienze.
Annusasti il profumo della rosa che ti rigiravi tra le dita, mentre restavi in disparte, appoggiato contro la colonna. 
«Perché non hai detto a nessuno il resto?» Chiedesti.
«Il resto?»
«Oh, andiamo, Kiki, puoi fingere quanto ti pare di non sapere, ma non puoi ingannare me. Perché hai lasciato che lo scoprissimo per bocca di Odysseus invece che dircelo subito?»
Il Cavaliere della Prima Casa spalancò gli occhi violetti e ti guardò aprendo la bocca in un’espressione esterrefatta. In quel momento ti venne da pensare che era un bell’uomo, ma che se non avesse chiuso la bocca ci sarebbero entrate le mosche. Quell’espressione attonita non gli si addiceva proprio. Lo preferivi ieratico come un mosaico come quelli della Basilica di Santa Sofia di Istanbul.    
Non ti chiese chi te l’avesse detto, non ne aveva bisogno (o forse non gli interessava), ormai, lo sapeva da quando avevate lavorato insieme nel caso del Monastero dei Cinque Picchi, come agivi.  Provasti a imboccarlo tu, scostando la bella rosa rossa da sotto il tuo naso: «É per via del tuo amore per lei o perché temevi che noi avremmo potuto eliminarla se avessimo saputo?»
«Io… io…» Balbettò prima di arrendersi. «Sì». Poi si sedette sul davanzale e si prese la testa tra le mani, rivelando così tutta l’afflizione e la tristezza che provava. Tu gli battesti una mano sulla spalla (anche se non riuscisti a reprimere la smorfia di disgusto che s’impossessò dei tuoi bellissimi lineamenti). Non ti era mai piaciuto vedere le persone così, soprattutto uno dei tuoi compagni. Se erano lacrime quelle da versare, meglio che fossero di gioia, quelle erano molto più belle. 
Quando parlasti, cercasti di controllare la voce per evitare che trapelasse il tuo disgusto per come si sarebbe ridotto di lì a poco se tu non gli avessi passato un fazzoletto: «Lo immaginavo. Ti dirò, in altre situazione sarebbe anche la prima cosa che faremmo, via la causa, via il problema. Ma Astrid è prima di tutto un’ospite, un’amica e una di noi, anche se il suo maestro è il Cavaliere Maledetto, quindi non vedo perché darsi pena per celarci questo dettaglio». Fortuna che il fazzoletto ce l’aveva lui, lo estrasse da una manica del cloth e si dette una ripulita. Infine, aprì bocca: «Ho visto Milo cercare di attentare alla sua vita». Ti confessò crollando il capo.
«Milo? Sul serio?»
«Sì».
«Perché?»
«Credo che avesse intuito che Astrid potesse diventare troppo pericolosa, penso che volesse evitare che Ionia potesse controllarla. Ho letto nella sua mente, più che altro erano la tristezza e la disperazione a muoverlo. Ovvio che non gliel’avrei permesso neanche per scherzo».
«Sì, però è strano che Milo abbia agito così, non è da lui. É uno dei più stoici e pragmatici tra di noi, a dispetto del caratterino che si ritrova».
«In effetti sembrava strano, era come se fosse manipolato da qualcuno».
Entrambi vi guardaste pensando la stessa cosa. «E se fosse…?»
«Il nemico?» Completò lui. Poteva avere senso. Nessuno di voi aveva dimenticato per quali motivi era scoppiata la Guerra Sacra con Artemide e, neanche, le parole di Kanon dopo l’intervento di Astrid. Un’altra Divinità fissata con la Luce Ombrosa. «Potrebbe essere Hades, stavolta?» Ipotizzasti.
«Lo escludo, altrimenti ce ne saremmo accorti». Già, anche lo spirito del Dio aveva una mente e Kiki, la poteva leggere, inoltre, Shun lo teneva a bada.
«Che ci sia dietro lo zampino di Ionia?»
«No, lui era stato mandato altrove su ordine di Shura». Che Ionia era rimasto ferito durante l’assalto ai dormitori della Palaestra. E, Shura, quando aveva saputo, cioè subito, aveva ordinato ai medici di curarlo in separata sede rispetto ai ragazzini che, quella notte, avevano condiviso l’infermeria con Astrid in quanto, unico spazio atto a contenerli tutti lì dentro. Inoltre, se conoscevi almeno un po’ lo spagnolo, era probabile che, anche se non fisicamente presente coi suoi protetti, li sorvegliasse, probabilmente, con l’aiuto di qualcun altro. «Un altro trucco di Odysseus?»
«Non penso. Forse ci stiamo inalberando e basta, forse non c’è nessuno e Milo ha agito così perché ha soltanto ragionato come un Saint. Forse quei pensieri non significavano niente». Fece Kiki spostandosi la frangia dagli occhi. Aveva bisogno di spuntarsela un po’. Avevi i tuoi dubbi, però era anche vero che stavate diventando paranoici e, si sa, il confine tra prevenzione e paranoia è labile.  
E poi, la paranoia non faceva affatto bene alla tua pelle di seta.    

 

Ti eri riunito con Shura e Saga per discutere della faccenda quel pomeriggio con la scusa di un tè party. I tuoi compagni non avevano rifiutato. Era raro che tu cercassi la loro compagnia ma avevano intuito che, dietro al tè e ai biscotti (che effettivamente furono serviti nella tua magnifica serra-giardino) ci fosse una richiesta più specifica. Molti servitori e cittadini di Rodorio esigevano spiegazioni. C’era addirittura chi sosteneva di aver visto una luce strana tra le Dodici Case. Le voci che si erano sparse, ormai erano praticamente incontrollate e, c’era chi additava Astrid come responsabile. «In questi casi è meglio muoversi con cautela». Concordò lo spagnolo, finora rimasto silenzioso e pensieroso. Aveva parlato con Kiki, quando anche lui si era completamente sbollito. Se da un lato poteva dirsi lieto di avere qualcun altro su cui contare per proteggere i ragazzini, dall’altro avrebbe preferito sapere molto prima tutto quanto. «Persino riportarla alla Tredicesima può rivelarsi un grosso errore, la gente penserà che in qualche modo sia collegata con quello che è accaduto». Per una volta concordaste tutti con lui, anche Saga, che, per l’occasione, era di nuovo in forma umana. Per lei andava più che bene la protezione che già aveva. Inoltre, riportarla alla Casa di Atena non avrebbe fatto che fomentare il vespaio che si era sollevato tra i servitori. Saga vi aveva anche riportato alcune voci.
«Io so solo che probabilmente anche lei lo ha percepito. E, se non l’ha fatto, probabilmente cercherà di mettersi sulle sue tracce». O almeno, questa era l’ipotesi più probabile. Saga mise la sua tazza sul tavolo e accavallò una gamba: «Non ci giurerei troppo, Astrid è parecchio imprevedibile».
«Imprevedibile persino per te che sei stato appresso a lei più di tutti noi?» Chiedesti.
«Sì, già prima mi era difficile capirla, adesso potrebbe essere ancora peggio. Cioè, ora che ha riacquistato completamente la sua memoria, ci sta che non sia più la stessa persona che conosciamo». Insinuò lui ed era un’ipotesi abbastanza realistica, anche se qualcosa ti diceva che la ragazza non era così stupida e così asservita al suo vecchio insegnante. Sì, la vecchia Astrid, ma questa?
«Credi che adesso potrebbe lavorare contro di noi?»
«Sì».
«Non lo credo possibile». Decretasti mettendo a tua volta la tua tazzina sul tavolo.
Shura si pulì la bocca dalle briciole con il tovagliolo di carta. Aveva continuato a restare rigido tutto il tempo, benché sprofondato tra i candidi cuscini morbidi della tua ottomana da esterno. Come se non si fidasse affatto di te. Di voi, avresti voluto dire, ma in Saga aveva dimostrato già una fiducia smisurata, era di te che non si fidava e ti sorprendesti di questa sua diffidenza. Ma perché sorprendersi? In fondo tu del veleno e delle rose demoniache eri il sovrano, lui dalla sua aveva solo una spada e una fede d’acciaio. Eppure era lui il più forte tra voi, fisicamente parlando, se non altro. Ed era lui che vi guidò e trovò modo di riscattarsi nella Guerra Sacra contro il Gran Dio Zeus.   
“É così difficile, adesso, accettare che qualcun altro vi guidi, Shura?” Pensasti. «Fossi in voi, io non mi preoccuperei di Astrid». Aggiungesti convinto, «Finora lei non sa che cosa sta succedendo con gli Specter e, fintanto che possiamo contare sulla collaborazione di Aiolia per tenerla al sicuro, non ci saranno problemi, se l’andiamo a trovare basterà solo che nessuno nomini questo problema. Adesso torniamo all’argomento principale».
I tuoi compagni parvero ben felici di cambiare argomento, nonostante il sospetto e il dubbio che aleggiava su di voi a causa della nuova natura di Astrid.
Metteste in atto il piano quella sera stessa. Secondo i piani avevate diviso i bambini in gruppi e, li avreste spostati in altrettante zone sicure. Il primo gruppo sarebbe partito quella notte stessa e l’avresti accompagnato tu.   
Erano appena le dieci, ma, con la penuria di stelle, il buio sembrava ancora più profondo. Stavi accompagnando i bambini al traghetto che li avrebbe portati ai rifugi. Fortunatamente il Santuario poteva contare su una fitta rete di spie e anche, di una cospicua parte dei mezzi pubblici. Non come le persone comuni, ma come veri e propri investitori e proprietari. La Divina Atena aveva acquisito gran parte delle società marine, tranviarie, aeree e dei trasporti e, il Gran Sacerdote prima di Saga aveva investito nella realizzazione di opere pubbliche, invenzioni e società che poi avevano dato i loro frutti. Inoltre, il cotone di Rodorio veniva esportato ed era famoso a livello mondiale. Era solo così che il Santuario si salvava un po’ dalla Crisi e riusciva a prosperare nonostante tutto.
Perciò, se il Gran Sacerdote prenotava una traversata da Atene a dove voleva, nessuno glielo negava. Così era successo.   
Aiolia aveva pensato di affidarti Neera. «É in gamba ed è migliorata molto dalla missione a Roma, adesso ti sarà d’aiuto, vedrai». Tu avevi annuito e avevi guardato la Sacerdotessa-Guerriero con indosso la Bronze Cloth d’Indus. Le piume del copricapo simulate dalla corazza s’innalzavano dietro la sua testa, facendola somigliare a una sciamana di certi documentari. Persino la maschera coi segni blu aumentò quest’impressione. La protezione al busto ricordava una giacca di pelle scamosciata, aveva persino le decorazioni di uno scaccia pensieri. Il fianco era cinto da una fusciacca azzurra e  braccia e gambe erano protette da schinieri e bracciali.
Indossava delle calze di colore scuro ma a causa dell’oscurità della notte, non riuscisti a riconoscere il colore e degli stivali cinti dagli schinieri. Al polso sinistro una polsiera scura e un guanto senza dita con un bracciale di perline colorate che lanciavano un tenue brillio alla luce delle fiaccole e della Luna e un guanto senza dita. Le unghie erano affilate e smaltate di un colore scuro.
Non sembrava neanche la stessa ragazza che Aiolia prese sotto la sua ala protettrice solo una settimana prima. Non che tu l’avessi osservata granché prima (degnata di uno sguardo. “D’accordo, degnata di uno sguardo”, pensasti in tono conciliante).  
«D’accordo». Concedesti, poi, la portasti con te, intuendo la mossa di Aiolia. Probabilmente, ammesso che Astrid avesse di nuovo osato attaccare, avrebbe avuto rimostranze nel vederti. E, sì che pensavi che non avesse fiuto per le strategie, quell’impulsivo. A meno che non gliel’avesse suggerito qualcun altro.
In ogni caso arrivaste ai dormitori e, come d’accordo con Geki e gli altri insegnanti prendeste i bambini. Avevate stilato un percorso che passava da un corridoio sicuro monitorato dal Bronze Saint del Reticolo.   
Sareste passati da una scorciatoia che vi avrebbe portati al Pireo, ergo molto vicini alla Macchia Incantata (da te così rinominata in uno slancio poetico) quel che non potevate prevedere, fu Astrid. Tutto vi sareste aspettati fuorché trovarvela lì tra quelle rocce.   
Eravate stati anche molto attenti a nascondere il Cosmo e a non passare nei pressi dell’infermeria. I capelli smossi e la camicia da notte bianca, dal vento. Bella come la Luna, terribile come un esercito. Sembrava sul punto di trasformarsi in chissà quale creatura demoniaca, con quegli occhi che, anche da qui, ti sembrava splendessero, gialli, nel buio. Non solo le mani. 
Le spalle si sollevavano e si abbassavano velocemente mentre lei respirava col naso per calmarsi.
Si era fatta tutta questa strada a corsa nelle sue condizioni? No, non era affanno, era frenesia, lei stava fremendo. Stava ritta in piedi davanti a voi ma aveva l’aria di chi aveva atteso un’eternità. E, a giudicare da come fulminava la Sacerdotessa-Guerriero al tuo fianco, non era per l’attesa che era così incollerita.
Le braccia lungo i fianchi e i pugni contratti. «Astrid?» Domandasti perplesso.
«Dì la verità». Sibilò lei per tutta risposta senza calcolarti di striscio.
«Cosa? Ma di cosa stai parlando? Ti ha dato di volta il cervello?»
«Ne ho abbastanza di questi giochetti, Neera, potrai ingannare tutti gli altri ma non puoi ingannare me». 
«E questa chi è?» Domandò lo Specter della Farfalla, guardando la nuova arrivata confuso e poi divertito. La giovane ignorò direttamente l’invasore per concentrarsi sulla Sacerdotessa-Guerriero al tuo fianco.   
«Astrid, vattene via!» Rincarasti la dose spazzando l’aria con un braccio nel tentativo di scacciarla. Ma la tua amica non si mosse. Sfoderasti una rosa rossa dal nulla e i bambini lanciarono dei gridolini mentre Neera cercava di tranquillizzarli e, al tempo stesso, tenere d’occhio la probabile avversaria. «Non ti azzardare ad avvicinarti alle voliere, Neera». Sibilò minacciosa lei mentre lo Specter passava all’azione quasi scavalcandola. «Con permesso, bellezza, ma c’ero prima io». Sorrise sornione mentre sfoderavi una delle tue rose e lo Specter sorridendo divertito sollevava con la forza del pensiero dei massi. «Ma che diavolo vuoi, tu!» Esclamò Astrid rivolta allo Specter prima di spintonarlo da parte con tutta la forza di cui era capace e materializzare il suo falcione di cosmo dorato. Per la sorpresa lo Specter perse la presa sui massi che caddero a terra, facendola vibrare e Astrid si scagliò addosso a Neera mentre i bambini arretravano.
Tu non permettesti ad Astrid di toccarla che le lanciasti contro una serie di rose che fu costretta a schivare. Saltò su una roccia e si portò relativamente al sicuro mentre lo Specter osservava stupito la scena.
La bionda si accucciò, una smorfia bestiale dipinta in faccia.
Minacciasti di lanciarle altre rose. «Non un passo».
«Nobile Aphrodite!» Esclamò la giovane Bronze.
«Via! Porta via i bambini, questi li fermo io!»
«Illuso, tu credi di fermarmi?» Ti sbeffeggiò il nemico, mentre la seconda se ne restò zitta. Poi scomparve e riapparve dietro Neera, puntandole il suo falcione di Cosmo al collo. Non l’avevi neanche vista spostarsi, come diavolo aveva fatto? Al sentire il piccolo strillo della giovane Sacerdotessa, le grida dei bambini cambiasti immediatamente bersaglio. Ti girasti e bersagliasti la tua amica con le tue rose nel tentativo di sfiorarla. Sarebbe bastato anche solo essere sfiorata dalle spine o la punta dei tuoi letali boccioli per finire avvelenati. Ma a te, sarebbe bastato far sì che Neera si scostasse mentre tu, con un salto, scagliavi le tue rose tutto attorno ad Astrid, formando un cerchio. La ragazza non fece neanche in tempo a emettere un verso che si sentì crollare in ginocchio.
La Bronze Saint volse il volto coperto dalla maschera verso di te.
Tornasti a terra e, tornasti a occuparti di Myu, che stava arrivando. Ti girasti, piantasti un piede a terra e facesti crescere tutta una selva per impedire alle fairy e al loro padrone di raggiungere i ragazzini. Infatti, facevi nascere alla velocità della luce, nuove spine e nuovi tralci, proprio dove passavano queste farfalle, uccidendole con la mira del cecchino qual eri. E, lo Specter, per evitare di ferirsi e vedersi lacerare le ali in quella selva di spine acuminate, si fermò e arretrò salendo di quota con un’agilità e una grazia che non gli credevi proprie.   
Proprio in quel momento vedesti la ragazza, che era caduta a terra, rialzarsi e lottare contro il profumo stordente della gabbia. «Che cosa? E’ ancora sveglia?» Esclamasti sbalordito mentre Astrid si teneva la gola con una mano e si puntellava con l’altra a terra, per evitare di cadere completamente a terra.
«Lo hai dimenticato, Aphrodite? Anch’io sono una Saint». Riuscì a dire, il volto nascosto dai capelli che le erano scivolati in avanti, prima di tapparsi le vie respiratorie con entrambe le mani.  «Porta via tutti, subito!»
«Sì!» Esclamò prima di correre via, dietro ai bambini.
Improvvisamente la terra cominciò a tremare violentemente. Ti girasti e vedesti i tuoi tralci di rose spezzati da macigni che venivano scagliati sulla barriera di spine a una velocità e un’angolazione impossibile per una semplice frana. «Myu!» Sibilasti. I massi non cadono in orizzontale. Astrid fece per rialzarsi in quel momento e tu spalancasti gli occhi. Le facesti da scudo con il tuo corpo, frapponendo tra te e il masso una rosa demoniaca. La roccia andò in frantumi non appena la toccò e Astrid si riparò dietro di te per evitare di essere colpita dai frammenti. Proprio mentre il masso esplodeva lo Specter comparve davanti a te spalancando le ali e, con un ghigno, ti schiantò contro un’altra roccia tramite i suoi poteri telecinetici. Accidenti. Non avevi contato che approfittasse del suo stesso attacco per coglierti di sorpresa.
Ma mai quanto la ragazzina che, approfittando di questo momento di distrazione, era riuscita a uscire dal cerchio di rose e adesso, stava scendendo rapidamente la china. Ma te ne accorgesti solo quando ti girasti.  

 

Ti lanciasti al suo inseguimento e riuscisti ad afferrarla. Lei lanciò un gridolino sorpreso, forse pensando che era inciampata. Poi percepì la tua stretta, ma non fece comunque in tempo a fare niente che la prendesti per le spalle e la inchiodasti con violenza contro la roccia. Non t’importò niente della sua beltade, in quel momento; volevi solo tenerla ferma. Lei provò a divincolarsi, ma tu glielo impedisti. Provò anche a colpirti ma le catturasti il polso con una mano. Te ne bastava una sola per tenerla ferma. «Ascolta, Astrid, basta, fermati!» Cominciasti, sentendo quanto questi modi ti fossero estranei. Urlare contro una persona non era da te, non era nelle tue corde, ma non avesti altra scelta: «Astrid! Astrid! Smettila!» Come se ti avesse finalmente udito, per la prima volta ti guardò davvero. Catturasti il suo sguardo con le tue iridi, costringendola a inchiodare i suoi occhi, fiammeggianti d’ira e puerile rabbia omicida, nei tuoi. «Non è lei il nemico! Non è lei il nemico! Non è lei» Le urlasti, sovrastando finalmente la sua voce. Lei ti trapassò con lo sguardo. Le iridi gialle erano accese di un bagliore ferino. Ora non ti sembravano più così umane, nonostante che continuassero a mantenere la pupilla tonda. Per un momento vedesti balenare il muso di un uccello rapace al posto del suo viso, ma non smettesti di parlare. «Mi senti? Non è lei! Qui c’è uno Specter, quello è più pericoloso! Quello vuole Yuna, Kouga, Ryuho Raki e tutti coloro che non hanno ancora un’Armatura!» A sentire quei nomi i suoi occhi si accesero di paura, come se, fino a quel momento, non si fosse neanche accorta che erano presenti «Non t’importa niente dei bambini? La tua vendetta è più importante di loro?»
«No, certo che no». Disse, abbassando finalmente il braccio con cui la tenevi ferma. «Ma Neera…»
«Non è importante! Adesso sei una Saint, devi imparare a fare ordine nelle priorità e a non intralciare i tuoi superiori. Stai intralciando una missione di salvataggio, te ne rendi conto?»
«Io, io non… sì». Ammise alla fine, sconfitta, rilassando le sue fragili membra. La traesti a te, stringendola in un abbraccio per consolarla. Poverina, avevi molta compassione di lei. Forse fu proprio questo che ti spinse a trarla a te. La giovane trasalì sconvolta da questa manifestazione d’affetto nei suoi confronti, decisamente fuori luogo. Soprattutto dopo che le avevi ricordato che tu eri un suo superiore e, come tale andavi rispettato. Però era come amico che la stavi stringendo a te e, lei se ne accorse. Infatti, ricambiò la stretta. Proprio allora, ti domandò, «Cosa posso fare per rimediare?» Niente, non c’era niente che potesse fare. Aveva causato abbastanza danni e, anche volendo, non era capace di affrontare uno Specter in uno scontro diretto. Per non parlare del fatto che Lancelot e il suo maestro, probabilmente erano nelle vicinanze e stavano aspettando il momento giusto per coglierla di sorpresa e catturarla. Le avevi detto che era una Saint, ma era solo un’apprendista, uno dei tanti soldati della Dea, appena un gradino più forte dei soldati semplici. Il suo Cosmo si era appena ridestato e, sicuramente, non era neppure in grado di controllarlo. Non dopo la visione che Kiki aveva condiviso con voi.
La cosa migliore da fare era rispedirla da dove era venuta. Avresti potuto farlo, con tanto di nota di demerito e punizione per insubordinazione. Però la conoscevi, lei era uno spirito libero, non si sarebbe mai piegata a nessun ordine neanche sotto tortura. Ricordavi ancora troppo bene, grazie ai racconti dei tuoi compagni, come avesse risalito da sola le Dodici Case e, come avesse quasi bastonato Aiolia. Anche se tu le avessi detto di no, lei non ti avrebbe ascoltato. Eppure, più ci pensavi, più realizzavi che lei non era una sprovveduta. In quel corpicino che stringevi tra le braccia, sentivi la sua forza come una luce giallo dorata con il nucleo bianco. Una forza che gridava di essere usata. E che l’avrebbe spinta a gettarsi nella mischia a ogni costo. Perché lei sapeva che buona parte delle disgrazie che erano accadute erano colpa sua. E, per questo, non avrebbe mai lasciato i suoi amici in pericolo. 
E, con questo, ogni tua remora, fu spazzata via.
La discostasti per guardarla e le dicesti: «Astrid, ho bisogno che tu faccia una cosa per me».
Lei ti guardò sbalordita. «Cosa?»
«Ho bisogno che tu usi il Potere dei Tarocchi per fermare lo Specter».
«Non so se funzionerà anche in questo caso; i suoi poteri sono di una natura completamente diversa e poi le Creature sono appena qui fuori…».
«Io so che riuscirai a farlo funzionare». La bloccasti, poggiandole la punta del dito sulla bocca, per zittirla. Continuando a guardarla negli occhi con intenzione. Lei annuì e tu togliesti il dito. Poi la lasciasti andare e cominciasti la discesa. 
«Dopo posso tornare a dare la caccia a Neera?» Ti domandò la tua amica.
«No».
«Sì».
«Scusami?» Domandasti retorico girandoti di tre quarti verso di lei, una mano sul fianco.
«Hai sentito». Ribatté con aria di sfida. «Non tirare troppo la corda e limitati a fare quello che ti ho detto». Le ordinasti in un tono che non ammetteva repliche. Lei ti scoccò un’occhiataccia e sbottò, inviperita: «Come desideri».
«Dopo farai tutto quello che ti pare, ma non adesso, è un ordine». Mormorasti dandole le spalle.
«Signorsì, capitano». Sibilò prima di materializzare nuovamente la sua falce di Cosmo. «Ma lo farò a modo mio!» Ti urlò lo stesso prima di scendere agilmente tra le rocce, sinuosa come un serpente.
Alzasti lo sguardo al cielo e vedesti le Creature sciamare attorno alla barriera della Dea. Ti venne istintivo di pregare Atena, che Astrid riuscisse a sostenere il compito che le avevi affidato.
Raggiungesti Neera e gli altri in paese, mentre i soldati provvedevano a evacuare i civili. Ti facesti largo tra la folla (maledicendo la malasorte che vi impediva di combattere con i vostri pieni poteri. Adesso capivi perché proprio Myu era stato mandato qui) e vedesti la giovane combattere assieme a Ryuho del Dragone e a Yuna, contro lo Specter, supportati da Raki, che, con le sue capacità, cercava di tenerlo a bada assieme al suo maestro. Tutti che ben presto si ritrovarono al tappeto dalla psicocinesi dell’uomo, che li giudicò uno per uno: «Troppo debole, troppo frettoloso, acerbo».
«Myu della Farfalla!» Gridò Kiki e l’uomo si girò verso destra, restando comunque sospeso a mezz’aria grazie al battito delle sue ali e, il tuo commilitone fece la sua comparsa. Raki gridò, felice di vederlo: «Maestro!» Ma il suo maestro l’ignorò e concentrò la sua attenzione sull’avversario.
«Ci conosciamo?» Domandò lo Specter incuriosito dallo sguardo di fuoco che il Gold Saint di Aries gli stava scoccando. Anche se la sua domanda suonò troppo sorpresa per essere sarcastica.
«Direi proprio di sì». Ribatté il lemuriano prima di tendere un dito verso di lui e mandare incrinare pericolosamente la sua Armatura. L’avevi dimenticato, ma lui era capace di vedere i punti deboli delle Cloth e, a quanto sembrava, anche delle Surplici. Ma lo Specter non restò inerme, infatti, lo spinse via con la telecinesi e, si riparò la Surplice da solo. 
«Indietro!» Urlò il Cavaliere d’Oro ai bambini, prima di tendere le braccia verso lo Specter e gridare: «Crystal vortex!» Ma lo Specter si spostò velocemente ed evitò il colpo, che andò a distruggere il piano superiore di una casa vicina.
Improvvisamente, Myu afferrò Kiki con la psicocinesi, provocando le grida di Raki e tuffò il suo sguardo nel suo: «La tua mente è debole».
«Filo del Tomahawk!» Urlò Neera e lanciò il proprio attacco contro lo Specter che lo evitò facilmente e, ordinò alle fairy di catturare quante più persone possibili. «No! Crystal Wall!» Fece Kiki e aprì il muro di cristallo a ventaglio sui bambini e la Bronze Saint. Le farfalle ci passarono sopra e, dopo averlo appena sfiorato, cominciarono a spaccarlo. «Credi davvero che possa funzionare? Non ti distrarre, ragazzino!» Fece e, Kiki tornò a concentrarsi solo su di lui.
Improvvisamente comparvero tutta una serie di lacci attorno alle case che andarono a formare una ragnatela e, tra di essi, scese un uomo dai lunghissimi capelli bianchi, dello stesso colore di quei lacci. Se non fosse stato per il tenue alone che lo avvolgeva, non avresti neanche capito che si trattasse di una carta. Una carta, che riprese ad accanirsi contro Neera e, al tempo stesso, contro lo Specter.  
Il nuovo arrivato isolò tutti voi con una fitta rete di fili o capelli (o qualsiasi diavolo di cosa fosse) e impedì ai soldati semplici di portare via i bambini, che, per contro, presero a battere sulle pareti della carta. Neanche i soldati dall’altra parte riuscirono a fare qualcosa. Neera provò a tagliarli per aprirsi una via ma la carta si scagliò contro di lei. Presto si ritrovò con le caviglie immobilizzate e anche il resto del corpo. Ti precipitasti dalla Bronze Saint che cercava di liberarsi dei lacci senza successo, ormai immobilizzata quasi del tutto. Corresti in soccorso della ragazza urlando: «No! Che stai facendo? Non ti ho ordinato questo!» Ma i tuoi tentativi di liberarla si rivelarono inutili, allora ci provarono Ryuho e Yuna ma non cambiò niente.
«Tiratemi fuori!» Strepitò lei. Provaste a concentrare tutto il vostro Cosmo su Neera, dandole la forza per riuscire a liberarsi e, la ragazza, spezzò i fili, che si dissolsero. Nello stesso momento anche quelli su una strada laterale si allentarono e, i soldati riuscirono ad aprire un pertugio per permettere ai bambini di passare. 
Kiki piombò a terra, creando una piccola depressione sotto di sé. Che diavolo stava facendo, Astrid?
«Oh, adesso avete persino le illusioni. Questa non me l’aspettavo, Gold di Aries, devo ammettere che siete molto più forte del vostro predecessore, ma è tutto inutile».
Non capivi queste battute, era come se metà se le dicessero nella mente e l’altra metà a voce.
L’essenza della carta stava per colpirlo quando lo Specter girò il volto verso di lei, tese una mano e la medesima s’immobilizzò e, con un grido muto, s’inarcò all’indietro e poi, esplose in una miriade di scintille che crollò al suolo. La stessa fine fecero anche i lacci. I bagliori si radunarono in un rettangolo di luce che se ne volò via.
«E, adesso a noi».
«Prima dovrai passare sul mio cadavere!» Esclamasti. Sapevi che, in virtù del Patto, non poteva ucciderti, ma lo Specter sorrise sinistro: «Come desideri». E, usando la sua psicocinesi, ti spostò con violenza verso le rovine d’allenamento e, ti mandò a schiantarti contro una colonna. Provasti a opporgli le tue rose ma queste, sospinte dalla sua forza si ribellarono a te e si scagliarono contro te medesimo. Riuscisti a evitare tutti i fendenti per un soffio, ma uno ti ferì sotto l’ascella.
«Ah!» Esultò trionfante lo Specter, poi, spingendo di lato, cercò di infilarti le tue stesse spine dentro la tua carne, strappandoti ululati di dolore. Mentre la tua stessa pianta ti gridava che non voleva, che non riusciva a respingerlo.  
Allora l’afferrasti con l’altra mano e te la strappasti da te, lanciando via il fusto. Poi, ti tamponasti la ferita con la mano. Che dolore, così non potevi usare il Cosmo né difenderti. «Addio, Pisces!» Ti urlò prima di scagliarti contro uno sciame di fairy degli Inferi.    
Stavi per essere colpito, quando, improvvisamente, dietro di te, sentisti la presenza di Astrid. E, un drappo variopinto si parò davanti a te. Guardasti meglio e vedesti un giovane uomo dai capelli corti con una benda bianca sulla fronte e ornamenti floreali sulle braccia, sul collo, persino tra i capelli, pararsi di fronte a te. Quello che avevi scambiato per un drappo variopinto, altro non era che la sua veste rossa, decorata con il simbolo dell’infinito in oro, ripetuto per varie volte sulla schiena. Alle orecchie indossava dei pendenti di forma circolare. La mano destra, recante una bacchetta bianca, sollevata verso lo Specter come a indicarlo. Nell’altra un bastone e, indossava una tracolla da cui s’intravedeva una coppa.  La sua figura era circonfusa da un alone di luce dorato, più lieve del tuo, quasi bianco, a dir la verità, come se lui stesso nascesse dalla luce. Allacciata al suo fianco c’era una spada, 
Myu della Farfalla s’immobilizzò a mezz’aria con un grido strozzato: «Cosa sta succedendo? Chi sei tu?» La Carta non rispose e, quando lo Specter le scagliò contro le fairy, il nuovo arrivato, mosse la mano con la bacchetta e, attorno a voi comparve uno splendente, lussureggiante tappeto di fiori e piante tali, da fare invidia alla tua Profusione Floreale. Ti portasti accanto a lui e ti accorgesti che gli orecchini recavano un pentacolo inciso su di essi. Al collo portava un medaglione recante lo stesso simbolo.
«Che cos’è questa luce?» Urlò lo Specter cercando di ripararsi gli occhi con le mani, alzandosi di quota, mentre le fairy si posavano sui fiori, finendo nella trappola della Carta. La quale, dissolse l’illusione e rivelò di trovarvi tutti sulla Carta della Luna. Non avevi mai visto una cosa del genere prima d’ora, non così grande. Poi tornasti a guardare lui: «Tu sei il Mago». Dicesti, sorpreso, mentre ti tenevi la mano premuta sulla ferita con l’altra, per arginare l’emorragia, laddove ti aveva colpito, trovando la carne morbida.  
La carta si limitò a restituirti lo sguardo con la coda dell’occhio, dopodiché tornò a prestare la sua attenzione allo Specter. «Credi di farmi paura?» Domandò e gli lanciò contro altre Fairy un’altra volta. Il Mago estrasse una coppa dalla bisaccia e la tese verso di lui come una pila elettrica e, le farfalle cambiarono immediatamente direzione, lanciandosi addosso al loro padrone. Il quale, fu costretto a evitarle di nuovo con un volteggio. Il Mago abbassò la coppa.
«Non è possibile!» Esclamò sorpreso lo Specter, vedendo la Carta della  figura maestosa della Morte Alata emergere dalla Luna, che, si era aperta in due come una porta. Una porta da cui uscirono degli spiriti urlanti. «Spiriti?» Esclamò l’avversario, riconoscendoli. «Non è possibile! Il Gold Saint di Cancer è negli Inferi! Chi è che usa il suo potere?»
«Non è un Cosmo! Questa è magia!»
«Menzogne!»
In quel momento, Kiki si teletrasportò da te e restò sconvolto nel vederti in compagnia delle carte di Astrid. «Aphrodite!»
«Kiki!» Lo raggiungesti e lasciassi che le carte duellassero contro questo sfidante d’eccezione.
Lo Specter si era dimostrato talmente abile, che Astrid si era vista costretta a usare ben tre carte contro di lui. Questo significava soltanto una cosa: cioè, come temevi, non era abbastanza forte per tenere testa a uno Specter.  
«Che cosa sono?» Ti urlò Kiki mentre osservava lo Specter della Farfalla battersi contro la Carta della Morte, la quale elevò la falce, che lanciò un sinistro brillio e, si lanciò contro di lui. Ben presto lo Specter iniziò a perdere terreno, accorgendosi di essere ancora bloccato mentalmente. «É il Potere dei Tarocchi di Astrid».
«Astrid? Vuoi dire che lei…»
«Sta combattendo assieme a noi, sì!» Poi sibilasti di dolore e fosti costretto a piegarti a causa di una sferzata più bruciante delle altre. «Aphrodite!»
«Sto bene».   
Ti lasciasti portare via dal tuo commilitone, che, riuscì a importi il suo volere e lasciasti che se la sbrogliasse Astrid. Vedesti che Neera e gli altri avevano radunato i bambini lì ed erano nei pressi della Macchia Incantata. Anche se sul punto di svenire, le tue narici funzionavano ancora.
Bene.
Eravate quasi usciti dalla zona rocciosa e, stavate per raggiungere il mare. Ti scostasti da lui asserendo che da lì in poi ce l’avresti fatta anche da solo e lui ti lasciò fare.
Neera e gli altri vi vennero incontro. «Venite con me, nobile Aphrodite…» aveva appena proferito la Bronze Saint di Indus quando Astrid fece la sua comparsa, balzando su un masso. «Trovata, finalmente!» Esclamò facendo spaventare tutti, soprattutto Neera.
«Astrid!» Esclamaste voialtri e tu avesti un mancamento. Che cosa ti stava succedendo?
Ma la giovane non ci fece caso e alzò una mano come se fosse un burattinaio. Le sue dita passarono a rilucere dal bronzo all’argento e poi all’azzurro. «Fermati!» Ruggì lanciandosi addosso a Neera, la quale, non poté fare altro che ripararsi il volto dietro il braccio ma Kiki l’afferrò, solo per scostarsi a sua volta a causa di una bastonata a tradimento. Aveva appena materializzato il suo falcione di Cosmo. «Sta indietro, Kiki, è una faccenda tra me e Neera!»
La Bronze Saint cercò di farla ragionare: «É per via del sasso che ti ho tirato? Se è così mi scuso, sono mortificata…»
«Non me ne può importare di meno di quel sasso, ti avevo detto di stare lontana dai miei amici».
«Astrid!» Esclamò Kiki mentre ti fasciava la ferita con una parte del suo mantello.  «Te lo ripeto un’altra volta, sta lontano da loro, traditrice!» A queste parole la folla prese a mormorare, soprattutto quando la bionda si mise in posizione. «Cosa?», «Una Bronze Saint?», «Ma che fa?», «Non è vero! É impossibile!»
«Ma cosa vai dicendo, Astrid?» Urlò Kiki e Raki guardò sconvolta la sua amica. La quale continuò, il respiro affannoso per lo sforzo compiuto: «Li ha uccisi lei, è lei che vi sta uccidendo tutti, ancor prima delle Creature!»
«Iago!» Gridò una vocina: «Dov’è Iago?».
«Chi è Iago?»
«É uno dei bambini. Manca all’appello, vuoi vedere che…!» Rispose Yuna.
Nonostante questo, le due sfidanti non smisero neanche per un secondo di guardarsi. Era come se si fossero completamente estraniate dal resto del mondo. Due leonesse pronte a sbranarsi per niente; ecco cos’erano. Approfittasti di questa parapiglia per imprigionare Astrid, tra le tue rose. La giovane non riuscì neanche a tagliare i fusti e Kiki urlò ripetutamente il suo nome. 
«E siamo a cinque». Mormorasti, mentre la bionda cercava di liberarsi dalla stretta dei tuoi rovi, ferendosi la pelle e lacerandosi la camicia da notte. Se fin qui avevi sperato che fosse la proiezione del suo spirito, adesso provavi solo dispiacere. Era quasi un dolore per te, vedere cotanta bellezza lunare gettata al vento in nome di un’ossessione. E con che forza continuava a perseguire codesta ossessione!
Il potere sprigionato dalle carte che aveva rivelato era gigantesco. Era riuscita a utilizzare tecniche proprie dei Gold Saint di Cancer e di Aries. Ma non era riuscita a fermare lo Specter. Non avevi contato che avesse già giocato d’astuzia. Guardasti questa ragazza non riconoscendola. “Chi sei, tu? Che ne hai fatto di Astrid?” Dicevano i tuoi occhi, mentre turbato cercavi in te la forza di non stringere troppo la presa sui rovi.
Ma, prima che succedesse qualcosa, Astrid crollò svenuta dopo il colpo di taglio alla testa che le dette Kiki. La sorresse e tu allentasti la presa sulle rose e le facesti ritrarre, di modo che il tuo compagno potesse prenderla in braccio.
Poi, tornaste alle Dodici Case senza dire niente.
Ai piedi della Prima, trovaste il Pontefice, Milo e Aiolia. Se persino Kanon si era scomodato, la situazione era molto più grave del previsto.
«Portatela a Capo Sounion». Ordinò Kanon appena vi vide, mentre la giovane Saint cercava rifugio tra le braccia del Cavaliere del Leone. Il quale, imbarazzato dalla manifestazione d’affetto eccessiva della Sacerdotessa, chiese congedo per lei e la mandò alla Quinta. Ben presto Neera scomparve, inghiottita dall’oscurità.
«Signore!» Esclamasti tu in coro con Kiki. Avevi fatto crescere le tue rose e ti eri curato le ferite tramite le medesime, che si erano scusate a più riprese per averti ferito. Quando fosti guarito e il tuo Cosmo fu di nuovo allo stato ottimale, avevi fatto sparire quei fusti ed eravate tornati al Santuario, mentre del gruppo dei bambini si era offerto di completare il lavoro un altro Saint minore. «Non resisterebbe, siate magnanimo».
«O questo o le prigioni. Astrid si è rivelata problematica e ingovernabile. Finora le abbiamo taciuto la verità sul suo maestro ma se continua così, non ci resta altra scelta».
«Non sarebbe più semplice, invece, allontanarla dal Santuario e portarla in un luogo sicuro?» S’intromise il vostro collega dell’Ottava, prendendo parola per la prima volta nella faccenda. «Quale, Scorpio?» Chiese il fratello minore di Saga interessato.
«Per esempio l’Isola di Milos, o quella di Kanon». Propose.
«E tu credi che lei ci resterebbe?» Ribatté Sua Santità, pungente e sarcastico. “Credi forse che lei possa essere sì mansueta e docile?” No che non ci sarebbe rimasta, quella era arrivata a un punto in cui non ascoltava più nessuno. Ti doleva ammetterlo, ma Astrid aveva perso la testa. Cosa che invece nessuno sembrava voler accettare e vedere. «Sì se glielo spieghiamo. So che sembra impazzita ma non lo è, è una ragazza assennata e ragionevole, ma non si rende conto dei pericoli in cui si mette e lo stress accumulato in questi mesi ha influito notevolmente sulla sua psiche, portandola a questo tracollo. Io sono convinto che sia caduta sotto l’influsso di Odysseus, altrimenti non attaccherebbe mai così senza motivo e con tanta ferocia. Inoltre, se l’allontanassimo, avremmo qualche probabilità di mandar via anche il suo maestro e il suo aguzzino». Gli occhi color del mare di Milo si posarono su Astrid tra le braccia di Kiki, poi concluse, tornando a guardare il Portavoce di Atena in Terra, «Se c’è veramente un traditore come sostiene, allora va protetta e finché resta qui è un bersaglio tanto quanto noi».
Quest’ultimo soppesò le sue parole prima di dichiarare il suo verdetto: «D’accordo allora l’affido a te, partirete domani stesso».
«Sua Santità».
«Sua Santità! Io protesto formalmente!» Esclamò invece Aiolia adirato e Kanon lo guardò. «La giovane av Stjernene non se la può cavare con così poco per tutto lo scompiglio che ha portato nelle Dodici Case, soprattutto dopo la compromissione della missione di salvataggio». Il Gran Sacerdote si girò verso di lui, che continuava a sproloquiare. «Adesso è una Saint, non può più permettersi certi colpi di testa, deve attenersi alle regole, pertanto va punita secondo le regole. Per un’insubordinazione deve essere punita».
«Non è così, ha usato il Potere dei Tarocchi perché gliel’ho detto io». Esclamasti tu, portandoti una mano al petto come a indicarti, mentre avanzavi di un passo. E i tre uomini ti guardarono sbalorditi. Kiki aggiustò meglio la presa su di lei. 
«Cosa suggerisci, Aiolia?» Domandò Kanon senza lasciar trapelare alcuna emozione.
«Che venga sottoposta all’Ordalia».
«Intendi quella pratica barbara ove l’accusato deve subire la pesatura del sangue con la Gold Cloth della Bilancia? Vuoi davvero che, in caso di colpevolezza, il suo sangue bagni la sabbia dell’arena per ovviare al peccato di cui lei stessa si è macchiata?»
«No. Richiedo di sfidarla io stesso».
«Sai che non te lo posso permettere, Astrid è sotto la protezione di Lady Yoshino Hino, deve essere lei a decidere come punire la Saint, anche se appartiene alle nostre schiere. Purtroppo, so che non ti farà piacere saperlo, ma ci troviamo in un conflitto d’interessi. Inoltre adesso, abbiamo un nemico più potente contro di noi e Astrid potrebbe rappresentare la nostra unica speranza di salvezza, dal momento che manca un Cavaliere d’Oro all’appello».
«Quindi avete intenzione di non fare niente?»
«No, parlane con Scorpio, delego a lui ogni responsabilità della faccenda, in quanto lo nomino  custode di Astrid av Stjernene seduta stante».
Aiolia girò la faccia verso il compagno dell’Ottava, rivelando due occhi grandi così nel vedere l’espressione ferma e seria dell’amico di tante battaglie. Il quale, se ne stette a braccia incrociate con aria di sfida.
Kanon se ne tornò alla Tredicesima, seguito da Aiolia, che lanciò uno sguardo truce all’aracnide. Quando fu abbastanza lontano raggiungeste il vostro commilitone, che l’aveva accompagnato tutto il tempo con lo sguardo. Il quale si girò verso di voi.
«L’hai salvata». Mormorasti stupito.
«Non potevo non farlo». Ribatté mentre tu e Kiki vi avvicinavate. Gli occhi del cicladico indugiarono un secondo su Kiki e Astrid. Tu ti accigliasti leggermente, quando vedesti il lemuriano spalancare i propri per lo stupore. Che l’avesse fatto per lui? Allora si era accorto anche lui della sua cotta.
Milo si guardò intorno, circospetto, prima di avvicinarsi a voi e confidarvi, sottovoce: «Non sono sicuro al cento per cento che Astrid sia dalla parte del torto, credo che ci sia veramente qualcosa che non va tra le nostra fila, proprio come ai tempi della dominazione di Arles».
«Anche le piante mi dicono la stessa cosa». Confermasti tu con il medesimo tono.
«Anch’io ho percepito delle stranezze nei pensieri delle nostre file, ultimamente. Tu sapevi di Astrid?» Chiese invece il Gold Saint di Aries, stavolta guardando te.
«Sì, ho chiesto alle piante di tenerla d’occhio, credetemi, le piante non mentono. Mi hanno riferito che qualcuno all’interno del Santuario pensa che lei sia un ostacolo, se non fosse stato per la sua fissazione nei confronti di Neera, sarebbe stata uccisa stanotte stessa».
«La stessa cosa che ho sentito anch’io. Ho ritenuto opportuno sondare i pensieri di Neera da quando è stata spostata nella Casa del Leone e più volte mi è sembrato che la sua mente non fosse naturale».
«La sua fissazione per Neera sta portando scompiglio». Dicesti tu. «Non credo che portarla altrove contribuirà ad arginarla».
«Non è solo questo». Disse Kiki, scoccandoti uno sguardo riprovevole, mentre aggiustava la presa sul corpo privo di sensi di Astrid. Ed entrambi lo guardaste. «Allora cosa?» Chiedesti e, così, venisti a conoscenza di ciò che era accaduto alla tua protetta. Milo non sembrò affatto sorpreso, al contrario di te. «Quando è successo?» Domandasti tu, sorpreso, togliendoti la rosa da sotto al naso. Battesti le palpebre sorpreso. Non ti risultava che fosse morto qualcuno a lei caro ultimamente e Kiki, mentre la riportavate in infermeria, ti raccontò cosa era successo per farla cambiare tanto. Milo ascoltava scoccando ogni tanto degli sguardi di pietà ad Astrid.
Ascoltasti il tutto con vago interesse e dispiacere, poi guardasti Astrid, o almeno, quel poco che riuscivi a vedere di lei, a causa della posizione. Questo le piante non te l’avevano detto. Ma questo perché anche tu non avevi mai parlato con gli arbusti delle montagne del suo osservatorio astronomico. Neanche con la macchia mediterranea. A onor del vero, neanche sapevi che lei avesse un osservatorio astronomico, perché la tua sfera di influenza era circoscritta al tuo raggio d’azione. Altrimenti le piante ti avrebbero assordato e fatto impazzire.
«Comunque, non può restare qui, per stanotte, va riportata in astanteria». Disse Kiki. «E’ uscita prima della completa guarigione e si è ferita un’altra volta, non vorrei che si prendesse un’infezione».
«Hai ragione, Kiki, non credo sia neanche il caso di portarla da Shun, dobbiamo per forza attraversare la Casa di Aiolia e, francamente, non mi fido». Si accodò Milo. Che, da quando era stato buggerato per tredici anni, si era fatto ancora più acuto di prima. E, se persino lui non vedeva di buon occhio Neera di Indus la cosa faceva riflettere moltissimo.
«D’accordo, allora dalla a me, ce la riporto io, così posso curarla immediatamente durante il tragitto». Spiegasti a fronte dell’occhiataccia lanciatati da Kiki. Così fosti costretto a dirgli di venire a sua volta.
E lui acconsentì.

Restaste in compagnia di Astrid le ore restanti della notte e, se Kiki si addormentò al suo fianco, seduto su una sedia, tenendole una mano, tu vegliasti sui due piccioncini tutto il tempo. Se non gli scattasti qualche foto era perché temevi che il flash del telefono, avrebbe potuto svegliarli.
Poi, ti alzasti dalla sedia e restasti a guardare l’aurora.
Stava sorgendo il sole quando Astrid si agitò e batté le palpebre, poi si accorse di aveva Kiki al suo fianco e si mise a sedere. «Buongiorno». La salutasti parlando piano.
Lei sussultò leggermente e poi ti riconobbe: «Buongiorno; cosa è successo?» Ti chiese spaesata, la voce ancora impastata di sonno.
Tu glielo spiegasti, asserendo che stava terrorizzando i bambini. «Kiki è voluto rimanere con te; credo che non se la sentisse di lasciarti sola e io pure, volevo parlarti». Prendesti un bel respiro e ti girasti verso di lei, che ti guardava. «Perché ti sei comportata così? Non è da te questo comportamento e, non mi riferisco al fatto che hai eseguito i miei ordini a quel modo». Ma forse era anche colpa tua, essendo lei un’empatica e tu un narcisista, avevi addossato a lei buona parte delle tue colpe. A cominciare da come ti lucidò l’argenteria a gennaio. O di come non ti stesse bene il suo abbigliamento e la giudicassi comunque e sempre quelle volte che usciste insieme. E, visto che non avevi peli sulla lingua, con un bel rigiro educato, l’avevi fatta sfigurare. E ci avevi goduto, ammettilo, a trattarla così, che a causa della vostra amicizia te l’aveva lasciato fare. Adesso eri spaventato da lei e dal fatto che le tue parole l’attraversassero e non la toccassero minimamente. Questa per te era la peggiore delle torture perché ti stava beatamente mandando a quel paese, tu, la vostra amicizia e la tua indole. E, tu, non ci sapevi vivere senza lusinghe e senza essere al centro dell’attenzione. 
Sì, ti eri un po’approfittato della sua bontà d’animo, entro un certo limite, in quanto lei era sufficientemente sveglia da accorgersene e aveva un margine di sopportazione abbastanza limitato.
Una volta avevi pure sognato di farla diventare parte del tuo giardino per far sì che la sua bellezza non svanisse mai e restasse sempre giovane e incorrotta nella tua psiche. Per fortuna era solo un incubo; Santo Cielo, c’erano metodi meno devastanti come le fotografie, i ritratti, le storie, ma per carità! Non avresti mai permesso che le tue rose demoniache venissero insozzate dal sangue di una persona in generale. Tu la bellezza preferivi elogiarla non sfigurarla a questo modo. Non solo da Astrid. Anche se la consideravi un’amica, una vittima del tuo narcisismo, restava sempre la tua protetta. Ma potevi ancora definirla così? “Aspetta che lo venga a sapere Death Mask…” 
La sua voce interruppe le tue elucubrazioni: «Scusami, Aphro. É che voi non mi ascoltate e allora ho pensato di agire per conto mio».
La guardasti sorpreso: «Noi non ti ascoltiamo? Ma cosa vai dicendo? Noi ti ascoltiamo sempre, se non l’avessimo fatto non avremmo mai sondato la mente di Neera in base alle tue congetture».
Lei sospirò, chiuse gli occhi e girò la testa da un’altra parte: «Non è vero, se così fosse avreste già preso provvedimenti».
«E li hanno presi, ma per te; hai rischiato grosso attaccando Neera nelle Dodici Case in mia presenza. E anche stanotte, hai quasi mandato all’aria una missione d’estrema importanza per il Santuario. Avrei tutti i presupposti per denunciarti formalmente e farti rinchiudere a capo Sounion, come aveva proposto Kanon, ma l’unico motivo che mi trattiene, oltre a Milo e a Kiki è la tua bellezza, che non voglio che sfiorisca a causa di un probabile soggiorno in prigione». Già era più trascurata del solito, mettiamoci anche questo… No, non potevi soffrirlo. Tu stesso avevi i sensi di colpa per averla deturpata per fermarla. Ma grazie alla Dark Resurrection sembrava che non avesse avuto altri problemi.
«Se dici che è tanto grave, allora che ci faccio qui? E, poi, cosa c’entra la Piattola?» Tossì.
Le raccontasti come si era ritrovata sotto la protezione di Milo. Omettendo il resto. Lei sgranò gli occhi stupita: «Milo ha cercato di salvarmi?»
«Sì e ci è riuscito per un pelo, sappilo. Appena starai di nuovo bene dovrai andare con lui sulla sua isola e dovrai restarci finché non verrai richiamata, il che potrebbe accadere anche molto tardi o mai».    

 

La bionda affondò di nuovo tra i cuscini e sbuffò portandosi entrambe le mani agli occhi per la frustrazione. «Ho combinato un casino». Mormorò. E tu, con un certo sforzo e una piccola punta di mendacità, le dicesti che la capivi, che capivi che adesso era sconvolta e che stava soffrendo. Lei abbassò le mani dal suo volto nel sentirti chinarsi su di sé e i tuoi magnifici boccoli biondi dalle punte verde mare, scivolarono dalle tue spalle, sfiorandola come tende slegate. Le carezzasti la testa con dolcezza, tra quei bellissimi, perfetti, folti capelli biondi e le dicesti, sforzandoti di non guardare il suo volto sciupato e i suoi occhi arrossati: «Io ti capisco, davvero, so che stai soffrendo, che ora è tutto un caos, che sei spaesata e non hai valvole di sfogo, davvero, lo capisco. So anche che sei una splendida, assennata persona, perciò non lasciare che il dolore offuschi il tuo giudizio, non lasciarglielo fare, non è bello. Prenditi il tuo tempo e riposati, ci penseremo noi a sistemare tutto». Le promettesti.
«Ma come farete? Non è così semplice come sembra e le vostre stelle…» Le posasti l’indice sulle belle labbra screpolate per zittirla. Il massimo che potevi concederle in questo momento: «Tu fidati di noi». Togliesti il dito liscio e perfetto rispetto a quella pelle, ma il suo sguardo spaventato non cambiò. «Vorrei farlo, Aphrodite, ma non posso, non c’è tempo, me lo sento e poi non posso lasciare che lei continui a bazzicare per le Tredici Case. Lei non è chi dice di essere. Ho cercato di dirlo agli altri, ma non mi vogliono dare ascolto».
“E tu pensi che io ti creda dopo tutto quello che dicono di te e di me, adesso?” Pensasti per poi pentirtene subito. Dovevi almeno darle una possibilità, anche se l’avvisasti che «Secondo me stai prendendo un granchio e anche bello grosso».
«Allora dimmi questo, perché quando guardo Neera non vedo la costellazione dell’Indiano?» Chiosò lei, preoccupata. La guardasti perplesso: ora aveva pure le allucinazioni? «Come sarebbe?»
«La costellazione cambia quando i Cavalieri vengono promossi, come è accaduto a Seiya e a Shun. Se fossero ancora Bronze Saint al posto del Sagittario e della Vergine vedrei Pegaso e Andromeda. Invece non è così». Spiegò, chiudendo gli occhi. Un brivido risalì la tua schiena in concomitanza con un vago, serpeggiante, senso di timore.
Ti raddrizzasti sulla sedia, improvvisamente immobile e cereo. Avevi l’impressione che i tuoi lineamenti fossero diventati una maschera di cera: «E allora cosa vedi quando la guardi?» Chiedesti con voce fragile come cristallo.
«La costellazione della Carena».
Sgranasti gli occhi. La costellazione della Carena, non era una delle Armature scomparse dall’ultima Guerra Sacra con Artemide? Non era più stata ritrovata, né lei né il suo Cavaliere. Non era possibile. Ma Astrid sembrava seria e convinta delle sue parole. Non era che la Luce Ombrosa le avesse dato alla testa? No, non era così, qualcosa ti diceva che non se lo stava immaginando. Se era vero, allora quella cloth e il suo Cavaliere non erano mai usciti dai confini del Santuario. Perché allora non rivelarsi prima? «Non è che ti sei confusa?» Domandasti, poco convinto tu stesso, aggrappandoti alla speranza che si fosse sbagliata.
«Impossibile che io mi confonda. Ho guardato e riguardato nei libri di astronomia e in lei. Ho fatto il confronto e anche la conta, mi sono basata sul metodo delle associazioni per vedere se mi ero sbagliata o no. Qualsiasi cosa io faccia, ci sono ventisette stelle di troppo perché sia la costellazione dell’Indiano». Poi ti guardò seria e angosciata: «Era questo quello che cercavo di farvi capire, prima che mi colpiste e poi, lei non è una Silver Saint, non è neanche una Bronze».
«Come fai a dirlo?»
«La luce delle mie mani, adesso l’ho capito, assume il colore del rango dell’Armatura che indossano davvero, non del Cosmo. Nel caso di Neera si sono manifestate tre luci; Neera ha tre Armature». Come era possibile? Perché? Un Cavaliere ne aveva una per tutta la vita, al massimo poteva essere promosso, ma sempre un’Armatura restava, la precedente veniva rimessa in palio per i prossimi aspiranti Saint.
«Non era un effetto psichedelico?» Chiosasti.
«No. Vi prego, state attenti». Si raccomandò con voce impastata di sonno, prima di chiudere gli occhi e riaddormentarsi.
Non potevi metterla in pericolo ma non potevate neanche permettervi di attendere che Odysseus facesse la prima mossa. Dovevate agire voi per primi e, dovevate farlo uscire allo scoperto. Non avreste usato la pazienza delle dionee acchiappamosche, stavolta sareste stati cacciatori in piena regola. Cacciatori di mostri. Perché tu eri sicuro che Odysseus fosse qui da qualche parte. Non poteva essersene andato così da quando aveva fatto la sua ricomparsa. Poteva anche essere una proiezione astrale quella che avevano visto Aldebaran e Shaina, ma chi vuole una cosa non sparisce così di punto in bianco. Soprattutto se il suo obiettivo sono la sua allieva e, per esteso, la testa di Atena.  
Avevate però un vantaggio: il Cosmo silente di Astrid. Te lo ricordi? Di quella colonna nera che superò l’arena ricordandovi un cratere durante una violenta eruzione vulcanica? Che spettacolo inquietante. Tu lo vedesti solo perché in quel momento le tue piante presero a urlare per lo spavento tutte insieme e tu accorresti. 
Già, proprio quello. Lo potevate vedere ma non lo potevate percepire come tutti gli altri Cosmi. Questo vi dava un vantaggio perché anche Odysseus, per quanto potente fosse, non poteva essere riuscito nell’impresa, anche da Redivivo. Per forza che doveva esserlo, era già resuscitato una volta anche lui, nel XVIII secolo, avevi sentito dire e fu sconfitto dalla freccia d’oro della Dea. Ma 
Non avevi altra scelta. Appena fuori di lì fermasti una dottoressa e le ordinasti: «Assicuratevi che Astrid di Ophiuchus abbia le migliori cure del Santuario».
La dottoressa batté le palpebre stupefatta: «Ophiuchus? Scusatemi, nobile Aphrodite, ma non era la nobile Shaina il Silver Saint di Ophiuchus?»
«E lo è, ma Astrid è la Gold Saint di Ophiuchus».
La giovane donna trasalì sconvolta. Si portò una mano alla bocca stringendosi la cartella medica al petto con l’altra. Però adesso non t’interessavano le sue reazioni. «Lo farete?»
«Certo, nobile Aphrodite».

 

Proprio come avevi previsto, in pochi giorni la notizia della comparsa dell’Apprendista del Gold Saint di Ophiuchus si sparse per tutto il Santuario, finendo per richiamare Saint che erano stati precedentemente mandati in missione e, sollevare un vespaio. La Dea stessa restò a bocca aperta quando lo seppe. Kanon invece fece del suo meglio per evitare che i più superstiziosi si rivoltassero contro di Astrid e cercassero di ucciderla.
Il ritorno del Tredicesimo Cavaliere d’Oro era effettivamente un cattivo presagio; significava che una Guerra Santa senza precedenti stava cominciando: la Guerra contro il Cielo. Combattere Zeus e l’Atena dell’altra dimensione era stato solo un preludio di ciò che vi avrebbe atteso.
Ma solo una piccola minoranza, tra cui anche voi, pensavate anche a un’altra possibilità: Astrid, come aveva confermato lei stessa, non aveva appreso da sé l’uso del Cosmo e queste tecniche.
se lei era questo allora da qualche parte c’era anche il suo maestro. E avevano ragione. La domanda era: dove?
Ma al momento eri più occupato a consumare il pranzo che la servitù ti aveva preparato. Avevi percepito anche tu gli sguardi che ti avevano rifilato. Stavolta non di ammirazione per la tua bellezza perfetta, ma di sospetto e incredulità. Ai servi nulla sfugge e, più che i sovrani sono i servi a comandare davvero. E voi servi tra i servi, sapevate. Le voci correvano rapide sulle ali di Zefiro se necessario. Posandosi di bocca in bocca e passando di lingua in lingua come un bacio.
Un bacio che se nel mito trasformò Clori in Flora, qui fece fiorire pettegolezzi e riportò in auge la leggenda del Tredicesimo Gold Saint.
Bevesti un sorso del vino rosso che ti eri fatto servire, ignorando quegli sguardi. Non avevi ragione di preoccuparti di loro: erano troppo in soggezione per osare porgerti delle domande. Anche ammesso che avessero intuito le tue intenzioni, tu eri uno stratega e qui, non stavi giocando una partita a carte, bensì a scacchi, tirando le fila del Santuario.
Non lo avevi fatto per amor di pettegolezzo, ma per ammantare Astrid di un’aura che le avrebbe concesso la stessa fama e protezione della Madonna. Un’aura di rispetto e timore che metteva in soggezione chiunque. Una fama solida quanto il terrore nelle schiere nemiche che incuteva. Un nome che nessuno esorcizzava per timore di una punizione divina e, qui, non era tanto diverso. Avevi solo dato un nuovo volto a una leggenda.
Adesso dovevi solo aspettare che le persone, parlando e sparlando, la restaurassero e l’alimentassero, costruendo attorno a lei una fortezza di potere efficace quasi quanto quella della Dea. 
Forse Astrid ti avrebbe ringraziato per questa protezione. E Neera l’avrebbe temuta. Ricordavi perfettamente di come l’avesse trattata finora. Sempre lì a ostentare la propria superiorità perché lei era una Saint mentre Astrid (che sopportava in silenzio) era solo un’ancella. Un’ancella da non sottovalutare per niente, c’era da ammetterlo. Ricordavi ancora come vi avesse smascherato, salvato e dimostrato l’effettiva portata delle sue doti più volte.
Posasti il calice e tornasti alla tua insalata più per mantenere la facciata che per vero appetito. Ti si era chiuso lo stomaco ma non volevi darlo a vedere.   
A pensarci adesso era ovvio che non fosse una persona comune, come avevi fatto a essere così cieco? E persino Kanon che era accorto quasi quanto te. Ed era con accortezza che, a dispetto di tutto, avreste dovuto agire, adesso.
Il volto del vostro comune nemico si manifestò davanti ai tuoi occhi, subito seguito da quello del Lost Saint traditore. Poi scomparve di fronte alla tua occhiata accigliata. Ti pulisti la bocca e ti alzasti da tavola. Il tuo obiettivo non era più solo Odysseus, adesso era una giovane Sacerdotessa-Guerriero dai lucidi capelli neri e un’Armatura che non le apparteneva.
Tu avevi già deciso che ti saresti occupato di Neera, al resto avrebbero pensato i tuoi compagni.
Dovevate trovarlo al più presto e fare in modo che maestro e allieva non si riunissero. Non sapevate per quale motivo Odysseus di Ophiuchus l’avesse designata come allieva al di là della Luce Ombrosa da lei custodita. Poteva anche essere che volesse possederla come era già avvenuto ad alcuni di voi. Persino Death Mask, avevi sentito, fu posseduto da un Driade.
Dovevate rispedire Odysseus negli Inferi.
Grazie alle piante, poi, riuscisti a tenere d’occhio l’astanteria e Astrid.
Ti sedesti sui gradini di marmo davanti la tua Casa per goderti il sole di maggio. Alla fine era arrivato anche questo mese, sembrava che non dovesse mai giungere. Come le domande da parte dei tuoi commilitoni, come l’ennesimo tentativo di Kiki di proteggere Astrid mettendo in giro una contro voce che non fu ascoltata.
Quel giorno, altre domande arrivarono alla tua persona, precedute sulle scale dai passi di Shura (riuscivi a riconoscerli) e poi, dalla sua voce. «Perché hai sparso la voce ai quattro venti?» Ti chiese incuriosito avvicinandosi.  Apristi gli occhi e guardasti Rodorio dopo avergli gettato una vaga occhiata di disprezzo. Ma lui continuò: «É forse una trappola? Ma per chi, Aphrodite? Lo sappiamo tutti che Astrid è il bersaglio di Odysseus».
«Non è per vanità che l’ho fatto».
«Allora per cosa?»
Emettesti un sospiro rassegnato. “Certe volte sei proprio tonto, Shura”. Pensasti chiudendo gli occhi mentre lo spagnolo si accomodava accanto a te. Eppure per battere i nemici occorreva anche a lui un minimo di strategia. Possibile che lui, che in quanto a indole e strategia stava a metà tra te e quello sboccato di Death Mask, non ci arrivasse? Tanto valeva parlare chiaro fino alla fine ed essere coincisi. «É un avvertimento per Neera, per farle sapere chi si è inimicato per davvero». Lui distolse lo sguardo, pensieroso e lo lanciò verso Rodorio. «Tu credi che funzionerà?»
Ti chinasti in avanti anche tu per stare più comodo: «Lo spero, se non altro, dovrebbe garantire un po’di tregua alla nostra amica». Anche se, probabilmente, Aiolia si sarebbe visto soffiare la nomea di taumaturgo. Vabbè, pace.
«Quindi tu le credi». Dedusse.
Lo guardasti e ribattesti un: «Tu no?» che preannunciava tutte le motivazioni che gli avresti rovesciato addosso se fosse stato contrario a te.  
Tutto ti saresti aspettato, osservando il suo profilo, fuorché se ne uscisse con un deciso: «Le credo anch’io. Sono mesi che sto cercando di incastrare la spia che scartabella nei miei diari e nei miei registri. Avevo già dei sospetti, francamente, ma non avevo pensato che potesse essere una persona diversa». Rivelò aggrottando ancor più la fronte coperta dalla frangia scompigliata, color ala di corvo, smossa dalla brezza.
Già, la sua famosa ossessione per il suo predecessore.
Lo osservasti tanto per fare. Si sostenne il mento con una mano. Il gomito appoggiato sul ginocchio. Tu non potesti fare altro che dargli ragione, maledicendo la nebbia che aveva ripreso ad avviluppare il tuo cervello. Era ufficiale, gli effetti della vacanza di un anno prima erano finiti. «Già, non è normale che una Sacerdotessa-Guerriero stia così a stretto contatto con noi Saint senza avere un effettivo legame approvato dalla legge di Atena».
«Senti, tu sai se Neera abitasse alla Quarta assieme a Lancelot?» Chiese a quel punto il custode della Decima, colto da un dubbio.
Alzasti le spalle e appoggiasti la testa sugli avambracci incrociati sulla gamba. Senza volerlo avevi assunto una posa simile alla sua.
Tu davi per scontato che fosse così, visto che l’avevi vista anche prima che Aiolia la prendesse in casa sua. Ma ora… «Sai che non ne ho idea? All’inizio pensavo di sì dal momento che ci viveva Lancelot, anche se di solito le Saint si addestrano altrove, nel campo femminile o alla Palaestra. Ma ora che mi ci fai pensare, non ne sono più sicuro». Vedesti Shura stringere le mascelle e tu capisti subito a che, o meglio, a chi, pensò.
Solo uno scemo non ci sarebbe arrivato in questo momento. E, a proposito di scemi, l’investigatore della fratellanza tra i Gold, ancora sosteneva l’effettiva innocenza della Bronze Saint di Indus.
«Non sa quello che sta facendo». Mormorò Shura o forse lo intuisti dallo sguardo che rivolgeva al tetto della Quinta Casa? Posasti una mano sul braccio del tuo compagno e questi ti guardò: «Prima di fare una mossa, aspettiamo e vediamo». Consigliasti. «Neera non sa ancora che Astrid mi ha confessato tutto, pensa ancora che noi la proteggeremo dalla sua follia e, con il fatto che presto leverà le tende, si sentirà presto più sicura e libera di agire».   
Shura ti trapassò con un’occhiataccia ma restò zitto, interessato, mentre tu ti sforzavi di non tremare. Eppure la mano la staccasti da lui come se ti fossi scottato. «Se è veramente un nemico, allora agirà».
«D’accordo. Quanti lo sanno?»
«Per adesso solo Astrid, tu ed io e solo noi tre dobbiamo restare».
Lui annuì. Dopotutto eri pur sempre lo stratega del Santuario, no?    
Quel che dovevi fare, era solo dare una piccola spinta agli eventi per far uscire allo scoperto la traditrice.
Per questo, finito questo colloquio indossasti la tua lucente, bellissima Gold Cloth e salisti alla Tredicesima, dove chiedesti udienza al Pontefice. Tanto era solo questione di tempo che Kanon ti avrebbe mandato a chiamare. Era inevitabile dopo il polverone che avevi sollevato.
Il quale, la prima cosa che fece fu chiederti spiegazioni in merito alla tua mossa in toni accusatori. A causa delle Creature stava già avendo un mucchio di problemi, non occorreva (a suo dire) anche il tuo contributo. E, Kiki, che era lì presente, sempre per la questione degli infanti, gli dette ragione. Ma ci voleva poco per uno come te a rivoltare la frittata, soprattutto quando spiegasti la tua idea. 
«Non possiamo farlo, abbiamo già perso degli allievi della Palaestra e altrettanti Saint». Rilevò Kiki, distrutto. «Quello che mi stai chiedendo è impossibile, ormai è sulla bocca di tutti e tutti la cercheranno per questo o per quest’altro, non possiamo anticipare la sua partenza. Non ci siamo neanche ripresi completamente dallo scontro con Odysseus e Lancelot. Il Cavaliere di Cancer non è ancora tornato dagli Inferi, non possiamo abbassare la guardia».
«Da qualche parte, ma dobbiamo nasconderla. Non possiamo permetterci che maestro e allieva si ricongiungano, potrebbe essere la fine».
«Tu credi ancora nell’innocenza di Astrid?»
«Non è una questione di innocenza. Non è da noi tremare così per un po’di Cosmo. Riconosco che ha una potenza fuori del comune, ma anche noi non siamo persone normali. Anche noi abbiamo un Cosmo, persino più potente del suo e siamo addestrati a usarlo, conosciamo tecniche che spazzerebbero via i nemici in un istante. Tutti noi siamo più pericolosi di lei. Mi sembra una stupidaggine continuare a darle contro. Di che ci lamentiamo? Abbiamo una nuova aspirante Sacerdotessa-Guerriero che varrà come dieci Neera».
«É pericolosa».
«Anche noi, Santità». Rilevasti e, con queste parole catturasti definitivamente la sua attenzione. «Non potete negare che questo ci faciliti le cose».
«Per esempio?»
«Con i tempi che corrono i suoi poteri ci fanno comodo, inoltre potrà partecipare attivamente alle battaglie senza più creare problemi».
«Ma il Gold Saint di Ophiuchus è maledetto».
«Lei non è Odysseus, può darsi che la maledizione non si estenda fino a lei e, poi, non è detto che sia destinata a indossare per forza la Gold Cloth di Odysseus». A giudicare dalla fatica che aveva fatto, non era molto più forte di un comune Silver Saint.  
«Ma se lo fosse?» Insinuasti.
«Come puoi dire una cosa simile, Aphrodite?» Chiese il custode della Prima Casa con voce irosa. La voce di un dannato. Non facesti neanche in tempo ad aprire bocca che lui inveì: «Non buttare lì piani senza né capo né coda e ragiona, per una volta. Capisco tutto ma lei non è una ragazza normale, non c’è bisogno di anticipare la sua partenza. Si è adattata solo dopo qualche mese al Grande Tempio, conosce la nostra storia, conosce noi, per di più è l’apprendista di un Gold Saint! Non possiamo permettere che faccia da esca per catturare un possibile traditore e…» A quel punto interrompesti il suo sproloquio da innamorato. «Lo dico sia per noi sia per il Santuario in generale. E poi le tecniche del Gold Saint di Ophiuchus sono andate perdute da tempo. Non farà male riaverle tra noi, anche se forse apparterranno a un Saint di rango inferiore». Sospirasti e, con più calma: «Quello che sto per dire non lo ripeterò e gradirei che non sorgano commenti inappropriati. Ascoltami, Kiki. Credi che faccia piacere anche a me? Sarò insensibile e crudele quanto ti pare, ma non sono così sanguinario. Ho capito perfettamente che cosa stai cercando di dire ma non abbiamo altra scelta. È vero che non ama combattere ma lei è una combattente e, ora che ha le prove che le sue congetture erano esatte non si fermerà. E lo sai anche tu. L’unica cosa che possiamo fare è mettere in giro questa voce e lasciare che al resto pensi lei. Non la stiamo usando perché noi monitoreremo ogni suo passo e accorreremo per difenderla, in caso di necessità». Anche se tutta questa necessità non la vedevi più. Addolcisti il tono e lo sguardo, mentre il giovane Ariete continuava a guardarti con occhi fiammeggianti di rabbia e disapprovazione. «Devi fartene una ragione. Lei ha scelto di restare qui e alla fine non poteva che andare così. Sono fermamente convinto che sia una seccatura in meno sapere che è perfettamente capace di cavarsela da sola e ora pure di difendersi. Ma è l’unica cosa positiva che riesco a vederci. Non parlo solo per interesse del Grande Tempio, so anch’io che cosa comporta tutto questo. Conosciamo tutti il potere di Odysseus e sappiamo a cosa va incontro, la cosa migliore che possiamo fare è seguire il piano». “Anche se tutto quello che abbiamo fatto è stato vano. Abbiamo cercato di proteggerla per niente. Tutto doveva condurre qui, proprio come sosteneva lei”. Pensasti mogio. Era una tua amica, le volevi bene e ora saltava fuori anche questo. Ma se voleva davvero rendersi utile, allora non avevate altra scelta.
Ti girasti verso il Pontefice e dicesti: «La decisione spetta a voi, Santità».
Kanon dichiarò che avrebbe mandato un paggio ad avvisare il Cavaliere di Scorpio di questa decisione. Dopodiché congedò entrambi.
Una volta fuori Kiki si allontanò repentinamente e tu lo seguisti restando qualche passo indietro. Lo vedesti appoggiarsi a una colonna vicino a una finestra trifora e, lo guardasti mentre si disperava. «Astrid», sospirò affranto. «Non volevo questo per te». In altri momenti avresti pensato: “"nteresInteressante”, ma ora tutto quello che riuscivi a pensare era quanto ti dispiacesse. Perché, oltre al danno anche la beffa, Astrid non era neanche una Saintia. 
L’unica cosa che sentivi di poter fare per lei era procurarle una maschera come quella di Shaina. Ripensasti ai primi tempi, quando eri tu a procurarle i vestiti. Inconsciamente l’avevi già abbigliata proprio come una Saint. Non ti eri mai soffermato a pensare sul perché di questa scelta, avevi pensato che ficcarla direttamente in un chitone o un peplo potesse peggiorare la situazione. Già era traumatizzata di suo, darle il colpo di grazia a quel modo ti era sembrato inopportuno. Almeno, così ti avevano spiegato in infermeria.
Fortunatamente avevi un buon occhio e avevi scelto bene i vestiti per lei, persino la fusciacca le si intonava bene. Lei era una delle poche persone su cui il giallo non stonava, anzi. La tua sorpresa era stata quando si era tolta la fusciacca per indossarla attorno al collo come una sciarpa. Adesso, ti domandavi se effettivamente non ci avessi preso nel vestirla così.
Se tutti voi non aveste intuito subito che una vostra compagna era finalmente tornata a casa. Se la situazione fosse stata meno problematica di così, se lei non fosse stata la probabile nuova Gold Saint di Ophiuchus, avreste festeggiato il suo ritorno. Perché il ritorno del Gold Saint di Ophiuchus era comunque presagio di sventura.
In quel momento, mentre scendevi le scale diretto alla tua Dimora, avesti pietà per lei. «Povera Astrid, sotto quale infausta stella sei nata…» Non era l’unica, Shoko di Equuleus e lo stesso Aiolia, anche Saga e Kanon condividevano lo stesso avverso destino. Ma Astrid era l’unica della quale ti importasse qualcosa in più. Nata con un Cosmo sordo e silente e con un potere immenso. Non era una buona idea allontanarla a quel modo dal Santuario, ma non v’era altra scelta. Anche se per una buona causa.   

 

Aiolia
Ti sfilasti l’elmo dalla testa e ti sedesti al tavolo della tua scrivania. Non era possibile. In meno di pochi giorni avevate perso Neji, Tokaki, Saoirse, Anna, Iago. Ma voi eravate venuti a conoscenza della fine di Neji e Tokaki solo recentemente a causa del silenzio di Kiki.  
Ti sentisti sconfitto come poche volte. Oh, se solo non aveste avuto tutti questi problemi con il Cosmo e le Creature. Lo Specter della Farfalla, poi, non si era neanche dovuto sforzare per riuscire nell’impresa. Adesso capivi perché Hades avesse mandato lui, uno Specter telecinetico e telepatico. E dire che l’avevi pure incontrato, quando assalì le Dodici Case insieme a Saga, Shura e Camus. Non avevi mai avuto occasione di vederlo perché Seiya lo sconfisse prima, però avevi percepito anche tu quel Cosmo.
E ora questo, Astrid l’apprendista di Odysseus di Ophiuchus. Che macabra consolazione, avevate un confratello in congedo per malattia e una possibile Gold Saint refrattaria a tutte le regole del Santuario. La stessa che più volte aveva dimostrato un’ambiguità troppo pericolosa per essere innocua. Già a gennaio avevi anche avuto la prova che fosse pericolosa, a dispetto delle sue fattezze femminili eteree e apparentemente fragili. Ora non avevi la più pallida idea di come avresti fatto a proteggere Neera da lei. Perché Astrid, proprio come un uccello rapace, una volta messi gli occhi addosso a una preda, non l’avrebbe più mollata. Forse era un bene che Milo la portasse alla sua isola natia. Almeno avreste riavuto un po’ d’ordine nel Santuario e, chissà, magari anche le Creature si sarebbero allontanate. Eri sicuro che fossero accorse proprio per via di Astrid. Gettasti lo sguardo fuori dalla finestra e vedesti solo il cielo azzurro.
Assottigliasti gli occhi. Non si poteva mai sapere, ma potevi sperare. Il suo legame con quelle Creature non aveva ancora trovato risposta. Le avevi cercate tutte, ma neanche i miti e le storie ti avevano aiutato.
Andasti a trovare Kiki alla Prima.
Quel giorno stava lavorando ad alcune Armature con l’aiuto di Raki. I due ti salutarono e Kiki approfittò della tua visita per fare una pausa. Raki ti portò qualcosa da bere e tu la ringraziasti, poi Kiki la mandò a giocare. Anche se, così dicendo, si guadagnò un’occhiataccia dalla tredicenne.
Però non disobbedì.
«Tu lo sapevi già, non è così? Di Myu, di quello che sta accadendo nell’Oltretomba, di questo.» era vero che le cose le percepivi in ritardo, ma alla fine ci arrivavi a capirle.

 

«Sì». Ammise stanco. Aveva l’aria di chi aveva bisogno di farsi una bella dormita. La barba lunga di tre giorni poi velava le sue guance. 
«Perché non ce ne hai parlato?»
«Perché credevo di riuscire ad arginarle da solo e, per un po’, in effetti ci sono riuscito. Quando anche i miei sottoposti hanno cominciato a morire Myu ne ha approfittato e, per ripicca ha cominciato a rapire i bambini».
«Perché ce l’ha proprio con te?»
«Perché affrontò il mio maestro, quando ha capito che io ero presente, quella notte e che sono a mia volta un lemuriano, ha cercato di vendicarsi per tutti i problemi che il Grande Mur gli ha causato». Ti raccontò con un sospiro stanco.
«Credevo che tu quella sera non fossi presente».
«Invece c’ero, ero solo nascosto all’interno della Prima». Kiki ce l’aveva sempre avuto il vizio di scomparire, in effetti. «Perché Hades non fa niente? Perché non richiama il suo sottoposto?»
«Perché Atena gliel’ha concesso». Ti rivelò il custode della Prima Casa. «Ha detto O così oppure farò in modo che risentiate degli effetti dell’ultima Guerra Sacra che abbiamo combattuto». 

Ti sentivi ancora molto provato da questi ultimi avvenimenti. Anche il venerabile Shion aveva percepito quella colonna di Cosmo, nonostante la menomazione che tu stesso gli avevi procurato. 
Comunque fosse, portaste avanti il piano ordito da Aphrodite, Saga e Shura, ma con una sostanziale modifica, stavolta le guardie e i Saint rimasti sarebbero venuti con voi. E, stavolta, portaste con voi anche Raki. Avevi intuito, infatti, che Myu della Farfalla avesse intenzione di designarla come ultimo tributo. Per ripagarlo della tua resistenza e per dargli un’ulteriore smacco.
«Kiki, sono venuto qui per sottoporti una richiesta, immagino tu sappia già quale».
«Se credi che Raki sia un bersaglio e che vuoi portarla al sicuro? Sì, la mia risposta è sì». Ti disse.
Ma non faceste in tempo a completare un effettivo piano che sentiste l’urlo spaventato della ragazzina. Balzaste in piedi, lasciando cadere a terra i bicchieri, che s’infransero e correste nel corridoio di passaggio. Lì vedeste lo Specter che sogghignò, dopodiché scomparve.
Quella sera, due ore dopo cena, portaste Raki e un gruppo di altri bambini a un rifugio sicuro e tendeste una trappola allo Specter. Quest’ultimo fece la sua comparsa fuori della porta del rifugio ed entrò.  
Ma prima che potesse toccarli, le sue dita si scontrarono contro il Crystal Wall di Kiki. Lo Specter ritrasse la mano e se la strinse nell’altra. Un sorriso divertito gli incurvò la bocca. Poi si guardò attorno alla ricerca del tuo commilitone: «Così non si fa, Cavaliere d’Ariete, mi avevi promesso un settimo tributo e io sono venuto a reclamarlo». Sogghignò comparendo di fronte a te, facendoti strabuzzare gli occhi per lo spavento. Gli scagliasti il Lightning Fang e ottenesti solo di distruggere buona parte delle rocce presenti.
Ma il rifugio restò intatto, protetto dal Crystal Wall.
Seiya cercò di colpire l’avversario con l’Atomic Thunderbolt ma lo Specter della Farfalla, memore delle mazzate precedentemente ricevute, si tolse rapidamente dalla sua traiettoria, anche se Seiya riuscì a lacerargli un’ala. Ma neanche questo fu sufficiente, in quanto fu scagliato contro una roccia e tenuto imprigionato dai poteri telepatici dell’avversario contro la roccia. «Prova a bruciare il Cosmo, se ti riesce».
«Non ho bisogno di raccogliere le tue provocazioni!» Incoccò con uno sforzo sovrumano (pure per un Gold) arco e frecce e scagliò il Cosmic Star Arrow ma l’altro lo evitò. «Mancato».
«Non aveva mirato a te». Rifacesti tu, mentre Kiki, che era stato precedentemente bloccato e imprigionato dalle farfalle, riuscì a liberarsi grazie alla freccia.
Perciò raccogliesti la tua energia e scagliasti il Lightning Bolt allo Specter. Il quale finì contro le rocce, poi finì lacerato a terra, trascinandosi dietro qualche sasso e della polvere che lo fece tossire. Lo accerchiaste e lui si terse un rivolo di sangue dalla bocca.    
Ti girasti continuando a tenere la sua preziosa allieva dietro la schiena. «Raki non fa parte del patto!»
«Invece sì, sono tenuto a prendermi i ragazzini ritenuti più idonei e, con il Cosmo più potente e cosa c’è di meglio dell’apprendista di un Gold Saint?»
«Maestro».
«Scappa, Raki». Comandò Kiki perentorio ma determinato a non arrendersi. 
«Mae…»
«Ti ho detto scappa!» Le urlaste con tutto il fiato che avevate in corpo, girandoti di tre quarti verso di lei, più minacciosamente che potesti. E lei stavolta obbedì. «Non così in fretta, piccoletta». E, ben presto, Raki inciampò e cominciò a dimenarsi come se qualcosa la stesse legando. «Com’era quella trappola che mi rifilò il tuo maestro?» Domandò sarcastico Myu a Kiki, che, nel frattempo, si stava rialzando a fatica. Anche tu cercasti di imitarlo: «Trappola di cristallo? Bene, spero che ti piaccia la mia, allora, Bachi da seta!» E i bruchi dell’Oltretomba, come bachi da seta, vi avvilupparono nei loro fili.
Ma la bambina oppose resistenza e, con uno sforzo sovrumano, riuscì a liberarsi e a correre via. «Corri, corri pure, piccina, tanto ti ritrovo».
«Prima dovrai vedertela con me». Esclamò Seiya, comparendo nuovamente davanti a voi. «Seiya!» Esclamaste sorpresi.
«Oh, il Cavaliere di Pegasus che mi sconfisse, non ti avevo riconosciuto con tutto quell’oro addosso». Costatò a mo’ di saluto incrociando le braccia.     
«Ma ora mi riconoscerai!» Ciò detto gli scagliò il suo attacco e, stavolta, Myu combatté corpo a corpo con lui. Ma non ti tornava. Perché adesso combatteva fisicamente? Perché non usava più i suoi attacchi mentali?
La risposta ti giunse quando sentisti una serie di Cosmi spaventati. Ti separasti immediatamente dalla battaglia e facesti per entrare nel rifugio. Ti scontrasti contro una barriera d’energia negativa. E, sentisti dall’altra parte i ragazzini urlare e battere contro la porta.
«Ragazzi!» Urlasti per sovrastare le loro grida, continuando a battere contro la barriera. Poi un grido più forte e dall’altra parte fu silenzio. Non riuscisti a fare altro che sentisti Kiki urlare: «Raki!» E cercò di liberarla dal bozzolo di seta in cui lo Specter l’aveva avviluppata.
«Troppo tardi, Cavaliere, io prendo sempre quello che voglio». Sogghignò l’avversario.
Riuscì a lacerare la seta e balzò indietro perché uscì uno sciame di fairy che si librò alto nel cielo stellato, tra le risate divertite di Myu e il suo grido di disperazione: «Raki!»
«Il rifugio! Il rifugio è vuoto!»
Lo Specter della Farfalla rise sguaiato e voi capiste che vi aveva preso in giro.
«Forse siamo ancora in tempo per salvarli. Sbrigati, Kiki! Dobbiamo correre in Germania immediatamente!» Gli urlasti. Ma il tuo compagno non si mosse. Se ne stava bocconi in ginocchio, a fissare il bozzolo di seta disfatto. «Andiamo Kiki!» Lo spronasti. Ma il tuo compagno non rispose. Sembrava neanche non sentirti mentre articolava delle parole che tu non riuscisti a sentire: «Kiki?»
«É troppo tardi».
Non era da lui arrendersi così. Lui era abituato a lottare con tutte le sue forze da quando aveva sette anni. Lui era il più tenace tra voi. Cosa era cambiato per farlo desistere così di colpo? Neanche tu ti eri arreso a questo modo quando i Titani rapirono Lythos. «Cosa? Di cosa stai parlando?» Gli chiedesti mentre lo aiutasti a rialzarsi. Il giovane sembrava aver perduto le sue forze. «E’ tardi, Aiolia». Continuò a ripetere. «Cosa? No che non è tardi, possiamo ancora fermare gli Specter e il loro nuovo folle e scellerato piano, possiamo…»
«No, non possiamo, Raki e gli altri bambini, si trovano già nella parte più profonda degli Inferi e l’ultima porta, si è appena chiusa».
«Bè ma possiamo sempre scendere a recuperarli, spiegheremo tutto alla Somma Atena, ci darà il permesso e…»
«No, lei non ce lo darà mai». Ti bloccò e poi ti guardò con occhi pieni di tristezza, «Perché questo significherebbe la rottura del Patto seduta stante». E un’altra Guerra Sacra era l’ultima cosa che vi serviva.   


Astrid
Aprii di colpo gli occhi con il cuore che batteva forte per lo spavento. Che cosa era successo? Mi era parso di aver sentito Kiki lanciare un grido. E mi era sembrato che stesse chiamando proprio Raki. Cosa stava succedendo? Era forse la mia immaginazione a giocarmi qualche brutto scherzo?
Mi misi seduta e, poi, misi i piedi fuori del letto e mi alzai per guardare fuori della finestra. L’astanteria non aveva imposte, ma anche così non riuscii a vedere le Tredici Case. Sentivo che era successo qualcosa perché sentivo il Cosmo di Kiki affranto e molti altri in tumulto.
Posai le mani sul vetro: «Che cosa è successo?» Mormorai preoccupata. 
«Che ci fate in piedi a quest’ora?» Mi redarguì la voce di un’infermiera di passaggio, facendomi trasalire. La guardai da sopra una spalla: «Non dovreste stare in piedi, siete ancora malata». Fece avvicinandosi per aiutarmi a rimettermi a letto.
«Niente, è successo qualcosa al Santuario, per caso?» Domandai mentre la donna mi aiutava a sdraiarmi e mi rimboccava le coperte e mi sprimacciava il cuscino affinché stessi più comoda. «Nobile Astrid, il nobile Shun ha ordinato il riposo assoluto, siete già fuggita una volta da qui, per favore, non alzatevi ancora, potreste compromettere la vostra salute in maniera seria».
«D’accordo… cosa? Come mi avete chiamato?»
«Nobile Astrid».
«Nobile? Perché nobile?»
«Perché siete un Cavaliere d’Oro e dunque vi portiamo il rispetto che vi si confà». Ribatté lei. E chi diavolo l’aveva messa in giro questa voce? Non ricordavo d’aver già conquistato il Settimo Senso.
«Tecnicamente sarei un’apprendista». Proprio allora mi prese una fitta di dolore alla testa e mi ritrovai a sibilare e portarmi una mano al punto dolente. «Nobile Astrid». Mi chiamò l’altra poggiandomi le mani sulle spalle.
«Sto bene, mi gira la testa».
«Vi somministrerò immediatamente un’aspirina, ma vi prego, mettetevi a letto».
Mi tornarono in mente le parole di Aphrodite riguardo il mio imminente trasferimento sull’Isola di Milo e strinsi i pugni digrignando i denti: e la mia volontà? Io non contavo niente? La mia opinione non contava nulla? Io non ci volevo andare su quell’Isola. Ma la mia voce non contava niente. Non era mai contata, checché ne dicesse Shun.  
In seguito alla mia scoperta Shun mi aveva fatto una visita completa e aveva rilevato tutta la mia diversità. Quanto era strano, una volta mi avrebbe fatto piacere saperlo, adesso fantasticavo sul colore del mio sangue e le sue implicazioni. Stavo ancora facendo i conti con la mia vecchia nuova condizione. Riconoscevo questa sensazione, da piccola mi sentivo proprio così: forte, invincibile e piena d’energia. Ma ora era anomalo, era come tornare a essere se stessi dopo tanto tempo che sei abituato a credere di essere qualcuno e, poi scoprivi di essere molto di più. E, cosa più importante, avevo ricordato il volto del mio maestro. Il solo ricordo mi faceva palpitare il cuore. Adesso avevo anche un volto da associare alla sua voce.
Questo mi aveva aiutato a fare chiarezza in me, almeno sul fronte sentimentale, dal momento che Kiki era alla stregua di un ansiolitico per me. Gli volevo bene, ma era un bene diverso rispetto ai sentimenti che provavo per il mio maestro.
E, questo, gettava una nuova ombra su ciò che avevo appreso; era solo l’ennesima riconferma che non potevo fidarmi di lui. Conferma ricevuta quando affrontò Aldebaran, Yoshino e Shaina. Se ci pensavo mi sentivo il cuore in pezzi e le lacrime adesso debordavano per un altro motivo. Lo avevo sospettato, ma avevo sperato che non fosse così. Mi sentivo usata.
In quel momento ebbi un flash risalente al mio risveglio dopo la rottura del sigillo sulla mia memoria.

«Questo è impossibile, Astrid». Aveva detto scrutandomi angosciato.
«Impossibile? Perché?» Avevo chiesto indispettita; peccato che mi fossi soffermata solo sulle emozioni, come non mi capitava più da tre anni, altrimenti gli avrei dato ragione prima. Che stupida che ero stata. Ma quel giorno riuscivo solo a pensare: “Cioè, io gli comunicavo una notizia importante come questa e lui mi contraddice? Ma chi era quello che ha appena recuperato la memoria, lui o io?”
Nonostante questo le sue parole mi erano rimaste impresse nella testa come un marchio a fuoco: «Perché l’ultimo Gold Saint di Ophiuchus morì moltissimo tempo prima la Guerra Santa del Settecento, da allora non sono più esistiti. L’ultima volta che si sentì parlare di lui, si seppe che era risorto per attaccare il Santuario e prendere la testa di Atena. Se è davvero lui, allora la Dea è di nuovo in pericolo».
Quel giorno avevo represso l’istinto di prenderlo a sberle. E, poi, anche se l’avessi fatto, Kiki mi avrebbe anticipato. Era dotato di poteri telepatici: vuoi che non l’avesse scorto nella mia mente?
Ma a parte le sberle, adesso chi mi garantiva che dopo una notizia simile la nostra amicizia potesse restare in piedi? Di nuovo. Già una volta mi ero fidata di lui senza sapere che in realtà mi tenevano d’occhio, adesso che glielo avevo detto chissà come avrebbe reagito. Peccato solo che non avessi con me il mio telefono altrimenti l’avrei comunicata alla mamma e… Il mio entusiasmo si era afflosciato e gli occhi mi si erano riempiti di lacrime.
«Astrid?» Mi aveva richiamato il mio amico preoccupato per questo improvviso cambiamento d’umore. Avevo battuto le palpebre e i lucciconi erano piovuti sulle mie guance. «Ehi, tutto a posto?» Mi aveva chiesto mentre mi risedevo sul letto. Avevo annuito portandomi una mano alla faccia. «Sì, sì, tutto… a posto». Avevo mentito tirando su col naso.
Il poveretto mi aveva guardato preoccupato, ma io della sua preoccupazione non avevo saputo che farmene. Allora si era alzato a sua volta e mi aveva stretto a sé, tenendomi le mani sulle scapole. Pur avendocela con lui avevo ricambiato l’abbraccio di Kiki: «Ehi, su, non fare così. Io non volevo, davvero».
Riemersi dal ricordo e tornai alla realtà, detergendomi il volto con il dorso della mano. Io ero l’apprendista di un Saint. Ecco cos’ero e perché non avevo più paura di questo posto. Ecco come facevo a conoscerlo già, a sapere i nomi dei precedenti custodi delle Case e tutte quelle cose! Non era tanto per abitudine, quanto per il fatto che qualcuno me ne aveva parlato davvero in precedenza. Ecco anche l’altro motivo per cui non ero ancora scappata e per cui questo posto mi richiamava a sé continuamente. Ma qual era la mia vera vita? Quella che avevo vissuto finora, ignara della mia vera natura, oppure quella che apparteneva ai miei ricordi, assieme al maestro e alla tata in Germania?  

Sentii il cuore stringersi in una morsa e altre lacrime scesero sulle mie guance come acqua che esce da un panno strizzato.
Ancora una volta mi detersi il volto con una mano. Mia madre era morta, non avrei più potuto raccontarle niente.
Sentii bussare alla porta. Alzai lo sguardo e vidi la mia amica: «Yoshino». Salutai curvando la bocca in un sorriso nonostante tutto, cercando di ricompormi. E lei, guardandomi stupita: «Astrid, stai bene?» Chiese preoccupata.
«Sì, sto… bene. È solo un periodaccio.» feci tirando su col naso. Un periodaccio iniziato più di undici mesi fa.
Lei si avvicinò a me, guardandomi in pena per me. Mi accigliai e mi venne istintivo pensare: “Non guardarmi così. Per favore, non guardarmi così”. Ma lei non aveva poteri telepatici ed io ero a pezzi.
Colmò la distanza tra di noi e mi abbracciò. Io ricambiai la stretta dopo qualche secondo, quando il suo calore andò a riscaldare le mie membra e capii che stava cercando di rimettere insieme i pezzi.
«Mi dispiace…» Cominciò ma io l’interruppi scuotendo il capo.

Quando mi fui calmata e fui in grado di sostenere una conversazione civile, le domandai che cosa ci fosse venuta a fare qui. Lei si sedette sul bordo del letto e rispose: «Sono venuta a ringraziarti per averci aiutati quando abbiamo affrontato Odysseus».
«Dovere». Almeno una cosa ero riuscita a farla. Anche se non mi aspettai il resto delle rivelazioni. Tesi le labbra in una linea dritta. «Non ti offendi se ti dico che non mi era mai piaciuto Lancelot, vero?» Domandai, titubante. Dopotutto quel pazzo apparteneva alle sue schiere. 
«Nessun’offesa, neanche a me è mai stato molto simpatico, mi dispiace solo che così io e mia sorella abbiamo perso un valido elemento delle nostre schiere».
«Ne troverete un altro, uno migliore». Ma quel qualcuno non sarei potuta essere io e lei lo sapeva. Mi venne da ridacchiare e lei mi guardò perplessa.
Mi spostai una ciocca dietro l’orecchio e le feci notare tutta l’ironia del caso. «É buffo, sai? Una volta fosti tu a offrirmi la tua protezione», sorrisi mesta, «adesso mi sa che sono io a dover proteggere te». Conclusi sempre con un triste sorriso a incurvarmi le labbra.
«Sì, è veramente buffo».

Poi, mi soffiai il naso con l’ennesimo fazzoletto che mi passò e, le dissi: «Nah, non dire così, in fondo me lo sentivo». In fondo i Saint se lo sentivano dentro di vivere per Atena, uomini o donne che fossero. Noi Saint tendevamo tutti verso la Dea, anche se qui ce ne erano addirittura due. E io l’avevo capito adesso perché era sorta quest’amicizia tra di noi. Forse era anche da questo che era dovuto il mio ritorno al Santuario. Era Yoshino a chiamarmi e la cosa mi faceva piacere perché le volevo bene, la vedevo come la sorellina che non avevo avuto. Ma veneravo l’Atena di questa dimensione, cioè Lady Isabel.
A dir la verità questo non mi causava alcun conflitto perché una era una degli Dèi che veneravo e l’altra era una mia amica. Ed io ero perfettamente in grado di combattere per proteggere entrambe. L’avevo già fatto altre volte, in fondo. Al limite mi cambiavano i motivi per combattere. 
Aldebaran tempo fa mi aveva spiegato che tutti i Saint si riuniscono attorno alla Dea. Come aveva fatto lui quando la trovò neonata, oppure Shura in quel sottopassaggio bloccato dalla mummia piromane, ma anche Aiolia, solo perché aveva seguito il primo e poi si era accorto del pericolo che correva la figlia del suo amico. Death Mask che si era messo a tenerle d’occhio, Shun che l’aveva visitata dopo l’attacco del Senza Volto.
E poi la nostra amicizia, dai, era palese. Yoshino lo sapeva che se avesse voluto io sarei corsa da lei e l’avrei aiutata a trarsi d’impiccio dai guai. Ed ero contenta che, nonostante tutto, almeno quest’amicizia fosse ancora in piedi.

La mia amica non fu l’unica persona che venne a farmi visita, anche mezza Rodorio e tutto il Santuario venne a trovarmi. Compreso il venerabile Shion. Quella fu la visita più difficile che dovetti sostenere. L’anziano guerriero si sedette sulla sedia di fronte al mio letto e restò lì immobile davanti a me per molto tempo. Anche se indossava una benda, anche se sapevo che le sue protesi ottiche non erano attive, lo sentivo fissarmi. E la sensazione che mi trasmetteva non mi piaceva. «Dunque tu sei l’apprendista del mio maestro». Costatò dopo un po’con un’espressione dura quanto il suo Cosmo (che adesso ero capace di percepire), che mi ricordò tanto una maschera, come quella indossata dalle Sacerdotesse-Guerrieri.  
«Il Gold Saint di Ophiuchus fu anche il vostro maestro?» Domandai titubante.
«Mio e di tutti i Gold Saint del Millesettecento».
«Me l’aveva raccontato, di voi e dei vostri compagni, di come avete eroicamente protetto le Dodici Case quando le risalì». Mi sfuggì. Ma neanche questo bastò a piegare quella bocca, dritta. Che gaffe, non doveva essere stato un bel periodo per lui. Sospirai e mi spostai una ciocca dietro l’orecchio: «Suppongo di essere considerata alla stregua di una nemica, non è così?»
La sua risposta mi giunse lapidaria: «Questo dipenderà essenzialmente da ciò che farai, non da ciò che sei». Annuii, anche se lui non poteva vedermi. Lui continuò, «Finché non andrai contro il Santuario e la legge di Atena non avrai mai nulla da temere». Annuii di nuovo. Mi ero preparata a molto peggio, considerando che era il predecessore del Sommo Kanon e che, nonostante tutto, restava un temibile guerriero. Potevo solo provare a immaginare cosa significasse questa scoperta, per lui e, non era neanche detto che ci avessi azzeccato. Anche perché il suo volto non lasciava trasparire alcunché e la mia empatia si era momentaneamente data alla macchia.  
Dopodiché se ne era andato.  Questa visita in part     
Adesso ero una Saint, non potevo più permettermi errori di alcun tipo, benché sprovvista di Armatura. A quel punto, avevo ripreso a pensare a Neera e alle carte.
Feci un bel respiro profondo e sentii le loro essenze dorate vorticare attorno a me, richiamate dalla mia volontà. Non avevo mai pensato che sarei riuscita a usare a questo modo il nostro patto, né che rispondessero a questo modo. Finora mi ero limitata a usarle come sempre, ma ora capivo perché mi mia madre, da viva ne fosse completamente assuefatta. Davano una sensazione di potere fuori del comune, ancora di più che della magia in generale.
L’Arcano della Morte aveva protetto Yoshino e la sua famiglia proprio come avevo desiderato. Ora dovevo solo trovare la carta giusta per intrappolare Neera. E la Luna non era adatta per questo. Dopotutto un bambino era stato rapito proprio perché avevo sfruttato nel momento sbagliato questo potere. Dovevo stare più attenta.
E, se conoscevo i miei commilitoni, dovevo esserlo per forza. Sapevo che non me l’avrebbero fatta passare liscia un’altra insubordinazione. E io, in quanto aspirante Saint, non ero niente di diverso da un soldato semplice. Accidenti. E dire che non mi ero mai vista bene nel ruolo del militare. Neanche quando guardavo Soldato Jane riuscivo a immedesimarmi completamente nella protagonista. L’ammiravo, ma non mi sentivo lei.
Bè, adesso, avrei potuto immedesimarmi completamente. Avrei preferito somigliare a Mulan, ma di qui a diventare generale ce ne correva. Soldato semplice.
Chiusi gli occhi e mi lasciai ricadere sul letto. La testa affondata nel cuscino.
Soldato semplice, ma dico io, ma chi me l’ha fatto fare?
Proprio in quel momento Castalia venne a trovarmi, assieme a Juan dello Scudo. Mi rialzai e li salutai. I due sembravano più stanchi e provati di prima, soprattutto Juan, che, senza Georg accanto, sembrava più triste. Juan era quello che tra i due aveva mostrato più sorpresa. «Così sei una di noi, caspita». Mentre Castalia mi aveva abbracciato, dopo aver posto un mazzolino di fiori accanto al mio letto: «Io lo sapevo che avevi qualcosa di speciale, non potevi essere una persona comune».
«Come no, ho una sfortuna che, in effetti è fuori del comune». Ironizzai mentre ricambiavo la sua stretta. Castalia mi aveva sostenuto tantissimo i primi tempi e anche durante la morte di mia madre. Quando i Gold o gli altri non mi trovavano, era perché ero con lei. Alla fine ci eravamo chiarite, anche se avremmo preferito entrambe che a farci riavvicinare fosse stato qualcos’altro che questo.
Fu la mia amica a portarmi il mio mazzo di carte. «Ho pensato che potessi averne sentito la mancanza». Mi spiegò.
Lo presi dalle sue mani e lo portai al petto, commossa. «Come lo hai avuto?» Le chiesi tornando a guardarla. «Quando sono andata alla Tredicesima stamani, mi sono fatta indicare la tua stanza e ho preso le carte». Lei sapeva quanto fu dura la perdita del primo mazzo per me. «Grazie, grazie davvero».     

Juan si accomodò sul letto vuoto alla mia sinistra e domandò: «Quanto ancora devi restare qui dentro?»
«Secondo Shun ancora un giorno. Dice che la frescata che ho preso è stata incrementata dall’esplosione del mio Cosmo, considerando che poi ero già provata da prima, il mio sistema immunitario ne ha risentito. Fortuna che l’altra sera non ho avuto ricadute».
«Sì, abbiamo saputo quello che hai fatto, come ti è saltato in mente?» Mi chiese il mio amico.
«Non sapevo che altro fare e mi sentivo inutile a restarmene così con le mani in mano».
«Astrid, adesso non puoi più ragionare così, non sei più un’ospite». Mi ricordò Castalia in tono pacato, ma ero stufa di sentirmi trattare così. Ero stufa di sentirmi redarguire e dirmi di stare al mio posto. Fintanto che ero un’ancella e che mi pagavano potevo anche piegare la testa (e masticare una ridda di insulti e accidenti contro i miei datori di lavoro che la metà bastava) ma ora, di soldi non ne vedevo neanche un centesimo e non sopportavo di dover sottostare a degli ordini. La mia prima reazione era quella di mandare tutti a quel paese. Se non l’avevo fatto era perché, sostanzialmente, di quello che dicevano di me, non mi importava niente.
Non dovevo per forza abbassare la testa. Non adesso che c’era tutta questa fretta.    
«Ma voi che fareste al posto mio se scopriste un traditore all’interno del Santuario?» Poi mi ricordai che Castalia tradì a sua volta i suoi compagni e il Santuario sotto Arles per aiutare Seiya e Lady Isabel.
Ma ero preoccupata per Raki, non avvertivo più il suo Cosmo e, il fatto che non venisse a trovarmi come di consueto, mi angosciava.

In compenso, quel giorno a trovarmi venne il suo maestro, recante con sé un mazzo di gigli bianchi e una faccia da spavento. «Kiki, cosa ti è successo? Hai una faccia sconvolta. Dove sono tutti gli altri?» Gli chiesi. Finora non mi aveva mai risposto quando gli avevo domandato perché, la notte in cui avevo aggredito Neera, stessero spostando quel gruppetto di bambini. Mi ci era voluto un po’ per accorgermi di questo dettaglio, ma non mi ricordavo che ai bambini facessero fare anche gite notturne, benché meno che, per questo, scomodassero dei Gold Saint.
Sebbene esibisse in volto la sua solita espressione neutra, non mi fregava più. Da quando era morta mia madre mi era stato vicino tutto il tempo. Persino di più del mio maestro e, se da un lato era quasi impossibile toglierselo di torno, dal lato sentivo il bisogno di averlo vicino. Come se Kiki fosse diventato la mia ancora di salvezza. E, a causa di questa vicinanza avevo imparato a riconoscere le micro espressioni del suo volto. Ed era proprio l’impressione di una maschera che, in quel momento mi dava a non tornarmi. Gliel’avevo visto spesso altre volte, ma non così. «Kiki?» Lo chiamai, preoccupata. Poi mi avvicinai e gli posai una mano sul braccio, chiamandolo ancora. «Kiki? Ehi, tutto a posto?»    
La sua reazione mi spiazzò completamente. Ancora di più di quando cercò di toccarmi mentre giocavo a carte con Death. Perché anche se nessuno ci aveva fatto caso, con la mano sotto al tavolo, aveva cominciato a risalire la mia gamba. Avevo fatto uno sforzo non indifferente per riuscire a concentrarmi sulla partita e non sui miei ormoni galoppanti.
Ma da lui, che lo ammiravo perché sembrava così fiero, così forte e così composto, non dissimile dalle armature che riparava, non me lo sarei mai aspettato. Non che la sua maschera andasse in frantumi a questo modo e l’impeto che nascondeva dietro la sua facciata si rivolgesse a me in questo modo in questa richiesta d’aiuto che tempo fa io stessa feci a Mur, sulla soglia della Prima.
Barcollai per tenermi dritta mentre lui mi stringeva a sé.

Tempo addietro fui io a cercare un contatto con gli altri, soprattutto con Death Mask, il Grande Mur, Aphrodite, Shun e lui. Ma erano le mani di Kiki che, più spesso di molte altre, mi avevano tratto dal baratro. Più rapidamente di altre si erano serrate alle mie e non avevano lasciato la presa neanche una volta. Per quanto Odysseus potesse piacermi, erano le mani del Gold Saint di Aries, quelle che speravo di sentire ancora quando stavo male.
E ora era lui a cercare rifugio tra le mie braccia. Dopo quello che era successo a Raki era crollato.
Di lì avevo compreso quanto amasse quella bambina, alla stregua di una figlia. Forse allo stesso modo di come Mur avesse amato lui. E io piansi assieme a lui, tenendolo stretto a me per impedirgli di andare alla deriva. «Non ti preoccupare, la salveremo, vedrai, ci riusciremo». Mormorai a caso nel tentativo di consolarlo. La cosa strana era che credevo davvero a quello che dicevo. «Vedrai, la ritroveremo, li ritroveremo tutti».
Poi, chiusi gli occhi e usai il Potere dei Tarocchi. L’aria si caricò immediatamente di energia e Kiki si discostò da me per osservare il fenomeno, mentre le figure dorate volteggiavano attorno a noi. Mi scostai da lui e alzai le mani come se avessi dovuto metterle sul vetro. Le carte risposero immediatamente al mio gesto.
«Ma queste cosa…»
«Sono le mie carte», risposi, girando il volto sopra una spalla per rispondergli. In fin dei conti non erano così diverse dalle precedenti, cambiava solo la grafica e qualche millimetro in più d’altezza. Poi tornai a guardare avanti a me e con un gesto le carte smisero di volteggiare e si abbassarono di modo che potessi toccarle, mentre Kiki mi osservava stupefatto. «Però non pormi domande, non posso farne parola con nessuno, altrimenti non mi concederanno più il loro aiuto». Mi raccomandai e lui annuì stupefatto senza staccarmi gli occhi di dosso.
Non l’avevo più usato dai fatti del cimitero monumentale e, anche se farlo mi ricordava mia madre (che ne abusava) sentii che era necessario. Perciò mi separai da lui e mi qui le mie carte.
«Mi dispiace, Kiki, ma questo è l’unico modo che conosco per capirci un po’ di più.» oltre riflettere, s’intende, ma dalla morte della mamma ho ancora dei problemi e qualcosa mi dice che soffrirò ancora a lungo. Anche usare le carte mi feriva, perché lei mi diceva sempre che le carte sapevano sempre indicarci la via, anche quando avevamo il cervello offuscato dal dolore. Le carte erano il nostro faro e, al tempo stesso, le nostre indicazioni stradali.   
Mi sedetti sul letto e cominciai a mescolare le carte, che furono ben felici di nutrirsi della mia energia in cambio delle risposte che cercavo. “Chi ha ordinato a Myu di rapire Raki?”
E, quando girai le carte, comparvero le figure del Matto e dell’Imperatrice uno accanto all’altra. Sovrastate dall’Imperatore e il Mago e la Morte.

Tu sai chi è stato, dicevano. Strabuzzai gli occhi quando vidi che uno dei possibili significati era: una persona che credevo fosse sparita e che ora si rifà viva. Una persona che per me è stata come un padre e una guida.
Che… Si stava riferendo a Odysseus, vero? La descrizione coincideva, ma non completamente. Non avevo mai considerato Odysseus come un padre. Chiusi gli occhi e poi dissi loro di darmi un dettaglio in più.
L’Imperatrice per esempio mi suggeriva che era una persona su cui si poteva contare. Su cui probabilmente avevo contato. Ma l’Imperatore, mi suggeriva che questa persona fosse un uomo e anche molto potente, ma la Morte simboleggiava anche il ciclo della trasmigrazione delle anime. E il Mago mi rappresentava anche l’azione.
Questa persona era un uomo d’azione che faceva parte della mia vita e che avevo considerato come un padre? L’unico che mi veniva in mente era Odysseus e basta. Però era anche vero che, l’affetto che da bambina portavo al mio maestro era molto simile a quello per mio padre, anzi, consideravo più lui un genitore che il mio vero padre. Aveva senso, ma perché avrebbe avuto bisogno di fare questo?      
Improvvisamente la brezza mi portò alle narici quell’odore di limoni e quel qualcosa di bruciacchiato che non riuscivo a identificare. Ora che ci pensavo, il mio maestro aveva un odore simile, ma più sull’alloro e del meltemi. Che significasse forse che Odysseus ha avuto un predecessore nella mia vita? O forse parlava del ciclo di trasmigrazione delle anime? Ossia una vita precedente?  
«Che cosa c’è?» Mi chiese Kiki smettendo di affondare le mani tra i capelli. «Limoni». Mormorai, riconoscendolo, «e qualcos’altro di bruciacchiato». Non pensavo che avrei finito per rincontrarlo adesso.
Il mio amico si accigliò: «Sì e allora?» Seguii l’aroma e mi ritrovai appoggiata al davanzale della finestra. La mente e lo spirito proiettati al rifugio tramite il vento e la fantasia. «Astrid?» Mi richiamò, preoccupato. «Io conosco questo odore». Mormorai a mo’ di risposta. «Quale odore?» Glielo descrissi e lui sgranò gli occhi colpito: «Come fai a conoscere il profumo che è rimasto intrappolato nelle stanze dei ragazzini rapiti?»
«Lo conosco e basta». Lui mi fece eco stupito. “Sì. Per favore, piantala di ripetere tutto quello che dico, sembri un disco rotto”. Evidentemente, non avevo ancora finito di recuperare tutta la mia memoria, mancava ancora qualche pezzo, anche se mi sembrava impossibile. «Sì, ma non riesco a ricordare di chi fosse».
«É di una persona?»
«Sì, su questo non ho alcun dubbio».
«Come lo sai?»
«Me lo sento dentro, non so come spiegarlo». Sapevo solo che il ricordo affondava nel profondo della mia memoria e mi suscitava tanta nostalgia, riaprendo un’altra vecchia ferita. Una ferita che mi faceva dire, “Credete di essere gli unici orfani qui? Anch’io sono stata abbandonata da qualcuno”. Il problema era che non mi ricordavo chi fosse e anche i miei ritrovati ricordi non mi aiutavano, so solo che l’avevo sentito dalla mia tata e che le avevo chiesto dove fosse andato mio padre. Ma mio padre in quel periodo lo sapevo dov’era. Che diavolo di ricordo era questo? Il ricordo di un sogno? No, non era un sogno, erano più difficili da rintracciare quelli.

Mi feci portare il telefono da Kiki e chiamai mio padre e gli chiesi spiegazioni. Lui, con riluttanza e vergogna, ammise che durante la mia prima infanzia non mi stette vicino quanto avrebbe voluto. Ma non per via del suo lavoro, quanto piuttosto per il fatto che non sopportava l’idea di vedere mia madre e la tata. Quelle due, insieme, lo inquietavano.
«Ok, questo lo so e ti perdono, ma se tu comparivi solo durante le vacanze e via chat, chi era che si occupava di me?» Tagliai corto. Silenzio dall’altra parte: «Lo so che non ti piace rinvangare quel periodo ma potrebbe essere importante. Per favore, devo saperlo».
«É successo qualcosa di grave?» Chiese, angosciato.
«Un po’di cose ma te le racconterò un altro giorno». Promisi. Solo allora mi rispose: «Non ne ho idea, un tipo alto con gli occhi gialli, lo incontrai, una volta e, per un attimo, pensai davvero che tu fossi più figlia sua che mia, tanto vi somigliavate. Lo so che fisicamente somigli a me ma eravate così legati che… Non farci caso, non è un attacco di follia è che tua madre, era tanto bella quanto affascinante e io non mi sono mai sentito alla sua altezza. Alcune volte pensavo addirittura che…».
«No, papà». Lo rassicurai addolcendo il tono. «La mamma non ti ha mai tradito quando stavate insieme e anche dopo, non ha avuto nessun altro. Lei diceva sempre che tu eri il suo grande amore, anche se non riuscivi a capirla e non credevi neanche alla metà delle cose di cui ti parlava». Lo sentii soffiarsi il naso dall’altra parte del telefono. «Anche se la tata la spronava a cercare di vivere di nuovo, lei non ha mai voluto». “Per lei eri perfetto così, lei ti amava perché tu eri il suo opposto e, al tempo stesso era al sicuro con te”. Me lo aveva detto lei stessa, quando le avevo chiesto che cosa ci avesse trovato di bello in papà, dopo l’ennesimo insulto sulla chiromanzia. Tuttavia, se gliel’avessi detto, sarebbe stato come affondare il coltello nella piaga. 
«Lo so; è solo che sì, mi vergognavo, a volte, per questo suo hobby. Però la verità era che mi metteva paura; non era che non le credessi, era che avevo paura che potesse succederle qualcosa a causa della magia. Temevo che non sarei riuscito a proteggerla». Mormorò affranto. Non avrei mai pensato che mio padre la redarguisse per questo. Non era solo per vergogna in generale. «Avrei voluto essere meno cinico». Sentivo perfettamente tutti i sottointesi che non diceva. Sentivo tutti i suoi “Sono stato uno stronzo”, “Non sono stato degno del suo amore” e “non pensavo che mi amasse così profondamente”. Ma tutto quello che potevo dirgli fu solo: «Ti capisco. Ma di questa persona, che ti ricordi?»
«Sono passati tanti anni, Astrid, i miei ricordi sono sbiaditi. Ricordo appena che fosse alto, che il suo sguardo era feroce e il colore dei suoi occhi». 
«Ed erano gialli». Ripetei. In pratica mi aveva descritto Odysseus. Ma perché se ne era andato nell’arco di tempo che dovessi sviluppare la memoria?
«Sì, giallo verde o qualcosa di simile. Ti occorre altro?»
«No, sono a posto così. Grazie, papà». Ci salutammo e attaccai. 
Fu così che presi la mia decisione, ossia che avrei usato il Potere dei Tarocchi, per andare a fondo di questa faccenda. Forse non c’entrava niente con Neera e quello che sospettavo, ma dovevo tentare.

Mi cinsi il busto con le braccia e mi girai verso Kiki. Sgranai gli occhi nel vederlo fissarmi con un’espressione assorta e perplessa. Era come se si fosse incantato a guardarmi e al tempo stesso, si domandasse chi fossi. «Sei cambiata». Costatò dopo avermi fissato a lungo.
«In che senso?» Chiesi intimorita.
«Sei diversa da prima, sei più forte». Spiegò senza sapere bene come esprimersi. Decisi di prenderla per un complimento. «Grazie». Annuì, poi mi strinse a sé come se avesse avuto paura di vedermi scomparire da un momento all’altro. Il suo gesto repentino mi strappò un gemito di sorpresa. Non si era mai sbilanciato tanto con me fino a questo punto. Sentii le guance scaldarsi mentre mi rilassavo e ricambiavo la stretta. Poggiò la fronte sulla mia e sospirò: «Devi scusarmi se qualche volta mi comporto ancora come nei primi mesi della nostra conoscenza. Mi ero abituato a crederti in un modo, invece sei completamente diversa. A volte mi dimentico anch’io che sei una di noi».
«Per te sono ancora quella ragazza che ha atterrato il tuo maestro e a cui hai stretto le mani per salvarla dalle crisi d’ansia?» Gli chiesi sentendo la mia bocca curvarsi in un piccolo sorriso.
«Sì». Confessò aprendo gli occhi viola, tuffando il suo sguardo nel mio. Tanto eravamo vicini la mia vista mi restituiva un’immagine monocola di lui. Gli posai una mano sulla nuca e gliela carezzai, confessandogli che «Non è sparita». “Anche se l’avrei voluto”, ma non glielo dissi. Per quanto apprezzassi la compagnia del Gold Saint di Aries, non mi piaceva molto l’idea di essere ancora identificata con quella Astrid fragile e ferita. Un conto è essere inabile per via delle ferite, un conto è accettare la gentilezza altrui e, ancora, un altro è essere scambiata per la D in D, che io non ero. Pensandoci bene, poteva tornarmi utile come maschera. Ma non con Kiki e neanche con gli altri. Non sopportavo più che mi vedessero ancora così. Poggiai la testa sulla sua spalla destra: «A volte è ancora lì a tormentarsi per le crisi e l’ansia».
«Non hai ancora imparato a dominarla?» Mi domandò con voce dolce, carezzandomi la schiena e i capelli, scaldandomi zone che non avevano niente a che fare con la colonna vertebrale.
«No». Ammisi; lo psicologo me l’aveva detto che ci sarebbe voluto del tempo prima che ci riuscissi, ma la verità era che non avevo neanche cominciato a lottare seriamente per questo. Ma non avevo intenzione di arrendermi.
Quella sera la passai in infermeria in compagnia di feriti generici. Rividi per la prima volta il Bronze Saint di Serpens con cui divisi la solitudine di questo stanzone e la cena che ci portarono. Lui era finito qui per appendicite. L’avrebbero operato l’indomani, mentre io, l’indomani, sarei stata ospitata da Kiki alla Prima, in attesa che partissi per Milos. Ai vestiti avevano già pensato gli altri e li avevano spostati lì. Sarebbe stata una sistemazione provvisoria e niente di più.
Poi, dopo aver passato la serata a chiacchierare, ci addormentammo. Prima che scivolassi nel mondo dei sogni feci mente locale.             
Neera non c’entrava niente con la sparizione di Raki e degli altri bambini. Le sue mire erano altre. Mi guardai le mani e mi ricordai il luccichio che avevano assunto quando avevo cercato di aggredirla. Tre luci, non era mai capitato prima. Un’Armatura di Bronzo, una d’Argento e una che non sapevo cosa fosse. Che lei fosse stata declassata? No, quando l’avevo conosciuta era un’aspirante Sacerdotessa-Guerriero come me. Avevo assistito in prima persona al suo combattimento d’assegnazione del Cloth.   

Questa fu l’ultima cosa che pensai, prima di scivolare nel mondo dei sogni.

«Svegliati». Mi chiamò una voce maschile conosciuta in tono paterno. Aprii gli occhi e mi ritrovai a fissare la sagoma controluce del nemico giurato dei parrucchieri, a giudicare dalla sua capigliatura sparata in quindici direzioni diverse. Ma proprio da questo dettaglio lo riconobbi: «Maestro…» mugolai.

La sagoma si scostò, uscendo dal mio campo visivo.
Battei le palpebre e mugolai, mentre il tatto mi informava che mi trovavo distesa su dell’erba. Girai il capo e trovai anche i fiorellini del soffice tappeto erboso tra la segale. «Dove siamo?» Domandai.
«In un sogno».
«Ah, mi pareva strano».
«Credi di riuscire a metterti seduta?» Mi domandò l’uomo, accovacciato sulle punte dei piedi.
Valutai rapidamente le mie condizioni. Non sentivo più né il caldo né il dolore alla testa. Anche il mal di stomaco e il mal di gola erano passati. «Sì». Affermai e mi misi a sedere senza problemi.
Poi lo guardai e mi riempii gli occhi di quei lineamenti che mi erano tanto mancati. E, scoprii di poter ripercorrere ogni suo tratto solo con l’ausilio della memoria. E che quei tratti rimasti invariati mi erano mancati.
Riconobbi il viso ovale e gli occhi verdi come prati, circondati da una linea di kohl che emulava il trucco dei sacerdoti egiziani. Le palpebre dipinte di un livido blu viola. Come se avesse esagerato con l’ombretto o si fosse pestato con il suo parrucchiere e quelli fossero i segni della scazzottata. Però gli donava.  
Nonostante l’espressione amichevole aveva lo stesso cipiglio di Shura. Anche se le sopracciglia del mio maestro erano più sottili e nere come le ciglia, forse un antico ricordo del colore originario della sua chioma. Il naso dritto e le labbra sottili. Ma quello che mi colpiva e riconoscevo maggiormente erano i lunghi, mossi capelli argentei che, sotto la luce, sembravano persino più chiari. Quattro ciocche gli scivolavano sul volto. Un paio laterali e le restanti, di diversa lunghezza, gli tagliavano in due il viso sopra il naso, deviavano sulla guancia sinistra e scivolavano giù sul petto. Come avevo già avuto modo di scorgere prima, la zazzera più lunga della sua stessa persona, erano letteralmente sparati in quindici direzioni diverse, mentre tutti gli altri scivolavano giù lungo il corpo come i rivoli di una sorgente di montagna su una roccia. Avevo dimenticato che il diavolo per capello del mio maestro batteva persino quello di Saga e Kanon.
Anche se accovacciato si capiva che era un uomo molto alto e prestante con le spalle larghe. Ora che ero cresciuta però, non mi sembrava più così gigantesco come mi ricordavo. Doveva essere all’incirca sul metro e novanta. Dimostrava ancora una trentina d’anni ed era bello, molto, forse più di quanto ricordassi. Indossava una lunga tunica bianca a mezze maniche con un drappo grigio sulla spalla destra allacciato diagonalmente in vita con una fune. E, bracciali di cuoio nero agli avambracci muscolosi. Anche lui mi osservava, ma più con l’occhio del medico che con l’occhio di chi fa la radiografia alla persona che gli piace. Come, invece, mi accorsi, di aver fatto io e, arrossii per l’imbarazzo. «Stai bene?» Mi domandò di nuovo e io sorrisi commossa, battendo le palpebre per liberarle dalle lacrime di gioia. «Sì, solo, che è la prima volta dopo anni che ci rivediamo davvero».
Lui ricambiò il sorriso e mi porse un fazzoletto: «Hai ragione».
«In tutti questi anni non ho mai capito una cosa».
«Cosa?»
«Perché non mi hai mai detto il tuo nome?» Lui mi guardò stupefatto: «Davvero non te l’ho detto?»
«No».
«Scusami, rimediamo subito, il mio nome è Odysseus». “Odysseus” Ripetei tra me e me. Prima che me ne accorgessi, un sorriso si era già impossessato della mia faccia. Per me, saperlo, equivalse a raggiungere un traguardo. Sorrisi «Astrid Micheila av Stjernene, anche se lo sai già. Finalmente so il tuo nome, maestro». Dissi ponendo l’accento sull’ultima parola e alzai un sopracciglio.
Lui sorrise di nuovo. Gli avambracci poggiati sulle ginocchia. «Sì, scusami, avrei dovuto dirtelo prima».
«Già, quando hai cominciato ad addestrarmi da piccola».
Un luccichio animò il suo sguardo. «Allora ti ricordi?» Mi chiese. Difficile dimenticarlo. Sentii le guance scaldarsi ma decisi di ignorare quel calore e rispondere: «Sì, ricordo tutto, anche tu».
«Ne sono felice». Si mise seduto a sua volta. «Ma non è solo per questo che sono qui».
«Ah, no? Per cosa, allora?»
«Devo riferirti due cose, la prima, riguarda la tua amica Paradox, lei ha un messaggio per te. La seconda il Cavaliere del Leone».
«Il Cavaliere del Leone? Che cos’ha?»
«Per ora niente».
«Aspetta, vuoi dirmi che presto succederà qualcosa ad Aiolia? La prossima vittima sarà lui?» Esclamai orripilata girandomi verso il maestro ma non c’era più e mi svegliai di soprassalto. «Maestro». Mormorai mentre mi calmavo, ma lui non mi rispose. Mi ridistesi a letto e mi passai una mano sulla fronte madida di sudore. “Cosa mi stai chiedendo di fare, maestro?” Pensai poggiando la mia fronte sul palmo. “Tieni d’occhio Aiolia” aveva detto, ma perché? Davvero Neera aveva intenzione di ucciderlo? Non era che me lo stavo solo immaginando?

Proprio in quel momento arrivarono le infermiere, attirate dalla mia confusione. «Nobile Astrid» e «Signorina av Stjernene», mi chiamarono prima di accostarsi al mio capezzale. «State bene?» Disse una, mentre l’altra prendeva a controllare il mio battito cardiaco.
Solo dopo che finirono di visitarmi ed ebbero la completa certezza che stessi bene mi portarono la colazione. Ancora una volta, colazione in infermeria, mi era mancata, guarda, ma porco… e giù un altro paio di ministri.
Erano ormai due giorni e tre notti che ero segregata qui con la scusa della malattia. D’accordo, magari all’inizio sì, ma la febbre che mi ero presa non era stata così grave, era solo il sigillo sui miei ricordi che si era aggiunto, a mo’ di reazione psicosomatica al raffreddore che mi ero beccata. Comunque niente di non debellabile con la tachipirina.
La cosa che mi sorprendeva era che questo sogno era strano, realistico. Ma mi sorprendevano le mie emozioni. Ok che non sempre rispecchiavano quelle che si provavano, ma ora mi domandavo che cosa avrei provato se ci fossimo visti faccia a faccia anche nella realtà e poi quel messaggio. Che cosa intendeva dire?
«Astrid». Mi chiamò la voce di Paradox. Alzai la testa e incontrai il suo sguardo azzurro e preoccupato. «Paradox». Ricambiai abbozzando un sorriso esausto.
«Tutto a posto?» Mi domandò, vedendomi stravolta. «Sì, tranquilla, è solo che ho fatto un sogno strano, ho sognato che c’era il mio maestro che mi diceva che tu avevi un messaggio per me; assurdo, non è vero? Il bello è che sembrava così reale, come se stessi facendo un Viaggio Astrale e… Paradox?» Domandai accorgendomi che mi fissava con due occhi spalancati per il terrore. «Paradox?» La chiamai e lei tornò in sé: «Eh? Sì scusa, è che le tue parole mi hanno ricordato una cosa».
«Ah, sì? Che cosa, se posso chiedere».
«Puoi, puoi, anzi, no, devi.» sospirò e si accomodò sulla sedia accanto al letto, «perché credo che questo sogno ti riguardi molto da vicino».
«Un sogno, me?» Chiesi stupita e lei annuì, «sì, anche il nobile Shun e il mio maestro Shiryu, concordano, finora credevo che fosse una cosa di poco conto ma ora…».
«Raccontami tutto».
E, fu così che venni a sapere che dovevo raccogliere i cinque colori fondamentali? «Cioè?» Le domandai alla fine. Non ero neanche sicura di aver capito bene, che diavolo stava dicendo? Ma che, aveva cominciato a drogarsi? No, perché non vedevo alcuna relazione tra me e questo sogno, voglio dire, avrei capito di più se avessi visto in me delle doti da pittrice, ma io non ce le avevo. Me la cavavo bene nel disegno tecnico ed ero piuttosto brava a usare le squadre e a capire i progetti e a disegnare delle mappe, ma… i colori? E poi, che colori? Ok che disse: «Non lo so, la donna del sogno mi fa vedere cinque luci che si alternano una dopo l’altra, una nera, una bianca, una gialla, una rossa e una blu, più di così non so dirti altro, ma vuole che ti venga detto», ma la domanda restava. Quali colori mi servivano in particolare? Perché dubitavo che la cartoleria di Rodorio fosse il posto giusto dove cercare tutto questo. Cioè, o questo, o Paradox, Shun e Shiryu dovevano farsi due chiacchiere con il mio psicologo. A volte a sentire queste notizie mi facevano venire seri dubbi sulla sanità mentale delle persone che mi circondavano. E, se fosse saltato fuori anche questo, neanche mi sarei sorpresa più di tanto, con tutte le mazzate che si scambiavano.
L’unica cosa di cui ero sicura, era che il mio maestro era qui. La Carta della Morte aveva protetto Yoshino e gli altri proprio come avevo desiderato. Anche se ero costretta a letto non significava che non potessi usufruire del Patto, anche se mi dovevo concentrare moltissimo. Non so neanch’io dove trovai l’energia per bloccare Neera la sera dopo. Mi guardai le mani senza timore, tanto Paradox era dovuta andare via subito dopo avermi riferito il messaggio.
Apparentemente sembravano ancora le mie mani, ma lo sentivo che avevano qualcosa di diverso. Sentivo l’energia del mio Cosmo in me. Le lasciai ricadere sulle mie gambe e mi guardai attorno sbuffando per la noia. Adesso era inutile pensare a queste cose, dovevo prima levare le tende dall’astanteria.
Proprio in quel momento arrivarono le dottoresse per la visita mattutina e, poi, potei finalmente fare colazione e andarmene perché fui dimessa.       

E, così, cominciai a investigare, anche su quest’ultima notizia. E, per farlo, mi recai in cartoleria a Rodorio. Non era fornitissima, ma il minimo indispensabile ce l’aveva.

«Avete scelto cosa comprare?» Domandò la commessa della cartoleria, mentre mi rigiravo tra le mani cinque tubetti di tempere. Uno rosso, uno blu, uno bianco, uno nero e uno giallo. «No, non ancora». Risposi pensierosa tornando a osservarli.
Cinque colori fondamentali con cinque luci. Se il sogno di Paradox aveva un senso, allora lo intuivo appena. Luci e colori. Photo e colore? Disegnare con la luce? Cioè scattare una fotografia? Praticamente secondo Paradox mi dovevo comprare una macchina fotografica? E a che diamine avrebbe dovuto servirmi? Io e la fotografia eravamo due mondi a sé stanti.
Rialzai la testa con un’espressione che la diceva lunga sull’assurdità di questo pensiero. Dopodiché rimisi a posto i colori, salutai la commessa e me ne andai.
Mentre camminavo (sbocconcellando un tortino che presi in una locanda) in direzione del Santuario (ignorando le occhiate di spavento che mi rifilavano) lanciai il mio sguardo sulla montagna delle Dodici Case. A eccezione della Casa di Atena, della Prima, della Sesta e dell’Ottava, le Tredici Case per me erano off limits. Maledissi me stessa per non essermi saputa trattenere, se fossi stata più civile probabilmente non mi sarebbe stato interdetto l’accesso a molte di esse. Ma cosa me ne facevo di attraversarle se mi piacevano di più i sentieri dei servi?
Mi fermai ad osservare la montagna illuminata dallo splendido sole di questa giornata.
Era inutile piangere sul latte versato. Anzi, ora, dopo, cosa pretendevano che facessi? Era anche vero che non potevo lasciare che quell’impostora continuasse a bazzicarvi. Se il messaggio di Odysseus si fosse rivelato esatto, Aiolia sarebbe morto e Neera avrebbe fatto qualcosa alla sua Armatura d’Oro. Perché era a questo che mirava.
Guardai un’ultima volta le Case e mi morsi il labbro, prima di muovermi in direzione delle medesime. Il cuore che mi batteva violentemente in petto. Mentre salivo le scale, mi ricordai e, realizzai, finalmente, ciò che avevo fatto, sotto l’ottica di un Saint e mi fermai, trasalendo per lo spavento. Il mio intento era stato quello di spaventare Neera al punto da farle vuotare il sacco, non avevo considerato tutti gli altri.
Mi feci forza per calmarmi e ripresi la salita, cercando di distrarmi.
Arrivata alla Prima, chiamai Kiki, il quale, mi venne incontro, come promesso. Mi fece una strana impressione trovarmi qui senza prima trovarmi Raki tra i piedi.
Quel giorno m’informò della sua decisione di comunicare al Gran Sacerdote la verità su di me, come se non la sapessi anch’io. Però, non riuscii a non impedirmi dal guardarlo spaventata. Già Kanon non mi aveva granché in simpatia. Ma il mio amico mi rassicurò dicendomi che era necessario e che presto o tardi la verità sarebbe venuta a galla. «Sai che quest’informazione non può restare solo tra me e te?» Mi disse a un tratto.
«Sì, purtroppo lo so, ed è giusto».
«Allora ho il tuo permesso di andarglielo a riferire?»
Annuii, anche se sapevamo tutti e due che il Pontefice lo sapeva già e che era una scusa per parlarci a quattrocchi. «Kiki». Si girò verso di me e io dissi, senza guardarlo, «Non sono un’idiota e non ho bisogno di essere tutelata. So perfettamente che lui lo sa già, per favore, da adesso in poi, potresti non mentirmi mai più?»

«Come lo sai?»
Gli rifeci il verso: «Nobile Astrid?»
«Ah, già. Scusami, è che… Non so neanch’io perché mi comporto così, con te è che, mi viene istintivo cercare di proteggerti da tutto e, vederti felice». Percepii istantaneamente la sua paura di essersi sbottonato troppo. Curvai la bocca in un sorriso di gratitudine. «E io ti ringrazio per questo, ma non puoi proteggermi per sempre».
«A volte vorrei davvero poterlo fare». Mormorò prima di andarsene, ma lo sentii lo stesso e, avvampai, sentendo il mio cuore battere più rapidamente in petto. Lo richiamai, stavolta guardandolo e lui tornò indietro e incontrò il mio sguardo spaventato: «Ora che cosa mi succederà?» Gli chiesi.
Se c’era una cosa che temevo, era che tutti mi voltassero le spalle, definitivamente. Il Gold Saint di Ophiuchus era stato bandito molto tempo fa. Io ero alla stregua del frutto della vergogna per i Saint di ogni rango.
«Non lo so, ma tu abbi fiducia in me».
Abbozzai un sorriso che sperai fosse abbastanza fiducioso. 
Kanon venne a trovarmi appena poté in giornata. Tra tutti i visitatori, lui era quello che meno speravo di vedere e, al tempo stesso, quello di cui più temevo l’arrivo. Dunque la mia sentenza di morte era arrivata, assieme a un messaggero d’eccezione. 
«Kanon!» Esclamai sconvolta nel ritrovarmelo in salotto appena uscii dal bagno (avevo infatti, perso le speranze da qualche ora). Il cuore mi balzò in petto per la paura. Però mi inginocchiai al suo cospetto istantaneamente. Forse se mi fossi dimostrata docile avrei avuto qualche chance in più. 
«Astrid». Replicò serio. Il suo portamento mi comunicò tutta la forza, la fierezza e la solennità di ex Cavaliere d’Oro. Una fierezza che io non avevo. Avevo la forza, ma non mi sentivo affatto fiera. Soprattutto dopo che più della metà dei Gold Saint si era schierata a protezione di Neera.
Non avevano idea dello sbaglio che stavano commettendo. 
«Ho saputo di quello che è successo». Esordì guardandomi dall’alto in basso con occhi inquisitori.
Chinai il capo, abbacchiata. «Sono desolata Sommo Kanon, non volevo… cioè, non pensavo che…» Farfugliai alla ricerca delle parole giuste. Mi zittii mordendomi la lingua. Qualsiasi cosa mi passasse per la testa sembrava non andare bene. «So cosa vorresti dire». Intervenne il Gran Sacerdote venendo in mio soccorso (?) Non potevo passarla liscia per tutto il caos che avevo provocato finora. 
Alzai il volto verso di lui, guardandolo. «Adesso molte cose sono chiare». Continuò, ricambiando con sguardo imperioso e diffidente. «Mentre altre sono ancora oscure. Ma tu non devi temere, sei una di noi e non ti verrà torto un capello».
Sgranai gli occhi, stupita. «Cosa?» Mi era parso di aver capito che l’avessi combinata troppo grossa. Ma forse mi ero posta fin da subito su un piedistallo che non avevo e queste cose erano all’ordine del giorno, qui.
«Io e i Gold Saint abbiamo deciso, di comune accordo con la Dea, di completare la tua formazione di Saint e di designarti a un’Armatura ma all’Isola di Milos». E, con queste parole, il mio stupore crebbe a tal punto che mi portò a spalancare la bocca. «Ovviamente quando tutta questa storia finirà, non possiamo permettere che tu corra dei rischi in più». 
«Io… io non so cosa dire…» Mormorai.
«Comincerai il tuo addestramento il prima possibile, immagino ti abbiano già detto che partirai dopodomani». Dichiarò, dopodiché aggiunse. «Manderò a chiamarti quando le acque si saranno calmate del tutto, anzi, provvederò io stesso a calmarle quest’oggi». 
«Signore, perché?» Domandai ancora sbigottita. “E Neera?” Avrei voluto dirgli invece.
«Perché da oggi tu non sei più un’ancella della Tredicesima, è tempo che tu prenda possesso del tuo vero titolo e del tuo ruolo, Apprendista di un Cavaliere d’Oro». Se Aphrodite non mi avesse avvisato per tempo, avrei creduto a tutta la pappardella. Seh, certo, peccato per tre punti: il primo, Aphrodite mi aveva già detto tutto, il secondo, non esisteva che un Cavaliere di rango inferiore istruisse uno di rango superiore. Odysseus mi aveva spiegato che i Cavalieri d’Oro venivano addestrati da altri ex Cavalieri d’Oro sopravvissuti o risorti e, quest’ultimi, avevano il veto assoluto di rimettere piede al Santuario. Ergo, erano gli stessi Gold, a volte a farsi carico delle nuove leve, come il Venerabile Dohko nel caso di Shiryu, Camus nel caso di Hyoga, Death Mask nel caso di Mei della Chioma di Berenice. Tutti gli altri venivano addestrati da un Silver o un Bronze loro pari. Eccezione facevano le Saintia e adesso, anche gli allievi della Palaestra e dell’altra scuola di Ionia sperduta chissà dove.
Terza cosa, probabilmente il mio maestro non si sarebbe lasciato ingannare da tutto questo. Mi sembrava anche strano che non ci fossimo ancora rincontrati, da quando avevo ricordato tutto. Anche chiamandolo mentalmente non rispondeva, ed era meglio così. Mi dispiaceva molto aver scoperto il suo coinvolgimento in tutta questa storia. La carta della morte mi aveva mostrato, poi, che cosa fosse successo e, io, avevo rivissuto tutto secondo il suo punto di vista. Ed era stato tremendo.
Mi fece male al cuore, lo stesso dolore dello strappo di una vecchia ferita dimenticata. Ma mai quanto vedere l’espressione triste di Kiki, che, una volta andato via il Gran Sacerdote, fece di nuovo capolino sulla porta.

Un sorriso rassicurante gli curvava la bocca come a dire “É andato tutto liscio, no?” Certo, se esiliarmi e lasciare campo libero a quell’altra, rientrava nella sua definizione di tutto liscio.

 

Quella notte, aspettai che Kiki dormisse. Vero che non avevo barriere mentali come quelle di un Gold, vero che non sapevo usare la telepatia con terze persone oltre il mio maestro. Tuttavia non ero propriamente sprovvista: mia madre mi aveva insegnato a zittire la mente. Era lo stesso principio con cui i Gold percepivano i Cosmi, solo che richiedeva una notevole concentrazione ed elasticità mentale. Se si prende la mente come una cosa perennemente in movimento, come le ali di una farfalla, allora la si può anche fermare. Come quando la farfalla si posa da qualche parte. Lo stesso era quello che ero riuscita a fare io grazie agli insegnamenti della mamma e della nonna. E, mi riusciva piuttosto bene, se ascoltavo della musica.
La canzone che mi stavo ascoltando in quel momento era Unda dei Faun e attendevo. Attendevo, per lo più, che la canzone mi restasse in testa come un tormentone estivo, di modo che, se Kiki avesse provato ad ascoltare, avrebbe sentito solo quella. Il piano vero e proprio era sempre il solito, le intenzioni idem, non mi serviva di ripensarci.       
Appena fui sicura che la canzone fosse sedimentata ben bene, spensi il lettore mp3 nel telefono e, mi avviai, facendo attenzione affinché Kiki non si svegliasse, fuori delle Prima. Da lì, onde evitare rogne, imboccai il sentiero dei servi ringraziando il mio Cosmo silente, perché i sentieri, spesso erano monitorati dagli stessi Gold Saint. Corre una sostanziale differenza tra percepire i pensieri e percepire il Cosmo altrui.  

Arrivai alla Casa del Leone e, cercando di fare meno rumore possibile, mi affacciai agli appartamenti privati, trovando la porta della camera di Aiolia aperta. Ma il suddetto non c’era. Probabilmente era in missione da qualche parte. Ma allora perché la porta del suo studio era aperta? Aiolia aveva l’abitudine di chiuderla.
Il mio cuore cominciò a battere ancora più forte e trattenni il fiato rumorosamente.
Mi accostai alla porta cercando di non farmi sentire e poi mi sporsi leggermente. A quel punto ritrovai tutto il mio coraggio. Materializzai il mio falcione di Cosmo che lanciò un brillio e lo puntai al collo della donna.  
«Non una mossa». Sibilai minacciosa. La sacerdotessa che s’immobilizzò. «Cosa ci fai qui?» Chiesi e lei si volse repentinamente per sferrarmi un attacco che parai. Il mio falcione di Cosmo mandò scintille contro il suo pugno, come se si fosse scontrato contro un oggetto metallico invece che con una mano. Per un momento persi presa sul bastone e questo si dissolse ma lo ricomposi subito.
Quando si girò trattenne il fiato rumorosamente: «Non è possibile, ma non eri partita?»
«Partita? Quando mai? Io parto domani, non stasera. Che cos’è questa storia? Perché tu hai due Armature? Che cosa rappresenta quella terza luce che si è manifestata l’altro ieri? Perché sei nello studio di Aiolia?»
La ragazza scoppiò a ridere, sguaiata e si portò una mano alla bocca della maschera. Mano che poi spostò su un occhio come a detergersi una lacrima: «Lo sapevo che eri una piaga. Quella notte al cimitero non avrei dovuto salvarti». Poi mi scagliò nel bagno con un colpo di Cosmo a tradimento. Sentii i miei piedi sollevarsi da terra e sbattei la schiena contro la porta, aprendola, per finire piegata e dolorante in più punti, nella vasca da bagno sotto la finestra. «Non pensavo che saremmo arrivate a questi punti».
Mi rialzai a sedere e mi puntellai sulle mani tremanti. In bocca il sapore del sangue: «Non eri tenuta a farlo».
«Oh, sì che dovevo. Eri tu quella che non doveva tornare». Ciò detto mi afferrò per i capelli e mi sollevò la testa per schiantarmela contro il bordo della vasca. «Non toccarmi!» Urlai ed espansi il mio Cosmo con violenza, costringendola a scostarsi. Anche se lo feci con una violenza tale che devastò il bagno della Quinta e l’acqua cominciò a fuoriuscire dalle tubature, inondando l’ambiente pieno di polveri e calcinacci e mi ritrovai sul pavimento. Mi rialzai all’istante e l’attaccai materializzando il falcione e cercando di colpirla, dovevo riuscire a liberarmi di lei e uscire da qui.     
«Filo del Tomahawk!» Ma le opposi il mio falcione di Cosmo dorato e l’attacco si arrestò a mezz’aria. Poi, con uno sforzo sovrumano che mi costrinse a gridare, glielo rispedii. Lei fece il ponte all’indietro e l’attacco tagliò la parete e la porta, facendole crollare, assieme a quelle che ci separavano dal corridoio di passaggio. Non le detti neanche il tempo di contrattaccare che mi mossi prima io. Ma avevo gioito troppo presto perché lei sfruttò il mio attacco a suo vantaggio e ci ritrovammo a massacrarci di botte. «Che cosa vuoi dai Gold Saint? Tu non sei una vera Sacerdotessa-Guerriero! Che cosa vuoi da loro?»
«Il potere!» Ruggì.
Mossi il bastone per poco non l’affettai in due, ma lei saltò via e io feci altrettanto, mentre il pavimento sotto ai nostri piedi si riempiva di crepe e sprofondava leggermente. «Vuoi il potere? Eccolo! Eccolo quanto ne vuoi!» Esclamai battendomi una mano sul petto per indicarmi: «Io sono la custode della Luce Ombrosa e sono l’apprendista del Gold Saint di Ophiuchus! Non c’è nessuno qui che possa eguagliarmi!» Anche se non sapevo quanto potesse essere vero fino in fondo tutto ciò. Sperai che lei ci credesse, ma non fu così. «La Luce Ombrosa, cosa me ne faccio di una cosa simile? Nessuno ha idea di cosa sia, nessuno all’infuori di te può usarla e, anche volendo non saprei proprio come estrartela. E poi, prima d’ora non s’era mai sentita nominare, per quel che ne so il tuo Cosmo è difettoso e quella che si vede è tutta apparenza. La magia non c’interessa, noi vogliamo qualcos’altro. Il mio Signore non ha interesse per questo, ma vuole indebolire le schiere dei Saints, questo è vero».
«Così ha mandato te». Completai per lei accigliandomi ancor di più.
«Esatto, all’inizio dovevo soltanto farmi più alleati possibili e portarli dalla nostra parte, ma poi ho avuto un’idea migliore: da dove derivano i Saint le loro forze? Dalle loro Armature, così ho cominciato a collezionarle».
«Le hai rubate!»
«No, le ho solo convinte a venire con me».
A quel punto gridai, fremendo di rabbia e di terrore: «Per chi lavori? Dimmi la verità, chi sei veramente?»
«Chi sono io? Io sono una semidea e sono qui per le Armature d’Oro». Ciò detto espanse il suo terribile Cosmo in tutta la sua piena potenza e l’acqua attorno a noi si animò. Non riuscivo più a muovermi. A un tratto mi afferrò per il colletto della mia tunica e mi scagliò nel corridoio. Mentre cercavo di rialzarmi, lei mi raggiunse e mi afferrò nuovamente per i capelli. «Devo ammetterlo, sei stata una vera spina nel fianco, ma adesso basta». E, mi tenne ferma. Usò il suo potere per comandare all’acqua di entrarmi nelle vie respiratorie e uccidermi. Cominciai a divincolarmi e cercai di scacciare l’acqua ma le mie dita passarono attraverso i fiotti senza tuttavia infrangerli.
Neera rise dei miei tentativi.
A un tratto non sentii più aria e il panico prese il sopravvento. Cercai di divincolarmi con più forza, ma la sua presa era troppo forte e stavo per buttare fuori tutta l’acqua. Ma la mia voglia di vivere era più grande. Così l’incanalai e il mio cervello si riattivò. “Se sei veramente un’Armatura di Atena, allora aiutami! Salvami!” Implorai mentalmente con tutta l’energia di cui ero capace. Perché ormai stavo respirando acqua e le energie erano sempre meno. “Ti prego, in nome di Atena, ti prego”. La sua Armatura che fin lì l’aveva rivestita, l’abbandonò per catturarla e strapparla via da me che potei così sollevare la testa dall’acqua e tossire. Mi cacciai due dita in gola e vomitai. Quando rialzai il volto lacrimante e boccheggiante, vidi la Bronze Cloth di Indus bloccarla ancora.   
«Non è possibile!» Strepitò Neera.
«Grazie». Mormorai alla corazza e, facendo leva sulle mani, mi rialzai, barcollante. L’ultima cosa che sollevai fu proprio la testa. Ma un capogiro mi costrinse di nuovo in ginocchio e Neera riuscì a sfilarsi dall’abbraccio della Cloth. «Che cosa fai? Tu dovresti proteggere me, non lei, me!>> La redarguì mentre la corazza, fluttuando a mezz’aria, si poneva davanti a me,   

Proprio in quel momento fummo raggiunte dalla voce di Lythos. «Astrid!» Urlò.  
«Lythos!» Esclamammo entrambe mentre la sorella minore di Aiolia faceva capolino da dietro dei detriti. Poi si avvicinò a noi mettendo i piedi in acqua.
«No! Sta lontana dall’acqua!» Le urlai mentre la Bronze Saint che soggiornava impunemente a casa sua si preparava a lanciare il suo attacco. E, anche Lythos si ritrovò immobilizzata da dei serpenti d’acqua.
«Lythos!»
«Astrid!»
A quel punto ricorsi di nuovo ai Poteri delle Stelle e mi girai verso Neera, ancora intenta a lottare contro la sua stessa Armatura. E ne vidi le stelle. Non potevo usare la gabbia astrale, qui. Non avevo tutto questo tempo a disposizione e, non sapevo per quanto ancora la Bronze cloth di Indus avrebbe retto. Non molto, a giudicare dalle crepe che si stavano delineando sul metallo. Crepe che vedevo a causa delle fiaccole e della luce delle mie mani.
Le disegnai tutte rapidamente, materializzando le stelle d’argento e le sottrassi la sua parte di Falsa Croce che si trovava nella Carena: le stelle Avior e Aspidiske, che erano connesse a Delta Velorum e a Kappa Velorum da un fiotto di energia azzurrino e indipendente che andava a incrementare il suo potere. 
La ragazza sussultò e si prese in pieno un pugno nello stomaco dalla Cloth. Perdendo così tutta la presa sull’acqua. Sicché dissolsi quelle stelle e mi precipitai dalla mia amica che era caduta bocconi nell’acqua, fradicia: «Lythos!» L’aiutai a rialzarsi dopo essermi accertata che stesse bene e poi mi misi davanti a lei.
Avrei voluto chiedere aiuto a Odysseus ma non potevo fidarmi di lui. Dovevo riuscirci da sola.
Neera nel frattempo si era rialzata, ed era più furibonda che mai.  
«Non ti avvicinare, Neera, non sono così sprovveduta!» Urlai e, per darle una prova, dissi a Lythos di aggrapparsi da qualche parte: «Ora farò sparire tutta quest’acqua». Ridisegnai la costellazione della Carena: «Cosa credi di fare con quelle stelline?»
Non risposi con le parole. Presi direttamente ε Carinae tra le mani e poi allontanai queste ultime dalla stella, facendola accrescere e, rivelando così una nebulosa. «Una Nebulosa! Dove hai trovato quella Nebulosa?» La trapassai con gli occhi prima di espandere l’oggetto, innalzandolo sopra le nostre teste e, allargando le braccia. Sollevando una fortissima corrente di vento che poi, abbassai ai nostri piedi e, così, impedii a Neera di usare ulteriormente il suo potere.
E, il vento cominciò a soffiare attorno a noi, spazzando via tutta l’acqua.
Quando l’acqua fu allontanata, la Quinta Casa era ridotta peggio di prima. Come se fosse stata assaltata nuovamente dai Ghost Saint di Eris.
La cosa che mi sorprendeva, era che Neera fosse ancora in piedi, appena scompigliata. Ci si lanciò addosso, ma prima che ci riuscissi Aiolia si frappose tra noi e bloccò il suo colpo. Scagliò indietro la Bronze Saint sciogliendo la presa delle braccia: «Sta lontana da mia sorella e da Astrid».
«Nobile Aiolia, non è come sembra, è stata Astrid, è lei che è ossessionata, io mi stavo solo…»
«Basta, Neera, non mi lascerò più manipolare dalle tue parole! Tu sei la traditrice che stavamo cercando!»
«Allora era una trappola? La vostra partenza e la missione…»
«Sì e adesso te la dovrai vedere con noi».
«Giammai».
L’acqua si sollevò avvolgendosi attorno al suo corpo e poi si abbassò di colpo. «É sparita!» Ringhiò. Poi si girò verso di noi e ci soccorse: «Lythos!»
«Sto bene, sto bene, Astrid mi ha salvato». Disse lei mentre il fratello l’aiutava a rialzarsi. Aiolia mi guardò stupefatto e io annuii: «Non c’è di che». Solo allora lui parve riaversi dallo stupore e mi tese una mano, per aiutarmi a rialzarmi. Io l’afferrai e mi lasciai rimettere in piedi: «Sembra che io abbia un debito di riconoscenza nei tuoi confronti». Costatò, a disagio. Non amava avere debiti di riconoscenza. «Così sembra». Confermai rigirando il coltello nella piaga anche per lui. Così imparava, per tutte le volte che aveva gridato che dovevo morire. «Ma intanto, lasciate che vi aiuti io stessa». Così gli raccontai tutto ciò che era successo e richiamai la Cloth dell’Indiano, che fu ben felice di tornare nelle mani di Saint onesti. A fine racconto cominciarono polemiche e obiezioni.
«Ma la sua costellazione è quella della Carena, non dell’Indiano». Obiettò Aphrodite (che nel frattempo si era aggiunto a noi assieme a Milo e a coloro che avevano deciso di tendere la trappola a Neera) e Aiolia stavolta guardò il suo compagno.
«Una Silver Saint? Perché avrebbe avuto bisogno di conquistare un’altra cloth, di grado inferiore, oltretutto?»
«Guarda che ce l’ha detto il perché».
«No, semmai come ha fatto, è impossibile che un Cavaliere possegga due Armature». Disse la Piattola.
«In teoria no, ho sentito dire che esistono delle medaglie che permettono ai Saint di indossare una cloth di grado superiore o inferiore a dispetto della costellazione d’origine d’appartenenza. Le ha fatte forgiare la Divina ai tempi del Mito, dovrebbero essere le stesse che indossano anche Seiya e gli altri».
«Aspettate, volete dire che voi non le portate?»
«Noi Redivivi no, noi eravamo predestinati a essere Gold Saint». Rispose orgoglioso Aiolia. Non seppi se guardarlo ammirata oppure delusa per questo suo vanto. Lui che si vantava, quasi non ci si credeva. «Ma da allora non sono mai state usate, anche i nostri eredi non ne hanno mai avuto bisogno». Continuò e Aphrodite concordò con lui: «No, infatti, può darsi che la stessa cosa non valga anche per Neera».
«Giusto, dividiamoci e…»  
«Io posso aiutarvi». M’intromisi. I Saint mi guardarono. «Io posso manifestare la sua costellazione, se è ancora all’interno del perimetro del Santuario, allora posso fare qualcosa». Spiegai avanzando di un passo.
Non vollero sentire ragioni. «Apprezziamo molto il tuo aiuto, Astrid, ma è meglio per te se resti al sicuro con Lythos, raggiungila alla Seconda e resta con lei e Yoshino». Ordinò Aiolia accigliandosi ancor di più. Prima di uscire dalla stanza, però, mi guardò da sopra una spalla e si raccomandò: «Ti affidiamo anche lei».
Io annuii. Non aveva neanche bisogno di chiedermelo; così, raggiunsi la Seconda dove fui accolta dai genitori di Yoshino Castalia, Juan, Paradox e Integra, e spiegai loro tutto. 
Questi ultimi, Yoshino ed io, di restare insieme a me, nonostante che le stelle di Georg fossero decisamente più flebili di quelle di Castalia e Juan.
«Mi dispiace, Astrid». Si scusò la mia amica strofinandomi le mani sulle spalle. Posai una mano su una delle sue e restai a fissare la porta per un po’. Le sorrisi e la rassicurai, coprendo la sua mano con la mia: «Tranquilla, non è colpa tua».
Il resto della notte la passammo a cercare di trovare un nesso a tutto, grazie anche a una buona dose di caffè. Insieme buttammo giù una lista di domande e cominciammo a investigare, accomodati in salotto.
Per quanto riguardava il messaggio del sogno di Paradox, le chiesi se poteva cercare qualcosa nelle mitologie e nelle stelle. E, così, le gemelle e gli altri Saint presero a raccontare qualcosa. Yoshino si scusò dicendo che non ricordava niente. In quanto Dea avevamo sperato che sapesse darci una risposta più esaustiva.
Ma tutto ciò che le venne in mente fu un vecchio mito indios sui colori. Più che altro una favoletta che aveva letto a scuola quand’era bambina.  Prese fiato e cominciò a raccontare: «Tanto tempo fa gli Dèi litigavano sempre perché il mondo era assai noioso con due soli colori: uno era il nero che comandava la notte, l’altro era il bianco che camminava di giorno; il terzo non era un colore, era il grigio che dipingeva sere e mattine affinché non si scontrassero troppo. Questi Dèi erano litigiosi ma molto sapienti. In una riunione si misero d’accordo per pensare a come rendere allegra la vita degli uomini. Uno degli Dèi cominciò a camminare per pensare meglio, e tanto pensava, che sbatté contro una pietra ferendosi la testa da dove uscì sangue. Il Dio, dopo aver strillato per un bel pezzo, guardò il suo sangue e vide che era di un colore diverso e andò dagli altri Dèi, mostrando loro il nuovo colore che chiamarono “rosso”. Un altro Dio cercava un colore per dipingere la speranza. Lo trovò dopo un bel pezzo e lo mostrò all’assemblea degli Dèi; gli misero il nome “verde”.Un altro cominciò a grattare forte a terra. – Che fai? – gli chiesero gli altri Dèi.
– Cerco il cuore della terra – rispose rivoltando la terra da ogni lato. Dopo un po’ trovò il cuore della terra, lo mostrò agli altri dei e chiamarono quel colore “marrone”.
Un altro Dio salì in alto. – Vado a guardare il colore del mondo – disse, e si mise a scalare una montagna. Quando arrivò ben in alto, guardò in giù e vide il colore del mondo, ma non sapeva come fare a portarlo. Allora rimase a guardare per un bel po’, finché il colore non gli si attaccò agli occhi. Discese come poté, a tentoni, e andò all’assemblea degli Dèi.
– Porto nei miei occhi il colore del mondo: l’azzurro.
Un altro Dio stava cercando colori quando sentì un bambino ridere; si avvicinò con cautela e gli prese la risata che diventò il giallo.
A quel punto gli Dèi che erano ormai stanchi, andarono a dormire, lasciando i colori in una cassetta sotto un albero. La cassetta non era chiusa bene e i colori uscirono, cominciando a far chiasso e festa. Così nacquero tanti nuovi colori.
Quando tornarono, gli Dèi si accorsero che i colori non erano più sette, ma molti di più.
Presero la cassetta dei colori, salirono sulla cima del monte, e da lì cominciarono a lanciare i colori, così l’azzurro finì in parte nell’acqua e in parte nel cielo, il verde cadde sugli alberi e sulle piante, il marrone, che era il più pesante, cadde sulla terra, il giallo, che era un risata di bambino, volò fino a tingere il Sole, il rosso giunse sulla bocca degli uomini. Gli Dèi lanciavano i colori senza fare attenzione a dove finissero e alcuni di essi spruzzarono gli uomini. Per questo vi sono persone di diversi colori e di diverse opinioni.
Allora, gli Dèi, per non dimenticarsi dei colori e perché non si perdessero, cercarono un modo per conservarli. Stavano pensando come fare quando videro un pappagallo, che era brutto e grigio come una gallina spennacchiata. Lo presero e gli attaccarono i colori. Ancora oggi il pappagallo se ne va in giro per ricordare agli Dèi che molti sono i colori e le opinioni e che il mondo potrebbe essere felice se tutti i colori e tutte le opinioni avessero il proprio spazio. Il bianco ed il nero si erano sentiti messi da parte nella creazione dei nuovi colori. Anzi, si erano proprio offesi! Possibile che gli Dèi non si erano ricordati almeno di chiedere loro che ne pensavano della novità? E così presero il coraggio in due mani e inventarono anche loro una bella cosa che potevano poi pensare solo loro... Perché aggiungendo ”chiaro” o “scuro” ai nuovi colori, ne inventarono il doppio! Rosso scuro e rosso chiaro, verde scuro e verde chiaro e così si divertirono ad arricchire tutta la gamma di tinte
. Mi dispiace, ragazzi, ma è l’unica leggenda che conosco».
«Io conoscevo una favola che mi raccontarono a storia, spacciandola per le storie della Preistoria». Dissi dopo aver bevuto un sorso della mia tazza. «In pratica narra di tre fratelli divini che, un giorno decisero di scendere tra gli uomini. Si chiamavano Argilla, Carbone e Ocra e ognuno erano uno più virtuoso dell’altro. Il primo a partire fu proprio Argilla, ma finì corrotto e allora Carbone partì per salvarlo, ma finì per passare al lato oscuro anch’esso. Allora a malincuore, il padre dei tre fratelli, lasciò partire anche la figlia più piccola, ma neanche quest’ultima riuscì nell’impresa e i tre si fecero la guerra, ma nessuno di loro sopravvisse e, il genitore, per punirli li trasformò nei materiali che ora portano questi nomi».
Juan, si sporse verso di noi da sopra le sue ginocchia, strette al petto: «Sì, ma queste come si ricollegano alla luce? I colori sono qualcosa di materiale in che senso dovresti raccogliere cinque luci così?»
«Non lo so, forse non sono luci in senso stretto». Ipotizzai.
«Manufatti, dici? Ma che manufatti potrebbero mai essere?» Domandò Juan accigliatosi. Sembrava che i Saint fossero abituati a fare le ore piccole, io, invece, mi dovevo riabituare in fretta.  Alzai le spalle, confusa: «Non lo so, probabilmente hanno a che vedere con i colori del sogno di Paradox, ma ora comincio a sospettare che non siano più luci qualsiasi».
«Bè, luce in italiano deriva da lucem, no?» Chiese la mia amica.

«Sì, ma in greco? In greco si dice phôs, no?»
«Perché hai pensato alle macchine fotografiche?» Domandò Yoshino, incuriosita, invece, dal mio ragionamento.
«Non lo so, ho solo pensato che fotografia in greco è composta da due parole, phôs e graphè, l’ho studiata al liceo quando abbiamo affrontato il cinema». Spiegai con una seconda alzata di spalle. «Quindi, stando al messaggio del sogno, tu dovresti disegnare con la luce?»  Continuò Castalia, perplessa e scettica al tempo stesso. «Così sembrerebbe».
«Ok, sì, ma a che cosa ti dovrebbe servire? In che modo è collegato a te e ai tuoi poteri? E, poi, quali manufatti? Perché dovresti farlo? Quando?»
«Non ne ho idea, davvero, non ne ho idea». Mi rendevo perfettamente conto che non aveva molto senso. Restammo a parlare così un altro po’.  
Solo verso l’alba ci giunse la comunicazione che i Saint non avevano trovato Neera e che potevo tornare alla Prima. Ci salutammo e io scesi le scale in compagnia di Kiki, che era tornato per tempo. Se non fosse stato per lui, probabilmente mi sarei addormentata sulle scale; invece, mi tenne sveglia ancora un po’, chiacchierando di cose a caso. Non ricordo neanche di cosa parlammo.
Solo quando toccai il divano di casa sua crollai come un sasso in un sonno profondo e ristoratore.
Sognai di trovarmi su un palcoscenico e di essere una ballerina di danza del ventre. Nelle mani, mi accorsi di stringere due parallelepipedi. Guardai la platea ma non vidi niente. La luce pioveva dal soffitto proprio sopra la mia testa. E, la musica su cui avrei dovuto danzare era tutta sbagliata, era Harp song di Rupert Gregson-Williams. Eppure, nel sentirla, me ne fregai e cominciai a ballare con una scioltezza e una leggiadria che solo da poco tempo sentivo di nuovo mia. E, mentre ballavo, scoprii che i due parallelepipedi altro non erano che due fan veils blu. E, quando li aprii, sempre danzando, il buio cominciò a risplendere di stelle che si staccavano dai fan veils.
Muovendomi a tempo con la musica, sparsi queste stelle dappertutto. Alcune piovvero su di me come coriandoli andando a depositarsi sul mio vestito, che, da blu scuro qual era, cominciò a tingersi delle sfumature più disparate e così la mia pelle, la mia persona, tutto di me.
E, alla fine, mi vidi come spettatore esterno, con la faccia variopinta, truccata con il cosmo make up che andava tanto di moda quattro anni fa. La me stessa del sogno si fermò e mi sorrise con un luccichio divertito negli occhi, mentre l’organza dei fan veils cadeva dolcemente attorno a lei.   
E, con quest’ultima immagine negli occhi, mi svegliai.
Mi ci volle un po’ per capire dove mi trovassi, ma poi misi a fuoco il soggiorno. Avevo la gola secca, mi sentivo debole, intorpidita e affamata. Avevo le gambe addormentate e insensibili. Dovetti scuoterle per svegliarle, dopodiché mi misi seduta e capii di essere stata accoccolata su un fianco sul divano e, avvolta in una coperta. La guardai. Doveva avermela sistemata Kiki sulle spalle. Questa gentilezza mi emozionò moltissimo; perché non c’ero abituata e, a volte, devo ammettere che Kiki era veramente tenero. Avevo ancora il giglio che mi portò a mo’ di scuse per non essere passato a trovarmi durante la convalescenza. E anche adesso, con questo piccolo gesto. Certo, mi avesse tutelato un po’meno e sarei anche potuta innamorarmi di lui. Però, era anche vero, che non mi sentivo di potermelo permettere, non tanto perché provavo già qualcosa per Odysseus e la cosa mi faceva soffrire (anche se non lo davo a vedere).
Proprio in quel momento Chrysafi fece capolino sulla porta. La salutai e lei sembrò piuttosto stupita di vedermi. Era un po’ cambiata dall’ultima volta, era un po’più magra e sciupata e i capelli erano più lunghi. «Mi dispiace di non aver potuto mantenere la promessa ma…»
«Non c’è bisogno che mi spieghiate niente, nobile Astrid». La guardai come se fosse scesa da Marte. «Sei sicura?» Domandai per sicurezza. Non mi era mai piaciuta granché questa donna, ma non volevo mettermi a litigare con lei.
«Certamente». Perché continuava a guardarmi così? Come se si aspettasse che da un momento all’altro le avessi impartito qualche ordine? Ah, già, giusto. Ora ero una Saint, un’aspirante Saint.
«D’accordo, cosa stavi facendo, qui?» Le chiesi e lei mi rispose che era venuta a riassettare. La congedai, finalmente e andai in cucina dove mi preparai qualcosa da sgranocchiare. 
Una volta abbastanza piena ripulii, mi presi un’arancia e poi andai in bagno dove mi detti una sistemata veloce. Dopodiché, andai a cercare Kiki e lo trovai nella stanza che usava a mo’ di fucina. Stava riparando la Cloth che ieri sera mi aveva difeso. Finalmente libera anche lei dalla presenza di Neera. e, lo salutai. Lui quasi sobbalzò, ma si riebbe subito e si aprì in un gran sorriso. «Oh, ciao Astrid, hai dormito bene?»
«Sì, grazie, quanto tempo…»
«Almeno nove ore, eri stanca morta». Quindi, se la matematica non è un’opinione, erano circa le tre del pomeriggio. Ok. Mi accomodai accanto a lui e gli chiesi come fosse andata la sera prima.
Lui mi raccontò che Neera sembrava essere scomparsa e che lui mi aveva creduto fin da subito per tutta questa storia.  Fui grata del suo sostegno. In tempi come questi ne avevo un assoluto bisogno.
«Invece per quanto riguarda…» Lasciai cadere la frase in sospeso, ma lui comprese ugualmente. Non staccò neanche un momento gli occhi dal suo lavoro, quando rispose: «Scomparso. È come se si fosse volatilizzato».
Proprio come un serpente alla notte, chissà dove si era rintanato. Cambiai immediatamente discorso.  
«Scusa, per ieri sera, per essermene andata così». E gli tesi metà dell’arancia che avevo preventivamente sbucciato. Lui accettò l’offerta sorridendo e mangiò. «Come va con la Cloth?» Domandai guardando l’ex Armatura di Neera. «Va bene, non ha rotture rilevanti. Sei stata molto coraggiosa ieri sera, hai cercato di proteggere le Armature. Se non ci fossi stata tu, probabilmente avrebbe finito per mettere le mani anche su una Gold Cloth».
«Non ho fatto niente di speciale, era quello che mi sentivo di fare» Ed era il motivo per cui Kanon mi aveva assunto. 
Solo in quel momento mi accorsi che aveva entrambi i polsi fasciati e provai un gran moto di tristezza e pena per lui. Il suo lavoro di riparatore di Cloth lo costringeva a svenarsi per salvare la vita di tutti noi. Anche gli altri davano il proprio sangue, ma il primo a cui si richiedeva era proprio il suo. E mi domandavo quanto fosse tremendo doversi svenare così. Se almeno stesse bene e non avesse contratto delle malattie e, se non stava attento, rischiava di tagliare troppo in profondità e salutare i suoi tendini per sempre. Più di ogni altra cosa, il suo pallore mi preoccupò molto, in netto contrasto con il rosso dei capelli lunghissimi. Sembrava sanguinare. 
Si accorse che gli stavo fissando le bende insanguinate e inghiottì l’ultimo spicchio. «Qualcosa non va?»
«No, niente è… che non riesco a vederti così senza soffrire anch’io».
Spalancò gli occhi, mostrando sorpresa. «Soffri per me?» Domandò con voce esile, appena un bisbiglio.
«Sì, per quelle». Spiegai accennando ai suoi polsi, che lui stesso si guardò. Dopodiché tornò a guardarmi e cercò di tranquillizzarmi asserendo che non dovevo preoccuparmi, che c’era abituato e, che era l’unico modo per ripararle. Sarà, ma non lo trovavo giusto. Gli posai una mano sul polso e lui mi guardò stranito. «Cosa vuoi fare?» Chiese incuriosito, sempre con lo stesso tono, ma non oppose resistenza quando cominciai a svolgergli le bende.
«Voglio provare a vedere se posso fare qualcosa».
«Non so se…»
«Per favore…»
«No, davvero». Ma avevo già afferrato i lembi della ferita e stavo già trasferendo la mia energia alla sua pelle. Vidi le mie dita illuminarsi d’oro. Lo stesso fenomeno accadde alla sua ferita. «Dark Resurrection». Mormorai. Poi, reggendogli il polso con l’altra, richiusi la ferita come se abbottonassi una camicia, ringraziando che fosse molto più superficiale del previsto. E, quando la luce si spense, restò una cicatrice rosea e sottile. Ripetei la stessa operazione anche con l’altra e, quando finii, le sue mani erano intrecciate alle mie. I nostri volti erano vicinissimi e i nostri respiri erano affannati, come se avessimo corso, invece che restare seduti. Eravamo confusi e inebetiti entrambi. Non era la prima volta che gli stavo vicino, ma così non era mai accaduto. Guardai le sue labbra, vicinissime alle mie e poi di nuovo le sue iridi che risplendevano di quello sguardo intenso.
Però il modo in cui ci eravamo incontrati tutti, mi ricordò che non era giusto. Non me la sentivo, non adesso che avevo ancora ben in mente tutto ciò. E, questo, era un ostacolo ancora più grande. Una macchia che m’impediva di provare a osare. Non finché non avessi ottenuto la mia giustizia. Kiki comprese, perché il suo sguardo si addolcì e disse, ritraendosi un po’: «Non ti preoccupare, Astrid». Poi sciolse la stretta, per spostarmi una ciocca dietro le orecchie, approfittandone per carezzarmi una guancia.
Ma nei suoi occhi lessi anche il dispiacere per questo qualcosa che non poteva esserci stato. Anche a me dispiaceva. Al di là di Odysseus, anche a me dispiaceva davvero. Non era una questione di sentimenti, ero sempre stata molto chiara e onesta con me stessa. Al liceo avevo avuto una conoscente che fece l’errore di fossilizzarsi su un ragazzo che era nella nostra stessa classe. La vidi struggersi giorno dopo giorno, perché tra le altre cose non era neanche corrisposta. Da allora decisi di non fare il suo errore. Quella non conosceva neanche il significato della parola divertirsi; era molto triste e solitaria. In compenso aveva un’immaginazione fervida come pochi, le mani di un’artista e un talento che io non avrei mai avuto. Mi facevo fare dei disegni bellissimi da lei. Lo facevo più che altro per non farla sentire troppo sola, non solo perché mi piacevano quei disegni. 
Ma finire in quello stato in cui verté per molto tempo, mi faceva orrore. Per questo non avrei avuto problemi a baciare Kiki o qualcun altro, sebbene la persona che amassi fosse Odysseus.
Guardai di nuovo la Cloth di Indus e cercai di tornare al discorso iniziale: «Sì, ma non so ancora che cosa volesse farci Neera con le Armature». Il mio amico sembrò ben felice di scrollarsi di dosso l’imbarazzo con questo cambio d’argomento e ribatté immediatamente: «Non ha detto niente? Di solito la fai uscire talmente tanto dai gangheri che sarebbe capace di urlarti qualsiasi cosa». Commentò. Che anche lui aveva assistito, nel corso di questi mesi alle ostilità tra me e la traditrice. Glielo ripetei e lui si accigliò: «Ma questo non è vero; la forza di un Saint non si misura dal grado e dal rango dell’Armatura e neanche deriva dall’Armatura stessa. Le Cloth ci proteggono e ci sostengono, incanalano le nostre energie e il nostro Cosmo, ma sicuramente non ci potenziano». Un esempio più che lampante erano proprio gli ex Bronze che lo stesso Kiki ammirava tanto. Lo capivo da come guardava i cinque fratelli. «La stessa cosa che mi disse Odysseus». Commentai tra me e me. «Quindi se ho capito bene il suo obiettivo ultimo erano le Gold Cloth, ma di quale?»
«Secondo me voleva quella di Aiolia, è il più forte tra di voi, ed era anche la più vicina alla sua portata, no?»
«Noi», mi corresse, «Però sì, ma non ne sarei più così sicuro».
«Perché?»
«Perché adesso la fratellanza dei Gold Saint è quasi del tutto riunita, se tu riuscissi a purificare Odysseus, potremmo riaverlo tra di noi oppure, se tu ereditassi la sua Armatura, automaticamente sarebbe quella la più potente di tutte». Osservò ragionevole; ma non lo pensavo. «La più potente di tutte non era quella di Atena?»
«Sì, ma è protetta con le unghie e coi denti dal Cosmo della Dea stessa, non riuscirà mai ad avvicinarsi a essa».
«Ma lei è una semidea». Gli feci notare e lui mi guardò sbalordito e allarmato. «Una semidea? Perché non ce l’hai detto subito?» A quel punto lo guardai confusa; mi era molto difficile capire quando mi leggeva nel pensiero e quando no. «Volevo pensarci da me, è compito mio proteggere le Cloth. L’ho già danneggiata ieri sera». Kiki sospirò e si strofinò la faccia con una mano. «Dovevi dirmelo subito invece! Ti rendi conto del pericolo in cui ti sei cacciata? Una semidea, per la miseria, ecco come mai è riuscita a camuffarsi così bene!»
«Kiki?» Si alzò di colpo e si scusò dicendo che doveva salire alla Tredicesima. E mi lasciò lì in compagnia delle Cloth.  
Perfetto, adesso con chi parlavo dei miei sospetti? Speravo che mi avesse aiutato a trovare una soluzione al rompicapo. Mi sa che mi sarei dovuta affidare al bloc notes un’altra volta. Per fortuna che l’avevo incorporato nel mio iPhone.
Mi spostai dall’officina e tornai in salotto, dove m’immersi nella riflessione più totale.
L’indomani sarei partita per Milos, non avevo molto tempo. Per non parlare del fatto che non sapevo dove fosse Neera e dove si stesse nascondendo il mio maestro. Se era vero quanto ipotizzato da Kiki, allora la Gold Cloth perduta era il suo bersaglio. Non credo che sarebbe stata così scema da mettersi contro la Dea stessa. Non ora che ce ne erano due e (si potrebbe dire) si tenevano d’occhio a vicenda. Era una semidea e percepiva il Cosmo assai meglio di me, era quasi impossibile che se lo fosse fatta sfuggire. Come anche che cercasse di attaccarmi, dal momento che sapeva che Yoshino era dalla mia parte. Quindi doveva per forza aver messo gli occhi addosso alla Cloth di Odysseus. Misi giù il telefono e sbuffai frustrata.  
Sicuro, sì, certo. Non faceva una piega, se si considera anche che non fosse neanche custodita, in quanto, il suo custode era tecnicamente morto, materialmente incerto e, la Cloth perduta. Per quel che ne sapevo, Odysseus non mi aveva mai detto dove aveva riposto la sua Cloth. Nei miei ricordi figurava già con quella indosso quando ci attaccarono i Ghost Saint e i Driadi. Invece nei ricordi più recenti datimi dalle Carte, lui non ne aveva avuto bisogno. Mi misi a gambe incrociate prendendomi le caviglie con una mano, spaventata dalle implicazioni di ciò. Era davvero così forte? Se era così non osavo immaginare gli Dèi stessi.
Ma se la Cloth di Odysseus era perduta, dove poteva essere finita? Riciclata come riserva di oricalco e altri materiali sostitutivi per Gold Cloth? Lo escludevo a priori, altrimenti Neera avrebbe ribaltato la Prima Casa con o senza la mia presenza. Anche se aveva detto chiaro e tondo che io non le interessavo.  
Reclinai il capo all’indietro sullo schienale e chiusi gli occhi. Improvvisamente, la voce del maestro mi contattò di nuovo. 
“Trovami”. Ebbi un flash di lui sotto il sole, che si girava verso di me, sorridendomi. Il colore biancastro delle montagne sullo sfondo. Conoscevo quella parete rocciosa ma non mi venne in mente dove potessi averla vista. “Perché?” Pensai, guardinga. Perché avrei dovuto dargli ascolto, adesso che avevo la conferma di ciò che sospettai all’inizio? Anche se ricongiungermi a lui era ciò che desideravo di più, ero perfettamente consapevole del pericolo che correvo se l’avessi fatto.  
Lo sentii sospirare, rassegnato: “Vorrei dirti che se verrai ti darò le risposte che cerchi, ma temo che sarebbe una bugia bella e buona” e la maschera di onestà che ostentava adesso no? Che poi era la stessa che poi ostentavo anch’io in certe situazioni, ma questo lo tenni per me. “La verità è che se vuoi evitare che la Dea corra un pericolo ancora maggiore, devi trovarmi”.
“Perché dovrei trovare te? Non sei un traditore?”
Lui non rispose subito. “Sì, ma sappiamo entrambi che se la Cloth finisce nelle mani sbagliate sarà anche peggio che affrontare me”.
“Tu sai a che reggimento, schiera, quello che è, appartiene Neera?”
“No, non riesco a riconoscere il suo tipo di Cosmo, mi dispiace.” Si scusò e, in quel momento, seppi che era sincero. “E, tu pensi che io rischierei la mia vita un’altra volta così?” Gli domandai, stringendomi nelle spalle, affondando le dita nella mia stessa carne e mordendomi il labbro, intimorita da me stessa e da lui. “Sì”.
“Perché?”
“Perché sei una brava persona e non lasceresti mai che i tuoi amici corrano dei pericoli”. Rispose, ma non riuscii a capire se si trattasse di un complimento o una minaccia. Per quel che ne sapevo potevano essere entrambe, sebbene avesse scandito quelle parole con fierezza. Se da un lato mi lusingò, dall’altra mi fece maledire il mio cuore tenero. “Se qualcosa della mia allieva è rimasto, allora ti prego di rispondere alla mia richiesta di aiuto”. Aggiunse poi, dopo un sospiro, in tono rassegnato. “Se non vorrai farlo, io lo capirò; nonostante l’alta posta in gioco”. 
Evidentemente Odysseus era rimasto un po’indietro, dal momento che anch’io avevo dei piani per il Santuario. Piani più terreni, certo, ma ce li avevo anch’io. Disgraziatamente, stavano raggiungendo il fondo della lista delle mie priorità. Masticai qualche imprecazione ai danni del sistema politico italiano. “D’accordo, come ti trovo?”
Ma a questa domanda non rispose. Aveva chiuso le comunicazioni. A questo punto le imprecazioni le urlai a gran voce e le mura di questo posto mi rimandarono la mia eco. Ringhiai come una fiera per la frustrazione. Accidenti a lui e ai suoi ricatti. 
Poi mi alzai e uscii nel giardino della Prima, che somigliava di nuovo alla visione che avevo di Shangri-La; come prima dell’attacco della Dea della Discordia.
Mi posi le mani sui fianchi e sbuffai. Dopodiché feci un bel respiro profondo, chiusi gli occhi e chiamai a me i serpenti. I quali accorsero immediatamente al mio richiamo. Uno di loro, sollevò la testa squamata e mi domandò cosa volessi, quando mi riconobbe come la giovane che tempo prima li calmò e li rimandò alle loro tane. «Il vostro aiuto, devo trovare la Cloth di Odysseus di Ophiuchus, voi siete i suoi custodi e i suoi messaggeri, vi prego di indicarmi la sua ubicazione».
«Anche se conosci la lingua dei serpenti e sentiamo in te lo stesso sangue della persona più sacra del Santuario, non vedo perché dovremmo aiutarti. Il nostro compito è proteggere quella Cloth, non ci è mai stato ordinato di condurre un Saint alla sua ubicazione, anche se fosse il suo successore».
«Non intendo indossarla», puntualizzai e gli spiegai la situazione. Il serpente mi ascoltò attentamente, dopodiché mi lasciò un indovinello: «Solo chi ha il sangue di Odysseus ne sente il richiamo, ascoltalo e lo troverai». Poi se ne andò e gli altri serpenti lo seguirono, prima che avessi il tempo di richiamarli e fermarli. «Aspettate…» Ma era troppo tardi, erano già spariti.
E, adesso? Adesso avevo altre domande e ancora meno risposte. Stava davvero cercando la Cloth del mio maestro o era solo un ennesimo trucco? E poi, dove aveva messo la Cloth della Carena? Perché quella era uno dei Pilastri delle Cloth assieme alla Chioma di Berenice, la Lince e il Triangolo. Neera era quasi impossibile da capire, per me, faceva le cose a caso e senza nesso logico, altrimenti si sarebbe conquistata una seconda cloth d’argento invece che una di bronzo. A meno che non conoscesse effettivamente la gerarchia tra Silver e Bronze e, di conseguenza, non sapesse riconoscerli. Ecco, questo aveva un senso. Ma va a capire le Divinità e la loro progenie semidivina, ti pare che quelle avevano lo stesso modo di ragionare degli esseri umani? Certo che no, sarebbe stato impossibile. L’unica scelta che avevo era l’indovinello lasciatomi dal serpente.

Non sapevo più dove sbattere la testa. Mi ero scervellata tutto il tempo e non era servito a niente, se non a farmi venire l’emicrania. Verso l’ora di cena mi recai alla Seconda. Kiki non era ancora tornato, il Grande Mur e il Venerabile Shion si erano volatilizzati e io non me la sentivo di passare da sola questa sera. Anche se proprio sola non ero, se si contavano le corazze.
Sarei voluta scendere in infermeria a trovare Lythos, che, avevo saputo, era stata ricoverata a causa delle ferite che aveva riportato. Mi sentii due volte in colpa per Aiolia, che adesso stava rientrando alle Dodici Case. Non bastava Galan, adesso ci mancava anche Lythos. Anche se era in debito con me, non ero riuscita a proteggere come si deve la sua famiglia. E, questo, lo sentivo che gli bruciava moltissimo.
Bussai agli appartamenti privati di Aldebaran e Shaina. E ad aprirmi fu Yoshino. La quale spalancò gli occhi purpurei per la sorpresa di trovarmi qui. «Astrid».
«Ciao». La mia amica mi abbracciò e mi si mozzò il fiato. Sebbene fosse molto più bassa di me, questa reazione non me l’aspettavo proprio. «Meno male che stai bene, ero così in pensiero».
Ricambiai la stretta: «Sì, sto bene, ero solo esausta». Lei si discostò da me e domandò: «Come mai sei qui?»
«Sono… Non volevo restare sola, stanotte, domani come sai parto e la Prima è deserta. Oh, state per mettervi a mangiare. Scusami per il disturbo, me ne torno alla Prima». Dissi, captando l’odore di cibo ai fornelli.
«Ma no, Astrid, non…»
«Yoshino?» La chiamò Shaina comparendo nel vestibolo, solo dopo si accorse di me e mi salutò. E, fu allora che mi venne in mente: «Shaina, posso parlarti da sola, per favore? É importante».
A questa formula non poté esimersi dall’ascoltarmi: «Ma certo, Yoshino, vai ad aiutare tuo padre».
«D’accordo». Acconsentì preoccupata e ci lasciò sole. La seguimmo con lo sguardo finché non scomparve alla vista. Poi lei tornò a guardarmi. Si era tolta la maschera per parlarmi apposta. «Cosa volevi dirmi?» Le spiegai quello che avevo compreso dal mio colloquio con Odysseus e i serpenti. Mi guardò spaventata a morte. «Astrid, ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo?»
«Sì e, credimi, se lo sapessi, non te lo chiederei». Ribattei. In quanto suo successore, era quanto più vicino ci potesse essere al suo sangue. Ma lei era restia a parlarne e, io cominciavo a nutrire dei dubbi sulla mia congettura. Forse non era una linea di sangue intesa come una successione di Armature. Capii che non avrei cavato un ragno dal buco, perciò, la ringraziai e, dopo averle promesso che non mi sarei cacciata nei guai, andai. Non prima di averle detto di salutarmi Yoshino e che non mi sarei fermata a cena. Avrei mangiato qualcosa alla Prima, tanto la  dispensa era piena. Ma lei mi richiamò e mi disse che ci teneva a ringraziarmi. «Per cosa?» Domandai spiazzata; non riuscivo proprio a capire di che cosa stesse parlando.
«Per averci aiutati, con Odysseus e Lancelot».
«Di nulla».
«Lo sapevi già?» Chiese, incuriosita dalla mia reazione tiepida, manifestando una nota di sospetto nella voce. Alzai le spalle, «Di Lancelot? Avevo già dei sospetti, non mi è mai stato particolarmente simpatico. Buonasera, Shaina».
Quella notte sognai di trovarmi nel labirinto di Cnosso. Sentivo alle mie spalle dei muggiti furiosi. Avevo paura, avevo paura di trovarmi di fronte al Minotauro. Lo avevo già evitato altre volte, ma sentivo che era vicino. Sentivo il pavimento rimbombare a ogni suo passo. Il cuore sembrava scoppiarmi in petto. Poi, tra le mie mani, comparve un filo d’oro. Un lunghissimo filo dorato che percorreva tutto il labirinto. Mi alzai e lo seguii, arrotolandolo man mano come un gomitolo prezioso, tra le mie mani. «Trovami, tu sai dove sono, Astrid». Ripeté la voce di Odysseus. Improvvisamente lo vidi davanti a me, in mezzo a tutti i fili che partivano da lui e si abbarbicavano per ogni dove, stavano cominciando a gocciolare, come se fossero stati tinti da poco o come se… Guardai le mie mani e scoprii i miei polsi squarciati e insanguinati grondare sangue d’oro.
Balzai a sedere di scatto ansimando per la paura e mi guardai i polsi, ancora intatti. Era stato un sogno. Proprio allora sentii dei passi nel corridoio e la voce di Milo chiamarmi: «Astrid? Ci sei? È ora, dobbiamo andare!»
Sussultai. Piattola!

Accidenti, avevo dormito troppo. Mi alzai e mi recai alla finestra che aprii mentre lui si avvicinava al soggiorno, continuando a chiamarmi. Scavalcai il davanzale e atterrai sul sentiero dei servi. Mi guardai indietro per controllare che non mi avesse visto. Poi corsi via. Risalendo il sentiero dei servi. Avevo capito dove dovevo andare.
«Trovami, tu sai dove sono». Aveva detto Odysseus. Come potevo essere stata così idiota?

A livello inconscio mi ricordavo che in questo posto si trovava la tomba del mio maestro. Quelle volte che ero stata al cimitero l’avevo cercata ma ero stata un’imbecille. La sua vera sepoltura non era lì, era nello spiazzo tra l’Ottava e la Nona. «Trovami, tu sai dove sono». Aveva detto e io non potevo perdere più tempo.

Milo ormai doveva aver capito che me l’ero data a gambe dalla finestra, dovevo agire ancora più in fretta.
Non potevo perdere quest’appuntamento. Odysseus mi aspettava alla sua Casa ma sentivo che non era il caso che andassi. Sentivo che qualcuno si stava aggirando nel luogo dove un tempo sorgeva il Tempio di Ophiuchus. Il Cosmo di una persona che in quel momento doveva essere scomparsa.
Mollai immediatamente lo zaino a terra e risalii le scalinate di corsa.  
Avevo ragione allora. E anche Neera lo aveva capito. Sicuramente anche lei si era recata lì! E, infatti, quando arrivai (dopo essermi nascosta un paio di volte dalla Piattola e le guardie sfruttando gli anfratti di questo posto), la vidi mentre rovistava tra le rovine del Tempio con l’aiuto di una pala. Nessuno se ne era accorto a causa della tecnica di Lancelot, la mefitica acqua del lago che scorreva tutto attorno apriva una breccia nel piano astrale. Ma io non ero nuova a tutto ciò. Perciò riuscii a entrare.
«Ehi, tu!» Urlai adirata. Lei sussultò e si volse di scatto verso di me e fece per scappare ma le bloccai la strada e lei fu costretta a saltare indietro e sbottare, esasperata: «Non è possibile! Ancora tu!»
«Cosa vuoi fare alla tomba del mio maestro?»
«Il tuo maestro? Ah, non farmi ridere! Una poveraccia come te non può avere maestri!»  Mi schernì, nonostante avesse già avuto una prova più che concreta della mia effettiva forza e della veridicità delle mie parole.  Per tutta risposta il mio Cosmo cominciò a ribollire increspando l’aria attorno a me. Come osava? «Vattene via da lì! Ti avverto Neera, non mi contraddire!» Minacciai di nuovo stringendo i pugni.
«Altrimenti che mi fai? Mi leggi la mano? Distruggerai un’altra Casa? Sai che paura. Dici di avere tanto potere ma non lo usi neanche, sei patetica, secondo me non è vero niente». Mi provocò, forse dimentica di quello che ero davvero in grado di fare. Forse era il caso che glielo ricordassi. Mi connettei immediatamente al Cosmo e materializzai un falcione di Cosmo dorato. L’ira dentro di me andò intensificandosi e bruciare più violentemente come una fiamma che s’innalza verso il cielo e si trasforma in un incendio. La Silver Saint traditrice sussultò.
«Te lo ripeto ancora una volta, oca giuliva, togliti da lì!»
Si raddrizzò immediatamente sull’attenti. Funzionava ancora, allora! «Oca giuliva a chi?» Ribatté piccata girando il volto mascherato verso di me. Per fortuna che bastava ancora fare leva sul suo orgoglio per catturarla. Il problema era che non sapevo che razza di bestia avessi catturato e, in questo momento, tutto mi sembrava fuorché un innocuo topolino.
Repressi la paura e ordinai, tendendo l’indice verso di lei: «Scendi immediatamente o ti distruggo!»
«Tu che vuoi distruggere me? Va bene, ragazzina, vediamo se ci riesci».
Le mie mani si illuminarono e le alzai per mettermi in posizione come mi aveva insegnato il maestro. Il bastone puntato verso di lei. Anche se era buio e, per me percepire il Cosmo era ancora complicato, potevo avvalermi della mia visuale sulle sua costellazione. La Carena. Totalmente diversa da quella che aveva appena conquistato.

Proprio come il Bronze Saint della Mensa aveva sospettato.
Lanciò un grido di battaglia e mi si avventò addosso. Non la vidi neanche arrivare che fui già piegata da due poderosi colpi nell’addome e da tre di taglio sul collo che mi fecero cadere bocconi al suolo. «Cosa, vorresti, farmi, tu?» Mi domandò, sottolineando ogni parola con un colpo. «Stupida - ragazzina - insolente. Ti - faccio - passare - io - la - voglia - di - spiarmi!» Ciò detto mi lanciò il suo attacco e fui scagliata di schiena contro una roccia che una volta facevano parte del frontone del Tempio Maledetto. Mi ritrovai senza fiato e con la schiena dolorante ad accasciarmi al suolo. Mentre la spina dorsale mi faceva un male cane, mi arrivò un  calcio nell’addome che mi piegò in due e mi fece gemere di dolore.
«Chi ti credi di essere, eh? Sei solo una miserabile ancella, tu. Ecco la verità! Non è vero niente che sei l’apprendista del Cavaliere d’Oro di Ophiuchus. Non puoi competere con una Marine».
Strabuzzai gli occhi ma non ebbi il tempo di fare altro che mi tempestò ancora e ancora. Quasi persi i sensi a causa del dolore e delle botte ma mi impuntai con tutte le mie forze per non svenire. Poi smise e si allontanò schioccando la lingua contro il palato: «Patetico».
Se credeva che questo sarebbe bastato a fermarmi si sbagliava. Mi sforzai di rialzarmi e ricorsi all’Anesthesia per cancellare il dolore e alla Dark Resurrection per rigenerarmi, snebbiandomi anche il cervello.
Una Marine, ecco a cosa corrispondeva la luce azzurra, alle Scale dei Marine di Poseidone. Lo sapevo che non dovevamo fidarci di lei.
Saltò di masso in rovina per tornare all’opera. «No», mormorai stringendomi la carne sopra lo stomaco. Gli occhi pieni di lacrime e qualcosa di caldo e denso che mi colava tra i capelli. La tomba del mio maestro… No. Non la doveva toccare. Non poteva profanarla. Non poteva. Nessuno doveva toccarla. Il solo pensiero di quella lì che rovistava nella terra sacra e cercava le spoglie fisiche del mio maestro mi mandò in bestia. La furia annichilì i resti del dolore, come una bomba distrugge una città. Il mio Cosmo esplose attorno a me. «Non lo toccare!» Ringhiai. Poi, più forte. «Non lo devi toccare!» E, spostando le braccia, posai i palmi a terra e, a scatti, riuscii a raddrizzarmi e tornare in piedi. Feci forza sulle gambe per non perdere l’equilibrio e mi girai di nuovo verso di lei. Che, nel frattempo, si era fermata e mi stava guardando da dietro l’inespressiva maschera d’argento che indossava. Grazie ai bracieri accesi sulle colonne riuscii a vedere la mia ombra proiettata sulla parete rocciosa dietro di lei.

Strinsi i pugni e le mani si illuminarono. «Mi hai sentito? Giù le mani dalla tomba del mio maestro!» Urlai e mossi il braccio come a darle una ciaffata con le dita contratte. Come se avessi gli artigli di luce, tracciai un percorso fino a lei.
Neera saltò via e il colpo s’infranse su parte del frontone e della parete rocciosa, lasciando profondi segni orizzontali. Qualche sasso e della polvere franò dai segni lasciati dal mio colpo.
Lei atterrò su un’altra roccia, il petto che si alzava e si abbassava velocemente. Poi si lanciò all’attacco e io, sempre muovendo le dita, la catturai. Lei si ritrovò in balia della luce che usciva dalle mie dita come fili o corde di arpa e a essere spiaccicata contro la roccia un’altra volta.
Il cuore mi batteva fortissimo ed ero sporca e il corpo stava già cominciando a versare gocce di sudore che si andarono a mescolare al sangue.
Lei si girò verso di me, spiaccicandosi contro la parete rocciosa. «Com’è possibile? Credevo di averti ucciso, da dove hai tratto tutta questa forza?»
«Non m’importa niente di dove l’ho tirata fuori! Vattene immediatamente, se vuoi ancora vivere! Io non sono Shun di Virgo e non ho remore a ucciderti, hai capito?» Urlai raddrizzandomi ringraziando i frammenti della gonna lunga che nascondevano almeno in parte le mie gambe tremanti. I pugni ancora luccicanti contratti e il mio Cosmo che illuminava come una fiamma la zona circostante. 
«No, io non me ne vado! Non prima di aver trovato il tesoro!»
«Di che tesoro stai parlando? Cosa ti fa pensare che sia sepolto qui?» Le urlai.
«Il Cavaliere d’Oro d’Ophiuchus era il Saint più potente di tutti, persino più dei Cavalieri della Vergine e dei Gemelli messi insieme. E’ovvio che sia nascosto qui, in un luogo maledetto. Anch’io, se fossi un pirata, ce lo nasconderei». Spiegò alzandosi in piedi, tenendosi la spalla ferita. La maschera scheggiata in più punti.
«Balle! Vattene via! Non te lo ripeterò una seconda volta!» Esclamai.
«Io non me ne vado, semmai vattene tu, non ho tempo per giocare con una contaballe come te. Tu hai messo piede al Santuario solo un anno fa! Prima non sapevi neanche che esistesse! E, ora, pretendi addirittura, che il defunto Gold Saint d’Ophiuchus fosse il tuo maestro? Ah». Scoppiò in una sonora risata. Poi disse: «Non male i colpi di prima, ma non sono niente, sono solo le carezze di una bambina che gioca. Guarda qui, questo è un vero colpo!» Urlò il nome del suo attacco e me lo lanciò.
Fui colpita in più punti senza neanche vederli arrivare. E, presto, mi ritrovai bocconi e coperta di sangue. «Spero che ti sia servita da lezione». Lei si volse di nuovo e fece per andarsene ma io, grazie all’adrenalina e all’Anesthesia, fui più veloce e le afferrai α Carinae, la stella più importante della sua costellazione.

Lei si fermò sussultando come se le avessi infilato una mano in una ferita aperta. 
«Ti ho detto di lasciar stare il mio maestro!» Ripetei, con la bocca piena di sangue e, forse, qualche dente rotto che la Dark Resurrection aggiustò all’istante.
«Lasciami subito andare!»
«No!»
«Ti ho detto di lasciarmi!» Poi, espanse il suo Cosmo ma anche questo non bastò. Era vero che avevo il potere di rigenerare le stelle, come quella che avevo in mano, ma qui rigenerarle non bastava, anzi, non serviva proprio. Eppure, proprio questo mi dette un’idea. “Se le posso rigenerare, allora le posso anche cancellare”. La luce che permeava le mie dita cambiò, passando da argentata a un colore lattiginoso e smorto.

«Cosa fai?» Domandò lei, spaventata da quella nuova luminosità.

Non risposi e, continuando a guardala dritto negli occhi della maschera, strinsi la stella nella mia mano e quella venne dissolta, mentre l’energia mi entrò nelle vene. Tutte le altre furono attirate dalla mia mano e ne risucchiai l’energia.

Lei si fermò immediatamente, gli occhi sgranati e il fiato improvvisamente mozzato e corto. Non le lasciai scampo.
Con le sue ultime forze mi lanciò il suo attacco: «Sperone della Carena!» Rivelandosi per ciò che era davvero. Non feci in tempo a spostarmi. L’ultima cosa che vidi fu il muro di luce che si abbatté su di me, cancellando ogni cosa.


Aiolia

La notizia della morte di Astrid aveva gettato il Santuario nello sconforto più totale.
La sensazione che si respirava nell’atmosfera era di annichilimento più totale.  
Il cimitero del Santuario era più spoglio di altri periodi. La prima volta che ci avevi messo piede era a quattro anni, poco tempo prima che tuo fratello partisse per la missione in Egitto, dove incontrasti l’archeologa Miko Hasegawa. A volte tuo fratello si distraeva e tu ne approfittavi per sgattaiolare via. Allora non avevi idea di che cosa ci fosse nel Santuario, a parte le rocce dove ti allenava, la Casa del Sagittario e le altre Dodici Case, tu non conoscevi granché. Anche le interazioni coi tuoi compagni, prima dei cinque anni, non ce le avevi avute, eccezion fatta per Saga.
Ricordavi persino che era una giornata di maggio più bella di questa, ma quando si è bambini, un po’tutte le giornate ti sembrano belle, anche se la tua infanzia era durata pochissimo. Quel giorno avevi scoperto quel bellissimo prato fiorito.
Non immaginavi che quel posto, in realtà fosse il cimitero. E l’avevi scoperto, solo quando avevi trovato la prima lapide. Ma non ti eri spaventato, non subito, la paura era venuta dopo, quando tuo fratello era venuto a cercarti tutto spaventato. E, quando avevi realizzato, eri scoppiato a piangere a dirotto.
Astrid non avrebbe mai avuto una lapide qui. Il suo nome non sarebbe mai spiccato assieme ai vostri e a quelli dei vostri predecessori in questa terra brulla. Che era dai tempi della dominazione di Mars che non era più rifiorita. Non potevate neanche farle il funerale, nessuno avrebbe pianto la scomparsa di un Cavaliere senza costellazione. Ma anche qui il destino era beffardo, perché ti avevano detto che lei era nata il trenta novembre, proprio come Aiolos. Ma lei con Aiolos a parte la data di nascita non aveva in comune niente. Avresti almeno potuto trattarla più cortesemente di così e, invece, fin da subito, eri stato sgarbato con lei. Perché non ti eri fidato, invece, avresti dovuto. Per quanto stronza potesse essere (per prendere in prestito un termine a Death Mask) era pur sempre una donna. Meritava il rispetto che le dovevi in quanto tale. Lei, in fondo, aveva chiesto solo questo. Ti aveva sorpreso non poco quando ti si era rivoltata come una biscia, la notte dell’assedio di Eris. Anche la sua combattività, la sua tenacia e la sua intelligenza ti avevano sorpreso. Quasi l’ammiravi, anche se, non capivi lo stesso le sue mosse e le sue scelte. L’avevi riportata con te soltanto per la ClothStone, non ti saresti aspettato che a seguito di ciò avesse deciso di restare in pianta stabile con i risultati che tutti conoscevate.
Tu eri sempre stato il primo a darle contro, ma a chi urlavi davvero? Chi era che fulminavi veramente con lo sguardo? Avevi visto in lei una traditrice dove il tradimento neanche c’era, avevi insinuato un’affiliazione con gli Specter che neanche esisteva. Un vero traditore non ti avrebbe mai salvato dalle Creature, né durante quella notte di gennaio, né quella al cimitero monumentale. Non si sarebbe sacrificato a questo modo per salvare tua sorella (anche se avresti potuto salvarla anche da solo); né avrebbe impedito a Neera di impossessarsi della Cloth di Odysseus.
Finalmente c’eri arrivato anche tu.  
Che da quando si era dimostrata capace di manovrare le Cloth, avevi cercato di proteggere i tuoi cari da lei, soprattutto Seiya, che vedevi alla stregua di un fratellino minore. Anche se lui non si era mai avvicinato più del dovuto, se non dal ritorno della sua ultima missione.  
Ti aveva raccontato che cosa fosse successo, quello che non sapevate era che aveva giurato a sé stesso di tenere d’occhio quella sfortunata ragazza, dalla morte della madre. Ma ora… non s’era mai sentito neanche lui così disperato. Neppure quando la Divina Atena si uccise per poter entrare nel Regno dei Morti. «Sono un eroe, ma a cosa mi serve se non posso salvare tutti?» Domandò più a sé stesso che a te, quando gli avevi parlato. Vedersi morire davanti una donna era stato scioccante per lui.  Eppure non era la prima volta che una donna cercava di difenderlo. Shaina recava ancora la cicatrice del tuo colpo sulle scapole e quella della freccia d’oro di Sagitter. Cosa aveva avuto di diverso la madre di Astrid da annientare a questo modo tutta la sua giovialità? Ma, questo non glielo avevi chiesto. 
Ti eri limitato a restargli vicino.
Ma passare dall’Ottava e la Nona adesso ti creava ancora più problemi. Ti sforzasti di focalizzarti sul problema principale. Perché ora dovevate cercare Neera.  

  
Saga
Ti girasti nel tuo letto, nella Terza Casa.
Ancora non ci credevi che Astrid fosse morta a quel modo. Non dopo quello che avevate scoperto. Avevate perso l’unica persona capace di usare le tecniche perdute del Santo d’Oro di Ophiuchus e una possibile consorella. Nonché colei che avrebbe potuto liberarti definitivamente del tuo demone. No, non demone, malattia.
La prima donna Gold Saint di una rosa che contava solo uomini da generazioni. Non perché ci fosse una regola specifica, ma più per consuetudine. Vero che i precedenti Gran Sacerdoti non nutrivano fiducia nelle capacità delle donne, ma solo perché c’erano le Saintia e, perché, le Silver e le Bronze Saint, non si erano mai dimostrate capaci di raggiungere il Settimo Senso.    
Dovevi solo sentirti lieto del fatto che avesse vissuto tra voi, anche se, per un tempo limitato. E lo eri, tu l’avevi conosciuta e, ti stava simpatica. Che motivi avevi perché non dovesse essere così? Nessuno. Le cose erano cambiate da quando Kanon ti assegnò il compito di farle da guardia del corpo.
A dispetto dell’incazzatura più che giustificata di quello che si poté considerare il vostro vero incontro, lei aveva cercato di aiutarti davvero. E, questo nessuno l’aveva fatto. Appena appena la Dea, ma oltre lei nessun altro, neanche il tuo gemello.  
Cosa potevi fare per renderle l’onore che meritava e per non vanificare il suo sacrificio? Lei si era messa più volte in pericolo per difendervi. Come un vero Saint. E, tu? Cosa avevi fatto davvero?
Sì, a parte durante la Titanomachia, negli Inferi e ad Asgard, e in Giappone, cosa aveva avevi fatto davvero?
Ben poco, in realtà. Oh, se solo tu non avessi avuto anche questo stra maledetto alter ego.
Ti recasti al cimitero alla tomba di Aiolos e, lì, trovasti una persona, che proprio non ti saresti aspettato di vedere: l’ex Pontefice. Il quale, ti salutò tranquillamente, tu ricambiasti, impacciato.
E, lui, con uno strano sorriso forzato in volto, ti parlò del tempo, tanto per fare conversazione e sentirsi meno a disagio. Ma era inutile continuare a girarci intorno, perciò, a un certo punto gli domandasti: «C’è una cosa che volevo sapere».
«Dimmi pure, Saga». Disse il Venerabile Shion, con calma e serietà. Anche se non poteva vederti e, anche se sembrava tranquillo, sapevi che era pronto a difendersi, stavolta. Il Venerabile apparteneva a quella categoria di persone difficili da gabbare più di due volte. L’unico altro che ci riuscì fu l’incarnazione precedente di Rune di Barlog. Non avresti saputo dire se la Notte degli Inganni cadde proprio per mano tua o se fu volere del Destino. Probabilmente anche questa domanda non avrebbe mai trovato risposta.
Ma forse, la domanda che gli avresti posto adesso, sì. «Era solo per via di Arles che non mi sceglieste come vostro successore?»
L’uomo non rispose, se possibile, divenne persino più immobile.
«Scusate, non avrei dovuto rinvangare il passato, scusatemi davvero, vi ho tediato anche troppo, sarà meglio che vada…» Avevi appena fatto due passi che la voce dell’ex Pontefice ti fermò: «Non è stato solo quello, Saga». Ti fermasti. L’ex Gran Sacerdote continuò: «Tu saresti stato un ottimo reggente, se non fosse che dimentichi sempre un piccolo particolare».
«Quale?»
«Il compito principale del Gran Sacerdote, non è comandare le truppe, è aiutare l’incarnazione di Atena a crescere, come un padre fa con il proprio figlio. Il Gran Sacerdote è colui che La deve proteggere più di ogni altro. E’ l’unico uomo a cui è concesso essere vicino al suo cuore, spronarla quando il coraggio le viene meno e infonderle speranza quando di speranza non c’è. Io l’ho capito vedendo lo sguardo che il vecchio Sage rivolgeva a Sasha. Adesso capisci perché scelsi Aiolos?»
Perché tu non sorridevi più da un pezzo. Solo circondato dai cittadini di Rodorio, infilato nella tua Armatura d’Oro sorridevi. Ma era un sorriso che non contagiava gli occhi, triste. Sebbene tu fossi molto amato dal popolo e stimato dagli altri Saint, tu eri felice quando eri circondato dalle persone. E ti domandavi perché Kanon fosse impazzito, se le cose fossero andate diversamente anche lui avrebbe potuto ricevere quell’amore.
Un sorriso divertito ti curvò la bocca: ma che diavolo andavi a pensare? A Kanon del popolo non era mai importato un fico secco. Anche ora le cose non erano diverse, eri tu quello che smaniavi per avere l’amore delle persone. Lui no.    
Ma avevi lasciato che l’orgoglio prendesse il sopravvento e ti eri convinto di essere un Dio in carne e ossa. E il tuo sbaglio era stato proprio qui. Carne e ossa. Eppure, nei tuoi ricordi, nessuno dei cittadini di Rodorio ti aveva mai chiamato così. Invocavano per te le benedizioni, quasi che presentissero la fine che avresti fatto.
Ma non per augurartelo, ma per salvarti. Quasi che, inconsciamente, fossero sicuri che loro non avrebbero mai potuto preservarti da questo tormento.   
Arles incarnava davvero tutto ciò che tu, nella tua immensa bontà, avevi messo da parte in nome della tua Armatura d’Oro e del Grande Tempio. La delusione e la rabbia, soprattutto la rabbia, che portò Arles a prendere pieno possesso di te, quella fatidica notte.
Oh, se niente sarebbe successo, probabilmente non avresti stretto la mano al demonio e Arles aveva preso il tuo corpo.
«Tu eri più bravo a dirigere i Saint che a ricordare alla Dea di essere paziente con gli uomini, di essere sensibile e di buon cuore. Perché quello che tutti i Saint vogliono, è stare con Lei. E’ questo il compito principale del Gran Sacerdote».
A quel punto sentisti le lacrime rigarti il volto. «Mi dispiace, Sommo Shion». Mormorasti. Era stato tutto un equivoco. Ma aveva ragione. Nel tuo animo, per quanto nobile e nella tua testa, non c’era spazio per la dolcezza.
Ormai eri un essere mosso solo dai sensi di colpa e dalla solitudine. Oh, se sentivi il bisogno di essere amato, di poter di nuovo guardare in faccia le persone e vedere che sorridevano per te. Non per cortesia o perché avevano paura di te, memori delle azioni di Arles.
Atena ti aveva già perdonato permettendoti di far evolvere il Gold Cloth, ma ti sentivi ancora un reietto. Perché tu rinnegavi te stesso per ogni cosa.
“Andiamo, Saga!”
“Aiolos, dopo tutto quello che è successo vuoi ancora che combattiamo insieme?”
Lui ti aveva sorriso e aveva confermato, determinato: “Sì”. 
“Sarebbe un onore combattere con te”. Ma questo non eri sicuro se fosse uscita dalla tua bocca o dalla sua. 
Di solito a quel punto i pensieri indugiavano su Aiolos, ma oggi presero una direzione completamente diversa. Per la prima volta abbracciarono anche i tuoi compagni. Come avevi fatto a non capire che loro non ti avevano mai abbandonato, seppure a modo loro? In quel momento ti tornarono in mente le parole di Astrid. “Hai capito i Gold? Dovresti essere felice di avere dei compagni come loro”. Quella mattina eri troppo rintronato dalle botte e troppo stupito per accorgerti che, dietro a quelle parole, Astrid intendeva dire: «Visto quanta gente vuole aiutarti?»   
Lei stessa, facendo così, ti stava già aiutando. Un’altra persona che stava spezzando la maledizione di Crono. Adesso vedevi il continuo del sogno che avevi fatto. I tuoi confratelli più Astrid, tendevano tutti una mano verso di te, chiamandoti. Ora tu dovevi afferrare quelle mani e rispondere al loro richiamo.
Ma la verità era che tu eri il Gold Saint che se la cavava sempre da solo, che «non necessitava l’aiuto di nessuno, benché meno da una donna.» come disse Death Mask quando fosti richiamato alla vita da Eris, decadi or sono. Ma ora i tempi erano cambiati, forse era il caso di adeguarsi. Sì, forse, ma prima c’era una cosa ancora più importante da fare.
«Sommo Shion, c’è una cosa che vorrei che faceste, se non vi è di troppo disturbo».
«Quale, figliolo?»
Ti inginocchiasti a lui, come quando eravate ancora nella Sala delle Udienze alla Tredicesima. «Vorrei sottostare al rito di purificazione, vi prego». Come in passato lo stesso Apollo fece più volte, per levarsi l’onta dei propri peccati. Era un rito antico, ma ne sentivi la necessità, per cominciare a tornare almeno un po’ più sereno.
La tua scelta l’avevi già fatta e, ti dispiaceva per Astrid, ma il Santuario era più importante.
E sperasti ardentemente che l’ex Pontefice acconsentisse.
Di abluzioni sacre ne avevi fatte tante quando reggevi (“Usurpavi” ti correggesti) il Santuario. Erano riti di purificazione veri e propri, ma per te avevano perduto di valore da tanto tempo a causa della Bestia che albergava in te e che Astrid e le medicine avevano relegato da una parte. Le mani che avevi usato per sollevare l’acqua che poi ti versavi sul capo erano sporche di sangue. Se in quei momenti chiudevi gli occhi, era più per non vedere il sangue sulle tue mani che per l’acqua che poteva finirti negli occhi.
Invece, se qualche soldato voleva farsi purificare da te, tu glielo concedevi, sia come Gran Sacerdote, ma, soprattutto, come Cavaliere dei Gemelli. Ogni Gold Saint poteva purificare qualcuno. Ma quello che più cercavi era il perdono del Venerabile. Dopotutto, era lui che, assieme ad Aiolos aveva pagato lo scotto della tua debolezza.
Esistevano numerosi riti purificatori che erano sopravvissuti nel corso della Storia. Quello che avrebbe officiato il Venerabile Shion alla vista della Divina era quello espiatorio. Quello cui ti saresti sottoposto, serviva a mondare il tuo spirito. Benché fossi di nuovo nella luce, volevi sentitici appieno, esattamente come prima.
Il Venerabile Shion ti si accostò e posò le mani sulle tue spalle. Mani fredde, dure, metalliche e artificiali. Mani estranee che con quelle che ricordavi non avevano niente a che vedere: «E sia». Acconsentì.
Il rito che dovevi fare era più articolato di quanto sembrasse, sarebbe stato un vero e proprio percorso di rinascita. Un percorso che ti avrebbe condotto nelle campagne greche e, che avresti dovuto portare a termine entro l’alba del settimo giorno dalla tua partenza.
Quando eri ancora un giovane cadetto non avresti mai pensato che tu, sì, proprio tu, avresti finito per sottostare a questo rito.
Chiunque poteva officiarlo, bastava solo che il penitente avesse la benedizione di Dodici Cavalieri d’Oro. Anche se all’appello mancava Death Mask, avevate ancora Sirrah e, fu quest’ultimo, infatti, a presenziare a nome della Casa del Cancro.
I tuoi compagni, quando lo seppero, non ti dissero niente, neanche i più polemici emisero un fiato. Anzi, capirono perfettamente i motivi per cui volevi espiare.
Per questo
E, tu, piccolo uomo, che avevi visto giovani soldati in pena, perseguitati dalla Furia delle Erinni, non eri da meno. Però, nel tuo caso, più che Erinni, erano Eumenidi, a te che mai avrebbero potuto fare di così tremendo che non ti eri già inflitto a te stesso? Infatti, era come se ti osservassero, ti seguissero a volo di corvo, quasi vegliando su di te, invece che il contrario.
E, così partivi con la tristezza nel cuore al tramonto, lasciandoti alle spalle il bianco Santuario della Dea come un Cavaliere Medievale. Ma nessuno di te avrebbe mai cantato le gesta, tranne me, s’intende.
Non come Odisseo la tua natia Itaca lasciasti, poiché in Grecia ancora camminavi. Ma la legge, il rito che seguivi ti imponeva solo una borsa, una tunica come quella di tuo fratello prima di diventare Pontefice e, dei calzari. In questo caso, anche dei documenti e un portafogli. Perché sì, tu non avresti fatto questo viaggio nella tua forma animale, bensì in quella umana.
Nessuno ti avrebbe torto un solo capello, dal momento che portavi la tenia del peccato allacciata in fronte. Il vecchio Shion si era ferito un’altra volta per lordarla del suo sangue e far sì che tu potessi sentire, ora più che mai, tutto il peso del tuo peccato. Perciò, se qualcuno si fosse messo sulle tue tracce con l’ordine di ucciderti, vedendo la tenia ti avrebbe risparmiato.
Anche Kanon lo sapeva e dubitavi che lui fosse così stupido e così maldisposto nei tuoi confronti. Almeno non dopo quello che avevi saputo. La tristezza del tuo gemello, quando aveva creduto che tu fossi morto, l’avvertivi ancora, sì come la sua speranza di tornare a essere fratelli. Dopotutto Paradox e Integra avevano infranto la maledizione sui Gemelli, allora forse, loro due avrebbero potuto indicarvi la via. Un giorno.
Gettasti un ultimo sguardo al Santuario prima di immergerti nel mondo oltre le montagne, le stesse che erano state teatro di incidenti, scontri, sconfitte e magie. Come quella perpetrata da Astrid quando trovò la Macchia Mediterranea. Tu non eri stato presente all’accaduto, ma Shura ti aveva raccontato che a un tratto gli era passata accanto senza neanche vederlo e lui si era preoccupato perché sembrava assente. Era come se fosse ipnotizzata, comunque preda di un rapimento estatico. Come le giovani dei miti si congiungevano agli Dèi.
Non a caso quando l’avevate ritrovata avevate temuto che fosse stata amata da una Divinità a sua insaputa e ne portasse in grembo la progenie. Il fatto che avesse continuato ad avere i suoi corsi vi aveva rassicurato tutti.
Però, se c’era una persona che, in questo giorno avresti voluto con te, quella era proprio lei, perché queste montagne le conosceva. Tu invece, conoscevi lei.
Stringesti la tracolla della tua sacca e cominciasti il tuo cammino arrossato dagli ultimi, caldi, raggi del Sole. 
Neanche il conforto di una torcia ti era permesso. “Che cosa ascoltavi, Astrid?”
Proprio mentre ci pensavi mettesti un piede in fallo e cascasti a terra. Ti rialzasti a sedere dolorante e controllasti la caviglia. Accidenti, avevi preso una storta. Strano a dirsi, vero? Anche quelli come te potevano inciampare e prendere delle storte. Però faceva male e il dolore sembrava essere ancora più intenso ora che non potevi più contare sul tuo Cosmo.
Perché sì, non l’avevi detto a nessuno, neanche al tuo terapeuta, ma l’energia che ti abbandonava la sentivi tutta. Non per un capriccio del fato, quanto piuttosto perché ci facevi caso, un po’ come alcune persone hanno paura di morire e allora si automonitorano il battito cardiaco. Ora non era poi così differente. “Se veramente vuoi concedermi il perdono, aiutami”. Implorasti la tua Dea, affranto. Vero che era a lei che volevi chiedere perdono, ma il volto che continuava a balenarti davanti agli occhi non era il suo. E tu non capivi perché, dal momento che era stata la bestia in te a volerla a tutti i costi. Certo che c’eri rimasto male quando avevi scoperto e ricordato i suoi occhi spaventati quella sera. Ma perché, ancora una volta, quella cosa ti aveva sopraffatto.
«Mi dispiace, io… non sono abbastanza forte».  Ecco quello che avresti voluto dirle. Non avresti mai voluto che lei ti guardasse così. Per questo, ti eri sorpreso quando aveva deciso di aiutarti, anche se in questa maniera e, senza nascondere la sua ira. Eppure, a ripensare alla vostra presentazione, ti venne da sorridere. 
E, poi, allo scoccare della mezzanotte, mentre ti eri fermato a riposare, la vedesti. Sollevasti lo sguardo e vedesti la giovane bionda comparire davanti a te, circondata dai bagliori fosforescenti del suo Cosmo. Mai come adesso ti erano sembrati più splendidi. Indossava un abito bianco a mezze maniche con dei veli semitrasparenti dello stesso colore e i suoi capelli sciolti fluttuavano come sollevati da una brezza.
Scattasti immediatamente indietro contro una roccia a occhi sbarrati. Adesso anche questo? Non erano bastati i mostri che avevi dovuto affrontare fin qui? 
«É così facile cadere quando si è sicuri della propria strada e delle proprie scelte, non è vero?» Ti domandò una voce nel vento. Alzasti la testa di scatto e ti guardasti attorno. Il battito impazzito. Da dove veniva quella voce? Ma tu non vedesti niente.
«Chi sei?»
Una persona avanzò verso di te comparendo dal niente letteralmente. Non riuscisti a capire bene, ma non era né giovane né vecchio, era solo un ragazzo.  «Io sono il custode dei viaggiatori e dei peccatori, coloro che in mancanza dell’Acheronte si rivolgono a me, il Cavaliere di Eridano».
«Il cavaliere di Eridano?» Ripetesti sconvolto, ne avevi sentito parlare ma non lo avevi mai visto di persona, neanche quando combatteste contro i Titani. A che cosa dovevi la sua presenza qui? Non ti ricordavi che nel rito dovesse comparire proprio costui. Sapevi che presiedeva a questi riti, che li supervisionava e che custodiva le anime di coloro che morirono in nome di Atena nel Piano Inferiore del Mondo Celeste. Potevi fidarti di costui? Era Virgilio o era una delle tre fiere?
L’adolescente restò serio e annuì con un cenno del capo. «Ma il rito prevede che io debba fare tutto da solo».
«E lo farai, ma niente ti vieta di avere delle guide o di vedere gli altri che tentarono». Spiegò il Bronze Saint. Tu non avevi dubbi sull’effettiva veridicità delle parole e anche sul ruolo da lui ricoperto. Dopotutto avevi toccato con mano la potenza che persino un guerriero di una casta inferiore alla tua era capace di sprigionare. E, ancora, se ci pensavi, non potevi che dichiararti stupito e ammirato per il coraggio che persino loro, semplici pedine, erano capaci di sprigionare
«Delle guide? Impossibile, io non ho bisogno di aiuto».
«Ne sei sicuro?»
«Sì, per quello che devo fare devo essere solo».  
«Come desideri, allora stai attento, Gemini, sono in tanti quelli che si perdono in queste lande. Se avrai bisogno di aiuto non esitare a chiamarmi e io verrò da te».
«Non serve». “E poi non conosco neanche il tuo nome”, pensasti. 
Solo se sceglierai quella sbagliata, per quale motivo sei qui, Cavaliere?»
«Devo…» Dovevi espiare un omicidio, anzi, un bel po’di omicidi. «Devo trovare la fonte d’acqua di Poseidone».
«Un’impresa ardua». Commentò il Cavaliere di Bronzo, dopo di ciò ti domandò: «Il Venerabile che vi ha mandato nelle mie terre vi ha spiegato che cosa dovete fare?»
«A grandi linee».
«Bene, allora buona fortuna, Cavaliere di Gemini».
Nonostante le tue buone intenzioni, i riti del Santuario sono crudeli quanto le prove che gli Dèi riservavano a chi desiderava incontrarli o le imprese dei semidei.
Ma le montagne che circondavano il Santuario erano impervie e tu finisti per perderti. A un certo punto ti parve di vedere Astrid seduta sopra un masso ma scivolasti e ruzzolasti giù per il pendio.
E battesti la testa perché a un certo punto perdesti conoscenza. Quando ti svegliasti ti ritrovasti ai piedi della montagna su un tappeto erboso. Ci mettesti un po’per mettere a fuoco il cielo azzurro sopra di te e capire che quelle sottilissime, fruscianti, ondeggianti colonne verdi, dallo stelo sottile come certe statuine di vetro di Murano, altro non erano che piante di segale verde. 
Solo allora prestasti attenzione alle tue membra doloranti e lasciasti che il lamento fin qui trattenuto tra i denti, sfuggisse alle tue labbra. Contraesti il volto in una smorfia di dolore mentre ti raddrizzavi e ti massaggiasti le parti lesionate. Avevi una gamba dei pantaloni a pezzi e un lungo graffio che andava dal tuo collo del piede al tuo ginocchio e gli insetti che ci stavano banchettando. Come se non bastasse ti doleva l’altra gamba e la schiena. Probabilmente avevi anche una costola incrinata. Ti fischiavano le orecchie, ti girava la testa e sentivi la pelle tirata in più punti, come se qualcosa si fosse seccato sopra di essa e tirasse. Anche le braccia erano messe abbastanza male, per dire, avevi l’ulna sinistra fuori dalla pelle e, la tua maglia era ormai uno straccio sbrindellato sulle maniche. Eri quasi sicuro di avere anche un dito rotto e parecchie abrasioni.
Niente di preoccupante. Nella tua vita eri sopravvissuto e avevi sopportato ferite ancora peggiori e più gravi di queste. Ciononostante sibilasti di dolore raccogliendo le gambe più vicine e le giunture protestarono.
Che volo.
Guardasti il pendio da cui eri precipitato, eppure non ti sembrava così alto per ridurti così.
Era solo per grazia divina che eri ancora tutto intero. Proprio allora trasalisti: «La tenia!» Ti toccasti la testa e tirasti un sospiro di sollievo. Quella era ancora lì.  
Ti alzasti in piedi e ti guardasti attorno, o meglio, dovesti schermarti gli occhi con una mano a causa della luce del Sole. Sicuramente dovunque tu fossi non l’avresti capito, se tu non ti fossi allontanato da questo campo. Ma che ti importavi? Dovevi risalire e, infatti, provasti a risalire la china con un balzo, ma il portale per la dimensione da cui eri cascato, non si aprì. Perché non si aprì?
Provasti a saltare di nuovo, ma dovesti fermarti a causa di una fitta di dolore lancinante che ti strappò dei gemiti. La gamba. Ti strappasti una parte della maglietta e ti procurasti una serie di lacci emostatici di emergenza. Dannazione, avevi bisogno di cure, cure reali.
Arrivasti a una strada deserta. Guardasti a destra e a sinistra e sbuffasti rassegnato: non valeva neanche la pena di fare l’autostop, qui non sarebbe passata anima viva neanche l’indomani.
Decidesti di dirigerti lo stesso verso nord. Magari avresti trovato un telefono o un ambulatorio. Meno male che tu avevi comunque un senso dell’orientamento migliore di quello di Shura.
E, con tua grande sorpresa, dopo aver attraversato un sito archeologico, arrivasti a un cartello stradale. Sperasti che potesse darti qualche indicazione utile ma era solo il limite di velocità. Andasti comunque avanti e Il luogo in cui ti trovavi era una frazione di un paesino in provincia di Calidone. Santa Atena, ma come diavolo ci eri finito qui? Nonostante il cielo spruzzato di nubi trasportato dal vento, sembrava che la luce, che tutto, qui, avesse un che di polveroso. E che, con tuo sommo orrore e sconcerto, non c’erano adulti in questa zona. Non ne incontraste nessuno neanche per scherzo. Le strade erano deserte, non solo perché eravate in campagna, ma proprio perché sì. 
Ti passasti una mano tra i capelli e ti guardasti attorno accigliato: e ora come saresti tornato indietro? Proprio in quel momento il vento ti portò alle orecchie il rombo di un motore. Ti girasti e vedesti in lontananza un autobus fermo ripartire. Ma quando raggiungesti la banchina, trovasti solo una ragazzina vestita di scuro come una goth lolita, con i capelli lisci a caschetto che ti guardò diffidente e intimorita. Ma tu non avevi tempo da perdere con le marmocchie, adesso dovevi capire dove ti trovavi. «Scusami, quando passa il prossimo autobus?» Le domandasti.
«Ormai domani, questo era l’ultimo della giornata». Ti rispose e si alzò con uno sbuffo. Poi aprì il suo ombrello bianco e se ne andò. Il rumore delle sue scarpe con il tacco basso echeggiava sull’asfalto in un modo che avresti trovato piacevole se tu non fossi stato in questa situazione. 
Accidenti. E adesso?
Non avevi la più pallida idea di dove andare perché eri più che sicuro che il Bronze Saint di Eridano ti avesse spedito fuori rotta, in un posto dimenticato dagli Dèi che più deserto non si può e... Avesti una folgorazione. Aspetta, ma quella era una persona. E, se era qui, significava che abitava nelle vicinanze, forse in uno di questi piccoli paesini adiacenti a Calidone. Ti girasti verso di lei e le urlasti: «Ehi». Lei si girò spaventata, pur essendoci dieci metri di distanza tra voi. Pronta a scappare via da un momento all’altro: «Scusa, sapresti indicarmi una locanda, un albergo un che so, qualche posto dove stare? Mi va bene anche un ambulatorio». Dicesti, notando come lei guardava preoccupata le tue ferite.  
Lei ti rispose che nel suo paesino non c’erano, ma che ce ne era uno a quello più a sud da lì. e tu avessi percorso la strada nella direzione in cui era ripartito l’autobus avresti trovato un paesino a otto chilometri da qui. «Ah, ti riferisci alle rovine che ho visto venendo qui?»
«Non sono rovine».
«Non… e allora che cosa è successo?»
«Non lo sa?»
«No sono… nuovo di qui».
«Un turista?» Domandò, cercando di classificarti.
«Sì». Sì, certo, il turista finito in un crepaccio, sbranato da un orso e cronologicamente disorientato. Forse persino dimensionalmente. «Allora, grazie per le indicazioni, andrò a vedere se l’ambulatorio è aperto».   
«Come vuole…» Mormorò preoccupata, pensando che era meglio lasciarti andare. In fondo era meglio assecondare il pazzo.
E, zoppicando, ti avviasti in quella direzione. Quando arrivasti, però, ti ritrovasti di fronte alla desolazione più totale. Era come essere approdati in una città fantasma.
«Ma queste… sono rovine». Mormorasti sgomento guardando le macerie e, anche se conoscevi i devastanti effetti delle Creature, questa non era opera loro.  «Che cosa è successo qui?» Chiedesti a te stesso senza aspettarti una risposta. Lo vedevi da te che questo posto era stato teatro di scontro. Ma non uno di quelli “puliti” come potevano essere i vostri. Era uno più terreno.
Ogni cosa, qui era come se fosse stata distrutta da mano umana. Ma perché?
Dove erano tutte le persone? Perché tutto ti sembrava abbandonato? Persino alcune auto erano parcheggiate alla rinfusa, altre erano semi distrutte.
Saltasti su un tetto (nonostante il dolore) e osservasti tutta la desolazione che potevi vedere. In più punti del paesino si sentiva solo il gracchiare dei corvi e vedevi le case crollare su loro stesse, nella desolazione più totale. Come se le fondamenta delle medesime fossero diventate improvvisamente pericolanti e fragili, come le ginocchia di un vecchietto ricurvo.   
Improvvisamente sentisti il gracchiare di un corvo. Alzasti la testa e ne vedesti una piccola cospirazione ergersi in volo per andare a pasteggiare sul cadavere di un uomo appeso a un filo elettrico. Tuo malgrado non potesti non trasalire e, arretrando, il tuo calzare toccò qualcosa che si smosse. Ti girasti per vedere cosa fosse e vedesti un cadavere spolpato. Chiudesti gli occhi e volgesti il capo. Come era potuto accadere? Che cosa era successo qui? Va bene che probabilmente questa non era neanche la tua dimensione, ma anche tu avevi un cuore e, questo spettacolo era straziante anche per te.
Riapristi gli occhi e guardasti altrove. Era impossibile che fosse ridotto tutto così.  
Udisti un rumore di spari in lontananza e ti guardasti attorno, guardingo e pronto a scattare. Anche se ciò probabilmente avrebbe aggravato il tuo stato. Ma non comparve niente. Probabilmente era solo l’eco degli spari di qualche cacciatore. Se non altro adesso sapevi che qui esistevano le armi da fuoco.
Ti avvicinasti a un muro e osservati i buchi che lo costellavano. Il tocco delle Creature inceneriva ogni cosa, non provocava questi squarci. No, questa era opera di mano umana, ma era difficile per te stabilire chi fosse l’artefice e, se ci fosse qualcun altro qui, oltre a te. Che fossero arrivati prima altri Specter? O i guerrieri di qualche altra divinità? Chiudesti la mano a pugno e lo abbattesti sul cemento, spezzandolo definitivamente. I detriti franarono ai tuoi piedi e tu tossisti per via della polvere che tu stesso sollevasti.
Qualcosa ti diceva, però, che era meglio per te tornare indietro. Anche a costo di prenderti un’insolazione.
Mentre ti lasciavi quelle macerie alle spalle riflettesti. Anche se era evidente che qui fosse accaduto qualcosa, dovevi trovare comunque un modo per completare il rito, avevi perso chissà quanto tempo svenuto ai piedi di quella montagna. Ed eri ferito, per giunta. Anche se un dolore come questo a te fisicamente non diceva niente, avevi bisogno di cure. E, questo, ci arrivavi persino tu a capirlo. Se tu avessi avuto l’occorrente avresti provveduto anche da solo, ma non ce l’avevi.
Ti stringesti le corde della sacca sulla spalla. 
Una farfalla svolazzò davanti a te battendo le grandi ali variopinte e, fu l’unica cosa vivente che vedesti finché non arrivasti al paese della ragazzina goth. Anche questo posto sembrava sono un cumulo di rovine, come certi paesini di montagna che erano abbandonati da una cinquantina d’anni. Però si vedeva che c’era ancora qualcuno, ne vedevi i segni dell’attività umana. Anche se ti faceva strano camminare su strade coperte da un velo d’erba. Non avevi mai pensato seriamente a cosa potesse succedere a una città se la si lasciava in balia di se stessa. Non ti era mai interessato, prima.
Ma ora, che dalle grondaie vedevi ergersi canapetti e altre erbacce infestanti e che i muri bianchi erano ingrigiti e rovinati da vandali, intemperie e incuria, te lo domandavi. 
Stavi camminando tra queste case abbandonate quando non ce la facesti più e fosti costretto a fermarti. Con tutto il sangue che avevi addosso e le ferite stavi rischiando grosso. Inoltre le mosche erano fastidiose e avevi bisogno di riposo. Non sapevi che ore erano, ma il tempo sembrava scorrere molto lentamente qui, o forse era perché ti girava la testa e avevi anche sete.
Ti accasciasti seduto contro il muro e restasti lì nel tentativo di recuperare un po’le forze. 
Improvvisamente sentisti dei passi avvicinarsi  e apristi gli occhi e, volgesti (non senza soffrire) il capo in quella direzione. Con tua grande sorpresa vedesti arrivare una serie di ragazzini. 
Avevi le allucinazioni? Quei bambini sporchi che neanche le giovani reclute al Santuario vivevano qui oppure giocavano in un postaccio simile? No, doveva essere un’allucinazione.
O così fu, finché non cominciarono a pungolarti con un bastoncino. «No, via, andate via, per favore, andate via». Ti lamentasti e loro ridacchiarono e continuarono a pungolarti. A quel punto fosti tu ad alzarti e a levare le tende, abbandonando il loro territorio. Ma evidentemente non li scoraggiò, anzi, ti seguirono tempestandoti di domande che tu non recepisti a causa della stanchezza.
Sentisti un’altra raffica di spari e sobbalzasti. Invece i bambini lanciarono delle grida stridule tipo gabbiani e, in men che non si dica sparirono. 
Vagasti a caso ancora per un po’, sempre seguito da quelle piccole pesti quando sentisti il rumore del rubinetto di una fontanella che veniva chiusa. Poi altri passi ti si avvicinarono e, ti ritrovasti a osservare un ombrello bianco. Abbassasti lo sguardo e trovasti davanti a te la ragazzina della fermata dell’autobus osservarti preoccupata. «Ma tu non sei…»
«Sì, ci ho messo un po’ a ritrovarla». Ti avevano insegnato a disperdere le tue tracce. Ma non ti saresti mai aspettato che ti avesse seguito. Che avesse avuto i sensi di colpa? Vedesti che ti stava tendendo una bottiglietta d’acqua aperta e tu l’accettasti, bevendo a grandi sorsate e bagnandoti il viso sporco. 
«Perché mi hai indicato quelle macerie? Volevi farmi morire?» Domandasti quando la finisti.
«No, è che speravo di trovare anch’io qualcuno, solo che finora non avevo mai avuto il coraggio di avventurarmi più in là della fermata dell’autobus». Spiegò.
«Allora eri tu la persona che sentivo alle mie spalle».
«Sì».  Proprio allora sentiste il rumore di un clacson e lei scattò come se fosse stato un colpo di fucile. In coda al clacson sentiste anche delle urla, delle sguaiate risate divertite, e lei ti afferrò per il braccio meno malconcio. «Cosa c’è?»
«Dobbiamo scappare».
«Scappare? Perché?»
«Non c’è tempo, corri!» Esclamò e si dette alla fuga senza neanche chiudere l’ombrello. Tu non potesti fare altro che seguirla. E proprio allora, cominciasti a sentire anche il rumore di spari e la vaga eco di risa divertite.  Arrivaste a una casa e lei si fermò lì, cercò rapidamente le chiavi con sicurezza nella sua borsetta, nonostante la situazione, come se l’avesse fatto altre volte e le inserì nella toppa. Aprì e vi precipitaste dentro. Riprese le chiavi e chiuse la porta con cinque mandate mentre gli spari e le risate si facevano sempre più vicine, in tandem con il rombo di motori.
Poi passarono oltre.
Solo allora vi rialzaste dal pavimento. Anche se tu lo facesti un po’ più a fatica di lei. «Sta bene?» Ti domandò allora. Tu avevi la testa che ti scoppiava e lei ti aiutò a rialzarti in piedi e ti portò in una cucina. Ti fece accomodare su una sedia e cominciò a trafficare per farti delle medicazioni d’emergenza. Ti fece prendere un antidolorifico e ti ripulì le ferite dalla sporcizia, almeno le più lievi, aiutandosi con acqua ossigenata e del cotone, oltre che a dell’alcol denaturato. Per l’osso, le dicesti di non guardare mentre te lo rimettevi a posto da solo. Poi usò un paio di stecchini di gelati per staccarti il dito fratturato e te lo fasciò con il tuo aiuto. Quando riavesti un minimo di padronanza di te stesso le domandasti: «Che cosa sta succedendo? Perché sembra di essere precipitati in un western? Chi era quella gente?» Le chiedesti e lei si portò una mano al cuore e ti fece cenno con l’altra di tacere. Guardò la porta alle sue spalle un momento e poi tirò un sospiro di sollievo. Poi riprese a pulire le ferite e incerottarti: «Scusi, ormai questa storia va avanti così da un anno». Un anno. Ossia da quando era cominciata l’apparizione delle Creature.  
La parte più imbarazzante furono i vestiti. Lo vedeva anche lei che non potevi continuare a tenere questi abiti.
«Aspetti qui, vado a vedere se ho dei vestiti della sua taglia». Ti disse precipitandosi su per le scale.
Quando tornò ti esortò a spogliarti (rossa come un peperone). Poi ti dette la schiena e tu, con una mano sola, riuscisti a liberarti dei vestiti rovinati per indossare quelli puliti. Lo stesso non potesti fare per i jeans. Non perché fossero stretti o cosa, ma perché avevi uno squarcio aperto in bella vista. «Ehi». Lei si girò, trovandoti con una gamba coperta e una no: «Questa va cucita». E lei, rossa come un peperone per l’imbarazzo, asserì con il capo.
L’unico motivo per cui non perdevi sangue era che stavi usando il tuo Cosmo per tenere allineati gli atomi della tua carne. Almeno questo lo potevi ancora fare senza correre rischi.  
La dovesti svegliare dal suo stato catatonico e dirle cosa fare. Seguendo le tue istruzioni, andò a cercare quello che serviva e, dopo aver sterilizzato l’ago, non senza risparmiarti smorfie, ti aiutò a ricucirti, poi, ti fasciò la ferita secondo le tue indicazioni (anche se dovette svolgerle e rifare almeno tre volte le medicazioni) e, ti aiutò a indossare completamente i pantaloni. Alla chiusura della zip però pensasti da solo.  Dopodiché, lei (parzialmente sveglia) ti offrì qualcosa da bere e da mangiare. Non era molto ma almeno era già qualcosa. «Mi dispiace per quello che le è successo». Disse la tua ospite «Una volta questo posto non era così. Non si vedevano molto spesso dei turisti, ma nell’ultimo paio di anni non si sono proprio più visti».
«Ho visto che siamo vicini a Calidone». Dunque ti trovavi in Etolia-Acarnania. Almeno adesso avevi una collocazione spaziale, mentre quella temporale ancora ti mancava. Ma non potevi darlo a vedere così.
«Sì, è così, ma ormai quasi nessuno passa più da queste parti da quando è cominciata tutta questa storia e gli adulti sono morti, dopo aver messo in quarantena la zona. Poi non si sono più visti neanche loro. Già prima questi erano brutti posti ma adesso sono stati completamente abbandonati a loro stessi e, da quando gli adulti sono scappati… I ragazzini, membri di gang, spacciatori, ladruncoli, persone poco raccomandabili, sono venuti qui. E gli animali e le piante si sono ripresi rapidamente ciò che gli esseri umani gli hanno strappato. Questa ormai è terra di nessuno; speravo che fosse rimasto qualcun altro oltre a noi e invece non c’è più nessuno».
Sembrava sincera e, allora, le dicesti addolcendo il tono: «Mi dispiace».  
«Sì». Balbettò quest’ultima tergendosi il volto dalle lacrime, ma era ancora spaventata. Ora che la vedevi bene non poteva davvero avere più di tredici anni. Tredici anni, come quelli della Dea quando ordinasti ad Aphrodite di portarla al Santuario sicché tu potessi… Stringesti il pugno. Non riuscisti neanche a completare il pensiero. Tredici anni, come quelli passati a usurpare il suo trono. Tredici anni quando ti purificò dal male. «Ma lei cosa ci fa qui, signore? Cosa le è successo per…?» Domandò accennando alle varie ferite che ti aveva medicato, tra cui anche un taglio sul mento, adesso coperto da un cerotto. Mentre ti medicava e ti ripuliva ti aveva tolto anche buona parte del sangue rappreso. Alleggerendoti un po’. Ti sentivi un po’meno sporco, adesso, ma così conciato pensare di lavarti meglio era impossibile. 
«La tenia sulla sua testa è sporca di sangue, cosa ha fatto?». Disse vedendo la benda insanguinata che ti cingeva la fronte. «Questa? No, no, non è una ferita è solo sporca, io sto bene, mi sono solo perso, non so dove mi trovo, mi ricordo che stavo passeggiando su un sentiero quando improvvisamente mi sono ritrovato qui». Relativamente parlando, ma durante il tuo addestramento avevi subito ferite peggiori di quelle che adesso costellavano il tuo corpo. «Tu come ti chiami?» Le chiedesti, tanto per cercare di destarla definitivamente.
«Atalanta e tu?» Spalancasti gli occhi per la sorpresa: come la principessa cacciatrice del mito. La stessa che partecipò alla caccia del Cinghiale Calidonio. Che fosse costei la guida che il Cavaliere di Bronzo ti aveva promesso? O che ti avesse preso in giro fin dall’inizio? In ogni caso era scortese non presentarsi a sua volta, dopo che si chiede al prossimo il proprio nome. «Io mi chiamo Saga».
«É un nome giapponese, ma scusi se glielo faccio notare, lei non sembra uno straniero». Commentò la tua interlocutrice, perplessa con un velo rosato sulle guance. Ammettevi di essere molto più bello della media ma ringraziasti che lei non l’avesse detto. Eri ancora confuso e, sentirtelo dire da una ragazzina che sarebbe potuta essere tua figlia, non ti sembrava il caso.
Arrossisti perché il tuo nome a una lettura alternativa, poteva indicare il sesso inteso come divisione tra maschi e femmine, quanto il nome di una Dea Norrena che, nella mitologia norrena era la Dea della Storia e della Poesia, quindi fiaba, ma era anche una parola desueta che significa strega e deriva dal latino saga. Mentre quello di tuo fratello significava semplicemente canone o criterio. Il Venerabile Shion doveva aver avuto grandi aspettative su di voi quando vi aveva imposto questi nomi, o forse aveva voluto ricordare Sage, il suo predecessore, nella speranza che potesse vegliare su di te. Al pensiero dell’ex Pontefice ti rabbuiasti. «Sì, mio… padre era fissato con il Giappone». Spiegasti imbarazzato. Era una spiegazione un po’raffazzonata, ma non eravamo tanto lontani dalla verità, mio caro Saga. Dopotutto il vecchio Shion era originario dello Jamir, che pure era in Oriente. Era ovvio che vi avesse dato dei nomi orientali a lui abbastanza famigliari, no? E, un po’, da piccolo, avevi considerato il Venerabile alla stregua di un genitore.
Ma alla tua interlocutrice, sembrò bastare questa spiegazione, perché sul suo volto affiorò un sorrisone: «Piacere di conoscerti, Saga» e ti tese la mano, un po’impacciata. Mano che tu stringesti.  Quando la stretta si sciolse aggiunse le dicesti: «Vorrei tornare indietro sul sentiero, ma non conosco la strada, potresti aiutarmi?» Lei ti scoccò una lunga occhiata diffidente. «Per andare dove? Ormai è quasi buio e non è saggio uscire a quest’ora, è adesso che i ragazzi si scatenano».
«Ti riferisci a quelli che hanno sparato prima?»
«Sì».
Stavi per dire: “Ma io devo almeno sapere dove mi trovo, voglio sapere dove sono finito, perché…” quando cambiasti idea: «Dimmi un po’ di questi ragazzini, perché ti spaventano tanto?» Lei ti accontentò. Concluse il racconto dicendo che, probabilmente i bambini più piccoli erano andati ad avvisarli apposta e adesso ti stavano sicuramente dando la caccia. Eri esterrefatto: «Perché dovrebbero farlo? Non dovrebbero essere felici di vedere una persona adulta?»
«Qui gli adulti non mettono più piede da tempo. Non capisci che ti vedono come una minaccia alla loro autorità?» Ma se eri ferito e se eri finito qui pure per sbaglio! «E tu, perché non li hai avvisati allora?» Solo dopo ti accorgesti che era passata a darti del tu, ma non la correggesti. La paura che le leggevi nello sguardo sembrava reale. «Io non sono come loro e non lascerò che tu vaghi per queste lande da solo».
«Ma devo andare, devo tornare sul sentiero».
«Quale sentiero?» Ti domandò con una punta di esasperazione nella voce, poi aggiunse che «Qui ci sono delle montagne, è una zona montuosa ma se non mi dici quale io non posso neanche provare ad aiutarti».
Cercasti di darle le coordinate della tua posizione geografica e lei ci capì pochissimo. Perciò dovesti darle qualche rudimento di geografia per intendere le tue parole. «Per favore, è importante».
«Sì, certo, ma è più sicuro se ci muoviamo di notte».
«Di notte? Perché? Non sarebbe meglio andare adesso?»
«No, adesso i cacciatori di faine ti stanno ancora cercando, non è sicuro». Cacciatori di Faine, era così che si erano proclamati i giovincelli che fungevano da “polizia locale”. Cercasti di muovere delle obiezioni ma lei te le troncò di netto. «Senti, dammi retta, se tieni almeno un po’alla tua vita ascoltami. Ti porterò dove vuoi però, per favore, non adesso, aspetta almeno un po’, ti devi riposare». Ti supplicò la tua soccorritrice di fortuna. E alla fine, cedesti. Sicché passasti qualche ora della notte a riposare. La fissasti esterrefatto: questo non era il comportamento di una tredicenne normale.
La tua ospite ti condusse a una camera al piano superiore e ti disse di fare come a casa tua. Tu la ringraziasti e lei ti augurò buon riposo. Una volta nella tua stanza pensasti che probabilmente la bambina avrebbe dormito con la porta chiusa a chiave onde evitare sgradite sorprese nottetempo. Sì, certo, ma tu, nottetempo, non avresti mai sfondato la sua porta o i muri che vi separavano, non eri un pedofilo. Tu, nottetempo, contavi di filartela.
Per tutta la notte non facesti che dormire male. Un sonno agitato, leggero e senza sogni e, non solo per il timore che ti avesse ingannato o che i pistoleri là fuori ti trovassero. Non che qui fossi più al sicuro. Anche se eri un uomo grande e grosso che cosa ti garantiva di essere effettivamente al sicuro? Se questa ragazzina avesse deciso di tenderti una trappola? Adesso ti restava il dubbio, eri finito alla corte di Circe oppure a quella di Nausicaa?  
Sentisti la porta della tua stanza aprirsi ed entrò uno spiraglio di luce. «Psst». Ti fece la voce della ragazzina e tu ti mettesti seduto. «Sei sveglio?» Domandò, sempre in un bisbiglio.
«Sì».
«Adesso se vuoi possiamo andare».
«Dove?» Domandasti assonnato grattandoti la cute.
«A cercare il tuo sentiero, la via è libera se facciamo attenzione nessuno farà caso a noi».
«Ma sei sicura? Voglio dire, ti fidi a uscire da sola di notte con un uomo?» Lei non rispose subito. Quando lo fece disse: «Che c’è? Hai cambiato idea?»
«No, no».
«Allora andiamo adesso, a quest’ora dormono tutti, nessuno farà caso a noi». Gettasti un’occhiata alla radiosveglia nella tua stanza, segnava le quattro del mattino. Ma se lei diceva così e tu non percepivi presenze ostili, allora d’accordo. «Va bene, mi alzo». Lei ti disse che ti avrebbe atteso in soggiorno e richiuse la porta.
Sulle prime avevi pensato che stesse prendendoti in giro. La piccola Atalanta si rivelò essere una guida capace, troppo, per la sua età e anche furtiva. Se l’abitino da gothic lolita che non si era tolta, ti era sembrato stonato in un posto simile, adesso, nell’ora più buia della notte, non ti sembrò più così astruso. Anzi, era perfettamente mimetizzata, cosa che non si poteva dire di te. Anche se non aveva avuto il coraggio di uscire entro i confini del paese dove viveva, sembrava perfettamente a suo agio tra queste tenebre, un po’ come una ninfa di Artemide. Come se fosse uscita già altre volte a questo modo. Sembrava che le bastasse la sola compagnia della pila elettrica a rassicurarla sul suo cammino.
Che ti stesse portando dai suoi amici? No, non era così. Lo vedevi da come si fermava a ogni isolato, per controllare con l’udito che non ci fosse nessuno e che, la torcia non colpisse superfici riflettenti delle case o le persiane delle abitazioni semi diroccate. Quelle poche almeno ne avevano ancora, ma neanche quelle che non le avevano più. Più volte ti disse che eri troppo rumoroso e di fermarvi. Più volte ti spiegò di fare molta attenzione a dove mettevi i piedi. E, altrettante, doveste cambiare strada per via di lupi che rovistavano nei cassonetti, ribaltandoli e di ragazzini che uscivano ad affrontarli armati di fucile o pistole. Salvo una volta, che doveste passare proprio da lì e restaste nascosti a tapparvi le orecchie. La pila spenta per sicurezza. 
Ma, non le passò neanche per l’anticamera del cervello di denunciarti a loro. Quando i lupi si dettero alla fuga i ragazzini rientrarono nelle loro abitazioni. «Ma, non fanno la guardia? Non controllano che tornino?» Chiedesti perplesso da questo comportamento.
«No, a loro non interessa aspettare per respingere una seconda ondata, sono pur sempre dei bambini».
«Sì, giusto». Forse li avevi sopravvalutati. Adesso cominciavi a capire come mai aveva insistito tanto per uscire di notte. Non era come al Santuario, qui non esisteva un vero turno di guardia e una vera organizzazione.
Ti rilassasti un po’. 
Prendeste delle scorciatoie e, arrivaste alla banchina. Eri sorpreso, non pensavi che ti avrebbe veramente portato fuori da quella trappola mortale. «Bene, adesso dimmi dove dobbiamo andare».
Glielo indicasti e lei ti guardò sbalordita: «In mezzo a un campo? Sei sicuro?» Tu confermasti con convinzione. «Da qui posso proseguire anche da solo, grazie di tutto». 
Ma la curiosità è donna e, anche se tredicenne, anche Atalanta non faceva eccezione. Infatti, tempo cinque passi che te la ritrovasti sgambettante al tuo fianco, tra i ciuffi di segale e il frinire delle prime cicale estive. Avevate percorso la distanza necessaria, solo che, una volta tornato era diversa. Non era possibile, il luogo era questo, ma… Ma la montagna che cercavi tu era completamente diversa da questa. Persino l’atmosfera che si respirava era differente: «Non è possibile, è cambiata».
«Cambiata? Che stai dicendo?» Chiese osservandoti, tendendosi a una distanza di sicurezza di una dozzina di metri da te. Il fascio di luce puntato ora su quella roccia ora su quest’altra.
Ti girasti a guardarla preoccupato e, incontrasti la sua espressione angosciata rivelata dalla luce della pila. «Cosa stai cercando di dire? Perché sei fissato con questa montagna? Perché dici che è diversa? Come dovrebbe essere, scusa?»
«Più alta, più ripida, meno erbosa di questa, questa è appena una collina, se non una montagna bassa». Cominciasti a scalarla nel tentativo di riaprire il portale per la tua dimensione, ma, la vista ti si offuscò appena tirasti su il braccio semi sano e rinunciasti. Tornasti indietro tenendoti il volto tra le mani e ti sedesti ai piedi dell’altura. Sentisti il fascio di luce della torcia sulla tua pelle ma non togliesti le mani. Non era possibile, eri intrappolato qui. Proprio allora lei parlò, con voce incerta: «Mia nonna diceva sempre che questo posto pullula di fantasmi». Abbassasti le mani dal volto e, sollevasti la testa per  guardarla. La ragazzina ti illuminò con il fascio di luce, costringendoti a schermarti con la mano. «É una leggenda locale, si narra che, fin dall’epoca del mito, ogni tanto compaiano delle persone, oppure che si possa sentire muoversi al di là del Velo che separa i mondi». Trasalisti, erano parole molto simili a quelle che avrebbe usato Astrid. Ma quello di cui stava parlando lei non erano spettri, bensì Saint. Probabilmente altri che in passato tentarono l’impresa e fallirono, come te. «Senti… chi sei tu? Ti ho visto compiere un balzo di trenta metri e scomparire per poi ricomparire ai piedi di quest’altura davanti a me. Anche se sei ferito, dovresti essere ricoverato e, invece sei agile e scattante come se per te fosse normale. Nessuno riesce a saltare una trentina di metri e correre veloce quanto te. Chi sei davvero?» 
La guardasti e convenisti con lei: aveva tutto il diritto di sapere. Sospirasti e ti sfregasti il volto nella mano sana e le dicesti la verità: «Hai ragione, non sono stato sincero con te; vedi, è complicato. Io, io non sono un turista, io sono uno dei dodici Gold Saint della Dea Atena, il mio vero nome è Saga, Saga di Gemini. Sono finito qui per sbaglio e non so come posso tornare indietro».
«Un Gold Saint…» Ti fece eco lei, sbalordita.
«Sì». Confermasti a testa china.
«Allora… allora è vero, è tutto vero». Disse poi, incredula, in un soffio.
«Sì, è tutto vero». 
 
Questa è la tua nuova vita, farai meglio a farci l’abitudine, sembrava suggerirti il Tutto. Ma quello che riuscivi a pensare era che era un incubo, solo un dannatissimo incubo. Un incubo a occhi aperti, forse peggiore di tutti gli altri fatti finora.
Tornaste a casa di Atalanta senza parlare. La tua ospite sembrava scioccata mentre realizzava che quello che era accaduto tre anni addietro era tutto vero. Tu invece, pensavi soltanto alla tua disperazione. Neanche potevi ritrasformarti in civetta perché non sapevi come avrebbero reagito le tue ferite. Sicuramente in una condizione come questa non potevi neanche volare. E, non pensavi fosse il caso di rifare i punti di sutura.  
Solo una volta in casa, lei si prese un bicchiere d’acqua e si sedette al tavolo della cucina, mentre tu te ne restasti sul divano, tanto sala da pranzo e cucina erano un tutt’uno. Ti stendesti sul divano e chiudesti gli occhi.
Eri stato tagliato fuori dalla tua vita. Non saresti più potuto essere un Gold Saint e inginocchiarti ai piedi dello scranno di colei cui avevi giurato fedeltà. Questa era la tua nuova realtà e ringraziasti l’oscurità, che ti permise di piangere queste silenziose lacrime, senza che nessuno le notasse.           Quella mattina ti appisolasti sul divano e sognasti. Sognasti la nobile Olivia davanti alla porta della camera della neonata Atena e poi il suo cadavere insanguinato riverso a terra. E, con lei, anche il restante corpo di guardia di sacre guerriere della Dea. Dopo di lui fu la volta di Aiolos che ti sorrise prima di svanire nel mondo di luce. Poi il diacono Klaus e quel povero servitore che ti aveva scoperto mentre avveniva uno dei vostri conflitti per la supremazia del corpo. E poi Arles prendeva il sopravvento e, improvvisamente, davanti a te vedesti Astrid urlare spaventata: «No!»  
«Astrid!» Esclamasti alzandoti a sedere di scatto e, ti ritrovasti a mettere a fuoco un volto incorniciato da capelli scuri e occhi parimenti scuri. Atalanta.
«Chi è Astrid?» Chiese la tua ospite con una nota di gelosia nella voce ancora monocorde. L’espressione comunque preoccupata.  
Ti sistemasti meglio e ti sfregasti gli occhi cisposi con una mano. «Nessuno, niente d’importante, era solo un sogno». Rispondesti.
Atalanta annuì con cenno secco del capo, posò il vassoio con la bibita che ti aveva portato e se ne andò in giardino. Sapevi che normalmente gli adolescenti avevano bisogno di rintanarsi in camera propria. Si vede che lei preferiva restarsene in giardino.
Non avresti dovuto sentirti in colpa per questa risposta brusca. Ma era così che ti sentivi. Non amavi parlare con chicchessia, anche se avevi sentito dire che faceva bene aprirsi con degli sconosciuti. Ma tu non potevi permetterti questo lusso, tu eri uno dei Gold Saint più potenti, era pericoloso avere a che fare con te. Per non parlare del rovescio della medaglia; se lei si fosse rivelata un nemico?
Perché avevi questa sensazione di dejà-vu? Era come se tu avessi già vissuto una situazione simile ma non riuscissi a ricordare. Mah, magari non era niente di così importante.
Però non sopportavi più che qualcun altro ce l’avesse con te, anche per tempeste ormonali sue. Eri stanco della maledizione di Crono. Perciò mandasti al diavolo il tuo orgoglio e la raggiungesti.
La trovasti seduta sull’erba, proprio sotto al salice. Si era accorta di te, ma evitava di guardarti, mantenendo una maschera di tranquillità, anche se la sua rabbia e la sua gelosia erano palpabili. Ti passasti una mano tra i capelli, imbarazzato. Ci mancava solo questa, si era già affezionata a te, mannaggia.
Però, ti abbassasti lo stesso alla sua altezza e ti sedesti. Lei ti guardò di sottecchi. «Astrid era… una mia amica». Dicesti, dispiaciuto. A questo punto ti guardò senza proferire verbo. L’espressione incuriosita e vagamente contrita, avendo intuito il senso di quell’verbo all’imperfetto. Le parole sembravano impigliate nella tua gola mentre i ricordi che avevano di lei li vedevi danzare davanti ai tuoi occhi. «É morta poco tempo fa». Riuscisti infine a dire, con un certo sforzo, avevi appena scoperto che non amavi parlare di lei. Non solo perché Atalanta era una bambina. Lottasti anche un po’ per cercare i termini adatti da sostituire alle parti rivelatorie. «Lei ha cercato di aiutarmi con un… problema che mi porto dietro da parecchio tempo e che adesso, mi ha costretto a… viaggiare, in tempi come questi». Adesso la ragazzina ti guardava dispiaciuta, sembrava che volesse consolarti. «Non amo parlarne».
«Però ora ne stai parlando». Ti fece notare con un filo di voce.
«Perché non voglio che tu pensi che hai fatto qualcosa di male e non mi sembra giusto, non equivocare le mie parole, sei minorenne, se qualcuno mi vedesse così con te mi denuncerebbe». Puntualizzasti a scanso di equivoci. «Sì, tranquillo». Ti rassicurò lei, anche se ti parve una rassicurazione un po’ a vuoto; per te questa ragazzina neanche immaginava quanto la sua ingenuità potesse metterti nei guai e, sinceramente, non avevi voglia. Ma ora avevi bisogno del suo aiuto.
«Le volevi bene?»
«É difficile da dire».
«Che c’è di così difficile? O è sì o è no».
«Non ci conoscevamo molto bene, avevamo appena cominciato a parlare», spiegasti, «ma la cosa che mi ha sorpreso è che, nonostante tutto quello che ho fatto, lei mi abbia aiutato, così, senza chiedere niente in cambio, quando tutti mi hanno tenuto a distanza».
«A distanza tu? Che cosa hai fatto?»
«Meglio se non te lo dico, sappi solo che non è bello, per niente». La ragazzina strinse le labbra un momento. Aveva paura, lo percepivi, ma era giusto che sapesse, anche se non capiva fino in fondo la gravità di quello che ti tenevi dentro. Eppure, anche così, non se ne andò. «Va bene».
«I miei sogni di solito, sono funestati da distruzione, follia e gente morta». “Che ho ucciso io” quando eri in forma umana. Perché accettavi e ci stavi a questo gioco perverso? Te l’aveva detto anche il tuo terapeuta che non era salutare. Oltre alle medicine ti aveva anche suggerito un percorso riabilitativo che, fin qui avevi seguito e, sì, ti eri sentito molto meglio. «Ogni volta che chiudo gli occhi, loro tornano da me, sempre e non c’è verso di mandarli via».
«É terribile».
«Sì».
«É per questo che ti sei messo in viaggio? Per ritrovare lei?» Non era così stupida questa domanda, voi Saint potevate quasi ogni cosa. Doveva aver pensato che avresti fatto come Orpheo di Lyra.
«No, per ritrovare me stesso, credo. Questa tenia è il simbolo dei miei peccati».
«Sei stato bandito?»
«No, mi sto sottoponendo a un rito di purificazione. Questa benda mi protegge da chi si è messo sulle mie tracce perché sono lontano più di ventiquattro ore dal Santuario».
«Quanto tempo hai?»
«Tre giorni».
Lei spalancò gli occhi. «Tre…»
«Sì, ma non so neanche quanti ne siano passati, in realtà da quando sono finito qui in questa dimensione. So solo che devo sbrigarmi a tornare, altrimenti non potrò tornare dalla Dea che servo e non potrò proteggerla». Ti interrompesti di colpo nel vedere le sue manine stringere le tue. La guardasti negli occhi e incontrasti le sue iridi accese di una nuova determinazione: «Va bene». Dichiarò infine. 
«Va bene cosa?» Chiedesti, spiazzato, battendo le palpebre. E lei rispose: «Ti aiuterò a fare quello che devi fare».
Adesso fu il tuo turno per mostrarti stupito: «Cosa?»
«Sì, sono seria, voglio aiutarti».
«Ma se non ti ho neanche detto in che consiste il rito».  
«Ma è per lavare via il marchio di Caino?» Ti domandò e tu la guardasti sbigottito. La bambina alzò le spalle sottili e disse, a mo’ di spiegazione: «Godchild di Kaori Yuki. Io non appartengo alla genia del Caino che fu maledetto, ma a quella del Caino che fu benedetto.» citò con un sorriso smagliante da brava scolaretta e tu, una volta che ti fosti ripreso dicesti: «Ah… sì». Sconvolgente la fantasia degli autori di cui leggeva; non c’era andata tanto lontana. In realtà non avevi neanche la più pallida idea di che cosa parlasse. «Quindi che rito devi fare?» Chiese interessata e, a questo punto, tu pensasti, spaventato: “Eh, no, adesso è troppo!” Pertanto replicasti, cercando di provare a farla ragionare: «Scusa se te lo chiedo, ma non dovresti avere paura, a questo punto?»
Lei batté le palpebre confusa: «No, perché, dovrei?»
Gli occhi minacciarono di uscirti fuori dalle orbite quando replicasti, sarcastico: «Secondo te? Sono praticamente uno sconosciuto che è piombato nella tua vita da un giorno all’altro e tu gli dai tutta questa fiducia da ospitarlo nella tua casa? Che ne sai che non sono uno stupratore o un malintenzionato? Cosa ne sai che non ti stia prendendo in giro dall’inizio alla fine? Che non aspetterò il momento buono per ucciderti io stesso? Credi forse che sia un gioco?» A queste parole la vedesti guardarti orripilata e tu sospirasti: «Atalanta, ti ringrazio per tutto quello che hai fatto finora per me, ma guarda in faccia la realtà, in questi tempi non puoi fidarti di nessuno, tantomeno di me. Non hai nemmeno idea di quanti pericoli io possa attirare con la mia sola presenza qui».
«Ma…»
La prendesti per le spalle e rinnovasti il tuo rifiuto: «No. Toglitelo dalla testa, non ti ho confidato queste cose perché voglio il tuo aiuto; sei solo una bambina e io sono un adulto, devo pensarci da solo, non posso mettere a repentaglio la tua vita più di quanto già non sia probabilmente a causa mia, lo capisci? Hai già rischiato grosso due volte a causa mia, non voglio che tu finisca ammazzata. Non provare neanche a fare paragoni tra me e te, io sono un Gold Saint, sono addestrato a situazioni peggiori e hai visto anche tu di cosa sono capace. Io sono pericoloso». Sibilasti tuffando i tuoi occhi nei suoi, adesso atterriti e non ti sfuggì il suo tentativo di ritrarsi alla tua presa. Chinasti la testa e sospirasti, lasciandola andare, ma lei non si mosse: «Mi dispiace, davvero, ma cerca di capirmi, non puoi chiedermi questo, non so se riuscirei a portare a termine il rito e proteggere anche te».  
La bambina non disse niente, si limitò a fissarti. Poi, si alzò e se ne tornò in casa, lasciandoti lì. Ti schiacciasti una mano sulla faccia e ti desti dello stupido. L’avevi spaventata più del dovuto. Volevi solo metterla in guardia e, si era appena data alla fuga.
Perfetto.
La tenesti d’occhio per sicurezza tramite il Cosmo, mentre ti spostavi sotto il salice e appoggiavi la testa al tronco d’albero, dandogli dei lievi colpetti, maledicendo la tua stupidità. Anche se erano bambini erano comunque armati e ti eri appena compromesso. Bene.
Attendesti con pazienza che i tuoi cacciatori venissero a prenderti. Ma non successe niente. Per tutto il tempo, non facesti altro che ascoltare il suo Cosmo allontanarsi e fermarsi in un punto, dove lei sfogò il suo dolore e il suo terrore. Poi, sentisti la sua rabbia e le ondate sferzanti che il suo Cosmo emanava. Come se stesse prendendo a pugni qualcosa e come se gridasse. E tu quelle grida le sentisti tutte, con le orecchie dello spirito. Poi piano piano, si spense e nel suo animo tornò la calma più assoluta. E, tornò indietro a casa. Però, durante il tragitto, intercettasti quattro Cosmi ostili. Ragazzi, che attaccarono briga con lei. Ti alzasti di scatto e corresti a vedere che cosa stesse succedendo, orientandoti con il Cosmo. Sentire, in fondo non attirava le Creature, anche se la loro presenza era sempre incombente.    
Arrivasti all’angolo di una casa a tre isolati di distanza da qui e ti sporgesti quel tanto che bastò per non farti scoprire. Erano quattro ragazzi più possenti di lei che la stavano prendendo in giro. Uno di quelli le strappò di mano qualcosa. «No, fermati, quello è mio, ridammelo!» Ma l’altro le sghignazzò in faccia e lo gettò in terra e lo sfidarono a raccoglierlo. Tu fiutasti la trappola immediatamente, ma lei no e, così, una volta chinatasi, cominciarono a prenderla a calci e a calpestare l’oggetto della discordia. Altri invece le urlarono insulti irripetibili sulla sua famiglia.
Stringesti lo spigolo del muro con una mano come a fermarti e finisti per affondare le dita nel cemento armato, che si sbriciolò sotto al tuo tocco. Come osavano maltrattare una ragazzina invece che starle accanto ed esserle amici? E, tu, perché non ti muovevi? Perché se tu l’avessi fatto avresti peggiorato la situazione in futuro. Questa decisione però ti pesava e, dentro di te, ti ribellavi e sbraitavi. A malapena riuscisti a tenere a bada il tuo Cosmo, che cominciò a ribollire. 
Quello che aveva calpestato l’oggetto cominciò a ridere e a strusciare il piede indietro: «Guarda che fine fanno i tuoi preziosi manga!» La sbeffeggiò.
«Sì.» sghignazzò un altro e il leader infierì di nuovo: «Così non potrai più lanciare incantesimi, strega».
«No!» Urlò e, con uno sforzo di cui non la credevi capace, si liberò dei tre e si scagliò sulla gamba del ragazzo che, con un balzo indietro la evitò. Solo allora capisti che il suo bersaglio non era mai stato aggredire lui, ma salvare il manga. Infatti lei lo raccolse e se lo strinse al petto. Il bulletto, ripresosi dallo spavento, rise.
«Ehi!» Intervenisti e i ragazzini si fermarono. Atalanta sussultò e girò il capo verso di te: «Saga!» Esclamò sorpresa. «No, Saga, torna indietro!» Ma tu non l’ascoltasti, il danno era fatto, saresti andato fino in fondo.
Non avesti bisogno che di qualche passo e domandare che cosa stesse succedendo per farli scappare a gambe levate. Raggiungesti così la tua conoscente e le domandasti, accovacciandoti accanto a lei, che non si era ancora rialzata: «Chi erano, quelli?» Però lei non rispose subito. Allora ti chinasti a raccogliere il fumetto che avevano gettato a terra e ne osservasti la copertina. Era un manga, una storia di cappa e spada molto simile alla tua, a giudicare dal ragazzo con l’Armatura del Sagittario e una freccia tra i denti in copertina. Quasi ti scappò una risatina, non immaginavi che foste diventati popolari a tal punto da diventare oggetto di un manga. Lo ripulisti alla bell’e meglio dal fango e glielo restituisti. «Tieni».
«Grazie». Dopodiché si rialzò da sola tenendo lo sguardo basso. «Atalanta». La richiamasti, rialzandoti a tua volta. Lei ti guardò. Sembrava sul punto di scoppiare a piangere. «Volevo chiederti scusa, per prima, sono stato troppo duro con te». La ragazzina strinse il volume tra le mani e si morse il labbro come a trattenere un gemito di pianto, prima di tuffarsi tra le tue braccia e stringerti a te, lavandoti la maglietta con le sue lacrime. Restasti stupefatto da questo slancio. «Che cosa hai fatto? Saga, che cosa hai fatto? Che cosa hai fatto?» Ripeteva come un’ossessa. «Non potevo lasciare che ti trattassero così, perché non ti sei difesa?» 
«No… dovevi, invece, dovevi. Non…».
Ricambiasti la sua stretta posandole una mano sulle scapole e l’altra sulle spalle: «Non dovresti mortificarti così, su, smettila di piangere, su, va tutto bene, è tutto a posto, non è successo niente». Cantilenasti strofinando la tua mano sulla sua schiena e poi spostasti l’altra sulla sua testa.
«Ma adesso, adesso tu sei compromesso e…»
«Me la so cavare, non importa, l’importante è che adesso tu stia bene». La discostasti da te per guardarla negli occhi. Lei tirò su col naso e poi estrasse un fazzoletto dalla manica della camicia e si soffiò il naso e si tamponò le lacrime con un angolo del medesimo. «Su, non piangere, adesso è passato. Va tutto bene? Niente di rotto?» Anche se sicuramente sulla sua pelle sarebbero comparsi dei lividi. Lei scosse il capo e tu domandasti: «Il tuo manga è a posto?»     
«Sì, è solo un po’sporco». Disse con voce ancora tremula.
«Bene».
«Mi dispiace, Saga, non sarei dovuta scappare così».
«Ma che dici? Hai fatto bene, invece, chiunque si sarebbe spaventato sentendosi dire quelle cose, è una reazione più che naturale...» Ma lei t’interruppe: «Ma ora loro sanno che sei qui, non ci metteranno molto per arrivare!»
«Allora non facciamoci trovare, no? Piuttosto, perché prima ti hanno chiamato strega? Su, avanti, a me puoi dirmelo, non sono così impressionabile».
«Perché ogni volta che leggo qualcosa, qualcuno muore». Rispose lei con una vocina piccola piccola. E tu strabuzzasti gli occhi. «Scusa?» Avevi capito che era per il suo aspetto, non per questo.
«É così. All’inizio sembravano solo coincidenze, poi, è stato… come entrare in un film, come in Ink, cuore d’inchiostro, ma poi la città si è svuotata e hanno dato la colpa a me. Prima mi sono accorta di essermi portata dietro questo». Te lo mostrò, era uno dei numeri di Death Note. «Lo stavo per riportare indietro».
«Allora riportiamolo indietro, così almeno non te lo stracceranno». Suggeristi.
«Sì, hai ragione».
E, così, l’accompagnasti, vigilando anche per lei, fino a un vecchio magazzino in disuso. Lei prese una chiave dalla borsetta che portava a tracolla e aprì. Poi ti fece cenno di entrare e ti ritrovasti in una sorta di paradiso dell’otaku, così avevi sentito dire che si chiamavano gli appassionati. C’erano poster alle pareti, disegni, murales e ai tuoi piedi manga su manga impilati uno sopra l’altro, disposti in scaffali.  
«Ma, sono tantissimi».
«Sì».
«Come hai fatto a trovarli?»
«Alcuni sono miei, altri erano dei miei amici. Una volta questa era la fumetteria del paese. Era molto fornito per essere un negozio di paese. Quando sono arrivate le Creature il proprietario è stato ucciso. È stato il primo a morire, le chiavi me le ha date sua figlia, prima che anche lei facesse la sua stessa fine, da allora io proteggo questo posto. Una volta anche qualcun altro mi aiutava ma poi sono morti, anche loro uccisi e io sono rimasta sola. Poi, la zona è stata messa in quarantena. Finché mio fratello maggiore era ancora qui, abbiamo raccolto tutti i manga che potevamo, per evitare che finissero distrutti dai vandali». Sfiorò una colonna impilata accanto a sé e continuò: «Io e mio fratello maggiore collezionavamo manga. Io stessa mi vesto come Misa Amane di Death Note.» Spiegò portandosi entrambe le mani dietro la schiena. «Mio fratello aveva solo cinque anni più di me. Un giorno ha preso l’autobus e non è più tornato. Non so cosa possa essergli successo, non risponde al telefono, è irrintracciabile, per questo ogni giorno andavo alla fermata dell’autobus ad aspettarlo, ho spesso pensato di raggiungerlo, però non ho mai avuto il coraggio di salire. Non so neanche dove era diretto».
La sua storia ti ricordò tristemente quella di Aiolos e Aiolia. Te lo ricordavi, no? Quanto avesse lottato quel bambino per non separarsi dal suo adorato fratello maggiore. All’inizio Aiolia aveva odiato le Sacre Vestigia e quello che rappresentavano, pensava che un giorno gli avrebbero portato via l’unico membro della sua famiglia rimastogli. Così, quando aveva capito che invece, potevano essere l’unica cosa a ricondurlo da lui, si era impegnato e, a sei anni, aveva risvegliato il Settimo Senso ed era diventato il Gold Saint del Leone. E, alla fine, si era ritrovato di nuovo separato da lui. Ma vedevi qualcosa di simile anche tra te e Kanon. Separati da un’Armatura d’Oro, un’altra volta, soprattutto da quella, non solo una maledizione che aveva costretto il Venerabile a prendere provvedimenti. Aveva creduto di aver individuato il “demone” in Kanon, ma si era sbagliato. E tu, non avevi avuto il coraggio di proteggerlo. La stessa, che aveva portato Paradox e Integra ad allontanarsi l’una dall’altra. Forse c’era davvero una maledizione su di voi fratelli.   
Come Shoko e Kyoko avevano lottato per infrangere il loro destino avverso, combattendo anche per te e Kanon e per Aiolos e Aiolia, questa giovane combatteva anche per loro. L’avevano presa per una sorta di capro espiatorio senza accorgersi che lei era ciò che compensava la loro piattezza e la loro omologazione.
Qui non c’erano Armature, ma solo una passione in comune, un ponte, che collegava ancora due fratelli. Era come se foste tutti maledetti.
«Perché continui a collezionarli?» Chiedesti, cercando di spostare l’argomento su qualcosa di più leggero.
«Colleziono manga perché mi piacciono quelle storie, perché leggendole mi sento bene. I miei preferiti sono quelli della saga di Devilman di Go Nagai, anche se sono un po’spinti. Ma i migliori sono quelli rari, che non si trovano spesso a giro, come La fenice di Osamu Tezuka. A volte, mi piace pensare che alcune delle cose che scrivono siano vere. Sai lì ho trovato la consolazione e la forza che mi servivano quando ero triste. Ma adesso è strano, guarda queste pagine».
Sfogliasti le pagine del volume che ti porse e vedesti che non solo era la vostra storia, ma che erano tutte sbiadite. Avresti detto che era per effetto dell’usura del tempo, ma le pagine non erano ingiallite. «É come essere dentro La Storia Infinita e io ho paura, ho tanta paura. Ogni volta che apro questi volumi io… Qualcuno, qualcosa scompare ancora». Disse spaventata e tu la rassicurasti dicendo: «Non è colpa tua, tu non c’entri niente, è solo una coincidenza». 
«Sei sicuro?»
«Più che sicuro, se tu avessi una dote del genere allora sarebbe già finito tutto da un pezzo, guarda quanto sono consumati questi manga, si vede che li leggi e li rileggi continuamente».
«Allora, io non sono maledetta?» Chiese speranzosa.
«No, tu non hai niente, te lo posso garantire».
Si portò una mano al cuore e sospirò, rinfrancata: «Grazie, Signore, grazie». Poi ti guardò e domandò, dubbiosa: «Ma allora tutte le cose che stanno succedendo? Tutte quelle morti? Quella specie di Dissennatori?»
«Quelle Creature sono la causa di questo disastro, tu non c’entri niente, non hai evocato niente di niente, è solo una coincidenza. A quanto pare sembra che tu legga in concomitanza con alcuni avvenimenti. É sempre successo, solo che prima non ci facevi caso». Poi, aggiungesti. «Atalanta, dovresti metterti in testa che non ti sentirai mai dire quello che vuoi, ma che è più facile sentirsi dire quello che è giusto».
«Stai dicendo anche tu che sono una stramboide persa nel suo mondo? Sei d’accordo con loro?» Oddea, un’altra tempesta ormonale no, per carità. Ti affrettasti a rimediare: «No, io sono un uomo adulto, non sono d’accordo con loro. Ma credo che dovresti pensare anche al mondo reale». Già il fatto che ti ospitasse così a occhi chiusi non ti piaceva molto. Già lo sconsigliavi alle donne in generale, a meno che non fossero receptionist di un albergo o locandiere o comunque in possesso di conoscenze d’autodifesa.
«Disse quello uscito da una leggenda». Ribatté lei con una sicurezza disarmante.
«Sì, ok, non giudicarmi dal mio aspetto esteriore, per favore». Ci mancava solo un’altra tempesta ormonale ed eri sicuro che non avresti retto ancora a lungo. «Dico solo che di questi tempi sarebbe meglio non aprire a nessuno, capisci quello che intendo?»
«Sì, lo capisco». Però ti abbracciò lo stesso e tu, le posasti una mano sulla testolina, a disagio. «Grazie lo stesso, per tutto». Ma se non avevi ancora fatto niente, a parte piombare nella sua vita tra capo e collo. Si scostò da te e ti prese per un polso, mostrandoti quello che stava realizzando. E restasti stupito dalla bellezza dei murales. Erano un trionfo di prospettiva. Aveva dipinto delle illusioni. Fino a questo momento non sapevi che fosse possibile dipingerle, tu, che ne eri il signore assoluto. «Li hai fatti tu?» Chiedesti indicando la parete dove spiccava quel paesaggio fantastico, che sembrava uscito da un libro di favole. Non pensavi che potesse fare cose come queste. «Sì, ci sto lavorando da un pezzo». Rispose orgogliosa. Poi ti mostrò altre tele dipinte da lei stessa. In una riconoscesti la storia di Re Artù alla testa dei Cavalieri della Tavola Rotonda e Sarmati, con i Pitti dalle membra dipinte di blu, che uscivano da volute di fumo. Riconoscesti il film del Duemilaquattro che Shura ogni tanto si riguardava. Poi passasti a un’altra tela.
In uno Jack Sparrow appeso alle sartie della nave, che puntava la pistola verso l’osservatore, con un sorriso beffardo dipinto in volto. Uno di quelli da mattacchione innocuo, che da assassino provetto come Death Mask. Non ne capivi un accidente di arte, questo era risaputo. Ma questo, tutto questo, era bello, genuino. Non pensavi che le persone potessero realizzare opere d’arte come queste.
Solo che adesso stavi cominciando a domandarti se fosse la cosa giusta interrompere il rito. Era evidente che questa ragazzina aveva bisogno di aiuto. 
Non capivi soltanto una cosa: perché ti mostrava tutto questo? Un momento, te l’aveva detto prima. «Dimmi un po’, tu non hai molti amici, vero?» Le domandasti un po’a disagio dalla sua manifestazione d’affetto. Capivi anche tu di essere un bell’uomo, ma eri decisamente più vecchio di lei, non avevi tempo e non eri interessato alle ragazzine. Era il duemiladiciannove, dopotutto. Se non te la togliesti di dosso fu solo perché non eri sicuro di riuscire a controllare la tua forza. Dopotutto tu eri pur sempre un Saint e lei una civile.
«In effetti no, in città tutti mi considerano una stramboide». Ammise imbarazzata. Evitasti di dirle che a quell’età persino un paese di ottant’anime può sembrare un mondo intero. Dopotutto sulla Terra eravate otto miliardi di persone, quasi nove. Adesso in forte diminuzione. Stando alle stime dovevate già essere almeno quattro miliardi solo in quest’ultimo anno. Non era mai successa prima una strage di queste proporzioni.    
«Dove sono i tuoi genitori?» Le domandasti girandoti a guardarla e lei si rabbuiò. «La mia famiglia è stata sterminata da quegli spettri neri». Rispose in tono mesto. La guardasti comprensivo, mettendo in ordine i tasselli. E da allora cercava consolazione e risposta nei manga. Era intelligente. Pur non essendo direttamente coinvolta aveva capito che se c’era qualcosa, la poteva trovare in queste storie, perché a volte è proprio la fantasia ad arrivare dove la ragione si ferma. Avresti tanto voluto rispondere alle sue domande, darle delle risposte, ma non avevi voluto. Non volevi che finisse coinvolta nel tuo mondo, non più di quanto già non fosse.
Ma come?
Mentre cercavi di farti venire un’idea, passasti a un’altra tela e vedesti una ragazza bionda con le mani tese verso di te, che ti porgeva una luce, mentre emergeva dalle tenebre. Quella ragazza ti ricordò Astrid. Aveva la stessa espressione determinata e coraggiosa. Era come se stesse lottando per scacciare le tenebre che l’avvolgevano. Per un secondo ti parve che gli occhi della figura stessero guardando proprio te. Come stesse veramente passandoti il piccolo globo di luce tra le sue mani. Avesti anche la tentazione di tendere la mano e riceverlo, ma la figura non si animò mai e, tu finisti per toccare solo la tela. «Ti piace». Costatò la sua creatrice in piedi accanto a te.
«É molto espressivo». Dicesti, senza staccare gli occhi di dosso al dipinto.
«Se lo vuoi posso regalartelo».
«No, meglio che resti qui, anche perché non saprei dove metterlo». Spiegasti rimettendolo giù. Lei non parve essersela presa troppo.
In quel momento udiste un rombo di motori all’esterno ed entrambi vi precipitaste fuori. Ti spostasti la ragazzina dietro la schiena. I cacciatori di faine vi avevano trovati.
Ma Atalanta si scostò da te e corse loro incontro urlandogli di fermarsi. Ottenendo come risultato che presero a girare attorno a lei. A un tratto uno di loro si staccò dal gruppo e si lanciò verso di te. E ti venne istintivo scostarti, ma quello non demorse e, capisti che stava per condurti in mezzo al cerchio dove i suoi compagni avevano intrappolato la tua ospite.   Se non fossero stati tutti ragazzini urlanti ed eccitati (neanche fossero sotto l’effetto di chissà quale droga) a cavallo delle loro moto da cross e motorini e che sparavano per aria costringendovi a tapparvi le orecchie, li avresti rimessi in riga seduta stante.
Ma non potevi alzare le mani contro dei civili e, quelli, per te, lo erano, anche se erano messi peggio dei Bimbi sperduti di Peter Pan (anche al Santuario vi raccontavano le favole). Il tuo primo istinto fu quello di proteggere Atalanta e, pertanto ti chinasti su di lei per farle scudo con il tuo corpo. Le provocazioni che vi urlarono tra uno sparo e l’altro, invece, te li fecero guardare male. «E questo vecchio chi è?», «É il tuo ragazzo?», «Ma guardateli, alla strega piacciono quelli più vecchi», battuta cui seguirono delle risate. E la tua ovvia occhiataccia. D’accordo, anagraficamente parlando avevano ragione, ma tu di tutti quegli anni avevi vissuto solo la metà e forse neanche quella.
Intanto a causa dello smog cominciavate a tossire entrambi. La tua ospite si aggrappò a te, ma a quella provocazione cominciò a inveire anche lei, per la gioia delle tue orecchie. «Castore, Polluce, Iolao, Nestore, Peleo, Mopso, smettetela!»
«Basta!» Urlasti a tua volta, ma nessuno ti dette retta. Proprio allora arrivò una macchina da cui scesero altri ragazzini tra cui, un tizio che non avrà avuto più di diciassette anni che si atteggiava a padrone del mondo. Si piazzò davanti a te a gambe larghe e braccia incrociate, una cicca che gli pendeva dall’angolo della bocca. Aveva i capelli ricci e rossi e arroganti occhi verdi. Ti squadrò con disprezzo ricordandoti molto Death Mask e, come molte volte con il tuo compagno, ti venne voglia di correggerlo a suon di sberle. Ma ti limitasti a sostenere il suo sguardo come a dire: “Dovrei aver paura di te?” Ma era anche vero che questi erano armati e che tu non avevi con te la tua armatura. Meno male che la belva sembrava molto lontana, altrimenti non eri sicuro di poter rispondere delle tue azioni. 
«Allora è questo l’uomo di cui parlavano i bambini?» Domandò retorico scrutandoti.
«Lelex, lascialo stare, è finito qui per sbaglio, se ne andrà subito».
«Atalanta, dovevo immaginarlo che c’eri tu dietro, non hai mai osservato la Legge e sai che cosa succede a chi trasgredisce».
«Saga è solo di passaggio, era ferito, non potevo lasciarlo in mezzo alla strada».
«Hai fatto entrare un adulto! Un estraneo!» Sbraitò il moccioso avanzando di un passo e tu stringesti a te la ragazzina facendole da scudo con il tuo corpo. «Non nasconderti, vigliacca, vieni fuori! Hai infranto la Legge un’altra volta, come la mettiamo adesso? Vuoi davvero essere cacciata? Non pensi che adesso chiamerà le autorità?»
La piccola si appigliò a te in cerca di conforto e tu, a quel punto reagisti: «Smettila di urlare, la spaventi».
«É bene che si spaventi, questa mocciosa insolente, non fa altro che metterci nei guai. E tu chi sei? Come sei arrivato qui? Che cosa vuoi da noi?». Ringhiò.
Trattenesti l’impulso di prenderlo per il colletto della maglia e alzarlo da terra. Ricordasti a te stesso che erano solo dei ragazzini indifesi rispetto a te. Non si sarebbero accontentati di un ordine o qualcosa di simile, necessitavano anche delle spiegazioni che ritenevano accettabili. «Io da voi non voglio niente, neanche sapevo che esistevate fino a ieri, è come dice Atalanta, sono finito qui per sbaglio».
Il tuo interlocutore si accigliò: «Il tuo accento è diverso, non sei di qui, di dove sei?»
«Italia». Mentisti e la ragazzina tra le tue braccia ti guardò sbalordita. Tu la ignorasti e non distogliesti lo sguardo dal capo del gruppetto. Per tua fortuna, Lelex non era così intelligente, era solo un bulletto senza cervello. Altrimenti avrebbe capito che il tuo greco perfetto era quello di Atene. 
«Che cosa sei venuto a fare qui?» Ti chiese.
«Sono un marciatore, faccio trekking, ma ieri sono caduto in un crepaccio e se non fosse stato per Atalanta non sarei qui. Lei non c’entra niente, la colpa è della mia disattenzione, la vostra compagna mi ha solo curato e ospitato, voglio solo ripartire e tornarmene a casa mia. Non sono interessato a rivelare l’esistenza di questo posto a nessuno, non voglio avere grane». Lui provò ad avanzare minaccioso verso di te, ma si arrestò immediatamente, quando si accorse che tu lo superavi di una trentina di centimetri buoni e che, eri anche più grosso di lui. Inoltre, tu avevi il carisma e la sicurezza che lui non possedeva. Infatti si arrestò immediatamente. Cercò in te un punto debole, ma il tuo sguardo gli impedì di staccare i suoi occhi dai tuoi. Gli incutesti tutto il timore di cui eri capace ed esigesti silenziosamente, tutto il rispetto che ti doveva.
Erano regrediti allo stadio di selvaggi e, in questo, non erano troppo diversi dal tuo compagno di Cancer. Grazie a lui sapevi come trattare con questi individui, anche se erano solo ragazzini. Anche se ti sembrava che il libro di William Golding avesse effettivamente preso vita. Era quanto di più terribile che potesse accadere.
Soprattutto per Atalanta. La tua permanenza qui era stata etichettata come una minaccia e aveva reso la tua ospite un bersaglio, ancor di più di quanto non fosse già prima.
Anche se ti avevano minacciato di ucciderti con le armi che probabilmente erano appartenute ai loro genitori o ai loro nonni, niente potevano contro di te. Se la cosa da un lato ti suscitava un leggero timore, dall’altro neanche ti tangeva; in fondo potevi muoverti a velocità che neanche si sognavano, per te era uno scherzo evitare quei proiettili. L’unica cosa che ti preoccupava era di dover alzare le mani a torto su di loro. Erano solo dei civili, mentre tu eri un militare. Alla fine, lui si piegò e dichiarò, con una smorfia di disgusto: «E sia, potrà restare, ma solo per oggi, e poi dovrà sloggiare».
«D’accordo».
«Raccogli le tue cose e non farti più vedere». Berciò Lelex all’indirizzo della ragazzina, calciando uno dei frutti. Poi rimontò in macchina assieme ai suoi scagnozzi e le guardie sgommarono via. L’ultimo ad andarsene fu proprio Lelex.
«Tu hai veramente intenzione di andartene?» Ti chiese la piccola Atalanta.
«Mi prendi in giro? L’ho detto soltanto per rabbonirlo. Purtroppo, non posso andarmene così facilmente anche se lo volessi».
«Perché no?» Chiese lei mentre raccoglieva la frutta e la rimetteva nel sacchetto, guardandoti. «Perché ho scandagliato tutta l’area con il mio Cosmo stamattina e non ho percepito alcuna traccia del portale che mi ha portato qui».
«Puoi davvero farlo?» Non rispondesti e lei lo prese per un assenso.
«Su, adesso andiamo a casa, devo cambiarmi le fasciature». La tua protetta (ormai potevi considerarla così) ti parve un po’ delusa dal tuo rifiuto di aprirti, però non si oppose. Chiuse la porta del magazzino a chiave e andaste.
Per tutto il tragitto aveva cercato di farti delle domande, ma le erano morte ancor prima di abbandonare la sua bocca. Altre invece erano rimaste intrappolate nella sua gola e, altre, nella sua testa. Non ti serviva il Cosmo per questo, bastava solo un po’d’attenzione. Era ovvio che adesso lei ti vedesse come il suo eroe ed era ovvio che volesse saperne di più, ma tu non eri in vena di risponderle. Perché farlo significava avvicinarla ancor più al tuo mondo e, lei, meno era vicina, meglio stava. Non avresti sopportato di vedere anche lei tra le fila dei soldati della Dea o ammazzata come Astrid. Anche perché non percepivi nessun Cosmo rilevante, in lei. Se tu l’avessi portata con te, avresti solo finito per ingrossare le fila dell’esercito normale. Per non parlare del dolore che le avresti arrecato anche in futuro. Non potevi sopportarlo.
Arrivati a casa, lei esplose in un: «É stata una figata! Sei stato fortissimo, prima!» Che ti fece trasalire. Ti girasti verso di lei e la guardasti contrariato: voleva farti prendere un colpo? Ma lei ignorò la tua espressione torva e continuò a guardarti con occhi luccicanti di ammirazione. «Non ho fatto niente di speciale, ogni persona l’avrebbe fatto».
«Non qui».
«Se qui non fossimo in una dimensione distopica, ti assicuro che sarebbe stato lo stesso».  Adesso pensavi seriamente che Shura fosse molto più aperto di te e disposto a trattare con i ragazzini. A te stava per venire un’emicrania. Non eri portato per stare a contatto con le giovani generazioni, non lo eri. Non con quelle così burrascose come quella di Atalanta. La quale ti guardò confusa: «Dimensione distopica? Ma di che parli?»
«Come altro dovrei definire questo posto, scusa?» Domandasti mentre ti sedevi al tavolo e cominciavi a svolgerti la benda sul polso. Le ossa si stavano risaldando, ma tu eri costretto a sopportare il dolore, perché, purtroppo, avevi bisogno di entrambe le braccia. E, lo stesso valeva per il dolore alla gamba lesionata.
Lei si avvicinò al tavolo: «Scusami, ma dove credi di essere?»
«Non tanto il dove, ma anche il quando».
Lei prese a tastarti la testa. «Che cosa fai?» La sua risposta fu: «Cerco il bernoccolo che ti sei procurato durante la caduta. Non vedo altra spiegazione del perché tu debba pensare di essere in una dimensione a parte e in un altro tempo». Scostasti la sua mano dalla tua testa, senza cattiveria, ma con fermezza e lei strinse la bocca, timorosa di averti fatto del male. Ma tu non ci desti peso: «Cosa?»
«Sì, qui siamo sulla Terra, in Grecia, in una frazione di Calidone ed è il sei maggio del Duemiladiciannove». Ti rispose lei. Il sei maggio? Tu eri partito la notte del quattro. «Tre anni fa i Saint hanno protetto la Terra da uno sciame di meteoriti e solo pochi mesi fa i Dissennatori hanno provocato danni strutturali all’Acropoli, però nelle immagini si vede, per un momento, una montagna che non dovrebbe esistere, ma l’abbiamo vista tutti. E, da quando ti ho incontrato sto cominciando a pensare che mia nonna non parlasse di fantasmi in senso stretto, ma di voi Saint. Perché pensi di essere in una dimensione parallela?» Aggiunse guardandoti preoccupata.
A questo punto non sapesti più che pensare. Ma le prove erano evidenti, ti aveva elencato dei fatti realmente accaduti, fatti che potevano essere successi solo qui. Avevi creduto che fosse una distopia, ma non avevi mai pensato a cosa potesse essere accaduto ad alcune zone esterne al Santuario, a paesini dimenticati dagli Dèi come questo. Tuttavia ancora non ti tornava, perché eri intrappolato qui? Perché non eri riuscito a tornare indietro quando eri tornato alla montagna? Era per via delle ferite? Perché non avevi bruciato il Cosmo con tutte le tue forze? No che non potevi, eri costretto a usarlo a intermittenza e pochissimo per evitare che le Creature ne fossero richiamate come squali dal sangue di una carcassa.
Ma se non fossi mai stato buttato fuori? Se finire qui facesse parte del rito? Allora perché nessuno dei Saint che partivano per compierlo ne parlava mai?  
Atalanta ti richiamò al presente domandandoti se andasse tutto bene, però tu non la calcolasti neanche e uscisti in giardino.          
Ti sedesti sotto il salice che teneva nel suo giardino, poco curato rispetto a come doveva essere prima, ma molto più di tutto quello che si vedeva in giro fuori della sua staccionata. Chiudesti gli occhi, appoggiando la tua schiena al tronco dell’albero. Quello che volevi fare non avrebbe chiamato le Creature, ma avrebbe permesso a te di farti un’idea più precisa del posto in cui ti trovavi.
Era appena arrivata l’alba del terzo giorno e tu, stavolta, non avevi dormito. Avevi passato tutta la notte a riflettere. Alla fine la ragazzina era riuscita a trascinarti in casa e a mangiare qualcosa. Avevi passato l’intera cena e l’intera sera assorto nelle tue riflessioni con un ardore che solo Shaka poteva eguagliare.
Però più ci pensavi più ci trovavi un senso. Tutto. Non era un caso che tu fossi giunto fin qui. Non eri stato buttato fuori dalla corsa come avevi creduto. Eri solo stato spedito nel luogo dove avresti potuto trovare un cinghiale. E, che cinghiale!
Ti schiacciasti i palmi sugli occhi e scoppiasti a ridere di te stesso. Come avevi fatto a non capirlo subito? Venivi ospitato nella casa di una ragazzina che si chiamava Atalanta, in un comune che era praticamente una frazione di Calidone e Lelex era il nome di uno dei cacciatori che parteciparono alla caccia del cinghiale Calidonio! Dunque quei vandali e questa ragazzina erano coloro che avrebbero dovuto aiutarti? Aveva un senso. Il senso, finalmente lo vedevi, solo che non ti eri accostato al rito con lo spirito giusto. Non era con gli occhi della disperazione che avresti dovuto andare, bensì con quelli del fedele. Qui non si trattava di razionalità, qui si trattava di credere.
Più coincidenza di così si muore. «Sei un deficiente». Mormorasti a te stesso, ancora disteso sul letto, togliendoti le mani dagli occhi.
Ed era anche ora di guarirti le ferite. Non eri proprio un genio, ma sapevi dove si trovavano le tue seimei ten, perciò, facesti pressione su quelle e attendesti che facessero il loro lavoro. Ovvio che anche tu le conoscevi, solo che non v’eri mai ricorso perché, finora, non c’era mai stata una vera e propria necessità. Saresti dovuto essere al meglio delle tue possibilità, se volevi portare a termine questo rito.
Mentre il tuo corpo si rigenerava chiudesti gli occhi e, ti prendesti finalmente, il tuo meritato riposo, ritornando alla tua forma animale. Così, in caso i cacciatori di faine fossero tornati, avrebbero trovato una civetta al posto tuo.
Finora non avevi mai benedetto la tua rinascita in queste sembianze animali, ma ora sì, la benedivi eccome. Non avevi ancora trovato l’occasione giusta per sfruttarla appieno.   
Quando ti svegliasti era ormai tardo pomeriggio, l’ora in cui le civette si destano e, vedesti la porta aperta. Tu ricordavi di averla chiusa. Probabilmente era stata Atalanta, era venuta a controllare che tu te ne fossi andato. Ma non doveva aver guardato bene, perché tu c’eri, sul cuscino, ma c’eri. 
Arruffasti le penne e sbattesti le ali. Non provasti alcun dolore. Anche la ferita alla zampa era guarita perfettamente.
Ti alzasti in volo e raggiungesti la tua ospite che stava trafficando in cucina.  
La ragazzina lanciò un urlo e si girò di scatto, facendo cadere il piatto che stava lavando nell’acquaio. Si schiacciò contro il medesimo e ti fissò con due occhi grandi così.
«Non gridare o attirerai tutto il circondario». L’ammonisti, posandoti sul tavolo. «Scusa se ti ho fatto credere di essermene andato, ma pensavo che così avrei dato meno nell’occhio e, i tuoi amici, dovrebbero esserci cascati, no?»
«Saga?» Domandò lei incerta, ancora schiacciata contro il piano della cucina.
«Sì». Se tu avessi potuto sorridere, l’avresti fatto. Ti fece, invece, una strana impressione non sentire più i tre topolini sulla tua testa parlare. Adesso se ne stavano zitti.
«Come... che ti è successo?»
«Lunga storia, lascia perdere».  Tagliasti corto e lei rispettò il tuo comando con un: «D’accordo, se lo dici tu».
«Non ti eri accorta che la mia roba è ancora in camera?» Le domandasti, colto da un dubbio, mentre si sedeva lentamente davanti a te, ancora con gli occhi che minacciavano di uscirle dalle orbite.
«No». Ammise, fissandoti incredula. Decidesti di non fare troppo caso al suo sguardo. La strada della riuscita, a quanto pare, la indicava lei. Bè, dopotutto avevi chiesto tu un segno e chi meglio di una ragazzina che portava il nome della principessa cacciatrice avrebbe potuto supportarti in quest’impresa? Perciò andasti subito al nocciolo della questione.
«Atalanta, vorrei che tu facessi una cosa per me». Lei, ti guardò incuriosita e anche un filo intimorita. «Mi sapresti indicare una biblioteca? Devo controllare i giornali».
«Devi proprio andare in biblioteca?» Chiese lei, rilassando le spalle. Come se per un momento avesse dubitato delle tue intenzioni. «Sì, voglio trovare degli articoli di giornali di aggressioni di cinghiali, mi serve per… una cosa importante».
«Per caso ha a che fare con la tua tenia?» Chiese indicandola con il cucchiaio che sollevò dal tavolo per indicarti. E, quella era rimasta, anche se si era adattata a te e, adesso, ti cingeva il collo con il tuo cravattino. La benda che portavi sulla fronte in perfetto stile Aiolos era chiamata così, in Grecia.  
La guardasti stupefatto da questa domanda posta in maniera apparentemente innocente. Ma poi ti ricordasti che era solo una bambina, una civile. Probabilmente doveva averla assimilata a qualcosa di cui aveva letto. «Sì».
«Non ti serve la biblioteca, ti presto il mio telefono». Ciò detto corse a prenderlo e, quando tornò, scusandosi, pose le braccia ai tuoi lati, di modo che tu potessi vedere bene e ti chiese che cosa cercare. Per una volta ringraziasti il progresso tecnologico: era uno di quelli che avevi visto spesso usare ad Astrid e agli altri al Santuario, ma essendo che tu eri costretto la maggior parte del tempo in questa forma, non ti eri mai premurato di imparare a usarlo, né di procurartene uno. Né i tuoi compagni avevano cercato di aiutarti a famigliarizzare con quest’oggetto. Ti sentisti leggermente fuori posto, un po’ come un fossile vivente. O meglio, Redivivo. Ai tuoi tempi i telefoni erano ancora e solo fissi. «Cercami tutti gli articoli di giornale di qui relativi ad attacchi di cinghiali».
«Cinghiali? Perché ti serve una ricerca come questa?»
«Perché devo riportare un auge un mito che ti riguarda».
«Mi riguarda? Io? Perché? Ma io non ho niente di speciale, sono solo una stramboide che colleziona manga e si veste…» Rilevò, indicandosi, stupita.
«Perché tu sei Atalanta». Ti girasti verso di lei e, guardandola negli occhi, la mettesti a parte della tua scoperta: «Non è un caso che io sia finito qui, non è un caso che tu ti chiami così e non è un caso che questo posto pulluli di cacciatori e che sia lasciato allo sbando così. Tu, anche se somigli a Nausicaa, sei la principessa cacciatrice del mito, lo capisci?»
«Ma io non ho mai preso in mano un’arma…» Cercò di farti notare e tu la interrompesti: «Non è questo il punto, neanch’io ho mai maneggiato un’arma» e, accoltellare una culla non valeva di sicuro, «avevo chiesto un segno e non mi ero mai accorto di avercelo sempre avuto davanti per tutto il tempo».
«Quindi significa che dovrò aiutarti a cacciare?»
«No! Certo che no! Questo non cambia la mia opinione di prima, ma devi solo aiutarmi a mettermi sulle tracce di un cinghiale senza essere scoperto».
«Ma le tue ferite?»
«Guarite, però potresti togliermi il filo dalla zampa? Io con il becco non ci riesco».
«Sì, aspetta». Si alzò di nuovo e andò in bagno per tornare con delle forbicine per unghie. Tu sollevasti l’ala e lasciasti che lei, mezzo stesa sul tavolo, prendesse il filo e lo tagliasse. Poi, si raddrizzò e lo sfilò. Poi, tornò al compito iniziale che le avevi dato.      
Così, con un po’di fatica, riusciste a fare la ricerca ti serviva. In effetti si erano verificati anche nel corso degli anni passati. Questa zona era degradata già da ben prima dell’intervento delle Creature. La cosa che ti sorprendeva era che fosse decaduta così tanto. Sembrava quasi di essere finiti tra le rovine di Io sono leggenda, la differenza era che non c’erano vampiri e che a comandare erano i ragazzini.
Un paio di domande pungolarono il tuo cervello: perché il governo non faceva niente? Perché non mandava via i ragazzini? Ti tornò in mente un altro paragone letterario che, durante la tua reggenza (usurpazione) avevi letto tanto, Il signore delle mosche di William Golding. Ma qui eravamo ben lontani dalla lotta per la gerarchia che aveva caratterizzato una delle parti del libro che ti erano piaciute di più. Qui i ragazzini erano passati direttamente alle maniere forti e Atalanta, che ancora continuava a proteggere posti come la fumetteria-magazzino era mal vista. Le scoccasti un’occhiata preoccupata mentre lei ti spiegava tutto quello di cui avevi bisogno di sapere. Ma tu conoscevi il finale della storia e, sinceramente, non gliela auguravi.
Lo stesso non si poteva dire per i ragazzini.
Alla fine mise giù il telefono e domandò, ritraendo le mani: «Dunque cosa pensi di fare?»  
«Che domande, il mio lavoro di Saint». Rispondesti sprizzando gioia da tutti i pori. E, se ci pensavi bene, tu a servirti di ragazzini c’eri abituato, gli scrupoli di coscienza li potevi anche mettere da parte per un po’. Ti sarebbe bastato non metterli troppo in pericolo, ma solo che ti aiutassero, almeno, a circondare l’animale e a impedire che ti sfuggisse.

«Io credo che sia una pessima idea». Ti sussurrò Atalanta, mentre passeggiavate per il paesino. Tu, sulla sua spalla ed entrambi sotto il suo ombrello bianco a schermarvi dai raggi del sole. Sì, ti sentivi ancora a disagio a stare appollaiato sulla spalla di una donna in generale, ma non v’era stata altra soluzione. Considerando che era già anomala di suo, un esserino come te, addosso a lei, passavi quasi inosservato. Un accessorio in più.
Ora che non eri più costretto a restare rintanato in casa sua, lei fu libera di mostrarti il comune. Era effettivamente una città popolata da bambini e ragazzini. I quali, tutti, amavano Atalanta come un tempo Rodorio aveva adorato te. Non solo perché aveva conservato il magazzino, ma perché, aveva fatto sì che i bambini continuassero a studiare, che fossero puliti e al sicuro.  Lei, assieme a un gruppetto si erano prodigati per il loro benessere.
Per la prima volta ti rendesti conto che era considerata quasi una principessa tra la sua gente. I ragazzini erano pronti a fare qualsiasi cosa, per lei. La quale non esitava a sporcarsi le mani per aiutare.  Per esempio, era stata sua l’idea di coltivare i pomodori e di istituire dei turni di guardia per evitare che gli animali razziassero più del dovuto.
Lei stessa aveva contribuito alla costruzione di alcuni recinti. Anche se servivano più che altro per tenere gli animali radunati in un posto. I vari orti che vedesti potevano essere coltivati meglio di così. Addirittura, la giovane, aveva riciclato un vecchio sistema degli scout per procurarsi dell’acqua scavando buche nel terreno, posizionandoci delle boracce e ricoprendo il tutto con un telo di plastica poi mettendoci dei sassi sopra. Un sistema rudimentale, ma efficace, anche se, ti aveva detto, che c’erano voluti diversi tentativi prima di trovare il sasso giusto.  
Ma c’erano anche i risvolti negativi, per esempio, alcuni ragazzi si facevano a causa degli spacciatori che avevano trovato terreno fertile e covo per il loro traffico. E, molti ragazzini erano morti per overdose. Uno dei lavori dei cacciatori di faine era quello di evitare che gli animali dissotterrassero i corpi e li mangiassero.
Nel complesso brulicava di vita, anche se ti si strinse il cuore nel vedere dei bambini giocare in una pozzanghera. Uno di essi ci si lavò le mani e nessuno fece niente per fermarlo. Distogliesti lo sguardo, altrimenti ti saresti fatto scoprire. 
Alla fine ti era servito, solo che lei non lo poteva sapere. «Allora, hai visto quello che ti serviva?» Ti domandò quando foste a trenta metri da casa. L’avevi accompagnata a scuola ed eri rimasto con lei. Non ti aspettavi che ci fosse ancora una scuola qui, anche se erano quelli più grandi a insegnare. Lei si era sentita a disagio tutto il tempo per via della tua presenza, anche se te ne stavi appollaiato su un albero, ben celato dalle fronde.
«No, purtroppo».
«Mi dispiace che il giro si sia rivelato infruttuoso». Si scusò lei. «Non lo è stato, tranquilla, se non altro, adesso ho una vaga idea di come è fatta questa cittadina e dei punti che posso sfruttare».
«Pensi di catturare qui il cinghiale?»
«Non so dove lo catturerò, ma devo prepararmi dei piani per ogni evenienza, perché potrebbe comparire da un momento all’altro».
«Allora secondo me faresti prima ad aspettare la notte, quando tutti sono a dormire, è il momento migliore per gli animali di entrare in città ed è anche il momento migliore per incontrare gli altri cacciatori, se vuoi coinvolgere Lelex e gli altri».
«Sì, hai ragione, oggi non vai alla fermata dell’autobus?» Le domandasti. Anche se era calato il sole e non aveva più molto senso, glielo domandasti lo stesso. Avevi capito che era uno dei suoi riti quotidiani. Lei chiuse l’ombrello ed entraste in casa. 
«Ci sono andata prima che ti svegliassi». Ti rispose imbarazzata e un leggero rossore le colorò le guance. Appese il parasole all’appendiabiti e tu volasti via dalla sua spalla. «Quanto tempo ti avevano dato per portare a termine il rito?» Ti chiese poi passandoti accanto per togliersi le scarpe e mettere le ciabatte.
«Non l’hanno detto».
«Hai ancora intenzione di restare una civetta ancora a lungo?»
«Solo il tempo necessario affinché i tuoi amici non ci spiino». Anche se non avevi rilevato le loro presenze, data la loro mania di esibizionismo e la loro goffaggine, dubitavi seriamente che fossero così previdenti. Era un miracolo che la loro società disorganizzata fosse ancora in piedi dopo un anno.
«Va bene, in caso tu voglia tornare umano e usare il bagno, usa quello di sopra».
«Ci avevo già pensato anch’io». Lei curvò la bocca in un sorriso e poi si mise a preparare qualcosa da mangiare. Pasto che, ti tenne in caldo senza problemi, sicché tu potessi farti una doccia e toglierti di dosso gli ultimi residui di sporcizia.
Mentre ti lavavi, il più velocemente possibile, elaborasti un piano. Non era bene sostare troppo a lungo in questi posti e tu, o almeno una parte di te, se ne era accorta.  
A te ricordò prepotentemente una canzone che avevi sentito canticchiare a Death Mask un pomeriggio di noia. Per svagarti un po’ascoltasti un po’di musica, gentilmente offerta dalla radiolina di Atalanta, un affarino che sembrava un cilindro di plastica fucsia cui aveva collegato il telefono, spiegandoti che casa sua aveva un generatore elettrico ausiliario ma non seppe spiegarti perché; la poveretta non era un ingegnere elettrico o un’elettricista. Poi grazie tante, anche se eri adulto neanche tu sapevi qualcosa di questo. Quindi eri utile quanto lei sotto questo punto di vista. Ecco il limite di un Saint, potrai fargli fare molte cose, ma se gli darai una lampadina in mano e gli dirai di cambiarla, probabilmente andrà nel pallone. Soprattutto tu, Kanon, Aiolia, il compianto Aiolos e anche Shaka, dal momento che voi non avevate niente a che fare con l’elettricità al di là del Cosmo.
Decidesti di concentrarti sulla canzone e ti mettesti a ondeggiare la testolina a tempo.
«E allora balliamo mentre il mondo cade a pezzi,
perché è l’unica cosa sensata in questo mondo di pazzi
».
Ecco cosa sembravano suggerire quei versi che vorticavano nella tua testa, come ammalianti silfidi danzanti.
Stavate mangiando quando sentiste il rumore degli spari. Atalanta sbarrò gli occhi e si gettò sotto al tavolo. Tu la imitasti, ma solo per poco che volasti a cambiarti di sembianze e abiti e corresti in aiuto dei ragazzini. E, trovasti Lelex e i suoi combattere contro altri giovani e spacciatori. «Chi sono?» Chiedesti ad Atalanta, che ti aveva seguito.
«Meleagro, Tosseo, Cipselo, Idas e Linceo con Anfiarao e Teseo».  I restanti cacciatori del mito del cinghiale. Perfetto. «Tu resta qui, mi occupo io di loro». Promettesti e, in tre secondi disarmasti gli avversari e tramortisti gli spacciatori. Ma uno di loro rinvenne e provò a spararti, tu raccogliesti tutti i proiettile senza riportare ferite e poi gliele lasciasti ricadere davanti, ancora fumanti. Questo convinse i delinquenti a fuggire, mentre i ragazzini ti puntarono le armi addosso. «Non fatelo». Consigliasti caldamente.
Proprio allora sentiste il rumore di un colpo di pistola e vedesti il proiettile passarti a pochissimo dal naso per dirigersi verso Lelex. Afferrasti il proiettile e salvasti così il ragazzo.  Quando questi si rese conto che eri tu ti si rivolse con occhi grandi come piattini da tè per lo stupore: «Non è possibile, sei ancora qui!»
«Oh, e sarebbe questo il modo di ringraziare chi ti ha salvato la vita?» Lo sbruffoncello arrossì e distolse lo sguardo. «Da l’ordine di cessare il fuoco e di proteggere i bambini, io mi occupo degli animali». Ordinasti accennando agli spacciatori e i delinquenti che avevano cercato di ammazzarlo.   
«Perché dovrei farlo?»
«Perché sì!» In quel momento arrivarono anche tre cacciatori di faine al suo soldo  e, assieme ai ragazzini rimasti, ti puntarono le armi addosso. Avrebbero anche sparato se non fosse stato per il tempestivo intervento di Atalanta che ti si parò davanti. «Fermi, non sparate!»
«Atalanta!» Esclamarono sbalorditi. 
«Ascoltalo, Lelex!» Fece lei. «Ti ha salvato la vita! Se non ti avesse preso e tolto da lì saresti stato travolto dalla carica!»
«Con che diritto osi rivolgerti a me così, vuoi che ti esilii?»
«Adesso basta, Lelex, stai esagerando! Qui non si tratta di autorità, non mi è mai interessato prendere una posizione diversa dalla mia all’interno della società; si tratta di aiutare una persona in difficoltà! Saga ha bisogno di aiuto e vuole aiutare noi! Non ha intenzione di fare niente di male perché lui è uno dei Saint della Dea Atena, ricordi di tre anni fa? Lui è uno di quelli che ha combattuto per proteggerci e io lo so perché ho visto di cosa è capace! Esiliami pure, se lo desideri, ma sappi che non cambierà niente, non ho più paura del fuori adesso che so che esistono davvero! Con che coraggio vuoi uccidere quello che ti ha salvato la vita? Sei in debito con lui e con me, che l’ho aiutato finora!»
«Non giocare con la mia pazienza». La avvisò minaccioso puntandogli l’arma addosso ma lei, non si scostò, pur tremando dal terrore. «Sì, certo! Bravo, uccidimi pure e poi chi sarà il prossimo, sentiamo! Ucciderai tutti quelli che hanno una visione diversa dalla tua? Avevi detto che saresti stato una guida buona e giusta, non un dittatore! Avevi detto che i dittatori erano la cosa che odiavi di più al mondo! Te ne sei dimenticato? É grazie a te che ho ancora la mia casa e posso condurre la mia vita quasi come prima, ho sopportato le tue angherie e la tua condiscendenza solo per paura,  ma questo! Se questo è il prezzo allora tienitelo pure, non ho bisogno di te! Me la caverò benissimo da sola!»
Abbassò le braccia e gli scoccò un’occhiata truce. Il ragazzo la guardò strabiliato. Poi si ricompose e mise su un’aria di scherno: «Non dirai sul serio».
«Sì che dico sul serio e, sai bene che le persone hanno sempre avuto più simpatia per me che per te. Tu avrai anche i cacciatori di faine, ma io ho il resto della cittadina dalla mia parte; a chi credi che daranno più retta se gli chiediamo di schierarci? A te o a me? Ammettilo, Lelex, tu hai bisogno di me per far funzionare quest’organizzazione e, lo sai anche tu! Ci sono sempre stata io dietro le tue idee, io ho medicato le tue ferite e quelle degli altri, io ho fatto sì che i bambini potessero vivere una vita parzialmente normale, prima che le armi ti dessero alla testa! Io! Hai sempre detto che eri in debito con me, che mi dovevi un favore per tutto quello che ho fatto! Bene, allora ti chiedo di aiutare Saga!»
«Se lo aiutassimo se ne andrebbe e denuncerebbe all’autorità competenti…»
«Lo sanno già! Se lo lasciassimo andare, lui ci porterebbe i sostegni che da soli non riusciamo a procurarci e ne abbiamo più bisogno che delle munizioni e delle armi! Scaccerebbero gli spacciatori e i delinquenti, ci aiuterebbero con le malattie, forse ci poterebbero persino in un luogo più sicuro e tu potrai di nuovo suonare la chitarra, invece che imbracciare un fucile.» Sospirò e domandò: «Non sei stanco di questa vita? Io sì, sono stanca di sopravvivere, voglio tornare a vivere». Il giovane la guardò stupito, poi abbassò l’arma e, tutti, fecero altrettanto. «Hai ragione». Ammise e, tu restasti stupito dal carisma e dalla veemenza che era riuscita a tirare fuori. E dire che all’inizio neanche ti era sembrata così volitiva. «Non è lui il vero nemico, i nemici lo sai anche tu quali sono. Ricordati che cosa ci sta succedendo».
«Hai ragione, Atalanta». Concesse l’altro. «Sono stato un imbecille». La giovane sorrise. Tu comunque non ti fidasti troppo. I tipi che si arrendevano così facilmente come lui potevano essere ancora più pericolosi. «Cosa dobbiamo fare?»
Il piano fu semplice. I ragazzini sarebbero stati spostati in un’area sicura. Per la precisione nel magazzino di Atalanta mentre tu e gli altri ragazzini sareste andati a caccia quella notte stessa.        
«E per gli spacciatori e i delinquenti?» Domandò Lelex.
«Per loro chiamerò io le autorità per voi; tranquillo, manderò qualcuno del Santuario per portarvi via da lì». Aggiungesti preventivamente.
Quella notte andaste a caccia e, i ragazzini, dopo aver costretto la preda a seguire la direzione da te scelta, lo uccidesti con un colpo dato alla velocità della luce e gli prendesti il cote che ti serviva.
Era l’alba quando tornaste vittoriosi dalla caccia e riportaste tutti alle loro case. Il corpo del cinghiale l’avevate lasciato nelle rovine del paese adiacente disabitato.
Atalanta appena ti vide divenne il ritratto del sollievo e ti corse incontro per abbracciarti. Tu ricambiasti la stretta con la mano meno sporca. «Ce l’avete fatta, allora». Fece discostandosi da te, mentre gli altri cacciatori ricevevano un’accoglienza simile. Tu annuisti, sorridendole.

Appena dopo esserti lavato, chiedesti ancora una volta alla tua piccola ospite di prestarle il cellulare e così, chiamasti i tuoi colleghi Gold Saint, spiegandogli la situazione dei paesini della frazione di Calidone, convincendoli a intervenire. Non l’avresti mai detto che gli anni passati a reggere il trono di Atena ti sarebbero serviti a qualcosa di buono. Se Aiolos avesse potuto vederti sarebbe stato orgoglioso di te. Come adesso anche tu lo eri.
Restasti finché i soldati del Santuario non giunsero e ti garantirono che da adesso in poi ci avrebbero pensato loro ai bambini.
E, giunse così il momento di separarvi. Atalanta decise di accompagnarti almeno fino all’inizio del paese. E, parlaste. «C’è solo un particolare che non mi torna» disse lei, pensierosa, a un tratto e tu la guardasti.  «Come sei riuscito a convincere Lelex e gli altri in così breve tempo?»
«Ma non li ho convinti io, sei stata tu, se non avessi avuto il tuo appoggio non ci sarei mai riuscito».
«Il mio appoggio? Sul serio?»
«Certo».
«Ma quindi… e quei cinghiali…»
«Li avevo attirati io qui, precedentemente, quando mi hai accompagnato la prima volta al portale, che davvero si era richiuso e, poi, con una mia tecnica li ho ipnotizzati di modo che rispondessero ai miei ordini mentali». Le spiegasti con un sorriso inquietante. «Non c’è mai stato davvero pericolo per voi, scusami se vi ho coinvolti in tutto questo.» Lei ti guardò sbalordita e, invece di spaventarsi ti mollò un buffetto sul braccio: «Brutto… mi hai fatto spaventare da morire! Era tutto un trucco?»
«Non tutto, ad esempio, quelli sono veramente soldati del Santuario con il preciso ordine di scortarvi tutti al sicuro, così avrete tutte le cure mediche necessarie e alcuni di voi potranno anche disintossicarsi, mentre i nostri scacceranno gli spacciatori e i delinquenti». Le posasti una mano sulla testa e le scompigliasti i capelli: «Quello che hai fatto per farti valere è stata tutta opera tua, quello era reale e lo è ancora, adesso hai il rispetto dei tuoi compagni». Le sorridesti orgoglioso. «Sei più forte e coraggiosa di quanto pensi, avevi solo bisogno di una piccola spinta per tirare fuori quello che era già dentro di te e a vederlo. Non tutte le persone, alla tua età fanno cose straordinarie come quelle che hai fatto finora».
«Credi?»
«Sono sicuro». Lei ti guardò ancora, intimidita. Sembrava che morisse dalla voglia di farti un’ultima richiesta. Infatti, aprì bocca: «Posso chiederti una cosa? Possiamo farci un selfie? Così, per ricordo». Un selfie? Ah, un autoscatto. Avevi visto tanti giovani in Giappone scattarsi delle foto e anche Aphrodite. «Ma certo». 
Appena mise giù il telefono la salutasti e lei ti richiamò. «Ah, Saga?» Ti girasti e vedesti estrarre dalla tasca un braccialetto di perline di varie gradazioni del verde, legate da una cordicella nera, che ti porse. «É un portafortuna, spero che ti possa aiutare». Spiegò e tu la ringraziasti. Lasciasti che ti allacciasse attorno al polso il monile e poi ti abbracciò. «Ti rivedrò?» Ti chiese con occhi pieni di lacrime. «Non lo so». Rispondesti sincero.  
Lei annuì. «Grazie ancora per tutto, Saga di Gemini».
«No, Atalanta, grazie a te». Per te era giunto il tempo di tornare nelle leggende.
Mentre camminavi nella direzione da cui eri venuto, riflettesti. Forse avevi fatto anche di più di quanto era richiesto dal rito. Non avevi mentito ad Atalanta quando le avevi detto di averli attirati. Eri abituato a fare più cose insieme, altrimenti non saresti sopravvissuto a tante battaglie, anche se eri ferito ancora più gravemente di così. Avevi lanciato il Fantasma Diabolico sperando che le Creature non accorressero, anche se credevi ancora di trovarti in un’altra dimensione. Per fortuna c’eri riuscito.
E avevi capito cos’altro avresti dovuto fare, seguendo la tua donna Matelda. Donna che aveva le sembianze di Astrid con indosso gli abiti di quella sera che andò alla festa.  Ma non era donna Matelda, non era neanche Beatrice, costei era superiore ai personaggi della Divina Commedia e agli Dèi. Solo adesso che stavi immerso in quella pozza, con lei che sollevava l’acqua con le mani e la lasciava ricadere su di te, liquida, fredda, salata e concreta come non mai, capisti.
Ci sono cose che non si possono capire, ma soltanto intuire. Questa figura, questo spirito benevolo, Astrid, era lì per te. Per ridarti l’innocenza che un tempo ti fu strappata e aiutarti a lavare via quella macchia nera nel tuo animo e la tua mente. Se non altro, ti sentivi come se il sangue che ti aveva macchiato fino a qui, stesse andando via nella pozza che scavasti con la zanna, consumandola tutta mentre si riempiva di acqua salata della fonte Posidonia.

Aphrodite
Saga sembrava una persona diversa da quando era tornato dalle montagne. Nei suoi occhi si intravedeva una nuova luce. Era come se fosse di nuovo in pace con se stesso.
Almeno uno.
Sotto la supervisione di voi dodici terminò il rito, nella vasca sacra alla Tredicesima.
Come da rito, passò la borraccia al venerabile Shion che rovesciò l’acqua della sorgente salata nella vasca. Dopodiché, Saga ci si immerse lentamente.  
Quando riemerse avvertiste di nuovo il sacro su di lui. La stessa aura di sacro che avvolgeva anche voi.
Una volta officiato il rito, il fratello maggiore di Kanon s’inginocchiò dinanzi alla Dea presente, la quale, toccandolo sulla spalla con la punta dello scettro che gli tolse la vita, gli restituì le sue Sacre Vestigia.  
Saga era tornato sé stesso.
Addirittura, dopo il rito, conferì privatamente con Kanon e la dea per raccontargli la situazione di quella cittadina. Forse Kanon non sapeva che Saga era un essere umano purissimo. Un sorrisetto incurvò le tue bellissime labbra. Ovviamente, prima che Arles facesse il suo lavoro. Un po’ lo capivi quel demone, Saga era talmente buono che, persino a te, veniva voglia di sporcarlo. Se non lo facevi era perché era un tuo confratello e che, ormai, avevi superato già da un pezzo l’età dell’infanzia. Inoltre, avevi altro da fare, tipo andare al cimitero.  
Ti schiodasti dal tuo nascondiglio e te ne andasti, come al solito, non visto da nessuno grazie alla tua maestria.
Ma, prima, passasti dalla tua Casa. Anche tu, come Astrid sfruttavi spesso i giardini delle Case. Quante volte avevi lasciato passare Astrid, sebbene le tue rose ti avessero preventivamente avvisato? Avvertisti il dolore al petto e le lacrime ti inumidirono gli occhi. No, non dovevi piangere ora; ti si sarebbe rovinato il trucco. Avevi ancora le foto di Astrid, se volevi rimirare la sua bellezza ti sarebbe bastato andare sul suo profilo sui social. Però non era la stessa cosa che saperla qui. Ti eri affezionato a quella trasandata, ammettilo.  Raccogliesti per lei le più belle rose bianche e le legasti insieme in un mazzolino. C’erano tanti posti che lei preferiva del Santuario, ma quello che forse era meglio di tutti, era quello dove era morta.
Quando eravate accorsi sul posto, avevate visto soltanto i segni del massacro, ma non avevate trovato traccia dei corpi, finché un Saint minore non era inciampato nel corpo di Neera. Non avevate mai visto una cosa simile. Finora tutte le vittime delle Creature erano cadaveri anneriti, questo era un cadavere essiccato e completamente biancastro. Se non fosse stato per la maschera coi segni blu sul volto, neanche l’avreste riconosciuto. Tu stesso ti portasti una mano alla bocca per trattenere un conato di vomito. Mano che abbassasti e distogliesti lo sguardo. Poi ti ricomponesti rapidamente e, richiamasti l’attenzione su di te, ordinando di portare via il cadavere dal Cavaliere della Vergine, lui, sicuramente, avrebbe saputo dare una risposta esaustiva a tutta questa storia.
Ma di Astrid non c’era alcuna traccia.  
Riemergesti dal ricordo e imbracciasti il mazzo di rose, poi, scendesti le scale, diretto al cimitero. Appena prima della Quinta ti ritrovasti faccia a faccia con uno scazzato Death Mask che sbraitava a proposito dell’apatia del posto e dell’assenza di Neera e del suo coinquilino molesto. Oltre che dell’aura mortifera che regnava qui. Poi ti aveva visto e ti aveva chiesto che fosse successo.
«Come, non lo sai?»
«Cosa non so?» Ti chiese il siciliano cadendo dal pero.
«Si tratta di Astrid».
Il tuo amico strabuzzò gli occhi e, vi leggesti un lampo di paura: «Astrid? Che è successo ad Astrid?»

Shaka

Improvvisamente percepisti i Cosmi addolorati dei tuoi compagni al Santuario e volgesti la testa a Sud Ovest. «Che succede?» Ti chiese la Dea, accorgendosi del tuo scatto.
«Sembra che sia morto qualcuno, qualcuno d’importante».
«Qualcuno chi?»
«La… Luce Ombrosa». Dicesti sconvolto e la guardasti. La Dea ti guardò incredula.  

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Rafting all'Inferno ***


Rafting all’Inferno




Death Mask

Il cagnaccio a tre teste era veramente imponente. Lo riconoscesti. Non ti sorprendeva che i Black Saint presidiassero questi luoghi solo da punti strategici, onde evitare di essere ammazzati a propria volta.
Peccato che non avessero fatto i conti con voi. In quattro e quattr’otto li avevate sbaragliati e avevate persino dato da mangiare al cane infernale. Che, ormai, aveva eletto la Seconda Prigione a sua cuccia personale. Vederlo mangiare così di gusto ti aveva rammentato di quando anche tu avevi messo qualcosa sotto ai denti a casa tua.   
Non eri tornato veramente al Santuario. Avevi considerato questa scelta per un po’, ma dopo aver messo a cuccia Cerbero, improvvisamente avevi avuto un brusco calo di energia che ti aveva costretto a rimandare la partenza.
Per ironia della sorte, quando ciò era avvenuto, avevate appena liberato la Seconda Prigione quando così, dal niente, le forze ti erano mancate e ti eri accasciato a terra, privo di sensi. Quando ti risvegliasti, la parte superiore del tuo corpo era sostenuta da una donna che ti chiamava. Per un momento ti tornò in mente Elena e, sperasti, che fosse lei. Ma, quando apristi gli occhi, incontrasti quelli inespressivi della maschera di Cherì. Grugnisti infastidito un: «Levami subito le mani di dosso».
Cui lei rispose: «Non posso, non ti sei ancora ripreso completamente».  
«Ti ho detto: levami le mani di dosso». Ringhiasti e te la allontanasti in malo modo. Non sopportavi essere toccato, tantomeno da quella piaga. Anche qui te la dovevi ritrovare, anche qui.  
«Non posso, il maestro mi ha ordinato di restare con te e aiutarti qualora ti fossi svegliato». Rispose lei stizzita.
«Dove sono andati?»
«Stanno organizzando le mosse per il prossimo attacco».  Provasti ad alzarti ma le gambe non ti ressero. Cherie ti acchiappò al volo, ti aiutò a rimetterti seduto e ti passò del cibo che riconoscesti come una delle vostre razioni K. Razione che, purtroppo, mangiasti, maledicendo il tuo fisico per il crollo. Ma che diavolo ti era preso? 
«Che cosa mi è successo?» Le domandasti parlando tra un boccone e l’altro. Lei ti raccontò tutto in tono aspro. Forse augurandoti di strozzartici con il cibo. Per sua fortuna o sfortuna (dipende dai punti di vista) non accadde. 
Bevesti anche l’acqua nella borraccia che ti porse. Poi gliela restituisti borbottando un ringraziamento che ti sarebbe valso uno sputo in un occhio, se avesse potuto togliersi la maschera.
Ti togliesti l’elmo a maschera e ti passasti una mano sulla faccia e sui capelli. Eri incazzato, soprattutto con te stesso, perché non ti sentivi più così crudele e rabbioso da molto tempo. Non pensavi che facesse così male al fisico essere perennemente incazzati come eri prima di Asgard.
Neanche di essere stato così stronzo.
Ma questo come glielo spiegavi a Cherie?
Indossasti il tuo elmo a maschera e sbuffasti seccato. Odiavi dover scendere a patti con il tuo orgoglio smisurato. E poi, quell’apprendista petulante non era neanche una tua amica. Vero, ma era pur sempre una persona e tu eri pur sempre un adulto. La guardasti di sottecchi mentre si allontanava per riporre la borraccia nello zaino vicino alla tenda del Drago Rosso. Tenda che i soldati ombra stavano smantellando. Segno che era tempo di muoversi. Purtroppo il Guardiano della Casa di Marte era più lento rispetto a voi Gold, ma i risultati erano notevoli.
A vedere il suo operato avvertivi un vago senso di presa per il culo. Non perché lui ce l’avesse con te o con gli altri. Anzi, era una persona piacevole, un ottimo conversatore, anche divertente. Ci avresti preso una birra insieme non fosse stato un essere sovrannaturale. Ma nei confronti del tuo ordine.
Ma non era che quello in cui eravate invischiati voi Cavalieri fosse tutta una scemenza? Oppure era solo perché queste guerre non le potevate combattere coi soliti metodi da Guerra Santa e lampo?  
Se da un lato era fastidioso, dall’altro, la sua metodicità era invidiabile. E ti scoprivi a guardarlo ammirato gestire le sue truppe e stendere piani e strategie che, a te, non sarebbero mai venuti in mente. Diavolo, da lui sì che avresti sicuramente imparato qualcosa! Poi ti ricordavi chi eri, che dei sottoposti ce li avevi, che li comandavi più che bene e tornavi sui tuoi passi.     
Ti frullavano tante cose per la testa, tra cui Arya e la temporanea scomparsa di Eragon. Quello stronzo vi aveva mollati di colpo appena dopo la Prima Prigione. Quando era tornato ti era sembrato distratto e continuava a guardare in direzione Nord Est con speranza e preoccupazione. Diceva di aver sentito il Cosmo di Arya affievolirsi pericolosamente ed era andato a controllare. Quando era tornato i suoi occhi esibivano uno sguardo preoccupato che tu non sapessi decifrare.
Non che fosse stato così importante, dal momento che c’eravate tu e il tuo maestro DeathToll. Una volta che avevate lasciato la vostra Armata degli Straccioni sulle rive dello Yomotsu Hirasaka, eravate andati solo voi quattro. E, la corsa si era alleggerita di molto,
Non avevi mai fatto caso prima a quanto fosse effeminato. Non che ci trovassi qualcosa di male, se lui era felice così, non c’era problema.
E poi, avevi avuto un brutto presentimento tutto il tempo. Adesso che ti eri addentrato tanto nelle profondità degli Inferi, non ti conveniva proprio tornare indietro. A occuparsi del tuo sostentamento era Cherie, «non Cherì» come ti aveva corretto la petulante. Era lei che si occupava di portarti del cibo dal Mondo dei Vivi, facendo avanti e indietro.
Rispetto alla vostra gioventù era molto più piacevole. Forse perché tu eri invecchiato, oppure perché avevi sempre trovato più interessante la compagnia dei defunti che dei viventi. Non era poi così inusuale, no? Tu, il custode del Tempio del Cancro. Tu alla morte eri avvezzo, ma se c’era una persona che non avresti mai voluto che morisse, quella era proprio Astrid.
Eri arrivato a combattere questa guerra anche per assicurare alla sua anima un futuro. Non sapevi in cosa credesse, ma, qualsiasi cosa fosse, non volevi che cadesse nelle grinfie di Don Avido. Era il minimo che potessi fare per lei.
Ti guardasti attorno, non ti eri mai avventurato così a fondo negli Inferi. In un certo senso era una vera novità anche per te. E, da un certo momento in poi, soltanto il maestro DeathToll, Cherie e le sue armate avevano potuto proteggerti.      
«Non preoccuparti», ti disse Eragon con la sua voce profonda, persino più della tua, affiancandoti, «vedrai che finiremo presto».
«Che ti fa dire che io sia preoccupato?» Chiedesti sforzandoti di non inarcare un sopracciglio, di non urlargli contro e di parlare normalmente. Anche se mentalmente l’avevi già coperto di insulti e di imprecazioni e avevi alzato il sopracciglio e fatto tutte le smorfie che non ti eri permesso. Non potevi mancare di rispetto a un alleato prezioso come lui. Le sue armate costituivano il grosso della tua Armata Brancaleone ed era umiliante. Più volte avevi sognato di puntare il dito contro di lui e togliertelo di torno per sempre. Ma non avevi altra scelta, sentivi la tua energia molto più flebile di prima e sentivi tutto il peso della battaglia. Non era normale. Tu eri abituato a sopportare sforzi peggiori che una banale passeggiata nell’Ade. Ma questa non era una delle solite, banali passeggiate nell’Ade. Questa, era una guerra e tu, avevi anche bisogno di riposo. Lo stesso Eragon ti aveva spiegato che il tuo corpo risentiva dello sforzo fisico e la spossatezza mentale la sentivi tutta. Ma aveva trovato una soluzione: l’acqua del Piriflegetonte. Che poi acqua, era un fiume di lava. Ecco, ti stavi abituando anche tu a chiamarlo così. Strano a dirsi, ma era l’unica cosa che si poteva davvero ingerire negli Inferi, senza temere ripercussioni di sorta.
L’unico lato negativo, a parte il fatto che era un fiume di fiamme e lava, era che non sedava affatto la sete, era come bere un bicchiere di sale. Se non altro, lo stomaco te lo riempiva. Neanche quando eri nel tuo vecchio girone avevi mai sopportato una tale tortura, tra la gola e la lingua in fiamme e il bruciore di stomaco. Se fossi andato avanti così ti sarebbe venuta un’ulcera.
«Non lo sei?» Ti chiese, guardandoti.
«Ho l’aria di uno che lo sia?» Richiedesti.
«No».
«Ecco», “E allora non chiedermelo mai più, brutto…” e giù di insulti che non potevi proferire. Ma quanto ti sarebbe piaciuto veramente toglierlo di mezzo. Tu, il più forte tra i Cavalieri d’Oro, la presenza di costui era uno smacco per il tuo orgoglio.  Ma lui vi serviva, perciò dovevi restartene zitto e ingoiare. Chinando la testa sotto allo stivale del tuo alleato. Metaforicamente parlando. Ma non vedevi davvero l’ora di rialzarti di scatto e ribaltare le posizioni.
Eragon si allontanò e tu ti sedesti su uno dei tanti massi lasciando vagare gli occhi sul paesaggio, senza tuttavia, vederlo veramente.  
Il timbro nasale del tuo maestro ruppe le tue elucubrazioni. «Io non te lo consiglio». Ti girasti verso di lui e domandasti, sforzandoti di non ringhiare: «Cosa?»
Il tuo maestro inarcò un sopracciglio spinzettato e ti guardò come a dire: “Pensi sul serio che non me ne sia accorto?”«Il Drago Rosso».
«Se anche fosse?»
Il tuo maestro si accomodò accanto a te e cominciò a giocherellare con il medaglione d’oro che portava al collo. «Sei sempre stato una testa calda. A volte sì tanto da rasentare la stupidità più totale. Credevo che il tempo avrebbe smussato questo tuo aspetto, ma evidentemente mi sbagliavo».
«Che cosa vorreste insinuare?»
«Soltanto di non sottovalutarli mai. Solo perché sei capace di far evolvere la tua Cloth in una Gold Cloth, resti sempre un essere umano. I Guardiani non lo sono».
«Neanche Arya lo è». Gli facesti notare con un verso di disprezzo.
«Ma lei è diversa ancora da te. Lei è pur sempre una Divinità con un Cosmo d’Oro Bianco, sebbene discenda da uno di loro. Anche lei, nonostante sia incarnata in un essere umano, ha una marcia in più rispetto a te. Dammi retta, se qui c’è qualcuno che può tenerli a bada, quello non sei tu». Poi appoggiò la mano sulla tua spalla per rialzarsi e disse: «Prendila come un consiglio, anche perché, non credo che alla Divina Atena farebbe piacere vedere le sue schiere nuovamente decimate a causa del tuo caratteraccio». Consigliò saggiamente. Se c’era una cosa che contraddistingueva DeathToll, era che i discorsi che gli uscivano di bocca, raramente erano stupidi.
Ti sembrava di essere tornato di nuovo sotto la sua egida e la cosa ti dava fastidio alquanto. Soprattutto perché il tuo corpo aveva preso a rimuoversi come il suo. E, certi atteggiamenti, che avevi fatto di tutto per eliminare dalla tua psiche e dalla tua abitudine, non li rivolevi.
Di una cosa bisognava dargli atto. Per quanto poco mascolino fosse, era comunque molto più saggio e intelligente di te. E, se ti dava questi consigli, era meglio dargli retta senza fiatare.
Certo che non l’avresti fatto, non eri così poco controllato. Il tuo sarebbe stato un giocare a chi ce l’ha più lungo, misurandoti in campo. Ne andava del tuo orgoglio personale.
Poi non potevi più permetterti di fare il ragazzino senza cervello. Avevi lasciato la tua protetta da sola e non avevi la più pallida idea di come se la stesse cavando. Se eri preoccupato? Sì, lo eri. Non lo davi a vedere, facevi finta di no, ma certe volte non riuscivi a non rivolgere un pensiero ad Astrid. Il suo sacrificio per gli allievi di Argor continuava a restarti impresso, come anche tutta la paura che avevi provato. 
«Death Mask». Ti chiamò Cherie, sempre con una punta di disprezzo. La guardasti e lei disse: «É il momento di muoverci».
«Arrivo». Bofonchiasti scazzato. Avevi bisogno di una sigaretta, accidenti. Ma non era il momento di pensarci. Non era mai il momento di pensarci.

La Terza Prigione non l’avevi mai vista prima. I tuoi commilitoni erano persino incerti se lasciarti combattere oppure no. Ma tu li avevi convinti che stavi bene. Avevi combattuto in condizioni peggiori, non è vero, Death?
In compenso era tetra e spettrale persino per i tuoi gusti. Più andavi avanti più non riuscivi a credere che il Cosmo di un Dio potesse arrivare a tanto. Né che potesse creare delle vere e proprie zone naturali. Ti tornò in mente il campo di fiori dove riposavano Orpheo ed Euridice trasformati in statue di pietra e circondati di fiori profumati e luminosi.
Ti ricordavi perfettamente che si trovasse alle spalle sulla destra della Seconda. La profondità di una decina di metri circa non la rendevano più insuperabile di un banale fosso. Era l’aria che si respirava dentro ad essere tetra. Roba che, persino te, che eri abituato alla Quarta Casa, ti guardavi attorno circospetto, mentre i soldati ombra camminavano al vostro fianco, silenziosi e leggeri come pochi.
Ricordavi perfettamente che fosse una valle di forma quadrata, una fossa, appunto. Passaste accanto ai macigni semi abbandonati e vi fermaste di colpo nel vedere degli Skeleton armati di falce spintonare alcuni dannati. Era inquietante. Sembravano un branco di pecore, spinte a entrare nel recinto da un pastore tedesco. Non avevi mai pensato che gli Specter e gli Skeleton, con i quali condividevi intenti e ferocia, fossero niente di più che questo: «Avanti, riprendete il lavoro!» Berciò Rock di Golem osservando a braccia incrociate l’operato degli Specter. Se la memoria non t’ingannava, dall’altra parte doveva esserci Ivan di Troll.
«Oh, voi!» Li chiamò DeathToll richiamandoti tanto alla mente la Divina Commedia, che pure ti aveva costretto a studiare per «conoscere meglio gli Inferi», diceva. In realtà per darti un linguaggio più aulico, sperava. I due Specter volsero il capo verso di lui. «Che ci fate qui? Non dovreste essere con il resto delle legioni infere?»
«Oh, voi siete il resto delle Armate?» Rispose lo Specter di Golem, un po’ deluso e con una formalità che proprio non gli vedevi addosso. Al cenno affermativo di DeathToll sciolse la stretta delle braccia e scese dalla sua postazione per venirvi incontro: «Pensavamo che foste già molto più avanti di così, che è successo?» Chiese lo Specter con sguardo contrariato. Stringesti il pugno e, con esso, anche la voglia di abbatterglielo sul grugno.
Tutto attorno a voi gli spiriti dei dannati che venivano collocati ai rispettivi massi. Quei pochi fuggiaschi venivano riacchiappati subito. «Lady Pandora ha dato l’ordine a noi dei posti riconquistati di tornare in queste terre. Flegias è già tornato alla Quarta e anche lo Specter di Behemoth è già tornato a presidiare quei luoghi, sì anche come lo Specter di Pharao». Spiegò.
Tu ci avresti anche creduto se non fosse che Eragon assottigliò gli occhi e dilatò le narici. Quando faceva così, ormai avevi imparato, che stava fiutando le emozioni e i vari odori secerni dal corpo.
A quel punto anche tu lo guardasti e, trattenesti Cherie dal fare qualche cavolata come avanzare di un passo, afferrandola saldamente per un braccio. La Sacerdotessa Guerriero ti guardò e tu scuotesti impercettibilmente il capo. C’era un motivo, dopo tutto, se la Gold Cloth di Cancer aveva scelto te e non lei. 
«Già, peccato che Pharao non sia ancora tornato alla Seconda, altrimenti lo avremmo visto passare o avremmo percepito il suo Cosmo». Disse Eragon, che, fino a quel momento era rimasto zitto. Le sue ali rossastre ebbero un fremito. Con la coda dell’occhio vedesti i soldati ombra rendersi invisibili e disporsi tutto attorno a voi, come una gabbia protettiva, le lance puntate sul collo del traditore. Quello non era il vero Specter del Golem. 
Quelli veri, erano poco più in là a combattere per cercare di liberarsi dall’eterno supplizio in cui erano stati rinchiusi. Anche tu sapevi che alcuni Specter preferirono passare dalla parte di Don Avido per pura convenienza. Lady Asia vi aveva passato anche quest’informazione e, tra questi, c’era proprio lo Specter del Golem e, per esteso, anche Ivan di Troll. Quest’ultimo traditore inconsapevole in quanto persuaso dal collega a passare dall’altra parte per il bene dei dannati.
«Lo tengono tutti azzerato». Si giustificò quest’ultimo battendo le palpebre. Improvvisamente s’immobilizzò sgranando gli occhi.
Eragon fece un sorriso soddisfatto. Spostò le braccia dietro la schiena, nascondendo le mani sotto le ali e prese a dire: «Li senti? Sono attorno a te. Tu non li puoi vedere, ma loro sono sempre qui e sei circondato, non hai vie di fuga. Un passo e conficcheranno le lance nella tua carne. Un mio cenno e tu sei morto. Chiami i tuoi amici Black Saint e tu sei morto. Dicci la verità e forse sopravvivrai, orsù, che cosa ci fai, tu, qui?»
Per sottolineare le parole di Eragon, facesti leva sul tuo Cosmo per prendere il controllo degli Spiriti. I quali si tramutarono in fuochi fatui e accorsero da te, fluttuando come tante lucciole sbiadite. Pensavi che ci sarebbe voluto molto di più. Ma di fronte a uno come un Guardiano chiunque piegava il capo. Lo Specter si gettò in ginocchio e cominciò a implorare pietà.
Il padre di Lady Asia fece una smorfia di disgusto nel sentire tutte quelle preghiere, quelle confessioni gratuite e quelle suppliche infondate. «Basta!» Lo zittì perentorio e Rock di Golem tacque immediatamente. «Lo so che stai mentendo, lo percepisco chiaramente. Dimmi la verità e ti eviterò un supplizio ancora peggiore della morte».
Lo Specter lo fulminò con lo sguardo: «Non ti dirò niente, va all’Inferno, cane». Il Guardiano della Casa di Marte non rispose. Si limitò a tenere le mani nelle tasche dei jeans e ad alzare il mento. Poi disse: «D’accordo, se proprio ci tieni», gli volse le spalle e ordinò ai soldati ombra di ucciderlo, ma lo Specter sgranò gli occhi terrorizzato e lo fermò: «Aspetta!» In coro con voialtri.
«Non puoi farlo! Se lo uccidi daranno a me la colpa del suo omicidio, manderai a monte il Patto tra Atena e Hades!» Il Drago Rosso ti lanciò un’occhiata sprezzante da sopra una spalla. A quel punto anche Cherie e il tuo maestro si unirono a te nel tentativo di farlo ragionare.    
«Vi dirò tutto! Vi dirò tutto!» Urlò lo Specter.
«Ci dirai tutto?»
Il padre di Lady Arya si fece avanti e gli prese la testa tra le mani, con delicatezza. Lo Specter singhiozzante lo guardò: «Grazie, per la tua disponibilità». Rispose riconoscente il Drago Rosso. Poi gli piantò l’artiglio dell’ala nella testa, fracassando l’Armatura..
Cherie lanciò un grido e il tuo maestro la strinse a sé per evitarle quella vista, mentre il Drago Rosso toglieva l’artiglio. Cherie continuò a urlare isterica «Lo hai ucciso!» tra le braccia di DeathToll, che, cercava invano di trattenerla e calmarla.
«Ho detto che gli evitavo un supplizio ancora peggiore della morte, non che lo avrei lasciato in vita». Rispose serafico il Drago Rosso, guardandovi impassibile da sopra un’ala.
«Vigliacco! Lui aveva detto che si arrendeva! Razza di vigliacco, come hai osato? Si era arreso, perché l’hai ammazzato?» Gli urlasti contro, caricando il tuo Cosmo. «Death Mask, non fare lo stupido». Ti ammonì il tuo maestro spaventato. Ma tu continuasti a inveire contro il Guardiano della Casa di Marte. In quel momento non t’importava di chi fosse, eri solo incazzato nero e volevi spiegazioni. Risposte che ti giunsero con un lapidario: «Perché mi andava».
E tu trattenesti il fiato rumorosamente, scattando leggermente indietro con la schiena per la crudeltà della risposta. Il tuo cuore prese a pulsare più velocemente per il terrore, anche se ti ricomponesti per sfoderare la tua migliore espressione truce e menefreghista. D’altronde, anche le tue mani erano macchiate di sangue, no?
Il vostro alleato volse la testa da sopra una spalla per guardarti. Le mani artigliate allacciate dietro la schiena sotto la membrana delle ali rossastre. Ali da demone, persino per te: «Impara una cosa, ragazzo; i Guardiani non rispondono a nessuno, neanche agli Dèi».
«Però ad Arya sì! Ed è comunque una Dea». Rilevasti, provocandolo velatamente.   
Il Guardiano si girò completamente verso di te. Stringesti i pugni, pronto a qualsiasi rappresaglia. Ma lui fece un sorriso stiracchiato e ti domandò, in tono angelico: «Cosa ti fa pensare che io risponda veramente agli ordini di mia figlia?» E, quel tono angelico, ti spaventò più di qualsiasi altra cosa. Per la prima volta, avesti seriamente paura di quest’uomo. No, non era un uomo. Lo era solo fisicamente, ma non era umano. Era un mostro, era un Guardiano. E, per esteso, avesti anche paura per sua figlia. Per la prima volta percepisti il sottile filo del rasoio su cui lei camminava in precario equilibrio e, il tuo cuore perse un battito.
«Ora andiamo». Comandò il padre di Lady Arya e, le sue truppe, obbedienti, lo seguirono.
«Un momento, Cherie non si è ancora ripresa!» Lo fermò DeathToll accennando alla ragazzina che singhiozzava stretta al suo petto. «Raggiungeteci, allora, tanto non è difficile uscire da qui, vi aspettiamo alla Quarta Prigione». Rispose il Drago Rosso. Accompagnasti quel mostro con lo sguardo. Il battito che ti batteva ancora rapidamente per la paura e i muscoli contratti, come se il tuo corpo attendesse chissà quale pericolo.
Chiamasti a te il tuo maestro e Cherie, che, nel frattempo aveva cominciato a singhiozzare un po’ meno.
Attendeste che si riprendesse completamente e, poi, il vostro maestro le dette un fazzoletto. Lei vi dette le spalle per sollevare la maschera e asciugarsi il volto. Dopodiché, ancora singultando, tornò a girarsi verso di voi. «Meglio?» Chiese DeathToll. Nella morte si era addolcito di molto. Quando era ancora vivo non te lo ricordavi così premuroso nei vostri confronti. Ma la presenza di Cherie e di Death Toll potevano essere fondamentali. «Forse possiamo ancora fare qualcosa per questo Specter».
«Che cosa stai dicendo?» Chiese Cherie, confusa e, il vostro maestro ti guardò perplesso. «Sì, esatto, voglio riportarlo in vita».
«Riportarlo in vita? Come?» Chiosò la tua vecchia compagna d’allenamenti, mentre DeathToll cominciò a scuotere il capo. «Non lo so ancora. Ma per ora, quello che possiamo fare è richiamare il suo spirito qui e la sua stella malefica e, se vediamo Hades, lasceremo che sia lui a occuparsene».
«D’accordo». Ciò detto richiamasti a te il fuoco fatuo di  Rock di Golem. Poi, vi addentraste nell’ultima parte della Prigione.
Non ti saresti mai aspettato che si stringesse fino a diventare una gola. E, fu lì che vedeste Ivan di Troll corrervi incontro e chiedervi spiegazioni asserendo di aver visto passare per primo il vostro alleato. Voi lo esaudiste e confermaste. Alla notizia che era libero si sorprese moltissimo. «Che ne è stato di Rock?» Chiese angosciato. E tu indicasti il fuoco fatuo che ti svolazzava accanto. «Ti dispiace?» Chiedesti poi, ironico, notando la sua faccia. «Bè, un po’sì, era comunque un mio collega. Quindi sono libero?» Chiese tornando a guardarvi. Confermasti e gli chiedesti se avesse voluto venire con voi. Il Troll rifiutò. Lui era più utile qui dal momento che adesso era da solo.
Qualcuno doveva proteggere i morti in ogni caso. «Come desideri, allora noi andiamo». Ciò detto vi congedaste ma lo Specter vi fermò: «Aspettate, quando metterete piede nella Quarta state attenti, gira voce che ci sia un tipo laggiù, molto pericoloso. Ho cercato di dirlo ai vostri compagni ma non mi hanno neanche considerato».
«Che tipo è?» Chiedesti.        
«Un tipo strano con un’Armatura d’oro. Quando Rock e io siamo arrivati qui abbiamo fatto moltissima fatica a superare la sua guardia. Gli abbiamo lanciato contro i nostri migliori attacchi ma non è servito a molto. Non ha smesso di darci la caccia finché non siamo arrivati qui. Vi giuro che si muoveva velocissimo e spiccava balzi che non avevo mai visto fare a nessuno, qui dentro».
«Come era ‘sto tizio?»
«Non l’abbiamo visto bene, era troppo veloce, ma abbiamo visto più volte una spada, anche se sembrava tanto il suo amico con l’elmo con le corna ritorte».
Shura? Che minchia ci faceva qui negli Inferi Shura? Quando era sceso? Perché non te ne eri accorto? «Grazie per la dritta. A buon rendere». Salutaste e lasciaste finalmente la Terza Prigione. Quando foste abbastanza lontani vi ritrovaste a confabulare tra di voi. Cherie ancora un po’confusa e scioccata. Partecipava solo a tratti alla conversazione e, se non l’avesse sospinta il vostro maestro, l’avreste lasciata indietro. «Oh, quante storie», borbottasti prima di fermarli e far salire Cherie sulla tua schiena. «Così andremo più veloci», borbottasti imbarazzato mentre il piccolo fantasma si aggrappava a te e ti fissava stupito. Neanche da viva le avevi mai concesso un tale privilegio.
Ciò detto recuperaste le distanze.
La Quarta Prigione non era un edificio, bensì una zona naturale, proprio come la precedente. Era come se Hades non avesse voluto spendere energie e Cosmo per creare questi luoghi.
«I defunti e gli Specter chiamano questo posto Palude Nera». Mormorasti tu guardando questi luoghi avvolti da quella sottile nebbiolina grigiastra che sembrava smog. 
A dispetto dell’aspetto lacustre e spoglio, somigliava a un sinistro acquitrino, ma senza la vita che animava i medesimi. Anche guardandovi attorno non riuscivate a vedere affluenti di alcun tipo. Eppure, eri sicuro che questi luoghi fossero frutto dell’erosione dell’acqua del Cocito, che, abbandonando le sue falde sempre più, si riscaldava fino a tornare allo stato liquido. Solo adesso però, notavi che qualcosa non ti tornava. Infatti, per la prima volta, vedesti l’immissario e l’emissario di questo lago dalle acque nere e stagnanti. A guardarle ti ricordavano la pece. Chissà se era infiammabile allo stesso modo? Ma se anche la Seconda Prigione somigliava a una fossa, allora era come avere a che fare con un lago artificiale che ogni tanto si riempiva e altri si svuotava? «Come…» Mormorasti e Cherie ti sentì: «Cosa?»
«Come è possibile che abbia un immissario? Non c’era l’ultima volta che l’ho visto». Rispondesti sorpreso, dimentico di mostrarti burbero con lei. La giovane aggiustò la presa e rispose: «Hades non vi ha rivelato tutta la vastità di questi territori. Alcune zone le ha protette apposta durante la Guerra».
La guardasti stupito girando la testa sopra la spalla: «Che cosa?»
«É così. Hades non sarà un grande stratega ma il suo lavoro di sovrano lo sa fare. La sua prima priorità è sempre fare in modo di proteggere i defunti e gli abitanti delle sue terre, per questo nelle precedenti guerre sacre non avete incontrato nessuno di noi».
«E tu dov’eri?»
«Non te lo posso dire». Si scusò la giovane e tu berciasti qualcosa di inintelligibile persino per lei. La quale prese fiato per dire qualcosa ma non ne ebbe il tempo che fu interrotta. «Non è il momento di litigare adesso e sì, ti anticipo subito, lo sapevo anch’io ma non posso dire molto altro: un incantesimo ci impedisce di ricordare e di parlarne più del dovuto». Spiegò DeathToll rammaricato di non poterti dire di più. Tu li guardasti entrambi volgendo la testa, prima verso l’uno e poi verso l’altra. Che storia era questa? Perché non ne potevano parlare? Aggiustasti la presa su Cherie che, anche se fantasma, aveva comunque un suo peso. E, questo non era cambiato. «Ma quindi esistono vie secondarie?»
«Se esistono non siamo in grado di indicartele, solo gli Specter possono vederle».
«Anche i Guardiani?»
«In teoria no, non sono Specter».
«Quindi Eragon e i suoi soldati sono comunque davanti a noi. Ottimo». Deducesti. Perfetto, sono costretti a percorrere la vostra stretta strada. «E adesso?»
«Adesso chiamiamo il traghettatore». Rispose DeathToll prima di mettersi due dita in bocca e fischiare. E il fischio si perse nella foschia che s’infittiva, così sembrava, vicino le sponde della Quinta. Laggiù c’erano sicuramente il Drago Rosso e i suoi soldati ombra.
L’idea di tornare nel luogo della vostra punizione non ti attraeva per niente. Anzi, ti faceva accapponare la pelle. Come il cielo nero striato del riflesso delle fiamme che andava a cancellare il viola purpureo della sommità. Le grida dei morti ti giungevano fino a qui come una vaga eco. Ma non capivi se fosse un ricordo imprigionato nelle tue orecchie o se le sentissi veramente ancora adesso.
Proprio in questo momento, sentiste un rumore di passi raggiungervi da destra e, vedeste lo Specter guardiano della Palude Nera. «Mi avete chiamato?» Chiese stupito di vedervi.
«Vorremmo attraversare la Palude, dobbiamo recarci alla Guerra». Rispose il vostro maestro e il Licaone sgranò gli occhi: «Oh, sì, subito, salite».
«Ehi, niente bisogna salirci solo da morti?» Lo schernisti ricordando il tuo passaggio.
«Vista la situazione d’emergenza farò un’eccezione e poi vi aspettavamo. Il vostro contributo sarà fondamentale per riprenderci la Quinta Prigione e il Flegetonte». Saliste e lì poteste mettervi seduti e far scendere Cherie dalla tua schiena. 
Lo Specter fece il suo lavoro e, la zattera scivolò sulla densa acqua nera. Ci doveva volere molta forza per spingere questa chiatta che ondeggiava leggermente ai lati, sospinta dal moto dell’acqua.        
«É una fortuna che siate arrivati, non ci speravo più. Mi avevano detto di attendervi e di farvi passare immediatamente». Continuò lo Specter con voce sorridente. «Adesso sì che gli faremo vedere i sorci verdi a quei balordi».
«Diteci, il Drago Rosso è passato di qua?» Domandò Cherie accucciata vicino a te sulla zattera.
«Eh? No, bambina, il Drago Rosso non ha usufruito dei miei servigi». Rispose, colpito che la sua interlocutrice fosse una bambina così giovane. «Capisco, Flegiàs». Disse la tua ex compagna d’allenamento.
«Flegiàs?» Mimasti con le labbra, guardandola storto e Cherie si strinse nelle spalle, prima di accostare il volto mascherato al tuo orecchio e bisbigliare: «Diciamo che ha sempre avuto un occhio di riguardo per noi giovani morti prematuramente». 
Passaste accanto a picchi rocciosi alti decine di metri, piatti sulla cima ma dalle pareti scoscese e affilate. Se qualcosa vi seguiva, non poteva che volare, nascondersi sott’acqua e nella nebbia. Saltare lo escludevi. I picchi non erano disposti alla giusta distanza perché qualcuno potesse saltare senza problemi. A meno che non fosse uno Specter. Onestamente la prima volta che avevi attraversato queste prigioni eri stato prelevato dalla Bocca dell’Ade da Rhadamantys in persona che ti aveva mandato nel girone della città di Dite, dove avevi riposato fino a quel momento nel sarcofago. Pandora vi aveva temporaneamente resuscitato per usarvi. Ma per tornare su… Santa Dea che mal di testa.
«Avete mal di testa, Cancer?» Domandò Flegias con un ghigno beffardo mentre remava.
«No, riflettevo». Rispondesti, ma lo Specter del Licaone continuò a sogghignare divertito. Mentre alle tue narici la puzza di zolfo e il calore si facevano più forti e, comprendesti che, quella nebbia era vapore.
Toccaste l’altra riva e lo Specter vi fece scendere. «Cosa vi dobbiamo, in cambio?» Chiese Cherie, che sembrava aver trovato un modo per riuscire a comunicare con gli Specter senza ripercussioni. Lo Specter allungò gli angoli della bocca in un ghigno lupesco: «Ammazzateli tutti, quei bastardi». Si capiva che se avesse potuto avrebbe partecipato anche lui alla battaglia, ma che era più utile qui.
«Lo faremo». Promise DeathToll con un mezzo sorriso.
Poi risaliste la china.
Cherie stavolta camminò senza problemi. A dirla tutta sembrava che, grazie alla maschera non avesse problemi con la nebbia e il vago odore sulfureo che si appiccicava ai vostri vestiti e ai capelli. Avevi dimenticato che certe parti degli Inferi fossero tanto stomachevoli. La Quinta Prigione era quella che amavi meno di tutte.
All’improvviso sentiste una risata piovve dal cielo. Cherie alzò lo sguardo e vi ritrovaste attaccati da una massa nera. Afferrasti Cherie e saltasti da una parte mentre DeathToll saltava dall’altra e vedeste un Black Saint dai capelli lunghi con una cloth molto simile a quella di Aphrodite, la differenza era che era circondato dai corvi. Le parole giuste per descriverlo erano un angelo circondato da corvi. Il suo aspetto efebico ti rendeva difficile capire quanti anni avesse. Quello che era certo era che oscillasse tra i quindici e i vent’anni. Uno che, probabilmente, nel Settecento sarebbe stato l’amante di un nobile.
E, poi, c’era un altro particolare che non ti tornava. Assottigliasti gli occhi e capisti: no, non era la Black Cloth di Pisces, quella, era quella del corvo. Di un nero talmente intenso che andava a contrastare con la chiarezza dei capelli setosi che gli coprivano le spalle e il candore della sua pelle perfetta. Lo vedevi anche da lì che era bello e, ciò ti fece venire voglia di rovinarlo ancor più di quanto non fosse. 
«Oh, voi dovreste essere i rinforzi che dovevano arrivare. Molto bene». Disse con la sua voce piacevole. Ma il modo in cui parlava e come spezzava e arrotondava le lettere, capisti che era francese. Sì, ma non di questo secolo. Era la prima volta che ti ritrovavi faccia a faccia con un Black Saint invasore. Eppure tutto ciò non ti fece né caldo né freddo.
«E tu chi sei?» Chiedesti tu, mettendoti la mocciosa dietro la schiena. L’altro parve indispettito, si spostò i capelli dalla spalla e si mise in posa, come se vi stesse concedendo di rimirarlo alla stregua di un gioiello: «Come chi sono? Io sono colui la cui bellezza supera quella del Cavaliere di Pisces, io sono Rusé di Black Crow e sono qui per il tuo Cloth d’Oro; è un peccato che non ci sia anche il Saint dei Pesci, sarebbe stata una ricompensa ancora più grande per i miei sforzi in questa battaglia».
Che gran rottura di palle questo tizio. Doveva essere parente di Aphrodite perché se no questa non te la spiegavi. A vedere dalla posa che aveva assunto eri più sicuro che fosse, quanto meno, della stessa risma. Ciò ti dette un’idea. Chissà se era orgoglioso quanto il tuo compagno. Prima che tu potessi dirlo intervenne il vostro maestro: «Avete perfettamente ragione, signore. In verità sarebbe stato uno scontro epico, degno del vostro nome e del vostro aspetto grandioso: Sentite come suona bene Rusé di Black Crow, non come me che non si capisce se sia uomo o sia donna. Voi che avete forma così bella e definita oh, cosa mai darei per essere come voi».
Lo guardaste allibiti e il Saint perplesso. DeathToll continuò finché l’altro non si convinse che lo stesse adulando. «Naturalmente non avrete mica l’ardire di fare del male a un povero vecchio come me. A dispetto di tutto ho quasi trecento anni, ormai».
«Maestro!» Esclamaste scandalizzati entrambi. Avevi dimenticato questo lato di DeathToll, invece Cherie non aveva avuto occasione di conoscerlo. «Maestro, non potete dire sul serio!» Urlò la bambina.
«Mi dispiace tanto mia cara, ma non posso non aiutarlo in virtù della sua potenza». Rispose portando le mani dalle unghie smaltate a guglia, prima di indicarlo con un gesto del braccio. 
«Saresti disposto a tradire i tuoi allievi per la tua vita?»
«Che volete farci? Ormai non sono più un Gold Saint, posso anche fregarmene delle battaglie. Tutto quello che chiedo è un po’di pace e non mi dispiacerebbe rimirare un giovane bello come voi nel mentre». Rispose con un sospiro affranto. L’altro sorrise: «Normalmente non amo molto i traditori, ma dal momento che mi sono già scontrato con due Gold trovo che sia meglio non rischiare. Dunque, sareste disposto a rivelarmi il segreto di Cancer».
«Ah, per quello è semplice, dovete togliergliela. Naturalmente vorrei continuare a essere lasciato in pace dopo che il buon Don Avido avrà conquistato gli Inferi». Cinguettò DeathToll guardandoti di sottecchi e tu capisti che stava parlando tra le righe a te. Guardasti il vostro avversario con un ghigno sinistro e ti schioccasti le nocche. Quello che non immaginava era che anche senza Cloth restavi comunque un Gold Saint.
Il Black Saint, ignaro di tutto, non fece una piega.
«Ma certamente». Concesse il vostro avversario, ormai rintronato dal fiume di complimenti del tuo maestro.
Cherie continuò a urlare e a fargli la predica. L’uomo la guardò e si scusò con lei sempre in tono finto dispiaciuto, facendola ammutolire.
Rusé sorrise soddisfatto, prima di sganciare la bomba: «Molto interessante, peccato che io non vi creda».
DeathToll sgranò gli occhi: «Ma no, sto dicendo la verità, ho l’aria di uno che mente? Io non tradirei mai voi».
Ma l’altro non ci cascò: «Mettiamola così, non mi piacciono gli sleali e i voltagabbana e voi, messere, lo siete e anche se ci provaste non riuscireste mai a comprare i miei favori, anche fosse solo per tornare giovane. Come potrei mai accettare di essere guardato da uno che non si capisce se sia uomo o se sia donna?»
A quelle parole la carnagione abbronzata del vostro maestro virò sul rosso e, quando riaprì bocca, riempì d’insulti l’avversario. Il quale nel sentirsi dire che valeva meno della metà di te, s’indispettì e lo fulminò con lo sguardo. DeathToll concluse la sua sequela ordinando perentorio, mettendosi in posizione d’attacco. Posizione che voialtri imitaste istintivamente: «Quando è così difenditi, Rusé! Death Mask, Cherie!».     
«Povero illuso». Commentò carezzando il petto del rapace nero appollaiato sulla sua spalla. L’animale si spostò sul suo polso e il vostro avversario lo fece librare in volo.
«Cherie, dobbiamo impedire che prenda Cancer, d’accordo?» “Tu, Death Mask, cerca di catturarlo”, ti fece sapere telepaticamente.
«Sì, maestro». Rispondeste entrambi, la tua ex compagna d’addestramento con voce più stentorea della tua.
«Senza esitazioni!»
«Sì maestro!»
Ottenendo soltanto lo scoppio di risa del nemico. Come se fosse un segnale, i corvi che erano atterrati sul sentiero e sulle rocce, si librarono in volo in un rumoroso frullo d’ali. Sgombrando così il campo.
Rusé si pose una mano sul fianco: «Credete di farmi qualcosa? Non sono più lo stesso Black Saint che combatteva a Venezia nel Settecento. Abbiamo passato secoli a osservare e apprendere da voi, covando odio e vendetta nei nostri cuori e aspettando l’occasione giusta per avere la nostra rivalsa. Noi non perderemo!» Urlò prima di scagliarvi addosso la prima raffica di corvi e fermare l’attacco di Cherie.
A combattere poi fu DeathToll, ma ogni suo attacco fu respinto e infine toccò a te.
«Ma tu non sei morto nello scontro con Albafica di Pisces?» Chiedesti perplesso, che i rapporti gli avevi letti. Sapevi chi era quell’uomo e il nome della sua tecnica. Ma i Gold del passato non avevano mai riportato molto altro nei rapporti. Spesso si limitavano a citare il nome della tecnica urlata dall’avversario, che a descriverla.
«Non nominare quel nome! Io non sono stato sconfitto! Non sono mai stato sconfitto! Sono stato punito dal mio signore per non essere riuscito a portare a termine la missione, ma non sono mai stato sconfitto!» Cherie si portò una mano alla maschera trattenendo il fiato rumorosamente. Il vostro avversario sorrise affilato, mentre sopra di voi volava la più grande cospirazioni di corvi fantasma mai vista. «Ma non importa, adesso mi riprenderò quanto il karma ha messo sul mio cammino e potrò lavare l’onta dalla mia persona, Difesa di piume!» Urlò e i suoi corvi calarono in picchiata su di voi.
Ma, prima che vi raggiungessero DeathToll urlò: «Cancer all beauty ken!» e una serie di luci si abbatterono sui corvi fantasma, neutralizzandoli. Poi il tuo maestro ti urlò di attaccare immediatamente. “Non aveva neanche bisogno di dirmelo”. Pensasti prima di rivolgere un ghigno al vostro avversario.
Il Black Saint fu colto alla sprovvista e perse, per un momento la sua baldanza. Non ebbe neanche il tempo di dire niente che si sorprese di vederti immediatamente davanti a sé, con un ghigno sadico stampato in volto e un bel gancio destro solo per te. A differenza del tuo predecessore, tu non eri uno che andava tanto per il sottile. Ciò che non ti aspettasti, fu che schivasse prontamente il tuo pugno e saltasse agilmente via atterrando su uno sperone vicino. «Chi siete voi? Credevo che foste tutti vivi, come avete fatto a neutralizzare i miei corvi?» Corvi che, per inciso, andavano riformandosi grazie alla nebbia. Ma, ancora una volta, tu decidesti di non dargli tregua. «Usa pure i tuoi trucchetti quanto ti pare, non potranno comunque niente contro di me! Sekishiki Meikai Ha!» Gridasti e il tuo colpo riuscì a sfiorare il Black Saint. Il quale saltò via di nuovo e vi scagliò contro i suoi corvi. Corvi che Cherie e DeathToll contribuivano a toglierti di dosso. La bambina sapeva padroneggiare il Cancer all beauty ken. Quel dannato colpo che tu non eri mai riuscito a imparare, non solo per il suo nome.
In ogni caso sembrò sortire l’effetto sperato perché riuscì a colpirlo, mandandolo subito in panne. Neanche Aphrodite era così poco resistente e concentrato. Il Black Saint del passato, infatti s’immobilizzò e sollevò una mano tremante fino a raggiungere la ferita. Dei versi gli uscivano dalla bocca. Quando l’abbassò, riuscì ad articolare, con voce crescente: «Il mio viso, il mio bellissimo viso, come hai osato colpirmi, come!» Poi lasciò ricadere la mano a pugno, fremendo. Sollevò il volto e vi incenerì con lo sguardo, rivelando il niente retrostante. E, persino tu arretrasti di mezzo passo. Ti eri aspettato un cadavere e, invece, era solo una statuina di porcellana senza sostanza alcuna. Una statuina comunque letale.
E, contrattaccò i tuoi colpi aizzandoti contro altri corvi che, stavolta non riuscisti a fermare tanto erano impregnati del Cosmo del fantasma. Ma non te ne preoccupavi, potevate liberarvene. E, con un ultimo balzo lo mandasti in frantumi.
Anche i corvi si dissolsero in una pioggia di piume nere come la notte che volteggiarono lievi verso di voi. «State bene?» Domandò Cherie preoccupata raggiungendovi e voialtri confermaste.
Attorno a voi cadevano piume nere, lievi come una sinistra nevicata. «Da che parte dobbiamo andare?» Chiedesti guardandoti intorno, poi ordinasti a Cherie di trovare il sentiero. «Il Licaone ti avrà spiegato qualcosa, no?»
Lei parve contenta di potersi rendere utile, infatti disse: «Sì, la strada me la ricordo, lasciate fare a me». E, vi precedette. Tempo pochi secondi si affacciò da un’altura e vi fece cenno di raggiungerla. Da lì in poi, sotto questa nevicata fastidiosa, vi fece sempre lei da guida.
ma pesanti come macigni. Così scopriste quando vi ritrovaste a soccombere sotto di esse. Le piume sembravano non finire mai e, improvvisamente, vi ritrovaste invischiati fino alle ginocchia e poi fino alla vita. Cercasti di sollevare Cherie che era la più bassa di voi e rischiava di avere le piume già alla gola. Ma erano talmente pesanti che vi impedivano ogni movimento. Era come essere sepolti vivi in mezzo ai sassi. Il segno effettivo che fosse proprio così, lo avesti solo quando cercasti di superare Cherie, senza tuttavia riuscire a muovere un passo. Come del resto anche lei e il vostro maestro, il quale si lamentava dietro di voi. Provò persino a disperdere le piume con il Cancer all beauty ken ma non ottenne grossi risultati a parte quelle di farle cadere solo un centimetro più avanti. 
«Cherie!» Esclamasti.
«Death Mask! Maestro! Non avvicinatevi, non riesco a muovermi!» Urlò cercando di girarsi per tornare indietro, riuscendo soltanto ad avvitarsi su sé stessa. Ma il suo avvertimento era arrivato troppo tardi che finiste intrappolati. Le piume si richiusero attorno a voi e s’incollarono l’une alle altre come cemento a presa rapida.
Ma lei non poté vederlo perché si girò di nuovo.
Le piume che finora erano cadute si infittirono. «Cercate di colpirne quante più potete!» E tu ti avvalesti della tua velocità per riuscirci mentre Cherie si sforzava per cercare di togliersi da lì, in quanto, aveva capito di non ostacolarti.
Ma riuscì solo ad avanzare, di tre metri rispetto a te prima di inciampare e cadere tra le piume con uno strillo.
«Cherie!» Strillò DeathToll e solo allora abbassasti lo sguardo e la vedesti che lottava per uscire dalle piume che implorava aiuto. «Cherie! Andiamo, avanti, combatti, usa il tuo Cosmo! Non farmi venire lì, inutile mocciosa, lo so che sei capace di liberarti!» Strillasti a tua volta. Peccato che le tue parole contrastavano completamente con i tuoi gesti. Infatti cercasti di raggiungerla ma era come correre in acqua, solo molto più pesante e denso. Quasi non riuscivi a sollevare le gambe, neanche bruciando tutto il tuo Cosmo. Perché tu eri ancora vivo nonostante tutto. A un tratto inciampasti e cadesti.
«Death Mask! Aiuto, aiutami!»
Ti rialzasti rapidamente ma, le tue gambe erano ormai immobilizzate.
Il maestro che strillava alle tue spalle e la tua ex compagna d’allenamenti davanti a te. 
«Cherie! Afferra la mia mano, afferra la mia mano!» Urlasti allungandoti più che potesti, anche se avevi il busto libero dalla vita in su. Ma anche così non era sufficiente. Lei non riuscì ad afferrare le tue dita. C’erano ancora venti centimetri a separarle e poi scomparve sotto al nero delle piume.
«Cherie! Cherie!» Urlasti anche tu dopo aver fissato esterrefatto il punto in cui era scomparsa.
Mentre lottavate lanciarono un brillio e da esse s’innalzò di nuovo il Black Saint, il volto di nuovo integro. «Sapete, da quando sono qui ho perfezionato la mia Difesa di piume. L’ho resa più potente di prima, sì che possa indebolirvi a forza di cercare di liberarvi. Credevate che fosse così facile liberarsi di me?» Domandò retorico. Il bel sorriso e l’espressione fiduciosa di prima erano scomparse da un sorriso affilatissimo come lame di rasoi. Questo non poteva farlo da vivo, evidentemente, pensasti mentre cercavi di metterti di nuovo in posizione, ma le piume cadevano su ogni parte dei vostri corpi, facendovi sprofondare sempre più. «E la tua Gold Cloth sarà mia, preparati, Cancer, che sto venendo da te!» Ti si scagliò addosso.
Il Black Saint cercò di colpirvi, ma, proprio in quel momento, Cherie riemerse e riuscì a issarsi a sedere dal suo buco. Il petto che si alzava e abbassava rapidamente per lo sforzo: «Ce l’ho fatta».
Solo dopo si accorse delle vostre grida che l’avvisavano di riabbassarsi. Lei si accorse dello spostamento d’aria e si girò. Il Black Saint s’immobilizzò di colpo sgranando gli occhi. La sua faccia si riempì di nuovo di crepe e crollò di nuovo, come se si fosse rotto una qualche sorta d’incantesimo. «No, no!» Fece toccandosi il volto e parte della testa mancante.«Non è possibile, non è possibile, quello non sono io». Gridò folle portandosi le mani al volto che andava sempre più crepandosi, sì come il resto del suo corpo e della sua cloth. Anche le piume sembravano in qualche modo più leggere.
«Qualunque cosa tu stia facendo continua, Cherie!»
«Non sto facendo niente, ho paura maestro!» Urlò la bambina mentre il Black Saint dava il peggio di sé, rivelando tutta la follia che si celava dietro quel bel volto.
«Non guardarmi, smettila di guardarmi! Non guardarmi così! Togliti quella maschera, maledetta!» Urlò cercando di colpirla e lei si protesse istintivamente il volto con le braccia, strillando spaventata. Ma tu fosti più rapido e gli scagliasti il tuo colpo, centrandolo in pieno, distruggendolo completamente.
Prima di scomparire lanciò un grido che si spense in un decrescendo.
Cherie dal canto suo era spaventata, ma non riusciva a togliere gli occhi di dosso a quella scena tanto macabra quanto affascinante. E, poi, s’infranse come una statua diventando polvere.
«Che cosa è successo?» Domandò la ragazzina girandosi verso di voi ma tu non sapesti che rispondere. «Come hai fatto?» Le chiedesti invece.
«A liberarmi? Non lo so. A un tratto ho pensato che fossero solo stupide piume e la mia mente ha agito di conseguenza. Credo… di averne annullato il peso». Disse stupita.
«Dunque il trucco è questo, eh?» Meditò DeathToll accigliandosi sotto la frangia della chioma leonina di cui andava tanto fiero. Entrambi provaste a liberarvi ma l’autosuggestione non funzionò. Dannazione! 
Aggrottasti la fronte e te ne uscisti con un burbero: «Ottimo lavoro, adesso tiraci fuori di qui». La ragazzina si inginocchiò e cominciò a liberare prima te che eri il più vicino. «E spicciati, non abbiamo tutto il tempo del mondo!» Berciasti.
«Non siamo tutti Cavalieri d’Oro come te, Death!» Esclamò stizzita a sua volta aumentando il ritmo fino al suo massimo. La guardasti a bocca aperta per la seconda volta in vita tua: da quando aveva imparato a ribattere alle tue parole?
Arrivata a scavare all’altezza della cintura la fermasti e, prima che lei andasse a liberare DeathToll, che, nel frattempo, era già riuscito a soffiare via qualche piuma, l’agguantasti per un braccio. La ragazzina trasalì e si girò. «Comunque grazie». Dicesti in tono sentito; cercando di mettere un po’ di tutto in quella parola che non pronunciavi più da un pezzo. E, un grazie uscito dalla tua bocca era una rarità. Lei non si rilassò, come poteva? Di te non si fidava. E questo era colpa tua, che in passato l’avevi abituata così, anche se lei non aveva mai fatto mistero di amarti.
Si limitò a muovere il capo in cenno d’assenso e, in quel momento intravedesti un brillio.
Ti accigliasti e le ordinasti di girarsi completamente. «Fatti vedere un po’». Facesti e lei obbedì.
«La mia maschera ha un problema?» Chiese preoccupata mentre tu scrutavi il tuo riflesso su quell’inespressivo volto di metallo. Non rifletteva però il tuo tormento interiore, la parte più buona o cattiva di te come ti eri aspettato. Rifletteva soltanto. Come se le piume avessero tolto la sporcizia che era incrostata sul metallo, lucidandolo addirittura. Ecco cosa aveva visto Rusé per impazzire così: soltanto il suo riflesso in uno specchio. Non avresti mai pensato che avresti dovuto la tua vita a una maschera.
Ripensandoci, poi, lo aveva detto lui stesso, non era più lo stesso Black Saint, forse doveva solo realizzarlo.
Liberasti il suo braccino esile e decretasti di: «No, è tutto a posto. Vai».
La sua maschera non aveva niente che non andava. Erano stati solo la follia e il narcisismo di Rusé a trasformarlo nell’ombra di sé stesso.
Uscisti dalla buca e aiutasti la tua vecchia compagna di allenamenti a liberare il vostro maestro. Dopodiché, camminando sulle piume (tanto erano talmente dure che non permettevano neanche di affondarci) raggiungeste l’armata di Eragon su un promontorio poco distante. Si erano già accampati.
Appena arrivaste alla sua tenda vi venne incontro con un sorriso strafottente: «Era ora che arrivaste». Vi sfotté beccandosi la tua occhiataccia. Quell’essere sapeva veramente essere antipatico quando voleva.  Non che tu fossi simpaticissimo, ma Santa Atena.
«Ti sei ripresa?» Domandò Eragon a Cherie che si scostò rabbrividendo, benché fosse già un fantasma. «Non toccarmi!» Esclamò ad alta voce scacciando via la mano artigliata che lui aveva allungato per scompigliarle i capelli in un gesto paterno.
«Scusatela è molto scossa». Fece DeathToll stringendola a sé per proteggerla. La tua ex compagna di addestramento si strinse a lui di rimando.
Il Guardiano sembrò non darci peso, perché sorrise comprensivo. Poi, continuando a guardarla come un padre amorevole guarda la figlia, domandò: «Non importa, è comprensibile, quanto tempo aveva quando è morta?»
«Otto anni signore, otto anni». Nel sentire quella cifra un’ombra passò sul volto del vostro interlocutore. Quando sparì lui riacquistò la sua espressione serena: «Sì, immagino che per una bambina di una tale età sia già abbastanza traumatico di suo». Disse, in tono più serio. «Parlando di altro, spero che non vi dispiaccia se ci accampiamo qui; c’è una buona vista ed è un posto abbastanza riparato per eventuali attacchi». Fece mentre vi scortava al limitare dell’accampamento.
Il Flegetonte si mostrava fumigante, nello strapiombo sotto di voi, in tutta la sua macabra bellezza.   
«Gli altri sono già accampati dall’altra parte, poco dopo il territorio dei Black Saint che si stanno radunando sulla riva opposta. Combatteremo lì». Disse indicandovi delle zolle nella pianura ribollente. Magma solidificato, ormai roccia, sotto cui il magma riposava.
«É una caldera». Dicesti tu, riconoscendo i vari geyser, le pozze d’acqua, lo zolfo e il tappo poco distante.
«Precisamente». 
«Non è pericoloso?» Chiese Cherie.
«Solo se non si disturba il Flegetonte e la Sacerdotessa degli Inferi non è così pazza. Questo, dopo il Lete, è il fiume più letale di tutti. Ho mandato un vostro collega in avanscoperta per avere una situazione più precisa».
«Un collega?»
«Sì, eccolo che arriva». Vi giraste nella direzione che v’indicò e lo vedeste atterrare vicino a voi.
Era un Cavaliere d’Oro. Forse lo stesso di cui vi aveva parlato Ivan di Troll. Come il tuo maestro, era più basso di una ventina di centimetri. Ma non avresti saputo dire se fosse per genetica o per età. Era un giapponese alto per la sua etnia, sul metro e ottanta, con la pelle di un leggero colorito giallino, gli occhi a mandorla dal taglio severo. I feroci occhi scuri e le sopracciglia inclinate verso il basso, vi suggerivano una forza e una determinazione senza pari. Una rettitudine che non ti era nuova. Una rettitudine e una giustizia implacabile come le lame dei samurai. Ma aveva i capelli bianchi raccolti in una coda bassa e la barba lunga.
A rompere il ghiaccio tra voi fu il vostro maestro che sgranò gli occhi ed esclamò: «Izo». Mentre il nuovo arrivato scendeva dal pendio.
«DeathToll, è un piacere rivederti». Salutò il vecchio samurai dal volto sfregiato e la barba lunga. I capelli bianchi svolazzavano sciolti sulle spalle. Indossava una versione fantasma della Cloth del Capricorno. Quando ti guardò percepisti tutta la sua nobiltà nel portamento e la fierezza nello sguardo. Lo stesso sguardo che avevi ravvisato spesso in Shura. Quegli occhi marroni però, sembravano ancora più taglienti e forti di quelli del tuo collega della Decima.
Questo era il suo vecchio maestro? Ti ritrovasti a invidiare lo spagnolo per cotanta fortuna. A te era toccato l’etoile mancata, con tutto il rispetto per il tuo maestro.
«Izo, questo è il mio fiero allievo, il mio orgoglio, Death Mask di Cancer». Ti presentò DeathToll indicandoti con un cenno della mano dalle unghie laccate di rosso. Il vecchio samurai prese a squadrarti, in silenzio, con una serietà tale che avrebbe fatto sentire inadeguato persino un sasso. Non era proprio uno squadrare era più un misurarti con gli occhi. Un misurare la tua forza e compararla alla sua, giungendo anche a risultati chiaramente sbagliati. Come diavolo si permetteva questo fossile? Ma lo sapeva chi aveva davanti? Tu eri Death Mask di Cancer! Ricambiasti con un’occhiata torva delle tue che ti fece guadagnare un’occhiata gelida da parte del tuo maestro. Che si sfottesse la sua educazione, non sopportavi questa mancanza di rispetto. Collega del tuo maestro o no che fosse. o no, non sopportavi di essere guardato così proprio da nessuno.  
Quest’ultimo non si lasciò scalfire. A un tratto chinò leggermente il busto e se ne uscì con un: «Ai, onorato di fare la tua conoscenza, Death Mask. Allora abbiamo fatto bene ad affidarvi le nostre preghiere e i nostri Cosmi, quattro anni fa e questa è l’altra tua allieva, DeathToll?» Aggiunse poi raddrizzandosi e continuando a squadrarti. Il tuo maestro annuì e fece le presentazioni.
Il samurai tornò a rivolgersi a te: «Spero che adesso possiate combattere al nostro fianco per sorreggere insieme il Regno dei Morti ed evitare un altro collasso. Onorato anche di fare la vostra conoscenza, nobile Guardiano della Casa di Marte, la mia spada combatterà al fianco della vostra». Fece poi, inchinandosi anche al padre di Lady Arya. 
«Ottimo lavoro, degno dei migliori Pilastri degli Inferi». Commentò quest’ultimo, ricambiando con un cenno del capo.
Tu invece eri sbalordito, non ti aspettavi che conoscessero questi… Esseri.
Perché non ve ne avevano mai parlato durante l’addestramento?
Il maestro di Shura si raddrizzò: «No, non siamo noi i Pilastri degli Inferi, ciò che ci muove è solo il desiderio di salvaguardare l’onore della Divina Atena e la pace sulla Terra». Rispose. Tu inarcasti un sopracciglio: ma come diavolo parlava, questo? E che cos’erano i Pilastri degli Inferi? Non ne avevi mai sentito parlare prima.  Prima che poteste domandare qualcosa, tu e i tuoi compagni foste scortati via da alcuni soldati ombra: «Sono certo che vorrete riposarvi, avete fatto un lungo viaggio». Vi congedò il Guardiano. 
E, foste scortati a una tenda dove foste costretti a riposare e ristorarvi. E chiarirvi su quello che era successo prima. 
Solo verso le ventidue e trenta, Izo vi raggiunse e si scusò per non avervi potuto aiutare anzitempo. Il Guardiano aveva voluto sapere ogni cosa per filo e per segno. 
«Perché non ti sei mosso prima?» Domandò DeathToll scontento, incrociando le braccia.
«Mi rincresce tanto, ma non ho potuto, dovevo impedire ai Black Saint di riconquistare i territori riconquistati».
«Anche tutti gli altri sono qui?» Domandò di nuovo Death Toll, speranzoso di incontrare altri suoi ex compagni.
Il maestro di Shura scosse il capo: «Mi dispiace ma non ne ho idea. Non ho visto nessuno della nostra generazione e non ho potuto mettermi in contatto con gli altri a causa delle Creature. Anche se le Creature non sembrano interessate al Cosmo di noi Spiriti, non mi fido lo stesso».
«Cosa ci fai qui?»
«Le paludi Stigie sono state riconquistate da poco, vi ho sentiti arrivare e ho pensato che fosse meglio attendervi e proseguire insieme in attesa della battaglia finale. Per allora avremo bisogno di tutte le nostre forze». Spiegò.
«Anche voi siete entrato al servizio di Lady Pandora come il mio maestro?» Domandasti.
«Gli ho offerto la mia spada, ma mi considero più un alleato che un suo servitore». Rispose il samurai. “Una mossa neutrale” pensasti.
«Una mossa saggia». Commentò il tuo maestro incrociando le braccia e sporgendo un fianco.
Un refolo di vento smosse i suoi capelli finti già arruffati.
Eragon non disse niente.
«Quindi il prossimo scontro è sulle rive del Flegetonte». Continuò poi il vostro maestro e Cherie non poté impedirsi di rabbrividire.
Chiamarlo fiume delle fiamme era riduttivo. Ora che l’avevi visto intuivi quanto potesse essere tremenda la pena per i parricidi e i matricidi. Ti venne persino da pensare quanto fosse inflessibile e implacabile la giustizia infera.  
Il suo collega della Decima confermò.     
Gli occhi di DeathToll lanciarono un lampo e poi annuì con una serietà che non gli avevi mai visto.

Kiki 
Le voci al Santuario non avevano risparmiato nessuno.

  Con la morte di Astrid era come se fosse caduto un tabù. Se molti erano rimasti sconvolti nel sapere che lei aveva sacrificato la sua vita per tutti voi, altri avevano festeggiato la sua dipartita.
Alcuni oppositori di Astrid, della schiera di qualcuno dei tuoi compagni, una sera che eri alla locanda su consiglio di Shion («Vai a svagarti un po’») aveva proposto un brindisi.  
Avevi ordinato una birra, tu che non ne bevevi molta e preferivi il parl perché il Venerabile ti aveva abituato così. Il parl è una bevanda con cui si mescolano miele ed erbe aromatiche assieme alla birra. Per fortuna non era difficile da realizzare. Ma il locandiere ti disse che non ce l’avevano, così ordinasti una semplice rossa media alla spina.  
Mentre bevevi le tue orecchie captarono, in mezzo al vociare la voce maschile di un uomo: «Hai ragione, bisogna festeggiare». Poi scostò la sedia e salì in piedi sul tavolo, beccandosi l’aspro rimprovero del barista. «Ma stai zitto! Bisogna festeggiare, cosa sono questi musi lunghi? L’apprendista del Cavaliere maledetto non c’è più! Il Santuario è salvo, noi siamo salvi! Brindate con me! A Neera, per averci purificato dall’onta di avere una ladra, baldracca, portatrice di sventura tra le nostra fila. A Neera, hip hip urrà!»
E tutti brindarono assieme a lui. Tutti tranne te che digrignasti i denti e posasti il boccale prima di ridurlo in pezzi per la rabbia e il dolore. Come si permettevano?
«A Neera, che ci ha salvati dalla maledizione del Cavaliere Maledetto!» Continuò l’uomo balzando a terra per fare il giro dei tavoli e far cozzare il suo boccale contro i bicchieri degli altri avventori, di ambo i sessi, che urlarono di giubilo. «A Neera, che ha salvato i nostri matrimoni!» E altro coro e altro cozzare di bicchieri. «A Neera, che ha salvato i nostri segreti e il nostro futuro!»
«A Neera!» Cui altri fecero eco e qualcun altro aggiunse: «E alle nostre finanze risanate!» Scatenando le risate del soldato e di altri. Poi, fece l’errore di accorgersi di te, che stringevi i pugni sul tavolo con così tanta forza, che le nocche ti erano sbiancate.
«E la Dea Atena da un possibile traditore e Specter!» Si unì qualcun altro e, riconoscesti la voce per uno dei Bronze della nuova generazione. A quel punto ogni buon senso andò a farsi benedire e 
«Ehi! Ma era una traditrice o solo una Specter?»
«Mah, per me era tutte e due». Rispose e, dalla voce, capisti che era vicino a te. Optasti per la tecnica dell’immobilità assoluta. Avresti voluto essere di pietra per non sentirli, ma purtroppo lo sentisti forte e chiaro. Soprattutto quando ti dette una pacca sulla spalla e te la strinse. «E tu amico? Non brindi?»
«Non mi va». Dicesti con voce sorprendentemente normale e calma.
«Come non ti va? Non lo sai che è festa? Su, su, bevi insieme a noi, non sta bene che qualcuno tenga il muso».
«Ho detto che non mi va, grazie». Ribattesti in tono più secco senza neanche guardarlo.
«Come non ti va? Amico mio, ma lo sai che giorno è oggi? Il nostro settimo giorno di libertà senza più quella piaga d’apprendista di Ophiuchus! Non sei contento?» Facesti uno sforzo notevole per evitare di saltargli alla gola e ammazzarlo di colpi. «Dovrei?»
«E su, non dirmi che tu eri uno dei sostenitori».
«E se anche fosse?»
«Bè mi dispiace ma converrai con me che quella era ambigua, troppo…» Lo interrompesti per avvertirlo: «Dammi retta, lasciami in pace». Non aveva idea di quanto stesse giocando con il fuoco. Poi incitò la folla a rumoreggiare e tu, muovendo solo due dita, spaccasti il boccale con la telecinesi, facendo volare schizzi di birra e pezzi di vetro sul pavimento annaffiando il molestatore.  La locanda ammutolì per un secondo, poi tutti scoppiarono a ridere. Anche la tua schiena e parte della tua chioma furono annaffiate da qualche schizzo, ma non te ne curasti.
Però il molestatore non capì l’antifona in quanto si fece dare un altro boccale e ricominciò a romperti le scatole. A quel punto cercasti di intraprendere una conversazione civile, ma all’ennesimo insulto, mandasti a quel paese ogni riguardo. «Non dire una parola di più!» Esclamasti furibondo afferrando il sottorango per la collottola e alzandolo da terra con la telecinesi.
L’uomo perse immediatamente ogni voglia di ridere e scherzare. Nella sala qualcuno ti riconobbe e, tra le grida saltarono fuori anche degli stupiti e spaventati: «É Aries!», «Il Gold Saint!» e «Cavaliere d’Ariete!», persino un: «Kiki» e un «Nobile Kiriakya!» Ma nessuno osò fermarti, anche se, una piccola parte di te avrebbe voluto. 
«Hai capito? Non dire una parola di più! Non voglio più sentire queste ingiurie sul conto di Astrid! Quella ragazza ha dato la sua vita per salvarci tutti! Io sapevo chi era, io la conoscevo e non si merita affatto tutto il fango che le stai gettando addosso!» Sputasti con tutto il livore di cui eri capace. Sentivi il volto accaldato e il tuo Cosmo crescere pericolosamente a causa della rabbia. Se non lo tenessi sotto controllo, avresti disintegrato questa locanda soltanto espandendolo. E, sebbene fosse molto calato in potenza, tu eri pur sempre un Gold Saint e, in quel momento, ti sembrò di essere tornato forte come prima.
Nonostante ciò ebbe ancora il fegato di ribattere. «Quella baldracca se la merita tutta! A causa sua i Saint vengono decimati e i Gold vengono corrotti! Siete davvero sicuro che non vi abbia ingannato con quel suo bel faccino? L’apprendista del Cavaliere Maledetto di Ophiuchus? Ma quali ingiurie, sapevamo tutti che era una ladra e una prostituta». A quelle parole gli intimasti di tacere ma, costui, continuò a infierire dicendo che Astrid aveva aperto le gambe a tutti, che poi li aveva rapinati e che era giusto che fosse morta. Così anche l’ultima traccia della corruzione che infestava il Santuario era stata debellata definitivamente.
“Ora basta!” Urlasti così forte nella tua testa che il pensiero investì le menti dei presenti costringendoli a piegarsi reggendosi il capo. Mandando gemiti di dolore.
Perdesti la testa e, con il solo uso della telecinesi lo mandasti a schiantarsi contro la parete così forte da spaccarla. Il Cosmo d’Oro ribolliva e splendeva attorno alla tua persona mentre respiravi dalle narici come una belva feroce. Non avevi mai sentito il tuo Cosmo così forte e potente, quasi che sfuggisse al tuo controllo.  «Non osare mai più parlare di Astrid av Stjernene a questo modo!» Sillabasti minaccioso, faticando a tramutare il ruggito che avevi in gola in parole... I pugni contratti lungo i fianchi. Elevasti un braccio e tendesti un dito verso l’uomo che, comunque non si rialzava, continuando: «Mi hai sentito? Non osare più insultare la sua memoria in mia presenza!»
Improvvisamente, mentre il tuo Cosmo si gonfiava pericolosamente, sentisti un vago doloretto alla nuca. Non ci desti peso, scambiandolo per una puntura di zanzara. Solo quando perdesti i sensi la rabbia fu sostituita dallo stupore.
Quando ti rinvenisti, scopristi di essere disteso nel tuo letto. Attorno a te tre voci maschili bisbigliavano come tre rabbiose api rinchiuse in una bottiglia. Apristi gli occhi mugolando e vedesti i tre nel tuo campo visivo. Erano Shiryu, il Venerabile e il Grande Mur, che si erano interrotti per volgere il viso verso di te. «Cosa è successo?» Chiedesti confuso.
«Ho dovuto tramortirti». Spiegò Shiryu senza troppi giri di parole. «Cosa ti è accaduto? Hai quasi ammazzato un soldato semplice, Kiki. Non mi ricordavo che fosse così che ti avessi educato». Aggiunse il Grande Mur guardandoti come se non ti riconoscesse. Nonostante la voce pacata, quello era un rimprovero in piena regola.
A ripensarci sentivi ancora da un lato quella rabbia bruciante che ti consumava come le fiamme dorate. Ma dall’altro, nel realizzarlo ti spaventasti. Trasalisti. «Mia Dea, sta bene?»
«È stato portato in infermeria per un trauma cranico, adesso se ne stanno occupando i medici».
«Cosa ti è successo Kiki?»
«Io… io scusatemi, non ho idea, ho perso il controllo, io…»
«Ormai sono giorni che perdi il controllo facilmente», ti interruppe il Venerabile in tono preoccupato carezzandoti il volto con una delle sue fredde mani bioniche. Si comportava con te come un nonno apprensivo. «Abbiamo fatto una fatica che non hai idea per fermare Kanon dallo spedirti a Capo Sounion e toglierti la Gold Cloth».
«Volete dire che sono ancora un Gold Saint?»
«Sì che lo sei, ma…» Il Venerabile si interruppe e abbassò il capo. Il tuo cuore perse un battito. Sgranasti gli occhi e ti mettesti seduto. Prendesti l’anziano per le spalle e gliele stringesti, esortandolo a parlare. «Ma? Parlate venerabile maestro, per favore, parlate. Vi prego». Implorasti. A rispondere però fu Shiryu: «Sei sospeso da tutti i tuoi incarichi». Trattenesti il fiato rumorosamente e lo guardasti. Il Cavaliere di Libra continuò: «Kanon ha ordinato che sia il tuo secondo in comando a dirigere le operazioni al posto tuo e che, finché non revocherà tale ordine, risponderanno direttamente a te. In quanto coinvolto emotivamente in questa faccenda, sei troppo compromesso e non sei lucido. Perciò Kanon ha ritenuto necessario sollevarti da  ogni responsabilità legata al nostro rango. Non potrai prendere parte alle operazioni di cattura dei traditori e alla probabile battaglia contro di essi».
«E Raki? E i bambini?»
«Purtroppo questo è uno dei motivi per cui sei sollevato. Per non averne parlato prima con il Santuario, Kanon ha scelto di tenerti solo come costruttore di Armature e fabbro, niente di più e niente di meno. Ti vieta, inoltre di indossare la Gold Cloth, di uscire dalla Prima Casa a tempo indeterminato e di combattere al nostro fianco. Ed è solo in virtù del fatto che sei un lemuriano e che, come noi, sai aggiustare le Cloth che ti tiene qui. Il Patriarca pensa che tre fabbri siano meglio di uno solo e, se la guerra è tanto cruenta come si prospetta, allora è bene che tu resti tra queste mura».
Sgranasti gli occhi: «No, non può dire sul serio…»
«Mi dispiace, Kiki». Improvvisamente capisti che cosa avesse provato Astrid per tutto il tempo e, ti rendesti anche conto della tua beffa nei suoi confronti. Sarebbe toccata anche a te una pena peggiore della sua. 
«Ma Grande Mur, Shiryu! Anche voi siete compromessi! Anche voi conoscevate Astrid, se aveste sentito quello che ho sentito io…»
«Abbiamo già sentito, ma abbiamo scelto di ignorare. Conoscevamo Astrid e lei non è mai stata una ladra, tantomeno una prostituta. Tuttavia siamo sorpresi quanto il Patriarca che tu abbia avuto così poco discernimento. Confidiamo tutti nel fatto che sia un periodo molto duro per te e, il Patriarca e la Dea hanno deciso di mutuarti la pena in considerazione della tua condotta e dei tuoi servigi finora eccellenti per il Santuario. Per questo non sei dietro le sbarre». Spiegarono. Stringesti le lenzuola tra i pugni fasciati nel vago tentativo di trattenere la tua rabbia e il tuo senso d’ingiustizia. Adesso capivi perfettamente Astrid. Era impossibile per te non ritrovare analogie con la sua precedente situazione. La rabbia era talmente tanta che non riuscivi neanche a formulare un pensiero di senso compiuto. La tua mente era invasa di immagini che lampeggiavano su uno sfondo rosso e nero. I colori che, per antonomasia associavi agli incendi, all’ira e al sangue dei massacri. Ti sentisti tremare per la rabbia dell’ingiustizia.
Non ci potevi credere. Non avevi fatto niente di male, in fondo, avevi solo difeso la memoria di un’amica. Un’amica molto cara, forse anche più di un’amica. Non capivano che trattandoti così peggioravano la tua situazione? Se ne rendevano conto che prima o poi ti saresti anche potuto vendicare nei confronti dei vostri nemici? Sempre incanalando le tue energie nell’allenamento e negli impegni, ma sempre di vendetta si parlava.
Alla fine, con uno sforzo rilassasti le falangi e ti arrendesti: «Sì, capisco». Pensavi che fosse finita così. Ti stavi già dicendo che con il tempo la rabbia si sarebbe attenuata. Non tanto per farti accettare tutto ciò, quanto, piuttosto, calmarti. Anche se, qualcosa ti diceva che ci sarebbero voluti degli anni. Invece, Shiryu, se ne uscì, in tono compassionevole: «Tuttavia, la Dea ha capito bene che cosa ti ha spinto ad agire così, pertanto» alzasti la testa e lo guardasti, speranzoso, «dice che potrai essere perdonato e riammesso a servizio, se ammetterai i suoi sentimenti per lei. Non pubblicamente, è chiaro, in separata sede, soltanto tu e lei.» si affrettò ad aggiungere.
Udendo quelle parole gli occhi minacciarono di uscirti dalle orbite. “Siamo seri?” Pensasti.
«In fondo, molti Saint hanno fatto molte cavolate in nome dell’amore…» continuò Shiryu ma tu riuscivi solo a fissarlo scioccato. No, non era possibile, cos’era che ti stava chiedendo di ammettere? Ma se per Astrid non sapevi neanche tu che cosa provavi.         
Facesti un bel respiro profondo per calmarti, prima di fermare Shiryu e dirgli: «Ringrazia milady da parte mia e dille che ci penserò».
«Come vuoi».
«Adesso, per favore, lasciatemi solo». Dicesti agli altri incrociando le braccia e distogliendo lo sguardo. Non avevi più voglia di vedere nessuno di loro. Loro e le loro stupidaggini. Come potevano anche solo pensare che tu ti saresti piegato a questa richiesta? E Milady? Possibile che ti conoscesse così poco dopo tutti questi anni passati fianco a fianco?
«D’accordo, come desideri». Ti accordò il Venerabile prima di alzarsi e imboccare la porta. Non che si fidassero ciecamente di te, ma sicuro come l’oro, uno dei due aveva già eretto il Crystal Wall fuori della Prima per impedirti la fuga. Non potevano aver bypassato le tue difese mentali. Shiryu e Mur lo seguirono. Non prima di averti detto che avevano impedito a Seiya di vederti adesso, che se no avrebbe peggiorato la situazione con le sue domande inopportune. «Ha detto che passerà domani mattina».
«Sì, grazie per avermelo detto».
Quando la porta alle tue spalle si fu richiusa, dalla tua gola uscì un verso di frustrazione.           

L’indomani, dopo una notte agitata e una colazione toccata a stento (mangiasti qualcosa e bevesti un tè solo sull’esortazione silenziosa del Venerabile. Anche se impossibilitato a vederti, riusciva ancora perfettamente a intuire i tuoi comportamenti). Non lo si sarebbe mai detto, considerato che faceva tranquillamente colazione e sembrava estraniato dal resto del mondo, come se meditasse.
Verso le nove, puntuale come un orologio, arrivò anche Seiya, il quale ti strinse le spalle e ti espresse il suo sentito cordoglio. Beccandosi un’occhiataccia di rimando. Occhiataccia che s’intensificò ancor di più quando ti chiese che cosa ti fosse preso. Quando eri piccolo sulla sua stupidità soprassedevi, accecato com’eri dalle sue gesta e da quelle degli altri fratellastri. Adesso ti domandavi come fosse possibile che usasse il cervello solo a fasi alterne: «Non so, Seiya, tu come reagiresti se ti venissero improvvisamente tolte due persone a te care e metà Rodorio osasse insultare una delle due davanti a te?» Domandasti liberandoti gentilmente allontanando i polsi dalle tue spalle.
«Io? Bè, io reagirei… Probabilmente come te, ricordo ancora quando Isabel combatté contro Artemide, è stato il periodo più duro e più brutto della mia vita». Ammise abbassando lo sguardo.
Vi spostaste in giardino. Nel bel giardino tibetano che ricordava tanto la Shangri-La delle leggende. Speravi che la bellezza di questo posto bastasse come monito per non rompere niente. Anche perché i giardinieri e i domestici ci avevano messo una vita per risistemarli e, veramente, non ti andava di mandare a monte il loro lavoro.
Perciò vi accomodaste sulla panchina in giardino e ascoltasti le sue consolazioni, a denti stretti. A dir la verità non vedevi l’ora che se ne andasse. Solo che Seiya non era mai stato particolarmente bravo a recepire i messaggi non verbali. Apprezzavi il suo aiuto, davvero. Eri contento che fosse venuto a trovarti e ti stesse vicino, però ora stava esagerando. «In ogni caso ci restano ancora gli appunti di Astrid e le informazioni lasciateci da sua madre. Possiamo ancora fare qualcosa». Dichiarò Seiya risoluto, cercando di infonderti coraggio. E tu annuisti.
Due giorni dopo Odysseus e Lancelot fecero di nuovo la loro comparsa chiedendo di Astrid. Anche se relegato in casa, niente ti vietava di ascoltare e fu quello che facesti. Anche se non riuscisti a mantenere il contatto fino in fondo perché il Venerabile se ne accorse e ti costrinse ad arretrare fino a tornare entro i confini della tua mente.
Non avevi neanche più visto passare la giovane Yuna perché, per proteggerla, Shura aveva deciso di sospendere momentaneamente i rapporti. Inoltre, lo stesso Ionia collaborava attivamente con il Patriarca e la Dea. Potevi solo immaginare quanto stesse bene tutto ciò a Shura. Anche lui era venuto a trovarti e a porgerti le sue condoglianze. Condoglianze che avevi ricevuto sotto forma di bicchiere di sakè perché era così che lui ricordava i caduti. E, ti aveva guardato, nella speranza che tu brindassi con lui. Un brindisi completamente diverso, che andò a cancellare, almeno in parte, quello della locanda. Ma nel tuo cuore auguravi alla giovane e alla tua allieva di salvarsi.
Poi, era scappato subito a organizzare i propri collaboratori. Che, anche lui ne aveva già persi altri. Da quando la giovane era scomparsa eravate di nuovo caduti sotto l’influsso delle Creature e, con la certezza di avere, probabilmente anche un altro assassino, non vi aiutava.
«Probabilmente», aveva detto Shura prima di salutarti, «Dovremo chiedere rinforzi».
«Probabilmente». “Oppure agire di nascosto”. Pensasti, mentre lo salutavi, sull’uscio della Prima.
E non esisteva nessuno al mondo capace di intrappolarti se non eri tu a desiderarlo.     

«Maestro Kiki, maestro Kiki». Ti sentisti chiamare dalla voce squillante di Raki.
Ti girasti da una parte affondando la guancia nel cuscino, cercando di goderti i rimasugli del tuo meritato riposo. Erano stati giorni così intensi che ogni volta che toccavi il letto ti addormentavi di botto.
«Maestro Kiki, maestro Kiki».
«Arrivo, un attimo». Rispondesti con voce impastata e vagamente seccata muovendo un braccio. Ma l’abbraccio delle lenzuola era così invitante che ti limitasti soltanto a metterti supino. 
Ti sentisti picchiettare sulla fronte da due dita. Mugolasti e muovesti una mano per scacciarle, prima di girarti sul fianco. «No, dai, ancora cinque minuti». Borbottasti senza aprire gli occhi. Quel giorno le lenzuola sembravano più calde, avvolgenti e accoglienti. Persino i raggi del sole che ti scaldavano le membra accentuavano la tua voglia di restare a dormire.
Sentisti qualcuno sdraiarsi accanto a te, sul letto. Si puntellò su un gomito, sostenendosi il volto e, ti carezzò delicatamente la guancia con l’altra mano. Quella mano femminile, unita al profumo di sapone, di meltemi e piante aromatiche, ti fece aprire uno spiraglio tra le palpebre. Incontrando così il sorriso luminoso di Astrid. «Svegliati dormiglione». Sgranasti gli occhi, la chiamasti per nome e ti drizzasti a sedere di scatto protendendo una mano verso di lei. Ma non riuscisti a raggiungerla che scomparve e le tue dita incontrarono soltanto l’aria. Restasti per qualche secondo con la mano protesa prima di lasciarla ricadere, annientato dal brusco ritorno alla realtà. Sbuffasti sentendo gli occhi riempirsi di lacrime e il cuore spezzarsi un’altra volta. Ti portasti le mani al volto nel tentativo di fermare quelle lacrime. No, non avresti mai accettato quello che era successo. Non dovevi piangere. Dovevi dimostrare di essere forte. Voi Saint crescevate fianco a fianco con la morte. Avevi detto a tutti che stavi bene, che eri determinato a catturare al più presto Odysseus e Lancelot. Ti eri impegnato come un matto per dimostrare di non essere compromesso come, di fatto, eri. Avevi ignorato le occhiate scettiche dei tuoi colleghi e l’offerta d’aiuto di Sirrah, di metterti in contatto con Astrid.
«Ma perché pensate tutti che io debba sentirmi male? Io sto benissimo!» Avevi ribattuto con convinzione. Una convinzione fragile come un vetro ma che ti ostinavi a tenere in piedi. Non sopportavi di stare con le mani in mano, anche fosse solo per punizione.    
Il cielo in quei giorni era così limpido e sereno da sembrare una presa in giro. 
Ancora non ti capacitavi dell’accaduto e non volevi accettarlo. Nel giro di pochi giorni avevi perso la tua allieva e la tua amica. Avevi accolto la notizia che ti era stata riferita con apparente calma. Mentre Milo continuava a parlare con i soldati e dava le disposizioni per cercare Astrid e portare via il corpo di Neera, tu ti eri dovuto sedere. Improvvisamente le gambe non ti reggevano più. Ti sentivi nauseato, con un sordo dolore alla bocca dello stomaco e un gran peso sul cuore che pulsava in modo doloroso. Non avevi mai provato tanto dolore come in questo momento. 
E quel che era peggio era che Myu era riuscito nel suo intento: aveva infine rapito dei bambini del Santuario. Ma non pensavi che sarebbe arrivato al punto di rapire anche Raki per farti un dispetto.
Il Grande Mur ti aveva visto e ti aveva consigliato di tornare alla Prima. Avevi seguito il suo consiglio dopo che affidasti ogni cosa a Milo. In quanto emotivamente coinvolto eri troppo compromesso per reagire e pensare lucidamente. Come potevi essere lucido in un momento tanto critico? Astrid era riuscita a sfuggirvi, a sfuggire anche a te, che, pure quella notte, la Prima non era certo incustodita. Ed era andata incontro al suo destino.
Mentre Milo aveva guardato il punto dove si trovava Astrid prima che lo Sperone della Carena la annientasse. Poi aveva fatto la sua comparsa Shun. «Che cosa è successo?» Domandò quando vi vide e poi trasalì quando notò il corpo bucherellato e coperto di sangue di Neera. Alla Prima avevi cercato di trattenerti quel tanto che bastava per chiedere spiegazioni al Venerabile. Quest’ultimo ti rispose che non sapeva che Astrid fosse ancora sveglia, non aveva percepito pensieri di nessun tipo da parte sua, neanche una canzone.
Il fatto che poi fosse sfuggita alla sua sorveglianza era stato grazie al trucco più vecchio del mondo. Quando era passato a vedere, aveva usato il cuscino e una maglia appallottolata per simulare il suo corpo. Da lontano e nella penombra, il Venerabile c’era cascato. «Mi dispiace profondamente, Kiki, non immaginavo che sarebbe ricorsa a un gesto tale». In realtà era possibile, ma l’avevate scartato in quanto le possibilità di successo erano di molto inferiori rispetto a quelle di fallire.
Ma perché tutti ti lanciavano quegli sguardi di pietà? Perché tutti si stringevano a te? Non lo capivano che tu non ne volevi sapere niente? Non volevi la loro pietà. Non accettavi questo raccoglimento. Buona parte dei tuoi colleghi aveva sempre mal digerito Astrid. E poi, no… Astrid non era morta. Non poteva essere morta. Pensavi stringendo il pugno e digrignando i denti. Non poteva.
Persino Seiya era dispiaciuto per te e per non aver ascoltato prima Astrid.
Ora lo guardavi. Se da piccolo avevi ammirato lui e i suoi fratelli, adesso ti rendevi conto di averli non solo raggiunti ma addirittura superati. Questo ti avrebbe detto chiunque. Nessuno pensava che tu saresti riuscito a risvegliare il Settimo Senso ed ereditare la Gold Cloth di Aries, nessuno tranne il Venerabile Shion.
Adesso ti domandavi se non fosse il tormento delle Erinni per non averla saputa salvare. Non era così perché Aphrodite non sembrava risentire di questi problemi. Era solo più serio del solito e tu, non osavi neppure guardarti allo specchio per timore di come saresti potuto apparire. Non ti spaventava la pelle secca e la barba un po’lunga o i capelli arruffati. Piuttosto era di trovare una maschera d’impassibilità che poteva rivaleggiare con quella delle Sacerdotesse-Guerriero. Perché se da un lato mentivi a te stesso dicendo che non era successo niente, dall’altro temevi di aver perso ogni cosa. Non volevi risvegliare anche tu il Nono Senso. Il prezzo era troppo alto per questo. Non volevi neanche cadere preda della disperazione. Che pure provavi per aver perso le donne della tua vita.
Ma, al tempo stesso, continuavi a non accettare che gli altri ti trattassero con il guanto di velluto e ti estromettessero da ogni faccenda relativa al Santuario. La Dea aspettava solo te per rimetterti nelle tue file, ma tu non capivi perché. Che cosa andava dicendo? La tua mente si rifiutava di accettarlo e di capirlo.
A pranzo vedesti Makis, il giovane fratello di Makarios. Ora che Shura stava di nuovo bene, era tornato a servire tutti gli altri Saint a rotazione.
Fu lui a cucinare per te, anche se dei piatti greci e, mentre mangiavi, ti domandò come ti sentissi, in tono mite.
«Sto bene». Rispondesti convinto prima di bere un sorso di vino allungato con acqua. Adesso ti premeva solo di trovare un modo per riprendere il controllo dei tuoi collaboratori senza per forza passare dalla via proposta da Lady Isabel. La quale, giorno dopo giorno, mandava Shiryu da te.
«Siete sicuro?» Indagò.
«Sto bene, per favore, non chiedermi altro, non sono dell’umore adatto». Rispondesti in tono irato, senza tuttavia scollarti dalla sedia o interrompere il tuo pasto. «Scusatemi, nobile Kiki è solo che… Che sono preoccupato per voi, ecco».
Lo guardasti e lui si fermò mentre metteva i piatti nell’acquaio. «Sul serio?» Indagasti un po’sorpreso e, il giovane, asserì con il capo. «Sì, signore». Poi ti guardò con i suoi occhi azzurri, incerti. Accidenti, eri così messo male da fargli temere che tu potessi alzare le mani su di lui, come Death Mask ai tempi della dominazione di Arles? Rilassasti le spalle e ti pulisti la bocca. Poi tornasti a guardarlo, addolcendo lo sguardo. In fondo eri contento di percepire la sua sincera preoccupazione. E poi, Makis ti era sempre stato simpatico. «Da quando c’è stata la tragedia e abbiamo saputo… Io e miei colleghi le auguriamo soltanto che la Dea riveda la sua posizione. Se, intanto c’è qualcosa che rientra nelle mie possibilità, la prego di dirmelo e io lo farò». S’offrì con voce più salda sul finale.
Curvasti la bocca in un sorriso. Makis era un bravo ragazzo, meno malizioso del fratello maggiore, ma molto coscienzioso. Era uno dei pochi su cui si potesse sempre contare. Inoltre, era uno dei pochi a non temere la Prima Casa per la stanza delle Sacre Vestigia e l’odore di sangue. Gli avevi insegnato tu a ricucire le ferite, sì che potesse aiutarti. Ed era a lui che avevi dato i primi rudimenti della cultura base. Cosa che l’aveva spinto a leggere molti libri e a migliorare sé stesso per poterti essere d’aiuto. C’erano delle volte con cui, con lui parlavi di sogni e lui, a volte ti confidava i suoi. Aveva un bel modo d’interpretarli. «Mi dispiace, ma è un periodo che non sogno più molto come prima».
Ti alzasti e andasti a posare il piatto vuoto sul lavello. Poi tornasti al tavolo. Ma non ti risedesti. Restasti invece appoggiato al tavolo con braccia e caviglie incrociate.
«Restaste spesso sveglio?» Chiese, desideroso di aiutarti, mettendo da parte lo straccio.
«No, più che altro non mi ricordo cosa sogno. A volte mi domando se io sogni ancora». Era come se la scomparsa di Raki e Astrid ti avesse sottratto la tua fantasia. «Ma disegnate ancora?»
«No, ho smesso da un po’». Facesti appoggiandoti al tavolo, mani e
«Forse dovreste riprendere, potrebbe aiutarvi».
«Grazie del suggerimento, Makis. Ci penserò. Nel frattempo, c’è effettivamente qualcosa che potresti fare per me». Gli occhi azzurri del giovane lanciarono un lampo. «Ditemi cosa devo fare».
«Raduna i miei sottoposti, falli venire qui, devo parlare con loro».
«Sarà fatto, Nobile Kiki». Poi, con un inchino, se ne andò. Poi, ti sedesti di nuovo a tavola e finisti il resto del pranzo.    
Se speravi che potesse esserti effettivamente d’aiuto, ti sbagliasti. Perché a un certo punto il tuo maestro comparve sulla soglia e tossicchiò per attirare la tua attenzione. Alzasti lo sguardo e lo guardasti interrogativo. «Ho fermato proprio ora un giovane servitore con un messaggio per i tuoi sottorango. Cosa stai progettando, Kiki?» Domandò il Grande Mur scrutandoti sospettoso.
«Niente. Volevo solo vederli».
«Vederli, per cosa?»
«Nulla, tanto non potrei fare nulla.» ti pulisti la bocca con il tovagliolo e ti alzasti da tavola: «Ho finito di mangiare. Con permesso, maestro, sono stanco». Facesti fermandoti davanti a lui. In realtà la corporatura del Grande Mur era di poco più esile della tua. Anche con le Sacre Vestigia indosso, non esprimeva appieno la sua vera forza. Tu invece la rivelavi un po’di più. Ti mettesti di lato e gli passasti accanto.
Ma, anche se la sua corporatura era più esile, la sua stretta era salda e ferma come poche che avevi conosciuto. E, bastò questa, per quanto gentile fosse, sulla tua spalla, a fermarti. «Ti prego, Kiki, non prolungare oltre questa tortura. Il Santuario ha bisogno di te e tu hai bisogno di combattere. Non cercare sotterfugi e non cercare di scappare, dimmi che cos’hai e perché fai così».
«Non ho niente». Mentisti.
«Kiki…»
Sospirasti e ti arrendesti. Avresti voluto piangere, eppure, i tuoi occhi, in quel momento erano asciutti. «Avete mai amato sì tanto qualcuno, da impazzire se mai gli succedesse qualcosa?»
«Sì, certo Kiki, che domande sono queste?»
«Non mi riferisco alla Divina Atena».
«Non stavo parlando di Lei, infatti. Tu amavi…».
«Raki sì, come se fosse mia figlia», confessasti. Ed era vero. Perché era per lei che eri sceso in campo contro i Martian ed era per lei che ti eri riunito alla schiera dei Gold. Tu ti sentivi orgoglioso quando la tua piccola allieva ti guardava ammirata, anche se non glielo mostravi. Come desiderava diventare forte come te. Come maestro eri una frana, ammettiamolo. Lei non avrebbe mai acquisito il Settimo Senso, ma il legame che vi univa valeva più di tutti i Sensi messi insieme. Era così stretto che ti si straziava il cuore a non vederla più, a sapere che, per colpa della tua negligenza era accaduto tutto questo.
Inspirasti dal naso, prima di continuare: «Astrid… Astrid non lo so. Le volevo bene, ma non saprei dire altro di più, non sono un guerriero, sono un riparatore di Cloth».
La stretta sulla tua spalla si allentò, ma tu non ti muovesti. «Manderò a chiamare io i Bronze e i Silver sotto al tuo comando, quando potrò». Fece, prima di lasciarti andare.
Lo guardasti da sopra una spalla, poi, ti girasti completamente verso di lui. «Grazie, maestro».
Lui ricambiò con un cenno del capo. Con lui questa confessione ti era venuta spontanea. Perché se c’era qualcuno che capisse bene ciò che provavi, questi era proprio lui.  
I tuoi sottorango ti raggiunsero quasi subito, mentre cercavi di leggere un libro in salotto. Li avevi sentiti arrivare, perciò mettesti da parte la lettura e ti alzasti in piedi. Le braccia che ricadevano lungo i fianchi.
«Nobile Kiki», ti salutarono Ichi di Hydra, il Bronze Saint di Sculptor, di Caelum, di Fornax  e il  Silver Saint di Heracles. Con tuo enorme rammarico ti accorgesti che le Creature avevano già fatto strage anche tra le tue fila. Adesso non immaginavi neanche quanti altri Saint fossero deceduti.
Poi, senza proferire parola alcuna sul tuo aspetto trascurato, si inchinarono. «Benritrovati».
«Volevate vederci? Siete tornato in servizio?» Indagò Ichi spostandosi dietro la spalla i suoi capelli neri e bianchi. Poi il Cavaliere di Fornax aggiunse che «Il Grande Mur ci ha detto che volevate controllare le nostre Cloth in vista di un futuro possibile attacco». 
«Sì, è come ha detto il mio maestro credo che dargli un’occhiata non farebbe male». Rispondesti prima di far loro cenno di rialzarsi e seguirti nella stanza dove riparavi le Cloth.
I tuoi sottoposti si tolsero le Cloth e lasciarono che tu le esaminassi. Non avevi perso la capacità di vedere ciò che agli altri sfuggiva. Per vostra fortuna, queste Cloth avevano bisogno di un po’d’olio di gomito e una bella lucidata. A parte quella di Ichi, era piena di micro scalfitture. Ordinasti al custode degli attrezzi da riparatore di passarti tutto l’occorrente e a Ichi, di tagliarsi, spiegando i danni che aveva la sua Cloth.
I due eseguirono e, mentre lavoravi, parlasti: «Mi hanno riferito che la Dea vi ha preso sotto il suo comando nell’attesa che io mi decida. Vorrei che faceste una cosa per me. Niente di terribile, sia chiaro. Vorrei solo che, in ogni caso continuaste a vedere me come referente, di modo che possiamo elaborare strategie per battere Odysseus».
«Ma signore, questo non è…»
«Legale? Lo so, ma non posso restarmene con le mani in mano e, la mia esperienza in battaglia vi sarà utile. Pertanto vi chiedo di venire a chiedere consiglio anche a me sulle possibili strategie che adotterete». Chiaristi. Poi li guardasti a uno a uno, prima di domandare se potevano farlo.
«Sì, credo di sì».
«Ma la Divina…» Insinuò il Bronze di Sculptor e tu lo interrompesti per spiegarti: «La Divina non credo che disapproverà, Odysseus resta comunque un avversario da non sottovalutare. Più siamo a combattere questa minaccia, più probabilità abbiamo di debellarla».
«Come desiderate, Nobile Kiki».
«Quello che dovevo dirvi l’ho detto». Smetteste di parlare e tu di lavorare. Controllasti la Cloth, che adesso era come nuova e ribollente di vita. Eri più veloce dei tuoi predecessori, ma niente toglieva alla tua bravura di riparatore di Cloth. Restituisti la Sacra Vestigia di Bronzo al suo proprietario, che la indossò subito: «Ecco a te, come nuova. É tutto per oggi, siete congedati».
I Bronze e il Silver si rialzarono e, dopo averti salutato, promettendo di fare quanto richiesto, ti lasciarono di nuovo solo in quella stanza.
Tu li accompagnasti con lo sguardo    
Quella sera, mentre ti rigiravi nel letto, avesti un incubo in cui venivi posseduto da una Divinità. Avevi cercato di opporti, di scacciarla, ma lei non se ne andava. «Vattene via! Lasciami in pace!»
«Cosa credi di fare, misero umano?»
«Io non sono il tuo ricettacolo, vattene!»
«Sì che lo sei, hai risvegliato il Nono Senso, non potrai più tornare indietro».
Poi allungò la mano verso di te e ti svegliasti di soprassalto, madido di sudore e con le lenzuola attorcigliate alle gambe. Era solo un sogno, ma fu abbastanza per toglierti il sonno. 
Con ancora quelle parole nella mente ti alzasti, ti mettesti qualcosa addosso e uscisti. Non avevi voglia di andare dalla Dea, ma sentivi il bisogno di uscire. Per questo decidesti di passare dai sentieri dei servi. Il tuo maestro e il Venerabile stavano già dormendo a quell’ora.
Il giardino era tempestato di lucciole che ti ricordarono i bagliori di Astrid. Appena facesti quest’associazione, il tuo cuore batté più dolorosamente. “No, non è così. Non è così”. Pensasti sigillando gli occhi. Poi li riapristi e un fiume di lacrime scorse sulle tue guance scavate. Stringesti i pugni e ti avviasti verso la scalinata secondaria.
Come potevano arrendersi così? Solo perché non era stato trovato il corpo non significava che lei fosse morta. Era qui, te lo sentivi. Ogni volta che respiravi, i tuoi polmoni si riempivano del suo profumo. Ogni volta che si alzava il vento la sentivi cantare, ogni volta che ti svegliavi era sempre qui. E, ogni volta che sentivi un rumore, pensavi fosse lei che faceva capolino nella stanza.
Non era un’illusione. Il tuo cuore diceva che non lo era. La tua testa temeva che lo fosse, ma era una parte talmente piccola che temevi di essere impazzito. Ma tu non eri impazzito. Non potevi neanche risvegliare il Nono Senso. Niente di tutto questo.    
Senza che te ne rendessi conto arrivasti alla macchia incantata e ti ritrovasti sulla sua spiaggia.
E lì, dopo aver osservato il mare senza vederlo per un po’, crollasti a terra in ginocchio, sconfitto. Ma chi volevi prendere in giro? Era tutta un’illusione data dal dolore dei sensi di colpa. Astrid era morta e non sarebbe mai più tornata. 
«Kiki». Ti chiamò titubante la voce di Milo, poi si avvicinò. Non l’avevi neanche sentito arrivare. 
«Perché fate così? Non può essere morta, non è morta.» Mormorasti in tono lacrimoso.
«Kiki…» Cominciò lui e sentisti anche una seconda voce maschile trasalire. Shun. 
«Non è morta». Ripetesti con voce fragile.
Non avevi versato lacrime quel giorno, non eri caduto in ginocchio e non avevi liberato un urlo straziante che si era perso nella notte e tra le onde della spiaggia. Non eri distrutto, eri annientato e sotto shock. Al punto che il tuo corpo aveva messo il pilota automatico e non avevi che reagito come se ti stessero parlando del tempo.
Nel giro di una settimana avevi perso tutto. Avevi cercato di essere forte perché tu sapevi come era la vita dei Saint. Tu sapevi quanto fosse difficile e dura. Sapevi che la morte viaggiava accanto a voi come una fedele amica. Anche se non lo davi a vedere. Solo la Dea sapeva quanto in realtà avessi avuto paura tutto il tempo, quanto dentro di te crescesse, ora dopo ora, la sensazione d’aver sbagliato tutto, con Astrid. Con Raki ti rammaricavi di non averle prestato più attenzione, certe volte. Ma non ti pentivi di averla trattata più come una figlia che come un’allieva. E, proprio qui, finalmente piangesti, lontano da tutto e da tutti, nella macchia mediterranea che la ragazza aveva scovato e che non aveva più esplorato perché non gliel’avevi permesso. Stupidamente pensavi che sarebbe stata più al sicuro lontano da questo posto e invece. Invece ti pentivi di non averle mai detto la verità, cioè che tu sapevi come raggiungerlo. Avresti voluto vederla qui, tra queste piante, risaltare come un raggio di luce in mezzo a tutto questo verde scuro e vederla esplorare questa foresta insieme a te.
Sentisti la mano di Milo posarsi sulla tua spalla e la sua voce chiamarti, angosciato.
«Lei non è morta». Continuasti a singhiozzare con voce sommessa. Le lacrime che colavano dalla punta del lungo naso affilato. «Non è morta, non è morta». Continuasti scuotendo ripetutamente il capo. «Nessuno di loro, lo è». Aggiungesti con voce talmente sottile che passò quasi in secondo piano rispetto al resto. Raccogliesti la sabbia tra le dita mentre contraevi i pugni e ti abbracciasti nel tentativo di infonderti coraggio. «So che è viva, non può essere morta. Non può».
Shun s’inginocchiò accanto a te ed entrambi ti lasciarono sfogare.
In silenzio, rispettando il tuo dolore, poi, le braccia di Shun ti strinsero al suo petto per consolarti. Nonostante la barba lunga, i capelli sporchi e il fetore che emanavi.
E tu piangesti ancora e ancora. Stavolta apertamente, mentre le tue grida e i tuoi lamenti strazianti si perdevano nella notte, spaventando gli uccelli e i pipistrelli che si levarono in volo. Ma anche così nessuno dei due volle abbandonarti.  

Shaka
Il tormento per la tua scoperta ti aveva gettato nello sconforto più totale. Non ne sapevi molto della Luce Ombrosa ma intuivi che fosse estremamente importante. La cosa di cui non ti capacitavi, era la noncuranza di Lady Asia. Come era possibile che non si tormentasse anche lei? Se, come ti aveva confermato, questo manufatto era andato perduto, allora eravate tutti in serio pericolo.
Come faceva a dormire sonni tranquilli e andare avanti con le sue ricerche così, come se niente fosse? Non volevi credere che fosse così insensibile.
Perciò, quel piovoso pomeriggio gliene parlasti. In realtà fu lei a rompere il silenzio ostinato in cui ti eri chiuso, non volendo, tra meditazioni, riflessioni, piani e tentativi di non divergere i tuoi pensieri sulla bella donna che viaggiava con te. Rieccola qui la tua vena di arroganza eh? Eri tu che viaggiavi con lei, non il contrario. Ma visto che la spocchia è una malattia di cui è dura liberarsi, ci penso io a smontarti.  
Stavate viaggiando su un treno diretti verso le Alpi italiane, ma nonostante la bellezza del paesaggio e i nomi più o meno buffi delle stazioni cui il treno fece scalo, non ci facesti molto caso. Avevi lasciato fare tutto alla Dea. Era stata lei a prenotare il biglietto (in quanto teoricamente facente Viaggio Astrale, sarebbe stato strano prenotare per una persona che, tecnicamente, non era percepibile ai comuni mortali) e metterti il Pandora-Box in una tasca temporale da cui avresti potuto evocarlo una volta uscito dal treno. Le oscillazioni del treno erano una cosa nuova per te. Non avevi mai preso un mezzo di trasporto umano da quando avevi sei anni e, forse neanche prima. Non eri abituato a sentirti tappare le orecchie ogni volta che entravate in una galleria o alla dilatazione del treno quando un altro vi passava accanto e alla sua repentina restrizione. Ma neanche alle frenate più o meno brusche del macchinista che ti avevano fatto rimpiangere le care vecchie corse a piedi e quasi fatto vomitare la colazione semi insipida del vagone bar. Fino a quel momento non avevi mai considerato quanto ti piacesse davvero correre e, quanto ti sentisti libero e padrone del mondo quando lo facevi. Hai capito, Shaka? Grazie alla compagnia tranviaria italiana stavi riscoprendoti uno sportivo fatto e finito. Ma probabilmente avresti subito lo stesso effetto su qualsiasi altro treno di qualsiasi altro stato. Soprattutto quello indiano che pure avevi visto. “Non me ne parlare, per pietà”. M’implorasti, imbarazzato al ricordo, perché un conto è viaggiare sul tetto e può anche essere pericoloso quanto divertente. Un conto è fungere da ornamento umano a un treno in corsa. Perché era questo che somigliavano certe corse in India con tutte le persone allacciate le une alle altre e appigliate a parti esterne del treno. Era un buon esercizio di resistenza fisica e mentale, comunque.
Ovviamente la spoliazione delle Sacre Vestigia non ti aveva entusiasmato. Non tanto perché temevi di essere giudicato per la tua mise o per il tuo corpo, quanto piuttosto che scoprisse il tuo segreto. Ma non successe perché, con un piccolo ausilio della velocità della luce, riuscisti a nascondere il tuo tesoro nella forma totemica della tua cloth. Non ti fidavi moltissimo, ma fu bello togliersi per un po’le Sacre Vestigia. Avevi temuto che si fosse accorta di tutto, ma poi, quando avevi capito che era ancora all’oscuro di tutto ti eri rilassato. Per modo di dire, la donna che ti faceva palpitare il cuore era pur sempre seduta davanti a te.
Lady Asia, dal canto suo, sembrava perfettamente abituata al treno. Talmente tanto che si era assorta su chissà che sito. Aveva collegato gli auricolari del suo telefono di ultima generazione (ovviamente estratti da una tasca temporale) e si era lanciata nella navigazione online. Era la prima volta che vedevi una Dea comportarsi così umanamente. Ti parve quasi una caduta di stile. Se non fosse stato per l’aura di sacralità che l’avvolgeva, avresti continuato a pensare che fosse una semplice donna umana. Considerando però il luogo, era una buona strategia per passare semi inosservati. Probabilmente stava ascoltando della musica, ma non sapevi quale e non avevi il coraggio di chiederglielo.   
Tu osservavi preoccupato l’esterno dal finestrino.
«Cosa c’è, Shaka?» Ti domandò togliendosi gli auricolari dalle orecchie. Finora se ne era rimasta assorta nei suoi pensieri, ascoltando della musica di cui percepivi una vaga eco dai suoi auricolari.  
«Sono preoccupato».
«Sono giorni, ormai che sei preoccupato, potresti dirmi che cos’hai?»
«La Luce Ombrosa.» rispondesti, poi la guardasti: «Milady, so che non dovrei suggerirvelo ma credo che dovremmo fare qualcosa. Non possiamo lasciare il Santuario allo sbaraglio ora che la Luce Ombrosa non è più tra i Vivi. Ci ho riflettuto a lungo e credo che dovremmo andare a cercarla o cercarne un’altra ma…» T’interrompesti per via della faccia della tua interlocutrice. La bella Azona ti guardò come a dire: “Ma sei serio?” e tu ti zittisti perplesso di fronte a quell’occhiata. Giusto, come ti permettevi di darle suggerimenti come se foste al Santuario? Lady Asia era una donna di polso, non era Lady Atena, che, per quanto fosse stata giovane ai tempi, vi lasciava agire come meglio credevate.
Poi prese fiato e «Questo è impossibile, Shaka». Scandì per bene senza staccarti gli occhi di dosso. A un rifiuto ti eri preparato, ma allora perché ti guardava con occhi incerti, guardinghi come se temesse di turbarti? Dopo un respiro aggiunse: «Perché la Luce Ombrosa è ancora viva».
Infatti questa rivelazione ti turbò alquanto. Non era morta? Come era possibile? Nessuno poteva sopravvivere a un attacco come quello. «Ancora viva? Com’è possibile? Abbiamo percepito tutti quella battaglia furibonda».
La Dea si aprì in un sorriso e rilassò le spalle: «Questo è uno dei misteri che le gravitano attorno, ma puoi stare certo che non può essere morta, se non mi credi, controlla tu stesso». Ciò detto ti pose i polpastrelli sulle tempie e, improvvisamente, il tuo terzo occhio si spalancò di scatto e tu, vedesti.

Avesti una panoramica dell’accampamento infernale della Resistenza. Lady Pandora, a seguito dell’alleanza con Erebo e Nyx aveva riconquistato parte degli Inferi e Death Mask, con la sua avanzata, le stava venendo incontro.
Poi la panoramica si restrinse e vedesti dentro una tenda ospedaliera. Non solo i numerosi feriti e i medici, ma anche la Luce Ombrosa. Sobbalzasti. Ti eri immaginato che potesse essere una ragazza, ma non che potesse essere così! Lì per lì ti prese un accidente perché la prima cosa che notasti, fu il suo volto. “Camus?” Pensasti sorpreso. No, Camus non era biondo e non portava i capelli così. Mentre la tua mente si affollava di interrogativi, lei cominciò ad agitarsi nella brandina. Contrasse la faccia in una smorfia, come se stesse facendo un brutto sogno, poi aprì la bocca e mugugnò qualcosa che non afferrasti.

La smorfia si trasformò in un’espressione di dubbio. Strinse le dita a pugno. Poi respirò appianando i lineamenti e tu comprendesti che doveva aver creduto di essere morta. Anche tu, ad Asgard avevi fatto le stesse espressioni, avevi cercato il tuo corpo e, avevi appurato di non essere ancora pronto per scomparire nel Nirvana. Con tuoi sommi sollievo e delusione, la vita ti era ancora molto cara perché tu l’abbandonassi così, anche se per una buona causa. Ci avevi pensato molte volte, ma non avevi mai considerato che avresti avuto lo stesso una paura del diavolo.
Poi la ragazza aprì gli occhi e la visione s’interruppe con un brillio dorato. Guardasti la Dea allontanarsi da te, abbassando le mani. «Che cos’era?»
«Quello che accadrà tra qualche ora». Ti rispose serafica e tu la guardasti incredulo, battendo le palpebre per lo stupore. «Quella era la Luce Ombrosa? Ma io pensavo che fosse un manufatto, non una… una persona!» Erompesti incredulo. Il tuo primo istinto sarebbe stato quello di avvisarli in qualche modo, ma ti bastò un’occhiata alla Divinità per fermarti. Qualcosa ti uccideva le frasi ancor prima che abbandonassero la tua mente. Era il modo in cui ti stava guardando. «Lascia che credano che sia morta ancora per un po’». Consigliò tornando ad appoggiare la schiena allo schienale del sedile perfettamente rilassata. Tu non capivi, per quale motivo avrebbe dovuto rilassarsi se poi… Avesti l’illuminazione e guardasti la bellissima donna davanti a te. Era improbabile per i tuoi gusti, ma sperasti che fosse quella la ragione: «É per la Storia?»
«Sì, il suo aiuto negli Inferi sarà fondamentale, ma c’è un’altra cosa che adesso mi preme».
«Cioè?»

« Mi è arrivato ora una richiesta di soccorso da uno dei miei confratelli, perciò dobbiamo sospendere per un momento la ricerca dei Guardiani». Aggiunse poi sbuffando scocciata. «Di norma non ce ne sarebbe neanche bisogno, ma in questo caso è necessario: dobbiamo impedire il risveglio dei Primi Cavalieri».
«I Primi Cavalieri? E chi sono?»
«Voi li chiamavate la Guardia Reale, se non erro.» strabuzzasti gli occhi e il tuo cuore incespicò prima di riprendere a battere per il terrore. La Guardia Reale erano i soldati scelti del Titano del Tempo, il primo nucleo originario di soldati al servizio di una Divinità. Il tesoro più grande dell’ex Signore delle Divinità dell’Età dell’Argento mitologica. «Si trovano a cavallo tra la dimensione degli Inferi e il Tartaro stesso. Non potevano essere sigillati altrove perché l’Oltretomba li rifiutava in ogni caso». Spiegò preoccupata e tu capisti subito dove volesse andare a parare. «Mandate me». Lady Asia ti guardò esterrefatta e tu continuasti: «Sono un Gold Saint, sono più forte di quanto sembra».
La giovane sospirò e cercò di ponderare la questione, ma tu non glielo permettesti. Ti sporgesti in avanti verso di lei e dicesti: «Milady, per favore, se la mia forza può esservi utile in qualche modo, allora così sia. Non abbiate paura di mandarmi in battaglia, ho risorse che neanche potete immaginare. Quello che ha fatto Camus è niente rispetto a quello che posso fare io. Io da solo tempo fa, bloccai l’avanzata del potere dei Titani e i Titani stessi». Le raccontasti, (ti vantasti,  Shaka, anche se lo dicevi con tono vellutato e pregavi che ti ascoltasse, il tuo era un vanto. Non ammantarti di una modestia che non hai). Lei soppesò le tue parole guardandoti dubbiosa. E tu, che ci tenevi a fare la figura dello spocchioso, insistesti con un «Posso farlo» così convinto, che ci avrebbe creduto chiunque. Peccato che tu ne avesti l’assoluta certezza solo nel momento in cui quelle parole ti uscirono di bocca. Ma questo potevamo saperlo solo io e te, lei non ti conosceva così bene da decifrarti.

Proprio in quel momento il treno si fermò a Trento e lei si alzò per scendere.
La seguisti, un po’confuso. «Se dobbiamo discutere di questo, allora dobbiamo scendere».
«Ma il viaggio?»
«Non preoccuparti per il viaggio». Usciste dalla stazione e arrivaste al parco curato lì davanti. Lei si fermò davanti al laghetto dove le anatre nuotavano e le osservò. L’affiancasti e attendesti.
Lei continuò a osservare l’acqua con un’espressione pensierosa. Ma alla fine sospirò: «D’accordo, Shaka. Ma prima sarà meglio che tu conosca i tuoi avversari» prese un respiro e cominciò a raccontarti della Guardia Reale, aggiungendo fatti, aneddoti e altre informazioni finora a te ignote, a quelle che già avevi. I Primi Cavalieri furono addestrati dal Titano in persona. Non erano mortali e, durante la caduta del Titano, su di loro fu posto un sigillo, che, impedì il risveglio durante la Titanomachia del Settantanove. Complice anche l’amnesia di Crono, non furono risvegliati.
Adesso, a causa dei Black Saint, che erano entrati in possesso di queste informazioni, il sigillo si stava spezzando. Quello che dovevi fare era sigillarli un’altra volta per mezzo del tuo potere e di una striscia di pergamena che materializzò dal niente e ti porse.  
«Che cos’è?»
«Lì troverai tutte le informazioni relative ai tuoi avversari. È quanto di più rapido posso fare per aiutarti, la pergamena funziona anche da sigillo, per cui non esitare a usarlo. Per attivarlo ti basterà scagliarla in mezzo a loro e recitare una preghiera a Buddha, una qualunque».
«D’accordo». Dicesti prendendola.
Poi la Dea ti fece cenno di farti da parte, sfoderò la lama verde e la puntò in alto verso il cielo, incurante delle persone che erano lì e si spaventarono.
L’abbassò di taglio, di modo che il filo le tagliasse in due il volto. La mano destra posta tra la guardia e l’elsa. Prese un respiro profondo per caricare il Cosmo che vibrò. Chiuse gli occhi ed espirò.
Riaprì gli occhi di scatto, abbassò la mano, si spostò di lato roteando la spada e la riportò davanti a sé tagliando la realtà. Poi, si fece da parte e ti disse: «Vai, questo portale ti scorterà dritto nel luogo del sigillo».
«D’accordo, milady». Apristi gli occhi e li usasti per colmarti della sua essenza, della curva delle labbra, del colore dolce della sua pelle, color legno di palissandro, forse? Gli espressivi occhi scuri e i bei capelli cui avresti voluto intrecciare le tue dita. Non ti era mai parsa più bella di adesso e, il tuo cuore batté più rapidamente, reagendo a quella dolce visione. L’avresti voluta baciare, stringere a te e non lasciarla andare più. Avresti voluto scoprire le sue membra, perché immaginavi che ciò che il tessuto copriva fosse anche migliore di ciò che vedevi. Ma dovevi andare, il tuo dovere ti chiamava.
Perciò, evocasti la tua cloth. Le linee dorate del Pandora-Box si disegnarono sopra di te, una forte luce si propagò da esso e, le tue membra si appesantirono, riconoscendo la tua Sacra Vestigia e il tuo tesoro posarsi sulla tua pelle. Il mantello svolazzante alle tue spalle. Proprio come lei aveva promesso.
Quando la luce scomparve indossavi di nuovo la tua Armatura. Ti inchinasti leggermente e la salutasti con un sorriso. «Namastè, milady». Lei non disse niente. Ti raddrizzasti e ti girasti. A due passi dal portale la sentisti raccomandarsi: «Fai attenzione» proferendo rapidamente quelle parole, come se si vergognasse. O come se le fossero estranee.  
Ti fermasti e la guardasti da sopra una spalla per scoccarle un dolce sorriso in cui era insita la tua promessa. “Anche fosse solo per un sorriso io tornerò da voi” pensasti mentre le tue iridi carezzavano un’ultima volta la sua persona: «Non fallirò», promettesti prima di richiudere gli occhi, riportare la faccia dritta ed entrare nel portale. “Perché adesso ho qualcosa di importante a cui far ritorno anch’io”. Pensasti.  

Poter girare il mondo sette volte nel giro di un secondo non significa visitarlo, assaporarlo e conoscerlo in ogni suo singolo dettaglio. Per questo avevi quell’aria così spaesata, che faceva tanto scolaretto il primo giorno di scuola. Almeno, così saresti stato, se tu fossi mai andato a scuola. Ma valeva la scuola del Santuario? Forse non poi così tanto, te ne rendevi conto anche tu, dall’alto della tua illuminazione. Ma la testa e il cuore, ognuno li riempie di ciò che vuole.
Noi potevamo soltanto accettare le sue scelte. E tu? Ti eri soffermato a riflettere su questo? Sì, ovvio che l’avevi fatto, non prenderti in giro, io sono te, l’hai dimenticato? Non mi puoi ingannare neanche se ci provi, perché io saprò riconoscere ogni tua menzogna e, prima o poi ti presenterò il conto.  
“Non sto mentendo”, ribattesti. “Non ho intenzione di scappare da quello che provo, non sono un codardo e poi, il Nirvana si può anche raggiungere immergendosi nel Tutto”. Certo, Shaka, questo è vero, ma tu eri quel genere di persona? Mi ricordavo che eri alla stregua di un lupo solitario, che preferivi meditare per conto tuo, non immergerti nella quotidianità. Ma era anche vero che questa non era quotidianità, era una Guerra. Ammesso che così si potesse chiamare e non, magari, rito d’iniziazione, non credi? Dopotutto eri entrato in contatto con degli Dèi che, in quanto a illuminazione avevano tantissimo da insegnarti. E anche se la tua coppa era piena, non significava che tu non potessi, come dire, riempirne un’altra. Strano, vero? Come ti arroccassi a questo modo per cercare scuse per restare e apprendere. Ma d’altronde solo un cretino si sarebbe lasciato sfuggire un’occasione come questa, al di là della bella donna di cui ti eri invaghito.
Tu volevi sapere come facessero a bilanciare la loro millenaria saggezza e conoscenza con la quotidianità, era quello il mistero che, più di tutti volevi svelare. E poi, eri deciso a mettere in ordine nel tuo mondo stravolto. Cioè, eri abituato a pensare che gli Dèi vivessero tutti arroccati in Santuari come quello della tua Dea, non avevi mai pensato che altri, invece, vivessero perfettamente mimetizzati in mezzo agli esseri umani.
Chissà quanti miracoli avevano potuto compiere. Quante volte erano apparsi e poi spariti nel mucchio come piccole onde nel mare mosso. Per di più senza Sacra Armatura. Già voi Saint combattevate a mani nude, ma avevate pur sempre bisogno di una protezione in più. I vostri corpi erano comunque umani e fragili e, ammettevi anche tu che le Cloth vi davano un’enorme sicurezza.      Per te era una grande conquista il fatto che avesse deciso di concederti la sua fiducia.
Il sorriso ti morì in volto, pensando alla tua missione.
Già, risvegliare i Primi Cavalieri non era una buona cosa, fin qui te ne rendevi conto. Per la prima volta in vita tua, ti domandasti se ne avresti avuto davvero la forza, dal momento che, anche tu, eri uscito parecchio destabilizzato dal combattimento contro l’Astronauta. Nemmeno Loki si era rivelato così potente e duro da combattere. Avevi visto anche tu, poi, le condizioni psichiche, fisiche e cosmiche di Camus una volta finita la battaglia. Non avevi mai visto niente di simile, al limite svenivate, mica collassavate così. Effettivamente era più pericoloso del normale persino per un Gold della tua levatura.
Avresti voluto meditarci su ma non era il momento peccato che non fossi capace di meditare e camminare nello stesso momento. Adesso bisognava studiare un piano d’attacco. Lady Asia non ti aveva mandato allo sbaraglio. Ti aveva dato quante più informazioni possibili su di loro, rivelandoti punti deboli e punti di forza. Avevi dovuto reprimere a forza il tuo lato spocchioso: se lei ti dava queste notizie allora significava che non erano avversari da sottovalutare. Qui non si parlava più delle semplici Guerre Sacre che, finora avevate combattuto, queste erano le Guerre del Mondo Celeste e, voi, c’eravate finiti dentro. Non ti eri mai sentito così piccolo e timoroso come adesso. Neanche di fronte alla morte avevi mai avuto tanta paura. Stringesti più forte gli spallacci dello zaino sulla schiena. Avevi spostato lì il suo album assieme alla tua Cloth. Chissà perché, ma avevi la sensazione che potesse essere come una sorta di talismano, per te. Di solito non te lo portavi dietro ma, stavolta, ne avevi sentito la necessità, come fosse un portafortuna. O, come se potessi portare la Dea che amavi con te.
L’aria era piena di pulviscolo e di scintille, ma tu camminavi dritto spedito sul sentiero di terra battuta in mezzo a questa gola altissima scrutandoti attorno con il Cosmo. Gli altri sensi ben allerta.
Inciampare qui sarebbe stato facilissimo e, cadere preda di chissà quale creatura anche di più.
Prima pensavi che gli unici che potessero trasportarti qui fossero gli Oneiroi ma ora avevi capito che ti sbagliavi.
Aveva detto che l’avresti riconosciuto o ti sbagliavi? Forse la tua mente stava effettuando dei voli pindarici assurdi. Ma, in nome di Atena, saresti riuscito nella tua impresa.
A un tratto ti bloccasti di scatto. «Minos del Grifone?» Domandasti sorpreso e lo Specter girò la testa sopra la spalla per guardarti. Ma a causa delle ali dovette girarsi completamente per vederti bene.
Le creature della Notte che erano con lui, invece, ti riconobbero immediatamente e ti salutarono in coro al  «E tu che cosa ci fai qui?» Sbottato dello Specter. Ringraziasti che Minos non fosse a conoscenza del tuo presunto tradimento. «Potrei chiedervi la stessa cosa». Replicasti accigliandoti. Le belve della squadra ti riconobbero immediatamente come tuo capo e, come tale, ti salutarono: «Comandante Shaka». Ah, già, avevi dimenticato che Erebo e Nyx avevano affidato a te le redini di quelle creature. «Abbiamo fatto come ci avete ordinato e abbiamo riportato le vittorie che servivano alla causa della Sacerdotessa di Hades». Riferì una di esse, in tono reverenziale.
«Bene, sono lieto che abbiate continuato a combattere anche senza la mia presenza, questo vi fa onore».
«Grazie, signore».
Poi tornasti a rivolgerti a Minos. «Allora cosa ci fate quaggiù?»
«Non lo sappiamo, sappiamo soltanto di aver sentito qualcuno invocare aiuto e poi siamo stati teletrasportati qui nel bel mezzo della battaglia. Sei stato tu?» Chiese, insospettito.
«No, non sono stato io». “Non ho questo potere”, pensasti, ma non glielo rivelasti. Una rivelazione simile avrebbe causato non pochi fastidi alla tua immagine. Non potevi permetterti che conoscessero i limiti del tuo Cosmo. «Sai dirmi di più?»
«Non saprei».
«Hai visto qualcosa di strano prima di essere trasportato qui?»
Lo Specter ti fulminò con gli occhi da sotto la lunghissima frangia candida: «Ma che è, un interrogatorio? No; ho solo sentito una voce maschile che continuava a implorare aiuto e ora siamo davanti a questo». Ciò detto ti indicò la scena che si scorgeva oltre le rocce.
A qualche metro di distanza da voi, otto cose nere di forma vagamente umanoide, che sorvegliavano la zona, illuminata dal basso da una luce gialla. L’aria era carica di elettricità e ne sentivate il ronzio di sottofondo, inframmezzato dalle urla di dolore e le grida di aiuto della persona.
Era come se lo stessero fulminando vivo. «É sua la voce che sentivate?»
«Sì, è la stessa». Confermò lo Specter ancora sospettoso.
«Dovremmo liberarlo».
«Dovrebbe cavarsela da solo». Si oppose invece il Grifone, ma tu non lo ascoltasti. Il tuo primo dovere come Gold Saint della Dea Atena era di proteggere gli innocenti e gli indifesi. Per questo ti sedesti sulla roccia nella posizione del loto e caricasti il Cosmo. I soldati si accorsero immediatamente di te, però restarono a guardarti confusi, mentre tu scagliavi il tuo attacco che spazzò via i soldati più vicini. Agli altri occorse ancora meno per dividersi in due schieramenti da quattro per riorganizzarsi. L’aura buia che le circondava scomparve, rivelando delle persone. Dovevano essere i Primi Cavalieri.
Bene. Avresti dimostrato a Lady Asia il fatto tuo. Quattro ti attaccarono e tu, prima di scagliare un’altra volta un attacco, ordinasti alle belve di liberare il prigioniero. Queste obbedirono e si scagliarono addosso alle restanti così che, tu, potessi liberare il giovane, prenderlo tra le braccia e saltare via. Appena lo liberasti, successe, però, un fatto curioso: i cavalieri contro cui avevate combattuto si dissolsero come fumo. «Stai bene?» Domandasti al giovane uomo che reggevi tra le braccia. Il quale aprì a fatica un occhio e rispose, con voce piena di dolore: «Non dovevate liberarmi». Cosa che ti stupì, facendoti aggrottare la fronte; ma il giovane svenne. Proprio in quel momento l’energia si accrebbe producendo ancora più scariche elettrice.
Lo Specter del Grifone imprecò: «Non era un prigioniero, era un sigillo vivente!» Strillò poi a mo’ di spiegazione. Cosa? Questo non ci voleva.
Improvvisamente i fulmini furono risucchiati al centro della zona e, l’energia andò a formare un simbolo sul terreno da cui, cominciarono a espandersi dei Cosmi enormi e carichi di risentimento e vendetta. Come non ne avevate mai sentiti prima.
Persino le belve di Nyx ed Erebo arretrarono spaventati.
«Che cosa sono? Di chi sono questi Cosmi?» Ruggì il Giudice Infernale. Stringesti a te il giovane e urlasti a tutti di ritirarsi. «Ritiratevi, scappate! Andate via, via, via!» Le belve obbedirono allontanandosi. Anche Minos e i suoi Skeleton seguirono questo suggerimento. Tutti tranne quelli che furono troppo lenti e finirono per dissolversi e andare a nutrire ancor di più questi Cosmi spropositati.
«Cerca di fermarli più che puoi!» Urlasti. Poi cercò di usare il Cosmic Marionation per creare una rete di contenimento, ma il suo Cosmo non era sufficientemente potente che una colonna di energia si levò alta verso il cielo per poi ricadere, come acqua di una fontana, nel suo epicentro. Subito dopo cinque figuri, disposti a cerchio, emersero dal sigillo.
Erano tutti uomini. Uno più massiccio e nerboruto dell’altro. I loro volti virili esprimevano tutti una ferocia inaudita. Due di loro erano caucasici e, i restanti erano di carnagione scura come quella dei loro signori. Ormai olivastra, perché anche la loro pelle aveva assunto un colorito cinereo e verdastro, come di cadaveri. Persino il colore delle loro chiome e dei gioielli che adornavano le loro membra erano polverosi e sbiaditi in confronto alla nera, perfetta lucentezza delle loro Vestigia. Era come osservare delle bambole rovinate dal tempo e dall’incuria, troppo a lungo tenute in soffitta a prendere polvere, infilate a forza dentro degli abiti nuovi di zecca. 
Avevano le barbe e i capelli lunghi e arruffati. Persino le loro unghie erano affilate e incurvate come pericolosissimi artigli. Ed esibivano dei cerchi purpurei attorno agli occhi. Tuttavia erano proprio gli occhi erano quelli che ti intimidivano di più: quando li aprirono, vedesti chiaramente che esprimevano solo follia. Probabilmente dovevano essere impazziti a forza di stare rinchiusi per tutti questi millenni.
Le loro Armature erano nere come l’ossidiana, talmente lucide da riflettere la luce e le scintille di questo posto. Dando l’impressione di guardare degli occhi vuoti in cui si tuffava l’abisso.
Le loro Sacre Vestigia non avevano forma definita come la vostra, erano solo corazze. Ma molto più adorne e regali delle vostre. Esprimevano un senso di sinistra potenza, come se il vero potere del Titano fosse contenuto in quelle persone. “No, non persone”, ti correggesti stringendo a te il giovane privo di sensi per proteggerlo.
La tua mente tornò istintivamente al Settantanove, durante la Titanomachia e, il tuo cuore batté più rapidamente per la paura. Neanche davanti a Chronos e gli altri Titani avevi mai tremato. Solo dinanzi alla morte, ma ora... 
I cinque sciolsero il cerchio e fecero per muoversi, quando si scontrarono contro il Cosmic Marionation del Grifone. «Che scherzo è mai questo?» Chiese uno di loro, con voce incolore, notando i fili che si erano avviluppati attorno al suo corpo.
«Questo è il colpo del Giudice Infernale di Hades, ed è compito di uno Specter impedire ai morti di lasciare gli Inferi». Rispose Minos prima di tirare i fili, non ottenendo altro che di tenderli. Era come se i cinque fossero statue di pietra.  Statue provviste di un Cosmo, perché bastò che espandessero il Cosmo per distruggere quei fili. Poi, si volsero verso di lui, «Cosa credi di fare, misero umano? Da quando gli Dèi hanno al loro servizio esseri privi di Ichor nelle vene?»
Il Grifone, comunque non si lasciò intimidire e digrignò i denti, prima di rispondere: «Da quando gli esseri umani si sono votati alla loro causa! E non me ne andrò da qui finché non vi avrò rimesso nella tomba, Gigantic Feather Flap!»
E, il colpo li investì, fu così potente che fece tremare la terra, frantumò i massi che, franarono con fragore. I sassi più piccoli, schizzavano da tutte le parti uscendo come proiettili dal polverone che la  frana sollevò. 
Ma, quando la polvere si posò al suolo, i cinque erano ancora lì, perfettamente illesi e circondati dalla ghiaia. Appena un po’impolverati sulle mani e sulle braccia. Senza che ve ne fosti accorti, avevano polverizzato i massi caduti. Non avevate neanche sentito i rumori della loro azione.
Anche lo Specter trattenne il fiato rumorosamente e si mise in posizione di difesa.
Il biondo sospirò: «Dunque liberi, dopo millenni torniamo a respirare, desti finalmente dal nostro lungo sonno e poi qualche stolto, cerca di rispedirci a dormire». Poi, guardò il Gigante Infernale e domandò, con una pacatezza che stridette moltissimo con le sue parole: «Cosa ti fa credere che obbediremo a un essere insignificante come te?»
Poi tese un dito verso di lui e disse: «Rewind!» I fili che avevano distrutto si ricomposero e tornarono al mittente, avviluppandolo come le trame di una ragnatela. Stringendo le sue carni al punto da farlo urlare di dolore: «Come pretendi di darci degli ordini, se non sai neanche usare decentemente il tuo Cosmo?»
«Minos!» Urlasti e lo Specter strillò ancora più forte, cercando di liberarsi. Si portò le mani alla gola per liberare le vie respiratorie ma quando ritrasse le dita, le scopriste coperte di sangue.
A quel punto anche tu intervenisti. Posasti il giovane e lanciasti il «Tenma Kōfuko!» E l’energia andò a colpire il Cavaliere, ottenendo soltanto di fargli inclinare leggermente la testa. E, in un battibaleno l’attenzione fu tutta per te.
Il Primo Cavaliere si liberò con un gesto secco di Minos, che cadde rovinosamente al suolo, vicino ai suoi Skeleton.
Solo in un secondo momento si accorsero del giovane svenuto alle tue spalle e cambiarono bersaglio, ma tu li tenesti alla larga con il «Kān».
«Non vorrai mica sfidarci anche tu, vero?» Ciò detto ti scagliò un raggio d’energia che tu evitasti con un salto. Ma presto urlò di dolore perché una bestia di Nyx lo assalì e lo stesso accadde anche ai suoi compagni.
«Scappate signore!» Ti urlò uno di loro mentre facevano strage dei nemici.
E, tu obbedisti, anche se a malincuore. Raccogliesti il sigillo vivente e cercasti di fuggire. Ma i Primi Cavalieri non te lo permisero. Improvvisamente t’immobilizzasti, ma non per tua volontà. Che cosa stava succedendo? Cercasti di muoverti, ma non ci riuscisti e, fosti raggiunto tranquillamente dai quattro, che ti circondarono. Provasti a lottare contro il loro incantesimo, ma non ci fu niente da fare.  Come non riuscisti neanche a impedire che ti togliessero dalle braccia il ragazzo svenuto.
Il loro leader ti scoccò un perfido sorriso di compassione, prima di sferrarti un colpo. Non riuscisti neanche a chiudere gli occhi a causa dell’incantesimo.
Stavi per essere colpito, quando una lama verde ti passò accanto e ferì quel pugno, costringendo il suo proprietario a urlare e ritrarsi. Qualcosa ti toccò la spalla e, improvvisamente, percepisti la presenza di qualcun altro dietro la tua schiena. Subito la magia che ti bloccava si allentò e tu potesti girare il volto per incontrare quello di Lady Asia. Dopodiché crollasti a terra come un sacco di patate «Allontanatevi dal mio protetto». Li avvisò mentre i quattro facevano un balzo indietro.
Un secondo dopo, il Cavaliere che ti aveva tolto il ragazzo, urlò di dolore. Girasti il capo in quella direzione e, vedesti il giovane, ben desto, che aveva conficcato un pugnale nero nella gola di quest’ultimo.
I quattro chiamarono il loro compagno in una lingua che non comprendesti, ma non poterono soccorrerlo perché, una serie di anelli diagonali come gli elettroni attorno al nucleo dell’atomo, di sabbia biancastra l’imprigionarono. Solo dopo ti accorgesti che, in realtà, eravate voi due il fulcro di questa gabbia, che andava allargandosi sempre di più. «Perché non hai fatto come ti ho detto?» Ti rimbeccò Lady Asia.
«Mi dispiace, signora, ho visto…»
«Atarassaco, mio fratello! Sarebbe bastato lanciare la pergamena e pregare, lui si sarebbe scostato».
«Ma era ferito!» obiettasti, mentre lei si adoperava a soccorrere anche i sopravvissuti, spostandoli dentro la barriera.
«Era stanco e in meditazione, non tramortito!» Sbraitò lei per tutta risposta, sovrastando le voci dei quattro. Poi, espandendo il Cosmo, allargò anche la gabbia e mandò al tappeto i quattro, anzi, no, di nuovo cinque.
«Accidenti, ma non l’aveva ammazzato?» Domandò uno Skeleton.
«No! Non si possono ammazzare e non si possono controllare, si possono solo sigillare!» Esclamò la Dea. Poi fu costretta a rinforzare la difesa perché uno di loro, materializzando una lancia dal niente, provò a spezzare la barriera. Non appena la lama della picca toccò la sabbia, subito si arrugginì e tornò ricoperta della patina dell’erosione. La stessa cosa sarebbe successa anche alla sua mano se non l’avesse lasciata cadere e fosse balzato via con un grido di spavento.
Lady Asia sfoderò la spada verde e improvvisamente ti accorgesti che indossava le sue Sacre Vestigia. Per la prima volta la vedesti con indosso la sua Wing. Non ti saresti mai aspettato che le Wing avessero quest’aspetto. Semplice, quasi dimesso, le conferiva una grande libertà di movimento. Dunque era questo l’aspetto di un’Azona riunita alla sua Wing. Il Cavaliere di Chronos si ritrasse immediatamente imitato da tutti gli altri, che, per contro, alzarono le loro armi. «E tu chi sei? Come osi sfidare i Primi Cavalieri di Chronos?» Sbraitò quello con la corazza rossa, fissandola adirato. «Oh, siete una donna», commentò poi, sorpreso. Lady Asia, senza perdere tempo attaccò, cogliendoli di sorpresa espandendo il Cosmo e saltando per aria.
Subito fu raggiunta dai vostri avversari che cominciarono a lottare, tra le nubi del cielo tempestoso sopra il sentiero. Cercavi di scorgerli tra le nubi, ma avvertivi solo il clangore delle loro lame incrociate, delle botte e dei colpi che si scambiavano, che emettevano suoni simili al rombo del tuono, delle loro grida e anche degli schizzi di Ichor. Uniti al rumore dei tuoni veri e proprie e delle scintille che piovevano su di voi come una pioggia di fuoco.
Improvvisamente ti arrivò un urlo mentale che per poco ti piegò in due: “Andate, vi copro io!
«Milady, no!»
La giovane piantò un piede nella pancia del suo avversario e lo sbalzò indietro di parecchi metri, costringendolo a piantare i talloni per evitare di volare via, scavando così una scia nel terreno. “Andate!
Poi, un lampo d’Oro Bianco e la Dea si scrollò di dosso i quattro. Si abbassò su uno dei promontori dello strapiombo che davano sul sentiero e, cominciò ad agitarsi. Per come si muoveva sembrava che stesse battendo le mani e i piedi per liberarsi dalla sporcizia che le era rimasta addosso.
Cosa stava facendo? Era questo il momento di mettersi a ballare? No, non era solo questo, stava anche cantando. Non conoscevi questa canzone, ma in breve vedesti un lampo d’oro allargarsi da lei e, il terreno sotto i vostri piedi, cominciò a vibrare. Poi, dal niente, si frantumò in più parti e dell’acqua, zampillò violentemente verso l’alto e ricadde anche nella gola, dove continuò a vibrare e agitarsi.
Voialtri cercaste rifugio sui massi, mentre, altri rumori andavano ad assommarsi a quella cacofonia.
Per quanto foste spaventati, ti rendevi conto che quella cacofonia aveva un senso.
Era una canzone. Le rocce che cadevano e rotolavano erano la batteria, l’acqua era la melodia e la sua voce, che da qui non riuscivi a percepire bene, era il resto. I lampi dorati si allargarono e l’acqua cominciò a essere attratta a serpentina dalle parole stesse. Lo spostamento della massa d’acqua produsse una corrente di vento che catturò le parole di uno dei nemici e arrivarono anche a te. «Acqua? Cosa credi di fare, miserevole Dea?» La quale, nel frattempo, continuava ad agitarsi sullo sperone. E i cinque, come una sola persona, si lanciarono addosso a lei, armi sfoderate. «Milady!» Urlasti e, in mezzo a questo marasma, la tua voce si perse in uno stridio come di gabbiani. Improvvisamente la tromba marina s’allargò e l’inglobò così violentemente che non riuscirono a fare niente.
Al centro della stessa, percepivi ancora Lady Asia. Stavi osservando la scena a occhi sgranati quando ti sentisti chiamare: «La pergamena». Ti girasti e vedesti accanto a te il giovane di prima tenderti la mano. Lo fissasti senza capire, inebetito. A malapena consapevole del fatto che, dietro di lui, gli Skeleton e le belve della Notte ferite erano stati messi al sicuro insieme a voi.
Quando si era ripulito e aveva recuperato le forze e quel bastone molto somigliante a un’alabarda wushu? La sua intera persona riluceva di un Cosmo color Oro Bianco. Questo era un Azone. «La pergamena, sbrigati». Ripeté muovendo le dita, rinsavendoti dal tuo stato. Gliela consegnasti senza pensarci due volte e, appena l’ebbe in mano, Lady Asia saltò via dalla rupe per fluttuare giù fino alla loro prigione. 
«Asia!» Strillò l’uomo e, poi, lanciò la pergamena che scomparve dentro il tifone. Improvvisamente s’illuminò e, tutta la luce andò ad avvolgere l’acqua.
Improvvisamente le Creature sciamarono attorno a voi. Ad avvistarle, però non fosti tu, bensì Minos del Grifone. Ma una terza voce risuonò potente tra le vostre fila: «Non preoccupatevi, signori, non ci toccheranno». Vi tranquillizzò l’Azone e batté la punta del suo scettro sul terreno. Dai suoi piedi si allargò repentinamente il suo Cosmo d’Oro Bianco che vi avvolse in una cupola protettiva che poi scomparve. Eppure, anche così, il vento per voi smise di soffiare. «Che cos’è?» Domandò Minos e tu rispondesti, riconoscendo questa magia: «É una tasca temporale».
«Una che?»
«Te lo spiego dopo». Tagliasti corto con urgenza nella voce. Adesso volevi sapere se Lady Asia stava bene, non avevi tempo da perdere in inutili ciance. Improvvisamente l’acqua si rituffò nell’ingresso della prigione dei Primi Cavalieri e, l’acqua e la luce scomparvero, lasciando lì, soltanto la Dea, che, zittì repentinamente il Cosmo per evitare di essere uccisa seduta stante. Poi si rialzò e vi raggiunse.
Avesti finalmente occasione di osservare la tua Dea. La sua Wing era costituita da un grosso collare d’oro dall’elegante forma a V, con i bordi affilati e leggermente ricurvi. Una grande gemma di smeraldo tagliata a goccia proprio sotto al mento, un po’ come i collari della Divina Atena. Il quale, faceva il paio con gli orecchini e il diadema. Fino a quel momento non avevi pensato che anche quelli facessero parte della Sacra Wing.
La cosa più bizzarra era la sua costituzione. Mentre la tua era un blocco dorato senza divisa sottostante, la sua non l’aveva e, al tempo stesso era fornita di divisa. Nella foggia ricordava più una Sacra Cloth d’Argento che d’Oro. L’unico tessuto facente parte delle vostre Gold Cloth, tanto per dire, era il mantello.
Nella foggia la sua lorica ti ricordò la Silver Cloth di Castalia. Era più piccola e pratica rispetto alle Kamui di cui avevi sentito parlare e delle Soma dei Titani. Persino il rumore prodotto dai movimenti era più ovattato e meno metallico come le vostre. In confronto alla sua, la Gold Cloth di Virgo appariva più rozza.  
La corazza le rivestiva diagonalmente la spalla sinistra e il fianco destro. La spalla era protetta da tre spallacci affilati a forma di foglia triangolare che si allargava sulla spalla e si restringeva sull’esterno. Un po’come quelli dell’Armatura dell’Aquila. La differenza era che scendendo rimpicciolivano fino a scendere sul petto e la scapola in una dolce curva che si tuffava sotto l’ascella destra, finendo per cingerle i seni. Anche questi erano rifiniti con decorazione dorate e d’argento dorato con intarsi di smeraldi. Il blocco centrale era un pezzo unico che metteva in risalto il seno (senza tuttavia essere volgare) e l’addome. Si allacciava al cardigan cingendolo sotto il braccio destro e tenendola ferma, lasciando invece le code  tagliate a parallelogramma sulla sinistra libere di muoversi. A eccezione della coda destra che era spostata più indietro, lasciando scoperta la gamba. Le due punte interne frontali terminavano con una lamina d’oro ed erano decorate diagonalmente da una fiamma verde di poco più scura dei due smeraldi cerchiati di nero disposti sopra la placca a un intervallo regolare di cinque centimetri. La fiamma faceva parte del resto della bordatura del medesimo colore. Ma fu solo osservandola meglio che ti rendesti conto che non era una fiamma, bensì l’elegante sagoma stilizzata di un drago occidentale dalle corna ritorte verso l’interno. Riguardasti le sue braccia e scopristi che quelle decorazioni verdi che avevi scambiato per foglie, altro non erano che teste di drago.
In un certo senso era molto semplice, quasi disadorna rispetto alle vostre cloth, ma era molto elegante. Dei sottilissimi fregi decorativi d’oro e argento dorato, scendevano dalla spalla sinistra fin sotto lo sterno e altri risalivano dal fianco destro, ma senza allungarsi oltre l’ombelico.
Anche gli spallacci erano decorati con lo stesso fregio a forma di foglie e steli di piante. I fregi sembravano muoversi, non erano statici come poteva sembrare.
Il tocco di classe era dato soprattutto per la leggera sciarpa verde prato che cingeva il seno della Sacra Armatura e si allacciava sulla spalla destra alla maniera dello Jamir. Bloccata, probabilmente, grazie a una spilla che non riuscivi a vedere perché sottostante l’unico bavero libero della giacca, la cui punta era bordata di verde era decorata con due smeraldi più piccoli uno sopra l’altro che scendevano verso l’interno.
La fascia, poi, cadeva davanti la spalla destra scivolando leggera fino alla vita.
Un angolo della sua camicia cadeva leggero in una piccola punta scomparendo sotto il tessuto bianco a sinistra, come a controbilanciare l’asimmetria di questa scarsella. La parte atta a proteggere il fianco.
La destra della giacca era spostata più indietro rispetto alla sinistra. Lasciando scoperta la gamba. Sotto la catafratta indossava invece una camicia bordata di verde che le tagliava in due il petto. Una sottile cintura nera era allacciata in vita, probabilmente era il supporto per Tamerlane, teneva ferma la parte libera del cardigan. Ed era sovrastata da tre lacci neri che cadevano diagonalmente sulla corazza. Probabilmente gli allacci dei bottoni celati sotto la divisa. 
Le braccia erano protette da dei bracciali molto semplici e privi di scudo, altra differenza delle altre Sacre Armature. Le mani erano protette da guanti dello stesso materiale molto simili ai vostri, solo che erano un tutt’uno con le placche che rivestivano il dorso e lasciavano libere le dita.
Le gambe erano rivestite di alti cosciali che le arrivavano alle giunture delle cosce, subito uniti a dei ginocchielli, dei parastinchi e alla scarpa d’arme con il piccolo tacco. Anche quelli decorati come il resto dell’Armatura, solo che le decorazioni ricordarono delle elaborate parentesi graffe. Alle caviglie facevano mostra di sé due cavigliere d’oro con uno smeraldo e la scarpa era bordata dello stesso metallo prezioso. Erano di una sottigliezza tale che sembravano un pezzo unico, come il resto della corazza. Ma avevi già avuto una prova di quanto in realtà, fosse resistente.
La divisa era stabilita da una lunga giacca bianca aderente e bordata di verde con inserti di smeraldi sulle punte del bavero elegantemente allungato, la cui punta poteva coprire la spalla. Altre tre gemme di smeraldo erano fissate sul braccio, proprio sotto la spalla tenute unite da una riga verde scendeva dalla spalla fino a tuffarsi nel bracciale. Ma solo la parte destra della giacca si notava, in quanto la sinistra era nascosta dalla corazza di platino dai riflessi candidi e azzurrini, e oro bianco. Il farsetto non era lasciato allo sbando, era, invece trattenuto da una corazza dal bordo destro leggermente asimmetrico, dando l’illusione che la cingesse diagonalmente e che gli abiti si tuffassero per metà sotto i vestiti e viceversa.
Quella era un’Armatura Divina in tutto e per tutto. Persino tu avvertivi la magia e l’energia di cui era permeata. Cosa che faceva rimpicciolire di molto le vostre God Gold Cloth. La loro evoluzione divina era solo una concessione del sangue della Divina Atena, queste erano Divine e basta. Non riuscivi a identificare la fonte della loro forza, per te era oscura. Riuscivi solo a percepire la perfetta completezza cosmica dell’essere che ti stava davanti. Quella era una delle Dee con il mondo negli occhi. In tutte le tue vite e le tue meditazioni, non ti era mai accaduta una cosa simile. E, cadesti in ginocchi in assorta contemplazione mista a incredulità. Non potevi credere che ti fosse stato concesso un tale miracolo.
Lady Asia dal canto suo ti fissò incuriosita, con una punta di angoscia nello sguardo che molte cose aveva visto e raccontava. Stupido che eri a non averla guardata negli occhi direttamente come adesso.
«Grazie per il tuo aiuto, At… Island, è stato fondamentale». Si corresse.
«Dovere, Asia». Replicò questi con un leggero cenno del capo. Poi i due si abbracciarono e tu sentisti lo stomaco rimestarsi per la gelosia. Sentisti anche una fitta di odio verso quel Dio, sebbene il loro fosse stato un abbraccio puramente fraterno, che sciolsero subito. 
Poi tutti voi risaliste il sentiero per tornare indietro.
Le Creature, rimaste a bocca asciutta, se ne andarono fluttuando via.
Durante il tragitto, l’Azone di Hades rispose ad alcune domande fattegli dagli Skeleton e anche dalle Belve della Notte. Ma tu non stavi ascoltando, anche se avresti dovuto.
Improvvisamente la testa prese a farti male e sibilasti per il dolore.
«Tutto bene?» Ti chiese l’Azona, accorgendosi immediatamente del tuo stato di salute.
«Una fitta alla testa, niente di grave». Peccato che poi prese a farti male come se tu indossassi una corona di spine. Ti sfuggì un breve, acuto, grido di dolore e la ragazza ti chiamò angosciata: «Shaka? Che hai Shaka?» Anche il resto della comitiva si fermò tra sbuffi, persone che chiamarono il tuo nome e qualcuno che s’avvicinò. Avresti voluto rassicurarla, ma la sua voce era sempre più lontana e indistinta, mentre una nuova realtà si mostrava sotto le tue palpebre chiuse, sigillate dal dolore. Una realtà molto simile al passato, visto che riconoscesti il tuo omologo appena tredicenne in un tempio buddhista, nella posizione del loto. Riconoscesti quel momento, era di quattro giorni antecedenti alla decisione di Arles di usarti come arma fondamentale per ostacolare i Titani.
Quel giorno il tuo primo istinto fu quello di chiamare la Dea, ma ti ricordasti un’altra situazione, un’altra battaglia e il tuo cuore dette un colpo più profondo che, per te, fu quasi doloroso. Solo che, invece di Virgo, dietro di te comparve un’altra donna. Una figura che fece tremare il Titano che cercò di attaccarti. «Cos’è questo potere? Da dove ti nasce questa luce sacra?»
«Questa è la luce dei sacri guerrieri di Atena». Avevi risposto tu, senza però avere idea che ciò che ti stava alimentando e sciogliendo gli ultimi sigilli del tuo Cosmo, non fosse il tocco della Dea che veneravi. Ma che pure conoscevi più che bene.
La differenza la conoscevi, dal momento che quando la Dea, durante la Guerra Sacra contro Hades posò la mano sul tuo avambraccio per fermarti dal colpire Saga, Shura e Camus. E, no, non era stata lei a supportarti quel lontano giorno.
«Va bene, Shaka, poiché me lo chiedi con tanta passione, ti aiuterò». Aveva concesso la voce di Buddha, virando sempre più su tonalità femminili e, dietro le tue palpebre, per un momento, balenò la figura di una giovane donna con le mani giunte in preghiera. Un’aura di un brillante giallo sole che si allargava dietro le sue spalle mentre apriva gli occhi e tendeva le mani, sciolte, verso di te e ti guardava con amore e speranza. Come se ogni suo gesto fosse dedicato proprio a te. Tu stesso avevi sentito le tue muoversi di riflesso, imitando quella posa e, il Cosmo che ne sprigionasti fu tanto intenso che il tuo nemico si disgregò. Quella, fu la prima volta che usasti l’Agyo.
Avevi creduto che fosse stato Buddha ad aiutarti, ma era stata Lady Asia. 
Quella volta, adesso lo sapevi, qualcun altro ti aveva appoggiato per far sì che tu riuscissi nell’impresa. Adesso lo sapevi, non fu solo in virtù della tua forte convinzione, bensì perché qualcuno ti aiutò. E, quel qualcuno, era proprio la Dea con la tiara e gli orecchini di smeraldo, di cui ti eri infatuato. Per questo, invece che appellarti solo alla Divina Atena, dalle tue labbra, uscì un secondo nome: «Asia! Lady Asia!»
Presto, sentisti il suo Cosmo accanto a te, il suo profumo di gardenie e salsedine e la sua mano sulla tua spalla. Improvvisamente sotto le tue palpebre comparve una visione. La tua Casa profumava di loto non tanto perché eri la reincarnazione di Buddha, quanto piuttosto per nascondere il profumo di quella donna. Sì, ecco il tuo segreto più grande: eri ossessionato da questo profumo di donna da quando eri ragazzino. Dal tocco gentile sulla tua spalla e dalla sensazione che la vicinanza con il suo sublime, ricco, Cosmo, ti aveva donato. Era stato come essere abbracciato da tutto il Creato e dal ricordo che avevi di lei, abbigliata di bianco e bellissima come quando l’avevi vista trasformarsi.
Stupido che eri stato a non averla riconosciuta subito quando l’avevi avuta tra le braccia la prima volta. Ma in una situazione come quella era comprensibile. Altrimenti, al Tempio di Atavaka, l’avresti accolta con tutti gli onori che le si confacevano e anche di più.  
Vedesti la giovane Luce Ombrosa, stavolta con indosso una lunga tunica nera dalle decorazioni argentee. Non sembrava molto a suo agio in quell’abito dalle maniche lunghe e sfrangiate (a pipistrello, Shaka) il corpetto e i fianchi aderenti. Che orrore e poi, come diavolo ci si muove indossando una tenda che ti arriva fino ai piedi? Tu sapevi come muoverti, perché nel tuo ex guardaroba avevi anche un kurta. Anche gli abiti che portavi sotto la tua Cloth non erano molto diversi. L’album da disegno, però, stava cominciando a sfregare contro la tua pelle e, probabilmente, te l’aveva già arrossata. 
Improvvisamente qualcuno bussò alla porta e lei alzò il volto. E tu restasti a bocca aperta per la magnificenza di quelle iridi gialle. Non pensavi che avesse degli occhi così belli.
Dette il permesso per entrare alla persona dall’altra parte della porta, facendo poi una smorfia. Riuscisti a leggere i suoi pensieri direttamente sul suo volto: e, se avessero avuto cattive intenzioni? Invece, con sua grande sorpresa, entrò una ninfa dai capelli ricci color rame lunghi fino alle spalle, con indosso una tunica nera che le sfiorava le ginocchia e tatuaggi scuri su avambracci, collo e occhi a forma di fairy. Non avevi mai visto niente di simile prima d’ora. 
Eri affascinato da ciò. Per quanto tu conoscessi bene il regno degli Inferi, non avevi mai visto prima le sue sfaccettature, né i suoi usi, né i suoi costumi o la gente che lo popolava. Le vostre ancelle e i vostri paggi vestivano ancora come nell’Antica Grecia, qui sembravano decisamente più aggiornati. Ancora una volta ti desti dell’imbecille per non averlo fatto.
La nuova arrivata disegnò un inchino e la salutò con un cordiale: «Ben svegliata, milady». Dopodiché si rialzò, le mani intrecciate sulle cosce, come la nobile Olivia decadi prima. La sosia più giovane di Camus la guardò stupefatta come molti guardavano te a cose normali (sicuro che non ti guardassero come se tu avessi parlato marziano, Shaka?) «Come?»
«La mia pronuncia non è corretta?» Domandò invece la sua interlocutrice, battendo le palpebre dalle lunghe ciglia scure. «No, no, è corretta, solo che… Milady?» Ripeté accigliata. Ah, ora avevi capito dove fosse il problema. «Non è forse così che dovrei chiamarvi?» Richiese in tono innocente battendo nuovamente le palpebre.
«No, non è quello, è che non sono abituata a sentirmi chiamare così».
«Capisco. Allora come volete che vi chiami?»
«Astrid. E, tu sei?»
«Sono Menta, la vostra ancella personale, sono stata assegnata alla vostra persona dal Sommo Rhadamantys». Rispose in tono formale. Menta come la ninfa che fu trasformata dalla Divina Persefone nell’omonima pianta? Ma quello su cui la giovane si concentrò fu solo una parte di tutta la frase. «Rhadamantys?» Le fece eco sgranando gli occhi per lo stupore. Tu ti accigliasti. Perché il Giudice Infernale s’interessava di lei?
«Certamente». Ribatté costei senza scomporsi.
Astrid si guardò attorno: «Dove ci troviamo? Che posto è questo? Come ci sono arrivata?» Chiese e la ninfa le spiegò che, quel posto molto diverso dalla Villa dove avevi soggiornato con Camus, era il Quartier generale della Resistenza del Regno dei Morti. Adesso era da lì che la Somma Sacerdotessa dirigeva le fila dell’esercito infero e dei suoi alleati. «Vi ha portato qui il Sommo Rhadamantys e vi ha affidato alle cure mie e delle mie sorelle, per conto del Sommo Hades». Inspirò e aggiunse: «La nobile Pandora mi manda a dirvi che a dirvi di raggiungerla nei suoi appartamenti privati, qualora foste di nuovo in salute». La guardò incerta, come incerto eri tu di fronte a quell’espressione esterrefatta.
Improvvisamente le immagini cambiarono. Adesso ti parve di vedere tutto come attraverso uno specchio deformante. Cosa stava succedendo? Battesti le mani sul vetro, ma, questo non s’infranse. Sollevasti le dita alla ricerca di una fine di questo specchio, che non vedevi, ma, con tuo grande orrore, scopristi di non averle più, sebbene producessero un suono.
«Ehi, ehi, c’è nessuno? Qualcuno mi sente?» Urlasti, adesso spaventato. Che diavolo era successo? «C’è qualcuno là fuori? Mi sentite?» Dove eri finito? Non si vedeva niente, ricordavi appena di essere stato destato da una luce ma ora c’era solo buio. Battesti le palpebre e scopristi di non avere più neanche quelle.
Ti staccasti dal vetro, terrorizzato come mai prima d’ora. Eri ma non eri, che cosa, adesso che eri privo di verbo e sostanza, mio non-essere di natura filosofica? Eppure tu eri vivo, sapevi di esserlo, benché di te non ci fosse niente e ci fosse tutto. Cercasti altre scappatoie, ma eri dentro… una gabbia? No, sembrava una gabbia ma non lo era. Ti guardasti attorno, in preda alla paura, ma scorgesti solo il buio. Dov’erano gli altri? Dov’era Lady… scopristi di non ricordare più il suo nome. Che la sua essenza era qualcosa di vago, che avevi percepito altre volte, ma che non riconoscevi. Non come adesso. Perché questi tuoi pensieri e sensazioni avevano un vago sentore di déjà-vu? Perché non coincidevano più con la realtà presente?
Improvvisamente, come se ti avessero udito, sentisti le loro voci e i loro battiti mentre compivano la tua stessa scoperta. Poi vedesti il bianco davanti a te. E, sentisti il dolce calore, scaldare il nero che ti avvolgeva e sciogliere la lastra che ti teneva imprigionato. E ti ritrovasti a galleggiare in quest’essenza di luce e calore, con un vago senso di sollievo e liberazione. Volgesti lo sguardo attorno a te cercando di vedere qualcosa cui aggrapparsi e invece no. Era solo caldo.
Credesti di essere libero, invece eri solo spostato. Perché quando provasti a nuotare, scopristi di non potere. Eri immobilizzato e la tortura ricominciò. Bruciasti il tuo Cosmo piangendo per la disperazione ma non servì a niente.
Qualcuno sollevò la tua prigione con delicatezza e la lanciò via con te dentro, con una violenza che neanche ti eri immaginato. Urlasti con quanto fiato avevi in gola. Gemesti di dolore e poi, ti ritrovasti a mettere a fuoco e a osservare il volto di una quindicenne. Una quindicenne dalla pelle olivastra e mossi capelli scuri acconciati in boccoli, portati a caschetto che le incorniciavano l’ovale del volto, simile a quello della Divina. Anche se, aveva gli occhi scuri e le labbra più piene e le sopracciglia più folte e spesse. Era Asia, quando era adolescente. E stava… piangendo? Perché stava piangendo? Erano sue le mani che sentivi? Ti accigliasti, vedendo quel fiume di lacrime rigarle il volto mentre sigillava gli occhi e diceva, in hindi: «Mi dispiace, mi dispiace».  
“Mi dispiace?” Pensasti aggrottando ancor più le sopracciglia per la confusione; ma di cosa stava parlando? Che cosa era successo? Poi fosti strattonato via e ti ritrovasti sdraiato contro qualcosa di morbido e caldo che ti sorreggeva la testa e la parte superiore del corpo. Un refolo di vento ti carezzò la pelle e smosse le ciocche della tua frangia. Sotto di te percepisti il dolce affondare dell’erba, che stringesti tra le dita. Beandoti quasi della loro consistenza. Non avevi mai pensato che potesse essere così bello affondare le dita nell’erba.
Battesti le palpebre e mettesti a fuoco le verdi fronde dell’albero, dolcemente smosse dal vento, sotto al quale eri disteso. La luce che vi filtrava ti costrinse a socchiudere gli occhi.
«Ti sei svegliato?» Ti chiese la voce adulta di Asia. Quando la guardasti, per un momento, vedesti di nuovo la ragazzina di quindici anni con le guance da bambina del tuo sogno. Ma l’impressione svanì subito, restituendoti alla realtà e alla sua espressione confusa. Che tu avessi visto una parte del suo passato? Ma se era così, perché non l’avevi vista attraverso i suoi occhi bensì con i tuoi? Solo in un secondo momento ti accorgesti che quella cosa morbida che ti sorreggeva era lei. Sgranasti gli occhi di colpo e ti si mozzò il fiato.
Lei ti guardò angosciata. «Tutto a posto? Sembra che tu abbia visto un fantasma». 
«Sì, tutto a posto, mia Signora» Dicesti e ti accorgesti che si era tolta la Wing. Ti scostasti da lei tra l’imbarazzato e il lusingato. Non che ti vergognasti veramente, erano i pensieri che formulasti appena ti rendesti conto di tutto, che ti fecero imbarazzare. Solo in quel momento ti accorgesti che ti aveva coperto le spalle e le braccia con la sua mantella. E il tuo cuore batté ancora più rapidamente, facendoti avvampare.
«Ehi, che hai? Sei sicuro di stare bene? Già prima mi hai fatto preoccupare quando sei svenuto e poi hai dormito quasi due ore».
«Sì, sì, per un attimo mi era sembrato… non importa, grazie». Facesti restituendoglielo, le guance rosse. Poi respirasti per cercare di regolarizzare il battito cardiaco.
Lei lo sfilò dalle tue dita e, con un movimento fluido se lo riadagiò sulla spalla destra. Poi, mentre si rialzava finì di allacciarselo sotto l’ascella sinistra. «Mi sembri debilitato, sei sicuro di voler riprendere immediatamente il viaggio?» Ti domandò porgendoti una mano. Mano che tu, guardasti meravigliato, come se ti avesse posto davanti uno scrigno di gioielli. Il tuo cuore cominciò a battere più rapidamente mentre la curiosità e il desiderio di saggiare quelle dita e oltre con i tuoi sensi, con il tuo corpo, reprimesti a malincuore. Oh, se solo quella vista e oltre ti faceva quest’effetto, non osavi immaginare cosa avrebbe significato prenderla nella tua. Per quanto la desiderassi saggiare, per vedere se era liscia come sembrava alla vista, non afferrasti. Alle donne del tuo Paese d’origine era proibito toccare gli uomini. Ti avrebbe fatto meno scalpore se a porgertela fosse stato un altro uomo. Distogliesti lo sguardo a malincuore e cercasti di parlare normalmente, come se quella vista, non ti avesse fatto nessun effetto. Come se tutto di lei, anche la sua preoccupazione, il suo modo di prendersi cura di te, non ti avesse colpito per niente. «Non vi preoccupate, mia Signora», Asia, avresti voluto dire, «ce la faccio». Assicurasti convinto. «Dove sono tutti?»
«Island è tornato subito in servizio e ha chiuso il corridoio. Minos e i suoi sono di nuovo negli Inferi da Lady Pandora e i Black Saint non riusciranno mai a ritrovarli e a destarli nuovamente».
«Bene; scusatemi, mia signora, a causa della mia negligenza io…»
«No, non è colpa tua, non immaginavo che Island avesse usato il suo corpo per sigillare i Primi Cavalieri; non aveva avvisato nessuno di noi. Comunque, sei sicuro di stare bene?»
«Sì, signora, sto benissimo». Reiterasti. 
Lei ti scoccò un’occhiata scettica, ritraendo le dita per incrociare le braccia e, sentisti il suo sguardo su di te raffreddarsi. «Mi prendi in giro?» Ti chiese, perentoria e tu la guardasti di nuovo, stavolta sorpreso; «Perché dovrei?» Non pensavi neanche di averla offesa.
La Dea continuò a fulminarti con lo sguardo: «Perché sei un’Anima Viva, hai bisogno di cibo e riposo veri anche tu. Queste sono le mie regole, se vuoi continuare a viaggiare insieme a me, allora rispettale».  Chinasti il capo con fare remissivo, non volevi che lei si adirasse con te e, non volevi procurarle ulteriore preoccupazione. Inoltre, avevi davvero bisogno di riposo. Se avessi potuto bruciare il tuo Cosmo con la stessa potenza di prima lo avresti fatto e non avresti avuto problemi. Se la Cerca in cui ti eri impelagato fosse stata un’impresa come un’altra allora non ne avresti risentito. Ma questa era di una decina di livelli superiore a dir poco e, tu, ti sentivi stanco: «Avete ragione, mia Signora, sono desolato». Ti scusasti, imbarazzato. «Se posso permettermi, cosa pensate di fare?» Chiedesti, desideroso di prolungare ancora la tua permanenza al suo fianco. Il solo pensiero di doverti separare da lei ti faceva gridare un «No!» pieno di terrore. Era un miracolo che tu riuscisti a fingere ancora la tua espressione neutra e la tua calma apparente che ti caratterizzava.
Lei si strinse nelle spalle: «Devo continuare questa cerca prima che sia tardi. Non posso fermarmi, con o senza il mio album; in fondo, non ho bisogno di quello per trovare gli altri Guardiani. E, tu che cosa pensi di fare? Tornerai negli Inferi e combatterai con Camus o andrai altrove?»
«Io, vorrei proseguire questo viaggio insieme a voi».
«Sei sicuro?» Ti chiese stupita e smarrita.
«Più che certo».
«Anche se sarà rischioso?» Ti chiese, timorosa che tu l’abbandonassi proprio ora. Glielo leggevi nello sguardo.
«Sono un uomo di parola, non lascerò mai che compiate un viaggio simile tutto da sola. Milady, permettetemi di aiutarvi in questa faticosa Cerca». La giovane Dea sospirò e scosse il capo, portandosi una mano alla fronte. «Se questa è la tua volontà io non posso certo impedirtelo». Dichiarò, rassegnata, ma non ti sfuggì il sorriso che incurvava le sue labbra, tantomeno il tono in cui lo disse.

Camus
Atterrasti nel fango degli Inferi e ti rialzasti carponi, dolorante. Privo come eri della corazza, il tuo atterraggio fu anche meno morbido del solito. Non pensavi che, in quanto Anima Viva, lui potesse toccarti e ferirti in tal guisa.
Ma anche così non ti lasciasti sfuggire neanche un lamento. Non avresti mai dato delle soddisfazioni ad Aiacos. Lo Specter ti raggiunse: «Alzati! Hai sentito quello che ti ho detto?»
«Il Patto…» Cercasti di sillabare a causa del dolore alla gabbia toracica.
«Il Patto dice che non possiamo ucciderci a vicenda, ma non sta scritto da nessuna parte che non possiamo massacrarci e io ho intenzione di fartela pagare per la mia nave e per avermi menato per il naso». Avvicinò il suo volto al suo e sibilò, «con gli interessi». Poi, ti afferrò per il gomito e ti rimise in piedi come se tu fossi solo un bambinetto dispettoso.
Solo per spintonarti di nuovo e urlarti di camminare. Erano giorni, ormai, che sopportavi in silenzio questa tortura. Da quando Fianna l’aveva mandato a cercarti, tu non avevi fatto altro che prenderti le botte che, quel folle ti elargiva di persona e senza complimenti. Ringraziasti di non essere un suo sottoposto. E, non immaginavi di essere così impotente, privo del tuo corpo. Neanche quando eri uno Specter ti eri sentito così debole.
Ma non era un caso che tu ti lasciassi pestare così; avevi optato per il metodo di Gandhi, la resistenza passiva. Anche se ciò andava contro il tuo primo istinto, cioè quello di rispondere a tutte le mazzate che ti dava e scatenargli il Cocito contro. Ovvio poi che ci avevi pensato a lungo per prendere questa decisione: volevi dimostrare ad Aiacos che non aveva alcuna influenza su di te. E, sembrava funzionare, nonostante i lividi e tutto il resto, quelle volte che non riuscivi a schivare.  
Contavi che prima o poi Lady Pandora lo rimettesse in riga, ma alla Sacerdotessa sembrava non interessare. Intanto, molti altri spiriti a te legati per qualche motivo, si erano opposti allo stesso modo.
Così, senza rendertene neanche conto, eri diventato il Mahatma Gandhi delle civiltà Celte e Pitte, al punto che le Sacerdotesse e i Druidi di quest’ultime, ti tenessero in gran considerazione. Eri rimasto molto sorpreso, quando, per esempio, ti era giunta la notizia che un principe celtico aveva smesso di servire uno Specter seguendo il tuo esempio. E, grazie a Fianna, che in quel periodo sembrava molto giù di morale, scopristi che aveva deciso di appoggiarti. Che per lui, il tuo era un atto di grande coraggio. Nessuno spirito o fantasma si era mai opposto per davvero agli Specter.
Tu eri un esempio per il suo popolo.
Gli avvolgesti le mani con le tue e scuotesti il capo: «Ti ringrazio molto, ma io non sono l’esempio migliore da prendere a modello». Lui ti guardò battendo le palpebre perplesso e, tu gli spiegasti che tu sapevi come contrastare gli Specter e che sapevi come resistere. Che tu, il Mago dell’Acqua, riuscivi a resistere perché avevi risvegliato il Settimo Senso e, anche il tuo fisico era temprato a tali attacchi. Tu non eri uno degli Spiriti che gli Specter sorvegliavano. Non più, tu eri comunque un’Anima Viva. 
E, forte di questo, ancora, una volta, tornasti al presente e ti rialzasti mentre Aiacos sbuffava seccato: «Ancora? Ma quando è che la finirai?»
Ti asciugasti il rivolo di sangue che ti colava sul mento e, ti mettesti in ginocchio. «Mai». Replicasti, sfidandolo apertamente. Si vedeva che stava cominciando a perdere la pazienza. Tu invece eri sorpreso da te stesso. Non avresti mai detto che il tempo passato in compagnai di Shaka ti avesse lasciato qualcosa. Benché meno questo. Perché tu non ti eri mai opposto apertamente prima. Oppure, semplicemente, quando si sperimentano in prima persona, si acquisisce anche un nuovo punto di vista della situazione.  
Ti preparasti alla successiva raffica di colpi, per schivarli quando davanti a te si pararono alcuni dei Celti che ti avevano accolto. Sbarrasti gli occhi sorpreso.
«Che cosa fate? Andatevene! Lasciatemi punire questo stupido insetto come merita!» Esclamò lo Specter anche per te, in tono adirato, spazzando l’aria con un gesto repentino del braccio. Ma nessun Celta si mosse, anche se tremarono e arretrarono istintivamente di mezzo passo al gesto.
Li guardasti stupefatto, ma nessuno di loro si mosse, anzi, continuarono a fissare impassibili il tuo aggressore. A parlare, fu proprio la piccola Fianna, che non avevi notato e che, coraggiosamente proferì, in uno stentato francese: «No! Tu non puoi toccare lui!» Che strappò ad Aiacos una folle, sonora risata sguaiata.
«Siete seri? E se io vi spazzassi via tutti? Volete davvero sacrificare le vostre vite per lui?»
«Tu non tocchi Mago di Acqua!» Ribatté Fianna, traducendo per il dux bellorum della sua tribù. Aiacos rise un altro po’, ma, piano piano, il suo riso si spense, sostituito dalla confusione e infine lo sconcerto. I Celti erano mortalmente seri.
Una delle Sacerdotesse gli intimò di allontanarsi e Aiacos li guardò tutti stupefatto, mentre alcune donne ti aiutavano a rialzarti. Poi, anch’esse, tenendoti una mano sulla spalla puntarono gli occhi sullo Specter che vi osservava incredulo.     
«Vattene».
Questa parola, però, ebbe l’effetto opposto sul Garuda. Un sorriso inquietante fiorì sul volto del nepalese «L’avete voluto voi». Dichiarò prima di darvi le spalle e muovere un passo per girarsi completamente verso di voi e scagliarvi un attacco che non avevate mai visto. Le particelle d’acqua attorno a voi si alzarono dal terreno, si solidificarono assumendo la forma di numerose lance di ghiaccio che furono puntate su di te.
«Fermati! Così attirerai le Creature!» Urlasti, pronto a congelare a tua volta gli atomi per creare una barriera difensiva attorno a te e ai tuoi protettori. Aiacos stava sottovalutando di molto la potenza di un Gold Saint come te. Adesso che sapevi di poter usufruire dell’appoggio del Cocito non era il caso di sottovalutarti. Ma il Garuda questo non lo poteva sapere. «Sai quanto me ne importa? A me interessa solo prendermi il mio risarcimento!»
Ti mettesti in posizione di difesa, pronto a ribattere al colpo quando il suono di un corno vi richiamò entrambi. «Che sta succedendo?»
«É l’adunata, Cavaliere». Rispose il Garuda sciogliendo la tecnica e le lance caddero di nuovo a terra tramutate in semplice acqua. Poi se ne discese dall’altopiano dove vi trovavate. Ti sporgesti sul bordo e, sulla piccola spiaggia dell’affluente del Cocito che si gettava nel Flegetonte, vedesti ormeggiate le navi e le canoe. Sulla riva un nutrito drappello di Skeleton in file di sei, dietro Pandora. La sua persona l’avresti riconosciuta tra mille, ormai.
Fianna e altri ti raggiunsero e ti dissero qualcosa, ma tu non ascoltasti.
La Sacerdotessa di Hades stava parlando con Violate di Behemoth quando furono raggiunte da Aiacos, che si prostrò cerimonioso. Dopodiché fece calare la passerella per permettere alla luogotenente di Hades di salire sulla nave ormeggiata nelle acque sottostanti.
Ti sorprendesti della rapidità che gli Specter avevano dimostrato nel ripararla. Con i danni che aveva subito eri convinto che ci sarebbe voluto molto di più. Facendo viaggiare lo sguardo leggermente indietro a essa, vedesti, inoltre, anche delle canoe e altre barche della flotta del Garuda. Ovvio che non avrebbero mai lasciato l’ammiraglia da sola. Nel lago retrostante, nascosto dalle montagne, avevano ormeggiato tutta la flotta e l’altra parte dell’accampamento.  
Prima che la donna mettesse piede sulla passerella, si girò e guardò dritto verso di te. Anche da lì riuscisti perfettamente a percepire tutta la forza di quello sguardo. Poi, ti fece cenno di venire e, tu, perplesso e ancora impolverato e dolorante. Fianna ti richiamò più volte e tu ti girasti per farle cenno di stare calma. «Vado solo a sentire cosa vuole». Le dicesti per rassicurarla. Ma non bastò, così, tendesti la mano per invitarla a raggiungerti e, la bambina, trotterellò da te e ti prese per mano. Così, insieme, giungeste sulla riva.
La comandante degli Specter vi accompagnò con gli occhi, attendendovi, con gran sdegno di Aiacos. «Bentrovato Gold Saint di Aquarius», ti salutò guardandoti dal basso verso l’alto, prima di dire: «Sembra che siate appena uscito da una rissa».   
Disegnasti un inchino e ti raddrizzasti, continuando a tenere le mani sulle piccole spalle di Fianna. «Nobile Pandora, no, mi stavo semplicemente allenando con il nobile Aiacos». Lo Specter alle spalle della donna alzò le sopracciglia sorpreso. Mentre la sorella terrena di Hades assottigliò lo sguardo: «Davvero? Questo spiegherebbe la polvere sui vostri vestiti e l’aria stravolta». Eppure anche così era chiaro che le tue parole non l’avessero affatto ingannata. Decidesti di sorvolare e, chiedesti, invece: «Sì, signora, desideravate parlarmi?»
«Certamente, quest’oggi esploreremo il campo di battaglia, i cartografi dell’Oltretomba sono tra i migliori che potevamo sperare di incontrare nel corso dei secoli. Tuttavia un buono stratega deve conoscere il campo di battaglia e, il Flegetonte, non è un terreno come gli altri, tantomeno un fiume come gli altri. E, voi verrete con noi, così mi parlerete bene di questi… allenamenti». Disse infine, dopo aver cercato la parola giusta, indicandoti il galeone con una delle punte del tridente. Dopodiché si accinse a salire e voialtri la seguiste senza fiatare. Fianna strinse più forte la tua mano, spaventata. Era la prima volta che ci saliva. Aiacos chiuse la fila, poi, quando foste saliti tutti, Violate balzò sul ponte e cominciò a urlare ordini in gergo marinaresco ai suoi sottoposti, ricordandoti molto una piratessa. Se fossi rimasto tra i vivi un po’più a lungo avresti visto molto volentieri anche tu la saga di Pirati dei Caraibi. Avevi il sospetto che Violate e Aiacos si sarebbero trovati bene in mezzo a loro.
Vi sistemaste al parapetto, in disparte per evitare di intralciare fantasmi e Skeleton della ciurma. Con gli occhi cercasti Pandora che, si era andata a sistemare su una regale quanto scomoda ottomana nera. Le gambe accavallate scoperte dallo spacco.
Solo in quel momento ti accorgesti che la piccola Fianna accanto a te tremava di paura e le parlasti per rassicurarla. Senza troppo successo. Riuscì appena a balbettarti che aveva paura. 
Poi, quando tutti gli ormeggi furono mollati e la nave salpò, lei si accovacciò ai tuoi piedi. T’inginocchiasti anche tu e le consigliasti di respirare profondamente per far fronte a quella crisi di panico. Avresti dovuto pensarci due volte prima di permetterle di seguirti. Però non eri riuscito a dirle di no. «Dai, guarda, ci sono persino le Creature degli Dèi della Notte». Facesti per convincerla, che lei le adorava, soprattutto quelle acquatiche. Ma neanche questo la convinse.
Lanciò addirittura uno strillo quando sentì il galeone alzarsi in volo e, per un momento temesti che la tua opera di convincimento fosse andata a farsi benedire. Ma riuscisti a recuperarla subito e a ricatturare la sua attenzione. Le dicesti che avevi già volato con loro, che adesso non c’era niente di cui aver paura. Che nessuno vi avrebbe attaccato (“Te la gufi, dì la verità, Camus”). Ignorasti questo mio commento e continuasti a parlare per distrarla. Alla fine, la bambina si calmò e si alzò in piedi, ancora tremante. Tu le cingesti le spalle con un braccio, promettendole che non sarebbe caduta e le indicasti le canoe e le barche che fluttuavano insieme alla vostra, affiancate da alcuni mostri alati al servizio di Nyx, che, da qui, sembravano gabbiani.
Guardasti Fianna e, vedesti un’espressione dapprima di stupore e poi di meraviglia allargarsi sul suo volto. Prese a indicarteli tutti, chiamandoli nella sua lingua, fermandosi solo quando non li riconosceva. Alcuni glieli indicasti proprio tu e, forte di questo gioco, imparasti anche qualcos’altro. 
La sua paura era totalmente dimenticata.
Mentre vi stavate divertendo la Lady vi si avvicinò e vi interruppe: «Vedo che alla bambina piace volare, adesso». Costatò con voce sorridente e voi due smetteste per girarvi a guardarla. «Oh, sì», rispondesti, «era solo spaventata perché era la prima volta che volava, ma adesso va tutto bene».
«Ne sono lieta, mi avete molto divertito con questo spettacolino, sapete? Mi avete riportata indietro nel tempo», tergiversò la mora. Gli occhi violacei persi in chissà quale ricordo. Poi si rinvenne: «Stiamo per sorvolare il Flegetonte, vi consiglio di osservare attentamente tutto ciò che vedrete dalle Colonne d’Eracle in poi».
«Le Colonne d’Eracle?»
«Li chiamano così quei due promontori che delimitano quest’affluente del Cocito». Spiegò la mora appoggiandosi a sua volta al parapetto. La bella, delicata mano dalle unghie curate poggiate sul legno d’ebano. Presto, li vedesti anche tu i monti triangolari di cui parlava. Ed erano neri, interamente anneriti, come se fossero stati costituiti di lava vulcanica. E, più in là il vapore che saliva dal Fiume delle Fiamme. E i colori rosseggianti del magma fuso illuminavano e dipingevano tanto le rocce frastagliate di diversa lunghezza, quanto il cielo, in un macabro riflesso.
Sotto di voi vedeste il punto dove il Flegetonte e il Cocito si univano creando sorgenti d’acqua termale, geyser, solfatare e i vari rigagnoli di magma che andavano a infiltrarsi in un terreno, diramandosi come bronchioli in un polmone, fino a scomparire sotto la terra aspra. Vedesti i vari camini da cui il Flegetonte eruttava le sue piene e vari crateri. Vedeste le croste più scure, segno della lava che si era raffreddata con le ultime piogge (anche negli Inferi pioveva, ma questo l’avevi scoperto solo dopo che eri finito sotto un acquazzone). Qui e là formavano delle vere e proprie pianure se non ponti e gole, dove il Flegetonte si era asciutto.
E continuaste a sorvolare la zona tanto bella quanto perigliosa, fino a raggiungere il Lago di Lava. Cioè il Cratere centrale più grande di tutti gli altri, che ti lasciò a bocca aperta. Anche per il calore che arrivava prepotentemente fino quassù, anche se sopportabile. Ti sembrò quasi di essere in estate per questa calura.
Anche se il tuo Cosmo bastò a schermarti raffreddandoti.  
Fianna si strinse a te guardandolo preoccupata e tu ricambiasti la stretta, strofinando la mano sulle sue scapole.   
«Come vi sembra?» Domandò la Sacerdotessa del Dio dell’Oltretomba mentre sorvolavate finalmente il Flegetonte, sfruttando l’altitudine e il fumo e i vapori come copertura. Persino Specter e Skeleton e drappello si erano zittiti. Chetati dalla necessità.
«É straordinario; è anche terribile, certo, ma è straordinario, non credevo che gli Inferi fossero tanto estesi e tanto suggestivi».
La donna sollevò gli angoli della bella bocca. Lei a differenza di te, il caldo lo sentiva bene, eppure, non versava una goccia di sudore. Era il ritratto della serenità, come se quest’afa non fosse altro che una brezzolina primaverile: «Suggestivi è la parola adatta, Aquarius, suppongo che vi starete chiedendo perché vi ho voluto qui con me in questo giro d’ispezione. L’idea me l’ha data un vostro connazionale, un certo Napoleone Bonaparte. In questi anni ho studiato molto le strategie militari e, quando sono stata richiamata in servizio, ho pensato di applicarle anche agli Inferi. Devo dire che finora ha funzionato molto bene, anche se il vostro contributo degli ultimi tempi è stato fondamentale, soprattutto per la mappa degli Azoni che mi è stata recapitata assieme al suggerimento di risvegliare e riconquistare gli Inferi. Era un trucco che non era mai stato usato prima, lo ammetto io stessa. Neanche immaginavo che si potesse fare e sono lieta di averlo saputo. I Black Saint hanno perso terreno e, in questo preciso istante, la morsa è stretta su di loro. Sì, il vostro collega della Quarta Casa e il Drago Rosso con il loro esercito sono arrivati pochi giorni fa. Mi è giunta la notizia da Flegiàs del Licaone. Pensavo che vi avrebbe fatto piacere saperlo».
«Vi ringrazio, milady». Facesti con un elegante cenno del capo, ma ancora non avevi intuito dove volesse andare a parare.
La donna, che quel giorno indossava alcuni fiori di stoffa colorati tra i capelli, appoggiò entrambi i gomiti alla balaustra. Il manico del tridente ben stretto nella piega tra avambraccio e gomito. «Come vi ho già accennato prima, Napoleone Bonaparte è la mia fonte d’ispirazione principale. È un peccato che fosse cristiano, mi sarebbe piaciuto conoscere di persona quel genio strategico. Per fortuna ci sono i documentari e le sue biografie. Concordo con lui sotto molti aspetti bellici, soprattutto lo studio del territorio. Conosci il tuo territorio e vincerai la guerra, l’errore di Napoleone fu di non calcolare un piccolo appezzamento di terra per la battaglia di Waterloo. Ma io non lo farò. E, ho anche deciso di apportare una piccola modifica alla strategia. Ossia di condividerla con voi. In quanto custode del Cocito, potrebbe farvi comodo osservare l’ultimo e più selvaggio Fiume Vivente dell’Oltretomba».
«Fiume Vivente?»
«Avete capito bene. Non è un caso che ci siano stati indicati questi fiumi da riconquistare, non sono semplici territori e Prigioni, sono veri e propri esseri viventi. I fiumi anticamente erano le ninfe Oceanine, le tremila figlie di Oceano e di Teti. Senza di loro, gli Inferi non sarebbero tali, anche senza il Cosmo di Hades».
«Ma anche quelle erano scomparse».
«Si erano solo spostate, nell’attesa che il mio Signore ricostituisse gli Inferi. Risvegliare questi fiumi non è un’impresa da poco e, il Flegetonte è il più selvaggio e pericoloso di tutti. È da lui che nasce la lava di tutto il mondo e del Regno dei Vivi; ed è sempre da lui che attingiamo nutrimento per evitare di restare intrappolati in questi posti. Il Flegetonte è imprevedibile, lui non fa distinzione tra amici e nemici, lui se si desta spazza via tutti senza domandarsi che cosa stia succedendo ed è qui che entrate in scena voi. In quanto custode del Fiume del Ghiaccio Eterno, potete richiamare a voi quella forza e arginarlo, permettendoci così di salvarci».
«Capisco, ma non so se ne sono capace…» Non potesti finire la frase che lei t’interruppe volgendo il volto verso di te, un sorriso divertito dipinto in faccia: «Ma certo che lo siete, non fate il finto modesto, il Cocito non avrebbe mai risposto al vostro richiamo se non foste stato degno e capace di controllare il suo potere. Non è da tutti essere scelti da un Fiume per esserne il Custode, è una grande responsabilità. Come non è da tutti essere accolto dalle tribù Celtiche ed essere venerati da loro come un druido; è anche per merito vostro che i Celti e i Pitti continuano a combattere insieme a noi. Vi devono amare molto, ed è una cosa ammirevole, conquistarsi il rispetto di un popolo intero.» ti elogiò.
Poi tornò a guardare il paesaggio e ti indicò le varie baie e le insenature, i punti strategici e anfratti. C’era persino una cascata di lava. Anche tu provasti a proporle delle strategie.
Solo dopo ti accorgesti che molti Specter e Skeleton presenti anche sulle altre navi stavano scattando foto con l’ausilio di Polaroid (raccogliendo immediatamente le foto stampate onde evitare che volassero via) e, girando filmati con i loro cellulari ultimo modello. Facendo attenzione a non lasciarseli sfuggire e cadere.
Un paio di volte entraste in dei vuoti d’aria che fecero sì che Fianna si aggrappasse a te per lo spavento e voi alla balaustra. Anche gli altri ne risentirono, però furono abbastanza lesti da evitare di perdere i loro apparecchi e farvi scoprire.
Sarebbe stato un bel disastro se ciò fosse accaduto.
Così uno dei tanti misteri delle sue strategie si era risolto. «Avete delle idee davvero interessanti, Aquarius, non per niente eravate uno dell’élite del Grande Tempio. Questo è un lato dei Cavalieri d’Atena che non si vede spesso». Si complimentò, ma si capiva che, oltre alla sua sorpresa e all’ammirazione c’era un monito per sé stessa di stare attenta. Per la prima volta dopo decadi riusciva a comprendere quanto poteste essere effettivamente pericolosi anche voialtri. E, la sua era solo la costatazione di un fatto.
«Grazie, milady». Ripetesti.
Mille domande e altre strategie si affollarono nella tua mente, ma più di tutte c’era la sorpresa. Non credevi che il Cocito ti avesse riconosciuto alla stregua di un padrone. Prima che però potesti esternarglielo, lei glissò su un altro argomento: «Perché non mi avete detto dei soprusi che state subendo a causa di Aiacos?» Domandò guardando fisso davanti a sé. I capelli e le vesti smossi dalla corrente d’aria.
Beccato.
«Mia Signora, mi scuso profondamente ma…» Iniziasti imbarazzato però la donna t’interruppe nuovamente, in tono perentorio, allargando le mani sulla balaustra e raddrizzando la schiena: «Non tollero che gli Specter abbiano comportamenti ingiusti nei confronti degli Spiriti, chiunque essi siano. La misericordia del Sommo Hades si vede anche in questo e, anche il rispetto del Patto che abbiamo stipulato con tanta fatica; benché meno adesso, che abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile per vincere questa guerra. Vi esorto a riferirmi d’ora innanzi ogni cosa, ogni più piccolo screzio che le Armate del Sotterraneo Oscuro vi arrecheranno, sicché io possa prendere provvedimenti. La situazione è ancora molto delicata e non possiamo permetterci errori e sgarbi tra di noi; dobbiamo essere uniti e compatti come non mai, dobbiamo essere una cosa sola, a prescindere dai colori delle nostre Sacre Vestigia. Siete un uomo ragionevole, Camus di Aquarius e siete coraggioso, non deludetemi lasciandomi d’intendere che vi sentite ferito solo perché vi offro il nostro sostegno». Concluse gettandoti uno sguardo.
«Non è per arrecare fastidio a me stesso o a voi che ve l’ho tenuto nascosto, mia Signora; non è neanche per orgoglio è solo che credevo che…» Che non le sarebbe importato niente. Anzi, che fosse stata lei a ordinare il tuo continuo pestaggio.
«Non so come vi abbia abituati Atena, ma questi sono gli Inferi e non posso permettermi colpi di testa e polarizzazioni all’interno delle truppe, sono stata chiara?»
«Per me siete stata chiarissima, milady».
«Benissimo, parlerò io con Aiacos e gli altri Giudici Infernali, a me daranno ascolto».
Adesso non ne dubitavi più. Ricordavi perfettamente come fosse la vecchia Pandora che avevate affrontato durante la Guerra Sacra del Millenovecentonovanta. La ragazzina di un tempo non riusciva a farsi rispettare neanche dai Giudici Infernali e, si concedeva i suoi svaghi durante la guerra sacra. Avevi sentito dire che era stata proprio la sua passione per la musica a tradirla.
Allora non esercitava su di voi lo stretto controllo di ora. Altrimenti avrebbe scoperto in anticipo la vostra congiura a discapito degli Inferi. Avrebbe interrotto da subito l’invasione dei Bronze e il cammino di Shaka e della Divina Atena. Avrebbe anche sfruttato meglio i suoi punti di forza e interrotto gli svaghi che si era fin lì concessa. In effetti ti ricordavi che la Sacerdotessa degli Inferi fosse un’arpista molto dotata (almeno lo avevi pensato quando tornaste al Castello degli Heinstein). A te era rimasto solo l’udito, mentre a Shura era rimasto solo il gusto e a Saga era rimasta soltanto la vista. In seguito, grazie a Valentine avevi saputo della passione per la musica di Lady Pandora e anche i retroscena della loro precedente sconfitta. Se non avesse interrotto anche gli appuntamenti con il Silver Saint della Lyra forse avrebbero avuto qualche chance in più.
Ma adesso aveva l’esperienza, aveva imparato dai suoi errori e non era più quella ragazzina. Adesso, come ti aveva già detto, aveva un motivo più che valido per combattere. Hades l’aveva resuscitata per punirla, potevi solo provare a immaginare quale minaccia avesse usato per convincerla. Per un istante ti rendesti conto di quanto fosse pesante il fardello che lei, da sola, sosteneva sulle spalle da vite intere. E ne avesti pietà.
Nonostante ciò decidesti di non pensarci. Adesso era più importate pensare a questa Guerra. A discapito di tutto, sarebbe stata la battaglia decisiva. Improvvisamente la nave si addentrò in un banco di vapore e la Sacerdotessa si allontanò dalla balaustra per raggiungere l’albero maestro e, sotto quelle vele, chiudere gli occhi, reclinare leggermente il capo all’indietro e allargare le braccia.  
Inaspettatamente delle volute di vapore si allungarono delle forme umanoidi che volteggiarono verso di lei, circondandola come un turbine. Non immaginavi che il Flegetonte fosse popolato da altre creature. Dovevi immaginarlo, invece, che fossero affini al fuoco e al vapore, queste creature.
Ti chiedesti se per caso aveste respirato dei gas e steste avendo le allucinazioni; ma la voce della Specter di Behemoth, ti sussurrò: «É inutile che fai quella faccia, Cavaliere, questi sono i misteri dell’Oltretomba; non chiederti se è vero o no, rischi di spezzare l’illusione». T’irrigidisti trattenendo il fiato di colpo, mentre Fianna si lasciò sfuggire un piccolo strillo, guadagnandosi un’occhiataccia.
Le volute di nebbia che salivano sulla nave come sirene che scavalcano il parapetto.
Alcune si arrampicarono a serpentina su per i pennoni e gli alberi. 
«Non la smetterai mai di farmi prendere un colpo, vero?» Le domandasti piano, volgendo il capo a guardarla. La Specter si accomodò accanto a te con un ghigno divertito stampato in volto, prima di scuotere il capo e andarsene, avanzando indisturbata tra gli Skeleton. Anche lei fu seguita da alcuni abitanti della nebbia. Solo quando girasti di nuovo il capo ti accorgesti che attorno a voi c’erano altre figure che vi osservavano incuriosite. Ricambiasti lo sguardo e ti lasciasti toccare da queste figure impalpabili come fumo persino per te.
La Sacerdotessa smise di pregare e le guardò con occhi seri. Poi queste figure si alzarono tutte in volo tornando a essere un tutt’uno con il vapore. Quando la Sacerdotessa incrociò di nuovo il tuo sguardo, per la prima volta, appurasti che le vostre volontà erano sulla stessa lunghezza d’onda.  
La donna poi, mantenne la parola, come appurasti nei giorni immediatamente successivi. Appena fosti certo che avesse mantenuto la parola, riferisti la sua promessa anche ai Celti.
Eppure c’era qualcosa che non andava e, a fartelo notare, furono Valentine e Isaak. Fianna sembrava demoralizzata e, a niente servivano le parole di Isaak che, comunque, un po’di francese, grazie a te e a Fianna lo masticava e i bonari rimproveri di Valentine. Anche lo Specter si era affezionato alla bambina fantasma. O questo o la sua paura per le Creature doveva essere aumentata esponenzialmente, visto che insisteva per portarsela dietro molto spesso.
Sulle prime ti eri insospettito, pensavi che ci fosse qualcos’altro sotto, ma non era così. E, sia Fianna sia Valentine te lo confermarono. Addirittura Valentine minacciò di farti a pezzi se tu lo avessi infamato a quel modo ancora una volta. Già al solo sentirne parlare ti appioppò un pugno che bloccasti repentinamente. Lo Specter dell’Arpia sembrò impazzito. «Che si dica ogni cosa di me! Che si dica che io sia un mostro, che si dica che io sia malvagio, che si dica che io sia temibile e potente, ma che non si dica mai che io sia un pedofilo! Hai capito, stupido Saint? Io sono un uomo adulto e, anche se vesto una sacra Surplice, anche se servo il Signore dell’Oltretomba, resto sempre un essere umano con una morale! Io sono un custode di anime, il mio compito è farle spurgare, non torturarle e approfittarmi della loro debolezza! Io non sono un mostro, non fino a questi punti!» Sottolineava ogni frase con un colpo e, così, fu inevitabile per voi, spostarvi nella piccola arena dei tornei con un balzo.
Tu non avesti altra scelta che bloccarlo e difenderti. Sicché ti ritrovasti a osservare quegli occhi furibondi e quella bocca piegata in un ringhio.
Non immaginavi che fosse un tasto tanto dolente per lo Specter. Ma, da questa reazione, capisti di aver esagerato. Provasti a rimediare porgendogli le tue sentite e spaventate scuse, ma il secondo in comando di Rhadamantys si liberò e balzò via. Poi tese un dito verso di te e urlò: «Non me ne faccio niente delle tue scuse, come non m’importa niente di quella stupida mocciosa! Tu hai infangato il mio nome e il mio onore, devi pagare, Greed the Live!» E decine e decine di micidiali raggi luminosi fuoriuscirono dai suoi artigli tesi verso di te. Ti proteggesti la testa con le braccia e congelasti gli atomi dinanzi a te per creare una lente. Mai mossa più sbagliata, perché non erano banali raggi luminosi, ma vere e proprie lame di luce come l’Excalibur di Shura. Che fecero a pezzi il ghiaccio in pochissimo tempo, strappandoti dei gemiti di sorpresa e, poi di dolore, quando una lama ti ferì a un braccio. Da quel momento in poi ti difendesti, mentre qualche avventore si sedeva sulle gradinate della cengia e cominciava a fare il tifo.
Ma questo non era un semplice scontro, qui vi stavate menando per davvero. E, la tua preoccupazione maggiore erano gli spettatori. Ordinaria amministrazione, ma Valentine non era stupido. Anche lui era stato forgiato dal ghiaccio, quindi i suoi colpi, le basse temperature, non gli dicevano niente. Ne avesti la certezza dopo averlo imprigionato nella bara di ghiaccio senza sortire alcun risultato, perché la spaccò senza l’ausilio della spada di Libra. «Lo hai dimenticato, Camus? Io sono lo Specter a Guardia del Cocito!» Ma, prima che potesse dimostrarti la sua forza, foste richiamati entrambi da una voce furibonda: «Che cosa sta succedendo qui?» Entrambi giraste la testa verso gli spalti e vedeste Rhadamantys della Viverna in piedi e con le braccia incrociate.
«Sommo Rhadamantys!» Esclamò lo Specter dell’Arpia.
«Aquarius, Valentine, mi auguro che abbiate un buon motivo per scontrarvi nell’arena senza preavviso alcuno e rischiando di rivelare la nostra posizione ai nemici! Vi ricordo che ci separa solo la prima falda del Flegetonte, non un’intera catena montuosa larga chilometri su chilometri, ed è l’unico motivo per cui non vi faccio a pezzi con il mio Cosmo!» Sbottò lo Specter.
Valentine si prostrò: «Mi dispiace sommo Rhadamantys, sono desolato, non ho pensato…»
Ma fu interrotto dal balzo che il suo superiore spiccò e atterrò davanti a voi, aprendo una piccola depressione nel terreno. Tu e Valentine arretraste istintivamente di un passo. Lo Specter si rialzò e trapassò con lo sguardo il suo secondo: «Taci e sparisci! In quanto a te, che non si ripetano mai più scenate del genere». Non replicasti, ti limitasti soltanto a chiudere gli occhi, mantenendo la tua espressione severa. Anche se dava l’impressione che tu stessi giudicando la situazione come incresciosa, invece che ammettere che il Giudice, aveva ragione.
«Ora tornate alle vostre occupazioni e che non si ripetano mai più scene simili!» Sbraitò la Viverna.
La piccola folla a quell’ordine si disperse e tu apristi gli occhi. Vedesti Valentine scoccarti un’occhiataccia mentre se ne andava.
Quando ti girasti vedesti la piccola Fianna guardarti con il visino piegato in una smorfia di dispiacere. Ma quando provasti ad avvicinarti, lei scappò via.
Quella sera, mentre ti medicavi le ferite in via di guarigione che Aiacos ti aveva procurato, scambiasti due chiacchiere con Isaak.
«A che punto procedono i preparativi?» Anche lui, lavorava in una sezione di ex Marine capitanati da una donna di nome Anfitrite; che era l’equivalente sottomarina di Pandora. Isaak la descriveva come una donna di grande bellezza che, anche nella morte, conservava la sua fierezza e le sue sembianze. Girava voce che, persino Kanon di Gemini (ai tempi di Sea Dragon) la volesse dalla sua parte, invece che ucciderla.
Erano, infatti, i Marine, i Cavalieri Sirena e i Blue Warrior periti precedentemente al rapimento della Divina da parte di Julian Solo e dopo l’invasione dei Bronze, a presidiare i confini dei fiumi riconquistati. Anche se molti dei compagni d’arme di Isaak erano sotto al controllo di Don Avido, Isaak e i suoi compagni facevano del loro meglio per aiutare nella riconquista.
«Sono quasi ultimati, maestro, sono felice che il nostro aiuto dia qualche frutto, finalmente». Loro, infatti, erano stati i primi ad allearsi con Pandora per recuperare gli Inferi. Guardasti il suo riflesso nel piccolo specchio appeso al palo centrale della tenda. Aveva chinato il capo ed era tornato a concentrarsi sulla propria scale a forma di Kraken, eppure aveva tutta l’aria di voler dire qualcosa.
Di solito preferiva non parlare di fronte a Valentine, non si fidava ancora completamente degli Specter, dato che alcuni, inizialmente, avevano appoggiato don Avido. E lui, il suo periodo di prigionia lo ricordava ancora bene. «Tuttavia?» Lo incalzasti.
«Tuttavia non posso fare a meno di essere preoccupato, non solo per la guerra, ma anche per i nostri alleati; soprattutto per Fianna».    
«A proposito, ultimamente mi sembra scossa, che cos’ha?»
«Non lo so, sinceramente non ci ho fatto molto caso, ma qualsiasi cosa abbia, spero che si riprenda».
Finisti di medicarti e poi lo guardasti da sopra una spalla. «Speriamo, a proposito, dov’è? Domani dobbiamo alzarci presto».
«Ha detto che usciva ma era strana».
«Cioè?»
«Sembrava che stesse officiando un rito, più che strana come lo intendiamo noi».
«Un rito?»
«Bè, sì, ho accumulato un po’di esperienza in queste decadi e ho imparato a riconoscere la stranezza mistica da una che non lo è».
«Quindi lei non sta officiando un rito».
«Così sembrerebbe, ma che rito? Non mi risulta che siamo vicini a una qualche festività della sua gente». Che ormai ti eri abituato anche a questo e ti eri informato onde evitare strani coinvolgimenti. Isaak aggiunse che non ricordava nessun rito celtico che somigliasse a una partenza con tanto di fagotto. Appena lo disse vi guardaste spaventati. Avevate un brutto presentimento, per quale motivo Fianna avrebbe dovuto partire senza alcun preavviso? E per andare dove? Lei non aveva mai mostrato di credere in Lady Viviana e quella sciocca credenza che aveva portato i suoi Dèi alla morte.
Ti alzasti dal tuo giaciglio e uscisti. «Dove andate, maestro?»
«Vado a cercare Fianna».
«Aspettatemi, vengo con voi».
Frugaste l’accampamento in lungo e in largo e, fosti persino costretto a dire a Valentine che la ragazzina era sparita. Appena lo dicesti, lo Specter, che ti aveva già voltato le spalle, s’irrigidì e domandò, con voce preoccupata: «Dov’è andata?»
«Non lo sappiamo».
«Accidenti, quella mocciosa rischia di farci scoprire». Decretò prima di scattare a sua volta. Anche se non lo dava a vedere, si era molto affezionato alla bambina. Sorridesti, lieto di vedere che gli importava.
Poi tornasti a cercarla.  
Alla fine la trovasti vicino alla porta Est con un fagotto in spalla e la sua fidata lancia in mano.
«Fianna!» La chiamasti e lei sussultò prima di girarsi a guardarti: «Camus!» Esclamò stupita e ti accompagnò con lo sguardo per tutta la distanza che vi separava.
«Che cosa stai facendo? Dove stai andando?» Le domandasti, preoccupato e lei ti raccontò tutto. La sua gente l’aveva bandita dalla comunità da quando ti aveva spedito Aiacos alle calcagna. Secondo Lady Viviana, Fianna era portatrice di sfortune ed era stata allontanata se non voleva essere uccisa. Disse anche che aveva provato a dirvelo ma che, all’ultimo, aveva desistito a causa della vergogna e della paura. E, che alla fine aveva deciso di lasciarvi anche per evitare che tu lanciassi una maledizione sulle loro teste.
Tu ascoltasti tutto questo incredulo. Maledizioni? Da quando in qua le sapevi lanciare? Per farlo occorreva usare la magia e tu non sapevi neanche da che parte cominciare. 
Eri talmente basito che per poco non ti accorgesti che ti aveva voltato le spalle e stava guadagnando la porta. «No, Fianna!» Esclamasti mentre la bambina ti lanciava un ultimo sorriso di scuse e  si allontanava. Allungasti una mano e gliela posasti sulla spalla, fermandola. «Non se ne parla neanche». Dichiarasti.
«Camus?» Ti chiamò preoccupata senza capire, girandosi di tre quarti verso di te. Ripetesti ciò che avevi detto e vedesti i suoi occhi inumidirsi di lacrime. Stringesti la presa sulla sua spalla come a rimarcare il concetto.
«Ma io… io devo pagare, io ho messo in pericolo mio popolo e tu». Spiegò allora, guardandoti con occhi lucidi e impaurita. In effetti la coesione che avevano mostrato davanti ad Aiacos era pericolosa per loro. Che erano come fumo per lo Specter. 
«No, non l’hai fatto, la colpa è stata mia che me ne sono andato senza dire niente a nessuno. Tu hai sfruttato Aiacos per cercarmi perché eri preoccupata; non potevi immaginare che avesse un conto in sospeso con me e che arrivasse a tanto pur di saldarlo. Ma non maledirò mai né te né il tuo popolo per tutto ciò che avete fatto per aiutarmi. E poi, io non so usare la magia, so usare il Cosmo, che è una cosa completamente diversa».
«Ma le Sacerdotesse…» Balbettò.
«Ci parlerò io con loro». Promettesti convinto. 
Le lacrime presero a solcare il volto della dodicenne che si mordeva il labbro per non lasciarsi sfuggire alcun gemito. Poi non ce la fece più e ti gettò le braccia al collo urlando il tuo nome. Pianse nel tuo abbraccio, come la bambina che era in realtà. Non eri riuscito a salvare Isaak quando eravate vivi, ma almeno lei potevi farlo. Non avresti mai permesso che le facessero del male.
«Oh, ecco dov’era la pulce». Fece Valentine sarcastico quando vi raggiunse. Scioglieste l’abbraccio e lei si tenne comunque vicina a te, guardando intimorita lo Specter. Si portò le mani ai fianchi cinti dalla Surplice e continuò, in tono burbero. «E via, non piangere così, dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per cercarti, su adesso andiamo a dormire che sto cascando dal sonno». Le posò una mano sulla testa e le scompigliò i capelli rossi, facendola sorridere, mentre si detergeva le ultime lacrime.
Quella sera che passaste insieme a ridere e scherzare tra voi come foste solo dei ragazzi normali e non dei guerrieri, fu una delle più belle che viveste. Aveste avuto anche dei cuscini degni di tale nome, probabilmente Isaak l’avrebbe gettato in faccia a Valentine.
E, quando vi metteste a dormire, vedesti Fianna addormentarsi con un bel sorriso sulle labbra. 
L’indomani mattina, subito dopo colazione ti recasti al consiglio delle Sacerdotesse e i Druidi di Avalon. Avevano appena finito di concedere udienza a principi e cavalieri quando entrasti tu nella tenda.
Se al solo udire che Fianna non se ne era andata si rabbuiarono, al sentire il motivo della tua richiesta si incupirono. Tuttavia, se sulle prime rifiutarono di spiegarsi, poi ti accontentarono. Per un affronto grande come quello che ti era stato arrecato, la Dea esigeva un tributo. Il malcapitato poteva richiedere tale tributo, che, se non veniva riscosso, poteva tramutarsi in una maledizione. Onde preservare Fianna (che scusa tremenda per giustificare l’esilio), l’avevano mandata via.
Così proclamò una delle Sacerdotesse sedute a fianco di Lady Viviana, la donna cui rispondeva direttamente Lady Niniane. Costei aveva lunghi capelli neri intrecciati con dei fiori e dei gioielli, freddi occhi neri ed era abbigliata d’azzurro. La mezzaluna blu capeggiava sulla sua fronte scoperta, in netto contrasto con le labbra sottili pittate di rosso.
Costei si alzò dallo scranno centrale. Le ricche vesti e i gioielli però, non contribuirono affatto a farla sembrare più imponente, più bella o regale. Aveva charme e lo stava usando, si vedeva, ma non ti interessava mescolarti a lei. Gli Specter a guardia del Cocito, ti avevano detto che era stato soprattutto a causa sua che i Celti erano stati condannati all’eterna tortura dei Deicidi. Perché fu la Sacerdotessa di Avalon a dichiarare di essere la Dea, sostituendosi di fatto a essa. Forse credendo di emulare le fanciulle in cui si incarnava la Divina Atena. Solo che Lady Viviana era il ricettacolo di una semplice anima umana. Perciò, quella a cui si aggrappava ostinatamente, era la blasfemia più grande che fu mai proferita da un mortale. Non immaginavi che questa donna fosse assetata di potere a tal punto. Al punto da decidere di condannare una bambina.
«Quella bambina era destinata a essere una Sacerdotessa. Ha rifiutato gli insegnamenti che le sono stati impartiti e ha ricevuto la sua giusta punizione». Ribatté la donna assottigliando gli occhi.
Ti tornarono in mente le parole di Valentine a proposito d Fianna “Quella ragazzina è una guerriera, è morta a dodici anni per ciò in cui credeva, ma la sua Signora se ne è accorta e l’ha fatta uccidere come punizione”. Avevi chiesto il motivo e Valentine te l’aveva rivelato con un inquietante sorriso.  Poi, ti aveva detto come l’aveva uccisa, cioè, facendola decapitare con l’accusa di blasfemia. «Quella bambina ha capito che ciò che usciva dalle vostre labbra era una bugia, ancor prima dei vostri sottoposti. Voi non siete una Dea». Replicasti, accendendo la sala. Qualcuno scattò in piedi e ti accusò, altri ti spalleggiarono e altri domandarono alla Signora se fosse vero e di cosa stessi parlando.
La donna li zittì tutti. «Ciò che dice quella bambina è una blasfemia, l’abbiamo sempre saputo tutti; non dobbiamo prestare ascolto alle malelingue. Ricordate tutti come già secoli prima cercò di annebbiare le coscienze di tutti noi? Come cercò di togliermi la Divinità che io sono da sempre? Io che rinasco in mezzo a voi per guidarvi e proteggervi, mio popolo. Vogliamo davvero dare retta a una reietta assetata di potere come Fianna? Ciò che feci ai tempi fu un sacrificio doloroso ma necessario, non avrei mai voluto inaugurare il mio regno uccidendo colei con cui crebbi e condivisi buona parte della mia vita precedente».
Battesti le palpebre stordito dall’ironia e dalla gestualità della donna. Ora capivi come mai i Celti le dessero tanto spago: era veramente abile con le parole, per quanto mediocre musicista fosse. «Signori, mio popolo, mi rimetto al vostro giudizio, vogliamo davvero permettere che una giovane torni a camminare in mezzo a noi, a officiare i riti con noi e a dividere il letto e la mensa con tutti noi, senza che non abbia espiato il suo peccato?»
Un Druido rispose che la parola della Dea era legge e che, neanche tu, che pure fosti insignito dei serpenti per la tua “magia dell’Acqua”, potevi opporti al volere della Signora. Lo fulminasti con lo sguardo. Ma si rendeva conto di ciò che diceva?
Un bardo si azzardò a dire che «Eppure, è stato proprio grazie a Fianna che il Mago dell’Acqua si è unito a noi e combatte insieme a noi; questo non va negato; come neanche che è da quando è morta che ha sempre combattuto per proteggerci».
«Fianna sta cercando di espiare le proprie colpe, ma non è ancora sufficiente». Ribatté con malcelato disprezzo nella voce, la donna che si era di nuovo assisa sul suo scranno intarsiato. Poi ti guardò e commentò: «Eppure costui sembra crederci. È un vero peccato che abbia deciso di schierarsi dalla parte sbagliata; abbiamo fatto di tutto per farvi conoscere la bellezza della nostra civiltà eppure tendete ancora a isolarvi e a non integrarvi, a preferire la compagnia di quella traditrice che la nostra». Sospirò scuotendo la testa con rammarico.
Dovevi stare attento a non ascoltarlo, la sua voce era dolce e piena di sentimento, ti ricordava il miele, in un certo senso. Ti riscuotesti dal vago incanto per rispondere: «Qui non si tratta di blasfemie e colpe, qui si parla di costringere una bambina di appena dodici anni all’esilio per un vostro capriccio. Lo capite questo, vero?»
Lo sguardo di Viviana si tinse di compassione: «Voi siete stato accolto nella nostra comunità, ma non mi aspetto che ci comprendiate».
Niente da fare, la Sovrana di Avalon era veramente spietata. Dovevi trovare in fretta un’altra strada. Mentre un bardo interloquiva per te, tu cercasti delle soluzioni. A un tratto avesti un’idea. Era rischiosa ma dovevi giocartela bene. «No, non vi comprendo, io sono nato parecchi secoli dopo di voi e non vi capirò mai. Io so solo che avete bisogno di me. E, Fianna è l’unico collegamento veramente stretto che avete. Se lei se ne va, me ne vado anch’io e potrete scordarvi il mio aiuto e l’acqua che usate per lavare le vostre ferite e nutrire le vostre coltivazioni». Li minacciasti bluffando. Fosti così convincente che l’intera sala ammutolì. Per un momento temesti di essere liquidato con un: “Non importa, ne troveremo un altro” e, allora continuasti asserendo che «É grazie a Fianna che combatto insieme a voi ed è grazie a me che voi non siete più vessati dagli Specter. Lo avete dimenticato, questo?»
«Ma anche voi siete stato vessato perché quella ragazzina ve ne ha spedito uno alle calcagna».
Commentò un principe seduto su una delle panche di legno. I cani che sonnecchiavano ai suoi piedi. Lo guardasti e rispondesti: «Era solo preoccupata per me, le avevo promesso che sarei stato via tre giorni e invece era già passata quasi una settimana; avrei fatto la stessa cosa anch’io, se fossi stato nei suoi panni. É vero che ha mandato uno Specter a cercarmi, ma il motivo per cui questo Specter mi vessava è completamente diverso e non c’entra niente con la bambina». Facesti poi, rivolto a tutta la sala.
Per Fianna, ti eri accorto e, sapevi perché, eri alla stregua di un padre e, tu ti eri affezionato a lei. La tenevi sullo stesso piano di Isaak, Hyoga e Natasha. In lei rivedevi Hyoga quando era piccolo e aveva da poco perso la madre. Anche se i primi giorni della vostra convivenza non erano stati facili a causa del lutto, quel ragazzo lo avevi cresciuto tu. Lo stesso ti sembrava di fare adesso con lei. E, visto che avevi già fatto esperienza in materia con Hyoga, adesso sapevi come trattare anche ragazzini come Fianna. Non era così difficile come poteva sembrare.
E, di questo, Viviana era gelosa e aveva frainteso tutto.         
Sapevi che se avesse potuto l’avrebbe fatta uccidere un’altra volta, pur di avere i tuoi servigi e la tua fedeltà. Però era anche vero che ti teneva in grande considerazione; al punto di chiederti di unirsi a lei nelle celebrazioni di Beltane e di partecipare con lei ai riti della Luna piena. Ma tu avevi sempre rifiutato.
Nel tempo successivo, dovesti ricorrere a tutta la tua dialettica per riuscire a convincerli che la ragazzina aveva agito in buona fede e che era solo giovane. Alla fine eri riuscito a convincerli e a evitare un linciaggio.
Alla fine Lady Viviana si era arresa e si vide costretta a porgerti le sue scuse per questo malinteso. Le parole dietro cui ogni politico si rifugiava sempre per pararsi il posteriore.
In segno di perdono ti richiesero, pertanto di rinnovare il vostro legame d’alleanza e amicizia. Ciò che avevi da sempre concesso a questi fantasmi. Non eri stato stupido, avevi capito da un pezzo che in realtà stavano cercando di controllarti. Sapevano che tu non eri facile da controllare, ti avevano visto combattere e ti temevamo. Ma se potevi sfruttare almeno un po’questo loro timore reverenziale allora lo avresti fatto. Ti eri limitato a ricordare loro che tu restavi comunque uno dei Guardiani del Cocito e che non era saggio disobbedire al tuo volere. Avevi sentito queste parole estranee alla tua stessa lingua, mentre le pronunciavi. L’importante era che ci cascassero. E, fortunatamente fu così. Avevi ancora un certo ascendente, se cancellavi dal tuo volto, quelle poche, discrete espressioni che manifestavi. Le Sacerdotesse cercarono di rimediare promettendoti che non avrebbero scacciato Fianna. Le trapassasti con lo sguardo  incrociando le braccia, prima di acconsentire, ma non avresti perso di vista la bambina neanche un istante. In cambio promettesti una buona parola per loro con Hades per rimmetterli nel ciclo delle reincarnazioni. A questa promessa le donne e gli uomini presenti sgranarono gli occhi e ti chiesero se l’avessi fatto davvero. Tu annuisti.
Avevi appena finito di conferire con le Sacerdotesse e i Druidi di Avalon. Uscisti dalla tenda più leggero. Fuori della tenda ti aspettavano Valentine, Isaac e la piccola Fianna.
«Com’è andata?» Domandò Valentine.
«Bene».
Ma l’Arpia non si lasciò ingannare «Mh, non mi fiderei troppo della tribù di Lady Niniane, quella donna è subdola. Qualcosa mi dice che ci nascondi qualcosa».
«Non davanti alla bambina». Lo ammonisti in greco. Questo non l’avevi ancora insegnato alla piccola celta. Lo Specter recepì il messaggio e si accigliò per lanciarti un’occhiata fulminante.  
In questo frangente ti fidavi più del tuo allievo che dell’altro ex guardiano del Cocito. In fondo, lui era pur sempre uno Specter. Non potevi fidarti completamente; se i suoi superiori gli ordinavano di uccidere Fianna lui non poteva esimersi dall’obbedire. 
«Isaak, portala alla tenda e falla riposare, ha avuto una giornataccia». Facesti poi al tuo allievo, il quale annuì, prese per mano Fianna. «Ma tu vieni?» Ti chiese lei, preoccupata, guardandoti.
«Sì, tra poco, adesso devo dire una cosa importante allo zio Valentine e poi veniamo».
Fianna si rilassò e si lasciò portare via dal tuo allievo, che cominciò a chiacchierare con lei in greco, attirando subito la sua attenzione. E il suo sguardo perplesso. 
Quando furono abbastanza lontani e la folla copriva le loro voci, Valentine fece per chiederti spiegazioni. Stavi per rispondere quando ti sentisti chiamare. Ti girasti e vedesti una coppia di Skeleton. Uno dei due parlò: «Aquarius, il Sommo Rhadamantys desidera vedervi al Padiglione della Caina». Riferì lo Skeleton a sinistra. 
Guardasti il tuo alleato. «Pare che mi vogliano altrove», proferisti a mo’di scuse. 
«Così sembra». Ribatté l’Arpia con un tono fintamente calmo, scoccandogli un’occhiata scocciata. Se c’era una cosa che l’Arpia detestava oltre a sentirsi dire che era secondo al suo superiore in fatto di Cosmo, era essere interrotto.
«Ne parliamo dopo», promettesti e lui annuì, prima di lasciarti solo in compagnia degli Skeleton che ti fecero strada fino al Padiglione della Viverna. Ma che cosa voleva Rhadamantys da te? Informazioni su Lady Asia e gli Azoni, forse? No, non era possibile. Allora sul Flegetonte? No, lui era stato chiamato subito dalla Sacerdotessa appena sbarcati e tutti gli Specter più i capi degli alleati e i loro generali si erano riuniti per mettere a punto la strategia.
Allora era sul Santuario. No, neanche quello. Qualcosa ti diceva che non volesse sapere questo. Proprio non riuscivi a capire cosa fosse ed eri pure stanco.
Raggiungeste la zona di Rhadamantys e gli Skeleton ti scortarono al padiglione del Giudice Infernale. Non eri mai stato in quella zona e, la sera prima non avevi certo osservato il paesaggio circostante, ma ora sì.
Si fermarono dinanzi a un’ampia tenda di quelle che si vedevano nei film ambientati nel deserto, completamente nera sulla cui sommità spiccava lo stendardo della Caina. Uno degli Skeleton sollevò un lembo della tenda per permetterti di entrare.
Sentisti la voce della Viverna parlare come se ci fosse qualcun altro. Anche se era seduto a una scrivania resolute e indossava la Surplice. Stava controllando dei documenti. Alle sue spalle c’era una mappa aggiornata degli Inferi. In piedi alla sua sinistra una velata cui passò dei documenti e che, costei ripose al sicuro in un baule.
«Volevate vedermi?» Domandasti senza troppi giri di parole.
Solo allora la Viverna si fermò e sollevò il volto per trapassarti coi suoi occhi. Non potesti fare a meno di pensare che aveva seriamente bisogno di spinzettare le sopracciglia. Faceva tutt’un altro effetto senza l’elmo della Surplice indosso. Ora che ci pensavi, era la prima volta che lo vedevi a testa scoperta. Non immaginavi che fosse biondo anche lui, non ti era mai importato. 
Il Giudice Infernale si alzò in piedi per salutarti educatamente e commentò, guardandoti: «Giusto in tempo, vieni avanti, avvicinati; stavo giusto dicendo alla nostra ospite che, chissà se due cervelli come i vostri, non riescano a produrre una soluzione utile». E tu ti accigliasti. Avresti anche pensato “Di che diavolo sta parlando?” se non avessi già sentito il rumore che ti fece girare il volto verso la terza figura sulla sedia poco oltre il tuo campo visivo. Sgranasti gli occhi a quella visione. Eri talmente sconvolto che per poco non incespicasti.
Lei stessa spalancò i suoi occhi gialli e trattenne il fiato rumorosamente. Poi si alzò in piedi e fece tre passi avanti prima di fermarsi, fissandoti incredula mentre avanzavi. Soltanto quando ti fermasti a un metro da loro, lei riuscì a richiudere la bocca.
Quella ragazza non poteva essere reale, cioè, non avvertivi in lei neanche un barlume di Cosmo.
“Quando è successo? Che scherzo è mai questo?” Pensasti. Perché non avevi avvertito anche il suo Cosmo arrivando qui? Ah, forse era uno spirito, per questo non riuscivi a percepirglielo.
Senza che ne fosti consapevole, cominciasti ad aprire e chiudere la bocca cercando di articolare un discorso, senza successo. Che buffo, sembravi il suo riflesso. 
Solo allora lo Specter della Viverna vi trasse dallo stato di trance: «Bene, immagino abbiate molte cose di cui parlare, vi lascio soli». Indossò l’elmo, vi augurò buon lavoro in tono beffardo e poi se ne andò. Lo seguiste con lo sguardo finché non uscì, solo quando fu scomparso tornaste a guardarvi, perfettamente in sincrono.
«É… come guardarsi allo specchio, in un certo senso». Le uscì. Aveva una voce delicata ma con un buffo accento straniero che spezzava un po’il suo greco. «In un certo senso», replicasti. Anche il tuo greco non era sufficiente a mascherare il tuo accento francese. Concordasti con lei, la differenza era che tu eri sul metro e ottantaquattro, mentre lei era più bassa di sette centimetri. Tuttavia lei non portava il tuo stesso taglio di capelli, né aveva le sopracciglia biforcute. In compenso ricordava un raggio di sole intrappolato nelle tenebre. Questo ti suscitò il netto distacco tra i colori chiari della sua persona e il lucido abito nero alla Morticia Addams, con tanto di maniche a pipistrello che indossava. 
Ti sembrò molto colpita e tu non capisti perché. Ma tutto era sconvolgente, non era come guardarsi allo specchio cioè, sembravate gemelli. Restaste a fissarvi mentre l’imbarazzo e la curiosità si facevano palpabili tra voi. Decise di spezzare la tensione abbozzando un sorriso e tendendo la mano per presentarsi: «Ciao, io sono Astrid, lieta di conoscerti». Tu ricambiasti, anche se con uno a labbra chiuse che non contagiò gli occhi. Stringesti la sua mano, un po’più piccola della tua ma decisamente più calda e, la scuotesti una volta: «Camus, piacere mio». La stretta si sciolse e tu facesti finta di non aver visto il suo goffo tentativo di nascondere il fatto che le avessi gelato le dita. Ancora una volta ti dispiacque del gelo che le permeava. Dopodiché tornasti a chiederti se fosse vera o se fosse un brutto scherzo dei tre Giudici Infernali. Se così fosse stato non ti saresti sorpreso. Ma la sua carne sotto le tue dita l’avevi sentita, sentivi la vita e il sangue in quelle vene. Proprio come con Lady Asia. Era vera ed era viva, non era un trucco. Ma chi era? Tua figlia? Com’era possibile? Eppure eri sempre stato molto attento, non che tu avessi avuto tutta questa grandissima esperienza e un curriculum di don Giovanni.  Non ce la facevi più, dovevi sapere: «Tu non sei… voglio dire, non siamo…» Iniziasti un po’spaventato all’idea di una paternità improvvisa. Lei intuì e suggerì, in tono incerto: «Parenti?»
«Quello».
«No, tranquillo, ci somigliamo e basta. Anche perché io sono nata nel Millenovecentonovantasette, tu in quell’anno eri già, bè…». La voce le si ruppe mentre cercava il modo adatto di dirlo senza offenderti. Adesso era come se si fossero invertiti i ruoli. Perché toccò a te suggerirle, decisamente più rilassato: «Morto?» leggermente divertito.
«Quello». Si sedette sulla sedia di pelle nera di foggia medievale e tu la imitasti, accomodandoti su quella di fronte alla sua.
Almeno questa conversazione non era imbarazzante come altre avute in passato. Però non riuscivate a smettere di guardarvi, come se i vostri sguardi si fossero incatenati. I tuoi occhi erano persi sul suo viso e nei colori luminosi delle sue iridi. Milo non ti aveva detto che avesse delle iridi tanto belle. Erano diverse da quelle di Rhadamantys. Il giallo di quelle iridi era più luminoso del suo. Proprio un’altra tonalità contornata d’oro e impreziosita da una corona d’ocra e tempestata di piccoli puntini d’ambra. Non erano occhi che passavano inosservati ed era impossibile non notarne tutti i dettagli.  Dal canto suo, lei sembrava ipnotizzata dalla distesa rossa catturata nelle tue. Ma in quel modo in cui una persona atterrita non riesce a distogliere lo sguardo dalle macchie di sangue sulla scena di un delitto. E, tu, lo sapevi di avere questo effetto alle volte. Anche Hyoga non riusciva a guardarti negli occhi per questo, da bambino, i primi tempi in Siberia.
Appianasti la tua espressione, cercando di renderla il più benevola possibile, anche se non riuscisti (e come si faceva?) a cancellare del tutto la tua curiosità. Forse parlando vi sareste cavati da questo silenzio imbarazzante per entrambi. Ti schiaristi la gola e commentasti: «É… una somiglianza molto marcata».
«Non me ne parlare, i primi tempi al Santuario mi hanno scambiato per tua figlia». Ti confidò intrecciando le mani sulle gambe e da lì in poi la conversazione proseguì senz’intoppi. 
«Vieni dal Santuario?» Domandasti allora, interessato. «Sì». A quel punto le parole che avevi cercato vennero da sole. Perché un conto era ricevere delle missive, ma un altro era essere veramente lì. Le lettere non ti bastavano per ricordarti di quel posto, di Milo, degli altri, di tutto. «Com’è laggiù? È cambiato molto da quando ero in vita? La Somma Atena è ancora viva?» Chiedesti con voce piena di nostalgia e timore. Se ti fossi lasciato andare un po’di più avresti manifestato anche il resto. Era vero che ricevevi le lettere di Milo, ma bramavi una testimonianza diretta. Lei ti accontentò, non senza risparmiarti i dettagli quando tu glielo chiedesti. Ti stupisti nel costatare quante cose ti fossi perso e, grazie al suo riassunto veloce rispose a tutte le domande che gli ponesti quasi subito. Facesti una faticaccia a non interromperla continuamente. Solo verso la fine ti guardò in un modo strano, con un luccichio nelle iridi che ravvisasti per un lampo di riconoscimento. Ma non ci desti peso più di tanto e le chiedesti della battaglia contro la Dea della Discordia. Anche lì ti accontentò, sebbene come racconto non fosse granché esaustivo, considerando tutta la trappola ordita dalla Dea. Strabuzzasti gli occhi. «Ma l’avete sconfitta?» Domandasti ostentando una preoccupazione decisamente fuori luogo, in quanto sapevi già che cosa era accaduto, sempre grazie a Milo. Ma aveva un modo di raccontare talmente trascinante che lì per lì non ci pensasti.
Si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e guardò interessata uno dei fiori sul tavolino basso alla sua destra, sembrava che stesse lottando con sé stessa. Perché? Quando ti guardò di nuovo negli occhi rispose: «Credo che sconfitta sia riduttivo, Eris è… morta». 
«Temporaneamente, non si possono uccidere gli Dèi». Le ricordasti.
«Meno male!» Sospirò di sollievo, portandosi una mano al petto come se le avessi tolto un gran peso dal cuore. «Che cosa? Perché meno male?» La rivelazione che ti fece, accrebbe ancor di più il tuo stupore, che si manifestò facendoti sgranare gli occhi. Stava scherzando? Eris era la Dea che, dopo i Titani aveva dato un mucchio di grattacapi al Santuario nell’Ottantasei? Com’era possibile che una semplice ragazzina come questa fosse riuscita dove voi tutti avevate fallito in questi decenni? Eppure non avvertivi nessun Cosmo provenire da lei! «Come hai fatto?» Le chiedesti e quest’ultima rispose chiedendoti a gesti di sorvolare: «Eh, lunga storia». 
«Sei una Saintia?» Domandasti allora, cercando d’inquadrarla all’interno della società dei Saint. Aveva un che di famigliare come persona. Troppo determinata per essere una semplice civile come poteva sembrare. Anche se non aveva lo stesso fisico allenato delle Saint. Ma lei negò dicendoti di essere solo un’ancella del Grande Tempio. «Un’ancella? Com’è possibile che un’ancella abbia sconfitto una dei nemici giurati della Dea Atena e del Santuario?»
Un luccichio accese le sue iridi quando ti rispose che: «Io non sono una semplice ancella del Tempio, sono la custode della Luce Ombrosa».
Raddrizzasti la schiena e la guardasti sospettoso: «Ne ho sentito parlare spesso ultimamente, ma nessuno mi ha mai voluto dire che cosa fosse». Mormorasti senza muovere le labbra.
La tua nuova conoscente si rabbuiò, scontenta. Le chiedesti che cosa pensasse che potesse essere e lei ti illustrò le sue teorie. Cioè che era qualcosa che avrebbe dovuto salvarvi tutti dalle Creature. E che, secondo la Viverna loro erano il motivo per cui lei era stata portata qui. Così venisti anche a sapere dello strano collegamento che c’era tra lei e le Creature. Ti confessò anche che tra le tecniche di cui disponeva per custodire questo potere, c’era anche quella di scacciarle. Proprio come un fantasma, ma voi avevate già dei fantasmi che svolgevano più che egregiamente questo compito. Allora perché darsi pena per cercare la Luce Ombrosa e chiamare la sua custode?
«Che tipo di Cosmo hai? Padroneggi le energie fredde anche tu?» T’informasti, incuriosito e, come ci restasti quando ti disse come lo chiamava. Deducesti che dovesse essere per forza affine ai lemuriani, cosmicamente parlando. Come se lei ti avesse letto nel pensiero, sembrò giungere alle tue conclusioni. Ti fece strano leggere il suo volto con sì tanta facilità, dal momento che aveva la tua stessa gamma, magari un po’ più espressiva e che, tu eri abbastanza sensibile da intuire ciò che provava.
Un sorriso comparve sulle tue labbra: «In questo sei diversa da me».   
«Sì. Mi hanno detto che tu ti intendi di fisica». Disse poi. Confermasti, avevi dovuto imparare le leggi della fisica per padroneggiare le energie fredde. Non ti saresti mai aspettato che lei ti scrutasse, anzi no, che ti analizzasse a sua volta, uscendosene con un: «Interessante, hai imparato per analogia».
«Si può dire di sì e tu?» Se fino a qui, almeno tra te e te, certi giorni ti eri vantato di essere l’unico in possesso di nozioni avanzate, dovesti ricrederti, quando lei ti raccontò che i suoi poteri erano molto simili ai tuoi. «Io studiavo astronomia, ma anche i miei sembrano essere legati alle mie conoscenze». Si guardò le mani per un secondo. Tu seguisti il suo sguardo e capisti immediatamente che per usarli, però, aveva bisogno delle mani, ma questo te lo tenesti per te. Invece, commentasti: «Un po’come le mie». 
Scosse il capo e ti corresse: «Non esattamente, tu puoi congelare le cose a distanza, io devo comunque avvicinarmi moltissimo», poi strinse le labbra e guardò di nuovo in basso.
«Davvero?»
«Purtroppo».
La osservasti un po’ prima di domandare: «Come hai scoperto di avere questo potere?»
«Anche questa è una lunga storia». E, si sentì in dovere di aggiungere fin dove si estendesse, lasciandoti confuso, molto confuso. Al punto che tu le domandassi se non era un’astrofisica e lei alzò le spalle rispondendo che non aveva mai preso la laurea. Bè, se è per questo, tu neanche avevi mai preso il diploma. «Allora cosa c’entrano la chiromanzia e l’astrologia con l’astronomia e l’astrofisica?» Domandasti, ancora confuso.
«Metà della mia famiglia è piena di astrologhi e chiromanti e l’altra metà di astronomi e astrofisici. Io sto in mezzo».
«Una scelta molto... diplomatica». Glossasti.
«Sì, si può dire così». Concordò.
«Capisco. Come ci sei arrivata al Santuario?» Le chiedesti poi. Si strinse nelle spalle, come se non amasse parlare di quest’argomento. Stavi per dirle che se non voleva era uguale ma lei parlò prima che tu potessi dirglielo. Così venisti a sapere cosa le era successo e di tutto il percorso che, fin qui aveva seguito per cercare di riprendersi. «Fisicamente parlando sono a posto. Mentalmente mi sa che non sono più la stessa per forza, da allora vivo al Santuario». Concluse parlando più a sé stessa che a te, con quest’ultima frase. Suonava come se fosse un’amara consapevolezza. 
Ti sentisti indignato per lei. «Mi dispiace». Annuì. «Come ti trovi?» Chiedesti di nuovo. Stavolta sorrise: «Molto bene, non avrei mai pensato di dirlo, ma molto bene. Mi trattano bene, anche se la metà dei Cavalieri d’Oro non mi sopporta».
«Immagino quali».
«Quali?» Domandò incuriosita inarcando le sopracciglia e tu, iniziasti a fare l’elenco, sorprendendoti delle risposte. Allora chiedesti, stupito: «No?» Scosse di nuovo la testa, sempre sorridendo: «Allora sarai sorpreso di sapere che siamo amici, anche se non lo vedo da un po’». La guardasti incuriosito. Ancora di più quando accavallò le gambe e ti fece l’elenco di quelli che non la potevano soffrire. Ti stupisti che anche alcuni dei più affabili rientrassero nella lista. Ma ora essere antipatici persino a Seiya era un record, a quel ragazzo piacevano quasi tutti. «Questo è inaspettato». Chiosasti a corto di parole. Come fu inaspettata anche l’informazione che ti dette subito dopo, ossia che Milo aveva trasformato l’Undicesima Casa in una sorta di mausoleo in tuo onore e che se ne occupava lui stesso, in assenza di Hyoga e Natasha. L’emozione sbocciò dentro di te all’altezza del cuore, che si allargò e, lo stupore, si tramutò in commozione. Non ti aspettavi di essere rimasto tanto impresso al tuo amico, anche se non vi eravate parlati moltissimo in passato, nonostante quella sensazione che vi spingeva a stare vicini. Come se, in un passato molto lontano, tu fossi stato il suo sostegno. Mentre qui era quasi il contrario. Tornasti ad ascoltare ciò che ti raccontava: «Hyoga penso che non mi perdoni questa somiglianza che c’è tra noi, Milo invece, non sopporta che qualcun altro profani Casa tua, anche se è solo per pulire, o la sua».
«Ti ha già coperta di frecciate e insulti?» Chiedesti imbarazzato.
«Oh, sì, io però ricambio. Sono quasi riuscita a rimetterlo in riga».
«Davvero? Come hai fatto?» E ti raccontò la trafila di scherzi che si erano scambiati fino a poche settimane prima. Lei li trovava divertenti, tu no. «Perché?» Domandasti con disappunto e un vago accenno di disgusto nella voce.
«Ah, allora non sono stata l’unica a beneficiare di questo trattamento. Ha cominciato lui, io mi sono solo difesa. Bè, nel suo caso, ormai siamo quasi amici o, almeno, mi piacerebbe che lo fossimo. Non è cattivo è molto impulsivo, peggio di Aiolia». Aggiunse poi. La osservasti a lungo prima di aprire bocca: «Non ho mai sentito di una persona capace di tenere testa a Milo e di farlo passare per deficiente al tempo stesso, più di quanto non faccia da solo».      
Alzò le spalle e rispose che secondo lei aveva solo bisogno di attenzioni, «Poi magari mi sbaglio. Oddio, spero che non mi si sia scagliato contro perché ti somiglio perché se no abbiamo veramente toccato il fondo». La tua espressione di risposta non le fece ben sperare. Lei ti guardò incredula. Decidesti di rompere questo silenzio di imbarazzo e consapevolezza con uno: «Speriamo. E, che mi dici degli altri? Death Mask ti tratta bene?» Era l’altra fetta di cui ti aveva parlato che ti preoccupava.
«Sì, anche se a volte mi mette paura. Ma ho più paura di Lancelot che di lui».
«Lancelot?» Chiedesti accigliandosi, accavallando le gambe. Non avevi mai sentito prima questo nome.
«Hai presente il casino di tre anni fa?»
«Quello che ha spinto persino la Viverna a mettersi in moto per aiutare Kanon?» Domandasti sforzandoti di ricordare gli avvenimenti. Tu eri tornato alla vita giusto qualche mese dopo, ti avevano raccontato il resto Hyoga e gli altri, mentre imparavi a conoscere colui che amavi come un figlio per l’adulto che era e la tua nipotina. Lei confermò e tu asseristi con il capo e la tua narratrice ti aggiornò anche a proposito di quello che era accaduto. «Credo di aver capito.» e, la sua faccia, espresse tutta la sua contrarietà. «Così sembra, anche se il termine corretto credo che sia rapito, di nuovo».
Appuntisti lo sguardo, confuso: «Di nuovo?»
«Hai presente il mio arrivo al Santuario? Anche se per salvarmi diciamo che non è stato strettamente legale». Ti lasciò il tempo di elaborare quest’informazione e di assimilarla. Cosa intendeva dire? Cioè voleva dire che Death Mask e Aphrodite… Alzasti la testa di scatto, allarmato. Provasti un gran moto di comprensione e dispiacere. Avresti voluto dirle qualcosa ma, quando riaprì bocca domandò, in tono pratico: «Quindi noi che cosa dovremmo fare?»
«Non ti hanno detto niente mentre ti portavano qui?» Le chiedesti incerto se approfondire il discorso di prima o no.
Astrid alzò le spalle: «Mi hanno solo detto che il mio aiuto sarebbe stato fondamentale per la Resistenza e che c’era una persona che dovevo incontrare per ordine di Lady Pandora». Detta così sembrava uscita da Star Wars. «Credo che vogliano che tu mi aiuti a trovare una soluzione definitiva alla piaga delle Creature». Spiegò. Aiutarla poteva rivelarsi problematico per molti motivi. In primo luogo perché eri un bersaglio e, presto o tardi,  Aiacos sarebbe tornato all’attacco. Anche se il bersaglio eri tu ti preoccupavi di Violate. Se gli girava male avrebbe potuto vendicarsi scagliandola contro Astrid a causa della vostra somiglianza. In più - la osservasti - non ti sembrava una guerriera e voi eravate in guerra. Avresti dovuto combattere al fianco dei Celti, non potevi proteggere anche Astrid. Inoltre, se era tanto preziosa, 
«Ma tu vuoi davvero aiutarli?» Le domandasti. Ci pensò un po’ e alla fine dichiarò, con un’espressione dura e determinata che avevi già visto da qualche parte: «Sì». Se non altro la determinazione non le mancava.
«Hai una qualche idea su come cominciare?» Le domandasti in tono pratico. La tua interlocutrice batté le palpebre e arrossì, spiazzata. «Oh, eh… in realtà no, non ci avevo ancora pensato. Non ho mai avuto un vero e proprio piano per questo. Mi hanno semplicemente portato qui e ordinato di risolvere il problema delle Creature e delle morti».
Qualcuno tossicchiò e voi vi giraste verso una Ninfa Stigia, la riconoscesti dai disegni sulla pelle. Da quando Shaka era diventato il capo delle schiere degli Dèi della Notte e dell’Oscurità ne avevi viste molte in giro per l’accampamento. Fino a questo momento non ti eri minimamente accorto di lei. Da quanto tempo era qui? Astrid vi presentò e, così venisti a sapere che anche le Ninfe Stigie avevano dei nomi. La Ninfa ti fece la riverenza e replicò con un cerimonioso: «Onorata di fare la vostra conoscenza».
«Il piacere è tutto mio». Ribattesti incerto. Poi, la creatura dello Stige vi rivelò il motivo della sua intromissione: «Se posso permettermi, suggerirei di visitare gli ospedali da campo, potrebbe essere un buon punto di partenza». Consigliò fingendo di sistemare altri fiori nel vaso alla sua sinistra, già pieno di tulipani gialli, in netto contrasto con i colori scuri della tenda.

Voi due soppesaste questa proposta ma alla fine non trovaste niente di meglio, per cui, tu facesti strada alle due alla tenda ospedaliera più vicina. Quando foste vicini al posto, vedesti la giovane bionda deglutire a vuoto e guardare preoccupata l’infermeria da campo. Ma non le chiedesti niente. Probabilmente era spaventata a causa dell’odore del sangue e dai vari lamenti e grida e parole che uscivano da quell’enorme tenda.
Però, stoicamente decise di entrare lo stesso. Parlaste con alcuni medici del campo e, quando seppero che Astrid poteva effettivamente fare qualcosa per salvarli, la lasciò provare. Non senza nasconderle il sospetto.
Il cerusico vi accompagnò da uno degli Specter che era deceduto a causa delle Creature. «Questo era Cube di Dullahan, la Stella Malefica della Terra Buia, apparteneva alle schiere del nobile Rhadamantys della Viverna», vi disse recuperando il nome dalla cartella medica appesa alla testiera del letto. Poi, scoprì lentamente, per non impressionarvi, il corpo dal lenzuolo. Ma anche così non bastò per prepararvi psicologicamente. Era persino peggio di quanto vi aspettaste. Nessuno di voi tre riuscì a sostenerne la vista che doveste distogliere lo sguardo. Lasciandovi sfuggire versi di sgomento e dolore tra i denti.
Il vostro anfitrione vi guardò preoccupato e  si fermò: «Lo ricopro?»
«No, no, scopritelo fino al petto, al resto penserò io». Ordinò Astrid parlando rapidamente, sforzandosi di non vomitare. Sembrava che volesse togliersi di torno quest’incombenza al più presto. «Ce ne sono altri?» Domandò poi guardando il medico, abbracciandosi il busto. 
Il dottore vi raccontò che avevano recuperato il cadavere di questo e altri, nel corso di questo anno. Ma che per quanto avessero provato, neanche Hades era riuscito a resuscitarli.
Astrid ascoltò attentamente, guardando il cadavere annerito e carbonizzato. Poi tese un dito verso di lui. La falange si illuminò di una luce viola purpurea. A quella vista sgranaste gli occhi, mentre la giovane muoveva il dito a poche spanne dal petto dello Specter e disegnava una sfera di energia del medesimo colore della luce.
Appena smise, la sfera fu inglobata dentro il cadavere e accadde il miracolo. La vita tornò nel corpo dello Specter, il quale tornò al suo colore originario e si ricostituì. Pelle, denti, capelli, muscoli, sangue, ossa, vestiti e Surplice tornarono al loro posto.
Persino il cerusico sgranò gli occhi e si lasciò sfuggire qualche esclamazione in latino. Lo Specter aprì gli occhi e annaspò riempiendosi i polmoni. Poi sollevò le braccia osservandosi le mani incredulo. Si mise seduto e, continuando a respirare, si sedette, tastandosi il torso e la testa.  
Astrid sorrise e gli domandò come si sentisse.
Solo allora lo Specter registrò la vostra presenza e vi guardò. Poi, di fronte al sorriso della sua soccorritrice, l’attaccò in un nanosecondo. Ma la Ninfa Stigia fu più veloce e appioppò un rapido e violento pugno in faccia a Cube di Dullahan, crepandogli l’elmo che copriva interamente il suo volto e rispedendolo lungo disteso sul letto, svenuto.
Poi si girò a guardare la sua signora, che aveva smesso di sorridere e faceva la spola con lo sguardo da lei a lui. Scioccata da questa prova di ingratitudine. «State bene, milady?» Domandò la Ninfa guardandola preoccupata, posandole le mani sulle spalle.
Astrid annuì, distogliendo finalmente lo sguardo da Cube: «Io… Sì, direi di sì». La Ninfa annuì. 
Solo allora il cerusico si rianimò e, con occhi pieni di gioia prese a encomiarla per il miracolo operato. Tanto era entusiasta si sporse verso di lei per toccarle una spalla: «Ma è meraviglioso! Siete riuscita a resuscitare uno Specter laddove anche il Sommo Hades aveva fallito! Allora siete veramente stata mandata dal nostro Signore per risanare le nostre armate come sosteneva il nobile Rhadamantys! Oh, eleveremo preghiere di ringraziamento al nostro Dio per ringraziarlo della sua benevolenza! Venite con me, ci sono altri Specter da resuscitare!» Fece poi, acchiappandola per un polso, ma lei si sottrasse alla sua presa ed esclamò: «No!»
Il medico la guardò stranito e Astrid mise insieme un discorso per spiegargli che purtroppo quest’operazione le consumava molte energie e che le ci sarebbe voluto un po’per rimettersi in sesto. Il medico la guardò sconcertato, ma comprese. «D’accordo, in fondo non è necessario che li resuscitiate tutti oggi e subito, quanto tempo vi occorre di solito per ricostituire le vostre energie?»
«Mezz’ora. Per favore, posso uscire? Mi manca l’aria.» Aggiunse. In effetti era sbiancata ancor di più e sembrava sul punto di svenire.
Il fantasma se ne accorse e disse: «Ma certo, ma certo, tornate pure quando vi sarete ripresa».
Lo ringraziaste e usciste. La giovane Menta sorresse la sua padrona e, quando foste fuori la faceste sedere su un masso distante una trentina di metri dalla tenda da dove, adesso si levavano anche grida di giubilo.
Astrid si prese la testa tra le mani  e si raggomitolò in posizione fetale. Menta continuò a stringerle le spalle e a mormorare qualcosa. «Stai bene?» Le chiedesti tu.
«No, non sto bene, non sto bene per niente! Ho appena visto un cadavere ritornare in vita e sono stata aggredita dallo stesso che ho resuscitato, Camus! Come faccio a stare bene?» Ti rispose lei angosciata. Poi cominciò a fare una serie di respiri cortissimi, l’espressione sofferente e si abbracciò il busto come a darsi la forza di reagire e controllarsi. Era andata nel panico. Le suggeristi di fare dei respiri profondi e, tempo una mezz’ora, la ragazza parve recuperare il controllo di sé stessa. 
Poi tornaste alla tenda e riportò in vita Myu della  Farfalla, Giganto di Cyclopys e altri tre Specter. Beccandosi vari tipi di ringraziamenti che spaziavano dagli insulti verbali più o meno velati, alle vere e proprie aggressioni cui tu e Menta la sottraeste.
«Direi che per oggi può bastare anche così». Dichiarasti alla fine, dopo averla portata via da quella tenda maledetta per la sesta volta. Le due giovani ti dettero immediatamente retta. A un tratto lo stomaco di Astrid rumoreggiò e lei si portò una mano alla pancia. A forza di fare questo andirvieni non vi eravate accorti che l’ora di pranzo era passata da un pezzo. Forse riuscivate ancora a racimolare qualcosa. Ti offristi di accompagnare le due alla mensa comune ma Menta declinò l’invito anche per la sua padrona asserendo che sapeva dove andare per trovare del cibo. E che, il Padiglione della Caina era uno più riforniti sotto quest’aspetto.
«Non cibo del Regno dei Morti, vero?» Indagasti, tu, guardingo. La Ninfa Stigia batté le palpebre e rispose, guardandoti quasi offesa: «Ovvio che no, signor Aquarius, il Sommo Rhadamantys è stato categorico su questo punto». 
«D’accordo, allora se avete bisogno di me mi trovate nel territorio celtico». Vi salutaste e vi separaste.
Come primo giorno insieme, fu abbastanza sfiancante.
La voce della resurrezione dei sei Specter si sparse velocemente e, superato il primo momento d’incredulità, l’entusiasmo e il morale generale si risollevò. Qualcuno fece anche domande su questo miracolo e, varie voci cominciarono a rincorrersi tra loro, rapide come levrieri. Fomentate anche dalla notizia della riuscita della missione di Minos. Che, non solo era riuscito a impedire il risveglio dei Primi Cavalieri ma aveva anche riportato a voi l’Azone al servizio di Hades. Te lo riferì la stessa Pandora quando ti mandò a chiamare al Padiglione della Giudecca. «Giacché l’informazione ci era stata riferita da Isaak e voi avete contribuito, ho pensato che vi avrebbe fatto piacere saperlo». Ti sorrise poi, assisa sul trono, le mani poggiate sui braccioli. Rispetto a Lady Viviana lei sì che suggeriva leggiadria e potere. Era molto più sacra la sorella terrena di Pandora della Signora di Avalon.
«Grazie, Somma Pandora». Rispondesti inchinandoti e, i capelli ti scivolarono su una spalla.
«Non avrete pensato che mi sarei dimenticata di voi, Aiacos e gli altri Specter vi hanno dato più fastidio?» Domandò poi. 
«Nossignora, al limite adesso facciamo dei tornei dove ci sfidiamo per gioco e allenamento». Era vero. Bè, anche prima si tenevano, ma adesso questi tornei avevano subito un aumento di pubblico e affluenza. La mora sorrise dolcemente: «Ne sono lieta». Dopodiché ti congedò. E, tu ci restasti ancora una volta di stucco, non credevi che quella donna fosse capace di sorridere anche in luoghi come questo. Dai toni che usò quelle poche volte che la udisti, decadi or sono, ti era parso di no.  
Ovviamente, la notizia della comparsa dell’Azone al servizio degli Inferi fomentò l’entusiasmo generale. E, potesti vederne gli effetti anche su chi ti stava attorno. Per esempio, Isaak sorrise rinfrancato, lieto di essere stato utile alla causa. Invece, dal primo giorno che conoscevi Valentine dell’Arpia, vedesti i suoi occhi accendersi d’entusiasmo. «Adesso i Black Saints non avranno più scampo!» Fianna invece alzò la sua lancia al cielo e lanciò un grido di giubilo. 

Il giorno dopo che tu ti fossi dato una ripulita in una delle sorgenti termali - alla vostra igiene ci pensavate, mica eravate dei maiali. Prima delle sorgenti vi dovevate arrangiare bollendo l’acqua, adesso vi recavate alle sorgenti, ovviamente con un drappello di soldati a montare la guardia, per sicurezza. Mentre ti lavavi, notasti che i segni blu che ti avevano fatto, sbiadirono. “Più tardi  chiederò ai Pitti di rifarmeli”. E, forse, avresti dato anche una spuntata alle tue punte, che erano un po’rovinate.
Una volta asciutto, indossasti dei vestiti puliti e andasti a cercare Astrid e Menta. Non potesti fare a meno di notare che, in mezzo a tutto quel nero, eri una delle poche persone a indossare dei colori differenti. In un certo senso ti si notava come un pugno nell’occhio. Ti venne anche da domandarti dove fosse finita la tua Surplice di Aquarius. Non che la volessi indossare, eri soltanto curioso di saperlo. 
Comunque ritracciasti Astrid concentrandoti sui Cosmi. Lì per lì ti eri dimenticato che non riuscivi a percepirla. Perciò ti concentrasti sui Cosmi di chi le stava accanto. Se non ti ricordavi male, aveva una serva. Ti concentrasti su quella e la trovasti al Padiglione della Caina.

Le raggiungesti laggiù, che tanto ti ricordavi la strada e, trovasti la Ninfa intenta a servire la colazione a una scossa Astrid.
Non ti saresti mai abituato completamente a questa somiglianza, te lo sentivi.
Menta accanto a lei, le serviva la colazione su un piccolo elegante tavolino fuori della tenda. Quel giorno tirava vento ma era abbastanza debole da non dare troppo fastidio. Ti sorprendesti nel vedere che, comunque, la giovane aveva un trattamento decisamente migliore del vostro. Persino le tazze e i cucchiai erano finemente decorati e molto più raffinati dei vostri. Eppure la giovane non sembrava abbastanza contenta, mentre sbocconcellava un panino con il miele e, la Ninfa, le serviva da bere.
Indossava ancora il vestito nero ma aveva i capelli raccolti in tre mezze code che le coprivano le orecchie per tenere fermi i capelli. Ti ci era voluto un po’per capire che, in realtà non era una treccia come sembrava.
Le due ti salutarono e, la tua nuova conoscente, ti fece cenno di accomodarti e fare colazione con loro. Declinasti l’invito dicendo che avevi già mangiato. Però ti sedesti su una delle rocce vicine: «Tutto a posto?» Le domandasti e lei emise un verso rassegnato prima di inghiottire e rispondere, ironica: «Certo, mi sento solo come se fossi finita dentro Picnic ad Hanging Rock, con la differenza che c’è il cielo tempestoso e sembra un film in bianco e in nero invece che a colori».
In effetti era proprio così. Strano a dirsi, ma gli Inferi avevano un proprio ciclo di luce e buio. Molte cose erano veramente cambiate dalla Guerra Sacra.
La differenza con il passato erano le nubi nere che oscuravano la volta celeste infera sopra la zona. Ma, se in certe zone erano punteggiate di bianco, come se la luce lottasse per bucarle e non ci riuscisse, qui erano striate di rosso.
«L’ho visto, il Monte Diogene e il suo parco, è molto bello». Buttasti lì tanto per fare conversazione, ma lei preferì concentrarsi sulla colazione. Tacesti, in effetti parlare di un parco naturale e di geografia non era questo granché appena svegli negli Inferi. «Mi riferivo al film; comunque è un dramma con tinte horror».
«Ah, quello non ho mai avuto occasione di vederlo; quindi, dici che ci somiglia?»
«Neanche più di tanto, sembra la sua versione dark, priva dell’aura di misticismo e mistero che si respira nel film». Fece prima di bere la sua tazza di tè.
Poi anche Menta si accomodò accanto a lei e si servì con ciò che restava. In realtà si erano divisi la colazione e la Ninfa si offrì di darti metà della sua razione, ma tu declinasti nuovamente. Allora la giovane si rivolse ad Astrid: «Padrona, siete sicura che volte ch’io mangi assieme a voi?»
«Sì», replicò la bionda senza guardarla, in tono leggermente scocciato, come se avesse già risposto altre volte a questa domanda. Così la Ninfa prese le posate e cominciò a mangiare, un po’titubante.
Quando ebbero finito si alzarono e la Ninfa sparecchiò e rientrò nella tenda. Mentre sistemava la giovane s’accomodò sulla roccia accanto a te e ti spiegò che, per quanto apprezzasse questo trattamento, c’era un limite. «In fondo io stessa ero un’ancella, so bene quanto sia pesante questo lavoro; mi faceva pena vederla arrabattarsi a quel modo per me, che non sono nessuno».
«Rhadamantys pare credere il contrario, dal momento che alloggi nella sua stessa tenda, o sbaglio?»
La ragazza stiracchiò le labbra prima di risucchiarle dentro la bocca. Le rilasciò e rispose, con voce piena di frustrazione: «Credimi, la cosa non mi entusiasma affatto, ma al momento non abbiamo nient’altro. Sto pensando di raccattare qualcosa e costruirmi una tepee solo per me e per Menta, magari in mezzo a tutte le altre, ma lontano, finalmente da Rhadamantys e gli altri due; lascia pure le sedie e il tavolo, per favore». Fece poi all’indirizzo di Menta, la quale aveva preso il tavolo per portarlo via. La serva si fermò, girandosi verso di lei e annuì.
«Perché proprio la tenda indiana?» Chiedesti ad Astrid, mentre Menta se ne restava in piedi accanto al tavolo.
«Perché è l’unico tipo di tenda che so costruire». Rivelò con così tanta sincerità che ti strappò un sorriso. «Non occorre che tu stia laggiù in piedi, puoi anche sederti, tanto ora ti raggiungiamo». Disse alzandosi e, la Ninfa batté le palpebre, perplessa: «Mia signora, non scendiamo come aveva ordinato il sommo Rhadamantys?»
«Più tardi, adesso non ne ho voglia». Fece lei mentre scostava una sedia e si accomodava davanti a Menta e, tu l’imitavi mettendoti a capotavola.
Non faceva così freddo, grazie alla vicinanza del Flegetonte, Astrid avrebbe potuto girare tranquillamente sbracciata.     
«Allora, che si fa?»
«Adesso cerchiamo di capire qualcosa di più sulle Creature». La ragazza vi mise a parte delle sue teorie e Menta s’alzò per tornare con penna, pergamena e calamaio e prese appunti. A volte suggeriva le parole che non venivano ad Astrid e altre poneva domande.
Mettendo insieme gli indizi avevate un mucchio di teorie che conducevano tutte alla Luce Ombrosa, all’influsso che aveva sulle Cloth e anche al disegnare con la luce. Perché sì, anche se a malincuore, vi rivelò anche questo. A quelle parole Menta smise di scrivere per guardarla sconcertata e, tu domandasti: «Disegnare con la luce, intendi forse fotografare?»
«É stata la prima cosa che ho pensato anch’io; ma non credo che sia così, non ho ancora verificato se è una cosa relativa ai miei poteri o se è qualcos’altro. Ciò che è certo è che finché resto qui non potrò scoprirlo». Aggiunse poi, distogliendo lo sguardo pensieroso e preoccupato da voi per lanciarlo sul panorama circostante.
«Ma era solo un sogno e neanche tuo, cosa ti fa credere che sia un messaggio per te?»
«Non lo so, ma non credo che sia una coincidenza che una Saint a me vicina, con poteri precognitivi molto simili ai miei divinatori, abbia fatto lo stesso sogno per notti intere. In più, i miei poteri sono legati alle stelle e alla luce, oltre che all’oscurità, non posso tralasciare nulla in questa storia. Anche se non lo fosse, potrebbe essere un suggerimento per un nuovo incantesimo o qualcosa di simile». Non potesti fare a meno di guardarla stupito per questa teoria. Pensavi che fosse ancora troppo destabilizzata per formulare un pensiero. Anche voi ad Asgard ci avevate messo dei giorni interi, prima di trovare le risposte che vi servivano. Con il senno di poi, le avevate anche sotto gli occhi, con Yggdrasil e tutto il resto. Vi eravate domandati il come e il perché, ma nessuno di voi si era chiesto chi vi avesse riportato in vita. Ma tutti, chi più chi meno, ne avevate approfittato. Tu, sicuramente. E sapevano tutti che l’avevi usata per rimediare a un torto che aveva spezzato la giovane vita della sorellina di Surt. Il tuo vecchio amico, che sicuramente, adesso festeggiava nel Valhalla. Anche se ciò aveva ferito Milo e, di riflesso anche te. Non immaginavi che nel corso degli anni, il vostro legame fosse così forte, sebbene vi foste parlati così poco.     
Improvvisamente lei si sciolse in una risata e chinò il capo divertita: «Oddei, detta così sembro una narcisista con una vena di egocentrismo!»
Non ti aspettavi che sapesse fare autoironia. In ogni caso, discuteste ancora a lungo delle Creature e dei poteri di Astrid. Dopodiché, scendeste e aiutaste la giovane a tirarsi fuori dei guai per quanto riguardava la resurrezione degli Specter che non aveva resuscitato il giorno prima.
Mentre tornavate al padiglione, foste costretti a fare una deviazione a causa di una frana e, lo Skeleton che vi accompagnava, vi fece passare da una gola vicina. A un certo punto, mentre camminavate, qualcuno vi tese un’imboscata. «Guarda chi si rivede». Esordì una voce femminile profonda in alto a destra. Alzaste la testa in quella direzione e vedeste la Specter di Behemoth appollaiata su un masso. Istintivamente ti spostasti Astrid dietro la schiena. «Non pensavo che il mio padrone vi avesse lasciato andare senza colpo ferire, sono colpita. Avevo sentito dire che volesse prendere la vostra testa, Gold Saint di Aquarius». Sorrise la bruta dal corpo coperto di cicatrici.
«Ha mandato te per completare il lavoro?» Domandasti mentre la Ninfa Stigia circondava le spalle di Astrid con un braccio tatuato e la traeva a sé con fare protettivo, allontanandosi da te.
La Specter sbuffò come un cavallo e disse, puntellando le mani indietro. La sua corazza lanciò un lieve brillio nella penombra: «Volete scherzare? Se il mio Signore non mi dà ordini io non ho nessuna ragione per torcervi un capello. Certo, non nego che non mi piaccia menare le mani, ma preferirei farlo in battaglia e davanti al mio Signore, piuttosto che in una stretta gola rocciosa e desolata come questa».
«Allora cosa sei venuta a fare qui?» Chiese Astrid assottigliando gli occhi.
«Niente di particolare, ero curiosa di conoscere la Luce Ombrosa che ha resuscitato il Re Garuda e che ha contribuito a liberarlo dal giogo di Don Avido». Ciò detto spostò gli occhi su Astrid e tu facesti altrettanto, guardandola stupito. Non vi aveva detto che la prima persona che aveva resuscitato fosse proprio uno dei Giudici Infernali.
La giovane, dal canto suo replicò, seria, staccandosi dalla Ninfa: «Suppongo che tu voglia ringraziarmi».
La mora la guardò stupefatta prima di sporgersi in avanti e scoppiare in una derisoria risata sguaiata: «Ringraziarti? Benedetta ragazzina, la tua ingenuità mi fa ridere; negli Inferi non esiste la riconoscenza. Riconoscenza è sinonimo di debolezza e tu sei debole. No, io non ti ringrazierò mai». Concluse poi assottigliando ancor più lo sguardo. Astrid sussultò e fece un passo indietro. Gli occhi sgranati. «Specter e Saint sono nemici giurati per definizione, se mai è esistito un momento in cui i contrasti tra le fazioni potevano appianarsi, ormai è impossibile, quindi devi fare una scelta».
«Dunque siete disposti ad arrivare a questo? Preferireste morire piuttosto che farvi aiutare, anche se l’ha ordinato uno dei vostri comandanti?» Chiese allibita lei.
«Certo che no, ma non accetteremo mai di farci toccare da qualcuno come te. Anche il tuo modo di guardarci è identico al loro, tu vedi solo dei mostri». Rispose la donna sorreggendosi il volto con la mano, mentre le ombre si muovevano attorno a voi. Abbassando lo sguardo Astrid sussultò e fece un passo indietro e tu la imitasti: gli spiriti uscivano dalle ombre che vi circondavano. La Ninfa strinse a sé Astrid come una madre protettiva con la propria figlia. Astrid pose le mani sulle braccia della serva e la separò leggermente da sé per domandare ancora, stavolta più determinata: «Come può essere, non c’è altro modo?»
«Spiacente, la strada è questa».
«Non ti credo!» Urlò la bionda e, per un momento, gli spiriti s’immobilizzarono come spaventati da questo grido inaspettato. La Specter invece ampliò il suo sorriso e le ombre smisero di accerchiarvi: «Fa come ti pare, alla fine la vedremo chi ha ragione». Poi si alzò in piedi e se ne andò saltando di roccia in roccia fino a scomparire alla vostra visuale.   
«Astrid, stai bene?» Le domandasti, mentre lei fissava ancora il punto dove un secondo prima stava l’ala del Garuda. «Sì, è tutto a posto». Rispose con voce monocorde abbassando lo sguardo e tu, capisti che stava mentendo, ma che era troppo orgogliosa per ribattere diversamente. Sentivi provenire da lei una rabbia bruciante a dir poco. Se fosse stata una Saint, con quella rabbia, probabilmente avrebbe distrutto il Santuario.
Non sapevi ancora come comportarti con lei senza urtare i suoi sentimenti, per questo, non visto, ti limitasti a stringere i pugni e a seguire le due.
«Dove stiamo andando?» Domandò poi Astrid.
«A parlare con l’unica persona che può aiutarci: lo Specter della Driade, che è quanto di più simile possiamo permetterci qui a un vero e proprio medico, come avevo intenzione di fare». 
«Astrid, le parole di Violate…» Iniziasti.
Lei girò il volto verso di te e rispose in tono brusco e la fronte aggrottata: «Non mi tangono e non mi fido. Non ho alcuna ragione per fidarmi di uno Specter dopo quello che mi hanno fatto da quando ho risanato il primo di loro». Per voi vi aveva rivelato quest’informazione solo per  toglierla di mezzo. Eppure, tra voi tre, fu proprio la tremante Menta a dare voce a questo pensiero. 
Nonostante ciò eccovi qui tutti e tre, mentre seguivate lo Skeleton guida sul sentiero che si snodava per gli Inferi. Neanche tu l’avevi mai visto ai tempi della Guerra Sacra. Persino Astri lo intuì da come ti guardavi attorno, spaesato quanto lei. Però non disse niente.
Solo Menta e lo Skeleton erano tranquilli e si muovevano come se conoscessero a menadito il posto. Anche se la povera Ninfa, dopo l’imboscata dell’Ala del Garuda, era quasi rimpiattata dietro la sua schiena e tremava come una foglia. A volte si staccava da Astrid e si fermava per riposare un po’, costringendo anche voialtri a fermarvi. Pur essendo una Ninfa Stigia, a parte la palude natia e il Castello della Giudecca, vi confessò di non aver mai lasciato il Palazzo da quando fu presa a servizio del Signore dell’Oltretomba. Ovviamente tu non ti fidasti neanche un po’, mentre Astrid si mostrò incerta se credere o meno alle sue parole.
Quando Menta si fu riposata abbastanza, riprendeste il cammino. 
«Sei sicura di quello che vuoi fare?» Domandasti per l’ennesima volta alla tua sosia al femminile.
«Temo che non ci sia altra scelta». Rispose con voce lugubre.
«Ti fidi a tal punto da rischiare così tanto?»
«No. Come ho già detto non mi fido di nessuno di loro,Violate di Behemoth, poi, è il braccio destro di Aiacos, uno dei miei aggressori, quindi ho un motivo in più per non fidarmi. Però, so anche che cosa mi aspetta se non andrò fino in fondo». Aggiunse con voce lugubre e tu la guardasti con due occhi così: «Che cosa?» L’avevano minacciata? Lei si strinse nelle spalle e rispose: «L’eterna prigionia qui. Rhadamantys mi ha promesso di riportarmi nel Regno dei Vivi se riuscirò a resuscitare tutti gli Specter e a fermare le Creature; voglio sperare che sia vero».
«E se non lo fosse?» Insinuasti con un fil di voce. Trattenne il fiato rumorosamente. In compenso, sul suo volto passò un’ombra.
Un’ombra che, con il passare delle ore e l’ennesima aggressione, andò oscurandosi sempre di più.
Era inutile aspettare che portassero i feriti e le vittime degli scontri direttamente al campo base. Astrid ogni giorno di più, smaniava per venire con voi sul campo di battaglia. Ma, tutto quello che riusciste a fare, fu un giro per i territori riconquistati vicini. Ossia, la Sesta Prigione, di dominio di Violate. Però non era tutto qui. Ovvio che non lo era, ormai non ci credevi neanche più che fosse tutto qui. 
Mentre stavate tornando al Padiglione della Caina, una delle creature ctonie al comando di Shaka, vi raggiunse, chiamandovi, o meglio, chiamandola: «Somma Astrid, Somma Astrid». Vi giraste entrambi e vedeste questo vampiro in armatura bluastra raggiungervi e riferirvi che un drappello di Specter era rimasto vittima delle Creature. «Sei sicuro?» Domandasti. Ti saresti aspettato che anche lei si preoccupasse, invece, scopristi, che non gliene importò. La guardasti e vedesti solo il suo sguardo gelido, mentre replicava, in tono strafottente: «E a me cosa me ne dovrebbe importare? Gli Specter sono adulti e vaccinati, non hanno certo bisogno di essere salvati da me».
«Astrid…»
«Somma Astrid?» Ripeté il vampiro battendo le palpebre sugli occhi sanguigni.
La giovane si mise le mani sui fianchi e continuò, spietata: «Che cosa vi fa credere che io voglia davvero aiutare gli Specter dopo tutto quello che ho subito a causa loro? Io servo solo a resuscitarli, il mio compito inizia e finisce lì, se mi si portano i corpi carbonizzati o le loro ceneri bene, altrimenti non me ne viene niente e non me ne può fregare di meno. Se proprio desideri ricevere un aiuto, prova a rivolgerti ai tre Giudici Infernali, potranno fare sicuramente molto più di me».
«Vi chiedo scusa, milady, spero che vogliate perdonarmi per il mio increscioso errore».
«Non sono io quella con cui ti devi scusare, vai salvare i tuoi commilitoni». Ciò detto gli volse le spalle e risalì la china. Menta la seguì, invece tu restasti lì. Anche se non potevi credere che Astrid celasse un lato così crudele, tu, eri un Saint.
«Dimmi dove si trovano».
«Come?»
«Dimmi dove si trovano, li recupererò io».
Così ti facesti guidare sul luogo, solo per finire travolto da uno stuolo di anime in fuga da un mostro che sembrava un uscito da un incubo. Ma che non apparteneva alle vostre schiere. Tu facesti del tuo meglio per impedirgli di catturare le anime che gli Specter stavano proteggendo, ma era difficile. Sentivi le tue energie molto più fievoli di prima. Che fosse colpa dello scontro con l’Astronauta? «Da dove viene questo?»
«É uno degli esseri che popola gli Inferi!» Ti rispose uno Specter che ti si affiancò.
«Perché non si è mai visto, prima?»
«Perché non c’era!»
«Sì che c’era!» Lo contraddisse uno Specter che saltò vicino a voi mentre guidavate le anime alla stregua di tanti cani pastori. «É solo che prima avevamo abbastanza forze e potere per contrastarli, mentre adesso non possiamo più. Cosa c’è, credevi che solo voi Saint aveste dei problemi nel vostro territorio? Bè i mostri sono l’equivalente dei vostri Black Saint». Fece prima di spiccare un altro balzo e portarsi dentro la mischia, da dove attaccò l’essere.       
A un tratto il mostro dalla testa bovina con tre occhi, perse la pazienza e, con un colpo di una delle sue tante mani, distrusse l’uscita provocando una frana. 

Soffiasti fino a generare un fiocco di neve, che poi, il vento che soffiava portò via. Sapevi che qualcuno avrebbe colto il tuo messaggio. Nel frattempo avreste venduto cara la pelle.
Stavate per soccombere quando improvvisamente uno stormo di grifoni scese in picchiata verso il mostro, costringendolo ad arretrare e a muoversi per scacciare via i grifoni, i quali, grazie agli ottimi riflessi, schivavano tutte le mani e i denti del mostro.

Nel mentre, alcuni si  abbassarono e atterrarono tra voi, facendo scostare le anime. Dalla groppa degli esseri scesero alcuni Skeleton e altri dell’esercito Ctonio. Un grifone atterrò a pochi metri da te e trottò fino alla tua persona per poi girarsi e mostrare il suo cavaliere, seduta alla amazzone, che ti guardava con un misto di urgenza e terrore negli occhi. «Camus!»
«Astrid!»
«Presto, monta!» Salisti sulla groppa dell’animale, che, spalancò di nuovo le ali e vi portò sulla cima della roccia, dove c’era un piccolo drappello dell’armata di Rhadamantys. I vostri rinforzi. «Che accidenti di mostro è quello? Il Minotauro sotto steroidi?» Domandò Astrid spaventata, mentre il grifone schivava la mano dell’affare. Tu non le rispondesti, però ti chinasti sul collo dell’animale a tua volta quando una mano passò troppo vicina alle vostre teste, smuovendoti i capelli e rischiando di disarcionarvi con la forza della massa d’aria che spazzò.   

Per salvare le anime, usaste il trucco di Odisseo per liberarsi di Polifemo. L’idea fu di Astrid, che ti chiese di usare il tuo Cosmo per comunicare con gli Specter, mentre voi a cavallo dei grifoni, facevate alzare le anime in volo, in un’unica colonna.
«Ma le Creature…»
«Non ci toccheranno, non finché ci siamo noi, quindi non aver paura».
«D’accordo».
E, ripetesti il piano di Astrid agli Specter, i quali obbedirono all’istante senza porsi troppe domande. Dirigeste la colonna verso il mostro e gliela faceste precipitare addosso. Nel mentre vi tuffaste dentro la folla di anime con una virata, di modo che poi foste davanti al muso gigantesco dell’essere. Lì, tu materializzasti delle picche di ghiaccio acuminate e affilate grandi abbastanza per trafiggere quei tre occhi e, gliele scagliasti.
La creatura ululò di dolore e si portò tutte le mani agli occhi, uggiolando. Sicché voialtri, poi, poteste dirigere in volo le anime, altrove. Per sicurezza l’avevi imprigionato in una Freezing coffin della sua misura, quindi non vi avrebbe dato più fastidio.

Così, tornaste all’accampamento, non prima di aver aiutato gli Specter a rimettere i dannati al loro posto. Peccato solo che anche Astrid decise di scendere dal grifone. E la sua presenza non passò inosservata.   

«E tu cosa credi di fare qui?» Sogghignò la Stella del Cielo della Sconfitta, notandola.
Astrid volse la testa verso di lui e tentò di intavolare un discorso: «Mi hanno mandato qui per risolvere il problema delle Creature» ma si fermò immediatamente di fronte all’occhiata perentoria che il gigantesco Specter del Minotauro le stava rifilando. Quello la squadrò dalla testa ai piedi e se ne uscì con una mortificante risata sguaiata. Risata che contagiò anche gli altri colleghi presenti nella gola. Prima che lei potesse fare qualcosa, un’anima la colse di sorpresa, prendendola in ostaggio e cominciando a trascinarla via. Astrid cercò di difendersi ma non riuscì a fare niente. E, neanche tu, avresti potuto ferirla e, l’anima, la stava già minacciando. 
«Cosa credevi di fare, bamboccia? Non lo sai che i Vivi non possono uccidere le anime dei morti?» Continuò la Stella Celeste mentre l’anima cercava di ucciderla.
Pensavi che sarebbe finita lì e invece no. Saresti voluto correre in suo soccorso ma la strada ti venne sbarrata da degli Specter e degli Skeleton. In breve ti ritrovasti a lottare con quest’ultimi.
Appena riusciti a essere libero urlasti: «Astrid!» Urlasti. Maledetto fosse quel Patto sciagurato che ti impediva di muoverti come desideravi… Cercasti di bloccare l’anima usando il ghiaccio ma fu tutto inutile.
«Che carino, chiama la figlia!» Ti schernì uno Specter. Ma nessuno di loro mosse un dito per aiutarla. Anzi, cominciarono a scommettere: «Per me crepa subito», «Per me no, forse tra un po’».
Li guardasti sbigottito. Non era possibile che se ne fregassero fino a questo punto!
La Stella Celeste si girò a guardarti ghignando divertito: «Che c’è, Gold Saint? Non sei abituato a vedere queste scene?» E, il suo collega; «Come, non lo sai che negli Inferi vige la legge del più forte?»
«Oh, sì e, anche che non esiste la riconoscenza?» Si aggiunse un terzo Specter ridanciano. «Come se non si sapesse che gli Inferi non sono un parco giochi», il primo scosse il capo e schioccò la lingua contro il palato: «Già, ma dove credeva di essere, quella, in gita?»
Ma tu non eri uno di loro, tu eri un Gold Saint, non potevi restartene con le mani in mano. Perciò con un balzo li superasti e ti lanciasti nel marasma di anime. Non immaginavi che potessero essere così fitte e fangose. L’anima la stava strangolando sotto ai tuoi occhi e tu eri arrivato troppo tardi. «No!» Urlasti. Astrid stava ancora cercando di liberarsene, senza successo. «Padrona!» Strillò Menta, spaventata.
Ti scagliasti verso di loro superandoli tutti con un balzo che solo un Gold Saint può compiere.
«Muori!» Sentisti urlare allo spirito e, come se il senso dell’udito ti si fosse potenziato, sentisti il sussurro spaventato di Astrid. O forse te l’eri solo immaginato. Mentre corresti la vedesti boccheggiare, riflessa nelle lastre di ghiaccio che avevi innalzato nel vano tentativo di salvarla.
«Greatest Caution!» Esclamò una voce maschile perentoria che non udivi da tempo e, una grande Viverna d’energia violacea afferrò l’anima tra le sue fauci, strappandola dal collo di Astrid.
Alzasti gli occhi e vedesti Rhadamantys abbassare l’indice. Poi, lo sguardo furioso e spiritato di Rhadamantys ti trapassò da parte a parte come le lame di una spada. «Camus di Aquarius, ti avevo ordinato di trovare una soluzione al problema delle Creature, non di mettere in pericolo la custode della Luce Ombrosa! E, tu, Ninfa, che hai da dire a tua discolpa?»
«Mi dispiace mio signore, sono desolata, ma la giovane padrona non ha voluto ascoltarmi e…»
«Taci! Quanto a voialtri due, sparite. Non voglio più vedervi sul campo di battaglia, prendi la ragazza e lasciate questo posto, adesso, prima che decida di ammazzarvi entrambi». Poi, ti lasciò raggiungere la ragazza. «Astrid! Astrid rispondi!» Chiamasti.  Ma non facesti in tempo a raggiungerla che fosti superato da Menta, la quale si gettò in ginocchio accanto a lei urlando: «Mia signora, mia signora!» Ma dalla giovane non venne risposta. L’aiutò a mettersi seduta e prese a domandarle come si sentisse e se riuscisse a muovere la testa. Poi la vedesti rilassarsi e, capisti che la giovane doveva aver risposto. Ti avvicinasti a passo più sostenuto. In breve anche tu fosti accanto a loro e, ti chinasti per osservarla. «Astrid». La chiamasti, non senza nascondere la preoccupazione per le sue ferite e il sollievo di saperla ancora viva.

«Camus… ah!» Esclamò portandosi repentinamente una mano al collo. Le togliesti le dita e vedesti che stavano fiorendo dei lividi sulla sua pelle candida. Lividi molto estesi e dolorosi. A giudicare dalla sua espressione doveva quasi essere arrivato a spezzarle il collo. Le sorreggesti la nuca con la mano mentre lo esaminavi. Si stava coprendo di lividi. Usasti il tuo Cosmo per raffreddare la ferita. «Stai bene?» Le domandasti, guardandola preoccupato mentre eseguivate l’ordine dello Specter della Viverna e levavate le tende. Ti passasti il suo braccio attorno al collo e la sorreggesti. Mentre vi allontanavate ti accorgesti che la ragazza continuava a tormentarsi il collo e glielo raffreddasti con il Cosmo. Lei emise un sospiro di sollievo.  
«Va meglio?» Dannazione, quanto ti avrebbero fatto comodo i poteri di Aiolia in questo momento. Quando foste sufficientemente lontani la facesti sedere su una roccia e le scostasti i capelli per controllare l’entità del danno. Sulla sua pelle candida stavano affiorando dei lividi violacei a forma di dita nonostante il tuo intervento. Accidenti, avresti avuto bisogno di un collare: «Forse siamo ancora in tempo per raggiungere l’accampamento e medicarti come si deve…» Iniziasti ma lei t’interruppe scuotendo il capo con una smorfia di dolore. Si portò una mano alla gola e scosse il capo. «Come no? Astrid, potrebbe aver compromesso il tuo collo e…» Non facesti in tempo a finire la frase che lei articolò: «Dark Resurrection». E la sua smorfia di dolore scomparve, sostituita dal sollievo. Tolse la mano e tu sgranasti gli occhi stupefatto nel rivedere la sua pelle di nuovo intonsa. «Ce l’avresti un po’d’acqua?» Ti chiese con voce normale, come se non fosse successo niente. «Ah, sì, aspetta». Le passasti la tua borraccia che Astrid tracannò avidamente. Poi te la restituì e bevesti anche tu. Più per un momento di raccoglimento che per effettiva sete. Richiudesti il tappo e domandasti: «Dove hai imparato quella tecnica? Fa parte dei poteri che ti servono per custodire la Luce Ombrosa?»
«Ehm no. In realtà me l’hanno insegnata», rivelò. Questa rivelazione te la fece guardare sotto una luce completamente diversa. Avevi già pensato che fosse coraggiosa, ma non che fosse capace di usare il Cosmo anche lei. «Ah, sicuramente un Saint, perché non mi hai detto subito che sai usare qualche tecnica? Mi avresti risparmiato un bel po’di fatica e di spavento». L’ammonisti.
«Io… scusami, non ci ho pensato». Fece distogliendo lo sguardo, la voce più sottile.  
La riaccompagnasti al padiglione della Caina e, stavolta, controllassi che entrasse davvero nella tenda, invece di fare finta.
Poi, tornasti alla tua tenda, dove trovasti Fianna e Isaak correrti incontro. Valentine uscì poco dopo da dietro un angolo di una tenda vicina alla tua e se ne restò in disparte mentre la tua famigliola ti salutava. Solo dopo si avvicinò e ti salutò con un cenno del capo.
L’indomani, tornasti da Astrid dopo aver pranzato e conferito con gli altri alleati a proposito del piano d’azione. Con ancora i ricordi della riunione bene in testa, la trovasti intenta a guardare il soffitto. Distesa su un lettino in stile antico romano. L’abito alla Morticia Addams ancora indosso e lievemente spiegazzato. Sembrava che non avesse riportato traumi a causa dell’aggressione. Ma forse era semplicemente molto brava a mascherarli.   
«Cosa pensi di fare adesso?» Le domandasti dopo i convenevoli. La vedesti riflettere. Si morse il labbro mentre pensava. Alla fine si mise a sedere e decretò: «Devo costruirmi un’armatura». Poi ti guardò, «se voglio sopravvivere devo come minimo procurarmi il necessario; non posso sempre stare lì a usare la Dark Resurrection». In effetti non aveva tutti i torti. Poi tacque e il suo sguardo s’incantò. «Astrid», la chiamasti e lei, sollevò lo sguardo e ti guardò con intenzione prima di dirti: «Camus, sto per farti una richiesta che ti sembrerà molto strana, ma è di vitale importanza che tu mi risponda favorevolmente e che mi aiuti a realizzarla».
«Certo, dimmi tutto, cosa posso fare per te?» Chiedesti tra il confuso e l’incuriosito. La ragazza ti lanciò un’occhiata di pura disperazione: «Per favore, aiutami ad allenarmi».
«Allenarti in che senso e a fare che cosa?»
«A combattere». Dichiarò strabiliandoti. Ma prima che tu potessi muovere qualche obiezione continuò: «Abbiamo visto tutti che ho i riflessi rallentati, sai che cosa ho passato a causa di Aiacos e degli altri due Giganti Infernali, sai che gli Specter non mi daranno tregua e io ho paura. Aiutami a non averne più! Aiutami a combattere», esclamò posandoti le mani sulle spalle e incatenando il suo sguardo al tuo. E nel suo sguardo, mutato, leggesti il terrore e la stanchezza di provare paura, ma anche la fierezza e la determinazione. Soprattutto queste ultime, piccole, ma le leggesti. «Ma io non posso, tu sei solo un’ancella, non hai un addestramento specifico mentre io…»
«Tu sei prima di tutto un Gold Saint e io non sono una persona comune. Non sono una semplice ancella e non sono solo la Custode della Luce Ombrosa. Finora te l’ho taciuto ma la verità è che sono l’Apprendista del Tredicesimo Gold Saint, Odysseus di Ophiuchus! Io sono una Saint proprio come te, anche se lo nascondo bene. Te lo chiedo da pari a pari, aiutami a non avere più paura!»  Esclamò, ma di tutto il discorso solo una parte risuonò con più prepotenza delle altre nella tua psiche: «Aspetta, tu cosa? Tu sei l’Apprendista del Gold Saint di Ophiuchus?»
«Sì, è così». Ammise e distolse lo sguardo. Anche se la sua espressione era tutto fuorché vergognosa. Glielo leggevi in faccia che aveva già deciso che se tu non gli avessi dato una mano ci avrebbe pensato da sola. «Perché non me l’hai detto subito?»
«Perché non mi fidavo. L’ultima cosa che ricordo è di aver affrontato la traditrice del Santuario e di essere finita qui. Scusami, credevo che fosse tutto un trucco di Rhadamantys». Spiegò guardandoti di nuovo e, stavolta non ti sentisti di biasimarla per questo. D’altronde, tu stesso avevi pensato la medesima cosa. «Io… d’accordo».
«Non ti secca che io sia l’Apprendista di Odysseus, vero?» Chiese guardinga. Adesso cominciavi a capire perché non si fosse sbottonata subito. 
«No, più che altro sono sorpreso» e spaventato, ma questo omettesti di dirglielo e di mostrarglielo,  «per quale Armatura sei in lizza?» Le chiedesti poi, per pura curiosità. Per fingere, un secondo, di essere di nuovo Vivo; ma lei sgonfiò subito questa tua fantasia: «Non so cosa tu voglia dire, io non sono in lizza per nessuna Armatura, il maestro non mi ha mai addestrata per questo». A quel punto la guardasti sconcertato, ma ti ricomponesti e le domandasti: «Sei davvero sicura che il tuo maestro fosse davvero il Cavaliere Maledetto?»
«Sì, non ci sono dubbi». Confermò.
«Quella che hai usato prima era la tecnica di Odysseus di Ophiuchus, vero? Come può essere che tu la possa usare se non hai neppure risvegliato il Settimo Senso?» Indagasti e lei scrollò le spalle. Quasi simultaneamente ti sovvenne che forse era come la Diamond Dust e altre tecniche che avevi insegnato a Hyoga e ad Isaak: anche un Cavaliere di Bronzo probabilmente era capace di apprenderle e usarle, anche se non con la stessa potenza di un Gold. Era risaputo che certe tecniche non erano appannaggio esclusivo solo dell’élite del Santuario.  
«Non lo so, mi ha insegnato come usarla. Forse non me lo ricordo ancora, ma è possibile che io abbia già risvegliato il Settimo Senso, oppure è la Luce Ombrosa. Ricordo solo che i primi tempi che ero qui faticavo a respirare e provavo un dolore atroce all’altezza del petto, desideravo che smettesse, perché volevo vivere. Poi è passato e non l’ho più sentito; ho pensato spesso di essere morta, ma il mio cuore batte ancora e non sono ancora capace di levitare o passare attraverso gli oggetti. Ieri ne ho avuto la conferma». Rivelò con timore.
Doveva essere la giornata o che ti eri alzato così, però ti sovvenne anche un altro punto estremamente importante: «A proposito, ma come fai a sopravvivere qui? Anche la Somma Pandora ha bisogno di un manufatto per poter restare in vita nel Regno dei Morti.» Spiegasti. Si accigliò, confusa: «In che senso?» Così tu le spiegasti tutta la faccenda dell’Ottavo Senso e lei alzò le spalle. «Non ti so dire. All’inizio avevo qualche difficoltà respiratoria, ma poi è passato». Stando alle parole precedenti, difficoltà respiratoria era un garbato eufemismo per descrivere la morte.
Questa storia aveva dell’incredibile: «Mi stai dicendo che hai risvegliato l’Ottavo Senso soltanto volendolo?»
«L’Ottavo Senso?»
«Si chiama Arayakashiki ed è il Senso che permette agli Specter di sopravvivere qui». Riassumesti brevemente. Anche perché era un Senso ancora oscuro sotto molti punti di vista perfino per voi Gold. Da che ne sapevi tu, prima del tuo allievo, dei suoi fratellastri e Shaka e gli altri sei sopravvissuti alla Battaglia delle Dodici Case, non avevi mai sentito parlare di Saint in possesso. Ma se era così questa ragazza era dotata di una grande forza di volontà e, ciò, te la fece guardare con ammirazione. «Non ricordo di averlo mai sentito nominare; ma, questo significa che sono una Specter?»
«No, no, certo che no, anche noi Gold l’abbiamo risvegliato trent’anni fa per discendere negli Inferi». Almeno per quanto riguardava coloro che rimasero vivi. Lei tirò un sospiro di sollievo.  
«E, tu pensi di riuscire a risvegliarlo qui, negli Inferi?»
«No, non il qui, ma con chi. Con te. Voglio che sia tu a svegliare il mio Settimo Senso». Specificò e i suoi occhi gialli parvero lanciare un lampo di determinazione che non avevi mai visto prima. Però cercasti di farla ragionare: «Se è come penso non ne hai bisogno, l’Ottavo Senso è già superiore al Settimo, dovresti riuscire a cavartela perfettamente anche così». Dalla sua espressione dubbiosa capisti di non averla convinta. Perciò glissasti di nuovo sull’argomento armatura e lei si lasciò catturare da questo argomento. Ti disse di aver già una vaga idea di come realizzarla, ma il problema restava. Poteva farsi tutte le armature che desiderava, se però non aveva tutte le informazioni per capire come costruirla, non era che servisse a molto. In ogni caso, la giornata procedette regolarmente. Fu alla sera che uno Specter venne a chiamarti trafelato, aggiungendo che tua figlia stava combattendo in arena. 
Immediatamente ti alzasti e corresti in direzione dell’arena dei combattimenti, con il cuore che esplodeva nel petto per la paura. Quando arrivasti vedesti Astrid in mezzo all’arena che sembrava danzare. Alle sue dita erano legati tanti fili viola purpurei cui erano appese quattro stelle di qualche Specter che giaceva ai suoi piedi.
La folla, fantasmi e Skeleton, rumoreggiava sugli spalti, chiamandola a gran voce, fischiando e applaudendo. Ma la tua attenzione era tutta focalizzata sulla giovane che osservava gli Specter ai suoi piedi ancora incredula, poi sollevò le mani e se le guardò. Poi, si allontanò dal gruppo e restituì le stelle ai loro proprietari con un movimento molto simile a un colpo di frusta e, i quattro, si svegliarono spalancando la bocca come se fossero stati tutto il tempo in apnea. I fili viola purpurei che pendevano ancora dalle dita di Astrid. Improvvisamente la folla tacque e sentisti anche tu il rumore di un applauso sarcastico. Volgeste tutti la testa in quella direzione e vedeste Aiacos di Garuda, nella sua Surplice, applaudire, guatandola. Un sorriso folle e affilato la faceva da padrone sulle labbra del nepalese. «Guarda un po’ che bella principessina abbiamo qui. Avevo sentito dire che qualcuno stesse facendo strage delle mie truppe. Io dicevo che no, non era possibile, che i miei servi non si farebbero mai mettere i piedi in testa da nessuno, che non mi avrebbero mai disonorato, ma non mi aspettavo che, fossi proprio tu. Questo cambia tutto. Camus, dovresti tenere più a bada tua figlia, non lo sa che potrebbe cacciarsi nei guai?» Fece il Garuda scrutandoti.
«Non siamo parenti!» Esclamaste all’unisono fissandolo di rimando.
Senza capire come, ti ritrovasti sbattuto al tappeto mentre Astrid fu inchiodata contro la roccia dallo Specter. Solo dopo capisti che la sua Seconda Ala aveva usato una delle sue tecniche segrete a vostra insaputa, per permettergli di divertirsi. Da dove ti trovavi faticasti un po’per vedere il Giudice Infernale sollevarla per aria, sfidarla a usare le sue tecniche su di lui, mentre le toglieva il respiro. Poi, farla franare al suolo, scocciato di fronte ai suoi tentativi di liberarsi.
La giovane si portò una mano alla gola, ansimando.
«Anche se cammini di nuovo, non sei tutto questo granché. Andiamo, Violate». Comandò alla sua Ala, che lo seguì diligentemente, con un sorriso soddisfatto dipinto in faccia, dissolvendo la tecnica e, permettendoti di rimetterti seduto. Anche Astrid era in ginocchio, il Garuda l’aveva fatta cadere a terra.
La raggiungesti e le tendesti la mano per aiutarla a rialzarsi, domandandole se stesse bene. Anche se sicuramente stava usando la Dark Resurrection. Lei ti fece cenno di sì e poi sollevò il volto e lo richiamò indietro con un adirato «Ehi, tu!» Un secondo dopo un muro di bagliori fosforescenti sbarrò loro la strada. «Non ho sentito la campana». Ti accigliasti perplesso; quale campana?
I due Specter si girarono lentamente verso di lei, l’espressione seria e gli occhi in ombra a causa del suo elmo. Un’aura di offesa e rabbia tagliente come una lama affilata emanava da lui. La Specter di Behemoth non era da meno.
Anche l’intera arena ammutolì da questo improvviso spettacolo.
Astrid si rialzò in piedi, poi curvò la bocca in un perfido sorriso affilato. I bagliori fosforescenti volteggiavano tutto attorno a voi turbinando in special modo attorno a lei che si mise in posizione di attacco. Si era bevuta il cervello? «Astrid!» L’avvisasti, ma lei non ti ascoltò.
«Mio Signore…» Iniziò la Specter della Terra della Solitudine ma il suo comandante la bloccò con un braccio, prima di asserire: «No, lascia, per sistemare quel moscerino basto io da solo». Ribatté trapassando la tua collega con lo sguardo. La quale, nel frattempo, ti spinse via.
Il Garuda si scagliò addosso a lei urlando: «Non m’importa niente se sei tu che mi hai resuscitato, io ti faccio fuori lo stesso, preparati!» E le sferrò un poderoso pugno che la giovane scansò spostandosi di lato un secondo prima. Lo Specter si riebbe subito, si girò verso di lei, che era arretrata con un balzo e cercò di attaccarla nuovamente, fallendo miseramente nell’impresa. Dalla tua posizione e a causa delle ali della Surplice non riuscisti a vedere cosa accadde, fatto sta che Aiacos fu sbalzato indietro di tre metri buoni dai bagliori, che si erano concentrati tra loro come un muro di gomma su cui era rimbalzato.
Lo Specter abbassò le braccia, posizionate a X a proteggere il volto.
Guardasti sbalordito Astrid mentre i bagliori fosforescenti si allontanavano di nuovo e lei abbassava le braccia. Lo Specter sorrise confuso e prese a ridere sguaiato e a canzonarla per la sua assurda tecnica. Peccato soltanto che non notò affatto il sottile filo di energia violetta che collegava l’indice luminoso di Astrid al suo cuore. E quando se ne accorse, la giovane aveva già tirato indietro il filo, separando un piccolo globo di luce viola purpurea con il nucleo biancastro, dallo Specter, il quale cadde a terra privo di sensi.
Poi tutto accadde rapidamente. Il silenzio cadde sulla piccola arena naturale e un secondo dopo venne squarciato dal grido della Specter: «Mio Signore!»
E, subito dopo, Astrid fu inglobata da una fiamma nera che sfumava sempre più sul bianco, divampare fino ad avvolgerla. Sulle prime credeste tutti che fosse un attacco segreto di Aiacos. Ma Astrid non stava soffrendo. Anzi. Una smorfia di bestiale compiacimento le deformava i lineamenti.  
E, con vostro enorme stupore, capiste che, quella fiamma nera, fosse il suo Cosmo. 
La giovane teneva con entrambe le mani la vita di Aiacos. Violate, dopo aver cercato di rianimarlo inutilmente le si scagliò addosso ma Astrid bruciò ancor più il suo Cosmo con un urlo e la Specter fu scagliata indietro, ma non fu sconfitta. Un sorriso di scherno curvò la sua bocca, mentre caricava il suo Cosmo per sferrarle la Brutal Real.
Astrid saltò via, in alto, più di quanto ti aspettassi, lanciò dei fili agli Specter e poi, gli strappò di nuovo le stelle. Gli Specter colpiti caddero al suolo privi di sensi. A quel punto anche sul volto della Specter vedesti passare la paura.
Lei atterrò e le usò a mo’ di frusta per tenere lontana la sua avversaria. E faceva bene a tenersi lontana perché quei fendenti erano capaci di frantumare le rocce e distruggere le Surplici, come scoprì la stessa Violate, che pure fu soltanto sfiorata. La Specter sgranò gli occhi e saltò via a propria volta, prima di lanciarsi di nuovo all’attacco. Attacchi che, Astrid, in virtù dell’adrenalina evitò, anche se non completamente, visto che vedesti del sangue d’oro tingere la sua pelle. E, se ne accorsero anche gli Specter: «Ichor!» Esclamaste sorpresi.
«Ora capisco, la Dea Atena ti ha concesso la benedizione del suo Ichor, ma non ti servirà!» Dichiarò Violate. Astrid si tenne il braccio ferito, mentre sul suo corpo cominciarono a fiorire diversi lividi. Vacillò sulle gambe e il fiato le si fece grosso e affannato. La vedesti incurvarsi sulle sue ginocchia per lo sforzo. Doveva essere finito l’effetto della Dark Resurrection e ora le ferite le si stavano riaprendo! Proprio come temevi, non era ancora capace di utilizzare bene quella tecnica. Il suo abito nero era già macchiato di Ichor rappreso e sporco di polvere scura. Anche la Specter se ne accorse e, sorrise malefica. approfittò di questo momento di vulnerabilità per lanciarsi addosso a lei per finirla. Eppure, invece di correre in suo soccorso, qualcosa ti disse di restare dov’eri. E non si trattava dei bagliori o della volontà del Fato. Era che sentivi di non dover intervenire, proprio come quando combatteva uno dei tuoi vecchi compagni. 

Nonostante questo, la giovane si accasciò e il tuo cuore perse un battito per la paura.
Facesti per scattare, ma anche volendo ormai era troppo tardi., che il pugno della donna si abbatté su di lei, aprendo una depressione nel terreno (che vibrò) e sollevando un quantitativo esagerato di polvere. 
Quando la polvere cominciò a diradarsi, vedeste la Specter, inginocchiata sul ginocchio sinistro e nocche a terra, fissare dritto davanti a sé con due occhi grandi così.
Gli Specter e gli Skeleton cominciarono a festeggiare e ad applaudire; ma tu non ti unisti a loro. Perché sentivi che c’era qualcosa che non andava? Perché non si rialzava? Di solito si rialzava sempre subito, che cosa stava aspettando?
La polvere che si diradò lasciò vedere ciò che l’aveva fermata, ossia, la punta di una falce, poggiata proprio in mezzo agli occhi. E, risalendo, il braccio insanguinato alla sua sinistra, che la teneva per il manico e, costringeva Violate in ginocchio. E, per esteso, il corpo avvolto dal Cosmo della sua padrona. 
A quel punto gli applausi e le grida di giubilo si placarono.
Astrid aveva solo finto di svenire per raccogliere la falce e ribaltare le posizioni con un trucco. E, l’elmo di Violate non le copriva proprio una delle parti più vulnerabili della testa. E la Specter lo sapeva.  
Tutta quella fatica per questo. Tirasti un sospiro di sollievo mentale; per un attimo avevi temuto il peggio. Astrid, continuando a respirare dal naso, tolse la falce dal volto della  sconfitta e arretrò.  La Specter recuperò l’equilibrio e arretrò, guardandola stupefatta come il resto dei presenti.
Dopodiché Astrid mostrò l’altra mano insanguinata, su cui galleggiava pigramente a mezz’aria, la stella del Garuda e, lanciandogliela come se fosse una cartaccia, la restituì al suo legittimo proprietario. La stella, come calamitata dal corpo del suo padrone, si fermò esattamente sopra di lui e scomparve. Solo allora il corpo dell’uomo si animò con un sussulto. Riaprì gli occhi e respirò profondamente. Gli Specter e gli Skeleton lo chiamarono e qualcuno provò ad aiutarlo a rialzarsi, ma Aiacos li scacciò tutti e si mise seduto da solo, asserendo sgarbatamente di non aver bisogno di aiuto.
La Specter si volse repentinamente verso di lui con occhi sgranati, poi, tornò a guardare la vincitrice, divisa dall’indecisione; se affrontarla nuovamente o se soccorrere il suo superiore.
Dal canto suo Astrid continuò a tenere d’occhio entrambi. Per ricordare alla sconfitta di non fare mosse avventate, mosse la testa di lato, scoccandole uno sguardo minaccioso. Per rimarcare il concetto, alzò di poco il manico della falce, che lanciò un sinistro brillio.
Solo in un secondo momento ti accorgesti che faceva fatica a respirare e che tremava.
La Behemoth fece la spola con lo sguardo tra i due, mentre il suo Signore faceva mente locale e deduceva cosa fosse successo. Il Garuda guardò la bionda ferita sbalordito: come se non credesse che quella ragazzina sudata e malconcia fosse riuscita nell’ardua impresa di sconfiggerli. I bagliori che luccicavano e volteggiavano ancora tutto intorno alla sua persona e, la fiamma nera del suo Cosmo ardeva imperterrita con tocchi di viola e porpora qui e là sui contorni. Esattamente come il colore del Cosmo degli Specter. Lasciò cadere la falce a terra e il suo Cosmo e i bagliori si dissolsero.
Avevi già capito cosa sarebbe successo, ma pregasti di sbagliarti.
Con un ultimo gemito di dolore, vedesti i suoi occhi chiudersi e poi, cadde al suolo, svenuta.
«Astrid!» Urlasti e la soccorresti. Le sollevasti il busto da terra e le battesti la mano su una guancia per svegliarla, continuando a chiamarla. Dei suoi occhi vedevi solo una striscia di sclera. Per fortuna era solo svenuta a causa dello sforzo. 
Tirasti un sospiro di sollievo e guardasti i due Specter. In caso di necessità avresti combattuto al posto suo. L’avresti protetta con le unghie e coi denti. 
Un angolo della bocca del comandante della flotta di Hades guizzò verso l’alto per un momento. La sua testa ebbe un piccolo scatto indietro, prima di tornare dritta. Poi, sulla sua faccia affiorò un sorriso smagliante da cui proruppe ben presto in uno sghignazzo di malefico divertimento.    

Astrid
Il combattimento con Violate e il suo Signore mi aveva debilitato più di quanto immaginassi. Non immaginavo che quella donna fosse tanto forte. La sua apparenza corrispondeva davvero alla sostanza. 
La risata di Aiacos mi risuonava ancora nelle orecchie, a distanza di poche ore. Perché sì, l’avevo sentita, prima che svenissi di nuovo, nonostante ti tentativi di Camus per tenermi sveglia.
Quando aprii gli occhi, la prima cosa che feci fu mugolare per il dolore martellante alla testa e a varie parti del corpo.
Il sapore del sangue la faceva da padrone nella mia bocca e, fui costretta a inghiottire più volte, domandandomi se per caso non avessi riportato delle lesioni interne. Ripensando allo scontro, però, non mi sembrava. Ma accidenti, anche se spesso mi aveva solo sfiorato, faceva male.
Mi portai una mano alla faccia e me la tastai. Fu così che scoprii di essere bendata alla testa e alle mani e, sicuramente ad altre parti del corpo.
Solo dopo mi accorsi anche del resto. Ovvero, che questo non era il Padiglione della Caina e, non somigliava neanche alla tenda ospedaliera dove mi ero svegliata la prima volta. Per fortuna non fui assalita, come allora, da un’altra crisi. Perché effettivamente sentivo freddo come se… Sollevai le coperte e guardai il mio corpo seminudo a parte la biancheria intima. Mi misi a sedere e scoprii di avere il torso e varie parti del corpo fasciate e steccate e il mio vestito piegato su un angolo del giaciglio. 

Allungai una mano per raccoglierlo e portarmelo al petto e, mi accorsi che era stato lavato e rammendato all’altezza delle ginocchia.
Mi guardai attorno e scoprii di trovarmi in un tepee indiano: «Quando ci sono finita qui?» Domandai a mezza voce, prima che una sferzata più forte delle altre, mi costringesse a piegarmi per il dolore e sibilare tra i denti. Mi  posai una mano sull’addome e, chiusi gli occhi, mormorando: «Dark Resurrection». Ma non funzionò. Perché non funzionò? Mi domandai. Solo dopo mi ricordai di non aver fatto leva sul mio Cosmo e, lo attivai. Ripetei la formula e le ferite sparirono e, con esse anche il dolore. Così, tirai un sospiro di sollievo e mi raddrizzai. Con il vestito sulle ginocchia sciolsi tutte le bende osservando il mio sangue rappreso su di esse. Il sangue d’oro aveva assunto un colorito più scuro, come se si fosse ossidato.
Poi, indossai l’abito, legandomelo su una spalla tramite le maniche e, abbottonandomelo di lato con ciò che restava dei bottoni.
Infine mi alzai, indossai di nuovo i sandali alla schiava e uscii dalla tenda, trovandomi in una sorta di veranda fatta con quattro sostegni e una tela cerata. Lì, trovai Camus intento a discorrere con una bambina dai capelli rossi, di fronte a una cartina e una ciotola di brodo caldo e fumante. Accanto a loro, in un braciere, stava un fuocherello che scoppiettava allegro. I due si accorsero della mia presenza e mi salutarono. «Buongiorno». Risposi di rimando, continuando a tenermi una mano sulla testa. «Padrona!» Esclamò la voce di Menta e mi girai verso di lei. Era seduta al lato dell’entrata, per questo non l’avevo vista subito. «Oh, ciao, Menta».
«Vi siete ripresa?» Domandò la domestica anche per i presenti e io annuii. Poi la vidi guardarmi perplessa. Le chiesi se avessi qualcosa di strano e lei rispose che il mio vestito non era lo stesso che lei aveva lavato. Quasi scoppiai a ridere: «Ma no, l’ho solo indossato in un modo diverso».  
«Non sapevo che un abito simile si potesse indossare diversamente». Ribatté Camus mentre mi sedevo a mia volta davanti a loro. Sarebbe rimasto stupito dai metodi che ci si poteva inventare per rinnovare i vestiti.
Menta si offrì subito di andarmi a prendere la colazione e la lasciai andare. «Le ferite sono già guarite?» Domandò Camus e io annuii, poi chiesi, accennando al vestito e alle fasce: «Chi mi aveva…?»
«Fianna». Rispose prontamente accennando alla bambina dai capelli rossi accomodata al suo fianco. La ringraziai con un cenno del capo e a parole. Camus tradusse tutto in francese, poi mi spiegò che non le aveva ancora insegnato il greco antico. Anche Fianna rispose nella stessa lingua e, Camus mi tradusse ancora: «Ha detto che è stato un piacere». Sorrisi, anche se non molto convinta; dallo sguardo diffidente che mi lanciava non dovevo andarle molto a genio. Potevo anche immaginare per quali motivi.
«Dove siamo?» Chiesi al mio collega e lui mi rispose che eravamo vicino alla porta est dell’accampamento. «Dunque siamo organizzati come un forte antico romano?» Chiesi e lui annuì con un cenno del capo, anche se poi, ammise, che non era altrettanto ordinato e perfetto.   
Proprio in quel momento Menta tornò recando con sé una ciotola che mi passò. Si scusò dicendo che non aveva trovato niente di meglio da darmi, così su due piedi. Camus mi disse che quando aveva saputo che ero sparita mi aveva cercato in lungo e in largo e, che, solo questa mattina mi aveva trovato e aveva insistito per restare al mio fianco. Solo a quel punto aggiunse che

«Probabilmente Rhadamantys sarà furioso  per la tua sparizione, ma non c’era altra scelta; spero che vorrai scusarmi».
«Ah, per quel che mi riguarda hai fatto benissimo, non avrei sopportato un secondo di più di sostare in quella tenda». Dissi, lanciando il mio sguardo sul promontorio su cui erano abbarbicati, semi nascosti dalle rocce, i Padiglioni della Giudecca, della Tolomea, dell’Antenora e della Caina.
Anche se ciò si poteva vedere come un: “dalle stelle alle stalle”, preferivo così che svegliarmi ogni mattina con il terrore di quell’uomo.
Distolsi lo sguardo e mi concentrai sulla ciotola che mi scaldava le mani. Presi il cucchiaio che Menta mi porgeva e annusai la brodaglia.  Ma mi rilassai quando capii che era solo latte caldo con i cereali. Non era la roba che avevo mangiato da quando ero qui, ma non ero un tipo schizzinoso. Perciò mangiai senza lamentarmi. Tanto ormai lo sapevo che Menta mi avrebbe portato solo cibo del mondo dei Vivi.         
E poi, avevo dormito più comodamente oggi che sul triclinio nero che lo stronzo della Viverna teneva nella sua tenda. Il signore preferiva dormire su una brandina io ancora mi domando come facesse a portarselo dietro e dove l’avesse trovata. L’ancella che era in me si domandò su quale accidenti di carretto se la caricasse, come faceva a lavare quelle lenzuola immacolate senza rovinarle e, soprattutto, dove avesse trovato quei mobili e come facesse a non sporcare neanche i variopinti, bellissimi, tappeti persiani che facevano da pavimentazione. 
Inizialmente non dovevo sostare al Padiglione della Caina, però insistette per avermi sotto la custodia sua e degli altri due Giudici Infernali. Per una settimana avrei dovuto fare rapporto a lui e poi agli altri due. Il fatto che poi mi avesse anche accolta nella sua tenda era un altro discorso. E, non osavo immaginare per quale motivo, a parte che mi ritenesse troppo fragile e debole. D’altronde, la mia capacità era troppo preziosa perché mi lasciasse libera. Forse temeva che sarei potuta morire da un momento all’altro, come la prima volta che fui portata al suo cospetto. Quel maledetto… Se non lo uccisi quel giorno non l’avrei ammazzato mai più.
Avevo ancora paura di lui. Avevo sperato con tutta me stessa di non rincontrarlo mai più. Non era a caso che mi ero allenata per tutti questi mesi. Non volevo più soccombere alla paura che mi incuteva e, mi ero ripromessa che, semmai l’avessi incontrato, non avrei più avuto paura. Avrei invece avuto il coraggio di guardarlo in faccia e affrontarlo, rendendogli tutto il dolore che mi aveva inflitto. Ma questo coraggio non ce l’avevo. Per questo, quando fui davanti a lui e ricollegai il suo nome al suo volto, mi prese un accidenti bello e buono che, andò a peggiorare già il dolore che provavo, diventando insostenibile. Non avevo detto tutta la verità a Camus, quando avevo parlato di crisi respiratoria. Stavo proprio soffocando, non sentivo aria nella mia gola e nel mio naso. Non sentivo proprio niente. In compenso il dolore allo stomaco e al braccio sinistro erano fortissimi e mi aveva costretto in ginocchio, sotto al suo sguardo impassibile, mentre cercavo di respirare. Le mie guance si gonfiavano e sgonfiavano come la pelle di un mantice; ma l’aria non arrivava e il mio campo visivo si restringeva sempre più.
Non avevo mai avuto così tanta paura, vero e proprio terrore allo stato puro. Perché stavo morendo. Eppure, riuscivo solo a pensare, non so come, so che qualcosa dentro di me si mosse e si ribellò al dolore e al resto. Se avessi dovuto dare delle parole a quelle sensazioni tanto intense e a quelle emozioni che mi accesero, sarebbe: “No, non deve finire così. Non finisce così!”
Non volevo tirare le cuoia davanti a questo Specter, non volevo dargli questa e nessun’altra soddisfazione. Per questo cercai di lottare con tutte le mie forze e di resistere. Io non morirò così! Fu allora che usai la Dark Resurrection e, sentii di nuovo tutto il Creato attorno a me, sentendomi di nuovo una parte di esso. Vidi proprio le immagini balenare nella mia mente e sentii di nuovo le voci delle stelle. Forte di questa sensazione, lasciai che mi passasse la sua energia, ma non bastò.
“Io non morirò così!” Esclamai dentro di me e usai la tecnica del mio maestro. Ma il mio muscolo cardiaco andò rallentando sempre più pericolosamente. Il mio corpo cadde a terra. Non era possibile che morissi così.
Per questo, invece che distaccarmi da me stessa, mi adoperai per usare, ancora e ancora, la Dark resurrection. «Io non muoio così!» Dissi ad alta voce mentre mi rituffavo nel mio corpo, rindossandolo e, cercando di rimettermi al mio posto dentro di esso.
«Mi hai sentito? Io non muoio!» Esclamai con rabbia e ricominciai la mia opera di rianimazione dall’interno. La mia energia fluì dentro il cuore, riempiendolo. Lo potevo vedere risplendere mentre il sangue dorato del mio maestro sembrava risplendere ancora di più. Non era ancora giunta la mia ora. Non volevo morire.
“Dark Resurrection!” Pensai con tutta la forza di cui ero capace e mi abbracciai il busto, affondando le dita gelide nella mia stessa carne. L’energia mandò un lampo viola purpureo che andò a unirsi all’oro.
Io continuai mettendoci ancora più forza e l’energia cominciò a ribollire e a splendere ancor di più. Anche da sotto le palpebre mi sembrò che tutto fosse diventato d’oro attorno a me. Ma non era l’ambiente, ero io a risplendere così. La luce si scurì e divenne il mio Cosmo. 
L’energia parve restare sospesa mentre il mio cuore ricominciava a pompare il sangue dentro di me, con battiti rapidissimi. Con uno spasmo involontario mi rannicchiai in posizione fetale. Il mio corpo parve riacquistare la sua sensibilità e, per un momento fui di nuovo consapevole di tutto, persino del tappeto su cui ero distesa. Poi la sensazione scomparve ma non mi detti per vinta. Continuai a insistere così per tutto il tempo e, quando la sensibilità e i battiti cardiaci tornarono stabili e forti, l’energia mi parve come sospesa. Al suo nucleo, sentii come delle scariche elettriche.   
Costrinsi anche le mie labbra fisiche a muoversi e dissi la formula a voce alta: «Dark Resurrection!» Sussurrai e, con quel sussurro, l’energia che era rimasta sospesa a caricarsi, ricadde e  
improvvisamente una scarica elettrica si propagò dal mio cuore e si diramò in tutto il corpo. Spalancai gli occhi di scatto e aprii la bocca per respirare, come se fossi rimasta in apnea tutto il tempo. Poi misi a fuoco i tappeti e i piedi dello Specter, ancora davanti a me. Respirai velocemente per calmarmi e, strinsi le palpebre, prendendomi un secondo, prima di tornare definitivamente alla realtà. Avevo la sensazione, però, che qualcosa in me fosse cambiato, anche se non sapevo bene che cosa fosse.
Rhadamantys non disse niente, né mi aiutò a rialzarmi. Non che me lo fossi aspettato, però sarebbe stato umano. Guardare quegli occhi mi rimetteva costantemente alla mente quella notte sciagurata. Anche se adesso non potevo fare a meno di pensare che fosse voluta dal destino, la trovavo, al tempo stesso una gran cazzata. Tra tutti i metodi che il destino poteva inventarsi per riportarmi al mio vero io e a casa, s’inventava questo? Che scherzo di pessimo gusto, quasi quasi era meglio prima.
Quegli occhi li ricordavo troppo bene. Non erano umani. Non avrei mai pensato di dirlo, ma persino gli occhi gialli con la pupilla di serpente del mio maestro erano più umani di questi. Questo non era un essere umano e, tutto mi gridava di stargli alla larga. Appena ripresa mi disse soltanto di lavarmi il viso che c’era una bacinella e una caraffa in un angolo vicino al letto. Come se per tutto il tempo non avessi fatto che piangere, invece di lottare per la mia sopravvivenza. Per tutto lo schifosissimo tempo e pure con un mezzo viaggio astrale cosciente! Che fortuna!
Mi misi in modo da poterlo tenere d’occhio mentre obbedivo. Meglio impiegare il mio tempo in modo più produttivo che stare a inveire con questo essere. E, poi, anche il solo mettere qualche metro di distanza tra noi, mi tranquillizzò un poco. Ma non m’impedì certo di masticare una lunghissima trafila di insulti tutti indirizzati a quel biondo monocigliato che stava seduto alla sua scrivania a osservarmi di rimando. Sempre con quel suo cipiglio minaccioso che avrebbe intimorito anche la sua estetista.
Quel trentaseienne mi inquietava. Per tutto il tempo che mi sciacquai e anche dopo, ebbi i nervi a fior di pelle, pronta a scattare. Con tutta l’adrenalina che poi avevo in circolo e il terrore non c’era da sorprendersi. Quando mi fui sistemata mi accomodai sulla sedia dall’alto schienale stile Medioevo, che mi indicò. Solo una volta seduta, lui mi chiamò per nome e mi spiegò per quale motivo mi trovavo qui. Oltre a ribadire il fatto che fossi ancora viva quando c’ero arrivata, in perfetto stile Dante, o quasi, dal momento che c’ero stata teletrasportata.
A queste parole lo guardai diffidente e con gli occhi socchiusi, come se lo stessi mettendo a fuoco. «Come sarebbe a dire teletrasportata?»
«Significa che qualcuno tra i Vivi ha aperto una via per gli Inferi e ti ha spedito qui».
«Invece tu che cosa ci facevi da quelle parti?» Chiesi, ancora più sospettosa. Lui non fece una piega a sentirsi dare del tu. Evidentemente non gli importava più di tanto il modo in cui mi rivolgessi a lui.
«Siccome ignorava il luogo dove saresti potuta comparire, il mio Signore, il Divino Hades mi aveva contattato preventivamente e mi aveva ordinato di cercarti. Sei stata molto fortunata, saresti potuta comparire sul Flegetonte e allora sì che sarebbe stato un problema recuperarti. In tutti i sensi». Aggiunse poi in tono lugubre, trapassandomi con gli occhi; come se le sue parole non fossero state sufficienti.

L’unica cosa positiva della convivenza, a parte la comodità del triclinio, era che non era quasi mai presente e, adesso, probabilmente non lo avrei rivisto mai più, né sarei più stata costretta a condividere con lui il Padiglione. E, francamente, dubitavo che qualcuno sarebbe venuto a cercarmi e a riportarmi al Padiglione.
«Comunque il tuo teatrino non è passato inosservato, molti Specter mormorano di te. Se questo era l’intento delle tue azioni di ieri sera, allora ci sei riuscita». Mi informò tranquillamente Camus prima di mangiare una cucchiaiata dei suoi cereali. Ma si capiva che il suo era solo un educato rimprovero.
«In realtà no, volevo solo allenarmi e, ci sarei anche riuscita, se poi gli Specter di Aiacos che avevo resuscitato non avessero cominciato a infastidirmi». Risposi con noncuranza. Ma le tecniche che mi ero inventata lì sul momento, le avevo riprese dalle informazioni sugli Specter che, anticamente, mi dette il mio maestro. Soprattutto da Minos del Grifone. Il capire come realizzarlo era stato un altro paio di maniche. E, anche se non lo sapeva, ero già stata ferita molto più gravemente in questi tornei, di quanto immaginasse. Sì, lo facevo di nascosto da almeno tre notti e, per la prima volta, uno Specter aveva accettato di combattere con me. O meglio, mi aveva obbligato, in quanto mi aveva aggredito. Credo che fosse lo Specter della Gorgone.  Solo che mi ero chiesta cosa sarebbe successo se non avessi ritratto il dito subito dopo aver disegnato la stella. E, fu allora che mi venne in mente che, effettivamente, io disegnavo con la luce. Mi fosse venuto in mente molto prima…
Quindi dovevo disegnare la luce dei cinque colori fondamentali? Bè, l’azzurro e il nero l’avevo già trovati e anche il giallo. Ma a cosa mi serviva?
No, non poteva essere così semplice, questa soluzione era tanto ovvia quanto piatta. Non avrei saputo in che altro modo descriverla. 
A strapparmi da queste riflessioni ci pensò Camus che se ne uscì con un: «Deduco che tu non concepisca cosa sia la pazienza».
«La pazienza la conosco fin troppo bene, solo che non mi prendo la briga di esercitarla». Ribattei senza neanche guardarlo in faccia, ma solo di sottecchi. E, poi, finora ero riuscita a sopravvivere anche grazie a una buona dose di riflessi e sveltezza di mente. Potevo anche vantare un cervello decisamente più lucido dei loro e sufficiente sangue freddo, visto che i miei allenamenti erano stati assai meno massacranti e, che ero stata allevata come una persona normale.
«Se mi avessi dato il tempo ti avrei aiutato comunque». Mi disse a questo punto, trapassandomi con un lampo gelido dei suoi occhi rossi. E lo guardai direttamente; sentendo le guance scaldarsi: «Ah, scusa, mi era parso di aver capito che non l’avresti fatto». Mormorai imbarazzata, ma l’altro si accigliò ancor di più, intensificando l’occhiata gelida. «Cosa te lo ha fatto dire?»
«La tua non risposta; quando ti ho chiesto di aiutarmi a risvegliare il Settimo Senso non mi hai risposto, mi hai chiesto, invece come facessi a sopravvivere qui e anche che tu mi hai detto che, per te l’avevo già risvegliato. Perciò ho dedotto che non t’interessasse; anche perché sono l’apprendista di un Saint Maledetto». Risposi sollevando il mento, sfidandolo a contraddirmi o a farmi la predica per questo. Che le voci, in ospedale, mi avevano comunque raggiunto.
Tuttavia, lui non fece niente di tutto ciò, invece si scusò per la figuraccia: «Davvero ho detto così? Sono desolato, non mi ricordavo».
Mi ammorbidii; in fondo con una testa che ha preso tutti quei colpi, neanch’io avrei tenuto le cose a mente. Poi avevo visto la sua Cloth e il suo elmo, quando ero andata a ripescarlo con i rinforzi (sempre contro la mia volontà, ma necessaria, mi avevano detto). «Non importa, devo averti fatto prendere un bello spavento ieri sera. Deve essere stato per quello che hai dimenticato. Quindi ora hai cambiato idea? Mi aiuterai?» La mia versione maschile più giovane di un anno confermò con un cenno del capo. Avrei dovuto sentirmi felice, ma il prezzo di questo assenso smorzava la mia felicità più di quanto desiderassi. Per fargli dire di sì, aveva dovuto aver paura per me.
Dal canto mio ero colpita, non pensavo che si sarebbe spaventato. E sì che mi era parso sempre così composto e rigido. Quando mi aveva visto sul grifone, si era limitato ad alzare un poco le sopracciglia, ma dal lato sbagliato, ossia accentuando ancor di più la sua espressione severa.

Così, quel giorno, quando avemmo finalmente un momento di libertà, la prima cosa che facemmo, fu una chiacchierata sul mio addestramento. Seduti sugli spalti dell’arena deserta. Arena, che parolone, era una buca dal diametro di ventiquattro metri e profonda una decina con scanalature naturali e massi. Probabilmente doveva essere il letto di un lago.
Restò particolarmente sorpreso nell’apprendere quanto ci fosse effettivamente andato leggero il mio maestro. Era come se non si capacitasse e, mi venne da domandarmi, quanto effettivamente fosse duro il loro addestramento. La sensazione di timore che avevo provato quando la Piattola rispose alle mie domande, tornò a farsi sentire e capii. Perciò, con delicatezza, gli posi la stessa domanda e, lui mi dette la stessa risposta. A quel punto cominciai a spaventarmi sul serio. Credo di essere impallidita, perché sentii il sangue defluire dalle mie guance. In ogni caso, quando venne a sapere delle pecche nella mia formazione di Saint, per la serie; “so fare l’operazione, ma non ti so dire la definizione”, rimediò. 
Poi, quando fu sicuro che avessi capito, cominciò a spiegarmi le varie tecniche utilizzate e, mi chiese in cosa consistessero le mie, perché stando alla leggenda dovevo saper usare anche le altre, non solo la Dark Resurrection. Suo malgrado, però, si mostrò molto incuriosito dal fatto che sapessi usare la magia. Sapevo già che i Saint facevano leva sulla forza del loro Cosmo, ma lui era il primo che mi pose domande vere e proprie su questi poteri che usavo per custodire la Luce Ombrosa e resuscitare Specter e Saint.
Fui tentata dal dirgli una mezza verità, ma aveva già visto di cosa ero capace, non aveva più molto senso nasconderglielo, per cui lo misi a parte di tutto ciò che riuscii a ricordare. Anche grazie all’aiuto di Menta, che ci aveva seguiti e aveva contribuito ad aiutarmi a rammentare con i suoi appunti. Ne saltò fuori una spiegazione così caotica e raffazzonata che mi il povero Camus mi guardò stranito. Almeno, vidi balenare un guizzo di quell’emozione sul suo volto. Non era che sfruttasse appieno tutti i suoi muscoli facciali, il ragazzo. Perché ora che lo guardavo bene, sembrava più giovane di Milo e dei Giudici Infernali.
Agli scontri fisici passammo solo in un secondo momento e, fin da subito, fu chiaro che avevo ancora molta strada da fare prima di arrivare al suo livello. A parte che mi chiedeva cose impossibili, come frantumarmi le nocche contro delle rocce, sollevare massi enormi e, un numero spropositato di esercizi fisici, era chiaro che mi servivano, anche se mi riducevo a un bagno di sudore e sputare sangue. Nel vero senso della parola.  Eppure, più si andava avanti, più cresceva in me la convinzione che non fosse questa la strada giusta. Per quanto mi impegnassi e, per quanto mi distruggessi.
Mi sembrava di prendere la strada giusta soltanto quando ero da sola e, lasciavo che le mie mani si illuminassero. Mi facevano ancora un po’specie, per quanto bellissime fossero; però, sentivo che la strada giusta la tracciavano loro.
Stavo passeggiando per l’accampamento, quella sera, approfittando del fatto che stessero già dormendo tutti. Purtroppo, non avevo trovato una sistemazione migliore del Padiglione della Caina. Perciò ero dovuta tornare da Rhadamantys con la coda tra le gambe.
Lo Specter, dal canto suo, dopo avermi scoccato un’occhiataccia sull’abito e il modo in cui lo indossavo, tornò ai suoi affari. Come tutte le altre notti, del resto.
Quella notte non riuscii a dormire, perciò mi alzai e uscii di nascosto per prendere una boccata d’aria.
Non avevo mai esplorato prima queste formazioni rocciose. Non ebbi neanche paura di mettere i piedi nel vuoto o del buio. Tanto i bagliori che evocai, furono sufficienti per illuminare il mio cammino. La loro luce non sembrava neanche così incongrua in queste lande. E, poi, non mi preoccupavo dei nemici. Queste luci non erano così forti da essere avvistate da lontano. Neanche con il binocolo ci sarebbero mai riusciti, complici anche le nebbie, i vapori e le formazioni rocciose che ci proteggevano.  
Per la prima volta, mi ritrovai, non so come, a pensare a Moonchant di Marie Bruce, dopo giorni che non sentivo più la musica come parte di me. Sgranai gli occhi, sgomenta, nel realizzare di aver trascurato anche gli esercizi di canto. Non che fosse una grandissima tragedia, però cantare mi piaceva e, un po’, anche ballare e… erano settimane che non lasciavo libero sfogo alla fantasia.
«Cosa sono diventata?» Mi domandai, non riconoscendomi più.
La cosa più strana fu, che, in quel momento, sentii il suono di un flauto. Aveva un che di ipnotico e, al tempo stesso di bello. Volsi la testa in quella direzione, sorpresa. Non credevo che qualcuno avesse il coraggio di suonare, negli Inferi. Poi si aggiunse anche un’arpa. In un certo senso mi ricordo quella della mia tata, quando lei suonava per me.
In un certo senso questa melodia mi ricordava sia la tata, sia la canzone.
Per questo, mi venne istintivo alzarmi e, fare, per prima cosa, il saluto alla Luna calante, anche se non c’era. Sapevo che tra poco sarebbe arrivato giugno, o forse era già arrivato e io non lo sapevo. Poi, abbassai le mani che, nell’oscurità, parvero quasi lasciare una scia fosforescente e, ipnotizzata e divertita, cominciai a muovere le mani, cantando questa canzone, poco sopra la melodia che i musicisti intonavano. A malapena mi accorsi che si era unito un terzo strumento a corda.
Senza che me ne accorgessi, stavo accennando dei passi di danza, con calma, lasciandomi trasportare dall’incrocio delle melodie. Era come entrare in un’altra dimensione, perché, improvvisamente mi sembrò di trovarmi di nuovo nel Mondo dei Vivi e, in un bosco, sotto la Luna.      
Mentre con le mani tracciavo queste scie luminose che sparivano dopo un po’, divenne quasi un gioco. Senza neanche capire quando, all’improvviso sentii le guance dolermi e, capii che stavo sorridendo.
Da lì in poi, sotto la mia Luna immaginaria e i bagliori, mi sembrò quasi di rinascere. Quando la musica cessò, quasi in contemporanea a quella della mia mente. Mi sentii un po’più rilassata e, anche più stanca. Solo quando tornai alla tenda spensi tutte le luci e mi addormentai, sudata e, finalmente, più tranquilla.
Il giorno dopo, avevo ancora Moonchant nella testa, ma ero decisamente più rilassata. Almeno per accettare più facilmente tutto quello che avveniva attorno a me e, anche per sopportare il fatto di essere ancora qui. E, questo ballo, mi diede anche la forza di dire a Camus che questo metodo con me non funzionava. Lui mi scoccò un’occhiata confusa, ma anche un po’offesa, prima di chiedermi spiegazioni. E io gli spiegai tutto.
«Allora cosa proponi di fare?»
«Secondo me dovresti aiutarmi a creare delle tecniche che siano legate alle stelle e al mio Cosmo».
«Ci posso provare; ma tu come pensi di fare?»
«Penso che la cosa migliore sia esplorare i miei poteri in base alle mie conoscenze». 
«La trovo una mossa un po’rischiosa, potrebbero presentarsi dei pericoli da un momento all’altro e tu non hai neanche risvegliato il Settimo Senso. Però proviamoci, d’altronde il motivo per cui sei qui non è combattere assieme a noi». No, ma era comunque combattere contro gli Specter. Non avevo mai pensato a me stessa come a una serpe in seno, prima. Già un po’mi ci comportavo al Santuario, in quanto il mio salvataggio-rapimento iniziale mi bruciava ancora. Ma anche le voci in seguito al mio ritorno con la ClothStone che volevano che io avessi orchestrato tutto. Cosa assolutamente non vera, dal momento che ero troppo pigra per pensare a un piano del genere e, poi, neanche conoscevo Aurel, prima del rapimento. Avevo anche provato a difendermi da queste voci, ma ai miei interlocutori parve che avessi soltanto la coda di paglia. Qualcuno, me lo fece anche notare, dal momento che avevo aperto bocca prima che potesse finire il suo racconto. 
Anche se mi doleva ammetterlo, in quei mesi avevo cominciato a capire cosa passasse per la testa di alcuni folli. Come la realtà apparisse distorta e, anche la spasmodica ricerca di un pensiero che permettesse di non impazzire completamente, che si adattasse bene alla nostra vera indole.
Almeno, nel mio caso e, in quello dell’incarnazione di Hades del Millesettecento, fu così. Così lessi nei diari di Tenma di Pegasus, prima che la Guerra Sacra gli impedisse di redigere altro. 
Ma io non ero folle e non ero Alone. Io avevo frequentato uno psicologo per impedire a me stessa di soccombere alle crisi che, adesso mi sforzavo di combattere e reprimere. Non avrei mai permesso alla paura e al terrore di trasformarmi in ciò che non ero.
Feci un bel respiro profondo e mi aprii con Camus, rivelandogli cosa potessi effettivamente fare con il potere delle stelle. Restò abbastanza sorpreso quando gli raccontai anche di come avevo scoperto tali facoltà. Poi, per ultimo, gli rivelai di conoscere l’arte della naginata e, materializzai il falcione di Cosmo dorato. A quest’ultima azione in particolare, lui mi osservò stupito: «Ho visto fare una cosa simile solo a un’altra persona, prima».
«Davvero? Chi?»
«Aiolos di Sagitter».
«L’ho già sentito nominare». Un po’mi dispiacque di sapere di non essere la prima Saint che usufruiva di questa tecnica. Non immaginavo che anche lui riuscisse in un’impresa simile.
«Sì, solo che lui materializzava arco e frecce di Cosmo. Gliel’ho visto fare una sola volta, ad Asgard, mentre combattevamo contro Loki». Raccontò, continuando a osservarlo finché non lo dissolsi.
«Ah» e io che pensavo che anche lui materializzasse un falcione di Cosmo. Appena i miei occhi incrociarono i suoi, però rabbrividii.  
Più andavo avanti con questa conoscenza, più cercavo di evitare lo sguardo di Camus. Non perché non mi stesse simpatico, non ero così superficiale e, non m’interessava neanche entrare nelle sue simpatie. Bensì perché mi ricordava troppo una fiamma ibernata. Prima di incontrare lui non avevo mai associato il rosso al gelo. Neanche le stelle rosse che, notoriamente, sono le stelle più fredde dell’Universo, mi trasmettevano tanto freddo come gli occhi e i capelli del mio fratello separato alla nascita. Trovavo quasi ironico e, al tempo stesso, interessante questo parallelismo. Però, un conto è parlare di un corpo celeste che brilla di luce propria per reazioni chimiche che trasformano l’idrogeno in elio all’interno del suo nucleo, un altro è parlare di una persona. E, con tutta la stima e il rispetto che potevo provare per il mio sfortunato collega, io continuavo a non guardarlo. E, non mi riferivo solo ai capelli, ammorbiditi da quelle punte azzurre un po’rovinate, bensì dai suoi occhi. A dispetto dei suoi modi gentili (segno che si ricordava come ci si comportava con le ragazze), i suoi occhi erano freddi e senza calore, cristallizzati da una patina di brina. Soltanto il loro guizzare di certe situazioni, tradiva gli ultimi slanci di vitalità e, mi ricordava che era una persona.
Anche se il suo cuore batteva - l’avevo sentito l’ultima volta che mi porse la mano per rialzarmi e io mi aggrappai al suo polso - non mi rassicurava affatto. Ed era così che ero venuta a sapere che era un’Anima Viva. Ossia, che stava facendo un Viaggio Astrale e che, il suo cuore di carne e sangue batteva da qualche parte, tenuto in vita da un macchinario. Come poi mi spiegò lui stesso forse credendo di tranquillizzarmi.
Poi Menta ci richiamò per il pranzo.
Nonostante questa scoperta, continuai lo stesso a rabbrividire e a osservarlo di sottecchi, guardinga. Il fatto che continuasse a vivere come un normale essere umano, che potessimo interagire come se fosse Vivo mi confondeva. Bè, era vivo, l’aveva detto anche lui, ma allora perché la sua pelle era così fredda? Era proprio quella a impedirmi di guardarlo come se fosse più umano. Se non avesse specificato la sua condizione avrei continuato a pensare di essere l’unica umana viva dopo gli Specter e gli abitanti del Tartaro e degli Inferi. Peccato che questa consapevolezza non mi facesse affatto rassomigliare a Dante. Io non ero così brava con le parole e le poesie come lui. Mi sentivo più Orfeo, a dirla tutta, anche per via dell’idea che, con il passare dei giorni, stava prendendo forma nella mia mente. Nella mitologia ricorreva spesso il viaggio nell’Oltretomba. Ma non avrei mai pensato, prima d’ora, che sarebbe potuto capitare a me. A volte mi svegliavo e pensavo ancora di essere al Santuario.
Misi giù le posate e puntai lo sguardo sul panorama sotto le rocce su cui ero seduta e sospirai, ruotando sulla roccia per essere completamente allineata con il mio sguardo.
Sarei mai tornata a casa? Mi chiesi mentre inghiottivo.
Lui si accorse del mio turbamento e mi chiese: «Qualcosa non va?»     

Sospirai e decisi di dire una mezza verità: «Se solo potessimo sapere di più sulla Luce Ombrosa».
«Ehm, ehm», si schiarì la gola Menta. La guardammo, «Se volete io conosco qualcuno che potrebbe aiutarci».
«E chi?»
«Rune di Barlog».
«Il secondo del Grifone?» Domandò Camus e Menta annuì, mentre prendeva i piatti vuoti e li metteva su un vassoio. Feci una faccia che passò dall’esasperazione, per la serie: “Non se ne parla neanche” al “Preferirei spararmi, piuttosto che avere a che fare con lui”. Ma tutti e due mi ignorarono palesemente. Per questo li mandai mentalmente a quel paese. Possibile che la mia volontà contasse meno di zero?
«Ma non era passato dalla parte di Don Avido?» Chiese sospettoso. Almeno su Camus potevo contare un po’ di più, cioè, non mi aveva allontanato quando aveva scoperto la mia vera identità e, sebbene fosse spaventato, continuava a collaborare con me. Lo guardai e, i sensi di colpa tornarono a farsi sentire. Forse l’avevo giudicato male quando Rhadamantys l’aveva mandato a chiamare. Sapevo di aver fatto bene a stare sulla difensiva e a non rivelare tutto quanto,
La Ninfa Stigia confermò: «É così, anche se l’ha fatto per salvare gli archivi e la conoscenza, altrimenti i Black Saint li avrebbero distrutti. Da allora fa il doppiogioco per passarci le informazioni direttamente dall’interno. Posso provare a mettervi in contatto con una delle sue Velate, potrebbe aiutarvi». Faceva impressione sapere che persino il vice procuratore di Minos fosse rimasto incastrato. E dire che te lo ricordavi bene quell’uomo canuto e pallido intransigente come pochi. «La sua brama di conoscenza può esserci utile», aggiunse convinta.
«Ma il Tribunale degli Inferi non dovrebbe essere stato riconquistato come secondo i piani?»
«Fammi capire, esiste uno Specter che è l’equivalente Infernale di Pico de Paperis? Splendido, se ha le informazioni che ci servono, ricordami di regalargli un portatile a mo’ di ringraziamento.» brontolai ironica, incrociando le braccia. I due mi guardarono un po’ perplessi. Menta domandò: «Chi?»
Liquidai la faccenda con un laconico: «Lascia stare».
«Mi affretto a organizzare l’incontro».

Non vedevo l’ora che tutta questa storia fosse finita. Stavo facendo una fatica del diavolo a mantenermi attiva quando avrei solo voluto affondare tra le lenzuola e non svegliarmi più per i prossimi mille anni. A ricordarmi dei pericoli costanti, poi, ci pensavano anche i tre Giudici Infernali. Perché, dopo Aiacos, anche Minos volle la sua parte, reclamando questo suo astruso senso di giustizia. Stavo allenandomi con Camus nei pressi dei campi delle belve ctonie, che, purtroppo, non c’erano altri posti disponibili.
«Astrid», mi avvisò.
«Io non voglio combattere contro di te».
«Ma è quello che vuoi».
Strinsi i pugni e, prima che potessi collegare il cervello alla mia bocca, sibilai: «Quello che vorrei è uccidervi tutti e tre con le mie mani».

«Credi forse di impressionarmi con quello sguardo minaccioso? Oh, tu non hai idea di quanto tu sia divertente, né di quanti, negli Inferi, mi abbiano minacciato allo stesso modo. Illusa, io non mi lascerò battere come quel pazzo di Aiacos, ti farò provare sulla tua pelle il vero dolore».
«Vai al diavolo e restaci!» Sibilai ancora.
Lui, se possibile ampliò il sorriso. 
«Con piacere, ti lascerò in pace per l’eternità». Ribatté sadico e, io vidi un brillio dorato dietro la zazzera bianca. Accidenti, con quella frangia mi era impossibile captare il suo sguardo e decifrare i momenti in cui avrebbe scagliato il colpo. Come invece succedeva un po’con tutti gli altri.
Repressi un brivido di paura. Ma non potei fare altrettanto con la rabbia. La quale esplose dentro di me con la stessa potenza di un’eruzione vulcanica. E fu un gravissimo errore. Mi scagliai addosso a lui, che parò subito il mio colpo con una mano e m’imprigionò l’altra, dalle dita illuminate di viola porpora, impedendomi di usare le mie tecniche. Lui sorrise, mentre lottavo per liberarmi da quella stretta. Ebbi di nuovo paura come quella notte, tanto che provai a divincolarmi e gridare invece di combattere. Suscitando le sue risate e, ampliando ancor di più il suo sorriso mefistofelico.
«Credevi seriamente che ti avrei lasciato prendere la mia Stella Malefica come quegli altri stolti?»
Poi mi calciò via con una pedata allo stomaco.
Rotolai nella polvere e, per poco non persi i sensi. Appena in tempo per scostarmi dal colpo che mi lanciò: «Gigantic Feathers Flap!» Urlò e io mi ritrovai sbalzata via. Il Gigante sembrava deciso a non darmi tregua e io non riuscivo a riordinare le idee per controllare la paura ed elaborare una strategia. Questa volta non ci sarebbe stata alcuna rivincita per me. Aveva capito il mio metodo di combattimento, accidenti!  Le raffiche di vento mi spostavano come se fossi solo un aquilone in balia del vento e, sentivo appena le rocce vicine frantumarsi.
Sarei volata via anch’io se Camus non avesse interposto il suo Cosmo all’attacco e Menta non mi avesse riafferrata al volo. Peccato soltanto che fui strappata da lei da una serie di fili di Cosmo che mi trassero allo Specter, vanificando i tentativi del mio collega e, bucando la sua Diamond Dust. 
«Fermati! Ci farai scoprire» Gridai, ma lui non mi sentì perché la mia voce si perse nel vento. Solo dopo realizzai che, trovandoci in una zona vulcanica, il nostro scontro poteva essere scambiato per uno dei tanti terremoti che scuotevano questa parte degli Inferi.
«Cosmic Marionation!»

Improvvisamente Menta si scagliò contro colpii la roccia e, le belve ctonie s’imbizzarrirono e, saltarono via dal recinto: «Adesso riprendili, se sei capace». Sghignazzò il Gigante Infernale, mentre mi rialzavo con qualche difficoltà per via del dolore. Riuscii appena a trovare le forze per articolare la formula della tecnica di rigenerazione che Camus fu al mio fianco, raffreddandomi le ferite ormai non più gravi come prima.
«Astrid! Astrid, stai bene?» Mi domandò aiutandomi a rialzarmi e, sostenendomi passandosi un braccio attorno al collo. Stavo per rispondere quando vidi ancora i fili cosmici appesi alle mie membra. Sgranai gli occhi con un sussulto. Tolsi il braccio dal suo collo e lo spinsi via prima che il Grifone tendesse i fili e ricominciasse il suo giochino perverso: «Balla, su, fammi vedere come balli!» Sghignazzò costui e mi sentii i piedi staccarsi da terra e sollevare in alto e girare e rigirare a suo piacimento. Dalla mia gola uscivano grida disarticolate e il mio volto era imbrattato di sangue e lacrime.
Mi sentii avviluppare nei suoi fili totalmente in balia di lui. Più fili si avvilupparono attorno alle mie membra e ai miei arti. Istintivamente provai a divincolarmi e lui rise ancor più sguaiatamente: «Sì, sì, coraggio, divincolati, divincolati!»  
Ma non potei, scoprii immediatamente, infatti, che soltanto il provare a liberarsi esigeva un prezzo troppo alto, che io non potevo permettermi.
«Non preoccupatevi milady Astrid, ci occuperemo noi delle belve ctonie!» Mi urlò Menta cercando di tranquillizzarmi e, con la vista annebbiata di lacrime, la vidi correre nella direzione presa dagli animali. Poi altre ombre umane si unirono a lei.
Ma anche loro si ritrovarono in difficoltà. Battei le palpebre più volte per liberarle dalle lacrime e vidi la mia ancella  scomparire tra le rocce.
Improvvisamente mi sentii precipitare al suolo e mi ritrovai tra le braccia di Camus. «Bastardo! Come osi interrompere il nostro scontro?»
Il mio sosia gli lanciò un’occhiata severa e carica di disprezzo, mentre i fili si dissolvevano. Poi corse via e io riuscii ad allacciare le braccia al suo collo per facilitarlo almeno un po’nella corsa.
Ma lo Specter ci fu subito alle calcagna. Anche se per poco, visto che Camus si girò e lo bloccò nella Freezing Coffin.
Poi saltò via di roccia in roccia, finché non fu sicuro che l’avessimo seminato.
Mi guardai intorno e, nella distesa, appurammo che ci trovavamo nel piccolo recinto delle anime di Myu della Farfalla. Peccato solo che una Creatura, ci avesse seguiti e, stesse programmando di farsi un bel pasto con tutto ciò che aveva dinanzi a sé. Camus mi mise giù e, poi, sentimmo dei sassi smossi e vedemmo gli Skeleton e gli Specter lanciarsi addosso alla belva per fermarla, senza grandi risultati.
Guardai Camus sgomenta, che ricambiò il mio sguardo e poi gli chiesi scusa  Non avevo smaterializzato le sue stelle. E, senza indugio alcuno, gliele presi tutte. Il mio compagno d’arme perse i sensi e io me la svignai con la sua costellazione. Con il cuore che batteva a mille, l’adrenalina in circolo, corsi in mezzo alla marmaglia e strappai stelle a chiunque mi capitava a tiro. Poi, feci rapidamente una rete di stelle e collegamenti, che lanciai tra due picchi, andando a fermare la Creatura ormai impazzita. Fu così che scoprii anche, che questo genere di Creature non era capace di oltrepassare le gabbie e le reti di stelle.
Poi, le feci cenno di andare via e, quella, obbedì. Lasciai la gabbia lì, che, sicuramente avrebbe impedito agli animali di lasciare la vallata. Ora dovevo ritrovare Menta. Reggendomi il braccio ferito e, gemendo per il dolore, mi allontanai. L’adrenalina che, rapidamente come era venuta, stava scemando. La scorsi, infine, giù per una scarpata, riversa a terra. «Menta!»  Sgranai gli occhi, sentendomi la bocca piena di sangue e la faccia imbrattata allo stesso modo. La raggiunsi cercando di non farmi troppo male e di non cadere. A volte non ci vedevo a causa della stanchezza, altri dei vapori vicini dei geyser.  
Quando le fui vicina lei alzò il capo, stanca e stordita. Mi sorrise di rimando, prima di perdere i sensi e crollare il capo al suolo.
«Menta! Menta! Resisti, Menta!» Urlai cercando di farmi strada tra le rocce affilate, ma ottenni solo di ferirmi ancor di più. Solo quando mi avvicinai scoprii che era solo un’illusione data dai fumi dei vapori del posto.
Crollai in ginocchio pesantemente, battendo le palpebre. Appoggiai le mani al suolo, respirando forte dal naso, prima di ricordarmi di tapparmelo con una mano. 
Mentre Minos se la rideva come un matto. La sua risata cresceva sempre di più a mano a mano che si avvicinava. «Sai anche lanciare illusioni?» Gli chiesi senza girarmi, gli occhi fissi, oserei dire incantati, nel punto in cui l’allucinazione era sparita.
«No, ma so approfittare delle debolezze altrui». Sentii un rumore come di fili che si tendevano e, di nuovo, le mie membra furono imprigionate nella sua tecnica mortale. Ma me ne accorsi solo troppo tardi. Non mi dette neanche il tempo di alzarmi o di portarmi una mano alla gola, che cominciò a rigirarmi e a manovrarmi come un burattino facendomi provare la sua tecnica preferita sulla mia pelle, domandandomi se mi piacesse, io urlavo per il dolore.
“No!” Pensai stringendo i denti e, qualcosa, a livello della mia gola, si formò, come una bolla d’energia. “No! Non può finire così! Io non mi lascerò battere ancora una volta! La stessa tecnica non funziona mai due volte su un Saint.” Ed io ero una Saint.
Ma questo pensiero non mi disse niente.

Fu invece la mia voglia di vivere a darmi la spinta per aggrapparmi a essa. Con la forza datami da questo sentimento, raccolsi tutta l’aria che avevo in gola. Aprii la bocca e urlai, con una potenza di polmoni che sorprese pure me. Solo che, dalle mie corde vocali uscì un grido talmente acuto che mi risuonò nella mia testa. Un grido simile al verso di un uccello rapace. Improvvisamente sentii le mie membra scaldarsi e poi aprii gli occhi e, vidi un lampo dorato davanti a me. E, per la prima volta, mi sentii strana. Per la prima volta ebbi la chiara percezione del mio Cosmo e della mia anima come un’aura che mi rivestiva e che faceva parte di me. A fior di pelle, sentii i piedi trasformarsi, senza dolore, in due zampe artigliate, da rapace e, poi, risalì le caviglie e i polpacci fino al ginocchio, dove sentii aprirsi delle fossette e delle scaglie. Sulle mie cosce e sul mio corpo sentii crescere delle piume. Piume che poi risalirono i fianchi e si infoltirono sul petto e sulle spalle, lasciando scoperte le clavicole. Sulla mia testa sentii allungarsi una corona di piume, che mi appesantì un po’la testa e, la zona della bocca e del viso si scaldò, diventando un po’più pesante, come la prima volta che mi truccai la faccia. La parte inferiore delle mie braccia s’allungò assumendo la forma di un paio d’ali da rapace. Piume che, poi, fecero il giro sulla mia schiena e, si allungarono in una punta fino al coccige, dove si aprirono in una coda con delle timoniere molto simili alla coda di un pavone, le cui estremità mi arrivavano dietro le rotule e, il resto delle piume era scalato.
Sentii il Cosmic Marionation allentarsi e, con una piccola rotazione dei polsi, chiusi le mie dita attorno ai fili cosmici di Minos e, con uno sforzo di volontà, tirai, riuscendo a strapparli.
Poi, il calore defluì dalle mie membra, la trasformazione mi abbandonò, sì come i miei sensi.
Questo scontro non fu certo privo di conseguenze.
Quando mi rinvenni, tutto attorno a me era solo fuoco e cenere e, qualcuno mi stava trasportando altrove. Non saprei dire chi fosse. So solo che tra le sue braccia mi sentii al sicuro. Non era Camus, non credo che fosse lui. Costui indossava l’Armatura. Forse era uno Specter o uno Skeleton, un uomo, a giudicare dalla forma delle mani. Avrei dovuto impaurirmi, ma ero troppo esausta per combattere o ribellarmi.
L’ultima cosa che pensai prima di cadere di nuovo all’indietro nelle tenebre dell’incoscienza, fu che mi sentivo protetta e amata, come tra le braccia di mio padre.   
i tre Giudici Infernali, invece di ringraziarmi (se, ancora ci speravo, per aver impedito che le belve ctonie di scappare e, anche alle anime) mi coprirono di improperi e insulti, decisamente più minacciosi di quelli di Kanon e degli altri. Minos addirittura mi incolpò di averlo provocato, che se non fosse stato per la mia insolenza, lui non mi avrebbe attaccato. Come se fosse stato vero: lui era venuto da me con il chiaro intento di farmi fuori fin da subito.
Non mi ero mai sentita più in pericolo prima di ora, adesso comprendevo che cosa si provasse a sentirsi bombardati su tutti i fronti, la fragilità e tutta la mia impotenza di essere umano. Di fronte a quei tre, io ero ancora la ragazzina indifesa che aggredirono e pestarono a sangue per puro divertimento. 
Decisamente più efficaci, in quanto questi tre cercavano veramente di uccidermi. E il terrore fu così forte che ebbi un’altra crisi.

Il giorno dopo, dopo aver consumato la colazione e, forte di tutto questo, abbandonai definitivamente il Padiglione della Caina. Per convincere Menta a seguirmi mi bastò solo un cenno del capo. Lei non disse niente, si limitò soltanto a seguirmi, tanto nessuna di noi aveva molte cose da portare con sé.
Scendemmo dall’altura dei Padiglioni già in fase di smantellamento e raggiungemmo la piana.
Per nostra fortuna c’era un’altra valle, appena più indietro del campo di battaglia che si erano scelti. Avremmo usufruito, però, stavolta, della protezione delle rocce della Palude Nera. Che anche quelle, in quanto a nebbia, non scherzavano. Così almeno sentii dire.
Arrivai al limitare del campo, mentre gli altri andavano nella direzione opposta, caricando carretti e smontando tende o cercando oggetti che erano spariti.
Restai a osservare il luogo dove un momento prima c’erano le prime tende dell’accampamento, quando percepii la presenza di qualcun altro attorno a me. Ma se Menta si girò, io restai a osservare la zona. Poteva essere il momento opportuno partire adesso e andare a cercare l’amica di Menta e, al tempo stesso anche mia madre.  
 «Quindi ci spostiamo». Commentai osservando il campo.
«Direi di sì». Confermò Camus, «Lo scontro non è passato così inosservato come credevamo».
«Mi sorprende che non mi sia stato fatto nient’altro».
«Non potevano, per quanto malvagi siano, sanno che non possono sprecare troppe energie e, tu sei troppo importante perché ti ammazzino così facilmente. Le nostre spie ci riferiscono che i nostri nemici credono che sia stato risvegliato un altro tipo di mostro infernale potentissimo e, ora lo stanno cercando. Hanno preferito lasciar credere che si trattasse di questo, dopo quello che abbiamo visto». Spiegò.
«Capisco. Sarò anche importante, ma ciò non significa che non si divertano a torturarmi». Accidenti, non avrei mai pensato che ci saremmo fatti scoprire a causa mia. Anche se, con il senno di poi, persino la mia danza poteva averci già fatti scoprire da un pezzo. Oh, stavo diventando paranoica.
La voce di Camus interruppe il flusso dei miei pensieri: «Ad ogni modo, non è il momento di pensarci, oggi dobbiamo andare da un’altra parte». Mi ricordò avvicinandosi e, dal clangore che sentii, come di un sacchetto di monete agitato, capii che indossava la sua Cloth. Quando mi girai a guardarlo non potei fare a meno di pensare che facesse tutto un altro effetto con quella indosso. Sembrava, se possibile, ancora più carismatico e meritevole di rispetto, oltre che affascinante.
Mi ci volle un po’per capire a cosa si stesse riferendo. Giusto, era il giorno dell’appuntamento. Perciò, raggiungemmo un grifone che, dopo due carezze e un po’di carne, ci trasportò tutti e tre alla Prima Prigione. Io ero accomodata tra Camus e Menta e, mentre volavamo, mi fu impossibile non girare la testa e lanciare lo sguardo dietro di me, oltre lo spallaccio della Gold Cloth della mia versione maschile.    
Anche se non riuscii molto nell’impresa, visto che lo spallaccio della Cloth di Aquarius impediva buona parte della visuale.
Stavo cominciando a trovare piacevoli queste trasvolate a dorso di grifone, anche se dovevo tenere gli occhi socchiusi a causa del vento di questo posto.
Fu quasi un peccato scendere. Mi sentivo che sarei potuta restare sul dorso di quest’animale per sempre. Menta ci condusse fin dentro il Tribunale passando per una porta di servizio mimetizzata nella roccia. Da lì ci inoltrammo in un corridoio illuminato da delle fiaccole che gettavano sinistre ombre attorno a noi e, allungavano le nostre come quella di Dracula nel film omonimo di Francis Ford Coppola, animandole al pari di quelle del vampiro. Non mi sarei sorpresa se poi, ci avessero anche attaccato.
Ci condusse nelle stanze private delle Velate e ci disse di attendere dietro a una colonna. Tanto le colonne che sostenevano la volta di pietra erano abbastanza imponenti per nascondere due persone, una delle quali in armatura come Camus. Il quale continuava a congelarmi una spalla e a coprirmi con il mantello, come se ciò avesse potuto celarci alla vista di qualcuno. Un gesto lodevole quanto stupido. E, poi, bianco su nero, bisognava essere degli imbecilli per non notarci, se qualcuno avesse scostato la tenda nera che ci riparava. «Potresti lasciarmi andare? Mi stai congelando». Bisbigliai imbarazzata e lui si scusò e obbedì. Non che la situazione fosse molto migliore fuori dal mantello. Questo posto era gelido persino per la mia pelle già infreddolita dalla trasvolata. Non mi sarei sorpresa se poi avrei cominciato a tossire. Mi sfregai le braccia con le mani.
«Posso farti una domanda?» Chiesi poi alla mia versione maschile tanto per ingannare il tempo.
«Solo una». Non so con che coraggio mi rispose così. Se fossi stata al suo posto avrei risposto una cosa come “dopo”, perché avrei avuto i nervi a fior di pelle e mi sarei concentrata sulle varie presenze, pronta a scattare in caso fossimo stati scoperti. Lui invece se ne stava completamente rilassato, come se neanche gli importasse. Ma era un Gold, era di un altro pianeta nel vero senso della parola. Anche se camminavo al fianco di uno di loro e li servivo e ci conversavo, erano completamente estranei, sempre venti metri avanti a me. Per quanto avessi potuto leggere loro la mano, sarebbero sempre rimasti un mistero; una parte di loro non l’avrei mai decifrata completamente. Non solo perché non eravamo confidenti. 
«Perché sei così gelido?» Gli chiesi a bruciapelo, guardandolo di sottecchi.
Lui continuò a guardare fisso davanti a sé ma rispose lo stesso: «Gelido in che senso?»
«La tua pelle». Risposi girando completamente la testa verso di lui.
«Ah, sì, già, tendo a dimenticarmene spesso». Borbottò chinando il capo per osservare una delle sue mani dalle unghie curate. Questa era una caratteristica che avevo visto su tutti i Saint di ambo i sessi, per quanto le loro mani potessero essere rovinate, le loro unghie erano sempre curatissime, come se si facessero la manicure. Persino Death Mask e Aldebaran. Persino quelle del mio maestro erano perfette. Forse solo quelle di Seiya e dei suoi fratellastri erano meno curate di queste.
«Non ne ho idea, sai? Anche Shaka, che pure è un’Anima Viva come me, è caldo come una persona normale, soltanto io sono così». Rispose poi raddrizzando il viso e riportando la mano al suo fianco. Sembrava quasi dispiaciuto e spaventato.
«Forse è per via del tuo Cosmo». Ipotizzai alzando una spalla.
Lui corrugò la fronte, dubbioso, ma decise di accodarsi alla mia ipotesi: «Forse, lo spero».  
Feci per chiedere spiegazioni quando sentimmo le voci delle due e l’eco dei loro passi sul pavimento di pietra riecheggiare mentre si avvicinavano. Entrambi concentrammo la nostra attenzione su di loro. Mi ero sempre chiesta come facessero le Velate a comunicare, dal momento che avevo capito che fossero solo persone manovrate. Avevo provato a scambiare qualche parola con una di loro, ma era come se non esistessi ai loro occhi. Ammesso che - il pensiero mi fece rabbrividire ancora una volta - li avessero ancora. Di solito erano sempre descritte come silenziose e impassibili. Non l’avrei mai detto che, in realtà non lo fossero. Come non avrei mai detto che la loro tenuta servisse ad accentuare quest’impressione.
Un momento e se fosse una trappola? Sgranai gli occhi e guardai Camus che ricambiò con un’occhiata perplessa, prima di capire e mettersi davanti a me.
Le due si fermarono. Avevo il cuore in gola ed ero pronta a usare i miei poteri.
«Ma non è solo per cortesia che sono venuta a trovarti».
«Ah, no? È raro che le tue visite abbiano un secondo fine; dimmi, di che si tratta?»
Menta andò al nocciolo della questione: «Ho bisogno che tu aiuti la mia padrona, crediamo che le informazioni che ci servono siano accessibili soltanto a te, alle tue colleghe e al tuo superiore. Normalmente farei richiesta come tutti gli altri, ma capisci che la situazione d’emergenza in cui ci troviamo non me lo permette».
«Capisco. Comunque non sbagli, al Sommo Rune non sfugge mai niente, ma dimmi, chi è la tua padrona?»
«É una giovane veramente straordinaria, credimi, ma ha bisogno del tuo aiuto, altrimenti non riuscirà mai a tornare a casa sua». Dal canto mio ero commossa che parlasse di me così in questi termini. Solo in seguito mi sovvenne che poteva anche aver detto così solo perché ero presente.
L’altra fece per dire qualcosa, ma la Ninfa la bloccò anticipandola con un rapido e imbarazzato: «Ed è qui».
«Cosa? Dove?» Chiese l’altra, d’un tratto impaurita.
«Milady, Sommo Aquarius, potete uscire».
Io e Camus obbedimmo. Il primo a uscire fu lui e poi, notando che non succedeva niente, uscii dal nascondiglio anch’io. «Clio, questi sono Camus di Aquarius e la mia padrona, la Somma Astrid di cui ti ho parlato poc’anzi, Sommi, costei è la mia amica Clio». La Velata col nome della Musa, restò zitta e immobile così a lungo che temetti fosse diventata una statua di pietra. Quando aprii bocca per chiedere a Menta se stesse bene, la donna si rianimò e andò nel panico: «No, no, ma sei pazza, Menta? Mi avevi detto che erano persone normali non dei ribelli! Perché diavolo li hai portati qui? Non ti ho indicato quella via affinché tu introducessi degli intrusi. No! Il Sommo Rune non mi perdonerà mai, no. Devo avvertire le guardie, devo fare qualcosa, devo…» sbottò la Velata indicandoci con un gesto stizzito della mano prima di avviarsi repentinamente più in là. Ma se io e Camus sgranammo gli occhi, Menta fu più rapida. Sbarrò la strada alla sua amica completamente fuori di testa e la trattenne e cercò di calmarla. La strinse a sé e continuò a mormorare parole di conforto. La Velata tra le sue braccia si acquietò e si aggrappò alle sue spalle. «Come faccio a stare calma? Ti rendi conto di quanto questa situazione sia stressante per me e sia pericolosa per tutti noi? Sei i Black Saint ci scoprissero…»
«Non succederà, senti, non c’è un altro posto dove parlare?»
La Velata ci pensò su, poi rispose: «Sì, venite con me, negli archivi non ci disturberà nessuno». 

Durante il tragitto, Menta interruppe il suo sommesso brontolare domandandole come fossero sopravvissute. «Sembra che ve la passiate bene, oserei dire anche meglio di noi, siete tornate da molto?»
Contrariamente a quello che immaginavamo, non si erano mai allontanate dal Tribunale degli Inferi e la Prima Prigione. Le Velate, su ordine di Barlog, avevano deciso di tacere ai Black Saint le informazioni, in cambio della protezione del vice procuratore del Grifone. Lo stesso Barlog era riuscito a trovare un compromesso con i Black Saint riuscendo, qualche volta a stabilire delle tregue e, altre dando loro battaglia a colpi di frusta. Questo quando i Black Saint osavano troppo secondo i suoi gusti, con azioni come assalti a sorpresa e assedi. Non per niente,  Pico de Paperis degli Specter qui, era il secondo in comando di Minos. Anche se doveva essere di poco inferiore al suo superiore, non era comunque un tipo da sottovalutare.  
Anche se lo faceva per interesse personale, eravamo comunque sorpresi che avesse deciso di proteggerle. Soprattutto Camus e sì, anch’io, che ormai avevo fatto di tutta l’erba un fascio.
Ci condusse negli archivi, che erano molto più bui, angusti e stretti delle biblioteche del Santuario. Se la parte iniziale ricordava di più la sala di ricopiatura di un’abbazia medievale, addentrandoci più in profondità, era come entrare in una chiesa romanica. Non mi sembrò una somiglianza a caso, perché spesso, nel Medioevo queste erano buie, a volte anche umide, mentre le biblioteche del Santuario erano l’esatto contrario, proprio come il gotico.
Eppure, questo posto era, a dispetto di tutto, fresco e arieggiato. E, proprio come all’esterno, anche qui filtrava luce a sufficienza per permettere lo studio e la consultazione dei testi, con la differenza che si respirava un’aria di pace e tranquillità avvolgente. Persino il luogo era pulito e non c’era un filo di polvere sui tavoli lunghi e stretti infilati quasi a forza in questi archivi altissimi e pieni di libri.
Alte colonne reggevano la volta a tutto sesto sopra di noi, dei tendaggi leggeri e biancastri scendevano dal soffitto con delicatezza. Piante notturne disposte nei vasi ornamentali a circondare i pilastri come un’aiuola e, piante vicino alle lanterne appese al muro, che mandavano dolci bagliori caldi in totale contrasto con l’ambiente, contribuendo in qualche modo a renderlo più vivace ancora.
Il centro dell’archivio era dominato da un tavolo a forma di omega, circondato dagli scaffali color ebano disposti a raggiera, equidistanti gl’uni dagli altri due metri.
Ci fece accomodare sulle sedie relativamente semplici rispetto agli scranni del Padiglione della Caina cui mi ero abituata ed entrò in modalità bibliotecaria, sospirando con aria sconfitta.
«D’accordo, aspettate qui che cerco tutti i libri che trattano dell’argomento, l’ho rimesso in ordine giusto l’altro ieri, devo solo ricordarmi dove l’ho messo…» Borbottò e partì alla ricerca del tomo.
Aspettammo che scomparisse dagli scaffali prima di rianimarci. Menta mi domandò se non fossi emozionata, in fondo, stavamo per avere le risposte a tutti i nostri interrogativi. Mi limitai a sorridere e ammettere che sì ero emozionata, ma anche un po’impaurita. Non tanto per le informazioni che avrei potuto ricevere, quanto piuttosto per eventuali imboscate. Camus si limitò a tendere la bocca in un sorriso e a posarmi una mano sulla spalla. Anche se me la gelò la coprii lo stesso con la mia, brevemente. Ricambiai il sorriso, cercando di mostrarmi meno spaventata possibile.
Poi lui ritrasse la sua e tornò a sorvegliare la porta, i sensi ben allerta. Lui era rimasto di guardia, limitandosi a restare in piedi accanto a noi, che ci eravamo sedute. Ed era bene che l’avesse fatto, almeno lui aveva probabilità in più di uscire vincitore da un possibile scontro, ammesso che l’amica di Menta non avesse chiamato le guardie. A giudicare dalle espressioni rassicuranti che si alternavano a quelle preoccupate e alle occhiate che lanciava all’ingresso alle nostre spalle, anche Menta sembrava del mio stesso parere. Io mi domandavo come avrei potuto sconfiggere dei nemici che potevano uccidermi ma che io non potevo toccare. Come potevo rendere tangibile l’intangibile? 

Fu sull’onda di questi pensieri che Clio tornò, stringendo al petto un libro grande quanto il suo mezzobusto. Libro che depose sul tavolo, a dispetto di tutto, senza bisogno di aiuto. Poi lo sfogliò e, noi cercammo di ignorare l’odore di stantio che si levò da quelle pagine. Dopodiché mi sporsi verso di lei per osservare e, scoprii, che era un libro di mitologia, scritto da una parte in greco e, l’altra in latino. Che fosse la storia del nostro Universo attraverso il punto di vista degli Specter? Chissà che segreti contenevano quelle pagine ingiallite.
La Velata giunse al centro delle pagine e a un tratto si fermò, si accorse che la stavo fissando e mi ritrassi. Ma invece di scusarmi la implorai di dirmi tutto. Ormai non stavo più nella pelle, faticavo a restare seduta, avevo il batticuore. Cominciai a tormentarmi le mani nel tentativo di stare ferma.  Sentivo che se non avesse aperto bocca, avrei potuto scavalcare il tavolo, scalzarla e leggere quelle pagine. «Parla, per favore!». Implorai incapace di trattenermi, facendo sobbalzare tutti e tre. Ma me ne infischiai e continuai a incalzarla: «Parla, per favore, che cos’è la Luce Ombrosa? A che mi servono questi poteri?» A niente valsero i tentativi di Menta di rabbonirmi, perché mi girai a guardarla e dissi che: «Non posso scusarmi; ho aspettato per troppo tempo di scoprire una cosa sulla Luce Ombrosa e ora scopro che c’è molto altro, più di quanto immaginassi e… No, non posso proprio trattenermi, devo sapere tutto, quindi, per favore, parla, non tenermi sulle spine». Ordinai, tornando a guardare Clio dritto nella reticella che celava i suoi occhi. La Velata non mi rispose, ma l’occhiataccia fulminante che mi lanciò la percepii lo stesso. «Se mi date il tempo di prendere fiato…» Annuii con convinzione e trepidazione. Tutto il fiato che voleva, purché si sbrigasse.
L’amica di Menta finalmente espose il frutto della sua ultima ricerca senza troppi giri di parole, onde evitare un’altra aggressione verbale. Effettivamente dal tono che avevo usato, più che incalzante risultavo aggressiva.
«La Luce Ombrosa non è un manufatto o un potere. Non è neanche la più alta concentrazione di Cosmo, come si tramanda. In realtà è una persona».
Strabuzzai gli occhi per lo stupore. Camus al mio fianco s’immobilizzò, sorpreso come Menta, prima che tutti e tre mi guardassero stupefatti. Io ricambiai i loro sguardi, più stupita di loro. Come… Io? La Luce Ombrosa ero io? Quindi questi poteri non mi servivano per custodire tutto ciò, ma per me? Questi poteri erano un dono?
Improvvisamente tutta la visione che mi ero fatta della cosa si ribaltò e io mi sentii come spostata di lato rispetto all’idea che mi ero fatta. E, se da un lato questo mi rassicurò, confermandomi che non ero un mostro, che il mio potere non era così spaventoso, dall’altro mi sentii più debole.  
La Velata continuò come se non fosse accaduto assolutamente niente: «Quest’individuo nasce ogniqualvolta che il Cosmo si trova in condizioni critiche. Tali avvisaglie vengono date dalla comparsa delle Lacrime di Kalì, una sorta di fantasmi neri che tutto toccano con il gelo dell’inverno e, tutto bruciano con il caldo torrido dell’estate. Salvo la Luce Ombrosa, cui esse obbediscono ciecamente, le anime dei morti e i fantasmi. Quest’ultimi in quanto stanti su un piano differente ancora ed essendo ormai privi di Cosmo. Il Cosmo qui è inteso sia come forza delle stelle e al tempo stesso come Universo, sia come linfa vitale che Titani, Dèi, Saint, Specter, Marine e i soldati degli schieramenti divini bruciano per compiere miracoli. Cambia nome nel corso del tempo, ma sempre di Cosmo si tratta. La Luce Ombrosa reca in sé i poteri della Vita e della Morte. Si riconosce perché, se addestrata, manifesta un Cosmo che somiglia a una fiamma nera che sfuma sul grigio, l’argento e il bianco, popolato da miriadi di stelle in scala ridotta. Come se in esse fosse replicato un pezzo di Cielo. Somigliano a dei bagliori fosforescenti di varia grandezza che sembrano avere vita propria.
C’era anche una leggenda a proposito di questi bagliori, che volevano avessero un’origine divina, ma gli appunti sono stati rovinati».
«Rovinati? Da chi?» Chiesi.
«Nessuno ne ha idea, si sa solo che, nel XVI secolo, il Nostro Signore distrusse buona parte dei documenti relativi alla Luce Ombrosa. Mi ricordo qualcosina di quel periodo, ma tutto ciò che rammento è la sensazione di paura che provavo, che qualcuno urlava che i Saint stavano avvicinandosi e, gli occhi spiritati del Sommo Rune mentre entrava nell’archivio. Quando ne uscì, l’archivio era distrutto».
«Perché mai Rune di Barlog avrebbe dovuto compiere un’azione simile? Per caso già allora si erano manifestate le Lacrime di Kalì?» Domandò Camus, perplesso, non senza qualche difficoltà nel ricordarsi il nome di tali Creature.
Ma la Velata scosse il capo, le braccia conserte e si alzò, ricordandomi molto una maestra elementare. «No, nelle cronache del sedicesimo secolo non successe niente di tutto questo».
«Che libri andarono distrutti?» Chiese invece Menta, anche per me, che ero momentaneamente in panne, ma che volevo comunque sapere. «Più che distrutti erano messi a soqquadro e alcuni avevano le pagine strappate e calpestate. Le scansie erano state
«Può essere che l’incarnazione di Hades di quel periodo avesse dato queste disposizioni?» Indagai, con voce incerta.
«No, il Sommo non ha mai mostrato interesse alcuno per questa zona e, per quel che ne so, fu Minos del Grifone a dare l’ordine».
«Doveva essere molto paranoico in quel periodo». Mi sforzai di dire, per evitare che la rivelazione precedente mi assorbisse completamente e mi trasportasse in un mondo tutto mio.
Camus scostò la sedia alla mia destra e si sedette, prima di rispondere: «Non credo, stando ai registri di Krest di Aquarius, gli Specter sembravano ancora creature mitologiche che entravano e uscivano dalle ombre, non aveva alcun senso che usasse una strategia così. Gli Specter si comportavano come al solito, non avevano niente di diverso dal solito».
Scrollai le spalle e ipotizzai: «Evidentemente voleva nascondere qualcosa che il Santuario non doveva trovare».
«Può essere». Concesse Camus, poi si scusò e tornò a rivolgersi a Clio, chiedendole cosa secondo lei potesse essere stato. La Velata ci mise un po’ a parlare, ma non capimmo se per via del fatto che eravamo Saint o perché effettivamente non lo sapesse, o anche perché volesse nascondercelo.  «Sospetto le mappe degli Inferi, dal momento che la zona maggiormente colpita fu quella degli atlanti geografici. Il punto era che tutta quella zona fu ridotta in cenere e non erano presenti soltanto le mappe del regno del Sommo Hades. Ad ogni modo, il Nostro Dio non ne ha mai saputo nulla, dal momento che fu sconfitto dall’Atena di quel periodo all’incirca sedici giorni dopo. Mi piacerebbe potervi dire altro ma gli appunti sono stati rovinati dal tempo».
«Ma c’erano stati altri danni considerevoli nell’archivio?» S’informò Camus.
«Sì, alla sezione mitologica, appunto, questo è l’ultimo libro che resta in cui si parla della Luce Ombrosa, si salvò perché qualcuno incollò le pagine per nascondere le notizie. Ora che ci pensò è una grande coincidenza. È da quando questo libro è stato tirato fuori dalla sua teca per essere ricopiato e, abbiamo scoperto le pagine incollate, che è cominciata tutta questa storia. Purtroppo però anche lì si riesce solo a leggere poco. Un’informazione ancora integra è che, spesso le Luci Ombrose sono ripartite in due o più schieramenti opposti».
«Schieramenti opposti? Che significa?» Chiesi io, recuperando l’uso della mascella che, mi era caduta per via dello stupore.
«Che di solito ne nasce più di una».
A quella notizia trattenni il fiato rumorosamente per l’emozione, portandomi le mani alla bocca. Non ero l’unica, questa notizia era bellissima e, al tempo stesso, sconvolgente. Era come aver percorso mille miglia nel deserto e patire la fame e la sete e imbattersi in una carovana! Battei le palpebre e lasciai cadere le mani, una sul tavolo e l’altra all’altezza del cuore e domandai, stupita: «Vuoi dire che non sono l’unica? Quanti sono? Ce ne sono altri come me? Dove sono? Siamo un intero popolo o siamo solo degli errori che nascono qui e là nel corso della Storia?»
«Non saprei, non ho potuto scoprire altro, l’unica cosa certa è che se esiste un’altra Luce Ombrosa, sei destinata a scontrarti con essa». E, questa notizia, sembrò abbacchiarla anche fisicamente, infatti, la vedesti crollare le spalle. La sua faccia mostrava un’espressione sconfitta.
«E cosa significa che devo disegnare con la luce? Perché le Lacrime di Kalì mi obbediscono se, in teoria non rientra tra i miei poteri?  Perché riesco a muovere le Armature? Che cosa mi è successo durante lo scontro con Minos? Cos’era quell’energia? Cosa devo fare per impedire il completo disfacimento della Volta Celeste?»
«Qui non lo dice». Mi rispose desolata e anche un filo scocciata.
Mi risedetti sulla sedia, dispiaciuta e, Menta disse: «Vi lascio, io devo andare e, anche voi». Prima di andare via dette istruzioni all’amica per uscire da qui senza che il corpo di guardia ci scoprisse. 
Menta la ringraziò anche a nome mio, che ero completamente annientata. In senso positivo, stavolta, ma la sensazione non era fondamentalmente diversa, dal momento che generava lo stesso un vuoto nei miei pensieri. Come se tutte queste rivelazioni fossero come delle bombe che, esplodendo, avessero cristallizzato e polverizzato ogni cosa.
Uscimmo dall’archivio, aspettammo il cambio della guardia e tornammo alla zona dove avevamo lasciato il grifone, che ci aspettava.
Solo quando lasciammo quelle terre e il vento tornò a raffreddarmi le membra, nonostante che Menta mi schermasse un poco dalle correnti della Valle del Vento Nero e Camus mi raffreddasse la schiena e si tenesse aggrappato ai miei fianchi durante la trasvolata. Non che la cosa mi desse fastidio, non era poi così differente dallo stare in motorino. La differenza era che il grifone non era sellato e che dovevamo davvero aggrapparci gli uni agli altri per evitare di cadere.
Mentre volavamo riuscii finalmente a concentrarmi sulle informazioni ricevute e articolare un:     
«Sono…» Ma non completai la frase, c’erano così tante cose da dire, che rischiavo di creare nuove parole nel tentativo di dirle tutte e, di creare frasi senza nessun senso logico. Lo guardai in cerca d’aiuto e completamente spiazzata da questo allargamento dei miei orizzonti e, i suoi occhi ghiacciati si addolcirono in uno sguardo compassionevole. Fu così che capii che aveva compreso perfettamente quanto fossi spaventata. Era come se dopo aver camminato sempre a testa bassa avessi alzato la testa e, avessi scoperto l’immensità dell’orizzonte. Avrei dovuto sentirmi importante, ma la verità era che mi sentivo impotente e assolutamente microscopica. Sentivo tutta l’insensatezza di questo paradosso. Come poteva un essere umano come me, tanto piccolo, di fronte al mondo, farsi carico della vastità dello spazio? In una sola ora era riuscita a scoprire ciò che, se aveste atteso la liberazione e la riconquista degli Inferi. «Devo… Devo farci l’abitudine, ecco.» boccheggiai alla fine, anche se avevo paura. Sapevo di essere importante, ma non immaginavo fino a questo punto.
Tornai a guardare il panorama sotto di noi che scorreva rapido come le strisce dell’autostrada; con la consapevolezza, ormai piena, del perché tutti mi cercassero e mi volessero. Accecati dal mio potere, invece che dalla mia persona. E, francamente, questa cosa, mi feriva; avrei preferito non avere alcun potere invece che averne uno che mi metteva in una posizione così pericolosa. Perché non potevo essere una Saint come tutti gli altri? Ma mi bastava essere solo una Saint oppure mi piaceva anche essere questo? Voglio dire, questi poteri erano una parte di me, in fondo. E, appena giunta a questa conclusione, mi maledii per aver pensato queste stronzate.
Raggiungemmo il resto dell’esercito in poche ore. Si erano trasferiti esattamente oltre la coltre di nebbie e vapori. Ciò che mi soprese furono le zone termali e boscose che, prima non avevo notato. Mi accigliai mentre il grifone atterrava. Non mi sembrava di aver notato niente di simile, prima.
Il grifone atterrò in uno spiazzo libero e ripiegò le ali, sicché noi potessimo scendere e, Camus mi porse la mano per aiutarmi e non rifiutai. Un gesto di gentilezza era una cosa rara qui, non me lo sarei fatto sfuggire per niente.
Ma era anche vero che non potevo permettere che continuasse a cercare di proteggermi. Dovevo cavarmela da sola. Non ero inferma da dire “ho bisogno di aiuto”, non ero una damigella in pericolo e non ero la Dea Atena. Non doveva pensare a me come una specie di ragazza fragile o da tesoro da proteggere. Per quanto apprezzassi la sua gentilezza e la sua solidarietà, non volevo che finisse nei guai a causa mia. Ecco, adesso cominciavo a capire che cosa dovesse pensare Lady Isabel quando combatteva. O cosa dovesse pensare Yoshino. Nah, Yoshino non pensava così. Non volevo neanche ricorrere troppo spesso alla Dark Resurrection.
Menta s’avviò verso le tende che gli Specter stavano rimontando ma io non mi mossi, solo dopo mi accorsi che Camus era ancora accanto a me e mi fissava. Indeciso se essere preoccupato o se attendere una mia reazione di qualche tipo. Probabilmente isterica. Eppure, sotto quel punto di vista ero tranquillissima. Gli domandai, perplessa: «Ho qualcosa in faccia?»
Lui si ricompose e rispose un frettoloso: «No, no».
«Ok, no, chiedevo perché mi era sembrato».
«Ho dato quest’impressione?» Chiese.
«Sì».
«Scusami, mi ero solo incantato». Ribatté velocemente, forse timoroso di avermi messa a disagio. O più probabilmente, che qualcosa avesse potuto approfittare del suo stato di trance per aggredirmi.  In effetti era un rischio da considerare, visto che tra le armate di Hades c’erano anche dei mostri ctoni e gli Specter erano piuttosto… aggressivi e vendicativi anche adesso. Soprattutto adesso che erano stati costretti a sloggiare a causa di Minos.
Annuii: «Ti capita spesso di incantarti?» Gli chiesi.
«No». Peccato, sarebbe stato più umano. Poi, per liberarsi dal momento di imbarazzo, se ne uscì con un: «Senti…» Ma io lo bloccai giocando d’anticipo, «No». Mi guardò perplesso, prima di farmi eco, con tono interrogativo: «No?»
«No, scusami, è stata una giornata stressante, non ho voglia di affrontare questo e altri argomenti… io, ho bisogno di schiarirmi le idee, fare qualcos’altro».
«Capisco, ti vuoi allenare?»
«No, non… devo fare qualcos’altro».
«E cosa?»
«Devo costruirmi quell’armatura».
«D’accordo, ma come pensi di fare?»
«Credo che dobbiamo tornare a vedere dei campi di battaglia».
«I campi di battaglia?»
«Sì, ammesso che ci sia rimasto qualcosa, come un frammento».
«Hai intenzione di prendere pezzi di Surplici da dei cadaveri?» Mi domandò, disgustato, cercando di tradurre le mie intenzioni a parole. Effettivamente l’idea faceva ribrezzo anche a me. «Non è che io abbia molte alternative e, te lo sogni che io mi faccia proteggere da te. Non che non mi dispiaccia», aggiunsi in tono più dolce, sentendomi scaldare le guance, «apprezzo tantissimo la tua gentilezza, credimi, è solo che devo anche essere capace di proteggermi da sola e, in questo anche una Surplice potrebbe essere già d’aiuto. Non voglio esserti di peso più di quanto già non sia». Che mi ricordavo bene quanti problemi avevo dato ai suoi compagni, prima di finire qui. Non che una corazza potesse servire a limitarmi, però era già una sicurezza in più. 
Un altro Saint probabilmente mi avrebbe guardato con gli occhi fuori dalle orbite. Avrebbe pure cercato di ricordarmi che non potevo e che ci avrebbe pensato lui, ma Camus no. Lui mi appoggiò, anche se l’idea lo faceva vomitare e, si vedeva. «Non hai tutti i torti, anzi, ti capisco». Mi trattenni dal mollargli una sberla, ma non perché la sua risposta mi dava sui nervi, bensì perché a volte il suo comportamento, era veramente irritante. Cioè, possibile che la gamma delle sue emozioni fosse tutta qui? A volte mi domandavo se fosse veramente umano. Io mi vantavo di avere una mente fluida, che si adattava alle situazioni e trovava in fretta le soluzioni, però lui sembrava averne una ancor più fluida di me, a dispetto del gelo che emanava. Sinceramente, non lo capivo proprio.
Preferimmo però pensarci l’indomani. Tanto, il giorno della battaglia era ancora lontano.

Fu strano per me svegliarmi dopo un sonno agitato e senza sogni, nell’accampamento sotto una tenda improvvisata che prevedeva anche un carro a mo’ di sostegno e, perché no, camera. Dipendeva da come si sistemavano le tende. Per nostra fortuna avevamo trovato delle cerate e altre tende bucherellate e abbandonate dagli Specter e le avevamo raccolte. Avevamo lavorato sodo per delle ore, prima di cena e, anche dopo.
Menta aveva cercato di domandarmi perché non tornassimo al Padiglione della Caina, che sicuramente il Sommo Rhadamantys era preoccupato, ma io non volli sentir ragioni. Non avrei accettato mai più di dividere lo stesso tetto con un uomo della sua risma. Mi bastò un’occhiataccia per farla tacere e sentirmi chiedere scusa.
Per dormire avevamo usato delle coperte per farci da giaciglio e tenda. Non era granché, ma il suo lavoro di ripararci lo faceva. Poi avremmo trovato anche di meglio per costruire la nostra tenda.
Gli Specter e gli Skeleton restarono abbastanza sorpresi nel vederci in fila per la razione mattutina e, i cuochi, appena ci videro, mi guardarono malissimo e mi schiaffò nella rozza ciotola di legno la brodaglia.
“Buongiorno anche a te”, pensai ironica facendo un bel respiro profondo, mentre mi ripulivo gli schizzi con la manica della mano libera. Ci mancavano solo il risentimento e la colpevolizzazione della vittima.
Poi, me ne tornai alla tenda con Menta. La quale si colpevolizzò subito per essersi svegliata tardi.
«Non importa, su, vai a prendere la colazione». Dissi accomodandomi accanto a lei.
«Mia Signora, avete controllato che sia quella che servono ai Vivi?» S’informò e io fermai il cucchiaio a mezz’aria. In effetti no. «No, in realtà no, non ci ho pensato». Mi scoccò un’occhiata riprovevole e decretò che sarebbe andata a verificare di persona.
Quando tornò aveva una ciotola in mano a sua volta e mi confermò che potevo bere, peccato soltanto, che ormai la colazione mi si fosse già raffreddata. Con un notevole sforzo di volontà, la bevvi lo stesso.
Poi, andammo a cercare Camus e lo trovammo alla sua tenda che indossava gli stivali. Fu una cosa strana per me vederlo compiere un gesto tanto umano. Menta lo salutò prima di me e lui ricambiò con un vago sorriso e un cenno del capo. I disegni blu sul suo corpo erano più nitidi di prima; probabilmente Fianna o qualcun altro glieli aveva rifatti. 
Non avevo mai ponderato l’idea di farmi un tatuaggio, però a vedere quei disegni così ben fatti e ricchi di significato mistico, mi venne voglia di farmene uno a mia volta. Magari permanente e non con l’henné come sopra. In fondo, fin da quando avevo sedici anni mi sarebbe piaciuto tatuarmi, solo che non avevo mai trovato il coraggio di farlo veramente, né la motivazione giusta. 
Camus si accorse che fissavo i serpenti blu sui suoi polsi e i suoi bicipiti e mi rinvenni: «Bei tatuaggi, mi piacciono molto». Mi complimentai, domandandomi perché non li avessi notati prima.
«Grazie, me li hanno fatti i druidi e ora ho pure una ghianda in testa, mi sento un po’ Shaka, adesso», fece sorridente scostandosi la frangia per mostrarmi la ghianda blu al centro della sua fronte, poi la lasciò ricadere al suo posto. Non pensavo che avesse un disegno anche lì, proprio come un vero bardo, «potresti chiedere anche a loro». Fece finendo di allacciarsi gli stivali e passare ad avvolgere gli avambracci nelle fasce che conoscevo a tutti i Saint. Dopodiché ci avviammo alla zona. La parola desolazione non era sufficiente per descrivere appieno quell’ex campo di battaglia. 
Ma le parole che suggeriva come decomposizione, sconforto e morte, lo erano. C’erano persino le mosche e gli avvoltoi e strani uccellini monocoli neri che osservavano tutto e becchettavano qui e là. Probabilmente la presenza degli insetti era dovuta a Veronica di Nasu. Che io sapessi, era l’unico Specter ad avere il controllo sugli insetti, le mosche in particolare. 
Fu Camus a suggerirci di guardare, prima di tutto nei dintorni e poi di ampliare il raggio d’azione. E, fu sempre lui a suggerire di darci appuntamento a un luogo comune, sì da evitare inutili scarpinate.
«Scarpinate?» Domandò Menta, confusa mentre scandagliavo la zona con i miei occhi, cercando di ignorare il tanfo e il fatto che fossero cadaveri. «Sommo Camus, non lo sapete? Noi non viviamo più al Padiglione della Caina».
Camus ammutolì. In quel momento mi inginocchiai di fronte a un cadavere. Sempre sforzandomi di rimettere, esaminai l’armatura nera con lo sguardo.
«Ah, no? Quando vi siete trasferite?»
«Ieri sera. Adesso viviamo nel bel mezzo dell’accampamento degli Specter, abbiamo costruito una tenda lì».

Trovai un pezzo che sembrava fare al caso mio e, ignorando il disgusto che provavo, glielo tolsi e, me lo adagiai sulla pelle del polso. No, non mi cingeva completamente, era troppo grande. Perciò provai ad appoggiarlo alla caviglia sinistra. Intanto anche Camus me ne passò un altro. Lo guardai per chiedergli il permesso e lui annuì, sicché disegnai la sua costellazione con i collegamenti. Restammo un momento a fissarli, dopodiché strinsi le labbra, pensierosa, quasi di riflesso a lui che, nella sua discrezione, stava preparandosi a sopportare un grande dolore. Invece, presi solo un filamento d’oro da uno dei collegamenti dell’Acquario. Lui sussultò e mi allarmai un attimo. Credevo di essere stata delicata. Gli chiesi se fosse tutto a posto e lui confermò dicendo di aver sentito un pizzicotto. «Scusa». Mormorai prima di cominciare a usare il filo per saldare insieme i due pezzi. Il filo, poi, si amalgamò e fece come da collante tra i due pezzi. Ci battei le dita e provai a raschiarlo via con un’unghia, ma il filo restò lì. 
Mi alzai e mossi qualche passo. Poi azzardai qualcosa in più, come un salto e una corsetta: «Come te la senti?» Mi chiese quando tornai. 
«Un po’ più pesante, ma credo che mi abituerò». Per il resto i pezzi mi cingevano perfettamente.  
Guardai Menta e mi parve di vederla più rassicurata. Sguardo che andò a farsi benedire quando non ce la feci più e vomitai.

Nei giorni seguenti, dopo il solito sonno agitato a causa delle rivelazioni, il «Bonjour finesse» da parte del cuoco e i soliti sguardi di disgusto di chi ci circondava, dopo una lavata veloce alle terme, tornammo a rovistare.
Ma non trovammo niente di utile, perciò provammo a un altro accampamento. Lì trovammo dei pezzi apparentemente in buone condizioni, peccato solo che quando li toccammo divennero polvere. E io non avevo poteri per riportare in vita una Surplice. Muovere le cloth è un conto, ma le Surplici no. Avevo provato a fare questo scherzetto a qualche Specter, ma non c’era stato verso.
Mannaggia.
Comunque continuammo ad andare avanti nella raccolta. La cosa si ripeté per parecchi pezzi, prima di trovare quelli che non si sgretolavano.
A un tratto Camus, i capelli raccolti per evitare che si sporcassero, buttò lì un commento tanto per spezzare il silenzio, finora interrotto dagli ululati dei refoli di vento.

«Certo dev’essere scomoda quella gonna». Facendo scivolare lo sguardo sulle pieghe del tessuto. Ma lo contraddissi dopo aver stretto le labbra un momento: «Neanche più di tanto, lo sapevi che in origine le Guardie Svizzere combattevano con questi sottanoni?»
«Davvero?» Chiese, cercando di concentrarsi sull’informazione. Sempre meglio che concentrarsi su ciò che stavamo facendo. Non lo biasimavo affatto per questo, anch’io volendo avrei preferito fare altro. 
«Sì, bè, puoi sempre considerarmi una Guardia Svizzera fuori misura». Scherzai. Non avevo neanche tutti i torti, visto che erano sul metro e novanta centimetri. Il mio sorriso si afflosciò, perché nella mia mente fece capolino l’immagine di un altro soldato che li eguagliava in altezza. Saga. Già, anche i gemelli del Tempio erano alti così.
Osservò il modo in cui mi ero legata sul fianco un lembo della tunica lacera intralciasse troppo i miei movimenti. Più volte Camus si era offerto di tagliarmi l’orlo, ma avevo sempre rifiutato. Dal canto suo non capiva come facessi a muovermi senza troppi problemi. Mesi di allenamento, presumo. Non mi sarei mai aspettata che allenarmi e correre dai miei allievi di nascosto indossando le tuniche dei servi potesse sortire quest’effetto.

«Invece potresti rispondere tu a una domanda?»
«Se posso».

«Mi stavo chiedendo, perché esiste uno Specter della Farfalla?» Lui aprì bocca per iniziare il discorso, ma non seppe come continuarlo. Finì per assumere un’espressione dubbiosa e tacere.
Avevamo raccolto alcuni pezzi che mi sembravano buoni, quando vidi splendere qualcosa. Mi avvicinai e tolsi, non senza qualche difficoltà, il cadavere da sopra la cosa che luccicava. Fu allora che rinvenni una parure a forma di orecchio di drago. Aveva due antenne come di farfalla, sovrapposte, che si incurvavano dolcemente verso l’interno, di grandezza crescente. L’orecchio era protetto dagli inserti dorati che lo cingevano superiormente e, posteriormente, si allungavano verso il basso, dopo aver sostenuto la parte di rubino che era tagliata, appunto, in tre listature come s’immaginavano che fossero le orecchie di drago. La prima delle quali, era inserita esattamente nella listatura che si allungava dietro le antenne dolcemente ricurve. La parte inferiore terminava con una punta che proteggeva il collo lateralmente. Era un po’sporca ma era molto bella e, accanto a essa, c’era un bracciale femminile che fasciava diagonalmente il polso, dello stesso materiale. Forse non era granché, ma se avessi trovato un’altra parure come questa avrei potuto ricavarne un elmo. Non che mi piacesse l’idea di indossare qualcosa che me lo ricordasse, ma era già una sorta di protezione. La punta del bracciale invece, mi proteggeva, almeno in parte il dorso della mano. Per la parure non c’era problema, mi sarei fatta fare dei nuovi buchi a un orecchio. Avevo l’impressione, infatti, che non si sostenesse da sola con l’ausilio di un buco solamente, come invece era il mio caso.

Li misi entrambi nel sacco che mi ero portata dietro (in realtà una delle coperte del nostro alloggio). Proprio allora Menta si rialzò e si spolverò le mani sulla sottana e, ci avvisò che qualcuno stava arrivando. Guardammo entrambi nella sua direzione e vedemmo uno Skeleton raggiungerci. Lo seguimmo con lo sguardo e poi, quando fu dinanzi a noi, lo salutammo. Il nuovo arrivato ricambiò, un po’sorpreso e, c’informò che ero stata invitata al Padiglione della Giudecca per mezzogiorno, che, la Somma Sacerdotessa degli Inferi, avrebbe gradito che io fossi stata ospite per pranzo. «Capisco, grazie per l’informazione».

Camus si accigliò sospettoso, nel sentire il nome di Pandora. Mentre a me, anche se cercai di nasconderlo il più possibile, il cuore mancò un battito.

Camus mi scoccò un’occhiata interrogativa ma non disse niente. Quando fu il momento di rientrare, dissi a Menta di prepararmi un panino in fretta e furia. Lei obbedì. «Non ti fidi di Pandora, vero?»
«Diciamo che fidarsi è bene, non fidarsi è meglio». Mi costrinsi a dire. Poi, conoscevo il trucco adoperato da Hades per legare agli Inferi Persefone, non volevo rischiare.
«Tutto bene? É tutta la mattina che sei strana». Chiese, avvicinandosi di un passo.
«Sì, tutto a posto, è solo la… distesa che mi scombussola», mentii. Non mi andava di dirgli che in realtà temevo di sapere già chi fosse questa Pandora. Come avrei voluto parlare con il mio maestro adesso. Ci avevo provato, ma lui non mi rispondeva. Come se il nostro contatto telepatico fosse stato interrotto.
Menta tornò trafelata con quanto richiesto e io mangiai e bevvi. Alla fine mi pulii le mani al vestito e dissi: «Bene, mi faresti strada, per piacere?» Chiesi, titubante, per farle fare qualcosa che non fosse fissarmi come un baccalà.
«Certo».
Salutammo Camus che, per tutto il tempo continuò a osservarmi con preoccupazione, ma non ci raggiunse né ci disse niente. Credo che avesse deciso di fidarsi di me, dopo le rivelazioni dei giorni scorsi. Rivelazioni che, comunque, ancora mi sconvolgevano.
Fui accolta nella sala del trono, una sala molto simile a quella del palazzo del re dei Vichinghi de Il tredicesimo guerriero. Però fui scortata a un lato della stessa, fui fatta accomodare dalle Velate e mi fu servito un pasto caldo. Pasto che, però non toccai. Chiesi quando sarebbe arrivata la mia ospite, ma nessuna di loro mi rispose. Osservandole mi si accapponò la pelle: sembravano assenti, manovrate, a differenza di quelle del Pico de Paperis infero.
Poi, dopo un’ora passata a rimuginare e rigirarsi i pollici, le Velate si accesero di nuovo e cominciarono a sparecchiare. 
«Ehi, ma, per il vassoio?» domandai indicandolo titubante.
«Non preoccupatevi, ce ne occuperemo noi». Mi garantì la voce femminile di un’altra Ninfa Stigia; probabilmente una delle tante sorelle al plurale di Menta. A differenza della sorella, però, era più fredda.
Certo, che stupida, ormai era la mia deformazione professionale. «Prego, vogliate seguirmi». M’invitò facendomi cenno di seguirla con una mano; mi alzai e mi lasciai guidare fino a una porta secondaria da cui proveniva, attutita, della musica. Questo cerimoniale mi strappò un sorriso di confusione. Non era che fosse molto grande e non che ci fosse molto da fare; bastò aprire la porta che ci trovammo in una saletta vuota. Una sala che, a giudicare dalla mobilia, era una camera da letto. Mi sarei quasi aspettata di vedere Pandora qui, per questo tirai un sospiro di sollievo.      
Poi, inciampai nell’orlo dell’abito e cascai in avanti con un tonfo.
Come temevo, il nodo ai brandelli si era sfatto. La poveraccia sembrò indecisa se scoppiare a ridere o se aiutarmi mentre mi riallacciavo il nodo. «Milady Astrid, state bene?» Mi domandò preoccupata, osservandomi mentre l’affiancavo di nuovo, davanti alla porta da cui proveniva, un po’più forte, la musica.
«Sì, credo».
«Siete sicura di non volervi fermare un po’?» “E che è ‘sto posto? La reggia di Versailles?” Perché detto così sembrava che il tragitto fosse lungo chilometri invece che qualche metro in più del Padiglione della Caina. «Assolutamente». Dopo la scalinata delle Dodici Case e tutti i sentieri che avevo battuto che vuoi che mi facesse un Padiglione? L’unica cosa che lo differenziava degli altri, oltre il legno erano le stanze e l’arredamento.
Aprì infine la porta da cui proveniva la malinconica melodia di un’arpa. Sgranai gli occhi e trattenni il fiato rumorosamente di fronte alla Somma Sacerdotessa degli Inferi. Era una donna sui quarantaquattro anni, di bell’aspetto, seduta vicino a una grande arpa. I capelli lisci e di un nero lucido, le sfioravano le ginocchia in una massa uniforme e perfetta. Il volto ovale di una donna in salute faceva da contrasto con il luogo tetro di cui era padrona. Le membra pallide e delicate suggerivano la sua stretta materna e calda, a dispetto dell’ossatura ancora delicata. A darle un tocco di colore era il fiore che portava dietro l’orecchio. Il trucco sugli occhi contribuiva solo ad accentuare la sua bellezza e l’abito viola con le decorazioni fiammeggianti la rendevano più regale che mai. Come il mala che le cingeva i fianchi, la collana e la parure a forma di serpente purpureo sulla mano.
Appena si accorse della mia presenza mi guardò e trasalì. Smise di sfiorare le corde con le belle unghie smaltate laccate. Poi prese a battere più volte le palpebre per l’incredulità. «Non è possibile!» Esclamai e lei: «Sei tu!» Poi scese dalla pedana e mi venne rapidamente incontro a braccia tese.
«Tata!» Esclamai a mia volta, incredula mentre sollevavo le mie e lei mi stringeva a sé come una madre, inondandomi le narici del suo profumo preferito e il cuore del suo immenso affetto. Non mi ero sbagliata, era veramente lei.
«Non ci credo… Non posso crederci, sei veramente tu, Astrid?» Mi domandò scrutandomi quando si discostò quel tanto che bastò per guardarmi in faccia. Adesso il mio volto era di nove centimetri più in alto del suo, ma tra le sue braccia mi sentii tornare bambina.
Le sue iridi erano accese di commozione, felicità e di sorpresa. Non avrei mai creduto che avremmo finito per ritrovarci in un posto come questo. Sembrava volermi comunicare che non mi avrebbe lasciata andare mai più. E mi ritrovai d’accordo.
«Mio Dio, mio Dio, mio Dio, quanto tempo, fatti guardare; oh, Astrid, sei cresciuta tantissimo». Mi strinse di nuovo a sé promettendomi che da adesso in poi sarebbe andato di nuovo tutto bene. Che almeno mi aveva ritrovata, che ero di nuovo con lei e io ricambiai la stretta, sorpresa mentre il suo profumo mi entrava nelle narici inondandomi gli occhi di lacrime. La strinsi più forte.
Si scostò da me per guardarmi un’altra volta e poi abbracciarmi di nuovo, commossa e tempestarmi la faccia di baci come quando ero piccola. Sentii gli occhi pizzicarmi di lacrime.
Si staccò un’altra volta, continuando però a tenermi per le spalle. Poi mi circondò il viso con le belle mani profumate, lisce e curate. «Perché non me l’hai mai detto? Allora era per questo che non sei potuta venire a trovarmi in Grecia, perché tu sei la Somma Pandora». Dissi e lei chinò il capo imbarazzata, il sorriso cancellato. La felicità offuscata. Altro che supplenza al conservatorio, non era potuta venire perché dirigeva le fila del Dio dell’Oltretomba!
Mi carezzò le spalle prima di stringerle e scusarsi: «Lo so, hai ragione ma non volevo che… che voi due finiste coinvolte, mi vergognavo».
«Zia, ma tu sei la sorella terrena del Dio Hades!» Esclamai io a occhi sgranati. La mia madrina era… «Cosa c’è da vergognarsi?» Aggiunsi poi con orgoglio che poi divenne timore, perché lei era pur sempre una nemica del Santuario. E, anche lei lo sapeva. Mi maledissi per aver parlato a sproposito. 
Ma in questo momento non era quella donna, questa era la mia seconda madre.
«É una pagina del mio passato che non volevo che scopriste, mi dispiace, desideravo soltanto proteggervi». Rispose abbassando gli occhi.
Stavolta fui io ad abbracciarla, strappandole un sussulto. «Non importa zia, non importa, ti capisco».
La sentii sorridere e rilassarsi, mentre ricambiava un’altra volta: «Oh, bambina mia, sono tanto contenta di rivederti».
Mi tenne sottobraccio e mi fece accomodare sulla poltrona del suo salottino privato, vicino all’arpa. Poi prese posto su quella di fronte a me. A separarci un tavolino da tè. La zona era rischiarata da delle candele ma era molto più accogliente che nel resto del suo palazzo e, i colori, erano più facilmente distinguibili.
«Cosa ci fai tu qui? Ti credevo al sicuro, perché non sono stata informata dai tre Giudici Infernali?»
«É una storia un po’complicata, zia. Ma cosa ci facciamo in un posto come questo? L’ultima cosa che ricordo è una svitata che mi uccideva». Dissi io.
«Qualcuno ha tentato di ucciderti? Chi diavolo è quello svitato che lo faccio a pezzi con le mie stesse mani?» Sbottò adombrandosi.
Avevo dimenticato che la tata era molto protettiva nei miei confronti. Ero ancora il suo fiorellino delicato, come mi chiamava quando ero molto piccola e quasi litigava con mia madre per passare il tempo insieme a me. Comunque le risposi e lei spalancò gli occhi, ma non avrei saputo dire se per la sorpresa o per l’orrore: «Della costellazione… Astrid, non avrai mica a che fare con il Grande Tempio?» Domandò. In effetti le uniche persone legate alle costellazioni che si potevano trovare risiedevano lì. “Eh, sai, da tutta una vita, a quanto sembra”. Pensai tra me e me, ma evitai di dirglielo; qualcosa mi diceva che non le avrebbe fatto piacere saperlo e, poi, nelle e-mail che ci eravamo scambiate, non le avevo affatto parlato del Grande Tempio. Ad ora credeva ancora che i miei nuovi amici fossero veramente dei patiti di cosplay. Ma dire a mia zia la verità poteva essere scioccante. Avevamo già perso la mamma, dirle che ero l’apprendista di Odysseus di Ophiuchus sarebbe stato un colpo ancora più grande. La solitudine della tata era sempre stata immensa, io e la mamma eravamo per lei la sua fonte di felicità. E, questo l’avevamo sempre saputo. «Eh, sì».
Lei mi lasciò andare le spalle: «Come è possibile? Mi avevi detto che ti eri trasferita ad Atene dopo che i tuoi salvatori ti avevano lasciato andare, con tanto di risarcimento». Chiese basita. Un risarcimento un po’misero secondo me. Ma decisi di soprassedere per raccontarle come era iniziata tutta la storia. Avevo appena iniziato che, al solo sentire i tre Giudici Infernali m’interruppe. «Cosa? Quando?»
«Ad aprile dell’anno scorso, quando mi hanno aggredito».

«Quei tre hanno fatto cosa? Oh, ma adesso li sistemo io! Giunchiglia!» Con una sincronia invidiabile, l’ancella infernale aprì la porta, recando con sé un vassoio con teiere, tazze e pasticcini. Si bloccò di colpo di fronte all’espressione adirata della tata e sgranò gli occhi. «Mia Signora?» Domandò mentre la domestica ci raggiungeva. La zia le strappò il vassoio di mano e ordinò, alterata: «Mandami immediatamente i tre Giudici Infernali. Ora! E, che non tardino nemmeno di un secondo!» La Ninfa sgranò gli occhi per la paura e annuì. Poi uscì rapidamente, chiudendosi le porte dietro le spalle.
Ribollente di rabbia, la tata posò il vassoio sul tavolo (mi sorpresi che non si fosse spaccato tutto, per l’impeto con cui ce lo mise) e poi tornò alla sua arpa. Io me ne restai seduta al mio posto, guardandola preoccupata. Che aveva intenzione di fare? Pochi istanti dopo la porta si aprì di nuovo e i tre fecero la loro comparsa. «Lady Pandora», salutarono rispettosamente, genuflettendosi sul ginocchio destro.
«Come avete osato?» Urlò la tata e la sua voce rimbalzò per tutta la piccola sala. Non urlava quasi mai ma quando lo faceva un gelido brivido di terrore scuoteva la schiena e stringeva le budella come fossero un cencio bagnato.
I tre alzarono il viso di scatto, confusi e spaventati mentre la loro comandante continuava: «Come avete osato? Con che coraggio avete osato toccare la mia figlioccia?»
«Signora?» Domandò Minos del Grifone, ancora confuso.
Aiacos di Garuda, timidamente, aggiunse, «Di chi state…?» Ma non riuscì a completare la frase che un altro urlo l’investì in pieno tutti e tre: «Di Astrid av Stjernene! Che cosa vi passa per la testa? Era questo quello che vi aveva ordinato di fare quella notte? Come avete osato? Vi avevo detto di opporvi al controllo mentale di Don Avido, non di assecondarlo! Siete degli emeriti incapaci; tra tutti quelli che vivono sulla Terra avete coinvolto nella Guerra la mia figlioccia!» Si accomodò rapidamente sullo sgabello vicino all’arpa e mise le mani in posizione per suonare.
Io mi accigliai, tenendo le mani sul bracciolo. Cosa voleva fare? Guardai i miei aggressori; anche loro sembravano spaventati.
«Nobile Pandora ci perdoni, noi non ne sapevamo niente». Prese a giustificarsi il moro. Non l’avevo mai visto così, privo della sua baldanza e della sua follia che lo caratterizzava. 

«Non l’abbiamo riconosciuta, sono passati anni dall’ultima volta che…» S’aggiunse Minos e, come se quelle parole avessero fatto scattare qualcosa, io mi ricordai anche degli Specter che girovagavano per villa Heinstein e che avevano combattuto contro i Driadi quando vennero a rapirmi undici anni fa.
«Tacete!» Ordinò la zia troncando il resto della frase di Minos, che risuonò quasi come un borbottio, a confronto: «Non avevamo idea che fosse la stessa av Stjernene che conoscevamo».
Cosa? Ci conoscevamo già? Bè, aveva senso, considerando che avevo vissuto a stretto contatto con la zia a lungo. Ma se di alcuni Specter mi ricordavo, perché di questi tre no?
Ma al momento mi interessava di più vedere come li avrebbe puniti.
La zia divenne totalmente impassibile, come se si fosse calmata. Poi, glissò una nota. La corda della sua arpa fu percorsa da scariche elettriche che si propagarono come un filo verso i tre malcapitati.
Io balzai in piedi e sgranai gli occhi orripilata e affascinata insieme, tenendomi le mani sulla bocca. Non temevo di diventare una persona pessima. Anzi, io stessa avevo vissuto un periodo in cui distruggevo quasi ogni cosa che toccavo per poi rendermi conto di ciò che avevo fatto e pentirmene subito dopo: si chiamava adolescenza. Ma quello che provavo era una cosa diversa ancora; era un’immensa soddisfazione. Il fatto che ci conoscessimo già non li giustificava affatto, nessuno dei tre.
«Aspetta, zia!»
La tata si fermò. «Che cosa c’è, Astrid?» Domandò con un tono che non ammetteva repliche.
I tre Specter fumiganti mi guardarono a occhi sgranati, sorpresi di trovarmi lì. Ricambiai gli sguardi.
Questi erano i tre che mi avevano pestato a sangue, quelli che mi volevano morta. Li avevo già salvati una volta dalle Creature e mi avevano detto che la riconoscenza agli Inferi non esisteva. Inoltre, adesso sapevo usare abbastanza bene i miei poteri e, se avessi gridato, le Creature sarebbero accorse subito. E, loro lo sapevano.
Mi avvicinai alla tata, che fino a quel momento mi aveva accompagnato con lo sguardo. Poi li guardai con occhi pieni di odio e di vendetta. «Niente, volevo soltanto chiederti se puoi pizzicare un po’di più le corde della tua arpa elettrica: mi piacerebbe sentirli cantare». Dissi volgendo la testa verso di loro, di modo che potessero ammirare il sorriso malefico che mi si era stampato in faccia.  Calcando bene l’accento sull’ultimo verbo.
I tre ancora inginocchiati, impallidirono di colpo. Il Garuda trasalì, riconoscendo queste parole.  
“Speravate davvero che me ne fossi scordata?” Pensai continuando a sorridere, guardandoli a braccia incrociate, intanto che con un dito che mi carezzavo le labbra. Pensavano di aver avuto tra le mani un soffice, gracile canarino, non un letale uccello rapace decisamente più grande e forte.
Mi dovevano un anno di vita perduto, mi dovevano l’amore rubato per la notte, mi dovevano la Luna e le stelle, la tranquillità che mi avevano sottratto. Le ossa che mi avevano rotto, la pelle che mi avevano ferito, il sangue che avevo perso, i muscoli che avevano maciullato e la vita che avevano cercato di togliermi. La mia famiglia, alla quale mi avevano strappato, costringendo Aphrodite e Death Mask a salvarmi. Credevano sul serio che solo perché li avevo salvati mi sarebbe importato qualcosa dopo? Non con tutto il male che mi avevano fatto. Anche se questo non avrebbe che portato all’acuirsi dell’astio già corrente tra noi, non m’importava. Non avrei mai avuto la soddisfazione di vederli in carcere. E, anche se la vendetta non era sufficiente e non mi avrebbe mai restituito niente di tutto ciò, potevo almeno esigerne una simbolica. E, la esigetti.

Mi pregustai le loro grida.

La zia soppesò la mia richiesta e, dopo qualche secondo, glissò di nuovo una corda della sua arpa e delle scariche elettriche risalirono la corda partendo dal punto in cui l’aveva sfiorata, per raggiungerli, fargli abbandonare le posizioni e strappargli delle grida di dolore. Quando si ritenne soddisfatta, li lasciò andare. «Che vi serva di lezione. E ora lasciateci!» Esclamò ponendo le mani sulle ginocchia. 
I tre chinarono di nuovo il capo, ancora un po’ronzanti e fumiganti. Dopodiché si alzarono, leggermente traballanti e obbedirono chiudendosi la porta alle spalle.
«Bene e ora prendiamo il tè». Trillò la tata recuperando il sorriso e i modi affabili che le conoscevo con una rapidità allarmante. Come se non fosse successo niente. Ammisi con me stessa che se non l’avessi conosciuta fin da quando ero piccola, mi sarei spaventata molto di più di quanto già non fossi. Ovviamente il mio spavento era mitigato dalla contentezza per aver ricevuto il mio risarcimento simbolico. E dai dubbi. Mi venne da chiedermi chi fosse veramente: la comandante degli Specter o la migliore amica di mia madre? La donna che la mamma aveva scelto come mia madrina e tutrice in caso di prematura dipartita? Dov’era che iniziava una e finiva l’altra? Che certezza avevo che non stesse cercando di ingannare anche me? Dopotutto l’avevo vista nei ricordi di Death Mask, ma finora non l’avevo collegata a lei, a causa della lontananza del suo punto d’osservazione. Come avevo fatto a essere così stupida da non riconoscerla? «Su, vieni». M’invitò, tendendomi la mano come quando ero piccola. Feci per seguirla ma inciampai nei brandelli e cascai a terra un’altra volta. «Astrid!» Esclamò preoccupata mentre mi rialzavo borbottando imprecazioni contro il sistema politico italiano. Lei mi guardò ad occhi sgranati.
«Non è niente». Dissi poi, rialzandomi in piedi e spolverandomi l’abito, oggi il nodo proprio non voleva stare al suo posto. «Scusa per il linguaggio». Aggiunsi mettendomi seduta al mio posto. Nonostante tutto non avevo ancora perso il vizio, anche se imprecavo assai di meno di quando vivevo in Italia.
Sfiorai la teiera. Era ancora calda.  
«In effetti ero sul punto di rimproverarti ma non pensavo che fossero così strane».
«Lo so, sono astruse, ma mi hai insegnato tu a portare rispetto per le Divinità, perciò, se proprio devo imprecare, ho preferito abituarmi a berciare sui politici italiani e il loro lavoro e, ti assicuro che ogni giorno ce ne è una». Spiegai. Che mi ero tenuta aggiornata anche sul mio Paese.
«D’accordo, però ti sarei grata se tu usassi un linguaggio più consono». Ribatté sedendosi al suo posto.
«Ci proverò». Promisi.
«Comunque, stai bene? Non è che sei ferita?»
«Non preoccuparti sto benissimo è che non sono abituata a muovermi con un abito così lungo. Tutti i miei vestiti mi lasciano scoperti i polpacci, l’abito più bello che ho mi arriva al massimo alle caviglie». Anche se mi avevano detto che all’inizio le Guardie Svizzere combattevano con sottane lunghe quanto questa veste.
Lei cominciò a versare il tè nelle tazze. «Come ci sei finita al Santuario di Atena, piccola mia?» Domandò preoccupata mentre mi servivo i pasticcini. Le risposi che, paradossalmente lo dovevo proprio ai tre Giudici Infernali. E le raccontai di come il loro accanimento avesse costretto i due Saint a ricorrere a misure drastiche. Avrei preferito un metodo diverso. io non avrei mai ricordato di appartenere a questo mondo. L’unica cosa che mi dispiaceva era che le regole dei civili non valevano anche qui.
«E, da allora sei rimasta laggiù? Avevo capito che eri tornata a casa e poi che è successo? Perché sei tornata in Grecia?» Le raccontai anche tutta la faccenda della mia cacciata e di Aurel e di come avessi deciso di restare. «Mi dispiace non aver risposto subito alla tue e-mail, al Santuario non c’è connessione. Perché hai ordinato a quei tre di venirmi a cercare?»
«Io non ho mai ordinato di cercarti. Fino a poco tempo fa Don Avido li usava come pedine per i suoi giochi e poi li riponeva in apposite prigioni atte a contenere le loro forze e a impedire le loro menti. Mi dispiace, non immaginavo che il nemico ti avesse già individuato e avesse riconosciuto in te…».
«Don Avido? Ne ho già sentito parlare». Mormorai pensierosa. I Black Saint del presente non me ne avevano neanche accennato. Non che io avessi chiesto qualcosa. «É il nostro avversario, è a lui che stiamo cercando di strappare gli Inferi». Spiegò rapidamente. Assottigliai gli occhi. Allora Rhadamantys aveva detto la verità quando mi aveva spiegato i motivi per cui mi aveva risparmiato e portato qui. Servivo veramente alla loro causa. «Prima stavi per dire che aveva riconosciuto in me che cosa?» Domandai accigliata.
«Niente di importante».
«Zia, sono abbastanza grande per sapere». Le ricordai incrociando le braccia. Volli apparire coraggiosa, non so neanche se ci riuscii, perché in realtà, mentre mi stringevo l’addome sotto la manica a pipistrello, mi sentivo sul punto di cadere in pezzi. «E se non me lo dirai tu troverò le risposte da sola e, sta pur certa che le troverò o che ci arriverò». Promisi. La zia mi guardò sbigottita. Sembrò quasi domandarmi con gli occhi, se ne fossi capace. Alzai le spalle: «Diciamo che ho gli indizi. La mamma lo sapeva?» Domandai poi, accennando con un dito, che sollevai, alla sua veste nera. Mi faceva uno strano effetto vederla con indosso solo abiti scuri, di solito me la ricordavo abbigliata con abiti a fantasie floreale e colorati. 
«Soltanto una parte. Lei sapeva che sono una Sacerdotessa e credeva che i tre Giudici Infernali fossero spiriti alle mie dipendenze, ma non era a conoscenza del resto». Spiegò imbarazzata.
Assentii con il capo. «Capisco». Fino a questo momento non avevo ancora realizzato che fosse passato tutto questo tempo. Lei si accorse del mio turbamento e domandò, in tono delicato cambiando discorso: «Dimmi, ti trattano bene?» Sorrisi e risposi, convinta: «Più che bene». Ed era la realtà.
«Ma allora perché ti sei ridotta a far loro da corvée?» Domandò preoccupata e quasi inorridita mentre si portava la tazza alle labbra e soffiava per raffreddarla.
Accavallai la gamba e inghiottii il pasticcino, cercando di rispolverare le lezioni di bon ton che mi aveva imposto da bambina quando giocava con me a prendere il tè, ovviamente, quando non mi allenavo con il maestro Odysseus. 
«Perché volevo tornare a casa con le mie gambe, non sfruttando un passaggio non richiesto alla stregua di un pacco postale o una principessa in pericolo. Volevo avere i soldi e i documenti necessari, che ho perso proprio la notte dell’aggressione, capisci?»
La tata mi sembrava sempre più sconvolta. Alla fine si ricompose e riuscì a dire: «Mia povera bambina, mi dispiace, non sai quanto mi dispiace. Avrei dovuto capirlo subito, oh, perché sono stata così cieca? Che cosa è mai accaduto per far sì che i nostri nemici si accanissero su di te in questo modo?» Domandò ancora, in pena e, nel dirlo, ne riconobbi la sincerità. Lo stesso sguardo con cui aveva pattugliato la sua villa quando passavo le mie estati con Odysseus. Povera donna, doveva essere stato un colpo per lei sapere che i suoi sottoposti (?) mi avevano quasi ucciso. 
«Perché ho letto la mano al Gold Saint di Cancer». Raccontai portandomi la tazza alle labbra. Presi un sorso bevvi, dopodiché le raccontai la storia. «Solo che non mi aspettavo che la ragazza che figurava nei suoi ricordi, anche se sbiadita e in lontananza, fossi proprio tu. Perché non ci avevi mai detto di essere il capo degli Specter di Hades?» Chiesi, un po’delusa. Non pensavo che la donna che mi aveva insegnato ad amare la vita, ad apprezzare i profumi e i colori e a non darli mai per scontati avesse un tale passato alle spalle. Un passato che continuava a perseguitarla, anche se mi rendevo conto anch’io che era un po’diverso rispetto a quello dei ricordi di Death.      
Lei evitò volutamente di rispondermi, per domandarmi: «Quindi tu per vivere leggi la mano?»
«Sì, cioè, non solo, anche se prima lo facevo di nascosto». Non le avevo mai raccontato del lavoro che mi aveva procurato papà. In realtà non le avevo mai neppure detto che avevo lasciato l’università per inseguire un sogno ormai sfumato.
«Oh. E, sei brava?» Domandò.
«Molto, mi ha insegnato la mamma».
«Come sta tua madre? Sono settimane che sto cercando di mettermi in contatto con lei ma è scomparsa. Tu sai cos’è successo? Sono preoccupata per lei». Mi confidò, angosciata.
Esitai. Ora come glielo dicevo? Poi la guardai negli occhi: «Zia… ma tu lo sai, vero?»
«Cosa, tesoro?»
Ok, non lo sapeva, ma ormai non potevo tornare indietro. Presi le sue mani tra le mie e cercai di girarci intorno, provando a essere più delicata possibile e prendere tempo. O forse stavo solo prendendo tempo per me stessa: «Quello che è successo alla mamma».
La zia sbarrò gli occhi orripilata e serrò la presa sulle mie: «Che cos’è successo a tua madre?» Mia madre era la cosa più importante per lei, dopo di me.
«Non… lo sai?» Chiesi esitante.
«Cosa dovrei sapere? Per favore, dimmelo, Astrid». Come avevo già sperimentato, non c’è modo di dire una brutta notizia. Se è brutta è brutta, non importa come arriva. Avrei potuto usare il tono più dolce del mondo, ma non sarebbe bastato ad alleviare l’asprezza e la gravità delle parole che mi sarebbero uscite. Le presi le mani tra le mie e gliele strinsi come a darle la mia forza. Ma forse ero io ad averne bisogno, perché il solo parlarne mi faceva sentire fragile e sottile, come un foglio di carta velina. O un cubetto di ghiaccio che si scioglie. «La mamma è morta… qualche giorno fa».
«No…»

Gli occhi della zia si riempirono di lacrime e pianse. Io feci il giro del tavolo e l’abbracciai. La tenni stretta a me finché non si fu calmata almeno un po’. «Come è successo?» Mi chiese poi con voce lamentosa: «Chi è stato?» Non la lasciai andare neanche in quel momento. Le raccontai tutto quello che mi aveva riferito Seiya. «Ha fatto tutto questo per… Oh, Aida, allora sapevi, sapevi… Perché non mi hai detto niente? Perché?»
Chiusi la bocca e non seppi cosa dirle. Mi limitai a continuare a stringerla a me. “È anche per questo che sono rimasta al Santuario e ho continuato su questa strada”. Pensai amara. Poi le strofinai la mano sul braccio, mentre lei tuffava il volto tra le mani e piangeva a dirotto. Ma alla tata non avrei detto niente di tutto questo.
Per il resto della giornata decisi di restare con lei. Alternò anche lei momenti di rabbia, momenti di sconforto ad altri di totale apatia. Quando riemergeva sembrava stare bene però appena mi vedeva precipitava di nuovo nel circolo vizioso. Non l’avevo mai vista così. La zia era una donna forte, forse una delle più forti che avessi mai conosciuto. L’avevo presa a modello, assieme a mia madre e ora mi restava soltanto lei di quello che consideravo il nucleo originario della nostra famiglia. Per quel giorno, fui io la sua ancora e il suo sostegno. Mi scusai con lei per averglielo detto, ma la zia non parve neanche udirmi. Era assente, come se ogni sua emozione si fosse spenta. Da lei emanava solo freddezza e, per la prima volta da che la conoscevo, i suoi occhi si chiusero, come se non valesse neanche la pena di guardarmi.
Fu come se avesse eretto una barriera attorno a sé. Ma così facendo aveva tagliato fuori anche me.
Cercai di scuoterla ma non ci fu verso. Alla fine le sue labbra esangui si aprirono e proferì un incolore: «Lasciami sola». Cui non ebbi altra scelta che obbedire.  
Appena uscii dal portone del Padiglione mi portai una mano alla bocca e piansi, piegandomi su me stessa. Per la prima volta da tempo risentivo il dolore del lutto e, anche il dolore della solitudine. La zia non mi aveva mai scacciato prima.  
Quando stetti un po’ meglio, scesi la montagna e trovai Camus e Menta rispettivamente seduto sul gradino e intenta a fare avanti e indietro davanti al primo. Si girarono entrambi verso di me e il mio gemello separato alla nascita si alzò in piedi. «Come è andata?» Mi domandò mentre scendevo le scale, andandogli incontro. «Bene e male… credo».
I due mi guardarono perplessi, prima di chiedermi spiegazioni. «La Signora è rimasta… abbastanza sconvolta dalle notizie che le ho riportato».
«Ah, bè, capisco, non deve essere facile per lei tenere sotto controllo gli Specter e i suoi alleati. Non dev’essere stato facile neanche per te». Commentò il rosso guardando il Padiglione della Giudecca a braccia incrociate. E io ringraziai che da qui non si potevano udire gli strazianti lamenti della zia. La quale si era appena addormentata.
«Come?» Domandai recependo a malapena l’ultima parte del discorso. Lui ripeté e io annuii con poca convinzione e tono decrescente: «Ah, sì, sì, non lo è stato».  

 

Il giorno dopo pranzo, mentre Menta e io nella tenda discutevamo su come riadattare il vestito, la tata mi convocò di nuovo per parlare a proposito della mia incursione alla Prima Prigione. Quando lo Skeleton me lo riferì sgranai gli occhi. Chi gliel’aveva detto? Guardai Menta ma lei scosse il capo, incredula tanto quanto me. Allora doveva essere stato Camus. Ma perché gliel’aveva detto?
«Oh, sei sempre stata ingovernabile, Astrid, ma credevo che tu avessi un po’più di discernimento. E se sorvolando il Flegetonte vi avessero avvistati? Ti rendi conto di cosa sarebbe potuto succedere?»
«Non abbiamo sorvolato…»

«Silenzio! Non m’interessa! Se non fosse stato per l’ancella assegnatati da Rhadamantys neanche sarei mai venuta a sapere della tua fuga e delle tue disavventure. Metterti in pericolo a questo modo e durante la Guerra, per giunta. Ti rendi conto del pericolo che hai corso? Di quale danno sarebbe stato se le truppe di Don Avido ti avessero scoperto? E tutto per cosa? Uno stupido libro di miti e leggende risalente a cinque secoli fa!»
«Menta? É stata lei?» Ma come… credevo che mi fosse amica. Che ingenua ero stata.
«Certo che è stata lei, chi credevi che fosse? Le Ninfe Stigie rispondono a me e al Signore degli Inferi, sono tenute a fare rapporto di tutto ciò che succede.» rivelò in tono stizzito.
«Allora sapevi anche che ero qui da tempo! Perché non hai fatto niente per aiutarmi? Perché non mi hai mandato a chiamare subito? Perché mi hai lasciato alla mercé di Rhadamantys e dei suoi sgherri?» Urlai a mia volta, puntando un dito verso di lei, in tono accusatorio. 
«É grazie a quel libro che ora so!»
«Sai? Cosa sai? Cosa credi di sapere? Ti serve a qualcosa sapere questo? Ti cambia qualcosa? Non mi sembra proprio, al contrario ti ha montato la testa. Sono solo delle storie, Astrid, probabilmente anche inesatte, ma il presente lo è! Oh, se non fosse che c’è una guerra in corso, ti pregherei di restare al mio fianco, ma devo chiederti di non seguirmi». 

«Tu ne sai qualcosa, vero? Lo sento, non importa nascondermelo, ormai non sono più una bambina, puoi dirmelo».
La tata mi guardò a lungo prima di sospirare e asserire con un cenno del capo: «Da quando hai messo piede al Santuario il mio Signore sta tenendoti d’occhio e svolgendo delle ricerche su di te e i tuoi poteri, aspettava solo il momento adatto per portarti qui, adesso rimpiango di essere stata così lenta, così stupida. Avrei dovuto agire più rapidamente ed evitare che tu fossi qui».
Sospirai. Dovevo immaginarmelo che c’era di mezzo un altro rapimento. “E, che diavolo! E che ho scritto in fronte? Rapitemi?” Pensai. Ma se il Signore degli Inferi era interessato a me nel bel mezzo della Guerra contro i Black Saint… In quel momento realizzai: io ero solo uno strumento. Uno strumento che era stato affidato alla sua custodia. Adesso molte cose erano chiare. Assottigliai gli occhi e chiesi, in tono più normale: «Perché qui ci sono le Creature, non è così?»
Il suo volto candido se possibile si fece ancora più bianco e mi parve che rabbrividisse dalla paura: «Sì. Ti prego, se avessi saputo che eri tu non ti avrei neanche chiesto di aiutarci, dipendesse da me ti rispedirei nel Mondo dei Vivi seduta stante e aspetterei altre vite e qualcun altro che possa risolvere questo problema».
«Ma non posso, purtroppo sono l’unica persona che può davvero fare qualcosa». Continuai centrando il punto e, al tempo stesso ricordandole che le servivo.
«Mi dispiace piccola mia, mi dispiace davvero». Confermò con rammarico.
Qualcosa dentro di me s’infranse con lo stesso rumore di una lastra di vetro. Speravo che lo dicesse solo perché mi voleva bene, ma la realtà era ben diversa.
«Non se ne parla nemmeno per sogno, tata, vi aiuterò». Decretai determinata e furiosa. Giacché era per questo che il suo Dio si era preso tanto disturbo, allora tanto valeva andare fino in fondo. Che senso ha avere un’arma se non la si usa?
«Non dire stupidaggini, come puoi chiedermi una cosa simile? Come puoi pensare che io ti mandi in campo se non puoi nemmeno difenderti? Tu sei troppo preziosa, non puoi chiedermi di mandarti in battaglia come il più miserevole degli Skeleton! Non m’importa niente se dici che puoi, io non te lo permetto, tu resti al campo base e fine della storia, sono stata chiara?» Mi sgridò con voce secca. Ci restai di sasso perché era la prima volta che si rivolgeva a me con questo tono.
«Ah, è così?»
«Non osare sfidarmi, Astrid». Mi minacciò con voce dura e carica di sottintesi, girando la testa di scatto verso di me. Gli occhi ancora chiusi, ma l’espressione non lasciava spazio a nessun’obiezione. Quella non era più la mia tata, quella era la fredda, perfida luogotenente del Dio dei Morti. E la barriera parve diventare di colpo una katana che tagliò, metaforicamente parlando, il terreno tra di noi, aprendo una gigantesca voragine tra i nostri cuori.  
«Zia…»

«Torna dagli altri». Ordinò con voce secca.
Le feci una sgarbata riverenza e salutai in tono velenoso: «Come desiderate, Sacerdotessa di Hades».

Ma lei si limitò a distogliere il volto da me.
Non sopportavo tutto questo. L’idea di essere stata mandata qui per niente mi faceva imbestialire. Soprattutto la presenza degli Specter. Era vero che tra di noi non c’erano trascorsi felici. Era vero che non mi piacevano ed era vero che non mi fidavo affatto. Ma di lei mi fidavo e forse era questa la cosa peggiore. Perché mi allontanava così? Mi doleva considerare questa possibilità, ma se poi avesse usato gli Specter per il suo tornaconto, glieli avrei estinti senza pensarci due volte. Sperai solo che la fredda comandante dell’armata infernale, non avesse niente a che vedere, con la donna che mi aveva aiutato a crescere per dieci estati della mia vita. Per la Sacerdotessa degli Specter di Hades non mi sarei mai mossa, ma per la mia tata sì. Ammesso che quella donna mi avesse mai voluto bene.
Mentre ritornavo da Menta mi maledissi. Come avevo potuto pensare di fidarmi di lei solo perché mi serviva? Non eravamo neanche colleghe, lei era la mia serva e, al tempo stesso una spia. Come avevo potuto essere così cieca? Neanche Castalia mi pugnalò mai alle spalle a questo modo. Cioè, in realtà sì, però avevo capito cosa l’avesse spinta a mandarmi via. Ma qui non c’era lo stesso intento, qui ero prigioniera e usata come arma. Un’arma di resurrezione di massa, oltretutto.
Avrei voluto parlare con il mio maestro, ma la connessione era stata interrotta.
«Ma, prima, potresti farmi un favore?»
«Sicuro, ditemi». Fece, desiderosa di aiutarmi. Mi domandai se facesse sul serio o se fosse proprio una lecchina di suo.
«Potrei avere un altro vestito? Questo è da buttare, ormai e, per favore, smettila».
«Di fare cosa?»
«Di fare la spia a Lady Pandora. Non voglio che lei sappia quello che dico».
«Signora io… sono desolata, ma non posso».
«Lo immaginavo; allora chiariamo subito una cosa, non sono quel tipo di persona che ama che le si parli alle spalle, quindi gradirei trasparenza da parte tua. Se vuoi restare con me, allora devi dirmi chiaro e tondo quando vai a riferire alla luogotenente di Hades i tuoi rapporti e riferirai solo una parte, parlando in generale e senza scendere nei dettagli; altrimenti te ne puoi anche andare e io troverò un modo per cavarmela da sola. Non m’interessa se ti paga quello stronzo della Viverna o no, queste sono le mie condizioni».
«Padrona…» Iniziò.
«Esatto, hai detto bene, padrona». Non m’importava niente di calpestare i suoi sentimenti, lei per prima aveva tradito la mia fiducia, con quel viso che invogliava a raccontarle ogni cosa. Lei non si mosse e, anche se sul suo volto capeggiava un’espressione contrariata e di disprezzo, se ne uscì con un piatto: «Io non me ne vado. Sono stata assegnata a voi e non me ne andrò finché non avrò portato a termine la mia mansione».
Certo, la custode della Luce Ombrosa, ma fatemi il piacere.
Poi tese una mano verso di me: «Ad ogni modo datemi qua, vedrò se posso fare qualcosa io, invece».
«Puoi farlo?» Chiesi cominciando a sbottonare i bottoni.
«Sono una brava sarta, vedrete che riuscirò a ricavare un abito degno di tale nome anche da uno straccio come questo». Disse, cominciando a tirare fuori dalla borsetta tutto l’occorrente per il cucito. 
E, ora eccomi qua, a provare quest’abito. Avevo dovuto aspettare solo qualche ora prima di vederlo pronto e, ora ero fuori della tenda a specchiarmi con uno specchio a figura intera che lei aveva rimediato chissà da dove.
Lisciai la gonna con le mani con un sorriso soddisfatto. Avevo sempre desiderato indossare l’abito di Madonna in Like a prayer. Menta era stata di parola. Anche se non le era importato niente e le mie parole erano cadute nel vuoto, aveva fatto un buon lavoro. Sfortunatamente le mie minacce erano ancora niente rispetto a quelle di Rhadamantys e compari.
Fortunatamente il corpetto si era salvato ed era solo dalle ginocchia in poi che la gonna era completamente inutilizzabile, il resto non era niente che non si potesse rammendare o sostituire. Le spalline le aveva ricavate dalle maniche.
«Mi spiace di non aver potuto fare di meglio». Stava scusandosi, anche se mi guardava con disprezzo. «No, invece, è perfetto». Sorrisi, ignorandola. Poi se mi avesse tirato un tiro mancino sarebbe stato un altro paio di maniche. In caso avrei chiesto qualcosa alla tata. Mi adombrai un momento. No, non dovevo più chiamarla così. 
Tornai a concentrarmi sull’abito. Mi stava veramente bene, anche se non ero Madonna e che era di un bel nero lucido e mi arrivava. Se non altro non sarei inciampata più.  

«Dove hai trovato il vestito?» Domandò l’inglese con il monociglio color limone infilato nella Surplice della Viverna, comparendo dal nulla, vicino alla porta.
«Oh, è stata Menta, ha fatto un lavoro splendido!» Mi sfuggì. Poi mi resi conto a chi l’avessi detto e cancellai il sorriso: «Cioè…»
Quello alzò le spalle e liquidò tutto con un: «Ho capito».
«Comunque questo non cambia le cose». Puntualizzai.
«Nessuno ha chiesto che cambino». Rispose con durezza, trapassandomi con i suoi freddi, occhi da rettile. Ancora una volta ebbi l’impressione che le sue pupille si affilassero come quelle dei gatti. E, ancora una volta, sentii il sangue gelarsi nelle mie vene. Mi portai istintivamente le mani alle braccia nude e sentii sotto ai miei polpastrelli la pelle accapponata. «Piuttosto, cosa ci fai qui?» Domandai guardinga incrociando definitivamente le braccia nude.
«La Signora ha ordinato ai tre Giudici Infernali di farti da scorta personale». Spiegò paziente ma si capiva che non vedeva l’ora di restituirmi pan per focaccia. «E ti pareva?» Brontolai senza preoccuparmi di essere udita. Lui mi scoccò un’ennesima occhiata minacciosa d’avvertimento. Prima avrei risolto questo casino e prima me ne sarei potuta tornare a casa. E, prima sarei scampata alle grinfie dei tre Giudici Infernali.

Mi liberai dei tre soltanto nel pomeriggio, quando finii di resuscitare parte delle loro armate. Avevano già ricominciato a combattere, dal momento che questa nuova ondata non mi sembrava di averla resuscitata in precedenza e, stavolta, che ero pronta, schivai l’attacco a sorpresa dello Specter e Menta lo finì con il pugno. Anche se la maschera era calata continuava a fare il suo lavoro totalmente impassibile. Dovevo smetterla di comportarmi così, quando avrei imparato a non appoggiarmi più a nessuno?
La guardai di sottecchi: probabilmente mai. Non ero cinica fino a questi livelli.
Comunque, questa nuova ondata significava solo una cosa, che i vecchi pezzi erano ancora laggiù sul campo di battaglia e che aspettavano solo di essere recuperati.
E, quando la mattina dopo ci vedemmo con Camus a colazione, approfittai della momentanea assenza della Ninfa, che andò a prendere da mangiare per tutti e tre, per dargli appuntamento alla Porta Ovest dell’accampamento. Camus mi guardò sbalordito strabuzzando gli occhi: «Cosa vuoi fare?»
«Voglio andare a cercare altri pezzi per l’armatura».
«E pensi di andarci da sola?»
Posai una mano sul suo avambraccio (contrassi involontariamente le dita a causa del gelo) e risposi: «Non sarò da sola se ci sarai tu». Camus mi guardò con un’espressione dubbiosa e poi gettò uno sguardo alla direzione in cui era sparita, scomparsa nella fila. Poi tornò a posare i suoi occhi freddi su di me e domandò: «E Menta?»
«Menta la lasciamo all’accampamento». Il mio gemello separato alla nascita tolse il braccio per incrociarlo con l’altro sul tavolo e sospirò, prima di sporgersi un poco verso di me e acconsentire: «D’accordo, se credi che possa tornarti utile; ma penso che sarebbe meglio sfruttare il cambio della guardia delle ventitré e ventritré».
Strabuzzai gli occhi, “Ah, già, che stupida”. Questo non l’avevo minimamente considerato. Cioè, sì, era ovvio che ci fosse, ma non mi ero mai premurata d’informarmi a proposito di cambi della guardia e simili.  Non pensavo che anche qui mi sarei ritrovata in questa situazione.
Girai il viso verso di lui e lui si discostò un po’: «Forse sarebbe meglio che tu non portassi l’Armatura, potresti attirare l’attenzione e non possiamo permetterci di bruciare Cosmo nonostante la mia presenza. Gli Specter possono percepire il Cosmo e, il tuo è piuttosto evidente». Gli ricordai.
Un lampo di consapevolezza attraversò i suoi occhi di brina rossa. Segno che non ci aveva pensato.
«Giusto, in caso potrei sempre chiamarla a me, ma non so quanto mi convenga, visto che potrebbe rilevare la posizione dell’accampamento».
«Vero, potrei aiutarti io con i bagliori, non dovrebbero dare troppo nell’occhio rispetto alla tua Armatura e potrebbero essere scambiati per fuochi fatui lì per lì, tanto sono quasi dello stesso colore, no?» Domandai, anche se non li avevo mai visti neanche da quando avevo messo piede qui.
«Sì, potrebbe essere un’idea, è rischiosa anche questa, ma già di meno dell’altra». Approvò.
Mi ero fatta carico di un fardello abbastanza rilevante. Non avevo dubbi che sapesse e potesse difendersi benissimo anche da solo, ma il fatto che avesse deciso di concedermi la sua fiducia a questo modo mi faceva sentire responsabile.
«A proposito dell’ora, non te l’ho mai  chiesto, ma qui come fate a tenere il conto dei giorni? Io stessa mi sento come se avessi cambiato emisfero e dovessi abituarmi a un nuovo ritmo di sonno veglia».
«Usiamo gli orologi». Rispose semplicemente.
«Oh, tutto qui?»
«Sì, tutto qui, perché, cosa credevi?» Domandò guardandomi perplesso. Distolsi lo sguardo imbarazzata per la figuraccia: «Niente, qualcosa un po’più epico, sai, visto il luogo e ciò che succede».
Un sorriso curvò la sua bocca, prima che si portasse il dorso di una mano sotto al mento e inclinò la testa da un lato prima di dire che: «Nell’epicità ci sono momenti di tranquillità e semplicità, anche durante i conflitti mondiali i soldati riposavano e controllavano l’orologio, non mi pare che siano così strani, dopotutto anche noi siamo umani, no?» Appoggiai gli avambracci sul tavolo e domandai, con voce fragile come il cristallo. Un riflesso del tormento interiore che celavo. «Sì, ma la definizione si estende ancora anche a me? Sono ancora un essere umano dopo tutto quello che ho fatto?» Il sorriso di Camus non si affievolì, anzi e rispose: «Certo che sì. Non vedo perché non dovrebbe».
Lo guardai confusa: «Come?»
«Sei fragile e sei debole, provi delle emozioni, ti tormenti per le tue azioni, hai paura di essere altro da te, ma sei anche giusta e gentile, non sei solo spietata e ferita. Sarai anche insignita di un potere immenso, ma tu sei prima di tutto una persona. Tu hai delle doti e delle qualità e dei difetti che sono solo tuoi e di nessun’altro, che vivi a modo tuo e non c’è niente di male in questo. Direi che queste sono prove evidenti della tua umanità».
Non ci avevo mai pensato. Le parole di Camus mi avevano aperto un mondo. Lo guardai, sembrava forte, molto più forte di me. Per certi versi mi ricordava ancora una statua, nonostante quel piccolo sorriso che aleggiava sulla sua bocca. Sembrava che niente potesse scalfirlo, mentre mi guardava quasi con dolcezza: «Tu come fai a dire di essere umano dopo tutte le imprese leggendarie cui hai partecipato?»
La sua espressione si fece malinconica, mentre raddrizzava la testa e rispondeva: «Perché tutto quello che ti ho raccontato lo provo anch’io». Rispose pacato. Poi si alzò e mi posò una mano sulla spalla per stringerla brevemente: «Adesso devo andare, è stato molto bello da parte tua confidarmi qualcosa di personale».
«Personale?» Replicai inarcando un sopracciglio per la confusione. Poi reclinai leggermente il capo indietro per guardare l’uomo dalla mano gelida dietro di me.
«Certo».
«Ma, di me sai che sono l’apprendista di Odysseus di Ophiuchus, che sono la Luce Ombrosa, quali sono le mie tecniche, i miei poteri, come combatto e cosa voglio fare. Già questo non è di per sé una cosa molto personale?» Obiettai battendo le palpebre girandomi sulla sedia per guardarlo e lui tolse la mano dalla mia spalla.
Però in quel momento mi accorsi di una cosa: i suoi capelli non mi suggerivano più quella spigolosa freddezza dei colori freddi e, i suoi occhi, non erano più coperti dalla patina di brina. La sua pelle, per un momento, mi parve più rosea. E mi fu impossibile non associare questo Gold Saint al calore. Affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e rispose, continuando a sorridere lievemente: «Quelli sono dati che potrebbero tornarmi utili in battaglia. Non ho mai posseduto le capacità analitiche di Milo, ma “personale” è cosa ti piace e cosa non ti piace, il tuo cibo preferito, la canzone che ti fa palpitare il cuore, il film della tua vita, il tuo gusto di gelato preferito, quali sono le tue paure. Questo è qualcosa di personale, come quello che mi hai confidato poco fa e sono contento che tu me ne abbia messo a parte».
Io lo guardai allibita, come se mi avesse parlato in arabo o in una lingua morta. Riconoscevo quei concetti, come se in passato li avessi già vissuti, però avessi smesso da tempo. «Non hai pensato che magari io l’abbia fatto perché sono una persona spontanea?» Gli feci notare.
«Forse, ma non qui, altrimenti non avresti aspettato tanto per confidarti. Dimmi, Astrid, quanti sanno di questi dettagli?»
«Al Santuario lo sa…» Ma la voce mi si spezzò. Perché nessuno in realtà lo sapeva, a parte, probabilmente, il maestro, Yoshino e Milo. Con mio sommo stupore realizzai che neppure Kiki, Death Mask, Shun, Shiryu, Seiya, Mur e Aphrodite sapevano cosa mi si agitava nel cuore. Neanche mia madre aveva mai saputo tutto per davvero, nemmeno i nonni e neanche papà.
Saga forse poteva dire di conoscere una parte di tutto questo. Kanon era solo interessato alla Luce Ombrosa e, desiderava di sviscerarne i misteri. Castalia era quella che mi conosceva un po’meglio.
Come pure Georg e Juan. Strano che, facendo la conta, giusto sei persone e mezzo mi conoscessero davvero. Anzi, forse neanche sei, dal momento che il mio maestro non si era fatto vivo per dieci anni ed io non ero più una bambina e, Saga, non mi leggeva nel pensiero se non attivava il Cosmo. Sottoforma di civetta, poi, col cavolo che ci sarebbe mai riuscito. In totale solo cinque persone mi conoscevano davvero.  
Tutti gli altri, per un motivo o per un altro avevano soltanto espresso la loro solidarietà, cortesia nei miei confronti in più occasioni. Non dubitavo che Death Mask non mi volesse almeno un po’di bene a giudicare dalle reazioni che ebbe alle minacce di Carolina e alla mia pietrificazione. Però non mi conosceva davvero.
E gli altri? Ammesso che fosse vero quello che dicevano sempre i Lemuriani a proposito della lettura del pensiero. Ero io a conoscere gli altri, ma erano pochissimi a conoscermi davvero. E tutti gli altri ancora mi avevano aiutato per via del debito di riconoscenza nei miei confronti e per pietà. Abbassai lo sguardo contrita e amareggiata.
«E tu sapresti trovare un esempio per ogni voce dell’elenco che mi hai fatto?»
«Credo di sì e tu?» A questa risposta lo guardai di nuovo. Solo dopo mi resi conto che lo guardavo assetata di risposte. Risposte che non mi dette in quanto si raccomandò di tenere d’occhio gli orologi sparsi per l’accampamento e che, mi avrebbe aspettato nei pressi della porta Ovest per le undici e venti. Poi se ne andò asserendo di avere altre faccende da sbrigare.
Morale della favola, la parte di Camus ce la dividemmo io e la Ninfa.   

Avevo lasciato che Menta restasse alla tenda che dividevo con lei. Aveva voluto sapere dove andassi, però la tranquillizzai dicendo che andavo a fare una passeggiata perché non riuscivo a dormire. Aveva fatto per alzarsi asserendo che poteva accompagnarmi, però l’avevo fermata e avevo ordinato che se ne restasse a dormire.
Mi ero annodata la coperta attorno al corpo a mo’ di peplo, che, se ben drappeggiato dava l’illusione che indossassi una blusa. Ancora una volta avevo ringraziato mentalmente Lythos e i miei ex colleghi, che mi avevano insegnato a usare questi abiti. Mi ero anche sciolta i capelli sulle spalle, che ormai erano sufficientemente ricresciuti per scaldarmi le scapole. Tranne due ciocche laterali al volto, che erano rimaste all’altezza delle spalle.
Stavo aspettando da un po’. Osservai la Porta Ovest. A discapito del titolo altisonante, altro non era che una porta da calcio fatta con due bastoni verticali che ne sostenevano un terzo in orizzontale. Non mi preoccupavo che qualcuno mi vedesse, dopotutto, c’erano molte persone all’interno dell’accampamento. Per quel che potevano pensare, io ero una di quelle che stava scoprendo gli orologi, a giudicare da come fissavo l’orologio che illuminato fiocamente dalla poca luce presente, era lì vicino. All’inizio temevo che mi avrebbero scoperto, ma molti avevano pensato che avessi solo un appuntamento. Gli Skeleton invece erano assenti di loro.
Camus arrivò puntuale per il cambio della guardia e mi salutò. Per evitare che ci facessimo scoprire aveva deciso di farsi vedere fin sa subito. Si era cambiato d’abito anche lui, indossava tutta roba nera per mimetizzarsi meglio con l’ambiente e l’oscurità circostante. Ma il nero non gli stava neanche male, anche se si vedeva che era un po’ a disagio nell’indossarlo. «Dove l’hai presi?» Domandai quasi con invidia. Lui sorrise: «Dalle sarte. Nell’accampamento ci sono, non lo sapevi?» Chiese poi, accigliandosi un po’. «No». Ammisi.  
Guardò in direzione della porta di nuovo serio e poi decretò: «D’accordo, andiamo». E scattò rapidamente verso l’uscio. Non mi aspettai tutta questa rapidità. Ma lo seguii più rapida che potei.
Quello che non mi aspettai, fu il resto quando ci addentrammo nella nebbia. Superati una sessantina di metri, il terreno cominciò a scendere in una frana. Ma Camus se la fece a corsa come se fosse una discesa da niente. Io preferii farmela a zig zag e un po’più lentamente rischiando di scivolare almeno tre volte e di precipitare altrettante. Fortuna che ritrovai sempre l’equilibrio e che scivolai giù solo di pochi metri senza ruzzolare. A quel punto fui costretta a manifestare i bagliori per illuminarmi la via. E allora andò un po’ meglio e potei correre a ritmo sostenuto sul percorso che mi ero scelta. Camus non si sarebbe neanche posto problemi, io, se non altro riuscivo a trovare il percorso. Magra consolazione comunque, per gli standard dei Saint.
Mentre scendevo non potei fare a meno di considerare che Camus, al pari di Milo, sembrava ignorare i difetti della vista umana, perché più di una volta lo vidi schivare ostacoli, saltare sopra di essi come se niente fosse, mentre io dovevo stare attenta a non cadere e a non andare a sbattere, scivolare e, stare attenta. Che fossero i privilegi del Settimo Senso o fosse la sua esperienza come guerriero? Qualsiasi cosa fosse, di sicuro lo ammirai e lo invidiai al tempo stesso. Perché anche privo del Cosmo restava comunque un atleta. Se non fosse stato che per lui era normale muoversi a questo modo, avrei giurato che si stesse mettendo in mostra. Cosa totalmente avulsa dal suo modo di essere, altrimenti l’avrebbe fatto molto prima. Si accorse di avermi seminato e tornò sui suoi passi, aspettandomi perfettamente stabile e ritto in piedi, su un masso alto tre metri d’altezza. Le sue spalle si alzavano e si abbassavano velocemente: «Scusa, credevo che fossi capace di sostenere i miei ritmi».
«Mi dispiace, ho ritmi diversi dai tuoi, dammi qualche secondo per riprendermi». Ribattei sarcastica appoggiandomi al masso. Respirai dal naso, accidenti, neanche quando mi allenavo ero così distrutta. Lui non commentò, come sicuramente avrebbe fatto Death se fosse stato al suo posto e, decise di aspettarmi. Poi, adattò il suo passo al mio, decidendo che forse anche lui avrebbe visto un po’di più tra i bagliori. Per il resto, fu lui a indicarmi la zona dell’ultima battaglia, fatto evidenziato anche dagli uccelli spazzini che la sorvolavano. Mi raccontò a grandi linee anche di come si era svolta e, di come ci eravamo riconquistati finalmente questo metro. Memore delle nostre lezioni, preferii non immaginarmelo affatto. Se con me si era trattenuto, non osavo immaginare quanto potesse essere letale sul campo.
Mentre cercavamo in mezzo ai cadaveri sparsi per il campo di battaglia, a un tratto presi coraggio e gli domandai: «Perché ci tieni tanto ad avere la mia fiducia?»
«Perché siamo sulla stessa barca in fondo, siamo entrambi dei Saint, no?» Ah, non sapevo perché, ma questa risposta mi lasciò un po’ di delusione. «Non sapevo che ti piacesse avere un rapporto paritario con i colleghi».
«Forse un rapporto degno di tale nome ce l’ho solo con Milo e pochi altri». Lo guardai, sembrava sincero. Ma capivo perfettamente che cosa intendesse dire. Forse non voleva conoscermi per paura, ma solo per amicizia.
Forse lo avevo davvero giudicato male. Mi tolsi la coperta di dosso e la usai a mo’di sacco. Lui commentò che effettivamente si era chiesto a cosa mi servisse. 
«Gli altri erano Hyoga e Natasha, non è così?» Domandai in tono mite e delicato. Stando alle sue parole non doveva essere un tipo che si apriva facilmente. Nel mio caso la sua era gentilezza, era evidente. Mi avrebbe portato anche il sacco se gliel’avessi chiesto. Però
«Sì». Rispose e, nel modo in cui lo disse e si girò per cercare un pezzo che si addicesse alle mie esigenze, percepii un’eco della sua tristezza. E mi ricordai anche le sue parole, quelle piccole banalità che si dicevano per prime e che si scordavano quasi a tempo di record. In effetti erano stupidaggini, però mi sarebbe davvero piaciuto che qualcuno le sapesse queste stupidaggini. Non volevo più sentirmi come un foglio di carta. Almeno, non agli occhi di Camus, che era riuscito a capire questo. Mentre cercavo raccolsi il coraggio a quattro mani e gli dissi: «Ripensavo a quello che mi hai detto stamani, a proposito delle cose personali».    
«Mh? Ah, sì, ho capito a cosa ti riferisci e allora?» Fece dopo qualche lungo istante di smarrimento.
«Eri serio quando dicevi che potevi trovare un esempio per ogni cosa che avevi elencato?»
«Sì».
«Allora dilli, per favore».
«Bè, non me li ricordo tutti e, alcuni non li posso sapere, però mi sembri un tipo che preferisce il dolce al salato, una delle cose che adori sono le molliche di pane con il miele intinte nel latte la mattina, ho visto come ti brillavano gli occhi mentre le mangiavi. Ami muoverti, ma preferisci farlo a modo tuo anche se sei più un tipo da studio che fisico. Sulla musica ancora non sono sicuro. Il tuo colore preferito non ho idea di quale sia, ma sicuramente non è uno di quelli che puoi trovare qui». Ribatté smettendo di rovistare tra le macerie, ben lieto di distrarsi dalla visione, mentre io continuavo a tenere in mano un pezzo.
«Ci sei andato… molto vicino, devo ammetterlo». In quel momento pensai che mi sarebbe davvero piaciuto averlo come amico. Ma non potevo ricorrere alla lettura della mano, non qui, non adesso e neanche per scherzo. Avrei soltanto peggiorato la situazione e, forse avrebbe veramente cambiato opinione su di me. Ero pure felice che non l’avesse chiesta per mettermi alla prova. Fu in quel momento che mi parve di vederlo per come era veramente sotto la brina. Ossia come un tipo riservato e, poi poverino, non aveva nessuna colpa per i miei salvataggi-rapimenti. Poteva considerarsi complice perché sapeva, ma non poteva muovere obiezioni. La sua voce non aveva molta importanza qui tra gli Specter. E poi stava facendo un Viaggio Astrale negli Inferi, anche volendo non sarebbe potuto giungere in mio soccorso a causa delle peculiarità del mio Cosmo. E poi, in questo caso più che rapita, ero stata salvata in tempo. Lui non aveva niente a che vedere con questa storia, era solo stato costretto a collaborare con me e, forse gli facevo simpatia quanto pena, dal momento che avevamo gli stessi tratti somatici.  
Misi altri pezzi nella coperta.
Mi resi conto che anelavo a rapporti di vera amicizia. Che avevo pagato il prezzo anche troppe volte. Volevo essere felice e avere qualcuno su cui contare anche se ci trovavamo negli Inferi. Per la prima volta dopo molto tempo, volevo che sapesse qualcosa di me, qualcosa di veramente personale, che solo i miei amici sapevano. Anche se era una piccolezza, una stupidaggine. Però volevo che lo sapesse. Per questo quando aprii bocca proferii una sola parola: «Azzurro».
«Cosa?»
«Il mio colore preferito è l’azzurro». Spiegai a voce più alta, guardandolo speranzosa che non mi prendesse in giro. Ma lui si limitò a ricambiare il mio sguardo con un’occhiata tranquilla e ribatté:   «Come il cielo?»
«Anche, ma più come l’acqua de Le Mole Narni. E il tuo?» Chiesi, sperando che non lasciasse cadere la conversazione. Per fortuna non lo fece. «Il mio è l’azzurro dell’Egeo».
Improvvisamente sentimmo la musica di un’arpa e, prima che potessimo girarci, Camus sgranò gli occhi e con un grido di dolore, si portò le mani al cuore e cadde bocconi. Sbarrai gli occhi e mi alzai di scatto. «Camus!» Urlai e mi gettai in suo soccorso. «Cosa ti succede, Camus?»  Chiesi angosciata, dopo averlo chiamato più volte. 
«Il cuore! Mi sta… strappando il cuore!» Riuscì a rantolare, le lacrime che gli bagnavano il volto, mentre si sforzava di trattenerlo al suo posto. «É inutile che cerchi di trattenerlo, Aquarius». Lo compatì una voce maschile. Ci girammo e vedemmo un uomo esile, con i capelli a caschetto lisci con la frangetta che gli copriva la fronte, la pelle scura e un sorriso malefico stampato in volto. La sua Surplice ricordava l’abbigliamento di un Antico Egizio. Allacciata a tracolla come se fosse una chitarra, c’era la sua arpa. «Pharao!» Gemette Camus, un po’ più forte, cercando di articolare i rantoli che gli uscivano di bocca. Quasi cadde in avanti e, fu costretto a sorreggersi su una mano sola per non franare al suolo. «Che cosa vuoi? Lascialo! Lascialo subito!»
«Avevo intuito che avreste fatto qualcosa perciò vi ho seguiti. Dolce fanciulla, non avrei mai pensato che fossi una profanatrice di cadaveri. Non lo sapete che è proibito disturbare i morti nel loro eterno riposo?» Ci canzonò continuando a glissare note su note e, alle sue spalle, con un baluginio biancastro, prese forma a mano a mano una parete piena di geroglifici al cui centro risplendeva di vividi colori, la Bilancia di Osiride. Trattenni il fiato rumorosamente: l’avevo studiata alle medie e ripassata in prima liceo, sapevo come funzionava e su che credenza si reggeva. «Non puoi farlo, lui non è morto! Il suo cuore batte ancora ed è materiale! Lascialo stare! Smettila subito!» E lo sapevo perché me l’aveva rivelato quando ancora mi allenava. Dovevo anche stare attenta a non urlare troppo, altrimenti la mia voce avrebbe finito per richiamare le Lacrime di Khalì. Ma lo Specter m’ignorò, anzi, si rammaricò di non avere con sé Cerbero. «Poco importa, mi accontenterò di veder bruciato il tuo spirito tra le fiamme della giustizia divina». Camus gemeva e comprimeva il pettorale sinistro sempre più forte mentre lottava per impedire che lo Specter lo ammazzasse.  
«No! No!» Posai le mani sulle sue e provai a usare la Dark Resurrection, ma non successe niente. No, no, perché non succedeva niente? Provai ancora, ma ancora una volta non fece effetto.
Andai in panico. Cosa dovevo fare? La Dark Resurrection era inutile!
Ripresi a implorare Pharao, ma questi mi rispose che il Redivivo era già scampato una volta al suo Giudizio, non avrebbe mai lasciato che gli sfuggisse una seconda. Non avevo idea di cosa parlasse e non m’importò neanche.
A fermarlo fu il ghiaccio che gli congelò la mano e Camus buttò fuori un respiro più forte e ansimò, mentre il cuore smetteva di uscirgli dal petto. «Camus!»       
«Non puoi comunque farlo, Pharao! Io resto sempre un Gold Saint!» Ansimò Camus, ma ciò non scoraggiò il suo avversario. «Vero, ma non hai mai risvegliato l’Ottavo Senso e, stai comunque facendo un Viaggio Astrale, qui sono io ad avere potere su di te, non il contrario». Mosse la mano e il ghiaccio scivolò via dalle sue dita come la neve da un ramo scaldato dal sole. La scosse per liberarsi dalle goccioline d’acqua e riprese a suonare, fregandosi beatamente delle nostre urla. Sul suo volto dominava la soddisfazione: «Ah, è così facile con le anime che è quasi noioso, invece quelli come Aquarius danno più soddisfazione». Sorrise mentre Camus cercava di lottare per opporsi alla sua arpa e alla sua tecnica mortale. «Ma coi vivi…» Aggiunse poi guardando anche me con un sorriso divertito e si avvicinò così rapidamente che non lo vidi neanche arrivare.
Mi sollevò il mento con una mano e mi costrinse a guardarlo negli occhi scuri. Restò imbambolato per qualche secondo prima di sorridere di nuovo: «Sei così bella… Hai degli occhi affascinanti, come quelli di un gatto, luminosi come il sole e fieri come quelli di Ra. Hai ricevuto molte benedizioni dagli Dèi; chissà quali peccati pesando sul tuo cuore abbasseranno il piatto della mia bilancia?»  
Strabuzzai gli occhi. Il cervello completamente in panne a causa della paura.
«No, lei no, lasciala stare!» Rantolò Camus, che, nonostante il dolore atroce era riuscito a sentire ogni cosa.
E, qualcosa nella mia mente si accese e la mia voce dai miei ricordi prese a martellarmi nel tentativo di scacciare la paura. “Hai dimenticato tutto? Hai dimenticato che qui sopravvive il più forte? Hai dimenticato che se non uccidi verrai uccisa tu? Hai dimenticato che ti trovi negli Inferi e non tra i Vivi? Non sei più una civile, non puoi più ragionare così! Fà qualcosa! Solo tu puoi fare qualcosa! Tu sei forte e lo sai! Lo puoi battere! Non è il primo che cerca di ammazzarti! Alza e combatti! Alzati! Combatti!
Lo Specter mi lasciò andare e gli diede ragione. Arretrò di qualche metro e si fermò prima di rimettersi in posizione per suonare: «Giusto, Aquarius, non sia mai che mi dimentichi di finire prima te».
Intanto, all’interno della mia testa la mia coscienza continuava a incoraggiarmi. “Tu puoi farlo! Non ti sei fermata davanti ad Aiolia durante l’imboscata di Eris e non puoi farlo adesso! Fallo o te ne pentirai per tutta la vita! Tu hai più potere di quanto immagini! Tu non sei una persona comune! Tu non sei uno spirito!” Sussultai.
Già!
“E neanche Pharao lo è!” Risposi riducendo gli occhi in due fessure mentre l’aggressività che, finora era rimasta sopita, si ridestava in me. Con questo pensiero la paura si annichilì, sostituita dalla più fredda lucidità. Mi detersi la goccia di saliva che lo Specter aveva sputato senza accorgersene quando mi aveva costretta ad alzare lo sguardo. Poi, materializzai altri bagliori, ne presi uno e lo infilai nella schiena di Camus, proprio dove c’era il cuore, con un violento colpo.
Quel tanto che bastò per ricatturare il suo cuore e rimetterlo al suo posto grazie all’azione di compressione delle sue stesse mani. Cadde a terra annaspando. Tolsi la mano dalla sua schiena, quando fui sicura che il bagliore avesse fatto il suo lavoro, poi lo visualizzai e lo dissolsi.
Tutti gli altri bagliori si affollarono attorno a Camus, proteggendolo come un piccolo turbine di luci.
Il poveraccio si girò su un fianco in posizione fetale e, deglutendo più volte per lo sforzo, gemette il mio nome. Gli indirizzai un vago sorriso e poi tornai a guardare Pharao. Che dissolse la tecnica per lo stupore: «Cosa?»
Mi alzai in piedi e mi misi in posizione, come se avessi materializzato il mio falcione di Cosmo e, me ne uscii con un rabbioso: «Ehi, bastardo, non ho sentito la campana!» Che valse anche per il mio conoscente.
«La campana?» Ripeté confuso mentre i bagliori aumentavano tutto attorno a noi, delimitando il campo di battaglia. Avrei dovuto giocarmi bene le mie carte per riuscire ad avvicinarmi. E l’avrei fatto, oh sì che l’avrei fatto. 
Mossi le braccia e i bagliori risposero al mio comando abbattendosi su Pharao, il quale urlò. Corsi rapidamente da lui, le mani illuminate di viola porpora e gli saltai addosso, gettandolo a terra. Lui buttò fuori tutta l’aria di colpo e io sbattei contro la sua arpa e la sua Surplice, non danneggiando nessuna delle due, poi gli inchiodai il collo al suolo con una mano più forte che potei e con l’altra disegnai la sua stella.
Ma lui espanse il suo Cosmo e, mi scacciò via. La sua Stella rimase sospesa davanti a lui.
Rimbalzai sul terreno e mi rialzai senza neanche un graffio o un livido come mi aveva insegnato il maestro anni fa e mi rialzai repentinamente in piedi, facilitata dalla Dark Resurrection e dall’Anesthesia che cancellarono le ferite e il dolore. «Maledetta». Sibilò, cambiando totalmente registro. Se prima ero solo una preda, adesso mi vedeva veramente come un’avversaria che poteva fargli il culo e rispedirlo dal sarcofago da cui era uscito. Ramsete de ‘sto cazzo. Ma lui oppose ai miei bagliori il suo Cosmo e protesse la Bilancia che si ricompose. «Non ho altra scelta, mi costringi a usare il mio colpo segreto!»
«Perché, ne hai uno?»
Lui non rispose, si limitò a battere una mano sulla parte di legno dell’arpa e il terreno prese a tremare. Dovetti spostare i piedi per non cadere a terra. 
«Ti piace, ragazzina? Questo è il mio colpo segreto: Kiss in the Darkness!» Improvvisamente lo scenario fu completamente cancellato dal buio e, dal niente comparvero le bende di lino che evitai. Poi, comparvero le mummie dai miei piedi e, cominciai a prenderle a mazzate e a usare i bagliori per togliermele di mezzo. Dov’era quel maledetto? Avevo capito a che classe di attacchi corrispondessero le sue tecniche, non poteva essere lontano. Evocai comunque i bagliori che andarono a illuminare la scena, mentre le mummie si avvicinavano. Mi concentrai. Sentii i loro respiri e i loro gemiti e i passi strascicati. E, in mezzo, il rumore di un’armatura in avvicinamento. Mi concentrai soprattutto su di esso e mi chinai raccogliendo un ciottolo abbastanza grande che stesse nella mia mano. Poi, mi rialzai e schiantai il mio pugno rinforzato sul suo naso con un gran rumore di ossa rotte. Era la prima volta che spaccavo il naso di qualcuno.
«E questo è il mio: cazzotto nel muso!» Lo Specter arretrò repentinamente, stordito dal colpo e dalla sorpresa, tamponandosi il naso fratturato e pieno di sangue con una mano. «Maledetta, come hai fatto?» Gemette arrabbiato per il dolore, mentre io alzavo entrambi i pugni in una parodia di Rocky. 
«Ti ho sentito arrivare».
«Maledizione, hai percepito il mio Cosmo». Berciò con la voce deformata dal sangue, dal dolore e dalla mano che usava per tapparli. La tecnica doveva richiedere sufficientemente concentrazione e sforzo che, effettivamente, non aveva, perché si dissolse.
Allora anche gli Specter avevano un punto debole!
«No, ho sentito i tuoi passi». Ribattei mentre scacciavo quel misto tra dissennatori e mummie che fuoriuscivano dal portale alle sue spalle.
Ma prima che potesse riprendere a suonare e comandare le sue mummie, una raffica di rocce di varia grandezza che gli piovve addosso. Raffica che lo costrinse ad allontanarsi. Poi guardò in direzione della pioggia e urlò, infastidito: «Chi osa interrompermi mentre punisco dei peccatori?»
E un gruppetto di sette ragazzini saltò fuori dai massi e da dietro alcuni cadaveri per mettersi davanti a noi, tutti in posizione d’attacco.
«Sparite!» Comandò sprigionando il suo Cosmo che allontanò i nostri piccoli soccorritori. Ma Raki si oppose usando il Crystal Wall e poi sollevò altri massi con la sola forza del pensiero. Non l’avevo mai vista combattere prima d’ora. Non pensavo che fosse così forte.
Massi che poi scagliò a gruppi di tre addosso allo Specter, il quale gli schivò e, alla fine, saltò su uno di quelli già schiantati. Raki si fermò.
«Dunque sei tu la mocciosa che…!» Iniziò lo Specter. Ma quel momento di distrazione per me fu più che sufficiente. Alzai una mano che risplendeva dei colori della sua Stella Malefica e la mossi come se avessi dovuto arpionargliela e mormorai così piano che mi sentii solo io: «Cosmic Domination». Dalle radici delle mie dita si intrecciarono degli anelli di luce viola purpurea, come durante il combattimento nell’arena naturale. Istantaneamente, una serie di fili sottili come le corde di quella sua dannatissima arpa uscirono dalle mie dita e si allacciarono alla sua stella, strappandogli un gemito di dolore e sorpresa. 
Soprattutto quando cominciai a tirare verso di me.
«Astrid!» Esclamò Raki.
«Raki! Toglietevi di mezzo!» Fui così carismatica che lei e i ragazzini obbedirono, andando a soccorrere Camus, che stava rinvenendo solo in quel momento.
Pharao trasalì e sgranò gli occhi, meravigliandosi della forza che ero capace di esercitare. Quasi perse l’equilibrio: «Gioca con il mio cuore», iniziai con voce strozzata. Girai il volto verso di lui di modo che vedesse la mia espressione furiosa, poi, a voce più alta, ma sempre roca e oltretombale: «gioca ancora con il mio cuore e io ti disintegro, bastardo!» Minacciai e, sottolineai le mie parole continuando a tirare leggermente la sua Stella. Per un po’ tutto si cristallizzò e lui mi guardò spaventato. Improvvisamente le forze mi vennero meno. Il filo si dissolse e lui fu libero. La sua stella ritornò in suo possesso. 
Caddi bocconi e, mentre ansimavo come se avessi corso senza fermarmi mai, il nostro avversario si fece una gran bella risata.
Contrassi le dita sul terreno e, tra un ansito e l’altro l’avvisai di nuovo, indispettita: «Non me ne frega niente se Hades o Pandora mi hanno chiamato qui per aiutarvi, se ti azzardi a pizzicare ancora quella tua stramaledettissima arpa, io ti cancello la stella e dovranno trovarsi un nuovo Specter della Sfinge, sono stata chiara?»
«E, come, se non puoi avvicinarti?» Mi sfidò con quel sorrisetto irritante.
Sollevai la testa emulando il sorriso affilato del Garuda: «Non ho bisogno di avvicinarmi! Posso farlo anche a distanza». E, nello stesso momento in cui lo dissi, ne ebbi anche la certezza. Le mie dita splendettero di nuovo e la Cosmic Domination si materializzò di nuovo, illuminandosi e passandomi l’energia della sua Stella Malefica, andando a compensare il dispendio energetico dato dallo scontro. 
Ignaro, Pharao ridacchiò e disse di nuovo: «Proprio non ti vuoi arrendere, che stolta. E sia, Maledizione della Bilancia».
Il cuore minacciò di uscirmi dalle costole con un dolore atroce tale che mi fece scoppiare in lacrime. Però resistetti e, mentre con una mano lo bloccavo opponendogli la Dark Resurrection, con l’altra attuai la mia minaccia quel tanto che bastò perché capisse l’antifona. Dissolsi la Cosmic Domination e le mie dita risplendettero di quel bianco smorto che aveva ucciso Neera. E gli cancellai metà della Stella con un movimento dell’indice. La sua risata si trasformò in un trasalimento di sorpresa e dolore, mentre metà del suo corpo cominciò ad annerirsi e carbonizzarsi. L’arpa marcì tra le sue mani e si ruppe cadendo a terra, così come i pezzi della sua Surplice. «Cosa mi stai facendo? Che cosa…?» Poi perse metà dell’uso della faccia e del suo corpo. Che s’ingrigì fino a imbiancare e avvizzire. I capelli gli caddero dalla testa e la pelle si fece cadente, il suo occhio divenne bianco e perse tono muscolare, ritrovandosi in ginocchio, impotente. Mentre io, con un notevole sforzo di volontà, mi raddrizzavo di nuovo in piedi.   
«Astrid!» Chiamò di nuovo la mia amica e i ragazzini fecero eco.    
«Hai capito, Pharao?» Sibilai furiosa manifestando il mio Cosmo nella sua interezza e lo Specter sgranò l’unico occhio ancora funzionante e cercò di arretrare. Poi, lo feci tornare normale e lo avvisai che «Per adesso ti lascio andare, ma se ci riprovi ti uccido senza pensarci due volte. Sparisci, prima che Hades si ritrovi con uno Specter in meno per sempre». Promisi seria, i capelli che mi volteggiavano attorno alle spalle e la gonna che si sollevava leggermente al ritmo degli spostamenti delle mie fiamme. Dopo i tre Giudici Infernali non avevo mai avuto tanta voglia di uccidere qualcuno come adesso. Persino la sete di vendetta nei confronti di Eris e dei Driadi era niente a confronto. 
Lui mi dedicò una smorfia che voleva essere un sorriso, una promessa di tornare all’attacco quando meno me lo sarei aspettato. Poi arretrò fino a tornarsene nei meandri delle ombre della porta del Secondo Girone che custodiva.  
Quando mi assicurarono che se ne era andato davvero, abbandonai la posizione, azzerai il Cosmo e cascai bocconi per terra. Mi tremavano le gambe per l’adrenalina. «Astrid!» Chiamò Raki e corse a sorreggermi. «Stai bene?» Mi chiese prendendomi per le spalle mentre anche gli altri ragazzini mi si affollavano intorno. 
«Sì, sono solo stanca».
«Astrid, perché il tuo sangue è d’oro?» Mi chiese sempre lei, spaventata e io, trattenni il fiato rumorosamente. Avrei voluto dire che non era mio, le parole mi stavano già uscendo dalle labbra quando mi ricordai che in realtà era davvero il mio. La guardai intimorita.
Lei non sapeva che cosa era successo. Nessuno al Santuario sapeva che io recavo nelle mie vene l’Ichor del maestro Odysseus.
Tesi una mano verso di lei per posargliela sulla guancia ma la ragazzina si scostò istintivamente. Neji le cinse le spalle con le braccia per rassicurarla. Doveva essere molto scossa anche da questo. Ma la capivo, anch’io mi sarei spaventata al posto suo. Già dovevo abituarmi ancora al colore del mio sangue. Allora la lasciai ricadere e me uscii con un neutro: «É una lunga storia.» solo dopo mi resi conto di conoscere già questi visi. Sgranai gli occhi, stupita: «Voi vi conosco. Vi ho già visti al Santuario». Dissi guardando i ragazzi. Ne avevo anche sentito parlare. Neji, Tokaki, Saoirse, Anna, Iago confermarono. Li chiamavo bambini, ma il più grande di lui, cioè Tokaki, aveva almeno sedici anni e Neji, subito dietro, ne aveva quattordici. Mentre Saoirse e sua sorella rispettivamente otto e nove.
«Sì, siamo apprendisti Saint, tu sei quella che dava ripetizioni di matematica e fisica a Eden, Ryuho e Komachi». Rispose Tokaki assottigliando lo sguardo per inquadrarmi bene nei suoi ricordi. Confermai, poi gli domandai, preoccupata, mentre continuavo a stringere a me Raki. Le due bambine erano invece abbracciate da Neji. E, fu in quel momento che mi accorsi che erano tutti vivi. Li discostai per guardarli stupefatta: «Ma… ma voi vivete! Com’è possibile? Credevo che Myu e gli altri Specter vi avessero uccisi».
«Non lo sappiamo, lo credevamo anche noi». Rispose la piccola Anna cercando di tergersi gli occhi della sua maschera impassibile e, capii che, dietro, le lacrime scorrevano a fiumi. Questa visione, più di ogni altra, mi strinse il cuore come un cencio bagnato, facendomi sgorgare altre lacrime sulle guance. L’abbracciai più forte e lei ricambiò con una forza tale che mi parve stesse aggrappandosi alle mie costole, piangendo apertamente.
«Ma soprattutto come siete sopravvissuti? Se non si è in possesso dell’Ottavo senso si muore». S’intromise Camus con voce incolore. Incolore? Lo guardai e improvvisamente percepii da lui tutta la preoccupazione che nascondeva. La sua espressione severa mostrava angoscia.
«Ci hanno messo al collo queste». Spiegò Raki tirando fuori da sotto l’orlo della maglietta un ciondolo con una piccola pietra nera appuntita e Camus comprese. Lui mi fece un cenno come a dire, te lo spiego dopo.
«Anche noi». Asserì uno, mentre disse, angustiata: «É successo qualche settimana fa. Prima che arrivassero gli ambasciatori di Poseidone. Il nobile Kiki dell’Ariete aveva cominciato a tenerci d’occhio, ma non sapevamo per quale motivo, poi gli Specter sono venuti a reclamarci alla Palaestra e i nostri maestri non sono riusciti a impedirglielo». Raccontò rapidamente la giovane.
«Anche il maestro Kiki ha cercato di fermarli ma io…» Si aggiunse Raki e vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime. E capii. La strinsi a me. «Va tutto bene, va tutto bene, non vi preoccupate». La rassicurai. 
Poi Camus, adesso di nuovo in piedi, dopo averli ringraziati con un cenno del capo domandò: «Da quanto siete qui? Perché non vi abbiamo visti prima?»
«Non lo sappiamo, abbiamo provato a orientarci ma i nostri orologi sono fermi e sappiamo solo di essere stati portati qui e di essere stati abbandonati in una foresta inquietante». Spiegò Neji e Iago aggiunse: «C’erano le arpie, ci hanno dato la caccia e gli alberi urlavano, se provavamo a colpirli sanguinavano!» Facendomi sgranare gli occhi. Cercai istintivamente lo sguardo di Camus, che ricambiò, spaventato quanto lo ero io.  
«Astrid, ho paura». Disse Raki, riportando la nostra attenzione su di loro. Nonostante il loro coraggio e il loro sangue freddo,. Ma neanche noialtri. Guardai Camus e lui ricambiò il mio sguardo, comprendendo.
«Non c’è niente di cui aver paura». Intervenne Camus, mentre si avvicinava ai ragazzini per rassicurare anche loro. «Pharao non è un tipo coraggioso, ci lascerà in pace per un bel po’. Tutto bene?» Chiese chinandosi alla sua altezza. Raki fece la spola con lo sguardo da lui a me: «Ma siete… cioè, sembrate…»
«Sì, ma non siamo parenti». Tagliai corto io, poi li presentai. «Lui è Camus di Aquarius, il maestro di Hyoga».
«Il nonno di Natasha?» Fece la piccola lemuriana guardandolo sorpresa.
«Proprio lui». Asserii io prima di rendermi conto delle parole della mia piccola amica e girarmi a guardare il nostro accompagnatore con tanto d’occhi. Che? Aspetta un po’? Questo era…
Improvvisamente il vento si sollevò e portò con sé un odore di fiori? Annusai l’aria e scoprii che era reale, che non mi sbagliavo: «Che cos’è questo profumo?» Domandai girando la testa in quella direzione.
«Sono… mughetti».
«La Driade».
«La Driade?» Domandammo in coro guardando la bambina che aveva parlato. «Lo Specter della Driade? É qui? Sta arrivando?» Chiosò Camus, sperando di averci indovinato. 
«No, ma credevamo di esserci allontanati. Tokaki, perché sentiamo ancora il profumo di quei maledetti fiori?»  
«Non lo so, sembra che ci seguano». Sbottò nervoso e il suo nervosismo si propagò tra i ragazzini che presero a urlare esagitati e spaventati. Ma ci pensò il mio conoscente a zittirli e a calmarli. Immediatamente i sei si zittirono e lo guardarono: «Non vi preoccupate, è solo il vento, per quanto riguarda lo Specter della Driade io andrò a controllare e Astrid vi riporterà all’accampamento».
«Non se ne parla neanche, Camus. Io vengo con te». Obiettai separandomi da Raki. 
«Astrid, è pericoloso», iniziò ma non gli diedi il tempo di continuare.
«Non m’importa! Non puoi pretendere che, dopo quello che è successo io ti lasci andare così, tranquillamente, a spasso per gli Inferi». Feci a voce più bassa, cercando di fargli capire quanto fossi preoccupata. Lui mi accennò ai bambini spostando lo sguardo su di loro, che si erano tenuti dietro la mia schiena e io, non so cosa mi prese, ma risposi: «Le mie ali saranno sufficienti a proteggerli tutti». Camus mi guardò confuso ma, decise di fidarsi della mia determinazione. Perciò raccogliemmo il sacco con i pezzi, che si era salvato e ci recammo dallo Specter in questione, sotto la guida dei piccoli.  
La cosa che ci colpì, fu passare improvvisamente, dall’oscurità Infera a un luogo totalmente diverso. Io e Camus ci guardammo attorno, spaesati. Ancor di più nello scorgere una grande, bianca luna piena alta sopra di noi. I cui raggi illuminavano la foresta di betulle e altre alberi che stormivano dolcemente nel vento. Ai nostri piedi, un folto, bellissimo tappeto di mughetti bianchi e profumati. Era un luogo da sogno, sembrava di essere tornati nel Mondo dei Vivi. Posai il sacco a terra e mi chinai per toccarli e verificare che fossero veri. «Fà attenzione!» Mi ammonì Camus e rizzai la testa di scatto, ritraendo la mano. Mi dava la schiena ma si era perfettamente accorto delle mie manovre: «Questi non sono mughetti comuni, questi sono la fonte del potere di Luco della Driade, è grazie alle cure e alle misture che preparava con questi che riusciva a reclutare Skeleton e Velate. E i suoi colpi sono basati sulle piante. Albafica di Pisces ne ha riscontrati ben due e si è premurati di trascriverli nel suo rapporto, prima di morire».
Mi rialzai.
Improvvisamente un voce maschile profonda esordì parlando tutto attorno a noi: «A quanto pare la lezione non vi è bastata per inoltrarvi di nuovo nei miei territori, Gold Saint e soldatini». Fece poi.    
«Luco? Luco della Driade?» Chiamai guardandomi intorno nel tentativo di individuarlo.
«Tu devi essere la fanciulla che il Sommo Hades ha reclutato. Ho sentito molto parlare di te. Dicono che tu ti stia costruendo una corazza con i pezzi dei caduti, dico bene?» Fece lo Specter uscendo dalla vegetazione. Non avevo mai visto prima uno Specter senza Surplice. Aveva lunghi capelli scuri e mossi che gli cadevano sulle spalle e sulla schiena. Gli coprivano un occhio e la sua pelle era nivea come i fiori di cui si prendeva cura. La sua corporatura snella era evidenziata dalla lunga giacca nera che indossava. 
«É così». 
Non ne fui sicura, ma credo che sorrise. «Immagino che ti servirà un’arma».
«Un’arma?» Ripetei accigliandomi.
«Non è per questo che sei qui? Oh, non mi dire. Non sai che cosa hai raccolto, vero? Nel campo di battaglia hai trovato dei gioielli, non è così? Una volta appartenevano a una Dea». Capii immediatamente a cosa si riferiva.
«I gioielli di una Dea? E perché sono qui? Perché li ho trovati io?» Camus mi guardò senza capire e, i ragazzini si tennero all’inizio del prato, alla larga, al sicuro.
«Non perché li hai trovati tu, ma perché hanno scelto di appartenere a te, è ironico, in un certo senso, ma credo che lei avrebbe apprezzato, dopotutto li puoi considerare un trofeo». Ribatté enigmatico. Ma io non gli avevo posto domande, che cosa gli prendeva?
«Aspetta, mi stai dicendo che esiste un’altra arma legata agli Dèi qui? In questo posto?»
«Molto acuta. Albafica a suo tempo ci avrebbe messo come minimo tre giorni prima di arrivarci». Si complimentò, ma io mi lasciai scivolare il suo complimento di dosso.
«Perché me lo stai dicendo?»   
«Perché sono curioso di testare la tua forza. In fondo sono uno studioso ed è compito mio reclutare i servi del Sommo Hades. Ma non adesso, adesso andatevene, la prossima volta ne discuteremo con più calma. Sappi solo che se tornerai, dovrai sottostare alle mie prove, se perdi, sarai costretta a diventare una di noi».
«E se vinco io?»
«Ti darò l’arma mancante. Ma ti consiglio di sbrigarti, preferirei darla a te, piuttosto che consegnarla nelle mani di Don Avido».
«L’arma mancante? Stai parlando della daga deicida? Io sapevo che era già in loro possesso, che storia è questa?» Urlò Camus. Invece io, nel sentirgli pronunciare quel nome scattai in avanti verso di lui. «Don Avido? Aspetta, che cosa significa? Che cosa c’entra…» Ma non potei finire la frase un turbine di petali bianchi si sollevò da terra e lo avvolse. Quando si posò, lo Specter era scomparso, di lui erano rimasti solo i mughetti che ci sfioravano le caviglie. Abbassai il braccio che avevo alzato nel tentativo di fermarlo.
Camus e io ci guardammo attorno prima di guardarci. Il mio cuore batteva all’impazzata per la paura. Mi strinsi nelle spalle per cercare di calmarmi. In altri momenti avrei chiesto aiuto a Camus, ma lui non mi sembrava il tipo. Infatti, si stava allontanando. Eppure, capì lo stesso, perché lo sentii chiamarmi. Lo guardai da sopra una spalla e, vidi che aveva raccolto il sacco e tendeva una mano verso di me. Mi girai completamente verso di lui e presi quella mano. Il gelo che permeava quelle dita mi fece rabbrividire, eppure non mollai la presa e mi lasciai trascinare dolcemente fino all’inizio del tappeto fiorito. 
«E ora che facciamo?» Chiese Saoirse mentre lei e Anna si avvicinavano a me e mi abbracciavano.
«Potremmo andare all’accampamento dei Celti, non ci negheranno la loro ospitalità». Propose Camus, dato che io stavo ancora riflettendo sulle parole di Luco. Se era come diceva e, dalle reazioni Camus doveva essere vero, allora avrei dovuto chiedergli spiegazioni.
Gli chiesi perché a proposito dei Celti e lui rispose che, da quando erano stati messi nelle retrovie a causa dell’arrivo della Luce Ombrosa, avevano preferito distaccarsi dall’accampamento principale. Lady Pandora era riuscita a ottenere da loro che fungessero da ultimo baluardo e rifugio d’emergenza, in caso la battaglia fosse andata male. Gli chiesi quanto fosse distante. «Non molto, solo un paio d’ore di cammino; sempre che i tre Giudici Infernali non ci creino problemi». Già, dopotutto non sapeva se ero stata posta sotto la loro “protezione” o no. Anche se la tata l’avesse ordinato, io li avrei comunque rifiutati tutti e tre. Non volevo avere più niente a che vedere con quei tre. 
«Va bene». Acconsentii.
 I Celti.
Giusto! Mia madre. Lei era una estimatrice della cultura celtica! Se c’era un posto dove sicuramente avrei potuto trovarla era proprio lì! Il pensiero che avrei rivisto mia madre mi trascinò fuori dai miei pensieri e mi accese. La speranza rinacque in me, facendomi palpitare il cuore. Forse lì avrei ritrovato la mamma. Forse non tutto era perduto.
Volli sapere tutto e lui ci raccontò di essere diventato membro onorario e ambasciatore della tribù. Disse anche, in tono scherzoso (ormai stavo cominciando a cogliere le varie sfumature emotive nella sua voce) che lo consideravano il loro mago dell’acqua. E ci spiegò anche l’origine di questo soprannome.
Feci una gran fatica a non sorpassarlo e correre dritta spedita da loro. Non solo perché non volevo che mi vedesse, ma anche perché non volevo che vedesse questa mia ferita.
Appena fummo in vista si levò un suono di corni che fece sollevare in volo uno stormo di quei bai passerotti monocoli che tanto m’incuriosivano.
I Celti accolsero Camus come se fosse stato il loro eroe, non solo come il Gold Saint qual era e tutti i ruoli che per loro rivestiva. Noialtri restammo un po’in disparte attendendo che ci notassero. Quale fu la mia sorpresa quando, in mezzo alla folla comparvero uno Specter (lo riconobbi dalla Surplice) e un giovane con una brutta cicatrice a deturpargli un occhio. A giudicare da come zoppicava con il bastone, doveva essere rimasto ferito da poco. Camus scambiò qualche parola con loro e poi prese in braccio Fianna che corse da lui. Come faceva a sapere che saremmo venuti qui?  La quale cominciò a tempestarlo di domande, piangendo, forse credendo che non lo avrebbe rivisto mai più. Anche se non parlavo né il celtico né il francese, non ci voleva la scienza per capirlo. E, neanche l’otorino per sentirla, visto che stava urlando per sovrastare tutto il vociare circostante.
Camus le carezzò una guancia e poi la mise delicatamente giù. Solo allora si girò verso di noi e ci indicò presentandoci nella lingua di questa civiltà e tutta l’attenzione fu catalizzata su noi sette. 
Mentre la tribù si affollava attorno a noi, Camus ci presentò, spiegando (così mi disse in seguito) chi eravamo, perché eravamo qui e che avevamo bisogno di riposo e di ristorarci. Disse che eravamo dei guerrieri e che eravamo appena tornati da un’aspra battaglia. Pregò i suoi compagni di essere gentili e ospitali con noi, in nome della loro Divinità. Così, i Celti accolsero anche noi.
Qualche donna si fece avanti per i bambini, i quali si strinsero addosso ai più grandicelli. Camus spiegò loro che non avrebbero fatto niente di male, che erano sacerdotesse e che li avrebbero curati.
Solo allora si fidarono e si lasciarono portare via. 
Mi guardai attorno più volte attorno alla ricerca di mia madre. “Dove sei?” Pensai mentre nella mia mente s’affollavano immagini di me e di lei che ce ne andavamo da qui, vittoriose. Al diavolo l’infantilismo di quelle visioni. Al diavolo il suo credo, la legge degli Inferi, la guerra,  pure anche quella piccola vocina che cercavo di zittire; lei era pur sempre mia madre. E quale altro posto migliore avrebbe potuto cercare e trovare rifugio se non qui? Aveva sempre amato questa civiltà, era impossibile che si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di sostare con loro. Eppure non la vedevo da nessuna parte. La mia speranza cominciò a incrinarsi. “No, per favore, no…” mentre lo Specter dell’Arpia, intanto che alcuni  qualcuno con lo sguardo. Si riscosse quando Valentine domandò, perplesso: «Lei non è la ragazza che ha resuscitato i Giudici Infernali?»
«Proprio lei».
Sorprendentemente Valentine mi prese la mano ed eseguì un pomposo baciamano tratto dal Manuale del perfetto lecchino. «Onorato di fare la vostra conoscenza, signorina». Disse cerimonioso facendomi sì arrossire, ma anche guardarlo con sospetto. «Sì, tanto piacere». Risposi senza troppa enfasi, lasciando invece, trasparire ciò che provavo. Cercai anche di sfilare la mano ma non me lo consentì.  
Durante la cena in una tenda che i Celti costruirono apposta per ospitare tutti noi, ebbi modo di conoscere la storia per bocca dell’Arpia. Il quale ci disse che, lui, Isaak e Fianna erano venuti qui su insistenza di quest’ultima. Disse che era come se lei lo sapesse che saremmo arrivati. Poi ci raccontò anche la vicenda della daga deicida.
L’aveva portata con sé la Dea durante l’ultima Guerra Sacra e, poi, il Cavaliere dei Gemelli l’aveva riportata nel mondo dei vivi al momento della resurrezione. Per poi tornare di nuovo negli Inferi e, nelle mani di Luco, per opera di Milo. Mi sorprese davvero sapere che lui fu l’ultima persona ad averla brandita, anche se, per far evolvere la sua Scorpio. Camus mi spiegò anche la faccenda delle God Gold Cloth e della loro evoluzione sancita da un oggetto che simboleggiasse il loro legame con la Dea Atena. Un medaglione a forma di punta di freccia per Aiolia, la daga per Saga e poi, il loro sangue per tutti loro, quando avevano affrontato Loki.    
Durante i primi anni della Guerra, quando ero ancora una bambina, cominciò a spargersi la voce di una daga deicida che era finita negli Inferi. Che, a quel che avevo capito, erano un po’come l’outlet della mitologia. E Pharao mi voleva punire per questo… Ironia a parte, fu così che venni a sapere che la daga cadde nelle mani di Don Avido e, che, da lì, la sfruttò come una comune spada per conquistare gli Inferi. Quando credette di non farsene più niente la chiuse nel suo tesoro. Ma il Black Saint di Ara non aveva fatto i conti con la geologia degli Inferi, infatti, con uno stratagemma, la zia riuscì ad appropriarsi del potere degli Inferi e a mandare un colpo d’avvertimento al nemico, distruggendo la camera dei suoi tesori, che franò giù dal palazzo in cui erano custoditi. Palazzo che si era fatto costruire dalle anime prigioniere.
Don Avido riuscì a recuperare tutti gli oggetti, tranne la daga. Che nel frattempo era stata requisita da uno Skeleton e portata allo Specter della Driade, uno dei primi che risorsero, grazie alla particolarità del suo Cosmo e del suo territorio, che si trovava più nel mondo dei Vivi che in quello dei Morti. I Black Saint se ne erano accorti recentemente e minacciavano Luco, il quale li sfidava a prendere la spada, ma li ostacolava con le sue tecniche. «Credevo che si fosse già arreso da un pezzo». Commentò Valentine. Prima che inghiottisse la sua cucchiaiata gli domandai che cosa intendesse con il territorio più di Là che di Qua. Fu così che ci spiegò anche che, alcuni territori degli Inferi erano più “sopraelevati” di altri per far circolare la luce all’interno di questi luoghi e l’ossigeno. E che questi luoghi talvolta erano talmente vicini al Mondo dei Vivi, da protendersi fino a intrecciarcisi, ma non a esserci veramente.   
Poi, chiesi quello che più mi premeva. «Cambiando un attimo argomento, per caso avete visto una donna dai capelli neri, mossi, con gli occhi scuri, una appassionata della cultura celtica, alta più o meno così, magra, che non porta rispetto per nessuno…»
«No, non credo, è morta?» Domandò Valentine.
«Sì».
«Come? Perché è un po’vago questo».
«Si è buttata da una torre per sfuggire ai Black Saint. Mi… hanno detto che le Creature però sono arrivate prima e… cioè, mi chiedevo se per caso, ecco la sua anima non è sopravvissuta».
«Una suicida, quindi». Mi trattenni dal fulminarlo con lo sguardo per il tono che usò e mi costrinsi a confermare. «Sai dirci qualcos’altro?» Chiese Isaak, sistemandosi meglio sulle stuoie.
Mi spostai una ciocca dietro l’orecchio: «Era una chiromante molto dotata, leggeva la mano, le carte, era un’astrologa in tutto e per tutto, aveva all’incirca la stessa età della Sacerdotessa di Hades e le era molto amica. Si chiamava Aida».
Gli occhi dello Specter dai capelli color lino mandarono un lampo di riconoscimento e mi squadrò incredulo dalla testa ai piedi. Eppure, quando aprì bocca disse di no: «Non è possibile che sia giunta qui».
«Perché no?»
«Perché per quanto il suo gesto sia stato grave, quando si cade vittime delle Creature, l’anima si annulla completamente. Non esiste più».  Rispose in tono mite e contrito. Ma solo perché ero io. Il mondo mi crollò addosso. La ciotola mi cadde di mano e le spalle mi si incurvarono, mentre il cuore, che finora aveva battuto velocissimo, adesso si era stretto in una morsa dolorosa. Chinai il capo, affranta.    
Gli occhi di tutti erano puntati su di me. «Scusate, ho bisogno di un momento.» feci alzandomi e uscii dalla tenda, accompagnata dai loro sguardi.
Camminai per una buona mezz’ora, allontanandomi dall’accampamento. Sapevo che era pericoloso, però volevo solo restare da sola. Non mi sarei allontanata troppo, non volevo incorrere nei nemici e, al tempo stesso volevo un posto riparato.
Perciò optai per un piccolo fiumiciattolo poco oltre qualche tronco d’albero. Lì detti libero sfogo al mio dolore con un acuto grido di dolore e dei pugni al suolo, facendomi male alle mani, ma non m’importò. Nessun dolore fisico sarebbe mai stato sufficiente a distrarmi da quello emotivo che mi piegava in due in quel momento: «Mamma!» Poi crollai bocconi, come se lo sforzo di gridare avesse mandato in frantumi quell’impalcatura che mi aveva sostenuto finora. Raccolsi le mie mani in grembo e poi al volto grondante di lacrime. «Non è giusto, non è giusto». Continuai a biascicare. A volte dando dei colpi alla terra con il pugno, come se quest’ultima avesse potuto restituirmela. Ma non ottenni altro che ancora più dolore e sofferenza. L’animale ferito che ero lanciava acuti e radi stridii di dolore. Le spalle e il petto scosse dal pianto disperato. Presto la mia vista fu offuscata dalle lacrime e cominciò a colarmi il naso. Ma cosa me ne importava? Nessuna lacrima mi avrebbe mai restituito mia madre! Nessuna! E non potevo neanche prendermela con Hades perché sapevo come erano andati i fatti.
Io non potevo fare niente.
Avevo sperato di riproporre quel mito sventurato. Mi dicevo che con me avrebbe avuto successo. Mi immaginavo già con la mamma che risaliva dietro di me, tenendomi saldamente per mano. Ma le mie speranze erano andate in frantumi ancor prima di cominciare ad architettare un piano vero e proprio. 
Un altro gemito più forte degli altri mi scosse il petto, tramutandosi in un grido. 
Mi ficcai un pugno in bocca per evitare a me stessa di gridare e lo morsi, lasciandomi sfuggire un altro lamento di dolore.
«Ehi, tutto bene?» Mi chiese una voce maschile alle mie spalle. Trasalii, e mi tolsi la mano dalla bocca. Visione che, a Camus non sfuggì. Lo vidi da come guardò i segni dei miei denti sulla mia pelle, prima che la nascondessi alla sua vista. Come poi feci anche con il mio viso. Mi detersi il volto con il dorso della mano, ripulendomi almeno parzialmente.
«Sì». Risposi in un singulto, senza girarmi più.
«Non direi proprio». Rilevò con tranquillità ma non si avvicinò, né invase il mio spazio personale. Ora che le mie emozioni correvano a piede libero, anche le mie difese erano abbattute. Percepii più volte i suoi tentativi di parlare, bloccati dall’indecisione. Che parlasse o meno non erano affari miei. Non avrebbe potuto ridarmi mia madre. Non me ne facevo niente delle sue parole.
Infine riuscì a formulare un discorso di senso compiuto: «É successo qualcosa?»
«No è… uno sfogo che ogni tanto… sai, lo stress». Bofonchiai gesticolando  con la mano sana. Tanto il dolore fisico che mi ero inferta stava già scomparendo. Continuai a cingermi l’addome per evitare di cadere a pezzi. «Capisco. Pensavo che avessi un attacco di panico, Milo mi ha detto che ne soffri». Aggiunse poi, in tono delicato, ma si capiva che stava girandoci intorno. Non era un imbecille.
Io sgranai gli occhi. Milo cosa gli aveva detto? Mi sentii scaldare leggermente il volto per l’imbarazzo. Non che ci fosse qualcosa di male nel soffrire così, però avrei preferito che non lo sapesse. E, non potevo neanche smentire queste parole, perché lui stesso ne aveva sentito parlare e mi aveva visto in crisi. Presi fiato e risposi dopo un respiro tremante: «Sì è vero però», tirai su col naso, «questa è un’altra cosa».
«Cosa, se posso chiedere?» Domandò, sempre con molto tatto, temendo di ferirmi se per caso avesse espresso quelle parole. Non percepii la curiosità invasiva di un pettegolo, bensì la delicatezza, la dolcezza e l’invito di una persona solidale. Di una persona che vuole sapere cosa può fare per farti stare bene. “Lasciati aiutare”. Mi aveva consigliato il mio maestro mesi fa. Che, tra le altre cose, non sentivo più da quando ero finita qui. Credevo di essere diventata più forte, invece no. Io conoscevo l’arte dell’arrangiarmi da me, mi faceva ancora un certo effetto chiedere aiuto e accettarlo senza sentirmi inadeguata nei confronti di me stessa. Non potevo tenermi tutto dentro dopo tutta la strada che aveva fatto per venirmi a riprendere.
Annuii e mi tamponai le lacrime con il palmo della mano: «Speravo di rivedere mia madre, ma non è qui. Sai, lei è morta poco tempo fa, perché stava cercando di aiutarmi. Per un attimo ho sperato di poter fare come nel mito di Orfeo ed Euridice ma…» mi sfuggì una risatina triste, poi cambiai discorso, «A volte penso che il Cosmo voglia che io e solo io debba sciogliere questo mistero, senza alcun aiuto da parte di nessuno e ora sono bloccata qui, mentre su, tra i Vivi…»
Restò in silenzio alle mie spalle per un po’. Se non fosse che percepivo ancora le sue emozioni avrei detto che se ne fosse già andato. Eppure, anche così, il resto delle parole non voleva uscire. Mi sentivo priva dei miei sostegni. Stavo cercando di rialzarmi ma non ci riuscivo.
«Purtroppo, però, è destino comune dei Saint restare da soli. Almeno tu sei stata fortunata, molti non arrivano neanche a un giorno di vita che non conoscono i propri genitori. Sono sicuro che tua madre fosse una persona molto coraggiosa, dovresti essere orgogliosa di lei, ti ha dato tutto quello che poteva per aiutarti. Non so molto dell’amore tra madre e figlio e mi rendo conto che le mie parole per te possano sembrare vuote e prive di senso». Si scusò. 
«Sì, lo so che al Santuario siete tutti orfani». Mormorai più piano di quanto mi aspettassi, perciò la frase mi uscì come se mi stessi scusando io, invece che lui. Non era colpa sua, ma non sopportavo più che mi venisse ricordato. Lui soprassedette e disse: «Quello che sto cercando di dire è che tu sei stata fortunata, ma piangere non servirà a riportarla in vita. Per quanto ci provi, lei non tornerà, però continuerà a vivere nel tuo Cosmo e nella tua memoria per l’eternità, fa che il suo sacrificio non sia stato invano». Mi abbracciai le ginocchia riflettendo sulle sue parole. Non avevo mai considerato la faccenda sotto questo punto di vista. 
Lo sentii coprire la distanza tra di noi e affiancarmi. Girai il volto verso di lui e lo vidi chinarsi leggermente e porgermi la mano. Anche se le prime cose che incontrai furono le sue dita tese verso di me in un invito a rialzarmi e a non arrendermi. Il mio sguardo fece la spola tra loro e lui. Non ero abituata agli atti di gentilezza, però non volevo neanche essere oggetto della sua compassione. Non potevo sapere quanto sarebbe durata. E, poi, non ero così malmessa da non riuscire a camminare. Per quanto apprezzassi questa premura, avrei preferito che tale aiuto mi fosse venuto per salvarmi dalle crisi. Per questo, scelsi di alzarmi da sola, facendo leva sull’altra mano. Camus ritrasse la sua, guardandomi, adesso un po’spaesato e insicuro. Mi tamponai gli occhi con un palmo un’ultima volta. «Grazie per le tue parole, Camus e perdonami per il disturbo che ti ho arrecato». Mi scusai, prima di sforzarmi di sorridere, imbarazzata.
«Non ti preoccupare, è normale piangere e disperarsi, l’importante poi è riprendersi. Ma non sei obbligata a sorridere per forza, non fa niente». Ribatté, anche se mi suonò come un “se lo sai allora perché lo fai?”
«Hai ragione, è solo che… che mi manca molto». Risposi, appianando la mia espressione.
E crollai di nuovo in ginocchio, piangendo nuove lacrime. Camus non fece niente per spronarmi a reagire. Lasciò che cadessi in pezzi, distrutta e sopraffatta dal mio dolore. Era ovvio che un dolore come il mio non sarebbe mai passato. E, per quanto avesse ragione, la sua ragione mi sembrava un’enorme stupidaggine. Lui non ne sapeva niente, non poteva sapere cosa si provava. Eppure, si sedette davanti a me e continuò a vegliare su di me, mentre piangevo fino ad addormentarmi.
Quando mi svegliai, scoprii che mi stava riportando in braccio all’accampamento e di avere la testa appoggiata alla sua spalla. Non me ne ero accorta lì per lì, non solo perché ormai mi stavo abituando ma perché le zone dove la mia pelle sfiorava la sua si erano scaldate. Lo trovai un fenomeno abbastanza curioso, però il sonno mi richiamò di nuovo a sé, prima che formulassi di nuovo un pensiero.
Sognai di trovarmi sdraiata su un prato verde. Il cielo sopra di me era azzurro e la luce filtrava da dietro le fronde del tiglio sotto cui riposavo. Sentii delle voci chiamarmi e mi misi seduta. Fu così che sognai di trovarmi nel giardino di Villa Heinstein. Il polline volteggiava tutto attorno trasportato dalla leggerissima bava di vento che spirava.
Sentii la voce di mia madre chiamarmi, accompagnata da quella della tata. Le quali erano sotto il portico di legno bianco che sistemavano la colazione sul tavolo. Mia madre indossava una corona e gioielli fatti con i fiori e orecchini di ciliegia. Quel tipo di gioiello fatto con i gambi in comune di due ciliegie. La zia era radiosa nel suo abito lillà a mezze maniche e dal taglio moderno che le risaltava gli occhi. Anche lei indossava un braccialetto di fiorellini bianchi intrecciati. «Vieni, la colazione è pronta!»         
Poi mi svegliai e mi ritrovai a fissare una cosa nera che dopo identificai come il soffitto di una tenda. E capii di essere distesa su qualcosa di morbido, un giaciglio in terra e che, qualcuno mi aveva coperto con un lenzuolo. Girai il capo e vidi Raki accanto a me. I capelli sciolti e la saliva che le colava da un angolo della bocca mentre russava. Nei lettini accanto al suo, stavano anche gli altri ragazzini che dormivano ancora, in modo più o meno disordinato. Ma di Isaak e Valentine non c’era traccia. Fianna dormiva sul lato sinistro della tenda in un giaciglio tutto suo. Fino a questo momento non sapevo che gli spiriti dormissero.
Mi misi a sedere e vidi Camus seduto sull’uscio che contemplava l’esterno, i gomiti sulle ginocchia piegate e le mani intrecciate. Sembrava non essersi accorto che mi ero svegliata. Avevo la faccia secca e la pelle tirata. Avevo bisogno di darmi una ripulita. In un angolo vidi una bacinella con un panno e una caraffa d’acqua. Mi alzai facendo attenzione a non svegliare nessuno e mi detti una ripulita. Anche se niente avrebbe potuto cancellare il gonfiore dei miei occhi. Eppure, nonostante questo, mi sentivo un po’più tranquilla e lucida. Ovvio che il dolore era ancora lì, ma oggi sembrava un po’meno violento. 
Rimisi tutto come l’avevo trovato e mi avvicinai al mio sosia al maschile, che era rimasto vicino a uno dei pali di sostegno della tenda e, osservava il panorama fuori. Mi sedetti davanti a lui e guardai fuori a mia volta.
«Dormono?» Mi chiese gettando un’occhiata alle nostre spalle. Le braccia incrociate. Si era di nuovo cambiato d’abito, in favore di vestiti colorati, stavolta, anche se non diversi come taglio. 
Asserii con un cenno del capo e lui mi disse che in un angolo, c’era il sacco con i pezzi della corazza che avevo trovato e che non si erano ancora disintegrati, neanche quando li aveva presi in mano. «Bene, perfetto».
«Come ti senti?» Mi chiese guardandomi di striscio. Non dovevo essere questo bellissimo spettacolo con i capelli arruffati e gli occhi gonfi. Ma chi se ne importava. Anche lui aveva gli occhi un po’cisposi e i capelli spettinati e annodati. 
«Un po’più tranquilla». Meglio era una parola che, per il momento non mi descriveva appieno.
«Bene».
«E, tu?» Chiesi.
«Normale».
“Ok”, pensai. Pensai che fosse finita qui, invece, lui inspirò e parlò: «Senti, stanotte ho riflettuto molto e penso che per oggi non dovresti fare niente, dovresti solo riposarti. Dopo lo sfogo di ieri sera ho capito quanto tu sia stressata e non va bene. Ovviamente questo non è un ordine è solo che, ne hai passate troppe e tutto nell’arco di pochi giorni. Il mio è un consiglio, ovviamente, ma secondo me dovresti passare la giornata a riposo, per ricalibrarti un po’. So che non dovrei neanche essere io a dirtelo, in fondo c’è una guerra, però…» Disse, preoccupato, ma a quel punto avevo già smesso di ascoltarlo. Ma avevo retto di peggio, perciò gli posai una mano sul ginocchio, per fermarlo. Lui si zittì e, finalmente mi guardò. Anche un po’spiazzato dal mio gesto. Tolsi la mano e risposi: «Ascolta, apprezzo tutte le tue premure, la tua pazienza con me e il gesto, ma va bene così. Come hai detto tu, non abbiamo tempo. Se è vero che esiste una daga deicida e che i Black Saint la vogliono, allora dobbiamo prenderla prima noi». Specificai. Camus mi guardò a lungo, con i suoi freddi occhi rossi, prima di rilevare che così comunque restavo vulnerabile.
Mi riavviai le ciocche passandoci una mano: «Allora sarà il caso di cominciare a lavorare all’armatura, ma mentre lo faccio, tu raccontami tutto, per favore». Ma, prima di tutto, facemmo colazione con quello che passava il convento, ossia con il cibo portatoci da Valentine e Isaak (che mi chiese anche lui come mi sentissi e se avessi dormito bene; Valentine si limitò solo a farmi le condoglianze in tono abbastanza spiccio).
Per prima cosa i pezzi che avevo preso erano più che altro per le braccia. Rimuginai che, prima o poi avrei dovuto farmi altri buchi per la parure. In fondo, mi piaceva considerarla proprio come un trofeo. Certo, avrei dovuto disinfettarla prima di indossarla, ma l’idea di farmi un ennesimo buco alle orecchie non mi terrorizzava.    
Dal canto suo, Camus cercò sia di darmi dei consigli su come disporre i pezzi, informandomi anche dei nomi dei vari pezzi dell’armatura, lasciandomi sorpresa perché credevo che non li conoscesse, sia di accontentarmi. Quest’ultima cercando di addolcire un po’ il suo racconto, per quanto gli fosse possibile. Restai molto sorpresa di sapere che il suo contributo alla guerra era relativamente recente; cioè sembrava che combattesse con gli Specter da molto di più.
Mentre parlava ebbi anche un micro attacco di ansia, ma mi bastò concentrarmi sulle sue parole e sentire il calore che mi circondava a ignorarlo completamente. Questi attacchi non avrebbero mai finito di stupirmi. Dopo il primo avuto in infermeria, avevo cominciato a lottare per evitare che altre crisi mi assalissero. Non ne potevo più di essere sopraffatta.
A fine lavoro, grazie anche ai filamenti dorati della sua costellazione che avevo preso a prestito, avevo realizzato un bracciale che mi cingeva l’avambraccio sinistro come una polsiera. L’oro dei filamenti aveva fatto da collante per i pezzi di Surplice. Era solo un poco più pesante, ma non era niente che mi intralciasse o mi ostacolasse. Persino Camus lo osservava incuriosito. Con i restanti ci feci un bracciale che misi a protezione del braccio destro, e, con una serie di cinghie e fasce che realizzai con i filamenti, mi aiutò a realizzare un giustacuore da allacciare sotto l’ascella destra e sulla spalla sinistra.
Mi alzai e provai. «Non sarebbe stato meglio il destro?» Mi chiese soltanto, dopo aver saggiato l’elasticità e la resistenza di queste, facendomi gonfiare il Cosmo. I pezzi, incredibilmente non si spaccarono, ma anzi, resistettero. Quindi la mia teoria funzionava.
«Tanto sono ambidestra». Però, mi sentivo già un po’più sicura. Adesso capivo perfettamente i Bronze Saint, che combattevano con quel poco o niente di cloth che si ritrovavano. Anche un piccolo pezzo di armatura faceva già una notevole differenza. Poi non era così pesante, erano più leggeri di quanto pensassi. Non ero Kiki, ma non me la cavavo poi così male. Se solo ci fosse stato un riparatore di cloth in zona… Pensai. Salvo poi scoprire, per bocca di Valentine, quando glielo chiesi, che le Surplici si rigeneravano da sole, un po’come il Bronze Cloth di Phoenix. 
«Dirò ad Isaak di portarti il resto dei pezzi». Si offrì poi, leggendo la mia espressione.    

Stavamo testando la resistenza dei pezzi con l’ausilio dello Specter dell’Arpia, che non si era certo tirato indietro, quando gli aveva chiesto aiuto e, aveva ingaggiato battaglia con me. Con mia grande sorpresa, lo Specter non solo si dimostrò più violento di quanto immaginassi, ma andò dritto al punto sferrandomi subito un colpo. Sul corpo a corpo ero perfettamente negata, per questo preferii allontanarlo e schivare, un po’ male, lo ammetto. Meno male che potevo usufruire della Dark Resurrection. «É la prima volta che incontro un avversario capace di rigenerarsi». Commentò ammirato, ampliando ancor più il suo sorriso. Ad ora non avevo mai visto gli Specter sorridere, a eccezione di Aiacos, ma quello era più il sorriso affilato di un pazzo che un vero sorriso. E, lo stesso valeva anche per Violate. La piega che prese la bocca di Valentine fu più dolce dell’espressione draconica che immaginavo impossessarsi del volto del suo superiore. Per il resto mi ricordava lui, nonostante il colore più chiaro di occhi e chioma. Lo Specter cominciò a gonfiare il proprio Cosmo Oscuro, mettendosi in posizione d’attacco.
«Valentine!» Lo richiamò Camus, «Ti ho detto che non devi usare il Cosmo, i Black Saint potrebbero percepirlo!» Già, c’era anche questo problema, in quanto i Pitti, abili nello spostarsi nelle valli nebbiose, ci avevano riferito che alcuni Black Saint al soldo di Don Avido erano stati visti aggirarsi nelle zone brumose dove avevamo combattuto con Pharao. Fortunatamente non brillavano per arguzia, altrimenti avrebbero scorto anche le impronte che c’eravamo lasciati alle spalle.
«Che lagna che sei, ho capito!» Ribatté lo Specter azzerandolo nuovamente. Poi passò alla vecchia maniera che risultò essere lo stile “rissa da strada”. Io cercai di opporre le protezioni ai suoi colpi, ritrovandomi a terra a causa dello sgambetto a tradimento che mi fece. Ma riuscivo ancora a muovere le mani. E, il bastardo, non si era tolto la Surplice, perciò non solo dovevo fare attenzione a non fratturarmi niente, ma anche a non tagliarmi. Eppure anche se non usava il Cosmo, sentivo la sua rabbia, la sua frustrazione e la voglia di rivalsa che trasmetteva.  
«Le protezioni funzionano». Decretò lo Specter sorridendo divertito, mentre torreggiava su di me, che mi rialzavo sui gomiti. Le braccia penzoloni lungo i fianchi e i pugni chiusi. Nella posa che assunse, in un certo senso mi ricordò un vessillo che sventola nel vento. Che fosse anche teatrale?
«Che hai da fissare?» Mi chiese infastidito, mentre mi mettevo seduta e, raccoglievo una manciata di terra. «Niente, mi domandavo soltanto quanto tu debba essere frustrato» lo provocai.
«Frustrato?»
«Bè, sì, costretto a seguire Camus e me, lontano dal tuo Signore».
Lui mi trapassò con lo sguardo. Camus fece un passo avanti, spaventato. E lo Specter dell’Arpia reagì, ma contrariamente a quanto mi aspettassi fece una finta e mi afferrò la mano, stritolandomi il polso, strappandomi un gemito di dolore e costringendomi ad aprire la mano. «Credevi che fossi un rissaiolo di strada e che non sapessi riconoscere i miei stessi pensieri quando li sento? Non so con che trucco mentale tu l’abbia scoperti, ma sei poco furba e sei inesperta». Lasciò andare il mio polso con uno strattone e me lo raccolsi nell’altra mano, gemendo di dolore, mentre esercitavo la Dark Resurrection. Poi ridusse gli occhi in due fessure: «Devo dirlo, avevo sentito dire che avevi messo in difficoltà buona parte di quei colleghi che ti hanno sfidato, ma non immaginavo che fossi così debole. E poi, anche tu sei tanto brava a parlare, ma ricordati che non potrai mai essere veramente la Luce Ombrosa finché non lo vorrai. Forse allora acquisirai un po’di quel carisma che ti manca».
Proprio in quel momento udimmo del trambusto tra le tende e vedemmo un giovane spirito urlare nella sua lingua natia  Girammo le teste in quella direzione e mi rialzai. «Che sta dicendo?»
«Dice che sta arrivando qualcuno». Tradusse Camus accigliandosi ancor di più. Prestò orecchio alle parole che urlava e decretò che erano Specter. Io e Valentine gli facemmo eco sorpresi. Che cosa ci facevano qui?
Andammo a vedere e ci trovammo davanti ad Isaak con un sacco in spalla. Si guardava continuamente alle spalle, come se temesse un attacco dal resto della comitiva. Era seguito a poca distanza da Menta, che indossava una lunga e fluente stola semitrasparente di un colore perlaceo azzurrino con sfumature lillà, sulle spalle e tre Specter della guarnigione di Rhadamantys: Shilfield del Basilisco, Queen di Alraune e Myu della Farfalla, seguiti a loro volta da un piccolo drappello di Skeleton armati di falce.
«Cosa ci fate voi qui?» Domandò Valentine mentre Isaak mi restituiva il sacco, facendo la spola con lo sguardo dell’unico occhio rimastogli, tra me e i figuri che l’avevano seguito.
«Ci ha mandati qui il Sommo Rhadamantys, ha detto che dobbiamo proteggere la Luce Ombrosa». Ribatté stizzito e insofferente il Basilisco in un modo che seppe tanto di “che rogna, io sono un uomo d’azione”. Pensiero condiviso dagli altri due, a giudicare dalle espressioni che passarono, per un momento, sui loro volti. Mi trattenni dal rispedirli tutti e tre a calci nel culo dalla Viverna, anche se avrei voluto.
Osservai i nuovi arrivati dopo aver ricambiato l’inchino di saluto di Menta. Tra tutti, lo Specter del Basilisco era il più alto, la sua persona imponente e dal fisico prestante mi suggeriva, in un certo senso, gli eroi della mitologia. Ero quasi pronta a scommettere che, tra i suoi compagni, lui fosse uno degli Specter più importanti. Aveva i capelli bianchi e la stessa frangetta di Minos, che lasciava intravedere degli occhi color ambra più scuri dei miei. Queen di Alraune era decisamente più basso ed talmente effeminato, facilitato in questo anche dalla sua Surplice. Infatti il suo elmo aveva la forma di un cappuccio che m’impediva di capire di che colore fossero i suoi capelli. Non che fosse così importante, ma era un elemento di disturbo, per me. Anche perché, a prima vista, somigliava all’elemento più fragile del trio. Ma qualcosa mi diceva che era meglio non sottovalutarlo. 
E poi c’era Myu. Tra i tre era quello che spiccava di più per l’eleganza e la perfezione delle sue ali colorate. Non pensavo che alla base, sotto i disegni neri, quelle ali avessero dei colori così vividi. Di giallo al centro e di verde a mano a mano che si avvicinava al bordo. Ricordandomi, un po’ per i colori della Surplice e delle sue ali, le luci arancioni, violette e verdi del Kazablanc che venivano utilizzate durante le serate. 
Ma se gli altri due mi incutevano rispetto, diffidenza e anche forza, lui mi intimoriva di più. Perché non mi suggeriva niente di tutto ciò. Sembrava anche il più giovane. Non dimostrava più di diciannove anni, aveva il fisico esile e slanciato, eppure non mi suggeriva affatto una sensazione di gracilità, ma di forza. Era alto un centimetro più di me, persino con la Surplice, che, invece di ingrossarlo, evidenziava il suo fisico scattante come quello di un ghepardo. Mi domandai persino se fosse veloce come il suddetto felino. 
Nonostante il bel volto, gli occhi perfidi facevano il loro lavoro di intimidazione. I capelli lunghi fino alle spalle erano tenuti indietro dall’elmo a maschera da cui partivano le antenne della Surplice, erano di un fucsia di poco più scuro degli occhi. Stavano ritti sulla testa come quelli di Death Mask, scompigliati, ad eccezione di quattro ciocche, due per lato, che gli ricadevano ai lati del collo e di quelle che ricadevano dietro la nuca. Eppure, fu l’unico del gruppetto, che si premurò di mostrare un minimo di cortesia nei miei confronti. Anche se Specter e cortesia affiancate stonavano. I suoi compagni sembrarono pensarla come me, limitandosi a crocifiggermi con lo sguardo. Invece Myu non ci fece caso e mi tese la mano in segno di saluto, mano che scossi una volta.  
Nello stringergliela temetti il peggio, ma lo Specter dagli inquietanti occhi fucsia privi di iridi e pupilla, non dette segno di avermi riconosciuta. e a domandarmi dove avessi trovato quella corazza. «In giro». Risposi vaga, costringendomi a non arretrare di fronte a quegli occhi e a quello sguardo per niente vuoto e fin troppo consapevole (non pensavo che le Surplici modificassero a tal punto l’aspetto del loro proprietario) e lui si accigliò, ma se la fece bastare. Dopo la presentazione ammonì i compagni reticenti, per la serie: «Suvvia, ragazzi, non siate scortesi». Che ribatterono che ero sì una donna, ma che provenivo dal Santuario. «Resta comunque una donna anche se… che cos’eri prima di venire qui?»
«Un’ancella». Risposi, grata del fatto che, effettivamente, ufficialmente ricoprissi davvero quella mansione al Santuario.
«Una Saintia, intendi?» S’informò Shilfield, guardingo.
«No, no, proprio un’ancella, una domestica». Specificai. Questo parve ammorbidire un po’gli altri due nei miei confronti che mi lanciarono sguardi di pietà e si sciolsero un po’, anche in commenti maschilisti pretendendo di essere simpatici. “Ma sparatevi, stronzi”, pensai con un sorriso a labbra chiuse più tirato di quello di una star rifatta. «Bè, pare che resteremo qui per un po’», commentò guardandosi attorno, portandosi le mani sui fianchi. Non sembrava poi così dispiaciuto. Così cominciò questa astrusa convivenza.
Non era che fossero chissà quanto interessati alla mia salvaguardia. Non mettevo in dubbio che un po’d’istinto di protezione l’avessero, ma non al punto da farmi da bodyguard. Preferivano invece, raccontarsi storie dell’Oltretomba, bere fino a ubriacarsi e giocare a dadi. Fino a questo momento ignoravo che anche gli Inferi avessero un passato. E, lo avevo scoperto, proprio perché i tre, invece di proteggermi, preferirono sfruttarmi come ancella. Fortunatamente per me, da brilli, acquisivano tutti e tre la singolare abilità di scambiarmi per un ragazzo. Gran bell’attentato alla mia femminilità eh, ma meglio così che in situazioni ancora più spiacevoli.
L’unico che, almeno un po’ mi trattava bene, restava comunque Myu. Che stimavo solo per le sue abilità di narratore, quando era sobrio. Nei tre giorni seguenti, a causa loro, mi fu impedito di andare da Luco e, anche di vedere i ragazzini. Camus in ogni caso, continuava a stare nei paraggi per sicurezza. Poi, il secondo giorno, anche lui si unì alla seduta di corvee, per darmi una mano in caso la situazione fosse precipitata. «Non pensavo che servire fosse così faticoso», ammise poi esausto quando, quella sera crollarono addormentati a causa della sbornia.    
«Non ne hai la più pallida idea…» Sbuffai passandomi le mani sui capelli per spostarli momentaneamente dalla mia faccia. Avevo smesso di legarli, ormai e, avevano bisogno di una ripulita.
Così, Camus ricevette il suo battesimo del fuoco come domestico e, imparò ben presto a lamentarsene, benché non fosse lui lo sfruttato ufficialmente. Io lo guardavo con due occhi così, perché non l’avevo mai sentito lamentarsi prima e adesso mi esplodeva così. E non risparmiava nessuno, neanche sé stesso. Una volta superato l’argine si era lamentato di tutti, da Milo in primis, a Hyoga al suo lavoro da Saint che l’aveva confinato qui, arrivando a parlarmi della depressione che poi l’aveva ucciso e della sua prima morte a causa di Hyoga. Ammise che veramente, per quanto lo amasse come un figlio, avrebbe veramente preferito che quel testone non l’avesse costretto a prendere misure tanto drastiche, prima con il corpo della madre (anche lì faticai moltissimo a non biasimarla per averlo lasciato orfano, quando poteva tranquillamente prenderlo in braccio e salire sulla scialuppa) e poi con il suo sacrificio.
Ci tenne a sottolineare che però, a queste persone, per quanto le amasse, certe volte avevano messo veramente a dura prova la sua pazienza. Mi raccontò anche del suo maestro, Mistoria, che, sotto alcuni versi era più rigido di lui. 
Io mi portai il bicchiere alle labbra cercando sostegno con gli occhi da parte dei vicini, ma tutti distolsero stoicamente i propri, decidendo, saggiamente, di ignorarci. Persino Menta non se la sentì di infierire.
Se non altro, non mosse alcuna lamentela su di me. Si limitò a dirmi che aveva troppi pochi elementi per giudicare e, che, non gli piaceva giudicare così alla prima impressione. Cosa di cui gli fui grata.
Alla fine, dopo un lungo sospiro, se ne uscì con un: «Grazie… Erano anni che non mi sfogavo così».
«Prego». Ribattei titubante. E io che mi lamentavo che non sembrava neanche umano. Più umano di così si muore. Per il resto aveva tutte le carte in regola per vivere tra i civili. Glielo feci notare e lui rispose che in tempi di pace, lui era ben integrato nella società siberiana. Insegnava fisica ai ragazzi delle medie, oltre che addestrare Hyoga e Isaak. A volte aveva portato i ragazzini a scuola con sé come auditori per evitare che s’isolassero troppo. Questo, ovviamente, prima che Isaak scomparisse e venisse arruolato da Poseidone.
Mentre passeggiavamo per l’accampamento mi raccontò qualcosa di sé. Mi disse che spesso aveva collaborato con gli scienziati accompagnandoli nelle loro spedizioni e, aiutandoli a fare i carotaggi e la raccolta dei campioni. Spiegando loro anche come orientarsi quando gli strumenti li abbandonavano a causa del campo magnetico. Mi rivelò anche di essere piaciuto a una di loro. Questa dottoressa, si era accorta di quanto valesse e gli aveva fatto, praticamente, da tramite con l’equipe, in quanto messi in soggezione dalla sua espressione e dal carisma che emanava, di gran lunga superiore agli esponenti dell’URSS, malgrado la giovane età. Lei era più vecchia di lui di quattro anni, ma aveva un cervello non indifferente. Ed era rimasta piacevolmente sorpresa quando, questo diciottenne, che non solo li guidava, ma portava loro anche i rifornimenti di vario tipo, (ai tempi) aveva dimostrato di non essere solo un bell’uomo, ma di avere anche un cervello. Alla fine la donna, rossa come un peperone, si era sistemata gli occhiali sul naso e si era complimentata con lui per la sua erudizione e, per le sue ampie conoscenze in fisica. Gliel’aveva detto un giorno che lui le stava passando una sacca di cipolle e lei, alla fine aveva asserito che avevano la dispensa piena e avanzavano delle provviste. Gliele avrebbe anche regalate tutte, non era la prima volta che lo faceva. Ma Camus aveva sentito dire che a causa di questi doni non era molto simpatica al resto dell’equipe, così aveva declinato l’offerta. Per un po’erano tornati a disquisire di fisica e non ne avevano più parlato. Era un’abile conversatrice e persino il Gold Saint di Aquarius se ne accorse e l’ammirò per il suo sapere.
Col passare del tempo lei era riuscita a tornare a essere simpatica ai compagni ricercatori. Per ringraziare Camus, gli regalò una sacca d’aglio dalla dispensa. Scusandosi di non potergli offrire qualcosa di meglio, ma il mio conoscente non se ne rammaricò, le zuppe avevano bisogno anche di questo. Dopo questo avvenimento, «Si è dichiarata, ma a me non interessava in quel senso e non potevo ricambiare in alcun modo. Anche se il suo interesse era sincero ero troppo giovane per legarmi a qualcuno a quel modo e non volevo prenderla in giro». Fece poi, tentennando un po’ da interessava in poi, come se all’ultimo avesse modificato il discorso. Intuii che avevamo toccato un argomento delicato e lasciai stare. «Poi c’era anche il rischio che saresti finito schedato nei registri della dittatura». Lui mi guardò un po’sorpreso, prima di darmi ragione e, tornare a guardare dritto davanti a sé. «Sì, c’era anche quello; anche se dubito che sarebbero stati così stupidi da mettersi contro il Santuario o cercare di catturare uno di noi. L’avevo messo in conto e, sotto questo punto di vista ho fatto del mio meglio per proteggere Hyoga e Isaak e ho insegnato loro a mantenere un basso profilo per non dare troppo nell’occhio». Almeno sotto questo punto di vista, il Santuario serviva davvero a qualcosa. Poi mi guardò di nuovo e mi chiese se anch’io avessi una storia simile alle spalle. «Bè, non proprio recente, ma… sì». Quello che provavo per il mio maestro non era neanche da considerarsi una cosa simile. Così gli raccontai della terza media e, di quando mi piaceva un mio vecchio compagno di scuola. Tutto era cominciato per una stupidaggine, veramente. Lui non mi sopportava all’inizio, ma cambiò idea quando mi vide impegnarmi per cantare un brano che la professoressa di musica insisteva particolarmente affinché massacrassimo. Appena lo dissi, Camus proruppe in una risata spontanea e io mi fermai,  sorpresa: non l’avevo mai sentito ridere. Aveva una bella risata.  
Continuai il racconto parlandogli di come piano piano mi si avvicinò e di come si fece sempre più gentile con il tempo. E della corte che mi fece, approfittando dell’aiuto che gli davo per algebra e geometria, che ero sempre stata brava coi numeri, grazie a mio nonno e a mio padre. Una cosa abbastanza tranquilla e impacciata, devo dire. Fino a che poi, durante la festa a casa di un nostro compagno di scuola dopo l’esame di terza media, mi prese da parte con la scusa di farsi insegnare i nomi di qualche costellazione. Me lo faceva apposta di sbagliarli, perché mi offendevo moltissimo, tanto c’ero fissata. Non che su quel terrazzo se ne vedessero moltissime, ma ci provai. Fu la prima volta che mi chiese come riconoscerle. Gli avevo appena indicato l’Orsa Maggiore che lo guardai e lui mi baciò. Già, il mio primo bacio lo detti sotto le stelle una notte d’estate. Di quella sera ricordavo il vestito che indossavo, che ci divertimmo tutti a ballare sulla collezione di italo disco del padre di questo ragazzo, cantare Ballerina degli Shanghai, bere, mangiare, giocare e che, lui stava molto bene con i capelli ricci scuri legati in quella codina. Gli occhi marroni sembravano splendere come stelle sull’incarnato scuro. Il Moro e la Scandinava, ci chiamavano. In tanti avevano gli occhi di quel colore, ma a nessuno splendevano così. Nel ripensare a quegli anni in generale, scoprii che erano ricordi molto luminosi, molto di più di quelli di adesso. Forse perché ero più giovane.    
«Come si chiamava questo ragazzo?»
«Francesco». Ma il suo volto ormai era quasi sbiadito nei miei ricordi.  
«Era carino?» Chiese malizioso il mio interlocutore. A me questa parte di sé sembrò particolarmente estranea, però non era male. Sapeva essere divertente e leggero all’occorrenza. «Sì». Sorrisi tra me e me, sentendomi scaldare il cuore da questo ricordo e tacqui.
«Poi che è successo?» Domandò, più calmo e incuriosito.
Alzai le spalle, intrecciando le mani dietro la schiena: «Niente, la cosa finì quell’estate perché lui si trasferì e non si fece più sentire».
«Mi dispiace».
Scrollai le spalle: «Non fa niente, sono passati tanti anni, ormai». Arrivati alla tenda, prima di entrare, ci fissammo a lungo, tanto eravamo in sintonia era un peccato finire la serata così. Per un momento ci guardammo le labbra a vicenda, me nessuno dei due osò colmare la distanza. Alla fine alzai una mano e gli carezzai una guancia, sorridendo. Lui ricambiò e poi mi lasciò entrare.
Quella sera sognai di trovarmi di nuovo in quella casa con i miei ex compagni delle medie e avere di nuovo tredici anni. Quella notte, fu anche quella che mi ricordai cosa significasse sentire il proprio cuore palpitare per un sentimento ricambiato. Fu anche la sera in cui realizzai che tra me e lui stava nascendo una bella simpatia che non mi sarebbe dispiaciuto diventasse qualcosa di più. E, fu anche la serata in cui realizzai che quello che provavo per Kiki e Odysseus, non era amore, anche se ci si avvicinava molto.   

La mattina dopo ero già più allegra.
Ancora memore delle sensazioni della sera prima, canticchiai Ballerina degli Shanghai, mentre mi lavavo i vestiti che Menta aveva portato per me. Era bello indossare altri abiti puliti. Era un vestitino dalle spalline sottili e nere, la scollatura a cuore e la gonna plissettata ma che mi fasciava assai meno le gambe. Anche su questi avevo appuntato i pezzi della Surplice.
Ci eravamo allontanati fino a raggiungere un ruscello dove i membri femminili delle tribù lavavano i panni. I quali erano poco distanti da noi e intenti nelle stesse mansioni. E, nella radura poco più indietro, i ragazzini giocavano a una strana versione di hokey sul prato misto a lacrosse.
Camus accomodato ai piedi dell’albero cui stavo stendendo i panni, mi lanciò delle occhiate divertite. Era diventato più solare, in un certo senso. A un certo punto cambiò totalmente espressione e lo vidi sbiancare. «Camus?»
«Sento dei Cosmi, una battaglia, l’accampamento! Hanno attaccato il quartier generale! Com’è possibile? Perché non mi hanno chiamato? Che cosa sta succedendo?» Esclamò sgranando gli occhi per lo stupore.
«Cosa?» Domandai con urgenza nella voce, strabuzzando gli occhi a mia volta. E mi avvicinai repentinamente. «E i tre Specter?» Ma lui non mi ascoltò più. Disse che doveva andare, ma io lo bloccai. «No. Non andare!»
«Devo, Astrid! Hanno bisogno di me!»
«No, Camus!» Ma lui non volle sentire ragioni e andò. Pregai per lui tutto il tempo che tornasse sano e salvo. A volte riuscivo a sentire i loro Cosmi a sprazzi, altre l’ansia era talmente tanta da ostacolare la connessione. Ebbi paura persino per la zia. Fu solo in quel momento che mi accorsi della presenza di Raki accanto a me. Improvvisamente, sopra di noi si librarono degli sciami di Fairy. E, poi, lo Specter della Farfalla fece la sua comparsa. Raki si strinse a me e io la spostai dietro la mia schiena per proteggerla. Ma lo Specter non sembrò interessato alla mia amica. Si limitò a lanciarci un’occhiata seria e, poi, alzare il volto al cielo nero, mentre le farfalle si dirigevano nella stessa direzione in cui era fuggito Camus. Osservava con aria seria e concentrata.  
Le braccia incrociate e le gambe divaricate.
Capii che se avessi voluto essere utile alla causa sarei dovuta correre da Luco. E lo feci, solo per trovare già due Black Saint sul posto. «Giusto in tempo». Mi salutò lo Specter della Driade con un sorriso, stavolta infilato dentro la sua Surplice. Non mi sarei mai completamente abituata all’enorme differenza che intercorreva tra loro con e senza la Surplice. I capelli completamente scostati dal volto davano l’impressione che fosse ancora più inquietante e malefico, nonché un filo più magro di quanto non fosse.
«Cosa? Ci hai fatto aspettare tutto questo tempo per quella?» Sbottò uno dei due e l’altro: «Ma per chi ci hai preso? Ci credi così debole da farci competere con le donne?»
«Misurate bene le vostre parole, perché costei è la Luce Ombrosa». Adesso i due energumeni mi guardarono sbalorditi. «Cosa? Questa fanciulla delicata? Ci prendi in giro?»
«Affatto Black Saint della Renna e Dune, Silver Saint del Cammello».
«Cosa?» Esclamai stupita, guardando il secondo, che ricambiò. «Tu eri un Silver Saint al servizio di Atena? Come mai sei qui? Perché ti sei ridotto a servire i Black Saint?»
«Potendo scegliere se spurgare cinquecento anni i propri peccati tra atroci torture e indicibili sofferenze e, liberarci definitivamente degli Specter, molti di noi hanno scelto di seguire Don Avido e il suo piano di liberazione».
«Ma… E Atena?» Domandai incredula. Mi rifiutavo di credere che un uomo asservito alla Dea della Guerra, che combatteva per la pace, si fosse ridotto così. Non volevo crederci. Un conto era avere a che fare con personaggi come Death Mask, Saga, Kanon e Aphrodite, ma l’altro era sentire un ex Silver Saint di una costellazione estinta parlare a questo modo.
«Non significa che abbiamo rinnegato il giuramento. Ci siamo alleati con i Black Saint perché hanno ragione e vogliamo ancora combattere in nome della pace e della libertà. Vogliamo impedire la prossima Guerra Sacra e, quale modo migliore se non giocare d’anticipo e dall’interno? Se Hades e i suoi Specter perdessero il dominio su questi luoghi, le Guerre Sacre cesseranno di mietere vittime. Voi, piuttosto, perché combattete dalla loro parte? Avete forse dimenticato a chi avete giurato fedeltà?» Domandò disgustato accennando allo Specter della Driade che lo trapassava con gli occhi. Allora erano questi i nostri avversari? Ora cominciavo a capire come avessero fatto a tenere testa alla zia per tutto questo tempo. 
«Io non ho giurato fedeltà proprio a nessuno e trovo che sia ingiusto! Se ciò significa perdere la bussola e schierarsi dalla parte di chi vuol annientare il ciclo delle reincarnazioni, anche se in nome della pace e della libertà. Come si può pensare che un mondo senza guerre sia giusto? Combattere è nella natura umana! É il modo che la Natura ha scelto per riequilibrarsi e tenerci sotto controllo, oltre alle malattie! Annullare completamente i conflitti significa l’annientamento del pianeta e della vita sulla Terra! E chissà quanto occorrerà prima che compaia un predatore per gli esseri umani o che la Terra muoia definitivamente a causa delle nostre attività!». Spiegai inorridita e, fui felice della mia scelta. Dune del Cammello mi scoccò un’occhiata torva. «Che state farneticando, ragazza? La Terra è sufficientemente forte per sostenerci tutti».
Possibile che quest’uomo non capisse il grande pericolo che comportasse questa scelta? Questo ideale tanto utopistico e meraviglioso era estremamente pericoloso nella sua chiarezza! Cercai di farlo ragionare: «Non è vero è…».    
«Se avete finito di chiacchierare, io vedrei di cominciare». Ci avvisò Luco, interrompendoci. 
Lo Specter mi mise alla prova e mi mostrò la daga incastonata in un albero altissimo. «La vostra prova è prenderla, che vinca il migliore».
«Le regole?» Chiesi, nella speranza di potermi aggrappare a qualcosa.
Lo Specter sorrise dolcemente: «Non ce ne sono, consideratelo uno scontro all’ultimo sangue».
«Luco, ascolta, non hai sentito quello che ha detto, prima? Non hai sentito quello che hanno intenzione di fare? Come puoi permettere che succeda… »
«Francamente non è che m’importi moltissimo delle sorti dell’umanità, li ho sempre considerati una specie molto stupida e rumorosa, li preferisco quando sono Skeleton o Velate silenziosi».
«E delle piante che tanto ami non t’importa?» Gli domandai guardandolo in volto. Non potevo credere che quest’uomo fosse tanto disgustoso.  
Lui sgranò gli occhi e mi guardò. Un lampo brillò nelle sue iridi e la sua espressione mi comunicò chiaramente che non ci aveva pensato. Poi si ricompose e mi fece notare che la daga non aspettava nessuno. «Ah, al diavolo». Sbottai e corsi anch’io all’albero, arrampicandomi passando dai rami più bassi. 
In breve tempo mi ritrovai con le membra doloranti e la pelle bagnata di sudore. Non mi arrampicavo più sugli alberi dall’infanzia. Ma dovevo farcela. Non avevo la stessa potenza e rapidità dei miei avversari, però dovevo.
Prima che riuscissi ad arrivare anche solo a metà dell’albero, sentii urlare: «Tempesta di sabbia!» Alzai gli occhi e vidi  il Saint del Cammello scagliarmi contro un potentissimo vento pieno di sabbia che mi costrinse ad aggrapparmi al ramo e a distogliere il viso e a sigillare gli occhi e la bocca. Poi, sentii un tonfo davanti a me. Sussultai e alzai il volto per trovarmi a fissare la parte inferiore del Saint, accovacciato e, a gambe aperte davanti a me. L’avambraccio appoggiato su una delle cosce protette dalla sua cloth.
L’uomo mi alzò il volto con dolcezza con due dita. Il pollice sul mio mento e l’indice ripiegato a sostenerlo. Il suo tocco era gelido come una folata d’inverno che s’insinua sotto i vestiti. I nostri sguardi si incrociarono e lo vidi contemplare silenziosamente le mie iridi, prima di scorgere il compatimento nelle sue. Poi disse, con voce più profonda e calda: «Spero che tu ti fermi qui, non voglio macchiarmi le mani con il sangue di una donna».    
Poi mi lasciò andare e saltò di nuovo su e raggiunse il compagno. In due secondi feci mente locale. Aveva sfruttato il suo colpo per darmi un avvertimento invece che di finirmi. Ma se credeva che sarebbe bastato a intimorirmi, non aveva ancora capito con chi avesse davvero a che fare. Perciò ripresi l’arrampicata.
E, presto mi arrivò un altro colpo, talmente violento che spaccò la corteccia appena sopra la mia testa. Per poco non persi l’equilibrio e non caddi giù. Distolsi repentinamente il volto per ripararlo dalla pioggia di schegge di legno che caddero sui miei capelli. Quando tornai a guardare c’era un buco appena sopra di me, con tanto di braccio del Saint affondato nella corteccia dell’albero. E, il suddetto in perfetto equilibrio che si sporgeva, serio. Dopodiché tolse la mano dal legno e caricò un altro pugno di Cosmo che, assunse la forma di un leone di sabbia dalle zanne affilate: «Furia del deserto!» Esclamò ed io cominciai ad arretrare lateralmente spaccandomi le unghie, per raggiungere un altro ramo e portarmi in salvo. Poi scagliò il colpo. Il leone di sabbia e cosmo spalancò le fauci e fece per inghiottirmi ma gonfiai repentinamente il Cosmo e questo si distrusse. La sabbia cadde al suolo proprio come polvere: «Oh, hai un Cosmo anche tu?» Commentò sorpreso inarcando le sopracciglia. «Bè, poco male, non ti aiuterà di certo contro di me».
Non risposi, ma, appena si lanciò contro di me, alzai un piede, colpendolo in pieno petto e lui perse fiato e Cosmo e cadde giù. Mi concessi tre secondi per riprendermi, poi, mi curai con la Dark Resurrection e ripresi la scalata e, stavolta crollai da sola perché afferrai un ramo troppo debole per sostenermi. Strillai e caddi giù, ma le mie dita si chiusero attorno a un altro ramo e, facendo forza, riuscii a issarmi malamente su questo.
Intanto che Dune risaliva saltando di qua e di là come un acrobata. 
Mi azzardai a guardare momentaneamente in basso e strabuzzai gli occhi. Mi era andata bene da niente. Dopo una caduta di trentadue metri d’altezza sarei potuta morire. Da sotto, anche Luco ci osservava, perplesso. Poi un refolo di vento smosse i suoi capelli, facendogli sgranare gli occhi e voltarsi. Guardai in quella direzione e vidi le Lacrime di Kalì avvicinarsi alla zona. Sperai che gli alberi degli Inferi fossero ignifughi. Ah, che nome lungo, meglio le Creature, anche se neanche questo andava bene.
Rialzai il capo, cercando di issarmi sul ramo, ma poi, vedendoli saltare di ramo in ramo, mi fermai. Era tutto inutile. Ma poi ripensai a quello che avevo detto a Luco e decisi che non mi sarei arresa. Perciò ripresi la scalata, fino ad arrivare a un ramo sufficientemente spesso e largo perché potesse sostenermi e permettermi di stare in piedi, appigliandomi ai suoi rami e a quello sopra la mia testa. Il quale a un tratto tremò e un paio di foglie caddero dal ramo. Alzai lo sguardo e vidi il Saint della costellazione estinta seduto su di esso, annoiato.
«Sei testarda quanto un mulo, allora non ti è bastata la lezione?» Chiese il Silver Saint. Ma non risposi. Lo fissai mentre il suo compare continuava l’ascesa. Poi scese sul mio ramo, le braccia incrociate.   
Solo allora ribattei: «Non me ne frega niente delle lezioni che vuoi impartimi. Non me ne faccio niente!»
«Allora perché ti ostini a combattere contro di noi, quando potresti passare dalla nostra parte?» Tese la mano verso di me: «Vieni con noi, abbandona questa gentaglia. Non devi loro niente».
«Non sono una Specter e non devo loro niente, ma se sono qui non è per prendere altre legnate, bensì per salvare la ruota della Vita e della Morte e la Natura! Ma se l’unico modo per fermarvi è diventare una Specter allora lo farò!» Risposi determinata urlandolo a squarciagola.
Ciò detto mi misi in posizione e materializzai il mio Cosmo.
Lui lasciò cadere la mano che mi aveva teso, per niente impressionato e saltò su un ramo posto a dodici metri più in alto del mio. Curvò la bocca in un sorriso, prima di guardarmi di sottecchi e ridacchiare: «Sei veramente sciocca, Luce Ombrosa». Dopodiché gonfiò il suo a sua volta con più forza di prima. Quel tanto che bastò per spazzare via, rami e fronde della parte in cui ci trovavamo, ma non abbastanza potente per attirare le Creature.  
Nessuno si era accorto che avevo usato i fili del Cosmic Domination per creare una rete sotto di sicurezza sotto di noi e, che una serie di fili li avevo legati alla vita e al ramo dietro di me. Con queste precauzioni potevo stare più tranquilla.
Mi gettai addosso a lui e ingaggiai battaglia, evocando anche il falcione di Cosmo. Non gli detti tregua alcuna e, lo buttai di sotto. Ma lui ritornò su proprio mentre stavo per riprendere l’arrampicata. Allora mi buttai di nuovo addosso a lui e lo imprigionai nella morsa delle mie braccia. Ottenendo solo di farlo sorridere: «Sei pazza, per caso? Hai intenzione di suicidarti? Non lo sai che noi fantasmi possiamo passarti attraverso?»
«Ecco perché mi sono fatta una Surplice anch’io!» Esclamai. Lui restò impassibile e, cercò di fare quanto promesso, ma si ritrovò intrappolato tra le mie braccia. Con una mano alle sue spalle, disegnai di nuovo la sua precedente costellazione e poi, lo spinsi via, lasciando fare il resto alle Creature. Che nel frattempo erano state attirate dalle mie grida, ma non avevano ancora fatto niente.
Dovevo trovare il modo di attirarle e dirigerle verso i fantasmi. Ma come?
Un momento, loro si nutrivano di Cosmo. E quello dei Saint morti era come se si fosse spento. Mi guardai le mani e poi la schiena di Dune su cui spiccavano le tracce semi sbiadite della costellazione estinta. Se le potevo cancellare e, le potevo ricreare, allora, avevo anche la forza per crearle. Ma come? Le stelle sono corpi celesti che brillano di luce propria, sono enormi e luminosi sferoidi autogravitanti di plasma che generano energia attraverso processi di fusione nucleare. E tale energia è irradiata  nello spazio sottoforma di onde elettromagnetiche e particelle elementari.
Le mie dita si illuminarono d’argento e ricostituii da lontano la costellazione del Cammello. Poi, gliela cancellai. Il fantasma trasalì e girò la testa verso di me, per guardarmi. Non aveva funzionato. Questi erano già morti.
«Julius, occupati tu della daga, della ragazza ci penso io. Ti avevo avvisato e, ora non avrò più pietà di te solo perché sei una donna! Preparati, Windstorm!» Urlò caricando il suo Cosmo e, una nuova raffica di vento piovve su di me mentre la sabbia si avvolgeva in un mulinello attorno al suo corpo mentre si gettava in picchiata per colpirmi.
Istintivamente gliela ridisegnai, presi rapidamente una delle stelle e la scostai. Ciò che ottenni, invece di farlo svenire, anche a causa del fatto che persi l’equilibrio, fu di creare una cupola di luce sulla quale il suo piede impattò. Il Saint rimbalzò sul muro di luce argentea e saltò indietro, fin quasi alla base del ramo.   
Non ero riuscita a farlo svenire, ma in compenso avevo scoperto di poter usare una nuova tecnica: la Grande Muraglia. Ossia un fenomeno astronomico noto anche come Grande Parete o Grande Muraglia CfA2, è la quarta più grande struttura conosciuta dell’Universo visibile, dopo la Grande Muraglia di Ercole, la Grande Muraglia Sloan e l’ammasso di quasar Huge-LQG. Si tratta di un gruppo di galassie posto a circa duecento milioni di anni luce di distanza dalla Via Lattea, lungo cinquecento milioni di anni luce, largo trecento milioni ma spesso “solo” quindici milioni di anni luce. Fu scoperta nell’Ottantanove del secolo scorso da Margaret Geller e John Huchra, basandosi sui dati della CfA Redshift Survey.
E, in effetti, in questo muro di luce, brillavano minuscoli brillantini statici come apparentemente erano le stelle di notte e, a tratti erano opachi.
In realtà le dimensioni riportate sono quelle stimate, non si conosce ancora l’esatta estensione reale della Grande Muraglia.  Questo significava che potevo estenderla anche più di quanto apparentemente potessi.
L'origine della Grande Muraglia è piuttosto incerta. Le teorie correnti (nate appunto per spiegare l'esistenza di questa e altre muraglie, e dei supervuoti che delimitano) ipotizzano che tali strutture si formino all'interno di filamenti di materia oscura disposti nello spazio secondo una struttura "a spugna", nella quale tali filamenti circondano ampie zone vuote o poco dense. È questa materia oscura che detta la struttura dell'Universo alle scale più grandi, attirando gravitazionalmente le masse visibili.
Filamenti di materia oscura! Ma certo! Ma non ebbi il tempo di festeggiare che sentii un sinistro scricchiolio e, prima che me ne rendessi conto, stavo precipitando. Il colpo del Saint aveva comunque spezzato il ramo.
Dissolsi la tecnica e usai la Cosmic Domination per fermare la caduta, ottenendo di sbattere contro il tronco. Gemetti di dolore per il colpo. Scossi la testa e guardai su e vidi il Saint appoggiato alla corteccia come a sorreggersi. Ma non avevo considerato l’inventiva del Saint che, pur di impedirmi la risalita scese di nuovo, fermandosi sul ramo su cui mi stavo arrampicando un’altra volta. «Non so che trucco abbia usato, strega, ma ora stai veramente cominciando a stufarmi».  
Per la prima volta bruciai il mio Cosmo e, approfittando della caduta, appioppai una violenta tallonata sulla nuca di Dune, tramortendolo. Anche se ciò non sarebbe probabilmente bastato. Poi, atterrai indenne sul tappeto di fiori. Non potei dire lo stesso del suo compare.
«Dune!» Lo chiamò il suo alleato che si era fermato.
Ma l’ex Saint del Cammello non lo ascoltò. «Tu prosegui, io devo spurgare il male».
«L’unico male che vedo qui, è dentro di te!» Ribattei. Poi, per provarglielo alzai una mano. Il dorso rivolto verso di lui e, lo spazio tra le mie dita s’illuminò di nero. Poi le aprii come Spock e, in quello spazio comparve un piccolo globo nero fatto dei filamenti che gli avevo sottratto. Poi glielo lanciai e, le Lacrime di Kalì si avvicinarono a noi. «Menzogne!» Urlò e mi si scagliò addosso bruciando il suo Cosmo. Ma le Lacrime di Kalì furono più rapide e, il Saint finì nelle loro grinfie, ustionato.    
Crollai a terra sul tappeto di mughetti bianchi, esausta, mentre Luco mi si avvicinava.
«Sei riuscita a trovare il modo di ferire un fantasma, niente male. Ma adesso riprendi la corsa».
«No, non posso restare».
«Che ti prende, Luce Ombrosa?» Domandò Luco perplesso.
«Senti, non posso restare qui. Ne arriveranno altri e altri ancora e tutto in nome di quel coltello che proteggi per conto di Hades o del tuo tornaconto personale o non lo so, ma non posso continuare così. Ho lasciato delle persone molto importanti all’accampamento, devo tornare da loro».
«Non avrai intenzione di abbandonare la sfida così! Per cosa ho protetto quella daga per tutti questi anni, se no? Per cosa ho cercato di proteggere gli Inferi se non per consegnarla alla persona che avrei giudicato più meritevole delle altre?» Domandò, incredulo.
Mi girai a guardarlo: «Non so chi ti abbia conferito un tale incarico, ma quella non sono io. É solo una daga, Luco! Le persone sono altrove e questi sono venuti per catturare anche me! Cosa è più importante? La daga o la Luce Ombrosa?» La Driade non rispose, ma mi fissò incredulo, l’indecisione ben visibile sul suo volto. Prima che potesse replicare ci pensò lo sbottare irato di Dune. «Quanto sei noiosa». Il traditore andava rialzandosi, sfregandosi la testa che avevo colpito con la tallonata. Come sospettavo: le cloth con l’elmo a tiara o a maschera, non proteggevano a sufficienza. Ma neanche la costellazione provvisoria che gli avevo fatto funzionava. Le Creature si erano solo limitate ad assorbirla, ma non a distruggerlo di nuovo! «Ma siete intelligente, non lo credevo possibile per una donna di bassa estrazione sociale come voi». 
Non ebbe il tempo di dire altro che delle radici lo trapassarono da parte a parte. Dune annaspò incredulo, prima di dissolversi. «Luco!» Esclamai stupita e spaventata. Che la prossima fossi io? Ma lui non sembrava avere intenzioni ostili verso di me. «Corri». Disse soltanto.
Lo guardai confusa: «Luco?»
«Ho detto di correre! Ne stanno arrivando altri e sono qui per te!» Mi avvisò.
Feci uno scatto indietro ma mi fermai: «Ma tu?»
«Corri, Luce Ombrosa». Urlò a squarciagola, spaventandomi a tal punto che non me lo feci ripetere altre volte.   
Dello Specter della Driade non seppi più niente. Accidenti; se solo fossi stata abbastanza forte, sarei riuscita a sostenere il fardello della Luce Ombrosa e conquistare la daga deicida. Forse con quella avrei persino potuto aiutare Camus. Ma non era servito a niente.

Sperai con tutta me stessa che Luco se la cavasse. Per tutto il tempo pregai per lui affinché ci raggiungesse sano e salvo. Ma il tempo passava e la mia angoscia aumentava. 
Mentre aspettavo di ricevere notizie, colsi un movimento sopra di me con la coda dell’occhio. Alzai lo sguardo e vidi un mazzolino di fiorellini bianchi fluttuare giù dal cielo. Tesi istintivamente le mani a coppa e, la piantina ci si posò dolcemente. Era una piantina di mughetti bianchi. L’immagine sorridente di mestizia di Luco comparve davanti al mio campo visivo.  E capii. Il cuore mi si strinse in una morsa e mi sentii invadere da un profondo sconforto. Le lacrime debordarono dai miei occhi e piovvero sulla piantina e sulle mani che mi portai al petto, scosso dai singhiozzi: «Luco».
Aveva dato la sua vita per salvarmi e salvare le piante che amava. Non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata a piangere la morte di uno Specter.
Solo quando non ebbi più lacrime da piangere, trovai la forza di scavare una buca con un ciottolo e di incidere la base della piantina con lo stesso. Poi, lo piantai nel terreno e pregai che ce la facesse a sopravvivere.
Solo allora me ne tornai all’accampamento e, scoprii che gli Specter stavano già arrivando a gruppi, scortati dagli Skeleton. Anche i velieri della flotta aerea giunsero, facendo sbarcare il grosso delle truppe e delle armate rimaste al quartier generale. Infine, all’orizzonte comparve anche il Galeone di Aiacos.      
Nel pomeriggio, quando ormai non ci speravo quasi più, Camus e gli ultimi rimasti ritornarono, scortati dalle Fairy. Lady Niniane era rimasta ferita nell’attacco e altre sacerdotesse ci avevano rimesso la vita. Mentre Lady Viviana non era spirata.
Camus e Isaak erano rimasti indietro per coprire le spalle a Lady Pandora e Rhadamantys, in fuga. Eravamo stati talmente in pena, che la prima cosa che facemmo io, Raki e i suoi compagni, fu abbracciare Camus, Isaak e Fianna, ringraziando che fossero vivi. Malconci, ma vivi. Camus mi guardò stupito per via dell’accoglienza che gli riservai. Mi strinsi a lui come a non volerlo lasciar andare mai più.
Poi lo sentii rilassarsi e ricambiare la stretta. «Va tutto bene, siamo vivi, stiamo bene».
Isaak ci raccontò cosa era successo: «I Black Saint hanno scoperto il nostro nascondiglio e ci hanno teso un’imboscata. Fortunatamente avevamo già cominciato a spostarci alla spicciolata in questo secondo accampamento, ma senza l’aiuto di Myu della Farfalla, probabilmente non saremmo andati da nessuna parte».
«Non erano così feroci l’ultima volta che li abbiamo affrontati». Costatò Camus, ancora sconvolto, la Gold Cloth impolverata, continuando a stringermi a sé di lato. «É come se si fossero inselvatichiti, molti non si sono fermati neanche quando hanno perso un braccio o una gamba».
Strinsi la bocca, capendo: dovevano essere gli effetti della daga deicida. Julius era davvero riuscito a recuperarla. Però dissi «Non lo so, ma sono davvero felice di rivedervi sani e salvi». Feci, separandomi dal mio conoscente e, solo allora, mi accorsi della zia che camminava a fianco di un insanguinato Rhadamantys sporco di sangue d’oro che riconobbi come Ichor. Ichor? Perché era sporco di sangue divino? Chi aveva ucciso?
Mi scusai con i miei amici e corsi dalla zia ma, prima che potessi avvicinarmi, Rhadamantys mi spostò di lato, strappandomi un gemito di sorpresa.  Poco prima che mi lasciasse andare ritrasse la mano di scatto, come se si fosse scottato, prendendosela nell’altra. Vedemmo dei cristalli di ghiaccio affiorare sulla carne, subitamente più bianca di prima. «Aquarius!» Ruggì la Viverna in coro con il nostro avversario. Proprio allora sopraggiunse Camus. La Viverna gli scoccò un’occhiata assassina prima di voltargli le spalle e andarsene.
«Stai bene?» Mi domandò e io annuii sconvolta, continuando a fissare le spalle dello Specter della Viverna, continuando a stringermi la mano nell’altra. Quel tocco, quella presenza, mi erano famigliari. Ma certo che mi erano famigliari. Pensai lanciandogli un’occhiata gelida. Era l’uomo che mi aveva aggredita assieme ai suoi compari.
«Rhadamantys!» Lo riprese la zia e il biondo la guardò prima di prostrarsi e scusarsi con lei, asserendo che non intendeva dare spettacolo. Poi chiese il permesso di ritirarsi. «Concesso, recati nella tenda medica e resta lì fino a nuovo ordine».
Peccato soltanto che era talmente furioso da richiedere l’evacuazione immediata della tenda medica. E, fu allora che qualcosa dentro di me scattò. “A me non farà del male”, pensai e mi mossi automaticamente. Andai a vedere cosa stava succedendo e vidi Menta e altre donne accucciate e proteggersi la testa, mentre la Viverna dava di matto. Istintivamente evocai la sua stella e ne presi l’oscurità per creare una barriera di tenebre che le protesse e creò un corridoio sicuro di modo che potessero andarsene. I pezzi della sua Surplice sparsi qui e là mentre faceva a pezzi la mobilia. Solo quando si girò di nuovo verso le Velate e le Ninfe e incontrò i miei occhi, si fermò. In uno strano slancio di preveggenza, me l’aspettavo.
Solo dopo tornai in me e mi domandai sgomenta che diavolo mi fosse preso.
Mi trapassò con lo sguardo e ringhiò: «Che c’è? Non ho bisogno del tuo aiuto, le ferite se ne andranno presto». Poi si sedette di peso sulla branda, dandomi le spalle. Con parte della Surplice distrutta sembrava più piccolo, ma non quanto avrei voluto. «Già, peccato soltanto che è per questo che mi hanno chiamato. Comunque non preoccuparti, delle tue ferite non me ne importa un fico secco». Dissi con voce tagliente. Non m’importava niente se alle sue orecchie sembravo una bambina risentita, volevo solo che percepisse tutto il mio astio.
«Bene, anche perché non ho richiesto la tua presenza».
«Tranquillo, non ti ruberò troppo tempo, voglio solo sapere perché hai dato l’ordine di sorvegliarmi a tre dei tuoi sottoposti».
«Che vorresti dire?» Domandò lo Specter della Stella del Cielo Furioso, facendo lo gnorri.
«Non offendere la mia intelligenza, dimmi soltanto perché l’hai fatto».
«Non sono affari che ti riguardano».
«Mi riguardano eccome, invece! Io non voglio niente da te, niente, hai capito? Non è stata per mia volontà che ho scelto di essere qui e ci sono lo stesso! Non ho bisogno del tuo aiuto per cavarmela da sola! Anche se te l’avesse ordinato mia zia non me ne importa un fico secco. Io da te non voglio niente. Non voglio niente dalla persona che mi ha rubato un anno della mia vita!»
Lui mi trafisse con lo sguardo ma io non mi lasciai intimorire. Non gli avrei mai più dato questa soddisfazione, mai più. «Quindi è questo quello che pensi?» Chiese in un basso ringhio d’avvertimento che ignorai. «Sì! Non posso volere niente da chi mi ha ferito così profondamente». Sibilai furiosa. Si girò completamente verso di me restando seduto. Un braccio ad angolo e la mano sulla coscia. Un tentativo forse di incutere rispetto o di sembrare più macho. A me apparve solo più stupido. 
Per un momento vidi balenare dai suoi tratti la Viverna di cui tanto fieramente portava il nome, con tanto di zanne affilate in bella vista. «Tu pensi sul serio che m’importi qualcosa di te? In tutto il mondo esistono persone che per sopravvivere calpestano i sentimenti e le persone tutti i giorni. Ci sono amici, amanti, famigliari che sono pronti a tradire per la sopravvivenza, per i soldi e per la lussuria. E sai dove finiscono tutti? Proprio qui, negli Inferi e noi non dobbiamo mostrarci indulgenti. Sai qual è la prima cosa che fa uno Specter quando acquisisce la Surplice? É uccidere chiunque gli stia attorno uomini, donne, famigliari, bambini, non importa, devono morire. Uno Specter, da solo, anche il più debole, ha la forza per conquistare il mondo, perciò puoi anche capire quanto me ne importi delle tue stupide lamentele! Tu non sei superiore a me e avere la Luce Ombrosa non ti dà una posizione di comando, tantomeno una voce. La tua voce qui non conta niente. Tu, qui, non sei nessuno. Vedi di ficcartelo bene nella testa, sciocca ragazzina, perché la prossima volta non mi limiterò a urlare e basta.» aggiunse poi, dopo un respiro, in tono più calmo e la chiostra di denti affilati che aveva snudato parve scomparire.
«E tu pensi davvero che mi importi qualcosa degli Specter?» Minacciai velatamente di rimando sollevando la testa di poco, per trapassarlo a mia volta con lo sguardo. Non gli avrei mai permesso di spaventarmi un’altra volta. Anche se tremavo di paura, anche se mi sentivo tutto fuorché al sicuro in sua presenza, dovevo combattere. E avrei combattuto. Perciò gettai il mio sguardo nel suo, cercando di comunicargli tutto l’odio rovente che mi ardeva dentro come una fiamma. Tutto il mio risentimento e tutta la sete di vendetta che covavo. La cosa che non aveva capito, era che in tutta questa storia ero io ad avere il coltello dalla parte del manico: «Ti conviene non scherzare con me, Rhadamantys. Se mi uccidi, niente fermerà le Creature dall’incenerirvi tutti».
«Ancora tiri la corda? Le tue minacce per me sono insignificanti perché tu non sei l’unico asso nella manica che abbiamo. Sei solo un fastidioso di più che il nostro Signore ci ha ordinato di preservare e di usare in battaglia. Tu non sei una persona e non sei neanche un soldato, tu sei solo uno strumento e, i fantasmi e le Fairy di Myu, come scudo e rinforzo sono più che sufficienti».
Mi aggrappai repentinamente a qualcosa pur di ribattere: «I Black Saint attuali mi hanno giurato fedeltà, questo non fa di me una persona così inutile».
«I Black Saint attuali non possono niente contro gli spiriti e negli Inferi. Nessuno di loro può fare alcunché, sono solo degli omuncoli che non possono neanche sognarsi di guadagnare la forza del più debole Bronze Saint. Seguirebbero chiunque dimostri un briciolo di forza superiore alla loro. Il loro supporto non serve a niente, tranne che a fare numero. Sono solo delle copie carbone di un sogno di gloria che non potranno mai realizzare. Ti hanno giurato fedeltà solo dei manichini di creta, niente di più e niente di meno che delle stupide, inutili bambole».
«Io posso sconfiggere uno Specter». Gli ricordai.
«Non significa niente, resti comunque una bamboccia troppo lenta e si è visto molte volte. Sei solo un intralcio, se non fosse per il tuo potere sulle Creature neanche ti avrei lasciato continuare fino a qui; non sei per niente potente e sei una piagnucolona che non sa stare al suo posto. Adesso fuori da qui e non farti più vedere!»
Quando uscii da quella tenda mi venne in mente che io non ero inutile come diceva lui. Io avevo comunque ammazzato una Dea e una semidea, io ero comunque l’apprendista del Gold Saint di Ophiuchus. Io avevo il potere delle Stelle e avevo, no, ero la Luce Ombrosa. Rammentai le tristi parole che mi aveva rivolto lo Specter dell’Arpia. “Finché non capirai di esserlo non potrai mai essere la Luce Ombrosa fino in fondo”. E, le parole di Rhadamantys, per me continuavano a non significare niente.
Sentii il rumore di uno schiocco di lingua contro il palato. Mi girai in quella direzione e vidi il Garuda. I capelli scompigliati e l’elmo sotto braccio. «Quello è sempre il solito e non cambierà mai. Da quando gli fu concesso l’Ichor del nostro Signore, oserei dire che sia addirittura peggiorato».
«Come?»
«È una voce che si racconta tra gli Specter, non farci caso». Spiegò il Garuda lanciando un’occhiata velenosa alla tenda. «Raccontala anche a me, per favore». Lui mi guardò e i suoi occhi lanciarono un lampo di maligno compiacimento. Anche il sorriso che curvò la sua bocca grondava soddisfazione, quando mi ricattò: «Soltanto se tu diventerai la mia Seconda Ala, principessa».
«Come, scusa?» Chiesi stupita, per tutto quello che gli uscì di bocca.
«Hai capito bene».
«Ma non hai già Violate?» Indagai, assottigliando lo sguardo, guardinga.
«Violate è una comandante eccellente, ma tu hai dimostrato di tenerle testa e mi hai divertito moltissimo. In più trovo che tu, in un certo senso sia il suo contrario. Non fraintendere, non intendo solo fisicamente, ma anche intellettualmente. Una forza come la tua e un cervello sopraffino così...» Si portò le dita alla bocca e lanciò un bacio: «Sarebbero il fiore all’occhiello per la mia armata».
Mi ero sempre chiesta se effettivamente questo tizio ci fosse completamente con la testa. Ma arrivare ad affermare che come Garuda fosse monco, questa era divertente. «Preferirei di no».
«Come preferisci, ma stai molto attenta, principessa, qualcosa mi dice che, da quest’oggi in poi, molte cose sono destinate a cambiare». Questa mi sapeva tanto come un avvertimento a tenere le orecchie bene aperte, ma non avevo tempo da perderci dietro. «Sarà. Ci vediamo, Aiacos». Salutai.
Lui curvò gli angoli della bocca in un sorriso e chinò la testa in cenno di saluto, prima di incrociare le braccia: «A presto, principessa».
Avevo cose più importanti cui pensare: per esempio, completare la mia armatura e, prepararsi al peggio. I Black Saint e, ora anche i Saint delle costellazioni estinte, non si sarebbero fermati alla prima vittoria. Avevamo appena perso i territori riconquistati a causa del massiccio dispiegamento di forze. La zia aveva agito male, accidenti, ce lo dovevamo immaginare che sarebbe successo.
Mi recai alla tenda dei ragazzini e lì, aprii finalmente il sacco, che avevo continuato a portarmi dietro tutto il tempo, svelando i pezzi mancanti e assemblandoli con l’aiuto di Raki, che ne saggiò la resistenza e mi dette un paio di dritte. Anche Menta volle dire la sua, soprattutto quando mi feci fare i fori necessari per indossare la parure e che, lei, tappò con degli orecchini d’oro. Sibilai leggermente per il dolore, ma passò. Dovetti anche mordermi la lingua per evitare di usare la Dark Resurrection. Mi fece rimirare in uno specchio. Non stavo mica male con questi buchi. Dopodiché, mi chiese il permesso di fare qualcos’altro. Glielo concessi e, lei sparì per tornare con una cinta d’oro e un orecchino a cerchio del medesimo materiale, che poi mi appuntò.   

Nei giorni che seguirono, ebbi modo di indossare la mia corazza, almeno per gli allenamenti. Appena Camus e gli altri mi videro sgranarono gli occhi per lo stupore. Come se non si aspettassero un simile risultato. Però accolsero di buon grado la mia richiesta. Dopotutto, vertevamo in uno stato d’emergenza e tensione molto seri. Avrebbero potuto attaccarci da un momento all’altro. E, stavolta, mi misi in posizione di saluto della naginata. Camus alzò la guardia e io, con uno scatto delle mani, materializzai il falcione di Cosmo dorato. Adesso che avevo una corazza anch’io, mi sentivo più sicura. La mia determinazione spinse anche i bambini a riprendere gli allenamenti e, così, potei venire a conoscenza dei loro attacchi. Che Tokaki preferiva tenersi a distanza, che buona parte dei suoi attacchi si basavano sulla forza e la velocità, mentre che Neji, anche se si muoveva con la stessa grazia di un ballerino, era capace di frantumare una roccia con un solo sfioramento di mano.  Persino le bambine si allenavano sollevando massi grandi quattro volte loro.
Io, invece, cominciai a perfezionare i miei riflessi con Isaak, che colse al volo l’occasione per allenarsi con me. Fu così che venni a sapere che lui era un ex Marine di Poseidone: Isaak di Kraken, Protettore della colonna dell’Oceano Artico. A volte alcuni cavalieri sirena in armatura rossa e bianca o dei semplici soldati con Scale riprendenti le creature marine, blu e nere, si univano allo spettacolo.
Con nostra grande sfortuna, venni a sapere che alcuni dei loro compagni erano stati fatti prigionieri, quando non direttamente uccisi. Raccontarono anche dell’imboscata che subirono e di come Don Avido apparisse inquietante brandendo quella daga dorata che aveva piantato nei corpi di chi si era opposto alla sua avanzata.
Il pessimismo e la paranoia la facevano da padroni in questi posti. Eppure non volevo arrendermi. Lo capirono persino il Marine di Octopus (che, come venni a sapere, era molto stimato tra i colleghi) e molti altri che non mi avevano in simpatia. Anche se eravamo protetti, non ci avrebbero messo molto per trovare questo accampamento, nonostante tutti i tentativi di depistaggio dei fuggiaschi. Adesso il numero degli Specter si era ridotto considerevolmente. Non è facile ucciderli, ma dai centootto che erano in origine, erano scesi ad appena cinquantotto, mentre i Marine, forse erano un po’di più. Le anime invece erano state tratte in salvo, almeno buona parte di loro.
Per quanto riguardò le mie crisi, anche Camus alla fine si prestò al gioco del “prendimi le mani che mi calmo”, con mio sommo imbarazzo e diniego. Anche perché le sue mani fredde non erano esattamente un toccasana in questi frangenti. Eppure, mi tornò utile, perché, lui mi spiegò secondo quale principi fermava gli atomi. Ma lo fece in un modo che riuscì a tirarmi fuori da quella situazione e a farmi interessare e riflettere.
A fronte di questa crisi e da come mi comportai, lui asserì che ero molto coraggiosa. A me sembrava di essere solo una palla al piede. Cioè, l’unica vittoria che mi sembrava di aver riportato era che, gli Specter si erano acclimatati alla mia presenza, complice anche la corazza che mi ero costruita. E che, meno anime erano state usate in questa battaglia. Ora che avevano perso tutto, sembravano tutti aspettarsi qualcosa da me. Probabilmente che venissi usata in battaglia.
Nella loro brutalità stavano contribuendo ad aiutarmi a sviluppare i miei poteri e le mie tecniche anche di combattimento. Prima d’ora non avevo mai pensato ad analizzare seriamente il mio nemico, mi limitavo a fare poco. Ma anche a tenermi a distanza, visto che i miei punti di forza erano soprattutto i miei poteri, allora non necessitavo per forza una grande vicinanza. Un po’come Camus.  Per esempio fu grazie alle imboscate a tradimento di alcuni Specter e dei bambini, soprattutto il delicato sfioramento letale di Neji, che imparai a percepire i Cosmi altrui e fare attenzione agli odori e ai rumori.
Rhadamantys e gli altri due Giganti Infernali erano quelli che ci preoccupavano di più. Anche se impossibilitati a muoversi a causa delle ferite riportate (che poi si erano rivelate pure più gravi di quanto non fossero e, non l’avrei mai detto che fossero tanto resistenti, soprattutto ripensando al Garuda) Camus per i suoi trascorsi con Aiacos e io per via di Rhadamantys. Camus non mi aveva chiesto che motivi avessi per temerlo in quel modo, ma intuiva che fosse un timore fondato in ogni caso. Perché tutti e tre (in questo frangente anche Minos) sembravano assetati di vendetta nei nostri confronti.
Camus temeva ancora un po’ per me, ma ormai mi concedeva la sua fiducia, dal momento che avevo dimostrato di non essere così sprovveduta.
Ciononostante, questo non ci scoraggiò dall’intraprendere le nostre attività, una volta che i tre a cui era stata affidata la mia custodia, furono riammessi in servizio. Potemmo finalmente festeggiare la nostra liberazione. Ci scolammo qualche bottiglia di birra (fortunatamente avevano cominciato a spostare le provviste molto prima) mentre bevevamo, io e Camus ci scambiammo parecchie occhiate divertite e complici. Poverino, credo che non fosse mai stato più contento di levarsi di dosso quelle tre zecche fastidiose. E io che credevo che fosse un pezzo di ghiaccio fatto e finito. A un tratto ci ritrovammo seduti con la schiena appoggiata a una cassa, a ridere come due idioti per via della sbronza e, quando appoggiai la testa sulla sua spalla, la sentii più calda.
Poi ci addormentammo. Mentre sognavo, sentii una voce ipnotica chiamarmi. Nel buio mi giravo e la cercavo, ma non la trovavo. Poi, davanti a me, comparve l’immagine di un tronco d’albero spoglio e dai rami mutilati.
Infine, vidi davanti a me Myu della Farfalla seduto su un trono, le belle ali della Surplice spalancate, che mi sorrideva. La gamba accavallata e le braccia posate sui braccioli dello scranno. Le fairy che svolazzavano attorno a lui formando vere e proprie colonne vorticanti.
Quando ci svegliammo, ci ritrovammo nella stessa posizione in cui ci eravamo addormentati, con un gran bel mal di testa e nausea a testa e, le membra doloranti per la scomodità. Quella mattina, avemmo finalmente occasione di darci una ripulita. Poi, dopo aver bevuto un vampiro a testa (è un pick me up, un cocktail che serve per riprendersi dalla sbronza colossale della sera prima) andammo a fare colazione. Ma la nostra colazione fu disturbata dalla scomparsa di Iago.

Camus
«Come stai?» Ti chiese Fianna seduta su una cassa. Con le gambe penzoloni che toccavano terra, scalciava l’aria. I segni blu ben evidenti sulla sua pelle di neve. Probabilmente se li era fatti ridipingere.
Posasti la cassa dentro la spelonca che gli Specter e i Celti avevano eletto a magazzino e uscisti per prenderne un’altra.
«Sconfortato, è stato un brutto colpo», ammettesti mentre spostavi quelle casse senza difficoltà.
«Anch’io penso lo stesso». Fece lei smettendo di scalciare l’aria per scendere dalla cassa che tu prendesti. «Lady Viviana si è salvata, purtroppo». Facesti tu. Eri ben lieto di ascoltare le problematiche della tua piccola amica, piuttosto che pensare alle tue in questo momento. E, Fianna ti accontentò, sapendolo. Eri conscio del fatto che i bambini erano intelligenti e che lei sapeva cosa ti agitava. Era una delle poche persone che ti era rimasta accanto, anche se era gelosa marcia di Astrid. La cosa ti faceva anche sorridere, perché Fianna era una bambina e la sua era la gelosia di una figlia. Così, appena avevi finito con Astrid, tornavi a trovarla all’accampamento celtico per passare un po’di tempo insieme a lei, a volte giocando a palla e altre ascoltandola, proprio come facevi quando eri ancora in compagnia di Hyoga e della tua nipotina. E, questo era sufficiente per smorzare la sua gelosia.
A volte ti sorprendeva la profondità del legame che univa la vostra sgangherata famiglia Oltretombale. Uniti dalla guerra. Prima d’ora non immaginavi che si potesse creare un legame affettivo tanto forte come quello tra te, Isaak, Fianna e Valentine. Sì, anche lo Specter alla fine era incluso nel pacchetto, visto che anche loro passavano il tempo in compagnia della ragazzina e ti aspettavano sempre per cenare tutti insieme. Anche se appartenevate a schieramenti diversi.  
Isaak era stato il primo a preoccuparsi per te, dopo i Celti. La tua temperatura corporea si era abbassata e, una sera ti aveva preso da parte e te l’aveva detto. Avevi minimizzato la faccenda, ma si vedeva che non era bastata a convincerlo.
«Non diciamo niente a Fianna, non voglio che si preoccupi ancor di più».
Isaak aveva assottigliato l’unico occhio che gli restava e aveva annuito: «D’accordo, maestro, ma prima o poi se ne accorgerà». Ma tu avevi deciso di risolvere anzitempo questo problema.
Quel momento non era ancora giunto, ma eri felice di vedere che la ragazzina non avesse paura dell’incremento del tuo gelo, come invece facevano i suoi compagni. Era preoccupata per te, ma l’affetto che provava era sufficiente per permetterle di sopportare le tue basse temperature. Persino più basse delle sue. 
«Sì, gli Dèi sono veramente ingiusti». Se ne uscì lei. Anche se il suo contributo era stato fondamentale, assieme a quello delle altre donne, avevano potuto fare ben poco.
Tacesti.
Ora, come se non bastasse c’era pure un altro problema. La scomparsa di Iago gettò nel panico più totale la vostra zona d’accampamento che, con l’arrivo dei restanti Specter, si era ampliata.
Ti fermasti, le mani poggiate sulle assi della cassa.
Proprio in quel momento la voce di Valentine interruppe le tue elucubrazioni in tono derisorio: «Che hai, Aquarius? Ti sei rammollito, forse?» Ti girasti verso di lui che stava sopraggiungendo. Fianna lo salutò e lo Specter ricambiò.  
«No, assolutamente, stavo solo riflettendo». Rispondesti. Eri solo distratto. Non ti aspettavi neanche tu che Iago sarebbe scomparso e non sarebbe più stato ritrovato. Quello che ti spaventava, era che gli Specter, avevano qualcosa di diverso, ma non sapevi che cosa fosse. E lo avevi ravvisato anche nell’atteggiamento baldanzoso di Valentine, oltre che nella sua Surplice tirata a lucido. Ad ogni modo, ci doveva essere un modo per salvare quei ragazzi, se solo aveste capito quale fosse. Ecco a cosa pensavi e cosa ti distraeva e ti turbava.
Non era colpa dell’atmosfera che regnava sull’accampamento. Semmai eri uno dei pochi a cercare di non farsi sopraffare dall’atmosfera generale di rabbia, sconforto, dolore, impotenza e tensione. Tensione che a volte sfociava in vere e proprie risse da saloon tra uno o più Specter.
Anche i Marine superstiti erano sconfortati e Isaak si era momentaneamente riunito a loro mentre si leccavano le ferite. Fianna era abbastanza scossa da tutto ciò, ma non sembrava niente che non potesse superare.     
Purtroppo quest’imprevisto aveva bloccato tutta la routine all’interno dell’accampamento e, adesso, stavi contribuendo a costruire delle palizzate tramite il tuo Cosmo, creando acuminate stalagmiti dal terreno, sfruttando il potere del Cocito. Anche il tuo aiuto era stato fondamentale, in quanto “mago dell’acqua”, avevi contribuito a creare delle riserve d’acqua per i feriti congelando gli atomi quel tanto che bastava perché a contatto di mani altrui si sciogliessero e diventasse acqua. Almeno sotto quel punto di vista eravate salvi.
Ecco cosa pensavi mentre finivi di spostare le ultime casse con i rifornimenti provenienti dal mondo dei Vivi che gli Skeleton vi portavano, passando per strade sconosciute persino ai Black Saint e ai loro alleati. Anche tra loro, possibile che non ce ne fosse neanche uno che si fosse alleato con voi? Che non capissero la gravità della situazione? Che i loro cuori fossero avvelenati dall’odio a tal punto da impedirgli di vedere la realtà? Non avresti mai pensato di dirlo, ma non pensavi di aver mai avuto tanta paura in vita tua. Temevi anche tra loro ci fosse il tuo vecchio maestro. Se così fosse stato, non l’avresti sopportato.
Anche se in teoria ti eri addestrato ad Asgard assieme a Surt. Quindi in teoria l’Asgardiano doveva trovarsi nel Valhalla. E, questo pensiero ti tranquillizzò. Ma era anche vero che esistevano Mistoria, Krest e Degel di Aquarius. Combattere contro di loro non ti avrebbe reso affatto felice, sarebbe stato come demolire con le tue stesse mani l’Undicesima Casa e la stirpe da cui discendevi. Sì, consideravi i tuoi predecessori come la tua famiglia d’origine. In quanto tu eri il loro erede. Ogni gesto che facevi, ogni respiro che emettevi serviva a rendere lustro al nome di Aquarius, ma se erano loro a disonorarlo, allora che senso aveva tutto questo?
Ma tu avevi sufficientemente potere per purificare i loro cuori. Almeno lo speravi che ci riuscisse.
Posasti giù la cassa e ti guardasti le mani, preoccupato. Eri arrivato a un punto in cui neanche la brina si scioglieva più a contatto con la tua epidermide, tanto era fredda. A te non sembrava di esserlo, ma agli altri sì. Persino Astrid cercava di toccarti il meno possibile, per evitare di scottarsi. E te ne eri accorto anche te, questa era la ragione per cui te ne restavi sulla soglia della tenda, invece che dormire assieme a loro. La tua presenza li avrebbe congelati.
Questo era un guaio. Che tu stessi diventando davvero un tutt’uno con quel fiume? «Che ti prende?» Ti chiese la voce infastidita dello Specter dell’Arpia. Lo guardasti e lasciasti ricadere la mano lungo il fianco. Essendo l’altro guardiano del Cocito lui al gelo era abituato e, la tua freddezza non gli faceva né caldo né freddo.
«Nulla».
«Non dire cavolate, se c’è una cosa di te che non sopporto è proprio questa, Aquarius: quando hai dei pensieri tendi a chiuderti ancor più in te stesso e fai male. Non che mi freghi, ma se non hai notato, vertiamo in una situazione un attimo più grave dei tuoi problemi personali o qualsiasi cosa ti passi per la testa». Ti rimbrottò adirato.
«Non ho niente».
«Non prendermi in giro. Sono stato preso per i fondelli per secoli, nella penultima Guerra Sacra contro di voi sono stato ammazzato dal mio stesso padrone! Ne ho le tasche piene di essere considerato ancora come un servo! Non sono rinato in una famiglia libera per essere trattato così un’altra volta da qualcuno che non sia il Dio che servo! Quindi adesso sputa il rospo!»
Non eri mai stato bravo a reggere questo tipo di pressioni, perciò ti nascondesti dietro la tua espressione severa e ti limitasti a trapassarlo con gli occhi. «Non ho niente».
«Ah, no?» Poi, ti mollò un pugno che tu prendesti in pieno e crollasti a terra, dolorante. Quando c’era riuscito?  Ti portasti una mano alla guancia mentre ti rialzavi. L’avevi capito che non aveva avuto intenzione malevole nei tuoi confronti, altrimenti avrebbe colpito direttamente il naso, invece dello zigomo.
«Camus!» Vociò Fianna e corse ad aiutarti, ma tu la tranquillizzasti dicendole che stavi bene e che c’eri abituato. Le facesti cenno di andarsene e lei, dapprima non si mosse, ma poi obbedì quando promettesti che l’avresti raggiunta.
Solo allora obbedì.
Ma il gemito di dolore che ti uscì dalla bocca lo sentisti emettere anche a lui. Lo guardasti mentre si massaggiava la mano. Valentine ti guardò a occhi sgranati e, in quelle iridi di solito feroci e diffidenti leggesti il timore: «La tua pelle…» Mormorò osservandoti mentre ti rialzavi e ti spolveravi i vestiti. La guancia avrebbe smesso di fare male di lì a poco, tanto eri freddo, probabilmente non sarebbe saltato fuori neanche il livido. «Già prima eri freddo, ma queste temperature non sono normali neanche per un’Anima Viva, che cosa ti sta succedendo? Ti sei fatto vedere dai medici?» Domandò accigliandosi.
«No, non l’ho fatto».
«Perché no? Hai forse paura dei dottori?» Insinuò. Con tutte le volte in cui in vita vi avevano salvati per miracolo, ormai avevi una fiducia assoluta nei medici.
«Perché qualsiasi cosa sia non potranno aiutarmi!» Esclamasti spaventato. Poi sospirasti e distogliesti il volto, mentre, pugni contratti, gli raccontasti della tua scoperta. Ossia che, da quando avevi combattuto a fianco dell’Azona, da quando avevi chiamato a te il Cocito, la tua pelle si era raggelata ancor di più, degli incubi che agitavano i tuoi sogni, dove diventavi una statua di ghiaccio, dove il tuo Cosmo ti sopraffaceva e portavi una nuova Glaciazione. Dove congelavi tutto a ogni tuo passo. Ti sentisti un cretino nel raccontargli tutto questo.  Avevi sempre sentito che le fiamme consumano, ma non avresti mai pensato che anche il ghiaccio potesse essere altrettanto logorante. «E, il peggio è che ogni giorno mi sento sempre più gelido, come se il sangue dentro di me stesse raffreddandosi. Come se il Cocito mi stesse mangiando dall’interno e non so come fermarlo».  
«Non so neanch’io che cosa sia, non avevo mai sentito prima nulla del genere». Mormorò spaventato. Poteva immaginare che tu fossi forte, ma non immaginavi che lo fossi a tal punto. Tu sapevi che la cosa più giusta da fare per fermarti sarebbe stato morire un’altra volta. Ma adesso ti rifiutavi di credere che fosse l’unica opzione. Non poteva essere, ci doveva essere qualcos’altro.
«Il fuoco». Se ne uscì a un tratto lo Specter che, ritto in piedi davanti a te, aveva continuato a osservarti.
«Cosa?»
«Dentro di te manca il fuoco, il tuo principio di caldo e secco è scomparso, devi riattivarlo». Suggerì indicandoti con una mano. Non l’avevi mai sentito parlare così. Quello roteò gli occhi e te lo spiegò secondo le filosofie orientali. Non pensavi che Valentine nascondesse un bagaglio culturale di un certo spessore. Né che prima di diventare uno Specter studiasse. Non era solo per via della sua forza che era diventato uno dei Guardiani del Cocito più forti, allora. Tu ti vantavi di essere sapiente, ma questo ti batteva. O forse era solo perché parlava con i suoi colleghi durante le pause, che, qualcuno che proveniva dall’oriente c’era.
«Come?»
«Hai bisogno di fuoco, dovresti bere l’acqua del Flegetonte».
«Il fiume delle fiamme? Ma non rischio di bruciarmi gli organi interni e di restare imprigionato qui per sempre, se lo faccio?» Domandasti orripilato. Un conto era la lava del mondo dei Vivi alla quale tutti potevano sopravvivere se si bruciava il Cosmo, come ai suoi tempi fece Defteros di Gemini. 
«No, a quel fiume si sono abbeverati Enea, Orfeo e tutti coloro che per un motivo o per un altro sono scesi negli Inferi, è l’unica cosa commestibile che non comporti la segregazione eterna in queste Prigioni. Noi Specter non sottostiamo a questa legge grazie alla nostra Stella Malefica, ma tu sì». Spiegò in tono duro, contrastante con lo sguardo preoccupato che avevi imparato a riconoscere.
Ti sedesti su una cassa lì vicino. Una delle poche che non avevi ancora portato in magazzino: «Credi che possa essere possibile?» Gli chiedesti.
«Dovrebbe funzionare».  
«Ma il Flegetonte è presidiato dai nemici». Rilevasti.
«E tu ti arrendi per una quisquilia come questa? Questa è bella, Camus di Aquarius, l’uomo dello zero assoluto, il guardiano del Cocito, colui che padroneggia il Settimo Senso e la potenza dei ghiacci, annientato dalla paura». Ti schernì incrociando le braccia. Poi distolse lo sguardo, forse per nascondere la sua espressione e la sua voce ti arrivò un po’più mite e seria, quando ti presentò le due alternative: «Ad ogni modo o così o lasciati diventare un tutt’uno con il ghiaccio».
Il tuo cuore si strinse in una morsa dolorosa per la paura. Dunque il problema si era già aggravato a tal punto?
Lo Specter dell’Arpia se ne andò lasciandoti solo.
Valentine aveva ragione, anche se era una pazzia, dovevi tentare. Ma l’avresti fatto da solo, senza mettere in pericolo nessuno.
Così, quella notte, quando fosti sicuro che tutti dormissero, ti avvolgesti in un mantello nero e uscisti dall’accampamento, eludendo le sentinelle. Però passasti dalle montagne per evitare di lasciare delle orme nella polvere della zona dei Geyser, che avrebbero vanificato i tuoi sforzi e segnalato la posizione del nuovo accampamento. Benché adesso vi aspettaste un assedio degno di tale nome. Dopotutto quanto tempo ci avrebbero messo per scoprirvi?   
Scendesti dalla montagna senza farti scoprire. I sensi all’erta e il cuore che ti batteva fortissimo tra le costole.
Quando arrivasti sulla piana mettesti un piede in fallo e inciampasti. Mentre ti rialzavi ti sentisti apostrofare da una voce. Sussultasti e alzasti la testa di scatto. Dei Black Saint minori ti avevano visto! «Chi sei tu? Che ci fai qui?», «Presto, catturiamolo!»
Ma prima che ci riuscissero una patina semi trasparente cadde attorno a te come una tenda e i tuoi aggressori si pietrificarono. Battesti le palpebre sorpreso e ti rialzasti. Poi, tendesti una mano verso quella barriera che s’increspò, rivelandosi fatta di sottilissime squame romboidali biancastre, piccole come le tessere di un mosaico. Quella di Lady Asia aveva una base tipo cerchio magico verde, ma questa cupola era completamente diversa ancora. «Una tasca temporale». Mormorasti riconoscendola e, ritraesti la mano, confuso.
«Esatto. Non temere, non ti faranno alcunché, l’ho creata apposta per evitare che ti disturbino, ma questo sembra che tu lo sappia già». Ti rassicurò una voce maschile, in tono vellutato, proveniente in alto a destra. Girasti il capo in quella direzione e vedesti il nuovo arrivato.
«Sì, ho già avuto a che fare con una tecnica simile». Rispondesti facendo viaggiare lo sguardo attorno a te per qualche momento.
Il tuo interlocutore continuò a rimirarti, incuriosito. «Tu devi essere il Cavaliere di Aquarius». Costatò. Gli occhi brillanti e, a causa della lontananza era tutto ciò che riuscivi a intravedere di lui. Non dimostrava che una trentina d’anni ed era alto e snello, ma, a vedersi, non sembrava per niente un soldato. La camicia candida e pulita infilata per metà nei pantaloni neri di jeans, lo rendeva incongruo con il paesaggio e il contesto. Avresti pure pensato che fosse un visitatore di un museo, se non fosse per lo scettro dal manico nero che brandiva. Unica arma che aveva con sé, ammesso che fosse un’arma e non un mero oggetto decorativo come sembrava. Non riuscivi a capire che cosa dovesse simboleggiare quella Җ dorata sulla sua sommità.
Tuttavia smettesti di porti domande. Avevi già appurato che gli Azoni non avevano tutto questo bisogno di combattere e spostarsi con indosso la loro Wing, anche se tu non l’avevi mai vista. Perciò non ti scandalizzasti.
La sua pelle scura contrastava con la sua chioma bianca e liscia dalla frangia irregolare che gli cadeva a ciocche sugli occhi, mentre le laterali, gli nascondevano le orecchie. Al collo sottile indossava vari giri di collana d’argento, con gemme d’ambra, ametiste e perle, soprattutto perle tagliate a goccia. Come i suoi orecchini d’ametista più sottili rispetto a quelli di Lady Asia e più stretti.
Poi scese dalla roccia con un tintinnio di gioielli e, tu potesti appurare che il resto dei suoi capelli lunghi fino alla vita, sollevati dal movimento, erano legati in una coda bassa con un laccetto. Ti si fermò davanti, senza violare il tuo spazio vitale e, tu potesti costatare che era alto quanto Saga. La sacralità che l’avvolgeva era talmente forte da farti cadere in ginocchio.
Quando incrociasti i suoi occhi parzialmente eterocromi, avesti la sensazione di essere osservato da una creatura antichissima. Per non dire dal mondo intero, o meglio, era come se avesse il mondo nei suoi occhi. Non avevi mai provato niente di simile prima d’ora. Neanche con Lady Asia, i vostri contatti visivi non erano stati così ravvicinati come con Costui. Eppure, non ti guardò con disprezzo. La sua postura quasi regale, lo scettro che brandiva, la sua sacralità sopraccitata e il modo in cui ti guardava, ti fecero capire chiaramente che costui non era una minaccia. Ma non era neanche umano, non completamente, proprio come Lady Isabel e Lady Asia.
«Non mi aspettavo che avresti davvero seguito il consiglio di Valentine dell’Arpia». Commentò. «Voi chi siete?» Chiedesti quando ti riavesti dalla meraviglia.
«Io sono l’Azone al servizio di Hades, mi chiamo Island Sagide». Si presentò pacato portandosi una mano al petto e inchinandosi leggermente e tu sgranasti gli occhi. Ecco perché ti ricordava molto Lady Asia. E… aspetta, Sagide? Che c’entrava Saga adesso? Era suo figlio? No, non era possibile, secondo la leggenda gli Azoni sono Dèi e Saga non aveva avuto figli quando era in vita. E poi, questo non te lo ricordava né nell’aspetto né nei modi, né in niente. No, doveva essere un caso di omonimia, almeno lo sperasti. Lui parve intuire il tuo disagio e ti sorrise, rivelando due canini affilati: «Non temete, non ho niente a che vedere con il Santuario, sono figlio della Dea Saga, della Storia e della Poesia». 
«Non immaginavo che esistesse una Dea con questo nome, scusatemi, Signore, ma credevo che Lady Asia fosse l’unica Azona». L’Azone ti lanciò uno sguardo compassionevole. Salvo poi ricordarti che spesso lei stessa aveva parlato del suo ordine al plurale. Ma questo ci arrivasti molto tempo dopo.
«Oh, Asia non è l’unica Azona in circolazione, è solo la più famosa di noi». Rilevò con tranquillità poi spostò gli occhi sulle tue mani e ti domandò come avessi intenzione di abbeverarti. «A mani nude? Ma così non riuscirai mai a prelevare l’acqua degli Inferi, usa questa». Fece porgendoti un calice di platino che materializzò dal nulla e ti porse. «É fatto di una lega speciale che non si scioglierà a contatto con le acque del Fiume dei Matricidi e dei Parricidi». Illustrò mentre tu lo prendevi.  Lo osservasti e poi guardasti lui. «Perché mi aiutate?» Chiedesti diffidente, in una passabile imitazione di Valentine. Alla fine lo Specter ti aveva passato qualcosa. 
«Di norma non dovrei impicciarmi con il lavoro di mia sorella, tu appartieni alla Sua Storia, non alla Mia, anche se spesso i nostri destini si sono intrecciati. Ma tu, Aquarius del XX secolo, per un certo periodo di tempo sei stato uno Specter, hai vestito la Surplice dell’Acquario e, per quelle dodici ore ho sorvegliato anche te. É per via di quel ricordo che mi sono persuaso a intervenire, considerandoti come uno Specter, invece che come un Gold Saint. Inconsciamente sai di essere ancora legato a questo posto, anche se lo temi. Non devi avere paura, sei tra quei pochi che hanno danzato sul confine, senza tuttavia perdere sé stessi; questo atteggiamento ti ha permesso di conquistarti la fiducia del Fiume dei Deicidi. Ciò ti fa onore e non fa che accrescere la tua importanza e la mia ammirazione. Ma voglio che tu sappia una cosa: sei più importante di quanto pensi, solo che non te ne sei mai accorto. Chissà, forse così aprirai finalmente gli occhi e prenderai coscienza del tuo posto nella Storia». Rivelò con un sorriso paterno.  
T’inchinasti, incerto e lo ringraziasti.
«Su, andiamo, questa tasca temporale ti proteggerà».
Ti accompagnò fino alle rive del Flegetonte e tu quasi ti sentisti sciogliere a contatto con questo calore. Anche se fu solo un secondo che la tua temperatura corporea si abbassò di nuovo e, anche così riuscisti a emettere fiato condensato dalla bocca socchiusa. Era la prima volta che osservavi questo fiume e, tutto ti saresti aspettato, fuorché la lava. Il Flegetonte era un fiume di lava. Non l’avevi visto bene prima perché non ti era interessato e, non ti eri neanche sporto dal galeone per osservarlo. Avevi visto che era denso, ma non immaginavi che fosse per questo. 
Immergesti il calice nella lava, stando attento a non toccarla e poi, prendendo coraggio, bevesti.
Subito la tua lingua e la tua gola si scottarono e furono pervase da una sensazione di salato come non ne avevi mai sentiti prima. Talmente salato che cancellò ogni altro sapore dalla tua bocca. Mentre i reni andavano a fuoco come sterpaglia, costringendoti a piegarti su te stesso e gemere di dolore con gli occhi lacrimanti. I capelli ben fermi dietro il mantello.
Ma fu solo per poco che passò, lasciandoti boccheggiante come se tu avessi dovuto sopportare la tortura più dolorosa della tua vita, mentre il ghiaccio dentro di te si scioglieva. «Non preoccuparti, è sempre così. Ogni due settimane però dovrai tornare qui ed io sarò qui ad aspettarti finché il pericolo non sarà cessato». Ti promise. Poi ti riaccompagnò all’accampamento e svanì poco prima che tu entrassi.
Anche se il problema era leggermente migliorato, il freddo non se ne era andato del tutto. Come appurasti il giorno seguente quando ti svegliasti e ti recasti dai cuochi per la tua razione. Il tuo problema non era soltanto a livello fisico come credevi. A un tratto avesti un’idea: e se il problema fosse nel tuo Cosmo? C’era ancora una persona che non avevi consultato. E l’andasti a cercare. La trovasti che stava mangiando la sua zuppa in compagnia di Menta e dei ragazzini superstiti. Appena li vedesti lì per lì avesti i sensi di colpa. Con tutti i guai che erano successi non avevi più pensato a loro.
Le parlasti del tuo problema in privato. Lei ti ascoltò attentamente prima di proferire: «Bè, secondo me può dipendere da un altro fattore».
«Ossia?»
«La tua costellazione».
«Stai dicendo che potrebbe essere un problema legato al Cosmo?» Chiedesti sorpreso inarcando un sopracciglio biforcuto. Non aveva tutti i torti, visto che disponevi di tutto un arsenale di tecniche cosmiche legate al ghiaccio.
«Potrebbe. L’Aquario è sì una costellazione raffigurante Ganimede nell’atto di versare acqua e un segno legato a questo elemento, ma tu padroneggi il ghiaccio, perché nello spazio non c’è abbastanza caldo per permettere all’acqua di essere tale. Tutto congela nello spazio. Poi ho anche avuto una vaga idea riguardo ai tuoi capelli».
Ti accigliasti: «Che hanno i miei capelli?» Eppure eri stato molto attento sulle rive del Flegetonte.
«Niente, ma sono rossi». Rilevò, facendoti inarcare un sopracciglio come a dire: “embè?” «E allora? C’è qualche problema?» Domandasti, memore di tutte le volte che eri stato evitato a causa del colore della tua chioma, per via della superstizione popolare. «No, è che mi ricorda il contrasto tra certi tipi di stelle e la loro temperatura. Mi sono ricordata delle stelle rosse, tu padroneggi il ghiaccio, perché le stelle rosse sono tra le più fredde che puoi trovare nello spazio».
Questa non la sapevi, ma l’idea ti divideva tra il “che cosa diavolo stai a dire” e il “e se ci fosse qualcosa di vero?” «Vuoi dire che io sarei come una stella rossa?»
«Precisamente». Sorrise. “Ammettiamo per un secondo che lo stia diventando” «come posso fare per evitare di diventarlo completamente?»
Il suo sorriso si afflosciò e tornò seria: «Questo temo che lo possa sapere soltanto tu».
«D’accordo e, mi spiegheresti che cosa significava quel discorso strano sul mio aspetto e la mia costellazione?»
«Oh, una teoria che ho sviluppato qualche settimana fa, credo che fossero settimane…» E te la raccontò, lasciandoti di sasso. Non avevi mai interpretato le Dodici Case a questo modo, né, avevi mai visto te stesso come una metafora di qualcos’altro. Né che la tua Casa fosse interpretabile astrologicamente, in realtà. Quel discorso era inquietante e affascinante insieme, poiché stava a significare che in un certo senso il Santuario era più facile da interpretare di quanto sembrasse e che voi non eravate reali. Eppure eri fatto di carne e sangue, tu respiravi, tu pensavi: cogito ergo sum, penso dunque sono. I personaggi di un libro non formuleranno mai pensieri diversi rispetto a quelli che l’autore fornisce loro. Mentre voi sì. Voi pensavate, voi eravate.
«Non dico che non siete, o meglio non siamo reali, lo siamo eccome, altrimenti tu non esisteresti, ma penso che sia una storia che qualcuno racconta a qualcun altro e noi siamo al tempo stesso, personaggi di quella storia ed emanazioni della realtà che ci circonda. Non l’avrei mai pensato, in realtà, se non fossi mai diventata pagana».
«Pagana? Pensavo che fosse per via di quello che mi hai raccontato».
«Anche, ma credo che sia cominciato tutto quando ho scelto di credere a qualcosa di diverso». Ti rivelò dopo aver inghiottito l’ultima cucchiaiata. «In ogni caso, credo che ci sia ancora qualcosa che mi sfugge».
«A proposito di che?»
«A proposito dei cinque sensi e a proposito delle battaglie e di tutto quello che sta succedendo».    
«Per esempio?»
«Perché le Surplici degli Specter hanno queste forme? E, soprattutto, perché esiste uno Specter della Farfalla?» Chiese lei.
«Ah, ma è facile, perché…» Facesti per continuare ma ti rendesti conto di non avere risposte da darle. In realtà non ce le avevi proprio, per te era una cosa normale, ormai, come il fatto che avevi gli occhi rossi. Ma veramente, non avevi mai pensato al perché esistesse uno Specter della Farfalla.
«Tu credi che anche lui abbia qualcosa a che vedere con questa storia?»
«Perché lo pensi?» Chiese lei battendo le palpebre un momento.
«Mi era sembrato che stessi per dirlo».
«No, in realtà è una cosa che mi sta arrovellando il cervello da un po’».
«Non so quanto ti convenga pensarlo, potrebbe essere una pista a vuoto, anche se ammetto che sono interrogativi interessati. Io, per esempio, non ci avevo mai pensato prima, grazie per la chiacchierata, Astrid». Poi, facendo leva su una mano ti alzasti e lei ti seguì con lo sguardo.
«Vai già via?»
«Sì, devo andare a conferire con i Celti, dobbiamo studiare un piano d’attacco». Lei si rattristò, le piaceva chiacchierare con te. Anche tu eri dispiaciuto di lasciarla, ma il tuo dovere ti chiamava. Era un peccato che non avesse completato l’addestramento, se no avrebbe potuto fare molto di più.
«Tornerò a trovarti più tardi alla tenda dei ragazzini, chissà, magari così continueremo la discussione».
«Sarebbe fantastico». Se ne uscì.  Poi la salutasti e, dopo aver messo la tua ciotola nella tinozza degli Skeleton che si occupavano della manutenzione e delle pulizie, raggiungesti i Celti.  La riunione durò per tutto il pomeriggio e, potesti liberarti solo per cena. E, allora, tornasti alla tenda dove ti aspettava la tua famiglia allargata. Cena che consumaste tra una chiacchierata e l’altra. Isaak trovò affascinanti le teorie di Astrid, mentre lo Specter, se dapprima ridacchiò, poi s’interessò, soprattutto quando manifestò curiosità sulla Stella Malefica e le Surplici. E, i suoi occhi lanciarono uno sguardo di cupidigia alla ragazza, che se ne accorse. Ma voialtri rimetteste in riga l’ambizioso Specter.
Subito dopo cena, uno Skeleton fu mandato a chiamarti. Lady Pandora desiderava vederti. Anche se un po’perplesso ti alzasti dalle stuoie, accompagnato dagli sguardi di Astrid, Isaak, Fianna e i ragazzini e andasti. Mentre camminavi per l’accampamento illuminato dai focolai e animato dal vociare dei soldati e dei civili che cercavano di smorzare la tensione come potevano, ti accorgesti che c’era qualcosa che non ti tornava.
Poi, nei pressi del nuovo Padiglione della Giudecca ci arrivasti: al nome di Pandora, ti era parso che Astrid si fosse rabbuiata. Bè, era naturale, era la migliore amica della sua defunta madre. Non sapevi quanto fosse stato profondo il loro rapporto prima del lutto, ma non doveva essere facile. In realtà non ti scandalizzavi neanche troppo per le parentele di Astrid, non era certo la prima Saint famosa per essere il discendete di uno Specter; anche Tenma di Pegasus era figlio di uno della schiera di Hades. E, in un certo senso aveva un legame con la Pandora del Millesettecento.
Non era importante l’origine, ma ciò che si sceglieva di essere, Astrid aveva scelto di essere una Saint e tanto ti bastava.  
Una volta dentro la tenda della Giudecca, t’inginocchiasti al cospetto della sorella terrena di Hades.
«Mi avete fatto chiamare, milady?» Domandasti rispettoso, cercando di non fare caso a quanto anche lei fosse sconfortata. Come se avesse potuto esprimersi tramite il vestiario, notasti che erano più chiari di quelli che ricordavi. Sicuramente si era fatta prestare una tunica da una delle Sacerdotesse di Lady Niniane, perché l’azzurro polvere non le stava molto bene. La faceva solo sembrare più smorta.
Era semisdraiata sul tavolo di legno al Padiglione della Giudecca, decisamente più piccolo, disadorno e spartano del precedente, intrecciato con delle canne. I Celti avevano fornito nuova mobilia e abiti, oltre che cure, ai feriti e al resto dell’esercito che si era salvato Come se si fosse addormentata sulle assi, o stesse piangendo. I gomiti sul tavolo, le braccia incrociate e, probabilmente, fino a pochi minuti fa, anche la testa era poggiata sulle medesime. Quando alzò la testa per guardarti restasti sorpreso dai suoi occhi rossi di pianto e dalle borse sotto gli occhi. Davanti a te non c’era la luogotenente di Hades, ma una donna distrutta e sopraffatta dal fallimento. Per la prima volta la vedevi così e ne restasti abbastanza turbato. Nonostante tutte le premure del popolo che ti aveva accolto, per quella faccia sofferente non c’era cura. Persino i Giudici Infernali si erano dovuti adattare, però, per quanto gli bruciasse, non se ne lamentavano. Aiacos preferiva restare sul suo galeone, che era riuscito a salvare. Adesso lo stava riparando aiutato dai suoi sottoposti. Ma si notava che era amareggiato. Tra tutti gli smacchi subiti durante le Guerre Sacre, questo doveva essere di gran lunga il peggiore.
Per la prima volta fosti consapevole di tutti i suoi fallimenti e il peso della sconfitta sulle sue spalle. L’ennesima dopo tutte le Guerre Sacre perse nel corso dei secoli. Se c’era qualcuno che conosceva bene il peso della sconfitta, quella era proprio lei. La cosa sorprendente era che però fosse ancora in piedi e pronta a combattere ancora e ancora e a perdere ancora una volta. Per la prima volta, anche tu ti trovavi dalla parte dei perdenti, per tua scelta. Non era una bella sensazione, vero?
Se ripensavi a quel giorno provavi ancora paura. Non solo perché era ancora relativamente vicino, ma perché non avevi mai visto tanta ferocia, neanche nelle Guerre Sacre. Persino tu avevi tremato di fronte ai fantasmi e alle anime dei Black Saint del passato e dei Saint delle costellazioni estinte loro alleati, assieme a parte dei nemici del Santuario e altre anime avide di potere, anche civili.
Attorno a lei c’erano delle Velate pronte a servirla e degli Skeleton, pronti a difenderla. Ma sembrava che la sua luce si fosse smorzata a causa dell’attacco a sorpresa. Per un momento ti fece pena. Però non riuscivi a impedirti di comprenderla. Tutti i suoi sforzi erano andati in fumo e lei non ne faceva mistero. Come se per troppo tempo avesse portato quella maschera e ora si fosse resa conto che non era servito a niente. Adesso che anche tu eri a conoscenza del suo lato umano, che sapevi per cosa combatteva, non potevi che sentirti solidale e di provare una certa familiarità con lei. Ovvio che avevi fatto due più due e avevi capito, dalle parole di Astrid e da quelle della Sacerdotessa, che c’era un legame. Ovvio anche che, per quanto le due tentassero di nasconderlo, c’era un legame tra loro. Un legame che si era però allentato a causa della morte di Aida. E, ti dispiaceva moltissimo. Ma non potevi fare niente per lenire questa sofferenza; erano affari loro e tu non ti sentivi di doverci mettere becco.
Certo che lì per lì ti eri sorpreso che ti fosse stata affidata la collaborazione della nipote della luogotenente di Hades, però Astrid era talmente diversa che era stato facile scenderci a patti e scordarsene. Anche il fatto che fosse un’apprendista Saint aveva aiutato molto.  
La donna ti fece cenno di sederti davanti a lei: «Sì, prego, accomodatevi, Aquarius, prendete un cuscino e sedete con me, mi dispiace non potervi offrire niente di meglio».
«Non fa niente». Rispondesti mentre ti mettevi seduto a gambe incrociate sul cuscino davanti al tavolo. «Qualcosa da bere?» Ti chiese cortese e tu decidesti di accettare un po’di tè. Almeno i rifornimenti dal Regno dei Vivi vi arrivavano di nuovo, anche se avevate dovuto attendere tre giorni prima di poter mangiare di nuovo, avevi aiutato a sistemarli tu. Nel frattempo vi eravate dovuti razionare quello che avevate già portato qui. 
«Una tazza di tè andrà benissimo». Ribattesti, sia per cortesia, sia per alleviare in qualche modo la sua pena. Cominciavi a pensare che fosse colpa di qualcosa che avevi in faccia, perché ogni volta che c’era qualcosa di grave lei volesse vedere te invece dei suoi sottoposti. Dato che anche i suoi Giganti Infernali erano soldati.
«Ci volete anche qualcos’altro, un po’di miele, zucchero, zenzero, un velo di latte?» S’informò e tu accettasti di aggiungerci un velo di latte. La Sacerdotessa dette le disposizioni alle Velate, che si prepararono a eseguire e vi servirono. Poi lei ordinò loro di ritirarsi con un cenno delicato quanto elegante. Si vedeva che discendeva da una famiglia nobile: «Mi dispiace non potervi offrire anche dei dolcetti». Si scusò lei, in tono gentile, mentre vi servivate.
«Non importa».
La donna si portò la tazza alle labbra e soffiò per raffreddarla. Poi ti disse per quale motivo ti avesse convocato: «Vi ho chiamato qui per parlare di un argomento che mi preme molto e vorrei il vostro sincero parere sulla faccenda».
«Ditemi pure». Dicesti, sperando che non si trattasse di Astrid. In quel caso avresti declinato.
«Vorrei che mi parlaste della Battaglia delle Dodici Case e di come si è svolta».
Quella richiesta fu talmente inaspettata che rischiasti di strozzarti con il tè: «Scusatemi?» Domandasti, sperando di aver capito male.
«Oh, non fingete di non aver capito, sapete bene quanto me a cosa mi riferisco, vorrei che me ne parlaste».
«Ma mia Signora, io non posso, questi sono segreti del mio Santuario che non posso assolutamente condividere con chicchessia, né mi sognerei mai di chiedervi di rivelarmi i segreti dell’Oltretomba che voi certamente costudite».   
«D’accordo, allora sarò più chiara, non voglio sapere come si è svolta, voglio sapere che cosa ha portato allo scontro tra Atena e l’Usurpatore, non vi preoccupate di come lo so, lo so e basta che è successo qualcosa, ma vorrei sapere cosa».
Così tu le raccontasti della lettera che era giunta al Santuario, direttamente dal Giappone, mandata da colei che credevate fosse la falsa Atena e, delle vostre convocazioni. La luogotenente di Hades assottigliò gli occhi e commentò: «Quindi è partito tutto da una lettera». Confermasti e lei parve rianimarsi, ti ringraziò. «Dovrei parlare più spesso con voi, mi date delle buone idee, finite il vostro tè e poi tornate alle vostre mansioni». Ordinò poi e tu, perplesso, obbedisti, portandoti la tazza alle labbra.
Ma cosa aveva intenzione di fare? Con questi interrogativi tornasti alla tua tenda. Ma il momento di parlare era finito. A parte il messaggio che ti riferì Valentine per cui tu avresti dovuto partecipare alla riunione degli Specter di domani. L’atmosfera non si ricostruiva neanche a pagarla, perciò alla fine, vi addormentaste. Che tanto l’indomani avresti avuto da fare.

Quella notte sognasti di nuovo la scalata dei Bronze alle Dodici Case e ti svegliasti quando Hyoga sferrò l’Aurora Execution. Ti ci volle un po’per realizzare che era solo un incubo. Ti guardasti attorno e vedesti Astrid riprendere a pettinarsi i capelli con un pettine d’osso. I suoi occhi gialli ti guardavano spaventati: «Tutto a posto?» Ti chiese mettendo giù il pettine, per cominciare a indossare i pezzi della Surplice che si era costruita.
«Sì, va tutto bene».
«Bene».
«Cosa stai facendo?» Le chiedesti notando che stava appuntandosi anche un pugnale alla cintura d’oro che le cingeva la vita. Cinta e pugnale che, francamente non avevi mai visto. Poi lasciò ricadere il tessuto nero del suo vestito sulle gambe, nascondendo la coscia sinistra scoperta e la destra protetta quasi fino alle anche dall’armatura. Le caviglie erano fasciate dalle cavigliere, i cui pezzi risalivano in modo scomposto fino a metà polpaccio. Le ginocchia protette da ginocchiere romboidali. Al braccio sinistro indossava il bracciale di Eris e l’avambraccio era protetto dal bracciale e dalla fascia di Surplice che le copriva fino al gomito. La differenza era che indossava anche un braccialetto sul bicipite. Al collo un collare ricavato da un’altra Surplice e la parure a orecchio di drago proteggeva la destra del suo capo. Alla fine si era fatta fare i buchi mancanti alle orecchie. A giudicare da come si muoveva sembrava più leggera di quanto ti aspettassi. Mentre al sinistro un sottile orecchino d’oro a cerchio, come a controbilanciare la parure. Ovvio che aveva ripulito e disinfettato tutto per arrivare a questi risultati. Ma ancora una volta ti domandasti dove li avesse trovati.  
«Che stai facendo?» Domandasti ad Astrid, notando che stava aggiustandosi il cosciale destro.
«Vengo anch’io».
«Ad allenarti?»
«No, a conferire con i Giudici Infernali, Violate è passata poco fa e mi ha detto che vogliono vedere anche me alla riunione di stamani». Spiegò alzandosi, poi uscì dalla tenda dopo averti detto che ti aspettava a mensa.
Stava scherzando? No, perché era impossibile. E se era uno scherzo era veramente di pessimo gusto.
Dopo colazione vi presentaste al Padiglione della Viverna. Non eri l’unico a essere stato convocato. Assieme ai tre Giudici Infernali erano presenti anche gli altri Guardiani dei Fiumi degli Inferi, tra cui una rappresentante dello Stige. Una Ninfa alta dalla chioma bionda, lunghissima e liscia, con gli occhi verdi. Li avevi visti qualche volta, ma non ci avevi mai parlato prima. Neanche con le loro controparti. Per esempio, il Guardiano del Lete sembrava una fotografia sbiadita ai tuoi occhi, non riuscivi neanche a capire se fosse uomo o donna. Mentre il Guardiano del Flegetonte era uno Spirito del Fuoco, lo capivi dalle basse lingue di fuoco che danzavano sul suo corpo arrossato.
Ma le reazioni quando registrarono la presenza di Astrid furono impagabili.
«Che ci fa lei qui?» Domandò Minos, in tono più pacato del ruggito che uscì dalla gola della Viverna, subito seguito dal rumore dei suoi palmi che si abbatterono sul tavolo. Aiacos sorrise divertito e buttò giù le gambe accavallate dal tavolo per spiegare che mi aveva invitato lui stesso. «Sei impazzito, Aiacos?» Domandò Rhadamantys, fulminandolo con gli occhi.
«Al contrario, non sono mai stato più serio di così, la signorina av Stjernene può esserci utile, adesso non è più uno scontro pari, dobbiamo recuperare il terreno perduto e, dobbiamo tentare il tutto e per tutto, mi sembra giusto che lei scenda in campo insieme a noi». Rispose serafico.
«Tu sei folle! La Somma Pandora ha ordinato che dovesse restare al sicuro all’accampamento!»
Sbraitò Rhadamantys e il colorito della sua faccia virò sul rosso.
Lo Specter di Caronte borbottò che per lui la mia presenza era indifferente, il suo lavoro era più importante, ma nessuno lo ascoltò.
«Ehi, calma, calma, non c’è bisogno di scannarsi adesso, risparmiatevi per il campo di battaglia!» Li bloccò Minos, frapponendosi tra i due e cercando di separarli puntando una mano sul petto di ciascuno e spingendoli indietro. Riuscendoci a malapena. Mentre lo faceva continuò a parlare: «La sua presenza non piace neanche a me, ma se Aiacos ritiene che anche lei sia necessaria, allora dobbiamo accettarla, anche se non ne capisco il motivo».
«É molto semplice signori, voglio che costei combatta, ha il potere e le carte in regola per battere quei miserabili in un colpo solo. Ma non può farlo se non la coinvolgiamo. Inoltre ho già avuto modo di misurarmi con lei e ritengo che possa essere molto utile, se la useremo bene».
«Cosa?» Sbraitasti a tua volta, in coro con Rhadamantys, mentre non ti fu dato di vedere gli occhi di Minos, perché nascosti dalla folta zazzera canuta. La Viverna sbraitò: «Ti ha dato di volta il cervello? Quella non è una guerriera, è solo una scansafatiche piantagrane! Ci sarà solo d’intralcio in battaglia!»
E la sua voce venne sovrastata da quella di Astrid, furibonda: «Ehi, intanto sono una persona e poi chi ti ha detto che io voglia accettare la tua proposta?» Incrociò le braccia con aria indispettita. «Nessuno ha chiesto il tuo parere!» Sbraitò Rhadamantys girando la testa di scatto verso di lei, che socchiuse la bocca e assottigliò gli occhi come a dire: “come osi?”
«Ehi, calmatevi, calmatevi tutti!» Si aggiunse la Ninfa Stigia che rappresentava il suo Fiume e tutti e tre tacquero istantaneamente, guardandola con un vago timore reverenziale misto all’ira.
«Sentite, sono venuta qui per partecipare a un convegno molto importante, non per assistere a una rissa da bar perché non vi sopportate. Non so se ve ne siete accorti, ma rischiamo tutti di essere ammazzati da un momento all’altro e io non vorrei essere tra i morti se quel momento dovesse arrivare. Per cui vediamo di cominciare a parlare di affari, altrimenti potete sognarvi il sostegno dello Stige e degli altri Guardiani dei Fiumi Infernali». I due Guardiani del fiume Lete e del Flegetonte annuirono, sottolineando così le parole della Ninfa. Gli unici che si discostavano da questo pensiero eravate tu, Valentine, lo Specter di Caronte e Flegiàs del Licaone. Comunque troppo pochi per fare qualcosa in concreto. E, in questi tempi avevate bisogno di tutti, nessuno escluso. Compresa la Luce Ombrosa.
«Osereste voltare le spalle ad Hades?»
«Ad Hades no, ma possiamo non combattere e lasciare che moriate tutti, tanto, la forza dei Fiumi da sola sarebbe sufficiente per soverchiare l’egemonia dell’usurpatore, se tutto andasse male». Sorrise la Ninfa con l’aria di chi ha il coltello dalla parte del manico. Dalla faccia che fece Rhadamantys capiste quanto fossero fragili queste alleanze.
«Aliena ha ragione». Interloquì il Guardiano del Flegetonte muovendosi leggermente in avanti.
«E se questa riunione non ci sarà, non v’è alcuna ragione per continuare a sostenere gli Inferi». Si aggiunse la voce eterea ma imperiosa del Guardiano del Lete.
I tre Specter si dettero una calmata e si scusarono con gli altri.  
Durante la riunione preparaste le truppe e i piani d’attacco. Ma, vi rendeste presto conto che nessuno di questi piani prevedeva l’aiuto di Astrid, la quale, adesso cominciava a chiedersi cosa c’entrasse. Lo vedevi dalla sua espressione confusa. A fine riunione lei cercò di prendere parola e ricordò ai tre - che sembravano essersi scordati di lei - di averla chiamata. «Perché devo sapere queste cose se non servo?» Chiese ritraendo la mano che aveva teso verso le cartine, ma un luccichio del suo sguardo t’informò che immaginava già che cosa stessero per dirle. Minos smise di arrotolare le cartine e volse il volto verso Rhadamantys. Aiacos aveva il volto contratto in una smorfia di rabbia.
«Devi scusare Aiacos, ha agito di testa sua, noi abbiamo detto fin da subito che la tua presenza non era né gradita né richiesta, abbiamo perfino indetto una votazione prima di cominciare questa riunione». Le rispose Rhadamantys in tono gelido, beccandosi un’occhiataccia persino da Valentine dell’Arpia.
Astrid guardò Aiacos che fumava di rabbia, ancora assiso sul suo seggio. «Cioè mi avete chiamato per niente?»
«Noi ti abbiamo anche scacciato più volte durante il corso della riunione, ma a quanto pare hai bisogno di sentirti dire le cose in faccia perché tu le intenda chiaramente. Se proprio desideri, possiamo ripetere la stessa votazione con tutti i Guardiani. Quanti a favore dell’entrata della signorina av Stjernene nelle nostre guerre, alzino la mano». Ribatté Minos senza alcuna misericordia, mentre Rhadamantys continuò a tenere le labbra serrate. Aliena e gli altri Guardiani la guardarono con un misto di curiosità, confusione e sorpresa, come se avessero registrato solo in quel momento la sua presenza. Solo Aiacos alzò la mano. Astrid ti guardò come a implorarti, ma tu distogliesti lo sguardo. Chiederti di votare favorevolmente era troppo anche per te, non solo per la marea di problemi che già stava affrontando. «Quanti a favore dell’esclusione della signorina av Stjernene nella lotta, alzino la mano». E, a questo punto, persino tu, alzasti la mano. 
Le mani poi si abbassarono.
«Mi sembra che la decisione sia già stata presa, è tutto signori, siete congedati». Concluse Rhadamantys.
«Bene, è stata una totale perdita di tempo a quanto pare, i miei ossequi». Fece Astrid con una riverenza derisoria, prima di andarsene. A quel punto te ne andasti anche tu insieme agli altri Guardiani, lasciando da soli i tre Giudici Infernali.
Quel pomeriggio dopo pranzo, andasti a cercare Astrid. Avevi ancora i sensi di colpa per non averla supportata, ma doveva capire che questa era una guerra. Non un gioco. Tu avevi agito anche nel suo interesse. Quello che ti preoccupava davvero era che non arrivasse a capirlo.
Gira che ti gira, arrivasti all’albero dove le lavandaie appendevano i vestiti e, lì, vedesti Aiacos congedarsi da Astrid.
La raggiungesti mentre lo Specter si allontanava, incurante della tua presenza: «Camus». Ti salutò sorpresa lei, ancora appoggiata al tronco dell’albero, le braccia ancora conserte e un piede appoggiato alla corteccia. Le chiedesti dove fosse stata, che l’avevi cercata dappertutto e lei ti rispose con un’alzata di spalle e un’occhiata confusa, che era sempre stata qui. A prendersi cura del mughetto bianco che aveva messo radici. Ti indicò i germogli asserendo che fino a poco tempo prima non c’erano. Non capisti a cosa ti servisse quest’informazione, anche se un angolo della tua mente parve riconoscerli: “Io ho già visto quei fiori, ma non ricordo dove”.  «A volte cerco dei posti vicini all’acqua per scaricarmi, mi rilassa, è come se lo scorrere dell’acqua portasse via anche i miei pensieri». Ti rivelò, tornando a rivolgere lo sguardo al ruscello, poi ti guardò di nuovo e ti chiese perché la stessi cercando. 
«Volevo scusarmi con te e spiegarti le ragioni per cui ritengo che tu non debba partecipare a questa guerra».
«E, magari, sperare di farmi ragionare in caso di ottusità come sicuramente ti aspetti. É tutto a posto Camus, posso anche capirlo e, non ho intenzione di dare di matto solo perché non vogliono che combatta. A dir la verità ne sarei entusiasta, però sento di non poter lasciare che finisca così. Sono l’unica cosa che tiene a bada le Creature e quelli neanche l’hanno capito. Questa ormai non è più solo la loro Guerra, è anche la mia, io so di avere il potere, tutto per sconfiggere quei balordi, ma non posso usarlo né provarlo se continuano a tenermi intrappolata qui». Fece poi, sempre più irritata, sciogliendo la stretta delle sue braccia di scatto. La voce sempre più simile a un ringhio di rabbia.
«Che cosa ti ha detto Aiacos?» Chiedesti.
«Mi ha offerto una scappatoia al veto di Rhadamantys e Minos, mi ha proposto di diventare la sua Seconda Ala». Rispose lei con aria scocciata. I pugni contratti. Tu strabuzzasti gli occhi orripilato.
«Ma non puoi, tu sei una Saint». Protestasti.
Lei non rispose e tu lo prendesti come un assenso. «Ma se fosse l’unica occasione che ho per rendermi veramente utile?» Mormorò guardando il ruscello che scorreva davanti ai suoi piedi.
«Non sarà l’unica, ce ne saranno sicuramente altre, vedrai».  La rassicurasti posandole una mano sulla spalla.
«Sì forse hai ragione».
«Su, ora torniamo dagli altri».
«Vai prima tu, io voglio restare un po’da sola». Scostasti la tua mano dalla sua spalla e mormorasti un mite: «D’accordo». Forse non era il caso di continuare a girare il coltello nella piaga, anche se non era la tua intenzione. Probabilmente lei la vedeva così.  
 
La mattina dopo ti alzasti di buon’ora e cominciasti a prepararti assieme al resto dell’esercito. Ti dispiaceva ancora per Astrid. Non aveva spiccicato parola per il resto della cena, quando era tornata.
Ti sarebbe anche piaciuto salutarla ma lei era ancora girata su un fianco e dormiva profondamente. Oggi sarebbe stato il giorno del vostro contrattacco. Subito dopo mangiato raggiungesti il luogo di ritrovo delle truppe, dove Aiacos stava tenendo un discorso sul coraggio e sulla vendetta, mentre Pandora, scettro di Hades in pugno, osservava con aria grave e solenne le truppe.
I tamburi rullanti facevano da sottofondo alle parole del carismatico Garuda. 
Poi, anche tu, come molti altri, salisti sul Galeone dell’Ammiraglio degli Inferi. «Molliamo gli ormeggi?» Chiese Violate al suo superiore.
«Non ancora».
«Signore?»
«Ancora cinque minuti». Ribatté appoggiato al timone, lanciando lo sguardo sulle rive del letto asciutto sottostante. Ti accigliasti. Cosa stava aspettando? Di sicuro non Lady Pandora, lei era già a bordo e assisa sullo scranno del ponte di comando.
Tu osservasti lo Specter perplesso. Anche Fianna al tuo fianco manifestò la stessa perplessità. Ti chiese addirittura spiegazioni, ma tu non sapesti come meglio replicare se non scrollando le spalle.
Guardasti il Garuda e, improvvisamente lo vedesti bloccarsi un momento, per poi guardare dritto davanti a sé. Un sorriso compiaciuto prese forma su quella faccia. «Lo sapevo che sarebbe arrivata». Commentò mentre Violate seguiva il suo sguardo, accigliandosi sempre più, se possibile.
Allora anche voi seguiste il loro sguardo e la vedeste.
Astrid si stava facendo largo tra la folla di Specter, Marine e altri alleati. Tutti la guardavano smettendo per un momento di fare ciò che facevano. Lanciandole occhiate sicuramente perplesse.
Dietro di lei, Menta la seguiva con un’espressione preoccupata. Due Specter vicini a una delle rocce del molo naturale dove eravate ormeggiati, smisero di conversare e la guardarono.
«Non avrai davvero intenzione di combattere». Domandò Valentine, indovinando, mentre se ne stava comodamente appoggiato con la schiena a un masso. La tua versione bionda li guardò con astio, lui e Shilfield del Basilisco. «Per di più con quel coltello, ma lo sai almeno usare?» Domandò quest’ultimo con un sorrisetto di scherno. Invece di replicare li fulminò entrambi con un’occhiataccia e riprese la sua strada, avvicinandosi sempre più al galeone del Garuda. L’unico abbastanza folle da prenderla in considerazione come guerriera. Anche se a te l’idea ripugnava moltissimo, non ci potevi fare niente. Se lei custodiva un potere tanto grande, allora era arrivato il momento di usarlo e, questo, lo capivi persino tu. 
Violate volse il volto verso il suo padrone e lo scoprì ghignare divertito. «Lo sapevo che sarebbe venuta». Ti sembrò che dicesse, mentre Astrid e Menta risalivano la passerella e montavano a bordo. «Ben arrivata, Astrid». La salutò lo Specter al timone, vociando così forte che ti parve urlasse. «Devo dedurre che hai preso in considerazione la mia proposta». Continuò poi, mentre Pandora osservava sgomenta la nipote. 
«Qualcosa del genere».
«Benissimo, adesso sì che ci divertiamo». Peccato che fosse troppo arrogante per accorgersi dell’espressione sarcastica della ragazza. Un’espressione che comunicava che non si sarebbe lasciata mettere i piedi in testa.
La quale raggiunse una delle balaustre vicino alla prua e restò lì, in compagnia di Menta. Anche tu e Fianna la raggiungeste e, quando fosti vicino, vedesti che era spaventata. Come se stesse rendendosi effettivamente conto di ciò che stava per fare. Mentre Menta, al suo fianco, le cingeva le spalle con un braccio per supportarla.
«Speravo che saresti rimasta all’accampamento».
«Non ho mai detto che l’avrei fatto, la decisione finale dipendeva da me, è vero, però ho paura, tanta paura». Ammise e ti guardò con occhi talmente spaventati che faticasti per non stringerla a te.
In questo momento non aveva bisogno di sentirsi fare una ramanzina, aveva bisogno di sentirsi una Saint. «Tutti hanno paura alla vigilia della loro prima battaglia. Ma non devi, è la paura che ti permette di essere più reattiva, se non la lasci dominarti. Non devi per forza combattere in prima linea, puoi anche restare sul Galeone se lo vuoi. Non devi dimostrare niente a nessuno e vedrai, andrà tutto bene. Ho fiducia in te, so che riuscirai a fare l’impossibile». Cercasti d’incoraggiarla. Ma forse non avevi neanche capito in che senso avesse paura. Lei ti fece un sorriso speranzoso: 
«Grazie, Camus».
E insieme, voi quattro, restaste in vista dell’accampamento dei Black Saint. Restaste molto sorpresi nel vedere i bastioni neri e le armi che si portavano appresso. Non avevate mai tentato un attacco di questo tipo prima. Né avevi idea di come don Avido fosse riuscito ad ammassare tutti questi materiali per costruirsi quelle torri d’assedio di legno. Ammesso che fossero torri d’assedio. 
«Uomini! All’attacco!» Urlò Aiacos e Violate con un balzo aprì le danze, cogliendo di sorpresa i nemici. I quali non erano preparati a un attacco a sorpresa come questo. Non deste loro tregua neanche per un momento, mettendoli in seria difficoltà. Senza più paura del tocco delle Lacrime di Khalì.  
Anche tu poi, a un tratto balzasti giù dalla nave per guidare i Celti, lasciando Astrid e Menta da sole.
In breve perdesti la cognizione del tempo, lasciando che il Cocito ti prendesse come tuo tramite per uccidere quanti più nemici possibili. Sentivi la sua solenne voce dentro la testa, la tua bocca parlava per esso, come accadeva agli altri Guardiani: «Avete profanato questi sacri lidi, non vi permetto di passare oltre, Cocito Execution». Urlasti reclinando il capo indietro, liberando buona parte dell’immensa potenza del fiume dei Deicidi, che spazzò via buona parte dei nemici che ti si pararono davanti.  
Improvvisamente sentisti un grido belluino ti girasti per vedere un Saint del passato saltarti addosso, cogliendoti alla sprovvista, ma un getto di fiamme lo respinse. Ti girasti e vedesti il Guardiano del Flegetonte affiancarti mentre abbassava il braccio.
«Uniamo le forze!» Propose e tu annuisti. 
«Urlo di Fuoco!», «Cocito Execution!»Urlaste all’unisono e, insieme, sprigionaste il potere dei vostri Fiumi, mentre Valentine e il secondo guardiano del fiume delle Fiamme correvano sull’onda da voi liberata, per sferrare congiuntamente il Greed the Live e un attacco che prese l’aspetto di serpenti di fuoco.
E, questo abbatté una delle torri di legno nero.
Improvvisamente ti ritrovasti immobilizzato abbassasti lo sguardo e sgranasti gli occhi, sorpreso: «Il koliso?» Chiedesti tu mentre gli anelli di brina bianca volteggiavano attorno al tuo corpo. E anche molto potente a giudicare dal fatto che non riuscivi a liberartene.
«Proprio così».  
«Perché combattete contro di noi? Contro i vostri fratelli e sorelle?» Domandò l’ex maestro di Degel di Aquarius, Krest, comparendo davanti a te. Cercasti di liberarti: «Perché i Black Saint sono nostri nemici!»
«Ma potendo scegliere, sono il male minore, niente che non potremmo controllare». Ribatté il tuo predecessore del Millecinquecento, anche se dimostrava appena dodici anni era come Fianna, assolutamente da non sottovalutare.
Neanche tu l’avessi nominata, la ragazzina dai capelli rossi fece la sua comparsa e, con un colpo di lancia, spezzò il koliso, liberandoti, parzialmente. «Fianna!» Esclamasti tu, riconoscendola mentre si parava davanti a te. Purtroppo il colpo non era stato sufficientemente forte per spezzarlo. Aveva invece spezzato la sua lancia, tanto era resistente: «Notevole, conquistarsi la fiducia di un fantasma, il popolo delle nebbie, non sapevo che eri stato accolto tra di loro». Commentò Krest, restando impassibile.  
«Sta lontano da Mago dei Ghiacci». Lo minacciò la giovane estraendo un pugnale dalla cintura.
«Oh, ma io non ho bisogno di avvicinarmi, voglio solo parlare con lui e fargli capire il mio punto di vista». Rispose l’uomo, ma la ragazzina non capì. «No, tu pericoloso, tu stare lontano!» Ribatté ancora in francese e, Krest passò alla stessa lingua, ignorando i richiami che lanciavi alla piccola celta. 
Ma a quel punto anche tu urlasti: «Sommo Krest, non è da voi questo ragionamento! Che ne è stato della fedeltà ad Atena? Il giuramento di non usare mai la cloth per scopi personali? Se i Black Saint l’avranno vinta non ci sarà scampo per nessuno! Torni in sé, Venerabile!» Lo implorasti tu. Non potevi credere che un uomo tanto retto potesse cadere così in basso.
L’uomo scomparve per riapparire dietro la schiena di Fianna, che non aveva neanche percepito il suo spostamento. Con una mano la bloccò, mentre con l’altra prese il tuo mento tra pollice e indice e ti squadrò malinconico: «Mi ricordi molto il mio caro allievo Degel, anche lui un tempo mi supplicò allo stesso modo». Costatò, con malinconia nell’unico occhio scoperto dalla frangia. Poi, il suo sguardo si congelò e si allontanò. «Potrei risparmiarti la vita, ragazzo, se tu ti unirai a noi, lascia perdere le nere schiere, torna con noi, combatti sotto lo stemma di Atena ancora una volta, rendi lustro alla casa di Aquarius. Non voglio farti del male, non sopporterei di combattere contro di te, che sei il mio erede».  
«No, Camus, no! Non ascoltare lui!» Urlò Fianna.
Per quanto quelle parole dette in tono paterno fossero invitanti, la voce di Fianna «No, mi dispiace, non posso farlo, ho già combattuto in nome di un usurpatore, non lo farò una seconda volta».
«Peccato, è stato un piacere conoscerti, erede della mia cloth».  Poi congiunse le mani a pugno e le alzò sopra la sua testa caricando il Cosmo. Ma prima che potesse sferrare il colpo, una serie di luci rosse lo colpirono facendogli sgranare gli occhi e accasciare a terra, urlando per il dolore.
«Non mi sono mai stati simpatici questi piantagrane». Commentò una voce maschile e ti ritrovasti a guardare un altro uomo, con la chioma scura e lo sguardo strafottente. La cosa che ti sorprendeva era di come tu riuscissi a udire bene ogni cosa, nonostante il fragore della guerra e della battaglia che imperversava attorno a voi.
Il koliso che ti imprigionava si dissolse.
«Ma cosa fai, Zaphiri? Sei forse impazzito?» Chiese Krest, rialzandosi a fatica per via del dolore.
«Zaphiri di Scorpio il traditore? Il predecessore di Kardia e di Écarlate di Scorpio?» Chiedesti tu, sgranando gli occhi.
«In persona, adesso andiamo, vi farò strada io». Si presentò costui.  
«Cosa stai facendo, Zaphiri?»
«La cosa giusta che tanto mi avete rimproverato di non aver mai fatto!» Ribatté lui, prima di scagliargli l’Antares Katakaio e spronarvi a correre. «Seguitemi, abbiamo del lavoro da fare!» Urlò poi, al vostro indirizzo. Nei pressi della torre ti istruì: «Io trattengo i miei simili, tu chiama a te il potere del tuo fiume e distruggili!»
Obbedisti e riducesti a brandelli ogni cosa davanti a te. «Bel colpo!» Si complimentò il Cavaliere di Scorpio prima di spronarti a seguirlo ancora.
«Perché lo fai?»
«Perché sono un Saint e ora so dove punta la bussola e, non è nella direzione di Don Avido! Io non sono mai stato un traditore, non per il Santuario, ho del fango da togliere dalla casa di Scorpio, questa è la mia seconda occasiona e non posso lasciarmela sfuggire. Adesso andiamo!» Esclamò l’uomo, determinato.
Collaborando con te e i Guardiani, riusciste a distruggere il loro arsenale. Avevi appena distrutto l’ultima macchina quando ti girasti verso Zaphiri che ti sorrideva. Ma poi il suo sorriso mutò in una smorfia di dolore e sorpresa quando una lama insanguinata gli bucò il petto. «No, Zaphiri!» Urlasti e corresti a soccorrerlo.
Il suo aggressore ritrasse il coltello e lo lasciò cadere a terra, sicché tu vedessi don Avido ripulire la daga deicida con un lembo nero del suo mantello. Ti gettasti in ginocchio accanto al corpo di Zaphiri che cercava di tamponarsi la ferita come meglio poteva. «Te l’avevo detto, Zaphiri, di non tirare troppo la corda, io non sopporto i fallimenti». Lo rimbrottò don Avido con voce incolore mentre tu raccoglievi da terra il corpo del predecessore di Milo e lo supplicavi mentalmente di non morire, di resistere che l’avreste curato. Il quale le labbra insanguinate, ti sorrise: «Mi dispiace»,
«Non parlare o peggiorerai la tua condizione…»
«Lo so, ma, mi dispiace, non sono riuscito a togliere il fango dal nome della mia Casa e dal mio».
«No, no! Non è vero che è infangato, con le tue ultime gesta l’hai già fatto, hai fatto la cosa giusta, tu sei un Gold Saint, il più coraggioso che io abbia mai conosciuto. Vieni con me, per favore, puoi riabilitare il tuo nome, devi parlare con gli archivisti…»
Ma lui ti sorrise, ancora, prendendo la tua mano nella sua: «Grazie, Camus e, scusami, avrei dovuto fare più attenzione, sarei tanto voluto venire con voi», prima di spirare e dissolversi come polvere tra le tue braccia, cloth dorata compresa.
«No, Zaphiri! Zaphiri!» Urlasti, ma lui non c’era più e le tue braccia sostenevano solo il nulla.  
«Patetico». Commentò sprezzante il Black Saint di Ara.
«Non è patetico».
«Come hai detto, scusa?»
«Ho detto che non è patetico». Ripetesti alzando la testa per guardarlo, per trafiggerlo con lo sguardo furioso dei tuoi occhi sanguigni. Ti rialzasti: «Tu sei patetico, la tua campagna è patetica, ma nessun caduto è patetico, se è caduto per fermare te!»
«Stai forse sfidandomi, Aquarius?»
«Sì! Fianna, vai ad aiutare gli altri, a questo qui ci penso io». Ordinasti e la bambina obbedì.
«E sia!» Poi vi scagliaste l’uno contro l’altro.
Stavate combattendo quando lui riuscì a liberarsi di te, mandandoti qualche metro più in là. Ma tu con un salto mortale riusciti a fermarti e rimetterti in posizione. Adesso non ghignava più e ne eri felice.  A te questa lotta non diceva niente, tu eri addestrato per sopportare le Guerre dei Mille Giorni. Don Avido, anche se era un Black Saint aveva la stessa potenza dei Silver anche da morto. Neanche volendo avrebbe mai potuto contrastarti efficacemente.
Stavate per scontrarvi ancora, ma improvvisamente comparvero dei bagliori fosforescenti tutto attorno a voi. “Ci siamo!” Pensasti riconoscendoli. Ma quando ti girasti in direzione di Astrid stentasti a riconoscerla. Aveva un’espressione bestiale dipinta in volto e la stola di una Ninfa Stigia avvolta attorno a un pugno.
Il Cosmo che le vorticava attorno con una forza che non le avevi mai visto prima. «E quella chi è?» Chiese don Avido indispettito.
Per tutta risposta Astrid mosse le braccia lateralmente come se spalancasse una porta e i bagliori si mossero spostando tutti di lato, facendo crollare a terra alleati e nemici con un clangore di metallo e armi che cadono. Accompagnati da urla di sorpresa e gemiti di dolore. Poi, dal cielo, le Lacrime di Khalì fluttuarono verso il basso, verso di voi.
Ma non se ne curò.
«Quella è la Luce Ombrosa!» Esclamasti tu prima di lanciargli il Diamond Dust che lo colpì alla spalla. Ma anche così non mollò la presa sulla daga.
Gli Specter ricevettero una bella sorpresa. E tu, che lo sapevi, che sapevi quanto fosse potente Se quello stolto di Aiacos credeva di averla in pugno, si sbagliava. E, nel mostrarlo, sbalordì persino te, alzando le braccia al cielo chiamando a sé le Lacrime di Khalì, le quali erano già attirate dalla battaglia. Non le avevi mai viste volteggiare a quel modo. Adesso era il momento di dimostrare quanto valessi e non importava lanciarsi subito nella mischia, potevo anche farlo tranquillamente da lì.
Don Avido arretrò tenendosi il braccio ferito con l’altro, guardando sbigottito lo spettacolo: «La Luce Ombrosa? No! È impossibile!»
«Cosa hai intenzione di fare?» Domandasti  invece tu, preoccupato mentre i bagliori scomparivano e lei si bloccava, continuando a tenere le braccia alzate, i palmi rivolti verso l’alto. Continuò a fissare il campo come se aspettasse qualcosa. Le Lacrime nere le volteggiarono attorno un momento prima di lanciarsi nella direzione da lei indicata e mettere in fuga tutti. I quali ignorarono le direttive di don Avido, quando vi rendeste conto che lei poteva intaccare i morti.
Solo che quest’azione costrinse anche te ad arretrare proteggendoti la testa con le braccia. Urlasti il suo nome ma lei non ti sentì. Volse la testa a destra e a sinistra per guardare le Lacrime, la battaglia ridotta a un’eco lontana per lei. Affondò le mani nelle tasche della giacca mentre loro le volteggiavano attorno come un turbine di spettri neri, scaldandola e smuovendo dolcemente la sua chioma.
Un Black Saint si parò davanti a lei urlando: «Cosa credi di fare, pulzella combattiva? Noi siamo spiriti, non puoi fare niente». Per tutta risposta sollevò i polsi incrociati e le sue dita si illuminarono di una luce nera ben diversa da quelle che finora aveva palesato. Aprì le mani a ventaglio e poi gliele scagliai tutte addosso, colpendoli tutti e le Lacrime si mossero quasi in sincrono avventandosi su di loro come squali affamati, disintegrando le luci nere e ustionando pericolosamente questi spiriti.
Poi mosse di nuovo le braccia e le Lacrime di Khalì si alzarono di quota per poi abbassarsi di nuovo e tuffarsi nel terreno seguendo il suo movimento da inginocchiata. Per poi riapparire attraverso la Kagenui che Violate stava usando per mettere in fuga alcuni Black Saint.
Anche lei si spaventò abbastanza quando dall’ombra uscirono invece le Lacrime di Khalì, incendiando ogni cosa e aggredendo i suoi avversari. Altre Creature continuavano a volteggiare attorno alla tua compagna d’arme proteggendola. Poi, ripeté la stessa operazione con il resto degli avversari davanti a sé, che, finora avevano dato tanto filo da torcere.   
Anche don Avido fu costretto alla fuga. Poi, quando la battaglia finì, mandò via le Lacrime.
Alla fine guardò i tre Giudici Infernali, che osservavano la scena da lontano. Avevano cercato di catturare un uccellino, credendo che fosse un innocuo canarino e, si erano ritrovati ad avere a che fare con un uccello rapace dal becco e gli artigli affilati.  
Adesso nessuno rideva più. Se le tribù Celte e Pitte s’inchinarono rispettose al suo passaggio, gli Specter le lanciarono sguardi spaventati e sospettosi. Cominciavi a capire perché finora, non aveva combattuto nel pieno dei suoi poteri.
Si avvicinò allo Specter di Garuda e gli disse qualcosa. Aiacos annuì con un cenno meccanico del capo, la bocca socchiusa. La stessa espressione di muto sconcerto che mostrava anche Violate al suo fianco. Poi se ne andò.
«Perché non hai detto che potevi farlo?» Domandò uno degli Specter più audaci, trovando il coraggio di parlare solo in quel momento. Lei si girò e il vento ti portò le sue parole: «Perché non mi interessava farvelo sapere». Poi trapassò Rhadamantys con un’occhiataccia, accorgendosi che l’uomo la fissava, ritto in piedi  su una rupe poco distante. Anche se ogni sguardo era catalizzato sulla sua persona, lei non se ne curò. Continuò a guardare Rhadamantys finché la Viverna non le dette le spalle e se ne andò via con un balzo. 
La Sacerdotessa degli Inferi rimase lì, invece, a guardarla con un misto di terrore e stupore, una mano che tentennava a raggiungere la bocca, come se fosse indecisa se tapparsela o no. Con l’altra si aggrappava saldamente al tridente. Sembrava quasi che non la riconoscesse. Solo quando anche la nipote la guardò, la sua espressione mutò in una di dispiacere. Poi, chinò il capo e la frangia nascose i suoi occhi, prima di andarsene a sua volta.
Ma non fece che pochi passi che si chinò e aiutò a rialzarsi una malconcia e ferita Menta. Strabuzzasti gli occhi e trattenesti il fiato rumorosamente. Allora era per questo che si era messa in moto e che sembrava tanto feroce. Si passò il braccio della Ninfa Stigia sulle spalle ma la sua serva ricadde pesantemente a terra, priva di sensi. A quel punto Astrid si spaventò e altre Ninfe e qualche Specter si affollarono attorno alle due. Anche tu cercasti di raggiungerle ma Fianna ti bloccò prendendoti una mano e scuotendo il capo.
Purtroppo non potesti che raggiungerle solo dopo e, la trovasti fuori della tenda medica, seduta per terra, con la testa affondata sulle ginocchia.«Astrid». La chiamasti e lei sollevò la faccia per accompagnarti con lo sguardo mentre la raggiungevi e ti accovacciavi accanto a sé, rivelando due occhi ricolmi di preoccupazione. 
«Che cosa è successo?» Domandasti vedendo il suo volto rigato di lacrime e le sclere arrossate.
«Niente, sono solo felice».
«Felice?»
«Sì, sono felice, perché ora non ho più paura. Io ho sconfitto la mia paura».
«Come sta?» Chiese al medico che se ne era occupato, alzandosi in piedi. Tu la imitasti. Il cerusico rispose: «É fuori pericolo, la sua ferita era grave, ma ora si riprenderà. ».
«Posso vederla?» Chiese Astrid in tono mite e preoccupato.
«Prego, ma non fatele fare sforzi eccessivi». Si raccomandò gettandole un’altra occhiata sprezzante.
«Milady?» Articolò Menta, guardandola perplessa. Forse credeva ancora di stare sognando. 
«Ehi.» le sorrise. Non era mai stata più felice di vederla. 
«Cosa… cosa è successo? State… state bene?» Domandò angosciandosi ma la zittì e le raccontò che stava bene e che la battaglia era vinta e le fece le sue scuse, se non fosse stato per la sua disattenzione, probabilmente lei non sarebbe rimasta ferita. «No, Milady, non è colpa vostra». Cominciò la Ninfa ferita e, tu ti sentisti di troppo, con una scusa ti defilasti, augurando buona guarigione alla domestica di Astrid. Poi le lasciasti sole, che si vedeva che avevano bisogno di chiarirsi.

Ovviamente l’impresa non passò affatto inosservata da nessuno degli schieramenti. Se da un lato i Black Saint e gli spiriti loro sostenitori e schiavi si ritirarono, nonostante gli sforzi di Myu, scomparendo come se non fossero mai esistiti, dall’altro, gli Specter e i vostri alleati adesso, guardavano la tua compagna d’arme con timore reverenziale e rispetto per l’impresa della Battaglia dei Geyser. Aiacos di Garuda la prese ancor più in simpatia. Più passava il tempo, più era palese che lui l’avesse scelta come sua Seconda Ala; assieme a Violate avrebbe rappresentato al meglio la forza della sua armata. E, questa prospettiva ti riempiva di orrore. Avevi già prestato servizio come Saint rinato sotto le loro dipendenze e non era stato per niente piacevole. 
Minos e Rhadamantys invece se ne stettero ancor più alla larga.
Quest’impresa parve risvegliare anche la luogotenente di Hades, che, per la prima volta da tempo, la convocò di nuovo.
E, stavolta, Astrid si presentò a lei senza timore, con indosso le protezioni alle gambe e alle braccia, al cuore e le spalle che si era creata. Il coltello appeso alla sottile cintura d’oro con il pendente, faceva il paio con il bracciale, la parure e gli inserti dorati. Sulle spalle aveva drappeggiato il velo di Menta alla maniera dei lemuriani, in onore della sua ancella ricoverata. 
Tutto questo, sembrava darle la forza per non inginocchiarsi al suo cospetto, ma di restare dritta in piedi e di incrociare le braccia.
A differenza tua che ti prostrasti in segno di rispetto.
«Mi riesce ancora difficile conciliare l’immagine che ho di te con quella della comandante degli Specter». Esordì quando foste al cospetto della zia, accanto alla sua arpa. Lei la guardò come se non la riconoscesse. In effetti gliene dovevi rendere atto. «Astrid…» Iniziò ma la nipote l’anticipò, tenendo lo sguardo basso per parlare con una calma contrastante il ribollire del suo Cosmo. Sebbene non fosse neanche manifestato, increspava l’aria come il vapore in certe giornate particolarmente afose. Ed entrambi ve ne eravate accorti.
«Non dire niente». In questo momento non era sua zia, in questo momento si rivolgeva a lei come la Sacerdotessa di Hades sui libri al Santuario. E non era una buona fama quella che l’accompagnava. Era una manipolatrice, non sapeva ancora di quanto fosse superiore a Kanon, ma era della sua stessa risma. Almeno la Storia la dipingeva così e la tua amica, adesso, che era stata messa dinanzi anche a questo suo lato, non sapeva se fosse il caso di fidarsi. Chi le avrebbe garantito che non avrebbe mandato Wimber del Pipistrello o Cube di Durahan ad ammazzarla come cercò di fare con Tenma di Pegasus nella vita precedente? Il suo amore poteva essere una sufficiente garanzia di protezione?
Conciliare questo suo aspetto con i ricordi e l’idea che aveva di lei era molto difficile.
«Per favore, Gold Saint di Aquarius, lasciateci».
Obbedisti, anche se a malincuore. Ti accompagnarono entrambe con lo sguardo finché non scomparisti oltre il lembo della tenda.
Astrid uscì da quella tenda un paio d’ore dopo e ti raccontò tutto quello che era successo da quando te ne eri andato. Ti riferì che solo quando avevi abbandonato il nuovo Padiglione della Giudecca, la zia si era rilassata e si era lasciata andare in un sospiro. Poi aveva detto che non sarebbe dovuta andare così, non sarebbe dovuta andare così. E che sperava che allontanarla dalle battaglie potesse essere sufficiente, invece avrebbe dovuto immaginare che la tua versione femminile non l’avrebbe ascoltata.
«Allora io le ho chiesto, perché avrei dovuto? Come faccio a restare impassibile e a subire passivamente quando tu scendi in campo? Le ho detto che non sono un tesoro di monete e gioielli, zia, io sono una persona, credi di aver perso qualcuno di caro soltanto tu? Le ho chiesto se pensava che fosse sufficiente allontanarmi da lei per reputarmi al sicuro dalla sua maledizione. A quel punto le ho detto che sapevo che cosa succedeva ogni vita alla sua famiglia, ogni volta che il Sommo Hades rinasce. Posso solo provare a immaginare il dolore che tu debba aver provato e, anche in quel caso, non sono sicura di riuscirci appieno. Ma lei mi ha domandato: Cosa c’entra adesso?» E tu annuisti, che questo sbotto l’avevi udito anche tu. Non ricordavi che avesse urlato neanche quando le tendeste la trappola allo scadere delle vostre dodici ore di servizio. 
Astrid s’immobilizzò e la guardò. Poi troncò lì il discorso asserendo che erano cose molto personali e che non si sentiva di riferirtele. Doveva andare a trovare una persona. E, tu dovevi tornare dai Celti e dai Pitti. Anche loro avevano subito molte perdite.    
«Ti vedo più serena». Costatasti sedendoti vicino a lei, quando finì di parlare. Lei si scostò un po’per farti posto e sorrise.
«Lo sono; stai tranquillo, non ti mangerò se mi vieni vicino. Avevo bisogno di sfogarmi, non ce la facevo più a tenermi tutto dentro». Ti guardò, sorridendoti con convinzione. Aveva veramente una faccia sollevata, come se si fosse liberata di un gran peso. Immaginavi che fosse grande, ma non così. Però, era anche vero, che voi Gold potevate fare molto di più così.
Insieme guardaste verso le montagne, dove vi attendeva la vostra prossima battaglia. Una battaglia più mistica di questa ancora.

Shaka
La notizia della sconfitta di Pandora arrivò presto anche a te. E, la scopristi origliando la conversazione di Lady Asia al telefono. Eravate ancora a Trento, seduti al tavolino esterno di un bar quando era squillato e lei l’aveva estratto da una tasca temporale, stile prestigiatore.  Poi si era scusata con te e si era allontanata per rispondere. Peccato solo che potevi sentire molto bene, visto che sapevi ascoltare tramite il Cosmo.
«Cosa? Non è possibile… No, certo che no, accidenti, avrei dovuto prevederlo, no, no, non è colpa tua Enola, lo sappiamo tutti che più sono forti più sono difficili da prevedere. Che cosa c’entra, adesso? Ho capito, ma io sono un’Azona, non un Guardiano. Enola, non farmi incazzare, non sono dell’umore giusto. Lo so che questo è il mio modo di agire e anche l’unico che conosco per vivere. No, non ancora, ma mi sa che ormai non ce ne è uno diverso. Sì, sì, controllate negli archivi, guardate se possiamo ancora fare qualcosa per evitare lo squilibrio, considerate tutte le variabili. Sì, sì, no, non credo che ci sia il Suo zampino dietro, a lui interessa distruggere me, la Storia è solo un di più».

«Spero che la conversazione sia stata abbastanza stimolante per le tue orecchie». Fece lei comparendo davanti a te di botto, con una rapidità tale che credesti che si fosse teletrasportata. Le braccia incrociate e lo sguardo severo. Lo sguardo di chi sa e che non ti lascia scampo. Tu non ti lasciasti impressionare, non avevi niente da nascondere, ma ci tenesti lo stesso a dire la tua: «Non è mia abitudine origliare, vi ho soltanto sentita rispondere».
«E ora vorresti sapere cosa è successo?»
«Se fosse possibile, sì», avevi un brutto presentimento, sentivi gli spiriti inquieti e, i fuochi fatui non erano da meno. Doveva essere successo qualcosa negli Inferi, solo che non capivi che cosa. Ed era questa la cosa che ti angustiava di più. E lei ti accontentò. Tu strabuzzasti gli occhi; era seria? No, non era possibile, gli Inferi non potevano… «Che ne è stato di Camus?» Chiedesti ansioso.
«É vivo, ed è al sicuro, tranquillo».
«Bene».     

«Toglimi una curiosità, tu cosa credi di poter fare tornando negli Inferi? Ti rendi conto che il Rikudō Rinne è totalmente inutile in questi casi? Dove pensi di spedire quegli esseri una volta catturati, spiegamelo». Fece lei, assottigliando gli occhi.
Stavi per ribattere, ma ti fermasti in tempo: le Sei Vie della Trasmigrazione erano fortemente legate all’Aldilà, senza di quello i tuoi colpi non avevano quasi ragione di esistere. Erano un po’ come il Rozan Koryuha di Shiryu di Libra e ti sorprendeva che qualcun altro fosse a conoscenza di questo segreto.   

«Ma devo comunque fare qualcosa». Ribadisti.
«Allora vai e falla». Fece lei, incrociando le braccia, affondando le dita nel tessuto della camicia verde cinabro, in un gesto che tradì tutta la sua preoccupazione. La guardasti sorpreso; ti saresti aspettato qualche cosa in stile Lady Atena, ma non era così. Anzi, ti guardava come a chiederti: “Che aspetti? Vai”. Un po’confusa, a dir la verità, in quanto tu non accennavi a muoverti. Ma a colpirti non era questo era la sua impassibilità. Ti aveva appena riferito una cosa tremenda e non era neanche preoccupata. «C’è qualcosa che vorresti dirmi?» Chiese, cercando di smuoverti.
«Non dite niente?»
«Cosa dovrei dire?»
«Non lo so».
«Siete abituati alla Vostra Dea, lo so, so anche di somigliarle, ma non sono lei, non ti dirò mai torna da me o ritorna vivo, al limite fa attenzione. Se vuoi andare vai pure, io non ti trattengo».  
«Non capisco».
«Cosa non capisci? É semplice». Fece lei, rimettendosi a sedere sulla seggiola bianca e ordinare da bere al barista che si avvicinò.
«Come potete restare impassibile?» Le chiedesti, ma lei ti rispose solo quando il ragazzo se ne fu andato con l’ordinazione. Solo allora lei ti fece cenno di sederti di nuovo e tu, obbedisti in automatico. Solo allora ti domandò: «Ma nei confronti di cosa?»
«Di tutto».
Lei scrollò le spalle: «Non vedo dove sia il problema».

«Ma non v’importa niente del Santuario?» Sbottasti, più umanamente di quanto ti aspettasti.
Lady Asia alzò di nuovo lo sguardo e ti trapassò con gli occhi. L’occhiata gelida che ti lanciò era talmente agghiacciante che non sapevi per quale miracolo non ti tremassero le ginocchia. «Ascoltami bene, Shaka, perché te lo dico adesso e non te lo dico più: io sono un’Azona e sono l’unica cosa che protegge la Dea e il Santuario da minacce molto più grandi di quelle che voi possiate affrontare, minacce come i Guardiani e non ti credere. Quelli che abbiamo incontrato non stavano combattendo alla loro vera potenza, altrimenti puoi star certo che del mondo non sarebbe rimasto neanche il pulviscolo. Vi attacca Poseidone? Bene, non è affar mio, vi attacca Hades? Bene, non è affar mio. C’è una Guerra negli Inferi? Bene, non è affar mio, ma - non ti azzardare a interrompermi - perché lì non ci sono Saint da proteggere da minacce che non possono affrontare e, poi, io custodisco la Storia del Santuario e lo preservo dai pericoli del Mondo Celeste, non c’è alcun bisogno di me nella Guerra, c’è già Island che sta monitorando la situazione laggiù».
«Quindi non volete intervenire perché c’è già un vostro confratello?»
«Io sono già intervenuta Shaka». Ti fece notare, pacatamente.
«Ma laggiù ci sono dei Saint, c’è Camus, come potete restarvene qui?»
«Perché quella non è la mia battaglia, io ne sto combattendo un’altra ancora più grande, perché è questo il mio compito, il mio vero compito. La Cerca è ancora più importante, perché se gli Inferi cadono tutte le anime saranno in pericolo. Ma se la Cerca e la riunione dei Guardiani delle Case degli Astri non viene portata a termine, non ci sarà veramente più nulla da salvare. Neanche le anime. Lo capisci questo?» Domandò retorica e, per la prima volta, vedesti balenare un guizzo di terrore in quelle iridi scure. Molte volte l’aveva provato, ne eri sicuro, ma era la prima volta che te lo mostrava. E, per l’ennesima volta, ti ritrovasti a pensare che sì, in effetti aveva ragione, ma anche che avresti voluto fare qualcosa per aiutarla davvero. Per la prima volta ti ritrovavi a pensare se effettivamente la tua forza potesse essere sufficiente contro questi pericoli che paventava. Perché in fondo (ommieidèi sono commossa, lo sta ammettendo!) tu eri comunque umano. Mentre lei no. «Il vostro screzio con l’Oltretomba è solo una mano che vi ho concesso perché, per caso, mi trovavo sullo stesso cammino. Se mi volete ripagare fate qualcosa per me in cambio, basta anche un semplice grazie, ma non cercare neanche per un secondo di manipolarmi con queste scuse, perché non funziona. È vero che vi serviamo, ma non è vero che potete comandarci».
«Ma voi siete una Dea…».
«Non sono la Vostra Dea». Ti ricordò in tono brusco, sbattendoti in faccia la verità. Anche se lei lo intendeva in una maniera diversa dalla tua, ti ferì lo stesso sentirglielo dire. «Avete già una Dea da venerare e quella non sono io, non posso prendere il posto della mia parente e non voglio, io ho già il mio posto». 
La guardasti rammaricato. Ti dispiaceva sentirla parlare così. Per quanto veritiere fossero le sue parole, non era comunque giusto. Né vero, almeno per te, mio sofistico, relativista Buddha incarnato. Perché il tuo cuore era sufficientemente grande per venerare due Divinità. Mentre camminavate, a un certo punto vedesti dei fiori di gardenie e ti tornò in mente quel ricordo che ti aveva permesso di cacciare i Titani. Indossava dei fiori di gardenie bianchi tra i capelli. Tu del linguaggio segreto dei fiori non sapevi niente, probabilmente l’esperto in materia era Aphrodite, ma non ne eri sicuro. Però, appena li vedesti, avesti voglia di fare qualcosa per lei, per risollevarle un po’il morale. Per questo, ti avvicinasti all’albero, che ti superava in altezza e tendesti la mano per coglierne un paio. Poi la raggiungesti e le dicesti, in tono mite: «Ma questo non significa che non si possa venerare anche qualcun altro». Porgendole i due boccioli bianchi. Lady Asia girò lentamente il capo verso di te e ti guardò con aria sorpresa.
Poi, accettò titubante i tuoi fiori e li guardò ancora, smarrita. Avresti osato dire, imbarazzata. Anche tu un po’ti ci sentivi, ma ti sforzasti di non darglielo a vedere, per orgoglio tuo, più che altro: «Io nasco come buddhista e sono al servizio di una Dea, che venero e servo nell’unico modo che conosco e, ho deciso di accompagnarne un’altra, non vedo perché non possa farlo, anche se non siete la Divina Atena non importa, trovo che dopo tutto quello che voi sicuramente abbiate fatto per il Santuario, non sarebbe male chiedere aiuto; noi Saint esistiamo per servire la Divina Atena».
«Ma allora perché vuoi aiutare proprio me? Hai visto anche tu quali sono i pericoli cui andiamo incontro, hai toccato con mano queste sofferenze, perché ti vuoi immischiare in una cosa più grande di te?»
La guardasti a lungo e milioni di idee ti balenarono nella mente. Ognuna riconducibile a un’unica frase, che le riferisti: «Non c’è un perché, è soltanto quello che mi sento di fare, anche se so che posso fare molto poco». E per te questo era quanto di più simile a una dichiarazione d’amore, rendiamoci conto. D’altronde, come potevi restare indifferente a quella bellissima creatura? «Ma non posso farlo se non mi spiegate ogni cosa».

«Allora temo di dover partire dalla mia spada, se no non ci capirai niente».

E, dopo aver creato una tasca temporale la sfoderò e te la passò, adagiandola di piatto sulle tue mani, senza tuttavia mollare la presa dall’elsa. Era sottile, molto semplice ma elegante, anche ben bilanciata. Una versione più allungata di una daga, senza guardiamano. Uno smeraldo ovale faceva da pomolo ed era fissato al manico con dei fili d’oro bianco. Mentre un altro smeraldo tagliato a forma di goccia, circondato da una cornice d’oro, collegava l’elsa alla lama che si allargava a forma di T e formava le altre lettere: «Tamerlane?» Leggesti un po’ a fatica, non eri molto bravo con le altre lingue, era già tanto se ne avevi imparate alcune, ma le morte non le avevi neanche mai prese in considerazione. Era una pecca per te, Shaka, te ne rendevi conto?  
«É il nome della spada». Confermò lei, lo sguardo basso. Un po’ come le spade dei Gladiatori, anche tu ne sapevi qualcosa. «Non è anche il nome di un condottiero?» Domandasti ripescando delle vecchie nozioni di storia che avevi ricevuto dai sei anni in poi, quando tornavi al Santuario. Perché, in effetti, non ti suonava nuovo.
«Sì, questa è la sua spada». Adesso la guardasti sbalordito: la sua spada? E che ci faceva nelle mani di una Dea? «Però non è una spada sacra». Obiettasti. Separata da lei non avvertivi alcuna sacralità.
«Non nel senso che intendi tu. Ma sappi che per rientrarne in possesso ho dovuto rubarla dal museo in cui era esposta».
«Perché avete dovuto fare una cosa simile?» Chiedesti orripilato dall’idea di viaggiare con un tale soggetto. Non ce la facevi cleptomane. Ma lei alzò le spalle e rispose: «Mi sono presa ciò che mi spetta di diritto. In punto di morte Tamerlane scelse me come sua erede, questa spada mi aveva chiamato da sempre, ma non c’era mai stata occasione per trovarci. Sai, credo di aver incontrato un tuo compagno, in Indonesia».
«Davvero?»
«Sì, era stato mandato a cercare dei ladri di gioielli e ha finito per incrociare la sua strada con la mia. Se non fosse stato per entrambi saremmo stati massacrati da una setta di divoratori di cuori. Ma è stato utile, grazie a lui ho potuto trovare la Gazza Ladra».
Quest’ultimo nome ti fece riflettere: «Gazza Ladra, Drago Rosso, Colomba Astrale, ve li ho già sentiti nominare prima, sono i nomi dei Guardiani delle Case degli Astri?»    
«I titoli, i nomi sono segreti, solo i Guardiani ne sono a conoscenza e, in ogni caso, non lo confideranno mai a nessuno, per evitare di essere controllati. Nel caso degli Dèi, devi essere folle se pensi di poter ordinare qualcosa a una Divinità».
«Quali sono gli altri?»
«Il Matto e l’Astronauta li abbiamo già incontrati, la Freccia Preziosa, il Mutevole e l’Etereo, il Leone Rampante e il Navigatore. Rappresentano rispettivamente i pianeti Mercurio e Urano, Venere, la Terra e la Luna, il Drago Rosso è il Guardiano della Casa di Marte, il Leone Rampante sta per Giove, la Gazza Ladra per Saturno, il Navigatore per Nettuno, infine la Colomba Astrale per Plutone. Il mio compito è riunire tutti i Guardiani, richiamarli al loro sacro dovere, sì da riuscire a preparare il terreno».
«Preparare il terreno per cosa?»
«Come te lo spiego? Hai mai visto una macchina?»
«Sì, certo».
«Allora pensa all’Universo come una specie di scenografia per le imprese di tutti. Ora, tu sai che dietro il fondale ci sono i motori, le quinte, le impalcature, i camerini, come se fosse un teatro. A volte capita che bisogna fare delle ristrutturazioni e, per farlo, alcuni pezzi vanno sostituiti o ricomprati proprio». A questo punto ti saresti aspettato di sentire che fossero quelli che sostituivano i pezzi e invece, «I Guardiani delle Case degli Astri sono quelli che forniscono i pezzi, capisci?»
La guardasti sconcertato. In realtà il concetto arrivavi a intuirlo, ma non sapevi tradurlo in pensiero. Non così su due piedi e non con lei così vicina. «Provo a rispiegartela?» Domandò lei fraintendendo la tua espressione.
«No, non c’è bisogno, credo di esserci vicino».

Kiki
«Ti prego, Divina». Pregasti, con le mani giunte davanti all’effigie della Dea, che, quella notte avevi raggiunto. «Per favore, dammi un segno che lei non è scomparsa completamente». Supplicasti, sentendoti più in colpa che mai, perché il dolore della perdita di Astrid superava, anche se di poco, quello della perdita della tua allieva.
Saresti potuto andare dalla Dea stessa e supplicarla a questo modo. Il punto è che quando la tua Dea cammina accanto a te, è difficile venerarla come quando non c’è. É difficile inginocchiarsi al cospetto della sua effigie o di una sua statua, sapendo che lei è solo poche Case distante rispetto alla tua. E in questi momenti devi anche reprimere la delusione e guardare al di là.
«Kiki». Ti chiamò costei.
Ti girasti e vedesti la Divina ritta in piedi dietro di te, guardarti con apprensione. Il bel chitone candido dolcemente smosso dalla brezza. Lei ti guardò dispiaciuta. Poi, tese le braccia verso di te, guardandoti con un’espressione materna talmente dolce che tu non resistesti a quell’invito. Ti alzasti e ti gettasti in ginocchio ai suoi piedi. Lei si abbassò alla tua altezza per stringerti a sé a sua volta. Solo allora piangesti tra le sue braccia, ricambiando l’abbraccio. «Mi dispiace, mi dispiace veramente. Non ho saputo proteggere Astrid. Credevo che sarebbe stata al sicuro tra noi e invece… Oh, Kiki, perdonami». Si scusò. Anche se teneva il suo sublime Cosmo azzerato, niente toglieva alla sua reale essenza e alla sua persona. Quella era la Dea che ti aiutò a crescere e che giocò con te quando avevi sette anni. Quella era la donna che consideravi alla stregua di una madre, non solo la tua Dea. E, nel suo abbraccio, ritrovasti la serenità: «Perdonatemi, perdonatemi voi per l’affronto che vi ho arrecato. Non dovrei pregare la vostra effigie quando voi… voi siete qui in… carne e ossa». Ti scusasti quando avesti recuperato un po’di calma. 
«Non ti scusare, immagino di capire i motivi per cui non sei venuto a confidarti con me e credimi, non faccio che pensarci e pensarci. Astrid era una persona bellissima, posso capire quanto per te sia difficile guardarmi in faccia, sapendo che non io non sia riuscita a proteggere anche lei».
«Non è colpa vostra, milady, la colpa è mia. Ero io che dovevo proteggerla. Dovevo proteggerle entrambe». 

Ma non avevate solo questo. Astrid e le tecniche che poteva usare sopravvivevano nelle vostre. Te ne rendesti conto quando, in arena vedesti comparire il Bronze Saint di Serpens. Non ci avevi mai parlato molto con questa recluta. Ti accigliasti. Il cavaliere dei Serpenti? Serpenti come… Odysseus. Il suo volto comparve per un momento davanti a te. Ma anche come Astrid e, l’immagine scomparve sostituita da quella della giovane, sorridente e circonfusa di luce. Astrid effettivamente era la sua allieva, non sarebbe stato poi così strano se avesse potuto parlare coi serpenti.

Kardia di Scorpio, nei suoi resoconti, scrisse di aver incontrato l’ultima discendente del serpente piumato in Messico. Serpenti e piume. Rettili con le piume. Tirasti fuori il telefono e ti connettesti a internet, digitando queste due parole. Ti saltarono fuori delle schermate sugli Archaeopteryx. Poi serpenti e piume e ti saltò fuori il Sagittarius Serpentarius. Restasti sbalordito nel costatare che, nella savana esistesse un animale come questo.
Improvvisamente qualcosa dentro la tua mente si accese. Non avresti saputo se definirla una visione mistica o fantasia, fatto sta che, improvvisamente prendesti carta e penna e cominciasti a disegnare.

«Che stai facendo, Kiki?» Ti chiese il Venerabile Shion sentendoti picchiettare la matita contro gli incisivi.
«Niente di particolare».
«Stai disegnando?» Domandò incuriosito entrando nel tuo studio. Anche se le protesi bioniche agli occhi erano disattivate, i suoi sensi funzionavano ancora egregiamente. Riusciva perfettamente a sentire l’odore della carta e della grafite che, finora avevi passato e ripassato sul foglio.  
«Qualcosa del genere». L’uomo ti pose una mano sulla spalla e te la strinse con fare paterno.
«Non te l’ho detto prima, ma mi dispiace per Astrid». Copristi la sua mano bionica con la tua, di carne e sangue. «Grazie, maestro». Dicesti, facendo il primo passo verso la fase successiva del lutto. «Stavo disegnando una spilla».
«Interessante, non sapevo che sapessi disegnare, mi ricordavo che Mu ti avesse insegnato a riparare le Armature e ti avesse mostrato le riproduzioni degli schemi originali, che ti avesse insegnato a dare sempre un occhio alle mode per adattarle ai tempi, ma non sapevo che tu fossi anche un progettista».
«Mi ha insegnato Donato della cloth di Sculptor». Rispondesti senza staccare gli occhi dal tuo lavoro. Sfiorasti il foglio con lo sguardo e osservasti l’intreccio di linee, di rette, di cerchi e semirette che formavano un uccello rapace stilizzato. Non come quello dello scettro di Nike, ma uno che formava il rapace che riuniva in sé i segni zodiacali di Astrid.  
Il tuo omaggio personale per lei, per non dimenticarti mai della ragazza che trascendeva i limiti e smentiva ogni possibilità e statistica. Per la giovane che, implacabile, aveva affrontato una traditrice e vi aveva salvati. Sotto al suo emblema tu avresti combattuto contro Odysseus e, per Atena, lo avresti ricacciato negli Inferi dove doveva stare.

«Che cos’è quello?» Domandò il gran Sacerdote quando vide il disegno in oro che capeggiava sulla tua sciarpa candida.
«Niente di che, l’ho disegnato ieri sera e l’ho fatto stampigliare, vi piace?» Rispondesti con nonchalance.
«É molto bello, che cosa rappresenta?»
«Sono uccelli segretari, signore». Rispondesti.  “E sono ciò che ci aiuterà a scacciare Odysseus di Ophiuchus una volta per tutte”.


Death Mask
La caduta degli Inferi non era stata prevista. Persino il Drago Rosso si era mostrato spaventato nel vedere Don Avido brandire la daga deicida. Eppure non aveva esitato a combattere neanche una volta, anche se, alla fine aveva urlato la ritirata. A malincuore l’avevi seguito e, ancor più a malincuore, da allora eravate nascosti.
Quella notte facesti un sogno. Astrid era morta e tu ti disperavi. Voi non eravate stati in grado di salvarla o di riportarla in vita. Ma non era morta da sola. Prima Avresti dovuto aspettartelo dalla falsa Neera. Era troppo strana e ce l’aveva avuta con Astrid proprio perché lei poteva smascherarla. Perché non ci eravate arrivati subito?
Nell’esplosione però non era rimasto niente.  
Ancora una volta il Fato era stato crudele con te. Non occorreva Shaka per capire che ti stava portando via tutte le persone più importanti per te, a mo’ di pagamento per tutte le vite che avevi strappato. Aveva ragione Astrid, per ogni Arte, anche quella dell’assassino, c’è un Prezzo da pagare. E, il Prezzo prima o poi va pagato.
 “Perché non l’hai salvata?” Pensasti. “Perché? Perché non l’hai salvata? Perché l’hai lasciata morire?”
Quella sera ti eri recato alla sua spiaggia preferita. Non eri un tipo sentimentale, ma non riuscivi proprio a darti pace. Perché ogni cosa bella ti doveva essere strappata sul nascere?
Non eri neppure riuscito a trovarla nello Yomotsu Hirasaka. Forse era stata già inghiottita da tempo. Allora sì che tu non avevi potere oltre il tuo campogiochi.
«Merda». Sibilasti guardando le onde del mare in tempesta che sembravano innalzarsi minacciose per dichiararti guerra e poi abbassarsi rapidamente per cercare di raggiungerti più rapide che mai per inghiottirti. Estinguendosi però molto prima, per l’esaurimento della forza che le aveva costrette alla ritirata. Anche il mare mosso ti ricordava lei. La prima volta che l’avevi vista fare il bagno a maggio, ti era quasi parso che le onde arretrassero come se fosse lei a spingerle indietro e non per semplice moto ondoso. Ma ora non ti davano più quest’impressione. Le onde erano solo acqua.  
Poi, dal niente, avevi sentito il tuo Cosmo cominciare a ribollire. Ne eri rimasto sorpreso, anche perché avevi un buon controllo su di esso. Ma adesso, era come una fiamma viva, dorata e luminosa che si espandeva da te al ritmo di una voce che ti nasceva da dentro. La voce di Astrid che cantava;
«Spazzerò via il sonno raccolto nei tuoi occhi …»
Cosa? Ti guardasti attorno. Doveva essere la tua immaginazione scatenata dal dolore. Ecco, sta a vedere che ti eri beccato il crollo nervoso. Come faceva il tuo Cosmo ad aver immagazzinato la sua voce? Non era mai successo prima con nessuno. Che ti stesse facendo da tramite per il Regno del Morti? O che avesse ragione quello scriteriato di Milo? «I morti cantano?» Ti aveva chiesto qualche anno fa. Forse pensando che Camus là sotto, intrappolato nei ghiacci del Cocito, si sarebbe dato all’opera lirica. 
Ti ricordi cosa gli avevi detto? Oh, sì, ma certo che te lo ricordavi. Gli avevi risposto con una bugia, una penosa bugia che però l’aveva fatto stare meglio. Quindi, riproviamoci di nuovo, Death Mask: i morti cantano? La risposta la conoscevi anche da solo, perciò se la sentivi cantare, forse c’era la possibilità che non solo il tuo Cosmo ti stesse facendo effettivamente da tramite, ma che lei fosse ancora viva.  
Sì, doveva essere così.
«Astrid?» Domandasti incerto mentre la speranza rinasceva in te, sgorgando come una pozza d’acqua nel deserto del tuo dolore.
La voce continuò a cantare acquisendo sempre più forza e vitalità.
Non c’erano dubbi, era proprio lei.
«Astrid!» Urlasti balzando in piedi.
E, la sua voce, più allegra e sorridente, oltre che viva e vicina più che mai. Come se ti avesse sentito a tua volta. Poi la vedesti tramite il tuo Cosmo. Era ad occhi chiusi e cantava. Sorrideva, come se ti avesse sentito o come se stesse dicendoti che andava tutto bene. Le mani giunte come in preghiera all’altezza del petto. Indossava un vestito nero e, accanto a lei, seduta vicino alla sua arpa che suonava, c’era Pandora. Quella strega! Ancora lei! Cosa voleva? Che l’avesse rapita?
L’immagine si allargò e vedesti il muro di pietra del palazzo degli Inferi, la Giudecca. Trasalisti.
«Astrid! Non temere, verremo da te, mi hai sentito? Verremo a riprenderti presto!»   
Lei cantò l’ultima strofa della canzone: «É ora il momento che sarai mio». Aprì gli occhi, incrociando finalmente il tuo sguardo e ti sorrise.
L’immagine si dissolse, lasciandoti solo sulla spiaggia. Ma quella dei suoi occhi vivaci restò impresso nella tua retina. 
Corresti immediatamente alle Dodici Case come se avessi le ali ai piedi. Animato da quella benzina che era la speranza che, la tua amica aveva riacceso. Lei era viva! Ti stava dicendo che stava bene, che quello non era un addio e non lo sarebbe mai stato. Lei era ancora viva! Ed era in pericolo. E, dovevi dirlo agli altri. Dovevate andare a riprenderla. Perché tu lo sapevi, che era viva. Perché tu sapevi che no, i morti non cantano.   

Solo allora ti svegliasti, scosso e confuso, con la vaga consapevolezza che fosse successo qualcosa, ma non sapevi bene cosa.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Le tre Porte ***


Le Tre Porte


Seiya

Il temporale che funestava questa notte non accennava a smettere e tu non ti sentivi ancora di rientrare nella tua Casa. Non ti ricordava affatto quello della Guerra Sacra contro Poseidone, in esso non avvertivi l’influsso del Dio dei Mari. Ma questo non lo rendeva meno spaventoso persino per te, che non avevi mai avuto paura dei fulmini.
Adesso dovevi fare il tuo dovere di Custode della Nona e stare all’erta. La tua corazza accentuava ancor di più la tua grandiosità e ti faceva sembrare ancora più forte di quanto eri. Vero che sulle tue spalle era stato posto un grande fardello, l’eroe del Santuario. Per anni non avevi mai ascoltato le voci che ti volevano come il deicida. Titolo che condividevi con i Gold Saint, altrimenti non sarebbero mai stati rinchiusi nella statua da cui la Dea aveva tanto faticato per tirarli fuori. L’avevi sempre trovata un’ingiustizia, ma non ti eri mai sognato di sacrificarti al posto loro. Non per cattiveria, ma perché non era nella tua indole.
La tua indole era quella di salvarli tutti. E avresti agito così anche stavolta, perché tu eri il Salvatore. E, questa certezza non era cambiata.  
Fossi stato un uomo qualsiasi avresti detto che la cosa migliore da fare, sarebbe stato pregare la Dea per avere una risposta. Tu che la Dea la servivi non sapevi neppure da che parte cominciare per elaborare una strategia. Anni e anni al Suo servizio e, ti rendevi conto, di essere ancora un uomo d’azione. Avevi le idee, ma tu eri un Saint che aspettava la chiamata della Dea e, nel frattempo, parlava con Kouga e Aiolia dell’imminente battaglia.
L’erede della tua vecchia cloth sembrava fiducioso in una risoluzione e, tu, guardandolo, in un certo senso ti ci rivedevi. Aiolia invece ti dava una sicurezza in più. Lui aveva combattuto i Titani e aveva sconfitto Chronos. Se avevate vinto anche l’ultima Guerra Sacra contro il Gran Dio Zeus, lo dovevate proprio a lui e a Shura.
Ma oggi eravate preoccupati. I tuoi fratelli avevano già affrontato Odysseus di Ophiuchus e ne avevano parlato come un avversario formidabile che avevano sconfitto a fatica, anche grazie all’aiuto del Cavaliere di Pegasus dell’epoca. Avevi percepito anche tu lo scontro tra Aldebaran, Shaina e gli altri, ed eri rimasto sconvolto nel vedere che l’unica che effettivamente poteva tenergli testa era la sua allieva.
Tu per tutto il tempo avevi stretto le mani i pugni e ti eri morso il labbro quasi a sangue per la tensione. Di fronte a tutto il potere che l’Apprendista del Gold Saint Maledetto aveva sprigionato, ti eri sentito perso. Ma non ti eri sentito di condannare la giovane. Perché durante la Guerra Sacra, voi quattro agiste esattamente come lei, mentre i Gold vi intimavano di andarvene. Più passava il tempo, più rivedevi la vostra tenacia e, una parte di voi stessi, in quella giovane che ora non era più. Anche se non amavi ammetterlo, Kouga e Astrid ti avevano ricordato cosa significava essere dei Bronze Saint e che, anche se eri meno potente di quanto sembrava, non significava né che lo fossi davvero, né che foste solo pedine da sacrificare. Anche se la tua ingenuità di ragazzino si era offuscata fino a scomparire quasi completamente, non avevi perso l’ottimismo. E, qualcosa ti diceva che, da questa battaglia sareste usciti vincitori, come sempre. Dopotutto voi eravate i Cavalieri della Speranza per ammissione stessa della Dea Atena. 
Sebbene non fosse come quando combatteste contro la Dea della Luna, il Dio del Sole e Mars, voi eravate Saint, sareste usciti vincitori anche da questa crisi.
Staccasti la lama di Amaterasu e l’impugnasti con la solennità che ti era propria. 
Kiki non era ancora tornato ufficialmente in servizio e adesso spendeva tempo a creare quei fermagli e quei gingilli a forma di uccello segretario. Che poi perché proprio quella forma non ve lo sapevate spiegare, né il giovane Aries era intenzionato a darvi delucidazioni.
Tuttavia, quando l’avevano convocato, non ti era sfuggita la nuova luce che animava quelle iridi violette. Che facesse qualsiasi cosa, ma che tornasse a combattere per la Dea alla svelta.
Perché il tempo materiale non l’avevate e, adesso che Astrid era venuta a mancare, anche altri Saint e civili erano morti, ti rendevi conto che eri un ben misero Salvatore. Le persone contavano soprattutto su di te e, tu eri impotente. E, questa condizione d’impotenza ti faceva incazzare.  
Nel profondo dell’anima sentivi questa rabbia bruciante verso te stesso. A causa della tua impotenza le armate della Dea si erano ridotte a  cinquantasei elementi. Avevate sbagliato a riporre tutta questa fiducia in Astrid e a non cercare un metodo di salvezza alternativo. Non avevate mai avuto a che fare con una tragedia simile. A sentire il Venerabile Shion, gli archivisti e i bibliotecari, neanche durante la peste del Milletrecento il Santuario si era ritrovato tanto in difficoltà. Chiunque ci fosse dietro tutto questo era evidente che vi stava attaccando, che fosse una dichiarazione di guerra. E anche la maggior parte dei tuoi colleghi la pensava così. Persino Kanon la vedeva a questo modo.
Ma quale Dio si celava dietro questi attacchi? L’unico che sembrava capace di una cosa simile era Hades, ma il Dio dei Morti aveva negato con tutto sé stesso per bocca di Shun. E, di Shun tu ti fidavi.
Aiolia, invece, doveva ancora fare i conti con questa rivelazione. Non l’aveva presa molto bene ma il solo frapporsi di tutti voi davanti a tuo fratello, l’aveva fatto desistere da ogni proposito d’attaccarlo. Peccato che non foste riusciti a impedirgli di lanciargli uno sguardo di pura delusione.
Se non altro, non era colpa sua.
La colpa era di Odysseus. Chissà quali segreti custodiva e di cosa era davvero capace. Forse c’era veramente lui dietro a tutto questo. Era logico. Quel Redivivo che faceva concorrenza ai risorti demonizzati di Pet Sematary di Stephen King, ma pure a una crisi interna che, in confronto, l’usurpazione di Saga fu un patriarcato come un altro!
Il Gold Saint di Ophiuchus non vi attaccava perché legato dal giuramento di Ippocrate, ma sospettavate tutti che da un momento all’altro, avrebbe messo in atto la sua minaccia. Come molto tempo prima.
Ogni giorno temevate che potesse usare le sue tecniche per attaccare. Avevate persino chiuso le vie d’accesso ai collaboratori domestici per proteggerli. Ma ora ti domandavi se fosse l’idea migliore.
Le missive dal Regno dell’Oltretomba erano cessate e Hades stesso si rifiutava di concedervi udienza. Shun sosteneva che Hades sembrava distratto, per non dire altrove, ma di più non sapeva concedervi altre informazioni. Tu cercavi di stressarlo il meno possibile, apparentemente per empatia, dal momento che non doveva essere facile ospitare un Dio dentro di sé. Ma la verità era che in realtà avresti voluto che Hades rispondesse. Ma neanche il Saint di Virgo riusciva a richiamarlo a sé, neppure con l’aiuto di Fudo, il quale, stava già soccombendo all’influsso delle Creature. Avevate voglia di trattenere il vostro Cosmo più che potevate, questi esseri non avevano bisogno di uccidervi toccandovi. Era come se vi disfaceste pezzo dopo pezzo, come scogli erosi dalle onde. Con la differenza che non sareste scomparsi in una decina di millenni, nel vostro caso era questione di mesi, forse di giorni. Persino la Somma Atena era disperata e cercava di alleviare come poteva la situazione.
Si era pure offerta di conferire con il Gold Saint di Ophiuchus. Tanto, l’aveva già affrontato una volta, se queste Creature erano opera sua come ormai si pensava, allora le avrebbe fermate.
Il solo sentirla ponderare quest’ipotesi ti aveva fatto sgranare gli occhi per il terrore. E lo stesso anche al resto dei tuoi fratelli.
La Vostra Dea era tanto gentile e disposta a sacrificarsi per voi, sapevate quanto l’amavate, ma

In un momento di crisi come questo non potevate permettervelo. Dovevate organizzare le linee di difesa e proteggere soprattutto le Dee e Shaina. Sebbene la moglie di Aldebaran fosse una Silver Saint, una veterana della Guerra Sacra contro gli Inferi, era ancora estremamente vulnerabile all’influsso del suo predecessore Gold Saint. Correvate il rischio che la donna potesse diventare il suo effettivo ricettacolo.
Anche se la Dea sembrava non pensarci, sapevi quanto in realtà fosse preoccupata per la maestra di Kouga di Pegasus. Il quale, si era offerto di starle accanto, suscitando lo sdegno della fiera Sacerdotessa-Guerriero. La quale, adesso, si stava allenando proprio con il Gran Sacerdote, sotto la supervisione della Dea, per diventare abbastanza forte per affrontarlo. Kanon aveva deciso di scommettere tutto su di lei, in vista di una battaglia decisiva contro Odysseus.
Ti portasti una mano sulla faccia e sospirasti. Tra tutte le disgrazie che potevano capitare ora c’era anche questo. “Spero che tu sappia cosa stai facendo, Shaina”. Le augurasti, preoccupato. Perché l’eroe di questa battaglia non eri tu.

Stavi ancora pensandoci quando fosti chiamato alla Tredicesima. Ti girasti e vedesti Hyoga, con indosso la Gold Cloth di Aquarius. «Hyoga, che ci fai qui? Non dovresti essere all’Undicesima?»
«C’ero, ma Lady Isabel vuole vederci».
«Adesso? Ma perché?»
«Dice che è importante».
Così seguisti tuo fratello. Appena alla Decima Shura chiese spiegazioni anche a te ma rispondesti soltanto di non sapere che cosa volesse la Dea. Per un momento avevi temuto il peggio. Ossia che questo fosse un falso Hyoga e fosse tutta una trappola.
Una volta nella sala delle udienze, chiedeste alla Dea assisa sul trono il motivo della vostra convocazione. «Desiderio che andiate a cercare dei carteggi. Non è un’impresa che affiderei a cuor leggero a un Saint di qualsiasi rango in questo momento, però è di vitale importanza che li troviate».
«D’accordo, milady, che cosa sono?»
«I miei antichi disegni delle cloth. Non sono per me, ma ho saputo da fonte certa e attendibile che qualcuno si è messo sulle sue tracce, dobbiamo trovarli prima di loro. Vi recherete nel Nepal ai piedi del Massiccio dell’Annapurna, dove vive la Bronze Saint di Horologium, lei vi darà tutto ciò di cui avrete bisogno. Ora andate e, per favore, tornate da me».Vi pregò, guardandovi preoccupata. Di fronte a quello sguardo, notasti che persino Hyoga si ritrovò in difficoltà. Perché non ti sfuggì il tremito nella voce, quando rispose: «Sì, state tranquilla», di poco antecedente al tuo entusiasta: «Torneremo prima di quanto possiate immaginare!» Cui la Dea sorrise speranzosa. Come facevi a essere sempre così ottimista? C’erano delle volte in cui ti sorprendevi da solo. Sarà perché eri stanco di essere guardato con tanto riguardo dalla Dea e dai tuoi fratelli. Nonostante le Vestigia che indossavi, per un momento avevi voluto tornare a essere solo il Bronze Saint di Pegasus. Anche se era una recita a esclusivo beneficio della Dea che servivate.  

Non eri mai stato sicuro che anche i tuoi fratelli la seguissero per effettiva devozione. Fatto sta che avevate scelto di seguirla perché vi aveva dimostrato di non essere più la bisbetica tiranna, che era da bambina. Più che lei, ed era evidente, era Kanon a gestire il Santuario, Lady Isabel non era per niente idonea e carismatica e, questo era palese. Tuttavia i suoi ordini erano comunque ordini.
Durante il viaggio sul jet privato della Fondazione, non poteste fare a meno di pensare. Almeno, tu. Mentre Hyoga era in pena per Natasha. Prima di andare via l’aveva affidata a Shun, il quale, mosso a compassione, l’aveva accolta ben volentieri alla Sesta. Anche a te era dispiaciuto lasciare la tua famiglia. La sentivi molto più così da quando Natasha era entrata a far parte delle vostre vite. Persino quel solitario di Ikki si faceva vedere un po’più spesso per stare in compagnia della nipotina acquisita. A volte le portava addirittura un regalo dai suoi viaggi. L’ultima volta le aveva portato una tavoletta di cioccolato, con grande sdegno di Hyoga. «Ikki! Domani Natasha ha il dentista!» Gli aveva urlato mentre la bambina se l’era già filata tutta sghignazzante a mangiare la cioccolata. Ti era impossibile non ridacchiare di fronte a questa scena. A Natasha avevi insegnato qualche canzoncina popolare giapponese. Eri contento che Hyoga avesse una famiglia tutta sua e che fosse coadiuvato anche da Milo, che, per lui restava un ponte verso Camus.
Tu neanche te lo immaginavi che Scorpio e Aquarius fossero amici. Già per te fu un colpo scoprire che Saga aveva un gemello e che Aiolia era il fratello minore di Aiolos. Anche per Hyoga fece un po’impressione questa scoperta, ma si adattò subito. Ebbe persino il coraggio (dopo tutti questi anni) di ringraziare Milo per aver donato il sangue necessario per resuscitare la sua antica Cloth.
Il quale liquidò il tutto con un sorriso e un cenno: «Non mi devi ringraziare, l’ho fatto volentieri. In fondo sei stato tu ad aprirmi gli occhi». Aveva aggiunto poi.
Hyoga però non poteva perdonargli della sua frequentazione con Astrid. In quanto genitore tendeva a non fidarsi molto di Astrid. Fiducia che andò cancellandosi definitivamente quando saltò fuori la vera identità della ragazza. Anche se non disse niente, si limitò a tenersi dentro tutto. Probabilmente ne aveva parlato con Shun, che era il suo miglior amico. A te dispiaceva per Astrid, anche se nessuno ti aveva chiesto di proteggerla, sentivi di aver mancato al tuo dovere in qualche modo. In un certo senso ti ricordava la morte di Cassios. Solo che ci avevi messo un po’per capire perché. Cassios si era sacrificato per aiutarvi, anche se diceva il contrario, proprio come Astrid. E, come Cassios, anche lei era morta. Neanche sapevi se conosceva le proprietà del Cosmo. Il fatto che Odysseus continuasse a chiedere di lei sembrava una grossa stronzata. E ti sentivi ancora più incazzato. Neanche quando Tatsumi vi spedì a recuperare i pezzi della Cloth di Sagitter ti eri mai sentito tanto preso in giro. E sì che di motivi per incazzarti ne avevi a bizzeffe. In primis con

Lady Isabel e quel suo ricatto. Se non fosse che ormai eri abituato a combattere e che non sapevi fare altro, l’avresti anche mandata a quel paese. Però qualcosa ti spingeva a dare la vita per lei.
Sotto questo punto di vista, Ikki ti sembrava veramente un estraneo per la sua non devozione alla causa.  
Aveva scelto di riprendere le Sacre Vestigia della Fenice fintanto che Aiolia sarebbe rimasto vivo. Ma, ancora, continuava a non dare a nessuno indicazioni su dove si trovasse e cosa facesse quando non combatteva insieme a voi.
«A cosa pensi, Seiya?» Ti chiese Hyoga, dopo qualche ora di volo.
«Pensavo a Ikki».    
«Ikki? Perché?»
«Boh, non lo vediamo tanto spesso e quando c’è non vuole mai dirci che cosa fa».
«Saranno affari suoi, non credi?» Rispose, glaciale come al solito.
«Sì, senza dubbio, però sarebbe bello vederlo un po’più spesso che non in situazioni d’emergenza».   
«Piuttosto, tu hai idea di come sia fatta la Bronze di Horologium?»
«Non ne ho idea, sinceramente, neanche pensavo che esistesse, né che fosse una donna. Davo per scontato che fosse un Saint, non una Sacerdotessa-Guerriero come Shaina».
Un sorriso divertito affiorò sulla bocca di Hyoga. Da quando aveva scoperto che tu eri stato il Saint che aveva “disonorato” la Silver Saint di Ophiuchus, ti prendeva in giro senza pietà. In effetti non ci si credeva, tu e Shaina eravate una coppia che, in effetti, non poteva stare in piedi. E poi, a te, Shaina, non l’avevi mai vista come un possibile interesse amoroso. Per questo eri contento che si fosse risolta così. L’unico che poteva comprenderti era Shun, ancora te lo ricordavi quando giunse da voi con June tra le braccia. Già, a proposito… Chissà se anche lei stava bene o se era già morta a causa delle Creature, come molti altri Saint e persone sulla Terra. Ti guardasti le mani rovinate e callose: tutti questi anni passati a combattere, tutto questo Cosmo e poi non era servito a niente. Questa Guerra era inutile. Anche tu risentivi del progressivo indebolimento che aveva spaventato la figlia di Aida, ma cercavi di affrontare questo disagio e questa paura a testa alta come sempre.        

Ma era pur sempre di Lady Isabel che stavamo parlando, per questo, quando scendeste all’aeroporto, non vi sorprendeste quando non vi accolse nessuno. Anche se avreste preferito, visto che del Jamir, a parte la regione della casa dei lemuriani, non conoscevate moltissimo. «Tanto valeva farcela a corsa!» Sbottò Hyoga amareggiato.
«Già». Concordasti deluso quanto lui. Fortuna che vi aveva almeno dato dei soldi per trovare rifugio in una guesthouse da cui sareste partiti l’indomani, dopo colazione. Quella notte la passasti ronfando beatamente tra le coperte.
L’indomani, con vostra enorme sorpresa, scopriste che per intraprendere il trekking al circuito avreste dovuto munirvi di due permessi. Neanche dire alla signora alla reception che eravate Cavalieri di Atena in missione vi servì a qualcosa. Così vi arrendeste e domandaste cosa bisognasse fare.
Dal momento che questo era un parco, avreste dovuto fornirvi dell’ACAP, con il quale avreste pagato l’ingresso vero e proprio e il TIMS con cui avreste pagato l’associazione delle agenzie di trekking che sarebbero giunte in vostro soccorso in caso foste scomparsi. O così o l’accesso ve lo sognavate e, avreste esposto i vostri reclami alle autorità locali e avreste ritardato di moltissimo la missione. Così vi minacciò la signorina, che avevate cercato inutilmente di convincere. «Non voglio avervi sulla coscienza». Aveva sentenziato.
Così vi eravate arresi. All’idea che qualcuno vi venisse a cercare avevate dovuto evitare di scoppiare a ridere in faccia alla poverina della guesthouse prima e dell’ufficio del Tourist Board di Katmandu (pure laggiù vi era toccato andare, ma a corsa, stavolta, che non avevate tanta voglia di andarci con i mezzi di trasporto classico) dopo. In teoria avreste potuto farlo anche a Besisahar, ma non ve lo potevate permettere, i vostri soldi erano contati.
Così doveste mettervi alla ricerca di una macchinetta per fototessere, litigare con la medesima perché il nuovo modello a uno scatto ne stampava già quattro e tu eri venuto male perché non c’eri abituato. Tornare al Tourist Board, scoprire che ce ne era una anche all’interno, imprecare e ridere di sé stessi a piacere, prima di compilare i moduli che vi furono forniti. Solo per rialzare la testa e piegarsi alla coda chilometrica che vi insegnò il valore della pazienza (come se già non la conosceste grazie alle grill house). Da lì la lotta assunse un nuovo obiettivo: cercare di ammazzare il tempo. Almeno Hyoga aveva chiamato Natasha e aveva passato il tempo a chiacchierare con la sua bambina. Ma tu? Tu con chi avresti potuto chiacchierare? Avessero avuto almeno una rivista o le parole crociate. No, non c’era neanche questo e arrendersi alla noia. Cosa che ti portò a cercare di ricostruire canzoni che avevi ascoltato decadi or sono e, di cui sopravvivevano appena una strofa o due nella tua memoria. Infine, accorgersi che quando avevi trovato qualcosa di divertente da fare, era già giunto il vostro turno.

L’uomo dietro il bancone vi spiegò tutto quello che dovevate sapere su questi permessi; parole che ascoltasti più tu che Hyoga, a onor del vero. Per questo per una volta, lo sorprendesti, quando vi ritrovaste ad avere a che fare con i primi check-post obbligatori dove i permessi venivano obbligati e timbrati.

Dopodiché vi recaste al punto di partenza, ossia Besisahar, che raggiungeste tramite alcuni autobus diretti (e ovviamente stracolmi di gente. Per fortuna foste accettati a bordo anche senza prenotazione; per vostra sfortuna foste anche costretti a mostrare il Pandora-Box all’autista perché dopo averveli visti sulla schiena, si era insospettito e aveva cercato di impedirvi di salire. Sfortuna tripla, quando tutti i turisti che erano lì ed erano stati richiamati dagli schiamazzi avevano visto, eravate diventati alla stregua di celebrità). Non avevate tuttavia preventivato la lunghezza del viaggio, che richiese tutta la giornata, la spossatezza e lo sconquasso che ne seguì. Non eravate per niente abituati a usare i mezzi a motore; preferivate correre, anche perché non avevi mai sentito il tuo stomaco fare su e giù con gli ammortizzatori e spostarsi lateralmente alle curve. In effetti fu un miracolo se non vomitasti in faccia a quei turisti che vi intrattenerono tutto il tempo. Anche quando doveste fermarvi per mangiare. L’autista non voleva che i passeggeri mangiassero in autobus. 
Hyoga si ritrovò a sfoggiare la sua migliore faccia amichevole, sviluppata grazie al suo lavoro di barman, per rapportarsi con queste persone. In realtà i suoi occhi azzurri tradivano tutto il fastidio che provava ad essere abbracciato, toccato e sottoposto a questi interrogatori. Una volta a destinazione, quando scendeste, scaricaste i bagagli e salutaste i vostri compagni di viaggio. Trovaste alloggio in un Lodge, una struttura rustica di pietra che fungeva anche da ristorante e vi garantì anche una doccia calda. Meno male che la stanza che riusciste ad accaparrarvi, per quanto spartana fosse, rientrò in un prezzo talmente basso che quasi fu un regalo. Se da altre parti vi avrebbero scannato vivi e buttato fuori a calci, qui non successe: evidentemente in Nepal si usava così. 
Nel tempo in cui la voce che eravate qui si spargeva, entraste nella vostra stanza. Spartana e disadorna come promesso, però con le pareti rivestite di legno e due letti separati dalle lenzuola rifatte. La stanza profumava di pulito e non c’era un solo filo di polvere. Posaste zaini e scrigni e ti accomodasti sul letto, tastandone la morbidezza.
Soltanto lì Hyoga rilassò le spalle e, smettendo la maschera d’impassibilità che finora aveva tenuto, si concesse di mostrarsi sofferente. Ma fu talmente inaspettato che ti spaventasti: «Che hai?» Chiedesti balzando in piedi, allarmato. Era stato attaccato mentalmente da qualcuno? Era ferito? Eppure non ti era parso d’aver percepito Cosmi ostili! Mentre ti arrabattavi per cercare una causa, fu lo stesso Hyoga a rispondere, con voce dolorante, portandosi le mani sull’addome: «Il viaggio, non ho sopportato l’autobus».
«Ah, ok, per un momento avevo pensato di peggio». Sospirasti di sollievo.
Si sedette a terra e mise la testa fra le ginocchia e tu smettesti di preoccuparti per stenderti a letto e fissare il soffitto. Solo dopo un po’disse: «Vado a farmi una doccia, ho bisogno di distendere i nervi». E si rialzò e andò a cercare il bagno.
«D’accordo, io vedo cosa può offrirci il ristorante, ordino anche per te?» Gli facesti, mettendoti seduto e lo accompagnasti con lo sguardo. Lui alzò il pollice in una passabile imitazione delle alzate di culo di Ikki prima di scomparire oltre la porta che si richiuse alle spalle.
Ti alzasti in piedi e ti stiracchiasti fino a far scricchiolare le vertebre della schiena, prima di uscire a tua volta.

Quando tornò dalla doccia sembrò decisamente più rilassato. «Ehi, ho ordinato il dal bhat e il succo di sciroppo di sea buckthorn anche per te, va bene?» Era una zuppa di legumi che chiamavano Dal con curry di verdure, riso bianco, papadam, cioè pane fritto e pickels, le verdure fermentate condita di salsa piccante.
«Non  l’ho mai assaggiato, ma va bene, purché non sfori le nostre finanze».
«Non lo fa, mi hanno detto che se fossimo andati altrove a mangiare, allora sì che avremmo incontrato un sovrapprezzo, mi hanno anche consigliato di fare colazione qui domani, sempre per ragioni economiche».
«Mi sembra logico, siamo i loro clienti». Fece con un tono tale che ti sentisti un perfetto imbecille.    
Decidesti di glissare su un altro argomento: «Ascolta, ho fatto qualche ricerca, stando ai siti di solito ci vuole un mese a passo d’uomo per chiudere il circuito. Noi dovremmo riuscirci molto prima, l’unica cosa che mi preoccupa sono i tremila metri; la cosa migliore da fare sarebbe costeggiare i villaggi, se il Bronze Saint di Horologium vive da queste parti, avrà comunque bisogno di mangiare e dormire; probabilmente vivrà a ridosso di questi o in uno di questi. Che c’è?» Chiedesti notando il modo strano in cui ti guardava. Il tuo amico si ricompose e se ne uscì con un: «Nulla» che ti fece inarcare le sopracciglia.
Bah, certe volte Hyoga era veramente strano.
«Quali sono i villaggi che hai visionato?»
«Bahundanda, Tal, Chame, Ghyaru e Ngwal, Manang e Braga. Ma ho i miei dubbi che il Saint viva così vicino, poi Gunsang, Yak Kharka, Letdar e Thorung Phedi. Se poi il nostro amico facesse parte del gruppo whatsapp del Santuario sarebbe anche più facile da localizzare». Il vostro era forse la più grande chat di gruppo che si potesse trovare nella storia delle chat. Ancora una volta vi ritrovaste a benedire questo ritrovato tecnologico che era andato a sostituire quasi perfettamente la telepatia.
«Ma non abbiamo tempo per girare tutto l’itinerario, che cosa dicono i nostri?»
«Leggi tu stesso». Facendogli passandogli il telefono.
Persino i colleghi Bronze non avevano la più pallida idea di dove si trovasse, né chi fosse. Neanche Kiki aveva mai sentito parlare di costui. L’unica informazione utile, vi giunse da un ragazzino di nome Nicolas. Disse che l’ultima volta che ne aveva sentito parlare, il Bronze Saint di Horologium si era stabilito presso il villaggio di Tal e da allora se ne erano perse le tracce. Se non altro, avevate un punto di partenza, anche se non avevate la più pallida idea di chi fosse questo Nicolas. Anche perché, ricontrollando i numeri e i nomi, non lo trovaste da nessuna parte. Ad ogni modo poteva essere l’unica pista che avevate e dovevate provarle tutte.    
Non eravate mai stati in Nepal. Neanche l’avevate mai attraversato, in un certo senso era una sorta di prima volta anche per voi. Però vi sentivate abbastanza fuori posto.
Anche perché, a causa del terrore delle Creature, neanche avevate provato a cercare di percepire qualcosa attraverso il Cosmo. E, comunque, qualcosa vi diceva che, se la Bronze Saint di Horologium non era già morta, a quest’ora probabilmente stava trattenendo il suo. Era come cercare un ago in un pagliaio. Ad ogni modo eravate Saint, perdersi d’animo non faceva parte del vostro vocabolario. 

Era un peccato che non vi foste documentati, il Nepal non era un paese solo di brulle montagne, come si vedeva nella maggior parte dei film ambientati in queste aree. Tuttavia la sua aria aspra era mitigata dal riscaldamento climatico e, persino dove vi trovavate c’erano fiori. Neanche vi aspettavate che avesse un clima tropicale, sebbene voi vi trovaste nel bel mezzo della stagione delle piogge, come preannunciava il cielo nuvoloso sopra le vostre teste.
Voi avreste preso il Percorso Annapurna o Annapurna Circuit. Secondo le guide turistiche avevate mancato il periodo migliore per fare il percorso, anche se vi consigliarono caldamente di percorrerlo in senso antiorario per una questione di acclimatizzazione; così avreste potuto collegare anche l’ascesa al Sanctuary nella parte finale.
Voi dubitavate molto di arrivare così in là: non eravate qui in viaggio di piacere. Tuttavia accettaste il consiglio, compraste qualche provvista e partiste zaino allacciato sopra gli scrigni. Avreste voluto noleggiare una jeep, dal momento che l’Annapurna circuit veniva percorso quasi per intero da mezzi a motore a parte il tratto Manang-Muktinath. Ma voi non avreste percorso la strada asfaltata, avreste preso i sentieri di itinerari secondari che alcuni volontari nepalesi avevano ricreato per ricreare il percorso originario. Trovasti affascinante questa dedizione dei nepalesi verso la loro storia e le loro radici. Si chiamava NATT, ossia New Annapurna Trekking Trail e, per vostra sfortuna, era un percorso segnalato con il sistema europeo. Solo che voi non avevate mai fatto una capatina sui sentieri europei, quindi eravate punto a capo. Ma una volta capito come funzionavano non ci furono problemi. Fece uno strano effetto seguire quelle buffe segnaletiche e rendersi conto che, salvo poche eccezioni, vi sembrò di poter assaporare per intero la sottile bellezza di questi luoghi. Fine come l’aria delle montagne che respiravate, dal fascino potente e pieno di vita. Era come se le creature leggendarie di questi posti vi osservassero incuriosite a ogni ponte e ogni bivio. E forse c’era davvero qualcosa perché era la prima volta che voialtri accusavate il mal di montagna. Come imparaste a vostre spese, il trekking dell’Annapurna raggiunse altezze impegnative anche di cinquemila metri, ma già a duemila avevate cominciato ad accusare i primi sintomi. Sintomi che peggiorarono una volta arrivati a tremilacinquecento con l’incrementarsi della nausea, del mal di testa, la stanchezza, il raschiamento alle pareti interne delle narici e il battito elevato. Subito comprendeste di aver fatto un errore di calcolo: per quanto allenati, non eravate abituati a sopportare queste altitudini e non vi eravate acclimatati ed eravate del tutto impreparati al mal di montagna.
Perciò per non stare peggio, decideste di salire con regolarità e con passo leggermente inferiore al vostro ritmo. Neanche potevate tornare indietro. Eravate a un punto morto.
In vostro soccorso però giunsero una comitiva di camminatori che vi aiutarono e vi somministrarono il paracetamolo e alcuni, si offrirono di riaccompagnarvi ai chilometri precedenti il vostro sentirvi male e restare con voi.
Compagnia che francamente accettaste volentieri e passaste a parlare di mappe, villaggi e sentieri, scoprendo che uno dei vostri accompagnatori aveva già fatto questo circuito almeno sei volte, tanto amava questo posto. Già, peccato soltanto che quando giungeste a Tal (che vi lasciò sconvolti  per le due cascate e il piccolo ruscello a nord), approfittaste dell’ospitalità dei locali per fare domande. Così veniste a sapere che anni prima effettivamente c’era un Bronze Saint qui. Solo che era morto e che aveva lasciato un’allieva.
«Un’allieva? Dov’è?» Chiedesti ma la signora del Lodge, si disse: «Desolata, ma temo di non potervi aiutare, la ragazza è andata via sei anni fa, crediamo che fosse diretta a Muktinath».
«Mukthinat? Ma è uno degli ultimi posti della mappa».
«Che ha di speciale quel posto?»
«Muktinath non è un villaggio, ma è un complesso di templi», v’informò giocosa. «Probabilmente vive laggiù».
Questo significava che la traversata continuava. A malapena tu eri stato a Okinawa e a Miho no Matsubara a Shizouka, tuttavia questa era la prima volta che potevi dire di aver visitato davvero un posto. Rallentare per voi Saint era una novità, ma non era affatto spiacevole e, anche se Hyoga non era socievole quanto Shiryu, la sua silenziosa compagnia non ti dispiaceva: questi, sebbene fossero luoghi molto belli, secondo te andavano assaporati in silenzio, per far sì che i cinque sensi si riempissero di tutto e cancellassero ogni preoccupazione dalla vostra mente. Adesso capivi perché la Bronze Saint di Horologium non avesse risposto al richiamo del Santuario e avesse deciso di restarsene in questi luoghi. Che, se già dall’atmosfera inebriante ti ricordava una pesca noce succosa e fragrante, non osavi immaginarli quando era bel tempo. Ossia la mattina, quello era il momento migliore, perché le piogge pomeridiane cadevano con una precisione impressionante.
Il cuore ti si allargò al solo pensiero e un sorriso affiorò sul tuo volto. L’unico tuo vero rimpianto fu quello di non esserti portato una macchina fotografica. Peccato anche che Hyoga non fosse neanche interessato a scattare foto. Eravate in missione, non c’era tempo per tergiversare. 
Poi, non ti dispiaceva camminare.  
Probabilmente per i civili non doveva essere quella scampagnata che per voi era.    
 per poi affrontare il passo del Torungh La dirigendovi verso la valle del Lower Mustang per poi arrivare a Ghorepani. Non trovaste ostacoli di nessuna sorta sul cammino, salvo qualche vescica sulle piante dei piedi e, doveste fermarvi per mangiare qualcosa e far riposare il vostro mulo.
Vi fermaste a Poon Hill per riposare a una delle tante ex Tea Houses che adesso erano diventate lodges hotel o guesthouse. Fu in una di questa che entraste.
Vi guardarono leggermente basiti, come se non fossero più abituati a sentire di gente patita di trekking. Superato il primo momento d’incertezza non ci furono problemi.
«Di solito la gente arriva qui in moto o in jeep». Commentò uno dello staff del personale scuotendo la testa. Sentisti le guance avvamparti per la vergogna. Ma che ci potevate fare se le vostre finanze non vi permettevano di noleggiare una jeep? A onor del vero tu neanche avevi la patente e non eri molto sicuro che Hyoga (che adesso ti rifilava occhiate assassine per la figuraccia) sapesse guidare.

Per questo a un tratto giungeste a una conclusione: «Basta! Non possiamo continuare così!» Sbottò Hyoga.
«Cosa fai?»

«Quello che avrei dovuto fare già da tempo!» Dichiarò posando lo zaino e togliendosi il Pandora-Box di dosso. Spalancasti gli occhi: «Sei pazzo? Attirerai le Creature!»
«Non se correremo alla velocità della luce e arriveremo a quel complesso». Ti fece notare mentre infossava la Cloth di Aquarius.
Non aveva tutti i torti neanche lui. Perciò lo imitasti e poi, zaino in mano, correste finalmente a destinazione, dove azzeraste il Cosmo e vi sfilaste le Sacre Vestigia.
A un certo punto sentiste una voce. Vi giraste e vedeste il vostro interlocutore. Era una vecchina curva e cieca da un occhio che vi si avvicinò. «Siete per caso dei Saint?»

«Sì e voi chi siete?» Domandò Hyoga accigliandosi. «Oh, ma siete una lemuriana!» Costatasti tu, notando le sopracciglia candide e ovali sul volto rugoso e macchiettato. La signora confermò.

«Era molto tempo che non si vedevano dei Saint da queste parti, cosa vi porta qui?»
«Stiamo cercando il, cioè la Bronze Saint di Horologium, sapreste dirci dov’è?»
«Perché la cercate?»
«É una questione di vitale importanza». 
Il volto della donna assunse un’espressione contrariata e, cercò di scacciarvi, solo che a metà frase s’interruppe e cambiò idea. Come se qualcosa l’avesse fermata. Dall’espressione che assunse, capiste che stava comunicando con qualcuno. Vi accigliaste, anche perché non percepiste alcun Cosmo. Poi la donna tornò in sé e vi disse: «D’accordo, venite con me, vi porterò da lei».
Poi vi anticipò. Si accorse che non la stavate seguendo, si girò e vi spronò a raggiungerla. Solo allora vi muoveste, perplessi.
Il Saint che cercavate non alloggiava nei complessi templari come Shaka, bensì nel villaggio di Ranipauwa, un chilometro sottostante. Se da un lato per voi fu meglio, dall’altro fu peggio, per via della discesa che affrontaste. Avreste potuto superare la nonnina, ma non era educato e, poi, non sapevate dove recarvi. 
Perciò scendeste in città e la signora vi condusse in una delle strade laterali. Si fermò di fronte alla porta di una casa anonima. Estrasse le chiavi dalla sua giacca e aprì. Poi si fece da parte per farvi entrare.

La prima cosa che notaste furono i campanelli appesi al soffitto che, suonavano a ogni movimento d’aria che entrava dalle finestre aperte. Poi, sentiste l’odore dell’incenso aromatico che addolciva l’aria. Infine notaste i numerosi alberi di ferro battuto con le foglioline di cristallo disposti dappertutto su ogni superficie piana. Anche il lampadario a forma di ruota a otto raggi era decorato allo stesso modo.
Un divano rosso con dei drappi era messo davanti al camino ardente che gettava una luce arancione nella stanza e sugli oggetti. il pavimento di legno era coperto di un tappeto colorato su cui erano sparsi cuscini ricamati comodi alla vista. La stanza, benché non fosse molto grande,  sembrava un misto tra un tempio e un appartamento disordinato. Le pareti erano decorate con arazzi e stampe orientali raffiguranti tennyo e tennin, il Buddha e vari Dèi della mitologia induista e buddhista che non conoscevate. Il tutto impreziosito dai riverberi iridescenti dei cristalli colpiti dalla luce del sole.
«Entrate, prego». Fece la signora spronandovi a varcare la soglia e tu e Hyoga obbediste, un po’titubanti. Poi la signora vi superò e andò a chiudere la finestra.

Per un attimo vedesti qualcosa di strano alla tua sinistra. Girasti la testa in quella direzione e vedesti il riverbero della luce riflessa dal piccolo salice di cristallo e ferro battuto. Ti avvicinasti e provasti a sfiorarlo delicatamente con la punta dell’indice. Appena lo toccasti fosti come risucchiato all’interno di una visione.
Un uomo biondo la cui chioma sfiorava le sue ginocchia e, l’armatura di Virgo, sulla soglia di un’altra casa, stava mettendo nelle mani di un vecchio lemuriano dai capelli d’argento il mala.
Shaka? Come se ti avesse sentito, quest’ultimo si girò verso di te e aprì lentamente gli occhi, mentre ti sorrideva felice di poterti vedere per la prima volta.
No, un momento, quello non era Shaka, questo aveva gli occhi più scuri ed erano quasi viola, quelli del Virgo che conoscevi te erano molto più chiari. Allora, chi era questo? Perché avevi la sensazione di conoscerlo? Era solo per via della somiglianza fisica? No, era qualcosa a livello più profondo. Poi un paio di mani si abbatterono sulle tue spalle e tornasti al presente. Ti girasti e vedesti gli occhi azzurri di Hyoga guardarti preoccupati: «Seiya, stai bene? Eri strano, non ti muovevi più e non mi sentivi, ti ho chiamato sei volte! Che cosa ti è successo?» Esclamò preoccupato.
«Io… io credo di sì ho visto… Ho visto un uomo». Facesti toccandoti la testa, anche se non ti faceva male.
«Quello è Asmita di Virgo». Rispose una delicata voce femminile, rispondendo ai tuoi interrogativi. Vi giraste a guardarla mentre questa continuava: «Avete smosso i miei campanelli di cristallo, per questo avete avuto una visione del passato». Era una ragazza con la maschera. Una Sacerdotessa-Guerriero. Dietro la sua testa, a mo’d’aureola delle iconografia cristiana, c’era il quadrante dorato di un orologio. I suoi capelli neri con le meches d’oro erano tenuti acconciati con quelle che sulle prime scambiasti per due bacchette, ma che, in realtà, capisti, erano le lancette del quadrante.
La Sacra Vestigia le cingeva il collo con un collare e le fasciava le spalle in un unico pezzo, scendeva sul busto con un collare curvo come un sorriso soddisfatto che teneva ferma la tunica monacale rossa aperta sui fianchi. Le braccia scoperte erano dipinte di elaborati tatuaggi all’henne, come le sue mani, adesso infilate nei bracciali della Cloth. Tuttavia le mani erano fasciate fino alla punta delle dita. Ai fianchi una cintura composta da una serie di anelli e ingranaggi che dovevano adornare il quadrante. Al centro del busto un robusto medaglione tenuto diagonalmente alla cinta e alle spalle e, le gambe, quel poco che si vedeva, erano cinte dai calzari della cloth. Ma era la maschera sacerdotale che v’impressionò più di ogni altra cosa. Il centro esatto era la punta del naso e da lì partivano dodici quadranti. La prima metà recante le fasi solari e la seconda, quelle lunari. Questi dodici quadranti a loro volta erano raggruppati in quattro insiemi di tre, recanti un simbolo e un colore specifico di una stagione. Cioè, da dicembre a febbraio erano azzurri, grigiastri e bianchi, da marzo a maggio erano di un bel verde punteggiato di colori, da giugno e agosto erano gialli come l’ocra e il grano e, infine, da settembre a novembre erano rosso arancio con tocchi di marrone. Gli occhi non avevano subito lo stesso trattamento ed erano ancora candidi e puliti, sì come la bocca. Eppure, avevate l’impressione che quegli occhi vi stessero osservando da mondi lontani. Che ne avessero viste di cose e che non avessero ancora smesso di osservare.
Era una maschera molto inquietante se ci si pensava bene, non è vero, Seiya? Era come se l’artista si fosse fatto un trip o si fosse visto qualcosa di psichedelico, prima di dipingerla. Solo in un secondo momento scorgeste anche il bindi in oro, simbolo dell’illuminazione al centro esatto della maschera. In un certo senso ti tornò in mente la Grande Guerra contro il Gran Dio Zeus che vi aveva portato a scontrarvi inizialmente con i Gladiatori di un’Altra Atena e una dimensione parallela. Il realizzarlo vi aveva fatto percorrere la schiena da un brivido, ma l’avevate ignorato e avevate combattuto.  
Non era la stessa sensazione che vi dette Shaka quando lo affrontaste, anche se era simile. Se Shaka vi dette più l’impressione di essere ultraterreno, questa ragazza vi sembrò una viaggiatrice di epoche, mondi e dimensioni tremendamente concrete. Ma a differenza del predecessore di Shun, non era ostile, tutt’al più era incuriosita.
«Voi siete la Bronze Saint di Horologium?» Domandò Hyoga sbalordito e forse meno impressionato di te.
«Certamente, vi stavo aspettando, per questo quando vi ho percepito ho detto alla cara Soraya di condurvi qui e accogliervi. Speravo che poteste arrivare prima, ma non è stato così. A quanto pare l’influsso delle Creature si è intensificato a tal punto che persino voi siete in difficoltà. Mi rammarico di non potermi muovere da qui, ma il mio compito me lo impedisce». Si scusò.
«Il vostro compito?»
«Ogni Saint ha un compito specifico, a me è stata data la custodia delle memorie del Santuario, capirete bene che è molto difficile che io mi muova. Mi aspettavo di essere chiamata per combattere nelle precedenti Guerre Sacre, ma non è successo». O questa giovane era più anziana di quanto desse a vedere oppure si riferiva alle ultime Guerre Sacre combattute.    
«Come fate a sapere ciò che ho visto?» Chiedesti.
«Quei cristalli racchiudono specifici momenti della Storia e del Tempo del nostro Santuario, reagiscono al possessore del Cosmo che li sfiora sicché io possa leggere il passato di un Cavaliere e della sua Cloth. Voi siete il Bronze Saint di Pegasus, non è così?». Chiese alzando il mento al tuo indirizzo. La sua voce aveva un che di mistico, come se avesse catturato l’essenza del vento nella sua gola.

«In realtà sono il Gold Saint di Sagitter». Rispondesti e lei proferì un “oh”, di stupore. «Non era mai successo che un Bronze Saint venisse promosso a Gold Saint, benché meno il Primo Cavaliere della Dea». Commentò. Hyoga al tuo fianco ti scoccò un’occhiata perplessa, mentre la vostra ospite continuava: «Ma immagino che ciò sia dovuto alla Battaglia delle Dodici Case, ho saputo che non siete stato il solo a risvegliare il Settimo Senso».
«Infatti, il mio amico qui presente è uno dei ragazzi che combatterono al mio fianco quella volta e, nel corso delle Guerre Sacre contro Poseidone, Hades e Zeus».
«Mi chiamo Hyoga, piacere». Intervenne quest’ultimo con un cenno del capo, indeciso su cosa fare.
«Io sono Raven, piacere mio». Si presentò lei con un cenno del capo e porgendogli la mano che, Hyoga, sorpreso, strinse. Poi, quando la stretta si sciolse, la porse anche a te, che scuotesti una volta, meravigliandoti di quanto la sua pelle fosse strana in confronto alla vostra. Non sembravano le mani di una Saint. Perché era bendata?
«Raven è inglese». Cambiò discorso Hyoga, incuriosito.
«Corretto, sono di qui, ma il mio maestro veniva dall’Inghilterra, voi invece venite dal Giappone. Terra interessante, anche se non ho mai avuto il piacere di recarmici». Vi fece cenno di accomodarvi sui cuscini davanti al focolare cui lei stessa dava le spalle. «Perdonate la mia maleducazione, prego accomodatevi, Soraya, porta qualcosa ai nostri ospiti per favore». Comandò la giovane, fluttuando dolcemente a terra. L’anziana domestica obbedì e scomparve in cucina per tornare con un vassoio pieno di leccornie locali che passò alla sua padrona. La quale mise sul tappeto davanti a voi: «Prego, servitevi pure, sono tutte fresche di mercato e voi avete fatto un lungo viaggio per giungere qui da me con questo tempaccio».
Superato il primo momento d’incertezza, decideste di non offendere la padrona di casa. Non eravate abituati a tanta cortesia e ospitalità. Eravate più avvezzi a massacri e botte da orbi. Non ricordavate che sporadiche volte in cui i vostri commilitoni vi avevano trattati come esseri umani qualsiasi. Forse soltanto Mur l’aveva fatto. Per questo tanta cortesia sembrava sospetta. Lei stessa si accorse dei vostri sospetti e vi rimproverò garbatamente: «So cosa state pensando e mi rammarica molto che partiate già prevenuti nei miei confronti. Tuttavia sono stata cresciuta con i dettami dell’ospitalità dell’Antica Grecia e voi siete giunti qui senza intenti bellicosi, per cui non vedo perché mi dobbiate considerare come una nemica. Inoltre ha preparato tutto la cara Soraya». Aggiunse accennando con il mento alla nonnina che si stava affrettando a lasciarvi soli. La seguiste con lo sguardo imbarazzati finché la signora non si chiuse nella stanza adiacente.
«Ci scusi…» Fece Hyoga, imbarazzato, mettendo giù uno dei dolcetti. Non l’avevi mai visto così in soggezione, mentre tu eri stranito. Questa giovane ti ricordava Aida. Solo lei ti aveva trattato così. E, ancora una volta, il rimpianto si affacciò nuovamente nel tuo cuore. «Ha ragione, ma ne abbiamo passate troppe per poterci fidare».
«Lo immagino, queste decadi sono state piene di conflitti, dubbi e turbamenti più che in ogni altro secolo. Temo che ci vorrà del tempo, prima che l’armonia, la fratellanza e la concordia tornino di nuovo tra le nostre fila». Commentò intristita. Lasciò che vi rifocillaste. Dopo aver adempiuto al suo dovere di padrona di casa, andaste al sodo e cominciaste a parlare della missione. «Speravamo che poteste consegnarceli».   
«Sono spiacente di deludervi, ma non ce l’ho».
«Cosa? Volete dire che abbiamo fatto tutta questa strada per niente?»
«Esattamente, i progetti sono andati perduti nella Notte dei Tempi, nessuno ha la più pallida idea di dove si trovino e se siano ancora intatti».
«Ma… Non esistono delle copie, qualcosa?»
«No». Perfetto. Non era una missione suicida come al solito, era una missione impossibile. E che diavolo, non eravate mica Ethan Hunt e l’I.M.F.! E li conoscevi perché nel tuo scomparire al cinema eri riuscito ad andarci. Improvvisamente ti venne in mente un uomo girato di spalle dai capelli corvini spettinati e una marsina con una tuba in testa. Poi nella tua testa rimbombò la parola: Kairos. «E se non fossimo solo noi a cercarli?» Ipotizzasti, sulla scia di questo pensiero.
«Per esempio?» Domandò la ragazza.
«Kairos. Se per caso anche lui li stesse cercando ed entrasse in possesso di questi progetti potrebbe essere la fine». Spiegasti  sotto lo sguardo sempre più incredulo di Hyoga.
Fatto sta che invece l’altra capì immediatamente a chi ti riferissi: «Non ha mai mostrato alcun interesse. Mi sembra improbabile che uno Specter come lui arrivi a questi punti». Annuisti anche se In realtà non sapevi neanche tu che cosa stessi dicendo.
«Ma se lo facesse, esisterà un modo per bloccarlo, no?» A quelle parole la ragazza s’irrigidì completamente.
Il padre di Natasha ti guardò ancora più perplesso e spaventato: «Seiya, che cosa stai dicendo? Chi è Kairos?»
Lo guardasti e alzasti le spalle: «Non ne ho idea, mi è uscita così».
«Stai male? Non dovresti affaticarti, lo sai…» Ma prima che potesse finire il discorso, fu interrotto dalla vostra collega: «Signori, vi rendete conto di cosa mi state chiedendo?» Vi interrogò spaventata.
«Sì, credo…» Iniziasti ma lei t’interruppe, infervorata; «No, non lo sapete, altrimenti non me lo chiedereste neanche! Se voi sapeste tutto quello che so io… Tutto quello che ho visto, il sangue, gli errori che si potevano evitare, i nemici, non parlereste così alla leggera! Il Tempo non è un luogo come tutti gli altri, si rischia di impazzire o peggio, di morire!» Vi urlò sporgendosi verso di voi che arretraste con la schiena. Lei stessa non era del tutto in sé, si vedeva. Qualunque cosa le fosse successa era diventata paranoica.
«E in nome della Dea, che cosa possiamo fare? Abbiamo bisogno di quei progetti!» Esclamasti, quasi disperato.
«Qualunque altra cosa, ma non chiedetemi mai più di aprire le Porte sul Tempo!» Strepitò.
«Non c’è qualcos’altro che possiamo fare?» Domandò Hyoga, cercando di essere il più ragionevole in questa casa.
«Una cosa ci sarebbe», rifletté, aggrappandosi al bordo del tavolo al lato della stanza, «dobbiamo far parlare le vostre Vestigia, tutte quelle che sono state indossate da voi».
«É possibile?»
La Sacerdotessa-Guerriero tacque a lungo prima di rispondere affermativamente: «Le Sacre Vestigia sono vive, immagazzinano ricordi, è possibile che ricordino perfettamente il momento della loro nascita e che abbiamo visto loro stesse quei progetti. Farle parlare sarà come chinarsi per sbirciare sotto la porta del tempo, sì, questo si può fare senza problemi. Tuttavia sarà comunque pericoloso, perché entrerete nelle loro storie». 
«Che cosa succede una volta entrati?»
«Non lo so. Credo che lo capirete una volta lì, so solo che siete i primi che tentano un’impresa simile. Fate mandare qui la Cloth di Pegasus e quella del Cigno, per favore, così potremo cominciare».
Se Hyoga obiettò dicendole che non poteva mandarvi allo sbaraglio così, che doveva essere più precisa, tu non facesti una piega. Intanto però le deste comunque una mano a spostare la mobilia per creare un cerchio perfetto e abbastanza grande per contenere tre persone. Due sdraiate e una seduta. Fu un po’difficile spostare gli alberi di ferro battuto dalle foglie di campanelle cinesi e cristalli senza romperli. Ma alla fine ce la faceste. Poi la giovane, con l’aiuto dell’anziana signora, accese degli incensi sacri profumati.
«Non mi è permesso usare il Cosmo per far parlare le Armature, non ho il dono dei Cavalieri di Aries, tuttavia conosco gli antichi riti dei fabbri e degli alchimisti del continente Mu». Vi spiegò la giovane dopo aver spento il fiammifero con cui aveva acceso l’ultimo bastoncino d’incenso. Poi si girò verso di voi e vi ordinò di chiamare Kiki per portarvi quanto necessario.    
Così, contattaste Kiki, il quale, che, dopo aver ascoltato attentamente le vostre richieste e la spiegazione, ve le teletrasportò direttamente sull’uscio. Non avrebbe dovuto sorprendervi, ve l’aveva anche detto, «Non posso violare la dimora di una signora». Si era giustificato prima d’attaccare.
«No, certo, fai bene». Avevi risposto, anche se toccò a voi portarle dentro e disporle secondo le sue istruzioni.
«Un momento, ma questo non attirerà le Creature?» Intervenisti, ricordandoti di loro. Hyoga si fermò di botto.
«No, il potere della Nobile Raven è sufficiente per creare una cupola protettiva contro di loro. Per questo riusciamo tutti a usare le nostre facoltà cosmiche in questa zona». Spiegò l’anziana Soraya accomodata su una sedia vuota e voi la guardaste. Quando era rientrata nella stanza?
«Ma per farlo dovrebbe usare il Cosmo!» Obiettò tuo fratello.
«Io non uso soltanto il Cosmo, sono stata addestrata anche in altri misteri proibiti a un semplice Saint; per questo le Creature non ci daranno fastidio». Rivelò la Sacerdotessa-Guerriero dalla chioma corvina riportando l’attenzione su di sé. Ma non si sbottonò più di tanto sull’argomento. Perciò doveste farvi bastare la sua, inquietante ed enigmatica, spiegazione per ragioni tempistiche e logistiche.
Così posasti il Pandora Box di Sagitter verso la porta a Nord, Hyoga quello di Pegasus a Sud. Invece Hyoga portò lo scrigno dell’Aquario a Est e tu quella del Cigno a Ovest. Anche questo faceva parte del rito, dal momento che dovevate sentire la storia di tutte le Cloth riunite era un modo per dire che avreste ascoltato tutte allo stesso modo. E, vi eravate già accorti che qualcosa nell’atmosfera era cambiato. Nel disporle era stato come se le Cloth negli Scrigni vi avessero guardato e avessero incatenato gli sguardi ai vostri.
Una volta fatto vi istruì dicendo di spostare i cuscini di modo che fossero diagonali e uno accanto all’altro. «Così nessuno di voi darà veramente le spalle alle Cloth». Tu in particolare, ti ritrovasti a osservare quella di Sagitter e quella del Cigno. Mentre Hyoga le altre due. «Probabilmente vi concentrerete a tal punto che perderete il controllo dei vostri corpi, che cadranno a terra, per questo ho fatto mettere i cuscini a questo modo, mentre voi, dovrete stare esattamente al centro, seduti uno accanto all’altro ma rivolti nella direzione in cui state guardando. Adesso, per favore, mangiate questo, vi darà le forze per affrontare il viaggio». Continuò lei passandovi un cioccolatino a testa. Poi, prese una pergamena arrotolata da una scansia e si sedette accanto a Hyoga, dando le spalle alla Cloth di Pegasus e vi dette le ultime istruzioni. Dal rumore di carta srotolata che sentisti capisti che l’aveva aperta e appoggiata sul pavimento.
Il tuo cuore batté all’impazzata, mentre ti rendevi conto che le Cloth erano attente e vi fissavano, aspettando solo voi. «Concentratevi sul vostro obiettivo e quando sarete pronti, domandate alle cloth: portatemi con voi, nei meandri della vostra storia. É il modo migliore affinché vi raccontino meglio tutto quello che sanno e senza mentire. Quando avranno finito io sarò qui a scrivere. Tutto chiaro?»
«Sì», dicesti tu, più convinto di Hyoga.
«Bene, fuoco alle polveri». 
Concentrarsi richiese per te un po’ di tempo. Forse di più di quanto fosse servito a Hyoga. Tu sapevi concentrarti in battaglia, ma non in situazioni differenti. Non eri riflessivo e introspettivo e, questa, ti rendesti conto, che era una grande pecca. Prima di ora non ti era mai neanche passato per la testa che potesse essere un problema. La tua impulsività spesso ti aveva messo in situazioni di estremo pericolo. Adesso non era molto diverso.
La Sacerdotessa ti aveva detto cosa fare. Non era così diverso dall’alzarsi in piedi e combattere. Qui dovevi solo combattere con la tua scarsa concentrazione e raggiungere l’obiettivo, che, comparve davanti a te sottoforma di cartiglio splendente protetto da uomini in armatura scura.
E, li affrontasti come solo un Saint può fare, sconfiggendoli tutti per poi lanciarti contro il cartiglio e, ci sprofondasti dentro come acqua mentre la formula magica che recitasti prese corpo in kanji giapponesi e caratteri greci dorati e bronzei e si trasformarono in un cerchio magico ai tuoi piedi, da cui uscirono delle mani che ti trascinarono giù, in profondità che neanche ti eri mai sognato.  
Ma non ti lasciarono neanche per un secondo e non ti permisero di chiamare a te la tua Armatura.  
Potesti solo urlare mentre precipitavi e atterravi malamente sulla sedia a rotelle. L’impatto fu così grave che non solo sprofondò di qualche centimetro nel terreno fangoso, ma tu perdesti la sensibilità e la mobilità del corpo dal collo in giù. La ferita al petto di nuovo dolente e, non potevi tastare né questa né la mascella, che nell’impatto avevi richiuso battendo con forza i denti. E, adesso il dolore pulsava nella tua bocca strappandoti un gemito di dolore. Per fortuna che non ti eri morso la lingua, anche se la tua bocca sapeva di sangue. 
Provasti ad alzarti ma non ci riuscisti. Quando realizzasti che cosa fosse successo e riconoscesti queste sensazioni, il terrore s’impossessò di te. Non era come quando uscisti dal coma per sconfiggere Sorrento: questo era dieci volte peggio. Pegasus aveva perso le sue ali e non avrebbe solcato mai più i cieli.
Hades era sconfitto, Atena era salva e tua sorella era viva e accanto a te. Insieme a Castalia, Shaina e Lady Isabel si occupava di te e pregava che tu ti svegliasti. Avevi percepito anche tu il braccialetto di fiori che ti aveva fatto la Dea che proteggevi. Però non avevi potuto girare la testa e sorriderle per ringraziarla. Né avresti mai potuto dire alla tua ex bulla che era cambiata moltissimo. Non glielo avevi mai detto non perché temevi che la sua stronzaggine e classismo saltassero di nuovo fuori, bensì Ma non ti eri mai sentito prigioniero del tuo corpo come adesso.

«Alzati!» Esclamò una voce femminile e tu alzasti la testa di scatto e incontrasti lo sguardo scuro di una ragazzina di tredici anni dai capelli corvini cotonati che le toccavano le spalle. La frangia separata dal resto della chioma da una bandana rosa fucsia allacciata come un nastro e lo sguardo fiero contornato di khol che le dava un’aria più sbarazzina, ma che non contribuiva a farla sembrare più grande. Indossava una larga felpa sopra una canottiera con stampigliata sopra la faccia di Kim Wilde e un finto reggiseno di pizzo nero sopra la medesima, stile Madonna. Al colletto della maglia erano appesi dei ray ban.
Portava pantaloni di jeans infilati in stivali marroni. Le braccia conserte adorne di braccialettini di perline colorate di plastica sopra delle polsiere. A guardare bene uno di quei ninnoli, sembrava un braccialetto di piume rosa. Nel complesso era ridicola, ma la moda degli Anni Ottanta era ridicola quasi per definizione. Lo ammettevi tu stesso che, quegli anni li avevi vissuti.
Eppure questa sconosciuta ti era famigliare, sebbene non ricordassi dove l’avessi già vista. «Hai intenzione di stare a poltrire ancora per molto? Forza, alzati da lì, Seiya di Pegasus!» Esclamò perentoria e anche scocciata, risvegliandoti dai tuoi pensieri. «Scusami, scusami… ehi, un momento, come sai come mi chiamo?» Domandasti accigliandoti. Sarai anche stato preso a mazzate in testa, ma tu la testa l’avevi dura e un minimo di buon senso si era salvato abbastanza per porre questa domanda più che legittima.
La giovane alzò il mento con fare arrogante e rispose «Che domanda cretina, grazie alle Galaxian Wars, no? La nipote di Alman di Thule le ha fatte trasmettere in mondo visione. É un peccato che si siano concluse così, io facevo il tifo per te». Sbottò infastidita. Oh, era una tua vecchia fan, quando ancora credevi di essere soltanto un lottatore come tanti a là Uomo Tigre e Rocky Joe. E che tutta questa roba delle costellazioni e del Cosmo fosse solo una gran cretinata ad oc per il pubblico.
Ciononostante quello sguardo ti fece arrossire: «Ah, ehm, grazie, però lo sai che quegli incontri erano tutta una farsa per far uscire allo scoperto i Saint». Ribattesti.
«Sì, lo so, non mi stai dicendo niente di nuovo, anche se bisogna ammettere che la meringa ha fatto di tutto per pararsi il culo nelle interviste a seguito dell’incendio».
«Hanno trasmesso anche quelle?» Chiedesti, che in quel periodo eri un tantino impegnato nel recupero di quella che poi sarebbe diventata la tua Cloth.
«Sì, avevo sperato con tutto il cuore che risistemassero il Colosseo Grado o che spostassero altrove gli incontri. Ci sono rimasta malissimo quando non se ne è fatto più niente. Era un buon programma tutto sommato».
Non ti sentisti di darle torto; se ci pensavi, all’inizio di quest’avventura era tutto più semplice. Tu eri solo un ragazzino spedito in Grecia per recuperare una Cloth per una collezione di quel bastardo di Alman di Thule e, quella classista di Lady Isabel potevi ancora vederla come una persona normale, che ti aveva ricattato e che vi vessava da piccoli. Solo dopo ti era anche venuto in mente che questo era sfruttamento minorile. Ma nessuno lo aveva detto e tu non ci avevi pensato. Neanche vi avevano promesso un compenso come adesso. Perché una volta vinta quella Gold Cloth e ritrovato tua sorella che cosa te ne facevi? Avresti voluto avere il cervello di ora per pensare anche a questo: «Bè, personalmente avrei preferito che fosse andata così anche per me; però devo dire che fu una buona pensata quella di rivolgersi alla polizia per cercare di recuperarla, dopo la comparsata di Phoenix». Ammise, ammirata.
«Sì, mi era sembrata la cosa più sensata da fare». Anche se si rivelò inutile, in quanto andava molto oltre le tue possibilità. In un certo senso il te del passato ti ricordava molto Astrid. Se non ci fosse stata la Guerra e se l’avessi conosciuta prima, probabilmente sareste diventati buoni amici. 
«Bè, complimenti, a me non sarebbe neanche passato per la testa; significa che c’è anche un cervello lì dentro».
«Grazie». Sorridesti rinfrancato: ti eri sentito un totale coglione per anni e anni per non averlo capito subito. Non avevi mai pensato che nell’ottica delle persone normali questo fosse  encomiabile. Quando ancora credevi di essere una persona normale e che fosse tutto un sogno e, tu non ti eri ancora reso conto di essere diventato parte di qualcosa di più grande e decisamente anormale. Perché tu non avevi mai davvero voluto essere un Saint. Come neanche Geki, Ban, Ichi, Nachi, Jabu, Shun, Ikki, Mei, Shiryu e Hyoga. Volevate solo vivere una vita normale e scappare da quell’orfanotrofio con il filo spinato e la recinzione elettrificata in cui vi costringevano a vivere, nascondendovi di essere tutti fratelli. Tutti figli di un unico maiale. Questo non l’avresti mai perdonata né a Lady Isabel, né ad Alman di Thule, semmai l’avessi incontrato. Non era tuo padre, né mai lo sarebbe stato. Accettavi l’intensità del legame che ti univa ai tuoi amici e compagni d’arme, ma ripudiavi il tuo vero cognome con tutte le tue forze. E avevi ragione; non dovevi niente a quel disgraziato che aveva solo saputo recarvi dolore. 
«Tutto bene?» Ti chiese preoccupata, sciogliendo la stretta delle braccia.
«Sì, tranquilla stavo solo pensando». La rassicurasti mettendo su il migliore dei tuoi sorrisi. 
«Ad ogni modo, credi di riuscire ad alzarti da lì o vuoi restarci ancora per molto?» Ti chiese spostandosi un lembo della bandana dietro la spalla. La testa inclinata verso destra.
«Mi dispiace, ma non posso alzarmi, sono ferito». Ti scusasti con lei, la quale ti guardò letteralmente impietosita e preoccupata. «Che cosa ti è successo?»
«Una spada mi ha ridotto così, non so cosa abbia reciso, ma da allora ne ho sempre risentito e ho delle ricadute». Spiegasti vergognandoti ancor di più. Sensazione peggiorata dal fatto che non potevi muoverti e girare la testa. 
La giovane sbuffò mettendo su un buffo broncio da bambina: «Che disdetta, pensavo che quando avrei incontrato il mio idolo sarebbe stato meglio di così».
«Ma aspetta, tu come sei arrivata  qui? Perché sono di nuovo inchiodato alla sedia a rotelle?» E richiudesti la bocca, trattenendoti dal rivelare anche la tua missione. Non solo perché questa civile d’apparenza poteva esserlo anche nei fatti, ma perché non avevi la più pallida idea di chi fosse davvero. E se fosse stata una nemica?  
«Non ne ho idea, francamente non so nemmeno io perché mi trovo qui». Fece ponendosi le mani sui fianchi e girando la testa per guardarsi attorno. Poi tornò a guardarti e sospirò rassegnata: «Bè, direi che sia il caso di trovare una via d’uscita, no?»
«Sicuramente». Ma lo dicesti solo per lei, una volta che fosti stato certo che sarebbe stata al sicuro, avresti continuato la tua ricerca. La giovane ti chiese se tu riuscissi a muovere le braccia per spostarti con la sedia ma tu negasti, contrito. Allora si rimboccò metaforicamente le maniche e disse: «Ho capito, ci penso io». Fece il giro della sedia e ne afferrò i manici e cominciare a spingere.
«Aspetta un momento, che cosa fai?» Esclamasti sgranando gli occhi e, solo in questo momento ti rendesti conto di avere di nuovo la tua voce di tredicenne. E questo ti zittì. Che cosa? Cosa ti era successo? Eri ringiovanito?
Lei si fermò e disse, sporgendosi in avanti per parlare al tuo orecchio: «Bè, che c’è? Non vorrai mica dirmi che preferisci restare qui in mezzo al niente. Su, non essere fifone e andiamo».
«Aspetta, non possiamo muoverci, è troppo pesante…» Ma non facesti in tempo a finire che sentisti la giovane ricominciare da dove si era interrotta, mettendoci sempre più forza finché non ebbe la meglio sul terreno colloso e fangoso. La sedia a rotelle, piano piano, si mosse in avanti, scollandosi dal terreno. E tu, se avessi potuto muoverti, ti saresti aggrappato ai braccioli. Ma le tue mani erano abbandonate in grembo, inutilizzate.
«Ecco fatto, non ci voleva molto, no? Su, andiamo». Esclamò come una bambina che gioca a fare il pirata.«Come hai fatto? Era impossibile schiodarmi da lì!»
«Ho spinto sempre di più finché non ci sono riuscita, ecco come». E, insieme, vi avventuraste nel buio circostante.

«Allora, raccontami di te, Seiya, cosa fai di bello nella vita, oltre a lottare in TV? Vai a scuola, lavori?» Ti chiese la giovane alle tue spalle facendoti sprofondare nell’imbarazzo.
«Io no, non vado a scuola da un pezzo ormai». Rispondesti vergognandoti. Mentre la tua compagna d’avventure improvvisata ti disse che frequentava la seconda media. «Oh, hai quattordici anni?»
«Ne ho tredici, l’anno prossimo ne compirò quattordici». E, a fronte della tua perplessità ti spiegò come funzionava il sistema scolastico del suo Paese natio. Avevi pensato che fosse giapponese anche lei, almeno che appartenesse alla minoranza etnica occidentale che viveva nell’Isola Nipponica ma ti sbagliavi. E tu le spiegasti come funzionava l’ordinamento scolastico della tua patria. «Ma aspetta, come facciamo a capirci?» Le chiedesti, colto da un dubbio. Non ti sembrava di parlare in inglese o una qualsiasi delle tante lingue che Castalia ti aveva insegnato al Santuario, punto comune di tutti i Saint. «Ah, non lo so, non l’ho ancora capito. Forse è la lingua del mondo dei sogni». Rispetto alla tua… coetanea eri molto più sveglio. “Certo che ci tenevamo proprio tanto a rendere le donne delle perfette sceme”. Ti ritrovasti a considerare con amarezza. Se non avessi avuto l’esempio di Shaina, Castalia e anche di Astrid e varie marzialiste olimpioniche, probabilmente avresti continuato a pensare che buona parte delle civili fossero incapaci di badare a loro stesse. 
«Mondo dei sogni?» Ripetesti inarcando un sopracciglio e lei si tartassò le mani, incerta, nel rispondere: «Bè, sì, non è forse un sogno? L’ultima cosa che mi ricordo è di essermi addormentata sul mio libro di aritmetica». Rivelò e, tu, capendo che forse per lei sarebbe stato troppo sapere la verità, decidesti di darle corda. Addolcisti lo sguardo e il tono della voce e concordasti con lei: «Sì, hai ragione, deve essere sicuramente un sogno».
Almeno ci fosse stata Miho con te, o Castalia, o Seika, ti saresti sentito meno a disagio di così, invece di una perfetta sconosciuta. Improvvisamente delle immagini comparvero davanti a te e, la tua accompagnatrice si fermò di colpo. Riconoscesti le immagini come i tuoi ricordi e ne restasti sbalordito. «Che cosa sono?» Chiese la giovane e tu la rassicurasti.
«Uh, è quasi come essere al cinema!» Esclamò la ragazza ridacchiando nervosamente per la figuraccia che credeva di aver fatto, appoggiandosi ai manici della sedia. Cinema, a quanto pareva aveva voglia di scherzare. Ad ogni modo osservaste le fasi del tuo addestramento finché non si bloccarono. Solo quando lei ricominciò a spingere anche il film della tua vita ripartì. «Che figata», commentò lei, meravigliata. “Se lo dici tu”. A ogni passo le immagini si muovevano davanti a voi, arretrando come ad aprirvi la strada.
Arrivasti al momento della rottura della maschera di Shaina e poi, subito dopo alla trasvolata che ti riportò a Nuova Luxor e poi davanti ai giornalisti. La provocazione di Jabu, il ricatto di Lady Isabel e il torneo. «Ecco, queste parti le conoscevo, però, uao, io pensavo che fosse tutto finto, non che fosse qualcosa di reale. Quindi l’hai rotto davvero quello schermo, non era già rotto di suo». Commentò la tua accompagnatrice, destandoti di nuovo dai tuoi pensieri.    
«Sì».
«E te l’hanno insegnato al Santuario?»
«Sì». 
«É una figata pazzesca!» Esclamò entusiasta e ammirata. Tu non avevi mai pensato ai tuoi vecchi fan, neanche pensavi di averceli. Ricordavi appena di aver incontrato una ragazza dai capelli rossi che poi venne a vedere il tuo incontro con Shiryu. Ricordavi che era triste, che era stata separata da sua sorella, proprio come te e l’avevi incoraggiata. Chiunque l’avrebbe fatto. Ma non pensavi che qualcuno ti avrebbe mai ammirato. A te del mondo non importava, rivolevi solo tua sorella.

E poi vedeste Ikki comparire dal Pandora-Box di Sagitter e ferire gravemente Nachi. Anche se il Saint del Lupo lo nascondeva, dal giorno dello scontro con Ikki gli era rimasta la cicatrice psicologica.
E poi tutta la battaglia che ne seguì, la mattanza dei Silver e dei Gold, che cancellarono progressivamente il sorriso alla tua accompagnatrice, che, alla morte di Saga, dovette fermarsi. E le immagini scomparvero, tuttavia, sperimentasti un fenomeno curioso: ti tornò la sensibilità nella parte superiore del tuo corpo. Girasti il capo verso di lei e la guardasti: «Ehi, ma tu stai piangendo».     
«Scusa, è che è stato orribile… Non pensavo, non credevo che dopo la fine dello show, che tu, voi che foste veramente dei bambini soldato; quale Dea può essere tanto crudele da chiedere a dei bambini di sottoporsi a un addestramento così crudele e uccidere? Quale? Questo non lo capisco, né lo accetto!» Esclamò lei detergendosi le lacrime dal viso, cercando di darsi un contegno, anche se invano. Lei non sapeva cosa significava tutto questo, ma forse una parte del tuo vecchio te era sopravvissuta, perché non solo ti sentisti male nel vederla piangere.  E, ti venne istintivo girare il busto verso di lei, scoprendo che era possibile, se ti sporgevi un po’verso sinistra.   
«Mi dispiace, non avresti dovuto assistere». Facesti chinandoti in avanti, intrecciando le mani l’una con l’altra. Non avresti mai voluto che si spaventasse così. Ogni scena che vedevate per te era solo fonte di dolore. Neanche a Miho avevi mai raccontato cosa avevi dovuto sopportare. Ancora ti sorprendevi del fatto che la tua mente non si fosse ancora spezzata.
Ma bambino soldato… nessuno ti aveva mai chiamato così. Ecco cosa eravate voi Saint. Ti aveva chiesto cosa facessi nella vita e l’aveva scoperto così. Già qualcun altro lo scoprì e già qualcun altro ebbe un crollo molto simile. Ma stavolta non c’era nessuna sorella da ritrovare, c’era solo il tuo passato e quello delle tue Cloth da affrontare. «Per favore, smetti di piangere. Non mi piace sentire il pianto delle donne». La supplicasti.
«Scusa». Estrasse un fazzoletto dalla tasca dei jeans, con cui tamponarsi le lacrime e soffiarsi il naso.

«Non è ancora finita». Interruppe una voce maschile che vi fece girare la testa di scatto che rimbombò come se fosse accanto a te in un bizzarro dolby surround. Davanti a voi comparve Arles, gli occhi rossi, i capelli neri e l’espressione malefica che ricordavi. «Arles!» Esclamasti tu mentre la tua accompagnatrice sussultò e lanciò un piccolo grido di paura.
«Sta indietro!» Le suggeristi muovendo le braccia mentre lei si portava le mani al petto come se ciò avesse potuto aiutarla a girarsi e allontanarsi ancor di più.
«Ma tu guarda, il Primo Cavaliere della Dea ridotto così. Lo trovo molto ironico, credevo che dopo il trattamento dei Gold Saint tu fossi più morto che vivo». La voce suonava con una doppia cadenza come se le sue corde vocali fossero capaci di produrre più suoni in contemporanea.
«Illuso, se credevi che potesse bastare per impedirci di servire la Dea allora sei fuori strada». Ribattesti cercando di ignorare ancora una volta quella fastidiosa eco.     
«Seiya, come è possibile? Questo tizio non dovrebbe essere morto? Porca miseria, l’abbiamo visto morire!» Esclamò la tua compagna di viaggio, giustamente terrorizzata.
«Sì, ma ritornano. Saga torna in te! Non lasciarti sopraffare dalla tua metà oscura». Urlasti poi, ma l’espressione del Gold dalla chioma corvina davanti a te non mutò.
«Metà oscura a chi? Io sono un essere a sé stante, sciocco ragazzino!» 

E, davanti a te, comparve la tua controparte in Cloth, distrutta ma ancora combattiva. Non ti eri mai visto prima con occhio esterno, ma non ti capacitavi di tanta determinazione. All’epoca non ti era importato della differenza di rango, forza e Cosmo che vi separava dai Gold. Sapevate di essere nel giusto e nel giusto avevate combattuto tutti e cinque. Come poi fece Kouga di Pegasus durante la dominazione di Mars e la Guerra Sacra contro Pallas. Improvvisamente mentre la tua controparte soccombeva, la tua accompagnatrice prese la situazione in mano. Si trasse qualcosa dalla tasca dei jeans e la lanciò ai piedi del Gold Saint che, avanzando la calpestò e, si fermò sopra di essa, mandandola in mille pezzi, dopodiché gonfiò il suo Cosmo d’Oro: «É inutile che scappi, tanto ti riprendo! So che sei lì dietro!» Esclamò e scostò la tenda ma al suo posto vide soltanto la Cloth di Gemini ripetuta per infinite volte chiedergli chi fosse. Lasciando il Gold Saint sgomento. Se lì per lì cercò di ignorare il tutto non ce la fece più, visto che la Cloth continuò a tormentarlo, riflettendosi nel frammenti di vetro che erano stati catturati nel suo Cosmo e, di cui lui, tanto preso dalla battaglia, non si era accorto.
Non avevi mai visto prima questo retroscena. Ai tuoi occhi esercitò un fascino tanto morboso quanto strabiliante, mentre stringevi a te la giovane per proteggerla, sussurrandole ripetutamente di non guardare. Peccato che non potevi muoverti e non potevi fare niente. Neanche espandere il tuo Cosmo serviva a qualcosa. Pegasus era debole, troppo.  

Improvvisamente qualcosa si parò davanti a te e urlò: «Fermo! Lascialo stare!» Solo dopo capisti che era stata la ragazza. Ti sarebbe uscito spontaneo il suo nome, se tu l’avessi saputo, quello che potesti fare, tuttavia, fu trasalire. Nessuno aveva mai cercato di proteggerti a questo modo. Ti avevano insegnato a difenderti, sicché potessi farlo da solo, ma questo era un altro discorso. «Tu non devi uscire dal tuo ricordo! Torna immediatamente nella tua storia altrimenti…» Esclamò tendendo un dito verso Arles, prima di ricordarsi che non poteva niente contro di lui, che la trapassò di rimando con gli occhi e tacque, spaventata.
Il Saint sorrise malefico, trapassandola con lo sguardo, schernendola: «Altrimenti? Sentiamo, altrimenti che mi fai?»
Nonostante che prese a tremare non si schiodò dalla posizione. Il Saint dalla chioma nera l’afferrò repentinamente per la gola e la sollevò in aria. La giovane sussultò e si appigliò immediatamente al polso dell’uomo, lottando, scalciando e dibattendosi per liberarsene. «No! Lasciala andare! Lasciala subito andare!» Urlasti cercando di sporgerti in avanti e alzarti, ma non solo non ci riuscisti, il Gold Saint non ti ascoltò. Cercasti ancora una volta di alzarti dalla sedia ma le gambe non ti risposero. Imprecasti per l’impedimento. Non riuscivi neanche a bruciare il tuo Cosmo per giungere in suo soccorso.
«Non dovresti intrometterti in cose che non ti riguardano, insulsa e patetica ragazzina». La sgridò il Gold dopo essersela avvicinata al volto, di modo che sentisse le sue parole e lo vedesse bene, mentre lei annaspava. Poi la lanciò via, oltre la tua testa. «No!» Urlasti  e, per quel poco che potesti girare la testa, la vedesti atterrare oltre il tuo campo visivo. Ti sporgesti lateralmente ma ti dovesti rigirare che sentisti Gemini coprire la distanza tra voi: «E ora a noi due!» Esclamò allungando la mano verso di te. Tuttavia, prima che ci riuscisse, una macchia nera, fucsia, bianca e blu gli si lanciò addosso, scavalcandoti con un balzo e un ruggito di rabbia. Per la sorpresa Gemini cadde a terra sulla schiena in un clangore metallico. Con tua grande sorpresa riconoscesti che era la civile. L’uomo l’afferrò di nuovo e se la tolse di dosso. Stavolta però la ragazza fece una capriola all’indietro e si rialzò. Le mani tese verso di lui in una posizione simile a quella d’attacco dei marzialisti. Il fiato grosso per lo sforzo.
«Ancora tu!» Esclamò Gemini esterrefatto, prima di fulminarla un’altra volta con lo sguardo, ottenendo soltanto un piccolo scatto indietro, ma nient’altro. «Eh, no! Questo è il mio sogno, quindi vinco io!» Esclamò la tua accompagnatrice.  
«Illusa, vorresti batterti te contro di me?»
«Sì! Non ho paura di te, brutto pallone gonfiato! E ti avverto, non è la prima volta che faccio a botte!»
Dalla padella alla brace. E le urlasti di fare attenzione: Gemini l’avrebbe uccisa senza pensarci due volte. Quest’ultimo sorrise e chinò il capo. Schioccò la lingua contro il palato prima di cominciare a ridere, dapprima sommesso e poi sempre più sguaiato. Fino a reclinare il capo all’indietro e le mani contratte in pugni.   

Cosa che fece scattare leggermente in avanti la giovane, che, comunque non abbandonò la posizione. «Stai indietro, non è la tua battaglia!» Continuasti tu.
«É sempre la mia battaglia quando si tratta di proteggere qualcuno», rispose lei con voce tremula nonostante l’ira. Era evidente che cercava di non lasciarsi sopraffare dalla paura che le faceva tremare le braccia e le gambe.  

«Non è il momento di fare l’eroina! Vattene!»
«No!»
«Dovresti ascoltare il tuo amico, ragazzina». S’intromise il Saint in tono lugubre,
«Io non sono una ragazzina! Io sono il Fuoco e ti brucerò fin dentro le ossa!» Lo minacciò di rimando alzando la voce.
Ok, era partita di testa. Ricominciasti a lottare contro la ferita che t’impediva i movimenti, ma improvvisamente vedesti una luce arancione accendersi davanti a lei. Credesti che fosse un attacco di Gemini. Facesti per gridarle di stare attenta, tuttavia una linea fiammeggiante si fece largo sulle sue braccia, raggiunse le sue spalle e scese sui fianchi su cui divamparono piccole lingue di fuoco. «Che diavolo…» Borbottasti mentre l’altro trasalì intanto che lei abbassava le braccia. Le spalle che si alzavano e si abbassavano. Il suo respiro profondo ti ricordò tanto un mantice, come se andasse ad alimentare le fiamme che si propagavano sempre di più sul suo corpo e scendevano sul buio attorno a voi, andando a creare una barriera di lingue di fuoco come non ne avevi mai viste. Neanche con Ikki.
«Da questa barriera tu non passerai!» Promise la tredicenne.
«Credi sul serio che basterà il tuo Cosmo appena più alto della media per battermi?» La schernì il Saint, ritrovando presto la sua baldanza. La voce che, ancora una volta sembrava provenire da un punto vicinissimo a te.
Poi le lanciò l’Alienazione dei Cinque Sensi, ma le fiamme brillarono con sì tanta intensità da rimandare indietro l’attacco, cancellando le risa del vostro avversario.
«Te l’ho detto, tu non puoi passare». Ribadì la tua alleata scandendo bene le parole, mentre osservavi tutto a occhi sgranati.
Attorno a voi la temperatura s’innalzò come se vi trovaste all’interno di un vulcano. Non avevi mai sperimentato la sensazione, ma doveva essere così, visto la paura e il calore sempre crescente.  

La giovane abbandonò la posizione, riunì aggraziatamente i piedi e alzò le mani, i palmi rivolti verso l’alto. Improvvisamente attorno a voi si innalzarono delle colonne di fuoco che cancellarono il sorriso del vostro avversario in via definitiva. «Non preoccuparti, Seiya, adesso ci penso io». Ti promise guardandoti sopra una spalla, prima che Gemini domandasse: «Come è possibile? Sei una Saint anche tu?»
Ma la mora non rispose.

Poi, partì all’attacco alzando le braccia di scatto. Le fiamme s’innalzarono e si lanciarono addosso al Cavaliere che saltò via. Ma la tredicenne non gli dette tregua. Si vedeva che non c’era abituata e che si stava sforzando. Che le controllava tramite le mani che muoveva in un modo che non avevi mai visto; era come se ballasse. Poi, Gemini rispose con il Galaxian Explosion che la giovane vanificò opponendo una serie di meteore di fuoco: «Ti piace questa, Seiya? L’ho chiamata Flame Ryuseiken!» Che andò a colpire i pianeti della sua tecnica e ridurli in briciole fiammeggianti. 
«Non può essere!» Esclamaste tu e Gemini in coro, mentre la ragazza si rialzava e sogghignava: «E non hai ancora visto niente». Poi Il Saint cambiò tattica e le si lanciò addosso scontrandosi di nuovo con la sua barriera fiammeggiante. «Le tue fiamme non sono niente per me!» Fece aprendosi un varco con il Cosmo: «Ah, sì? Vediamo questo: Solar Flame!» Urlò e il vostro avversario fu investito da una potente ondata di calore e fuoco. Ma neanche questo bastò. Arles fu veramente un osso duro anche per te. Ma più combattevano, più lei si girava a controllare che stessi bene e non capivi perché.   
«Non puoi battermi, ragazzina!» Sogghignò Gemini gonfiando il suo Cosmo. Lei digrignò i denti e fece per scagliarglisi addosso di nuovo. Ma improvvisamente si bloccò e si volse verso di te e guardarti perplessa, prima che Gemini richiamasse di nuovo la sua attenzione. «Stai attenta!» Urlasti di nuovo tu ma lei, dopo aver guardato lui e poi di nuovo te schioccò le dita ed esclamò:

«Ho capito!» Gli occhi accesi di una nuova consapevolezza.
Gemini sgranò gli occhi e urlando «No!» Le si lanciò addosso, che fu di nuovo costretta a girarsi e a respingerlo con una barriera di fuoco ancora più grande della precedente. Allontanandolo sempre più di qualche metro mano a mano che lei spingeva.  

«É assurdo, non mi lascerò sopraffare da una banale Bronze Saint!» Urlò Gemini proteggendosi la faccia con le braccia. Ma anche così lo sentiste benissimo, mentre la ragazza si girava verso di te. Perché?
«Io non sono una Saint. Io sono una strega!» Esclamò prima di spingere un’ultima volta, allontanandolo quel tanto che bastò per toglierselo di torno. Smise di bruciare il Cosmo e si volse verso di te. Ogni interesse per Gemini perduto. Poi, guardandoti con una strana luce negli occhi urlò: «Tornatene da dove sei venuto, spirito maligno, Solar Light!» Dopodiché tese le braccia verso di te e la luce ti si abbatté addosso, costringendoti a chiudere gli occhi con un gemito di dolore. Aprendone una fessura te la vedesti arrivare contro. Sgranasti gli occhi: «No, ferma! Non sono io il nemico!»
Tese una mano verso di te, spingendo il niente. L’aria s’increspò producendo un bagliore biancastro e raggi di luce dello stesso colore.
Gemini urlò come te, alle spalle della ragazza. La quale ruggì a sua volta per darsi la carica e premere quella luce verso di te, dentro la tua testa. Non capisti che stesse succedendo finché non sentisti il suo palmo sulla fronte e la sua voce assordarti: «Torna da me, Seiya!»
Trasalisti. Poi la luce annichilì ogni tuo pensiero.

 

Aldebaran

L’idea che Kanon avesse scelto tua moglie come ultimo baluardo di difesa non ti faceva impazzire proprio per niente. Avresti preferito mille altre opzioni a questa, ma la tua parola non contava nulla. Stando a Kanon, che era salito sull’Altura delle Stelle per divinare gli astri, Shaina era colei che avrebbe dovuto scontrarsi contro il suo predecessore.
«Così hanno deciso le stelle. Solo un altro Ophiuchus può combattere contro l’Ophiuchus». Ribadì. 
Cercasti aiuto in Saga, sottoforma di civetta, ma anche lui confermò quanto predetto dalla Dea Artemide.
«Ma è una follia!» Ruggisti tu alzandoti in piedi di scatto, quando ti convocò per parlartene. Non ti stava chiedendo il permesso, era ovvio che la sua decisione fosse già presa, eppure non potesti impedirti di reagire così. Ma cosa ne poteva sapere Kanon di cosa si provava a sentirsi dire una cosa simile? Cosa ne sapeva dell’amore che provavi per la tua consorte? Non capiva che dirti questo era come chiederti di strapparti il cuore dal petto con le tue stesse mani?
Il Patriarca non rispose e tu non potesti fare altro che guardarlo sbigottito. Ispirò e poi ti ordinò: «Sarai tu ad addestrare Shaina di Ophiuchus affinché risvegli il Settimo Senso».
«Non potete chiedermi una cosa del genere».
«Purtroppo posso eccome, Aldebaran. Non fraintendermi, capisco perfettamente cosa ti leghi a lei, ma l’amore per la Dea vengono prima di ogni cosa. Non credo che sia necessario che te lo ricordi».
«No, Signore, però mi state chiedendo di sacrificare la mia consorte in nome della vittoria.»  Facesti, controllando a stento la voce. Avresti voluto mandarlo a quel paese come meritava, perché Kanon non importava niente dei vostri sentimenti. Era già tanto che concepisse il rispetto, la devozione e la fedeltà per la Vostra Dea. Ma ora, sperare che ciò avrebbe contribuito ad ammorbidire il suo cuore era chiedere troppo.  
«No, Aldebaran, se così fosse avrei spedito direttamente Shaina sul campo e senza preparazione alcuna. Neanche ti avrei avvisato e ordinato di diventare il suo maestro».   

«Farò del mio meglio, Gran Sacerdote». Garantisti già sapendo che sarebbe stata un’impresa. Povera Shaina, il Gran Sacerdote aveva deciso di sacrificarla per il bene di tutti voi. Decidesti di non dire niente a Yoshino per evitare di turbarla ancor di più. Tua moglie, invece, quando glielo riferisti, dapprima reagì con incredulità, poi, rendendosi conto che non c’era altra scelta, rabbrividì. Si raccolse le braccia al corpo e tremò. Ti venne istintivo posarle le mani sulle spalle e cercare di rassicurarla. Alla fine lei disse: «Se è la Dea a chiederlo, allora lo farò».  
E l’allenamento era cominciato.

Non senza difficoltà. Tu c’eri arrivato da solo a sviscerare i segreti del Cosmo. Non pensavi che fosse così difficile per una persona normale. Avevi dimenticato che, per quanto tua moglie fosse intelligente, non era un genio come te, Aiolia, Mur, Milo, Camus e Shaka.

«É inutile, non ce la faccio!» Esclamò lei abbattendo un pugno a terra aprendo una piccola depressione.
«No, non è inutile, sei sulla buona strada». La incoraggiasti, stringendole la spalla con la mano. Mano che lei coprì con la sua, più piccola e, distolse lo sguardo verso sinistra. La maschera inespressiva nascondeva la sua espressione frustrata.
Non eri un granché come insegnante, dovesti ammetterlo. Tu, come Milo, Camus, Aiolia, Mur e Shaka, avevate fatto tutto da soli, spinti dal vostro istinto e dalla voglia di conoscere, eravate dei geni. Si dà per scontato che i geni riescano a spiegare ciò che a loro viene naturale, ma non era il tuo caso. Tu non eri mai stato un maestro di oratoria. Avevi scoperto di saperti esprimere meglio di quanto pensassi da quando eri diventato padre. Ma Shaina non era tua figlia, non potevi rivolgerti a lei come con la vostra bambina. E, conoscendo il suo carattere forte e orgoglioso, non ti sentivi di sminuirla.
Le incorniciasti il volto coperto dalla maschera con la mano e le carezzasti i capelli neri, adesso verdi di Cosmo, con il pollice. Ma quella maschera di freddo metallo ti impedì di assaporare a pieno il dolce tepore di quella pelle tanto amata. Questa era l’unica cosa che ti dava fastidio. «No, scusami tu, sono io a non sapere come poterti aiutare».
Lei ti guardò, da dietro la maschera, stupita. Era rarissimo sentire un Gold Saint ammettere le proprie debolezze. Posò la mano sul tuo polso, nel tentativo di infonderti coraggio. Tuttavia la sua voce rotta e lamentosa tradiva tutta la sua paura. Era evidente che fosse prossima alle lacrime: «Vorrei essere abbastanza forte per poter sostenere sulle mie spalle la fiducia che riponete in me, ma non… non so se…». Confessò prima che le parole le morissero in gola e chinasse il capo, lasciandosi sfuggire un piccolo gemito di pianto.
Cercasti di rassicurarla: «Non dire così, sei una Silver Saint tra le più potenti che conosca. Tu, da sola hai contribuito a proteggere il Santuario quando non c’eravamo noi Gold e, hai aiutato i Bronze nell’epurazione dal male. Mi hai aiutato a crescere nostra figlia e a proteggere questo mondo, hai sconfitto un Senza Volto».
«Ma era diverso, allora non mi sentivo così debole e non avevamo il problema delle Creature. Mi sento un fallimento come Saint al punto che temo che la mia cloth mi abbandoni per la vergogna».
Poi scoppiò davvero in lacrime.
L’abbracciasti, cercando di trasmetterle tutta la forza e l’amore che provavi per lei. Non aveva davvero idea di quanto in realtà fosse forte e meritevole di ammirazione. Era giunta da te a pezzi, ma anche se esausta, non aveva perso la forza per combattere e la voglia di vivere. Posasti una mano tra le sue scapole e l’altra sul suo capo, poggiato sul tuo petto, proprio dove batteva il cuore. Che apparteneva anche a lei.
La tenesti stretta a te finché non si calmò e non si sentì di nuovo pronta per lottare. «Scusami per lo sfogo, non dovrei essere così frignona». Si scusò, detergendosi inutilmente gli inespressivi occhi della maschera, mentre l’aiutavi a rialzarsi. Per quanto fosse buffa, però, tu la osservasti con tenerezza. «No, va bene, non devi scusarti di nulla; questa è la prova della tua forza, sarebbe sciocco se tu non lo facessi».
Lei rise divertita: «A volte dimentico quanto sei saggio».
Sorridesti per il complimento e le stringesti una spalla: «Non sono saggio, però riconosco il valore delle persone e credo in te, nella tua tenacia, nel tuo Cosmo e nella tua forza. È solo questo che conta». Ribattesti umile. “E ho ancora parecchia strada da fare, prima di potermi ritenere saggio”.
«Ma io non sono potente come Calliope della Lyra».
«Non occorre che tu guardi a Calliope per cercare la tua forza, devi puntare ancora più in alto, perché più in alto punterai, più riuscirai nella tua impresa. Punta alla Luna perché male che vada potrai dire di aver camminato tra le stelle».
Lei sorrise dietro la maschera. «Dove l’hai sentita?»
«Era la dedica di un libro che trovai molto tempo fa in una biblioteca a Tokyo». Sorridesti contento di sapere che l’aveva rinfrancata.
«É bellissima». Ammise, sempre sorridendo. Almeno un po’.
«Ma è vera; io credo sul serio che non ci sia nessuno più meritevole di te per raggiungere la Luna. Non pensare ai mille modi in cui un Gold Saint può sconfiggerti, per favore. Pensa piuttosto ai modi in cui tu potresti sconfiggere lui».
«Non è così facile, non è una missione come le altre. Fa sembrare una sciocchezza ogni cosa, persino la battaglia contro Poseidone». Fece stringendosi nelle spalle. Che ti ricordavi che fu mandata lei come messaggera per le armi di Libra e, che ti raccontò anche di come avesse attaccato invano Poseidone e di come avesse fatto scudo con il suo corpo a Seiya per evitare che venisse colpito dalla sua stessa freccia. 
«No, però dovresti smettere di pensare a te stessa come alla ragazza che protesse Seiya, tu non sei destinata a essere solo un puntaspilli, amore mio. Tu sei una grande Guerriera ed è anche grazie a te che abbiamo vinto molte battaglie. Sì, non fare quella faccia», che potevi intuire dietro lo scatto che ebbe, «se non fosse stato per te, Seiya e non sarebbe mai sopravvissuto ad Aiolia e la Dea non avrebbe fatto ritorno al Santuario, se non fosse stato per te, Castalia sarebbe potuta essere attaccata sulla scalinata delle Dodici Case. Non so se hai una minima traccia del potere di Odysseus dentro di te, ma c’è qualcosa che ti rende affine a lui in quanto medico; perché tu per prima hai contribuito a togliere il marciume dal Santuario e hai contribuito alla sua completa risanazione. Se tu non ci fossi mai stata, probabilmente a quest’ora saremmo caduti da un pezzo sotto Arles. Io ho sempre pensato questo di te; perché prima ancora di Seiya, arrivavi tu, forse senza neanche accorgertene».
«Non è così, c’era anche Castalia».
«É vero, ma lei serviva solo a vedere il problema, colei che indicava la via per la guarigione sei sempre stata tu».
«Quindi stai dicendo che in un certo senso io sono una guaritrice?»
«Sì, io la penso così».    
Ti fissò a lungo in silenzio, completamente immobile. Ma a tal punto che credesti si fosse pietrificata. Poi si rianimò. «Queste sono forse le parole più belle che mi siano mai state dette» disse commossa. Ti abbracciò e ti ringraziò con voce accalorata e piena di gratitudine e di amore. Tu ricambiasti e, un sorriso affiorò sul tuo volto. Forse non era vero che non avevi un minimo di talento come credevi.        


Quella notte ti svegliasti e scopristi di essere da solo nel letto. Ti rivestisti e andasti a cercare tua moglie. Non era nella camera di Yoshino, che a volte vegliava sul suo sonno, quando aveva gli incubi. Da lì percepivi solo il Cosmo placido e tranquillo della vostra bambina immersa nel mondo dei sogni. Almeno stanotte. La notizia della morte della sua migliore amica l’aveva mandata in crisi. Era come se si fosse spenta. Si era chiusa in sé stessa a causa del dolore, come quando credette di aver perso Shura. Poverina, avevi un’immensa pietà per tua figlia. Se solo fosse stata una bambina normale, non avrebbe mai dovuto versare tutte le lacrime per la morte di chi amava. Perché la Dea amava i suoi seguaci e voi amavate la Dea. Ma il rapporto che legava Astrid e Yoshino era diverso ancora, forse Astrid era veramente la persona più vicina ad Atena, anche se non lo sapeva. Perlomeno a un’Atena.
Anche la piccola Natasha era triste di aver perso due delle sue compagne di giochi. Se Hyoga non fosse stato sicuro che la sua piccolina fosse stata più al sicuro qui, probabilmente l’avrebbe fatta spostare altrove.
Ad ogni modo il discorso che avevi fatto a Shaina sembrava averla spronata a migliorarsi ancora. La percepisti meditare nel Giardino della Seconda. Decidesti di non disturbarla, non sapendo quanto fosse progredita o se stesse avanzando nella sua conoscenza del Cosmo. La via di Seiya e dei suoi fratelli per risvegliare il Settimo Senso non l’avresti augurata a nessuno, tanto meno a lei. Forse era anche per questo che non riuscivi a insegnarle come avresti dovuto. L’idea di farle del male ti dilaniava il cuore. Anche se sapevi perfettamente che lei non si rompeva così facilmente, non era giusto. 
Ti versasti un bicchiere d’acqua e bevesti per calmare un po’la sete.
Poi, dacché la preoccupazione t’impediva di tornare a dormire serenamente, decidesti di fare un salto alla Prima Casa a vedere come se la stesse passando Kiki. Era da quando era salito alla Tredicesima Casa per pregare che non l’avevi più visto. Cioè, sì, l’avevi visto tornare, ma poi si era rintanato nella sua Casa e da lì non era più uscito. Anche se non lo ammettevi eri preoccupato. I Lemuriani si erano letteralmente barricati in Casa.
Forse era arrivato il momento di andare a trovarli. Tornasti in camera, ti mettesti qualcosa addosso e poi, andasti. Non prima di aver gettato uno sguardo alle piantine che vi aveva portato Astrid dopo il Chrysos Synaigen. Non ti eri accorto che erano fiorite e che erano dei pentolini blu alla luce della Luna che filtrava dalla finestra. Sorridesti divertito pensando che fossero delle piccole orchidee bianche e invece… Scuotesti il capo e ti avviasti alla Casa del tuo amico dello Jamir e della sua famiglia.  Chissà, magari avreste potuto bere qualcosa. Quello che non ti aspettasti appena uscisti dalla Seconda, fu di vedere le luci della Prima completamente accese. “Cosa?” Pensasti stupito. Stupore che si accrebbe quando percepisti il ribollire di vita e attività al suo interno. Sensazione che si amplificò a ogni gradino sceso e, che ti avvolse quando entrasti. E questo che cos’era? Sembrava di essere al mercato!
Un gran via vai di persone affollavano il corridoio di passaggio e, facevano avanti e indietro in un allegro vociare che ti ricordò più una festa. Tra loro riconoscesti saint d’Argento e Bronzo, oltre a qualche Black Saint. Che diavolo stava succedendo? Avevano forse aperto un mercato? Ti recasti nella stanza dove gli Arieti riparavano le Armature e lì trovasti Kiki, che aveva appena finito di parlare con un giovane. Gli dette una pacca sul braccio e poi lo congedò, solo allora ti vide, incorniciato sulla soglia e incapace di spiccicare parola. Invece di riderti in faccia, sollevò le sopracciglia ovali e ti venne incontro, salutandoti. «Oh, Aldebaran, qual buon vento?» Domandò pulendosi le mani sui pantaloni.

«Kiki», lo chiamasti e il giovane ti sorrise leggermente divertito e continuò: «Non mi aspettavo una tua visita a quest’ora, è forse successo qualcosa? Oh, ti abbiamo forse disturbato? Perdonaci, non era nostra intenzione…» Si scusò ma tu lo interrompesti
«No, no, figurati, non riuscivo a dormire ma tu? Che cosa sta succedendo qui?»
«Sto cercando di fare il mio dovere di Saint». Rispose e gli occhi schiariti sul pervinca per via della luce, lanciarono un brillio di determinazione. Come? Ma se non aveva mai accettato le condizioni della Dea! Improvvisamente lo vedesti per quello che era: sconfitto, sì, ma non impotente. Proprio come il fuoco che ardeva nel suo sguardo. Un’evoluzione dello sguardo che aveva quando era solo un pestifero ragazzino di appena otto anni. Indomabile allora, indomabile ancora. «Davvero?» Chiedesti sorpreso. Eppure non avevi visto tracce di oricalco e polvere di stelle. Non c’era neanche il Bronze di Sculptor. «Oh, sì, io e i miei maestri abbiamo intenzione di ricreare la barriera di luce». Ribatté orgoglioso.
«Ma hai sentito cosa ha ordinato Kanon?» La barriera non aveva funzionato già una volta, non aveva senso riprodurla.
«Sì, certo». “E me ne infischio allegramente. Diglielo pure, quando lo vedi!” Replicò allegro voltandoti le spalle. La lunga chioma rossa che sventolava lateralmente a ogni movimento. E tu gli ricordasti dell’ultima volta, mentre lui si avviava al tavolo ingombro di progetti e roba ammassata in modo confusionario. «Perché era la prima volta che provavamo quest’incantesimo. Abbiamo commesso tutta una serie di errori fondamentali l’altra volta, ma adesso sappiamo come eseguirlo alla perfezione!» Esclamò allegro mentre scartabellava alla ricerca di qualcosa e tu ti avvicinavi a tua volta.  Poi, trasse un rotolo dal mucchio e fece largo sulla scrivania per poterla srotolare senza problemi. «Guarda qui», T’invitò e tu eseguisti per spalancare gli occhi: era una planimetria del Grande Tempio: Ma era segnata da una rete in rosso. Qui e là appunti vergati frettolosamente nella sua lingua natia andavano a spiegare e rinforzare la teoria. Era come se avesse disegnato una voliera attorno al Santuario. Altri invece erano stati segnati con una riga o cancellati completamente da una mano arrabbiata e frustrata. Altri ancora erano stati aggiunti a lapis o con dei post-it.
Era molto diversa dal cerchio magico fatto di luce e sigilli che avevate tracciato, questa sembrava una gabbia vera e propria. «Che cosa…?» Iniziasti e lui ti raccontò tutto il piano. A ogni frase uscita da quella bocca, tu eri sempre più sconcertato. Poco prima di rasentare lo shock. «Ma è… Siete sicuri? Non è pericoloso? La Dea lo sa?»
«Sa già tutto e ci appoggia, ha detto che vuole scendere in campo anche lei. Naturalmente Shiryu e Shun e tutti noi saremo al suo fianco». Almeno una rassicurazione. Poi un brillio sulla sua sciarpa catturò la tua attenzione. Sembrava una spilla, ma non ne avevi mai vista una di questa foggia e forma. Non avevi mai avuto a che fare prima con l’arte dello Jamir. Ma eri quasi sicuro che fosse un simbolo cristiano. E lui non lo era di sicuro, per questo vedere quel tao sulla sua sciarpa ti fece strano. «Che cos’è questo?» Domandasti accigliandoti, indicandoglielo. Lui seguì il tuo sguardo e sorrise dolcemente. I suoi occhi, da quel poco che riuscisti a vedere, si velarono di nostalgia e tenerezza. «Un ricordo di una persona importante». Tuttavia rispose con la voce ferma che gli avevi sentito solo in occasione della Guerra Sacra contro la Dea Artemide.
«Posso vederla?» Chiedesti e il Cavaliere della Prima Casa la slacciò dalla sciarpa bianca e te la porse. Una volta che l’avesti vicina capisti che non era un simbolo cristiano. Raffigurava un rapace ad ali spalancate, colto nell’atto di volare. La testa, che guardava davanti a sé era cinta da una corona di piume come un’aureola. Girandola potesti osservare anche il becco ricurvo controbilanciato  dalla cresta sul capo. Le zampe lunge e la coda che si apriva rivelando delle timoniere simili alla coda di un pavone. Era completamente d’oro ed era un oggetto molto pregiato. Glielo restituisti, ammirato: «É molto bello, a chi apparteneva, se posso chiedere?»
«L’ho fatto da solo». Rispose allacciandolo di nuovo all’indumento.
Restasti basito a questa rivelazione, non sapevi che il Cavaliere della Prima Casa, oltre che a riparare Armature, forgiasse anche oggetti di pregio. «Sei molto più abile di quanto immaginassi».    
«Grazie, Signore».

«Una credenza della mia nazione, vuole che ogni cosa abbia il suo contrario e, che, in natura, esistano sempre dei predatori per ogni cosa, è una vecchia credenza del continente Mu ma ho pensato che potesse funzionare anche in questo caso. Se riuscissimo a distribuire quanti più talismani possibili, potremmo circoscrivere l’area di influenza di Odysseus e al tempo stesso…»
«Proteggere anche mia moglie». Completasti tu, sbalordito.

«È più che altro un talismano, serve per scacciare gli spiriti maligni». Spiegò Kiki.
«Potrebbe funzionare anche su Odysseus?»
«Dovrebbe».
«Che cosa rappresenta? Non somiglia per niente allo scettro di Nike». Facesti osservandone la forma e la fattura. Il giovane fabbro confermò e ti spiegò tutto. Cioè che l’uccello che aveva forgiato era: «Il predatore naturale dei serpenti nelle savane africane».
«I serpenti delle savane hanno dei predatori?» Chiedesti sorpreso. Non eri ferratissimo in materia, però non pensavi veramente che anche quegli aspidi velenosi fossero braccati da altri animali. Ma più di ogni altra cosa, come aveva fatto Kiki a scoprire il contenuto della visione avuta da Kanon sull’Altura delle Stelle?
«Sì».  

«Come si chiama?» Domandasti.
«Uccello Segretario, non è il primo che forgio, ma a Rodorio stanno spopolando abbastanza. Oh, non fraintendere le mie parole, non ho alcuna intenzione di lucrare su questa disgrazia, voglio soltanto mettere al sicuro quante più persone possibili». Si affrettò a dire, ma tu non stavi affatto pensandolo.
Inarcasti un sopracciglio con aria scettica. «E tu credi che questi talismano possano farlo?»
Il giovane lemuriano scrollò le spalle: «É una credenza della mia terra natia, basata sulle forze contrapposte. Noi crediamo che due cose uguali siano destinate ad annullarsi a vicenda, mentre due forze opposte, se confrontate, riporteranno l’equilibrio. É una storia che ci portiamo dietro dai tempi dell’inabissamento del Continente Mu; si insegna nelle scuole e i lemuriani superstiti recentemente hanno trovato reperti archeologici che paiono confermare questa storia. Per questo pensiamo che il Gran Sacerdote stia giocando male le sue carte».
«Aspetta un momento, tu come sai che cosa pensa il Gran Sacerdote?»
«Me l’ha detto Aphrodite, ha ancora il vizio di intrufolarsi nella sala delle udienze». Spiegò laconico mentre ti mostrava i progetti e le immagini. Tu fino a quel momento non sapevi che covasse questo interesse. Eri contento che avesse trovato una nuova ragione di combattere, tuttavia lo rimproverasti: «Kiki, sai che cosa ha ordinato il Gran Sacerdote».  
E il giovane Aries dai capelli di fiamma girò la faccia verso di te, sfidandoti a muso duro: «Non m’importa, dobbiamo tenerci pronti per ogni evenienza. Anche se Shaina riuscisse a raggiungere il Settimo Senso potrebbe essere ridotta in fin di vita e noi potremmo essere troppo lontani per combattere in vece sua. Questi saranno la sua ancora di salvezza».

La sua veemenza ti lasciò senza parole. Forse dovevi smetterla di vederlo come il bimbo di otto anni che guidò Seiya e i suoi fratelli ad Atlantide sfruttando il suo olfatto. Ma quello sguardo, avevi visto uno sguardo così in un’altra persona, una persona dagli occhi gialli che sfidò il Chrysos Synaigen. Per un momento ti parve di vederla balenare fuori dai suoi tratti e, ogni cosa ti fu chiara. Capisti da dove la prendeva quella forza, perché si era rialzato e per cosa stesse incanalando le sue energie. Perché se Kanon aveva scelto di puntare tutto su una persona, Kiki aveva scelto di puntare sull’aiuto di tutti. Era meno rischioso della strategia di Kanon, ma ce la potevate fare.
E, comprendesti anche chi doveva rappresentare veramente quel talismano. Voleva combattere uno spettro con un altro spettro, sfruttando un legame trasversale rispetto a quello di Kanon. «Kiki, vieni, abbiamo bisogno di te di qua!» Lo chiamò Mur. 
«Arrivo. Prendi, Aldebaran». T’incoraggiò lanciandotene uno, che tu afferrasti al volo. Poi ti sorrise ed entrò nella stanza adiacente. Solo dopo ti accorgesti che appeso al muro c’era il ritratto di Regulus di Leo, il predecessore di Aiolia del Millesettecentoquarantatré.
Ti accigliasti, perplesso. Perché avrebbe dovuto tenere un dipinto simile nella sua fucina? Però non ci desti tanto peso. Dopotutto la Casa era sua, era libero di arredarla come più gli pareva e piaceva.
Uscisti dalla fucina e vedesti Mur seduto al tavolo della sala da pranzo che parlava fitto fitto con dei soldati illustrando con un dito la mappa del Santuario. Una tazza di caffè nelle mani dei soldati che ascoltavano attentamente e, a volte, annuivano.      

Altri soldati e civili che parlavo tra loro nel salotto della Prima. Non avevi mai visto una cosa simile. Ma vedendo la speranza che muoveva queste persone, non potesti fare a meno di pensare che, anche tu non dovevi arrenderti. Per questo da quel momento in poi riprendeste l’addestramento calcando la mano più di prima. Tanto Shaina non si rompeva facilmente a dispetto dalle apparenze.    

La conquista del Settimo Senso non era facile, ma lei ce la stava mettendo tutta. I progressi stavano cominciando ad arrivare. A volte anche Yoshino restava a osservarvi mentre cercavi di insegnare alla tua consorte. Quando lei aveva saputo che cosa aveva ordinato la Vostra Dea, si era subito sentita in pena per la mamma. «Già il signor Shura ha perso un braccio una volta nel tentativo di fermare il Gran Dio Zeus, ora questo, non potete chiedermi di non essere angosciata». Vi aveva detto. 
In effetti l’aveva perso davvero, la cicatrice sul bicipite quasi non si notava più grazie ai dottori e a Yoshino, che gliene aveva donato uno nuovo grazie al Cosmo. Anche se Shura aveva insistito per restare monco a testimonianza del suo sacrificio. Ma Yoshino non ne aveva voluto sapere e così il povero Capricorn si era piegato, finalmente, alla Dea di cui sentiva di essere davvero il fedele servitore delle leggende. Sotto molti punti di vista Yoshino stessa era un miracolo. Aveva ridato a voi Gold della generazione corrotta quell’opportunità che non vi fu data. Servire colei che veneravate con tutti voi stessi. Anche se questo significava, in un certo senso, voltare le spalle ad Atena.  
Dovevate ringraziare lo stesso Shura se in qualche modo Yoshino non era crollata a causa del tradimento di Lancelot. Per questo sapere che aveva appoggiato il piano dei lemuriani ti aveva lasciato con un senso di straniamento addosso. «Ad Astrid sarebbe piaciuto di sicuro, almeno in parte, dall’altra avrebbe detto che è una follia». Già, il Gold Saint di Ophiuchus che era diventata la sua migliore amica. «Magari ha ragione, magari è una follia, ma voglio tentare lo stesso per motivarmi e sentire che lei è ancora qui». Spiegò Yoshino stringendo al petto il ciondolo dell’uccello segretario che aveva forgiato Kiki e, che solo in quel momento notasti.
Tu le sorridesti lieto di saperla di nuovo più sicura.

E la notte della battaglia giunse con le sentinelle che dettero l’allarme e l’esplosione del Cosmo del Cavaliere di Ophiuchus.
Fu immediatamente accesa la meridiana dello zodiaco. Anche ora faceva uno strano effetto combattere qualcosa di interno al Grande Tempio onde evitare che uscisse dalle Dodici Case come un miasma.  
Subito la voce del Venerabile Shion irruppe nella tua testa: “Presto, recati tra l’Ottava e la Nona e unisciti agli altri!” E, tu obbedisti correndo alla velocità della luce. Un secondo dopo arrivarono anche il Saint della Balena e Shaina. Mentre gli altri Gold erano già lì. «E voi cosa ci fate qui?» Chiedeste tu e Sirrah ma fu Kiki a rispondere dicendo che servivano tutte le costellazioni dell’equatore celeste, non solo quelle convenzionali. Per questo tra loro riconoscesti anche Jabu, che per l’occasione era stato richiamato a indossare la cloth di Unicorn, un Saint dall’aria benevola ma al tempo spettrale che doveva essere quello di Eridano, Nicolas di Orion, il Saint di Canis Minor, Ichi dell’Idra, Rei del Sestante, il Saint di Serpens e Castalia dell’Aquila, disposti tra gli spazi vuoti lasciati tra un Saint e l’altro. Per l’occasione Jehu e un giovane che Nicolas aveva salutato come Argaios, fecero rispettivamente le veci di Sagitter e Aquarius. In realtà i nomi te li dissero loro. Il loro arrivo aveva sollevato un polverone dal momento che nessuno di loro li aveva mai visti ma, indubbiamente erano cavalieri d’oro. Jehu con i capelli lisci, la pelle pallida e il pizzetto, esile, quasi mentre Argaios con i capelli castano chiaro un velo di barba sulle guance. Era più grande sia di Nicolas sia di Jehu. Dimostrava già venticinque anni mentre il giovane Cavaliere di Orione era sui diciotto con i capelli neri e gli occhi azzurri. Quello che colpiva di lui era che a guardarlo si aveva l’impressione di veder il muso di un leone sovrapporsi a quelli del suo volto glabro.
«Perché non vi abbiamo mai visto?» Chiedeva Aiolia.
«Ci ha mandati qui adesso il maestro Ikki, ha detto che potevamo aiutarvi, ma non ci ha detto perché». Rispose Nicolas, la voce traboccante di orgoglio al solo nominare l’erede di Leo.   
Ti ricordavi che ci fosse qualcuno che rispondeva a questi nomi nel gruppo social del Santuario, ma non pensavi che li avresti mai visti davvero.  
Ti collocasti tra Saga e Kiki dopo aver salutato questi nuovi arrivati, espandendo immediatamente il tuo Cosmo. L’alone d’oro andò a fondersi con quelli degli altri Gold ricreando il muro. Anche i Silver e i Bronze espansero i loro a rinforzare la gabbia, tratteggiando una serie di linee verticali di colori argentei e bronzei quelle orizzontali.
Il Venerabile Shion levitava sopra di voi e combatteva contro Lancelot. Odysseus invece vi osservava nel cerchio di pochi metri che avevate tracciato. Stavolta, ancor più di prima, eravate pronti a combattere come un sol uomo. Anche se il vostro Cosmo era in forte calo non v’importava, avreste ricacciato quello spirito maligno.     

«Avete di nuovo ricreato il muro di luce. Anche se sapete che questo non basterà a fermarmi». Costatò Odysseus chiudendo gli occhi, come se la vostra vista lo annoiasse. Il tono di chi parlava a dei bambini idioti.
«Forse è per questo che non ci arrendiamo mai!» Esclamò il giovane Nicolas con un impeto che lo portò a bruciare ancora il suo Cosmo e ti ricordò molto Seiya. Eppure le sue parole sortirono il loro effetto, che tutti bruciaste ancor più il Cosmo.
Sopra di voi Shion abbatté Lancelot, che cadde a terra come un sacco di patate.  

Il Cavaliere Maledetto lo guardò prima di tendere la mano e spostare Shion con la sola forza del pensiero. Vedeste il Venerabile lottare per opporsi al suo potere. Voi stessi, cercaste di impedirgli di bruciare il Cosmo, ma lui era troppo forte.
Improvvisamente però un dolce e sublime Cosmo si sollevò e vi sovrastò, annientando i vostri, permettendo così al Cavaliere Maledetto di avvicinarsi a Lancelot.
Vi giraste e spalancaste gli occhi nel veder arrivare la Dea in persona, scortata dal giovane Cavaliere di Pegasus.
«Milady!» Esclamò Shiryu, mentre i nuovi arrivati la osservavano stupiti. Osservasti i due Saint estranei: Nicolas mormorò qualcosa che non comprendesti e Jehu La osservava come se non la riconoscesse. «Mia Signora! Che volete fare?» Esclamò Milo.
«Tranquillo, Milo, voglio solo parlare con il Cavaliere». Rispose gentilmente la Dea Atena avanzando verso il campo di battaglia. E il tuo commilitone non poté fare altro che accontentarla, accompagnandola con lo sguardo, impossibilito com’era a rompere il cerchio.

La Dea passò tra di voi e si fermò davanti al suo ex Saint. «Atena». Salutò quest’ultimo trapassandola con lo sguardo serpentesco.
«Odysseus». Replicò la Dea, per niente intimorita.
«Cosa volete da me in questa notte? Non è questo quello che vi chiedo, ciò che chiedo lo sapete, voglio la mia allieva, allora perché me la nascondete e impedite che giunga a me? Perché m’impedite anche di andarla a cercare?»
«Odysseus abbandona la tua Cerca e torna nel Regno dei Morti. Tu non appartieni più a questo posto e neanche Astrid. Inoltre resuscitare qualcuno non rientra nelle mie capacità e, anche se lo fosse, non lo farei di certo. Chi è morto deve restare morto. Comprenderai bene che lei debba proseguire la sua strada. É tempo per te di abbandonare questi luoghi, non permetterò che tu commetta altre atrocità e sparga il terrore per il mondo». Comandò la Dea. 
«Capisco, a quanto pare non avete ben compreso la situazione; allora dovrò più essere più chiaro di così: riportate Astrid nel mondo dei Viventi e consegnatela a me, mi occuperò io della sua formazione». Replicò il Gold Saint Maledetto senza scomporsi.  
Aiolia e Milo digrignarono i denti, il rifiuto si leggeva benissimo sui loro volti. Se si trattenevano era solo per rispetto della Vostra Dea. La quale sospirò: «Mi addolora vedere che parliamo di due argomenti differenti».
«No, mia Signora, siete voi a non voler capire; Astrid non è morta». Rivelò il Saint. Sbirciasti in direzione di Kiki e lo vedesti guardare la scena incredulo, mentre la speranza si riaccendeva nei suoi occhi.
«Non dategli ascolto, Milady!» L’avvisò Sirrah. Già quello era un vostro nemico, chi mai sarebbe così stolto da fidarsi di una persona così? 
«Come?» Domandò Lady Isabel sgranando gli occhi e sussultando come se qualcuno le avesse fatto “buh”. Anche voi altri strabuzzaste gli occhi e prendeste a mormorare tra di voi.
«Forse non lo sapete, Dea Atena, ma la Luce Ombrosa non può morire nel vero senso della parola. Per questo chiunque le stia attorno fa di tutto per proteggerla. Se lei muore, muore ogni possibilità di salvezza per il Cosmo. Capirete che non posso permettere che accada e, più resta negli Inferi, più si accrescono le probabilità».   

«Mia Signora, il Saint sta dicendo la verità. Io sono capace di riconoscere una bugia».  Intervenne Shura. Nonostante ciò nessuno di voi abbassò il Cosmo.
Vi giraste a guardarlo gli occhi colmi di speranza e stupore: perché non ve l’aveva mai detto?
Shun confermò: «Posso vederla, è come dice Odysseus, si trova veramente negli Inferi». Esclamò guardandola sbalordita.
«Questo significa che Astrid…»
«É negli Inferi! Si trova negli Inferi!» Ripeté Aiolia come se quest’idea l’avesse partorita lui.  
«Ben detto, Gold Saint di Leo». Fece Shun in tono decisamente diverso. Lo guardaste e vedeste i suoi occhi azzurri diventare verdi e i suoi capelli fluttuanti scurirsi mentre il Cosmo scuro del Dio dei Morti cominciava a volteggiare attorno alla sua persona. «Hades!» Esclamò Aiolia arretrando di un passo per lo spavento, assumendo repentinamente la posizione d’attacco e un’espressione truce. Anche voi arretraste di un passo e il muro di luce si spezzò.
Ma né il Dio né il Gold Saint maledetto si scomposero: «Il Cavaliere di Ophiuchus rivuole la sua allieva. Ha avvertito anche lui il richiamo della Custode attraverso il Cosmo; credo che sia giunto il momento di andarla a riprendere». Dichiarò guardando le schiere della nipote divina.
«Andarla a riprendere?» Chiese Shiryu, in coro con Sirrah, il quale aggiunse: «E dove? Gli Inferi sono immensi!»  
«Shun…» Riuscì solo a dire Shiryu. Kiki invece sgranò gli occhi e domandò, con un misto di speranza e timore: «É viva?», ma prima che potesse ottenere una risposta, miriadi di domandi si sovrapposero l’una sull’altra. Tu stesso faticasti a porre la tua: «Come sappiamo che non è una trappola?» Non avevi mai dimenticato la Guerra Sacra, anche se eri stato ammazzato molto prima di potervi prendere parte.
«Sommo Hades», lo chiamò di nuovo Kiki e il Dio volse il volto verso di lui. Le mani giunte come in preghiera. «Astrid… Astrid è viva?» Chiese.
Il Dio lo fissò per qualche istante, prima di addolcire la sua espressione e rispondere affermativamente. «Sì, è viva». Se il giovane rosso chinò il capo e lo ringraziò, voialtri foste più pratici e gli domandaste spiegazioni: «Si trova negli Inferi, in questo momento sta combattendo assieme agli Specter per la sopravvivenza di tutti noi nella piana tra il Flegetonte e la Sesta Prigione».
«I morti non cantano». Bisbigliò Milo così dal niente  e tu lo guardasti accigliato, mentre sul suo volto si allargava lo stupore. Come se avesse appena fatto un collegamento sconvolgente con qualcosa. Ma lo udisti solo tu, per via dell’acustica e perché la sua frase era talmente fuori luogo da farti inarcare le sopracciglia bionde. Poi si rianimò e si offrì coraggiosamente: «Andrò io a recuperarla».
«Sei certo?» Domandaste. Il Dio dell’Oltretomba lo guardò incuriosito, sfruttando le iridi di Shun. Iridi d’acquamarina che Milo sostenne coraggiosamente: «Posso farlo. Ho risvegliato l’Ottavo Senso anch’io, posso discendere nell’Ade senza problemi». Garantì. Poi guardò la Vostra Signora e aggiunse, «Sempre che la Dea me lo conceda».
«Hai il mio permesso». Decretò quest’ultima. Prima che potesse dire altro Odysseus s’intromise: «Nel frattempo sospenderemo le ostilità tra di noi, se entro la prossima luna piena Astrid non avrà fatto ritorno al Santuario, prenderò la Vostra testa». I Saint più vicini alla Dea le si strinsero intorno. La Vostra Signora, invece, restò impassibile, a eccezione degli occhi ricolmi di tristezza.
Poi il Gold Saint si avvicinò. Scattaste tutti di un passo, tuttavia vi fermaste, perché si limitò a soccorrere Lancelot. Usò su di lui le sue arti e poi comandò ai suoi serpenti di trasportarlo via. I quali accorsero e obbedirono.
«Appena la Guerra con i Black Saint sarà debellata aprirò un passaggio per l’Altro Mondo personalmente». Legiferò il Dio dell’Oltretomba. Poi guardò il Cavaliere dalla lunghissima e spettinata chioma. «Ma a sancirne la fine per tempo non spetta a me». Gli ricordò.
La reincarnazione di Asclepius si limitò ad annuire e poi a guardare di nuovo la sua ex Sovrana e ricordarle il patto. Dopodiché vi dette le spalle e scomparve nel nulla, assieme ai serpenti e alla Cloth.
Azzeraste immediatamente il Cosmo e le Creature, finora tenute a bada da Sirrah e dagli spiriti precedentemente evocati da Shun, sciamarono via.

La Dea, dopo averle seguite con lo sguardo si girò verso il custode dell’Ottava e disse: «Bene, Milo, contiamo su di te, vai a salvare la Custode della Luce Ombrosa».

 

Camus
Il mughetto infero di Luco non sembrava aver attecchito. Anche se, tutti i giorni la giovane raccoglieva una manciata d’acqua con le mani e l’annaffiava, sembrava che non dovesse succedere niente. Non avresti saputo dirlo, non ne sapevi niente sui fiori e, non te l’eri sentita di coinvolgere nessun altro. Però speravi che fosse solo un’impressione iniziale, che la piantina avesse bisogno di abituarsi al nuovo terreno.
Che ironia, vero? Tu che ti ritrovavi a sperare per la rinascita di uno Specter. Bè, di questi tempi ce ne era bisogno. Le parole di Zaphiri di Scorpio e la scena della sua uccisione continuavano a restarti impresse e non se ne volevano andare. Non avevi mai seriamente riflettuto sulle parole di Lady Pandora a proposito di schieramenti e colori finché Zaphiri non era morto. E avevi pianto, poi, da solo, quando eri stato sicuro che nessuno ti vedesse. Avevi pianto per essere stato costretto a combattere contro il tuo predecessore e per non aver saputo aiutare un'altra persona. Zaphiri desiderava soltanto riscattarsi. Perché il Destino doveva essere così crudele? 
Sentisti Astrid rialzarsi e asciugarsi le mani sulla gonna del vestito nero. Adesso indossava anche la stola che era appartenuta a Menta ancora ricoverata. L’aveva allacciata diagonalmente rispetto al corpo e fissata alla cintura, di modo che simulasse un chitone sulla parte superiore del medesimo. Aveva detto che lo avrebbe custodito lei in vece di Menta finché lei non si sarebbe ripresa. E, ne aveva tratto giovamento, dacché in questi due giorni avevate scoperto che era grazie a quei veli che le Ninfe Stigie riuscivano a rendersi intangibili e a combattere. Questo era pure meglio di un giustacuore, che Astrid aveva tolto. Tu pensavi che fosse una pessima idea, visto che non si poteva mai sapere e, finora, Astrid non aveva mai attivato il potere di quella stola. Già, non avevi tempo per pensare ai morti, adesso dovevi pensare ai Vivi e la giovane bionda contava su di te. Non potevi deluderla così.   
Astrid, ignara di tutto, si sedette accanto a te, grata di non dover più congelare ogni volta che ti sfiorava.
Da quando ti eri dissetato con le acque del Flegetonte non avevi fatto altro che ripensare alla battaglia delle Dodici Case e alla tua fama. E, ancora una volta, fosti ben lieto di cambiare pensiero. Glaciale. Sì, tu, con Lo straniero del tuo omonimo, non avevi niente in comune. E meno male, ti avrebbe fatto impressione ritrovarti in un tipo come Meursault. 
Solo perché tu non avevi avuto bisogno di maestri - al massimo, i vostri insegnanti furono quei tutori che vi insegnarono a leggere, scrivere, far di conto e sbrigare per voi le faccende burocratiche fino alla maggiore età - non significava che fossi così. Tu eri solo indipendente. Non significava che non avessi chiesto aiuto per imparare anche a combattere gli effetti del freddo come l’ipotermia, o che non avessi dispensato a tua volta. Solo perché sapevi controllarti molto bene non significava che tu non avessi emozioni. Perché, se era vero che potevi controllare il ghiaccio e nella sua freddezza trovare la tua forza, adesso, avevi da riscoprire anche l’Acqua dentro di te. La stessa che ti permise di scatenare il maremoto che inabissò il relitto dove riposava il cadavere di Natasha. Avevi voglia di dirti che l’avevi fatto in nome di Atena, perché se Hyoga era davvero un Saint allora la prima persona per cui avrebbe dato la vita era Lei. Ma, sebbene nel giusto, avevi anche provato repulsa per te stesso, perché quello era pur sempre il corpo di sua madre. E l’espressione ferita di Hyoga era stata per te una stilettata al cuore: “Avanti, dimostrami che sei pronto, dimostrami che puoi farcela”, l’avevi pregato mentre trattenevi a fatica le lacrime, accigliandoti ancor di più, in quell’espressione truce che ti contraddistingueva.
Ma quel testone non l’aveva capito. La persona che per te aveva contato più di chiunque altro, era uno stupido obnubilato dalle emozioni. Ma forse era questo che ti attirava di questa risma e che ti aveva portato a pensare al suo bene più di ogni altra cosa, nonostante la depressione. Anche più di Milo che, in fondo, non aveva fatto che ammirarti e autoproclamarsi tuo amico e starti vicino, cercare di conoscerti. E le lacrime di Milo bambino le rivedevi riflesse in quelle di Hyoga quel giorno. A volte ti dispiaceva davvero non essere stato più aperto con il giovane Scorpio. Poi ci pensavi bene e ti dicevi che andava bene così. Poi, ti era parso di capire che Milo fosse andato avanti, se no, quando eri ritornato come Specter avrebbe sorretto te, invece di Saga. Avresti voluto scriverglielo qualche volta nelle lettere, ma non avevi mai trovato il coraggio di farlo. Di domandargli se si fosse fatto qualche amico, se fosse riuscito ad andare avanti. Perché sì, non avevi bisogno di chiederglielo. Per quanto fosse un sadico, spietato guerriero, era anche un uomo estremamente positivo, era ovvio che c’era riuscito. E, non eri neanche sicuro che ad Asgard ti avesse azzittito perché avesse capito.
Eppure sotto questo aspetto lo invidiavi.
Tu eri riuscito ad andare avanti soltanto negli Inferi, grazie a Valentine e a Fianna.
La verità era che Milo, orfano come te, si era appigliato a chi restava e restavi tu. Però aveva veramente vegliato su Hyoga e se ne era realmente preso cura. E tu ne eri rimasto sbalordito, quando il tuo allievo ti aveva raccontato chi avesse donato il sangue per far rivivere la Bronze Cloth del Cigno. Ed era sull’onda di queste emozioni che adesso certi interrogativi si risolvevano con un senso di turbamento per le parole dell’Azone al servizio di Hades. Avevi dimenticato cosa significasse essere come l’Acqua, Camus. L’acqua che il Flegetonte ti aveva ricordato di possedere nel tuo essere. Vero, Mago dell’Acqua? A proposito, come va la sete, Camus? Male, eh? L’Azone non ti aveva avvisato che, sebbene le acque del Flegetonte ti riempissero lo stomaco, non dissetassero neanche per scherzo. Avevano invece peggiorato la situazione. Non ricordavi di aver mai bevuto tanta acqua come in questi giorni.
Persino Astrid era preoccupata per te e, spesso, ti aveva guardato angosciata. Però avevi scoperto che, concentrarti su altro, aiutava abbastanza a sedare la tua sete vampirica. Sì è qui anche per scherzare, no? Ok, la smetto. A parte gli scherzi, se tu fossi stato un po’più aggiornato e avessi letto un po’di più, avresti avuto la maschera di Halloween bell’e pronta.  
«Sai, che avevo un osservatorio astronomico?»
«Davvero?»
«Non una cosa di chissà quale portata, in verità era assai rudimentale, me l’ero costruito sui monti vicino all’Altura delle Stelle. Ci andavo ogni notte per studiarle e verificare quante costellazioni o parti di cielo fossero scomparse». Spiegò con aria nostalgica, abbracciandosi le ginocchia, il naso ancora per aria. «Ci andavo di notte, mi illuminavo la via con una lanterna. Mi ero anche attrezzata, avevo lavorato a quell’osservatorio, anche se sembrava più un accampamento con tanto di focolare per scaldarmi. L’umidità e il freddo la facevano da padrone lassù. Ancora non ho capito come facevano a fare la ronda, ma tant’è». A volte alzavate il cielo per guardare l’inquietante volta celeste infera.
«A cosa pensi?» Le chiedesti mentre osservavate il cielo, entrambi con il naso per aria. Tu trovavi le aurore decisamente più attraenti. Questo cielo era statico. Non c’era altro modo per definirlo.
«Che da quando sono qui non ho mai osservato le stelle, anche se so che ci sono. É un peccato».
«Non sapevo neanche che quelle potessero essere classificabili come tali, pensavo che fossero cristalli».
«Tipo rubini e ametiste?»
«Qualcosa del genere, sì, dopotutto, il Flegetonte è fatto di lava e le gemme nascono anche dalla lava». Per quel che ti ricordavi potevano essere di origine vegetale, animale e minerale. Ma di origine vulcanica non ti veniva in mente niente.
«Non so, non sono ferrata in geologia». Ammise.
«Neanch’io. Però ho sentito dire spesso ai celti che queste zone abbondano di acquamarina, ametiste, agate e berilli». Facesti, ora che ti veniva in mente. Erano alcuni tra i migliori gioiellieri che si poteva sperare di incontrare, dopo i fabbri degli Specter e i Black Saint che non si erano uniti alla crociata contro di voi. Se non erravi, quel gruppetto sparuto guidato da un lemuriano, si occupava anche di intrattenere scambi commerciali con i regni Infernali limitrofi. Alcuni dei prodotti di sostentamento che vi arrivavano giungevano anche dall’Inferno di Lucifero, di Anubis e di Hela. Il cibo proveniente dalle terre dei Vivi era molto apprezzato ovunque ed era un eccellente punto di contatto tra i regni. Altra cosa che avevi imparato stando a contatto con Valentine. Nonostante ciò non avevate ancora altri alleati a causa dell’Azone di Hades che era rientrato in servizio da poco. Non ch le forze ctonie e quelle di Poseidone fossero insufficienti, al contrario.
Fu però la voce di Astrid a distoglierti dai tuoi pensieri, riprendendo il filo del discorso originario.       
«Io conoscevo quelle associate al fuoco, tipo i quarzi citrini, le kunziti, le corniole, la sodalite, i topazi , gli zirconi, i quarzi rosa, le pietre di luna e di sole… Ma le mie conoscenze si fermano qui, è già tanto se mi ricordo i nomi di queste pietre; era mia madre quella che le conosceva».
«Interessante. Credi che la volta celeste infera sia composta di cristalli?» Non avevi mai considerato prima questa ipotesi, con tutte le volte che avevi osservato il cupo cielo infero sopra di voi. Ma questo avrebbe reso il tutto meno spaventoso e, allo stesso tempo più terrorizzante tutto. Perché vi avrebbe ricordato quanto in realtà foste prigionieri. E, quest’idea ti spaventava più che mai. Distogliesti lo sguardo dalla volta concava.
«Non ne ho idea, ma sarebbe un colpo da niente se fosse così».
«Credi che lo siano?»
«No, sono stelle vere e proprie».
«Ah, pensi che le codificherai?» Domandasti poi, ma lei si limitò a stendersi in terra, le mani dietro la testa e osservare tutto. «Penso di sì, credo… Non so quanto mi convenga, voglio dire, tanto sono stelle che solo gli Specter e chi vive qui può osservare, no? Forse non ne vale neanche la pena, a meno che non volessi scrivere la Divina Commedia Due, La Vendetta». Scherzò ridendo divertita all’idea, dopo una pausa così lunga che tu ti dimenticasti persino di averglielo chiesto. La sua risata fu così contagiosa che ridesti anche tu. «In quel caso avresti già un lettore». Le garantisti, scoccandole uno sguardo pieno d’affetto e d’aspettativa: se era brava anche la metà di come si esprimeva, allora sarebbe stato un buon libro. 
Lei sorrise, grata, poi, piano piano, il suo sorriso si afflosciò e cambiò discorso: «Sarebbe meglio trovare invece un modo per far rifiorire quella pianta». Disse mogia.
«Già, sarebbe utile». Facesti tu, puntellando le braccia indietro per poter reclinare meglio la testa, tornando serio a tua volta.  
«Milady Astrid, nobile Camus». Esordì Aliena, interrompendo la vostra discussione e rompendo l’atmosfera di confidenza che si era venuta a creare tra di voi.
«Oh, salve Lady Aliena». Salutò la giovane di rimando, guardandola. Ricambiasti il saluto della Ninfa con un cenno del capo. «Cosa vi porta qui?» Le chiese la tua compagna d’arme.
«Avete saltato il pasto serale, pensavo che poteste avere fame», spiegò porgendovi il cestino da picnic che, finora era stato appeso al suo avambraccio. guardandola impietosita. Vi aveva trovati ancora in riva al ruscello dove aveva piantato il mughetto. Tu trovavi la compagnia della Ninfa Stigia una cosa strana e anche ipocrita. Prima dell’entrata in battaglia di Astrid non vi aveva mai rivolto la parola.
In ogni caso la ringraziò e cominciò a sbocconcellare un panino. La Ninfa Stigia si scusò dicendo che aveva già mangiato prima e tu, se lì per lì pensasti di rifiutare, cambiasti idea e mangiasti.
«Non sono triste, è che mi sembra di brancolare nel buio, sono tre giorni che cerco di scervellarmi per salvare i ragazzini, ma ottengo solo crisi d’ansia come non mai. Di questo passo temo che mi butterete fuori della tenda per avere sonni tranquilli.» scherzò amara.  
Aliena le scoccò uno sguardo impietosito, prima di avere un’idea e sorriderle. Lo capisti dal luccichio nelle sue iridi castane: «Milady, perché non venite con me? Forse lo so io come risollevarvi il morale, su, venite». Poi la prese per il braccio e la fece alzare in piedi. E, la trascinò, ignorando le sue fiacche lamentele. «Venite anche voi, Sommo Camus!» T’invitò tutta entusiasta. Tu le lanciasti un’occhiata perplessa. Astrid alzò le spalle e si decise ad accordare il passo al suo per non inciampare.
Le seguisti tenendoti un poco distante. «Dove stiamo andando?» Domandò la giovane cercando di guardare la sua ancella in viso. Ma costei non rispose. La cosa non ti piacque per niente.
In breve il cielo si colorò dei veri colori della notte. Astrid trasalì a quel fenomeno e cercò di guardarlo ma non ci riuscì perché il ritmo della corsa glielo impedì.
Ma non ti sfuggì il variare della luce intorno a voi. Dapprima come un piccolo dettagli di poco conto. A poco a poco avevi realizzato: la luce, i colori! Erano questi a essere cambiati. La luce era sfumata su tonalità argentee e, il paesaggio era virato sul blu della notte, abbandonando le tempestose sfumature viola, rossastre e purpuree cui eravate abituati. Guardando meglio ti accorgesti che persino le piante avevano qualcosa di diverso, di più vivo e dolce e meno terribile come quelle infere. Che la loro corteccia non sembrava dura come l’ossidiana e le loro foglie non avevano quella patina grigiastra come se fosse nevicata della cenere. I colori erano più vividi, gli odori erano più umidi, freschi, sapevano di sera estiva. Riconoscesti le erbe e le piante palustri tutto attorno a voi, mentre i rumori dello stagno creavano un dolce sottofondo musicale per le vostre orecchie.
Sollevasti lo sguardo stupefatto, sul cielo, domandandoti come fosse possibile un tale miracolo in un luogo come questo. A forza di stare qua sotto avevi quasi dimenticato il colore delle nubi durante certe notti estive, quando vengono colpite dall’argento dei raggi lunari. 
In breve tempo arrivaste in una zona degli Inferi che non avevate ancora mai visto.
Sembrava quasi di essere finiti dentro un quadro. Non ti saresti neanche sorpreso se fosse così, avevi sentito parlare anche tu del Lost Canvas.
I tronchi di ontani, betulle, tigli, platani, salici ed eucalipto svettavano come colonne verso la volta celeste, come se con le loro imponenti fronde avessero potuto sostenerla. Alcune lucciole svolazzavano qui e là accendendo l’oscurità di bagliori iridescenti e rivelando la presenza di specchi d’acqua circondati da erbe palustri e ninfee e altre piante acquatiche brulicanti di animali della superficie! Sgranasti gli occhi quando riconoscesti la sagoma di un airone cinerino in caccia.
Mentre le libellule pasteggiavano con i nugoli di moscerini e altri insetti, ronzandovi intorno e, le lucciole accendevano il paesaggio della loro luminosità fosforescente, facendolo sembrare ancora più magico.
Se tu avessi mai visto dei cartoni animati ambientati a New Orleans avresti detto che questo posto somigliavamo moltissimo a quelle paludi. Il Bosco entro cui vi stavate addentrando tenendovi tutti e tre per mano, neanche foste incastrati nel bel mezzo del carnevale e quello fosse l’unico modo per non perdersi, era immenso. In breve raggiungeste un luogo dove l’erba si fece più corta e arrivò appena a sfiorarvi le caviglie, a differenza di quella che aveva cercato di ostacolarvi, alzandosi fino alle ginocchia. Ma proprio perché aveva quest’aspetto, ti domandasti dove si nascondessero i suoi predatori. Dov’erano i coccodrilli e i serpenti? Solo per citarne alcuni, oltre a quelli più piccoli e insidiosi.
«Che meraviglia, che posto è questo?» Chiese colpita, rubandoti le parole di bocca, mentre vi guardavate attorno con aria smarrita. Anche tu mormorasti: «Non avevo mai visto questo posto».
«Quando il sommo Hades decise di ricostituire gli Inferi per adattarli alle nuove paure delle persone, luoghi come la Valle degli Asfodeli, la Caverna della Sibilla e il bosco di Ecate furono spostati più in profondità rispetto all’entrata del vecchio Averno. Ai lati delle Prigioni. Lì, noi Ninfe Stigie e altri abitanti dell’Ade trovammo rifugio. Quello che i peccatori conoscono è solo la parte marcescente della Palude ove sosta il signor Flegiàs con la sua zattera. Lui è sì il traghettatore, ma anche il guardiano dei confini del vero Giardino degli Inferi, curato dal signor Luco della Driade. Questo è il piccolo gioiello che Sua Maestà Hades preservò e custodì persino più gelosamente del suo stesso corpo divino. Luogo cui neanche la Sacerdotessa Pandora aveva accesso. Una volta, prima che il Sommo Ares chiedesse aiuto al Sommo Hades per vendicarsi di Atena e che tutte le Guerre Sacre iniziassero, non era difficile vederlo passare il suo tempo qui».
«Non credevo che negli Inferi esistesse un posto così bello. Ora comprendo come mai gli Specter non si siano ancora ribellati». Commentasti sorpreso.
«Oh, se è per questo molti di noi sono loro discendenti». Aggiunse Aliena, in vena di confidenze e, entrambi sgranaste gli occhi, sorpresi. Pensavate che gli Specter non avessero dei discendenti, ma che si reincarnassero e basta. «Io sapevo che le centootto stelle malefiche si reincarnano nei loro discendenti terreni, ma non mi ero mai chiesto da dove saltassero fuori queste stirpi».
«Non tutte le stelle malefiche hanno discendenti sulla Terra dei Vivi». Spiegò la Guardiana dello Stige con un sorriso astuto e una scrollata delle spalle nude. Poi cambiò discorso; «Se si è fortunati è possibile incontrare anche gli Dèi gemelli del Sonno e della Morte con il loro corteggio di ninfe o la stessa Strega della Luna. Adesso anche la Somma Pandora vi accede e contribuisce ad allietare qualcuna delle nostre serate con la sua arpa».
«Chi vive qui?» Chiese Astrid.
«Le mie sorelle al plurale, le Sacerdotesse e gli adepti di Hades dei tempi antichi e le Streghe che furono ingiustamente condannate al rogo. No, non temete, esse non sono pericolose, sono persone legate agli antichi culti degli Dèi, come il Sommo Camus qui presente. Non vi faranno mai del male, non è nel loro credo». 
«Ah, intendi forse che sono degli wiccan?» Domandò Astrid con sguardo melanconico, mentre alcune Streghe e Sacerdotesse accendevano dei falò che andarono a rischiarare l’ambiente, scoprendo così una radura e facendovi battere le palpebre. Alcune Ninfe portarono invece dei drappi di seta molto simili al velo divisorio di Hades, ridendo divertite come bambine che hanno combinato una marachella. 
Ma la vostra guida non sembrò farci molto caso: «Certo, mia Signora».
La tua compagna d’arme si rilassò e ti fece cenno di fare altrettanto, come se tu non te ne fossi accorto. Però decidesti di non farlo. Qualcuno tra voi doveva per forza restare vigile. Forse avrebbe persino dovuto farlo anche lei.
Poi, Aliena fece qualche passo avanti e lanciò un ululato. Niente di così tremendo come quello delle Banshee, somigliava più al grido di battaglia degli indiani dei western stereotipati. La differenza era che mentre gridava muoveva la lingua a destra e a sinistra nella bocca, come le raccoglitrici di lino in Egitto. 
Ti accostasti alla tua amica, angosciato: «Astrid! Non dovresti fidarti così facilmente, è pur sempre una servitrice di Pandora». Le sussurrasti a un orecchio, leggermente nervoso, mentre la tua collega andava a svegliare la foresta. Se non fosse stato per le Streghe che già l’animavano e la preparavano avreste pensato che fosse impazzita. «Ma Pandora è la mia tata e la mia madrina. Non temere, in caso di necessità posso difendermi anche da sola». Ti garantì.
«Non è questo il punto». Ti guardò e inarcò un sopracciglio con aria interrogativa ma non tu non proferisti parola, né insistesti oltre, ti limitasti a poggiare le mani sui fianchi e a sbuffare: «Stiamo perdendo tempo, qui». Incrociasti le braccia al petto. 
«Ma neanche scervellarci sul problema ci porterà da qualche parte, dammi retta, un po’di svago ci farà bene». Le gettasti un’occhiataccia. «E i bambini?» Chiese poi.
«Ci penseranno i Celti e Isaac a tenerli d’occhio stasera». Rispondesti caustico. Per quanto avessi imparato ad apprezzare la compagnia di Valentine, non ti fidavi per niente, adesso che sapevi cosa bolliva in pentola. 
La vedesti serrare le labbra. Poi giunsero anche le anime di qualche dannato. Restaste molto sorpresi nel notare Paganini tra di loro e qualche defunto artista moderno tra le Streghe e i musici celtici pittati di blu. Si vedeva che erano anime, però, perché erano quasi traslucidi e i loro occhi erano di un giallo limone talmente intenso da suggerire una sensazione di pericolo. Era come se non fossero veramente loro, ma solo spiriti che avessero assunto le loro sembianze. Ti sentivi come se stessi guardando delle piante carnivore giganti munite di occhi che mancava poco ti adocchiassero.
Ma se Astrid distolse lo sguardo, timorosa, mentre accordavano in silenzio gli strumenti, tu no. Avevi un metodo infallibile, per annientare le piante.
Aliena scomparve un attimo. Quando tornò recava con sé un vasetto pieno di una tinta nera. «Che cos’è?» Domandò Astrid. La giovane rispose che era del semplice trucco. «Tipo un eyeliner in pasta?» Mentre tu ti domandavi che cosa fosse un eyeliner, la Ninfa annuì e le chiese se avesse potuto truccarla. Sulle prime, la ragazza tentò di rifiutare, ma poi cambiò idea e lasciò che la ninfa le dipingesse quella riga nera a ridosso sulle ciglia. Avevi già visto questo trucco a giro da vivo, al di là della cortina di ferro, però ad Astrid accendeva lo sguardo. «Ti sta bene». Ti complimentasti.   
Lei ti ringraziò ma non si allontanò dal tuo fianco, intimorita com’era.
La sensazione che avevate sui musicisti andò accentuandosi quando cominciarono a suonare delle melodie celtiche moderne. «Oh, non sapevo che conosceste anche questa musica». Disse sorpresa a Menta che osservava tutto con una luce di gioia selvaggia nelle iridi scure in cui si riflettevano le fiamme dei vari falò.
Le Ninfe Stigie, i veli semi trasparenti allacciati ai corpi come sari, cominciarono a ballare e cantare in coro con le silfidi e altre creature appollaiate sui rami degli alberi. Anche tu seguisti il loro esempio e, tendesti una mano ad Astrid per aiutarla a salire sul tuo stesso ramo. Lì, assisteste all’esibizione e, per tutto il tempo, Astrid mosse le spalle a tempo coi tamburi. Anche tu facesti fatica a non lasciarti trascinare dalla musica. Non sapevi che fosse così coinvolgente. Non eri un intenditore, ma eri più abituato alle sonorità degli Anni Sessanta, Settanta e della prima metà degli Ottanta che a questo. Perciò ti ci volle un po’ per coglierne la bellezza. Fortuna che il ramo era sufficientemente grosso per non tremare sotto il vostro peso e a ogni movimento di Astrid. Che, onestamente, t’infastidì.  
Quando finì la prima canzone lei applaudì. Poi Aliena la trascinò nelle danze. Vedendola ballare assieme alla tua collega guardiana e alle altre ninfe ti incuriosisti. Non avevi mai provato a ballare. Tu invece sgranasti gli occhi, perché comparvero anche gli Specter. Li indicasti alla ragazza che s’irrigidì, quando li riconobbe senza le Surplici. Non li avevate mai visti prima in borghese. Non che me li ricordassi poi tantissimo. Lei ti dette una gomitata per attirare la tua attenzione e, indicarti alcuni tra i nuovi arrivati. Seguisti il suo sguardo e individuasti il Garuda e la sua seconda in comando.
Posasti una mano sulla spalla della bionda che esclamò: «Sei gelido!» Togliesti repentinamente la mano, spaventato. Come era possibile? Eppure l’Azone ti aveva garantito che l’effetto sarebbe durato due settimane! Con il terrore e i dubbi ti allontanasti dalla festa per calmarti e vedere se potevi scaldarti come i comuni esseri umani. Infatti, cominciasti a sfregarti le braccia dipinte, pregando che si scaldassero. Cosa che effettivamente, dopo un po’successe, anche se ormai ti facevano male le braccia e le mani per la forza che ci avevi messo. Perché non avevi tremato? Tremare serviva a scaldarti, non solo a ricordarti quanto potevi spaventarti. Perché non c’era freddo.  Ti ci mancava solo questa.
«Ah, è ridicolo». Soffiasti così piano che la musica coprì ogni parola.
«Che succede?» Ti chiese Valentine e tu lo guardasti anche se lì per lì non lo riconoscesti senza la Surplice. Sembrava più esile e piccolo.  
«Il mio corpo, sono di nuovo gelido!» Lo Specter si accigliò ti sfiorò il braccio e disse, in tono di finto compatimento, nelle cui righe leggesti un palese “povero deficiente”: «Ma no, va tutto a posto, ti stai solo termoregolando, rilassati, Aquarius, è l’ennesima riprova che sei vivo e vegeto. Non dirmi che ti sei dimenticato anche di questo!» Esclamò poi canzonatorio.
«Ah, oh…» Abbassasti lo sguardo arrossendo per la vergogna: non c’eri più abituato, dopo tutti questi anni passati così, avevi dimenticato che cosa si provasse a sentire di nuovo gli effetti della temperatura circostante su di sé. 
«Camus». Chiamò la voce di Astrid ed entrambi vi giraste verso di lei, la quale vi vide: «Valentine, che è successo?» Domandò angustiata, mentre vi raggiungeva velocemente.
«Niente, per un momento abbiamo temuto che fosse tornato freddo come prima». Spiegò lo Specter anche per te e tu annuisti come a sottolineare le sue parole.
Astrid sospirò sollevata: «Meno male, mi sono spaventata».
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi, tornate alla festa, è anche per voi, dopotutto». Fece il tuo collega del Cocito lasciandovi soli.
«Cos’è questa storia?»
Così, la giovane si drappeggiò meglio la sciarpa sulle spalle e passò il resto della serata seduta vicino a te che, da quel momento in poi non le staccasti più gli occhi di dosso. 
A un certo punto, una Ninfa, tutta scarmigliata, la tirò in piedi, invece te, ti ignorarono completamente. Non era la prima volta che succedeva, però ti venne da chiederti perché e cosa avessi fatto. «Oh, no, no, io non so ballare». Si scusò, cercando di non farcela restare troppo male. La ninfa mise il broncio e allora le dissi, impietosita: «Sarà per un’altra volta».
«Lo giurate?»
Il sorriso sul volto di Astrid si afflosciò e la sua espressione fu sostituita da una intimorita. Tu stesso fiutasti il pericolo, per questo ti alzasti in piedi e intervenisti. La portasti via da lì con una scusa. Lei ti scoccò un’occhiata di gratitudine e poi, insieme vi allontanaste, recuperaste la sua Surplice e poi, camminaste fuori dei confini delle paludi senza girarvi. La sensazione che vi stessero seguendo, pronti a tendere le mani e a riportarvi nel cerchio.
Astrid ti strinse il bicipite per dirti di non guardare. Lo capisti dalla sua espressione, quando la guardasti con la coda dell’occhio. Poi, ti salì sulla schiena e, aggrappandosi a te con tutte le sue forze, ve la deste a gambe alla velocità della luce. Soltanto quando ritornaste all’accampamento Astrid ricominciò a respirare. 

A te non era sfuggito il fatto che Astrid passasse il tempo in compagnia dell’apprendista di Kiki. E, avevi scoperto, seguendole, che avevano trovato un angolino tutto loro, vicino allo strapiombo. Lì, la più grande si metteva a cantare per la più piccola. Non sapevi che lo sapesse fare e, ne eri rimasto impressionato. Anche perché era la prima volta che sentivi qualcuno cantare in tutta la tua vita.
Ti erano rimaste impresse in particolar modo Bella Signora e What a feeling. La prima la cantava in un modo che somigliava moltissimo a un invito. E tu la vedevi davvero questa bella signora, solo che nel mare nero della notte scura, ci vedevi lei, che tendeva una mano verso di te, sorridendoti. Come quel sogno che avevi cominciato a fare da quando vi eravate spostati nuovamente. Nel tuo sogno ti vedevi nel nero del Limbo e, a un tratto una serie di lampi di luce, come delle comete, cominciavano a solcare il cielo attorno a te. E, mentre tu le seguivi con lo sguardo, meravigliato, ti girasti e vedesti il cielo tempestato dei colori dello spazio e delle sue stelle venire verso di te, rimpicciolendosi sempre più fino ad assumere una forma vagamente femminile. Quando ti passò accanto girò il volto per guardarti. Nella sua forma riconoscerti dei tratti umanoidi, come se quell’essere fosse stato trasparente. L’essere fluttuante di spazio e di stelle ti girò intorno un paio di volte e tu con lui, mentre ti accorgevi che assumeva tratti sempre più femminei e sempre più simili ai tuoi. Il suo viso di poco più in alto del tuo, proteso verso di te. A un tratto il manto variopinto arretrò lasciando liberi una pelle candida e i capelli biondi della persona, della donna che avevi davanti. Anche se solo una parte, non avevi mai visto degli occhi più affascinanti di quelli di… “Astrid!”  Li riconoscesti sorpreso, mentre la sua persona si delineava davanti a te e sorrideva divertita. Il manto che fino a quel momento l’aveva rivestita scivolò dolcemente giù dalle sue membra, rivelando la pelle candida punteggiata di lentiggini dorate, i grandi, bellissimi, dettagliati occhi gialli in cui albergava il riverbero del Cosmo. Un sorriso malizioso le incurvò le belle labbra rosee quando tu sgranasti gli occhi, sorpreso.
I biondi capelli, liberi dal manto di cielo e stelle fluttuarono come mossi dalla brezza.
Il blu tempestato di brillanti e fulgidi dettagli e colori, si fermò all’altezza delle clavicole e ti ritrovasti a osservare la tua sosia. «Astrid!» Esclamasti. Il suo sorriso si ampliò e ti strizzò l’occhio prima di sfrecciare via a gran velocità. 
La seconda, gliela sentisti cantare quando le due si misero a lavare i panni assieme alle lavandaie celtiche e alle velate e finirono per prendersi a schizzi e a ridere come pazze. Tu quel giorno eri lì con loro perché le avevi raggiunte dopo aver concluso una riunione con i Celti per riposare. Come sempre, Astrid si era portata dietro i ragazzini e Anna e Saoirse stavano dormendo sotto uno degli alberi in riva al ruscello. Ti accomodasti accanto a loro, di modo che potessi tenere d’occhio tutti quanti. Visto che il momento più delicato per gli apprendisti era proprio il sonno, non potevi permetterti distrazioni. Fortuna che c’erano le sentinelle, perché tu non potevi percepire i loro Cosmi e, al momento era tutto tranquillo. Tutto era partito mentre eri lì lì per sonnecchiare, tanto eri esausto. Poi avevi sentito Astrid cominciare a cantare così, dal niente, contagiato dall’aria di tranquillità che si respirava.
Si sentiva, da quella voce espressiva, che era solo per Raki, che era il suo modo per dirle che poteva fidarsi di lei e che l’avrebbe tenuta sempre con sé, che avrebbe vegliato su di lei e che l’avrebbe protetta. Anche se era palese che era una canzone d’amore che, con ciò che voleva esprimere non c’entrava niente. Però per come la cantava sembrava questo. Se avesse avuto anche la base musicale giusta e lo spazio necessario, l’avrebbe perfino fatta volteggiare. Ma a fine canzone si accontentò di cominciare a ribattere agli schizzi che le arrivarono e le risate.
Non ti saresti mai aspettato di fare questa scoperta. Le avevi osservate sbalordito, mentre quelle due giocavano e vedevi come Astrid si illuminava, non potesti fare a meno di guardarla, attirato dal lampo di felicità che emanava mentre giocava con l’allieva di Mur. Era rilassante assistere a queste scene di tranquillità in mezzo a tanto buio e disperazione. Se da un lato taluni trovano vomitevole questa pausa, non avevano idea di quanto in realtà l’umanità sentisse il bisogno di voltare le spalle alla morte.
E quelle due erano talmente luminose ai tuoi occhi, da rischiarare tutta la scena per davvero, come dei soli formato persone.       
La guardasti ammirato, mentre i ragazzini, che fino a quel momento si erano allenati poco distante, ti raggiunsero, tergendosi il collo e la fronte sudati. Le osservavano un po’ sconvolti e disgustati. Come osavano cantare in una situazione tanto grave come questa? Scuotesti il capo divertito. Se se la prendevano per così poco, avresti voluto vedere le loro facce se avessero saputo che le persone cantavano nei momenti più disparati. Allora sarebbero rimasti traumatizzati! Neji ti domandò: «Ma lei lo sa che siamo guerrieri?»
«Ai suoi occhi siete ancora dei bambini, probabilmente vuole solo proteggervi». Spiegasti, tacendo il fatto che eri disposto a fare altrettanto anche se non erano i tuoi allievi o membri della tua famiglia. Ma questo era normale tra i Saint. Li guardasti con la coda dell’occhio e ti domandasti cosa fosse successo alle schiere del Santuario. Ricordavi un certo spirito di collaborazione e cameratismo tra i Silver e i Bronze, soprattutto i Bronze, ma perché questi ragazzini qui non ti sembravano per nulla disposti ad aiutare il proprio compagno? Dopotutto era questo che stava facendo Astrid, nell’unico modo che conosceva. Allora perché se la prendevano tanto?
«Bè, è fastidioso». Sbuffò Tokaki incrociando le braccia, prima di lanciare un’occhiata alla bionda in nero che giocava con la piccola Lemuriana. La quale ricambiava i suoi schizzi aiutandosi anche con la telecinesi, facendo sgranare gli occhi ad Astrid in un’espressione di orrore neanche tanto finto. Qualcosa ti diceva che era meglio preparare il necessario per far asciugare quelle due, sì da evitare che si prendessero un malanno.
Ordinasti ai due ragazzini di prendere le due sorelline e riportarle all’accampamento che alle altre avresti pensato tu.
I due ragazzi obbedirono, si chinarono sulle bambine e, con delicatezza, le presero in braccio e si diressero all’accampamento. Li accompagnasti con lo sguardo e poi restasti a osservarle un altro po’. Non ti spaventasti neanche quando sentisti Valentine accomodarsi dove prima eri tu. Che adesso te ne stavi con la schiena appoggiata al tronco d’albero.
Chi l’avrebbe mai detto che sarebbero riuscite a ritagliarsi uno spazio di vita in un luogo che, in teoria, doveva essere di morte e reclusione?
Andasti a interrompere le due scatenate. Le quali ti guardarono, immerse in acqua fino alla vita come se tu avessi parlato ostrogoto. Poi ti arrivò uno schizzo d’acqua che evitasti spostandoti alla velocità della luce. L’acqua cadde a terra senza neanche tangerti un capello. «Però così non vale!» Protestò Astrid tirando fuori un tono talmente infantile che dovesti morderti la lingua per evitare di scoppiare a ridere. Poi ti desti un tono e replicasti, in tono serio: «Spiacente, ragazze, non penserete sul serio che mi lascerò schizzare solo perché voi vi state divertendo e sperate di zittirmi. Su, forza, adesso che i panni sono interamente lavati», e ponesti l’accento su queste due parole «credo che sia il caso che voi usciate dall’acqua, state disturbando le lavandaie. Non dico che fate male a voler ridere e scherzare così, anzi, trovo che sia una cosa giusta, per scappare dall’orrore che ci circonda, però non dovete dimenticare che vertiamo in uno stato d’allerta, non è bene indugiare troppo a lungo in questi svaghi». Le ammonisti in tono pacato, continuando su questa falsariga, beccandoti due occhiatacce che ti strapparono una risata mentale divertita, ma che non contagiò affatto il tuo corpo. Perciò le due non ebbero altra scelta che darti retta e uscire dall’acqua. Chiamasti una lavandaia e le dicesti che avresti preso a prestito due teli già asciutti e al suo cenno affermativo, suggeristi alle due di approfittarne. Cosa che fecero, avvolgendosi nei teli. Il sorriso cancellato dai loro volti e gli occhi di nuovo seri, come doveva essere. Ti dispiacque vederle così, ma erano prima di ogni altra cosa dei militari e dovevano ricordarselo.
Poi, insieme, tornaste all’accampamento.
Quella notte a mensa, parlasti con Valentine a proposito del Cocito e dei tuoi propositi: «Fammi capire», disse lo Specter, mettendo giù il bicchiere di legno, «vuoi provare a portare avanti degli studi sull’acqua del Cocito? E a che ti serve?»    
«Per curiosità». Facesti tu tenendoti sul vago, e lo Specter ti guardò inarcando un sopracciglio. Non ti aspettavi certo che ti fermasse, ma il suo sguardo comunicava perfettamente tutto ciò che pensava. Anche se alla fine, quando parlò, se ne uscì con un tiratissimo: «Fà un po’come ti pare, ma per me è una perdita di tempo».
Perciò adesso ti trovavi vicino all’affluente del Cocito per meditare. Anche se riprendere da dove ti eri interrotto anni fa era quasi una tortura. I ricordi erano ancora troppo vividi eppure non avevi sensi di colpa per il tuo allievo. Avevi sperato di poterlo liberare dalla sua ossessione, oltre che di provocarlo a reagire. «Secondo me non ce la farai». Ti salutò l’Azone comparendo su una roccia poco più lontana della tua. Anche se non lo desti a vedere, ti aveva spaventato. Lo guardasti e rispondesti che: «Devo provarci, non posso lasciare una cosa a metà». E avevi trovato proprio in quel periodo il modo di riuscirci, tramite le emozioni. Ma non riuscivi a raggiungere lo stesso livello di concentrazione del periodo. Perché? Eppure davi sempre il meglio di te sotto pressione. Tu eri sempre così controllato anche in battaglia. Di che ti sorprendevi?
L’Azone non disse niente. Si limitò a girare il volto di tre quarti per lanciarti un’occhiata obliqua.
«Piuttosto, ricordati di andare al Flegetonte, quello sì che è veramente importante». Ti suggerì con l’aria del medico curante. Per contro, ti limitasti a fissare la sagoma del tuo riflesso e la volta infera che si specchiava in quella parte di fiume di fiele. Ancora una volta l’acqua ti ricordò di quando avevi causato il maremoto che provocò l’inabissamento della nave dove riposava il corpo di Natasha e, di nuovo, ti domandasti se magari non fosse il caso di riprendere a studiare le correnti per vedere se potevi anche accelerarle, dunque anche sciogliere il ghiaccio, non solo crearlo. Non ne avevi il pieno controllo, però qualcosa riuscivi a fare, anche se su grande scala. «Ah, a proposito, io fossi in te correrei alla Magnolia degli Inferi, ho il sospetto che ci troverai qualcosa di molto interessante».
Solo allora ti rendesti conto che un Cosmo si era allontanato dall’accampamento. Ti era famigliare, a chi apparteneva? Però c’era qualcosa di strano, era stranamente piatto, cristallizzato. Non si sentiva emozione, soltanto un senso di trasognamento decisamente anomalo. Un episodio di sonnambulismo o qualcosa di più grave? Poi, sentisti i Cosmi degli altri ragazzini in subbuglio. Ti accigliasti: che cosa stava succedendo? Perché erano così spaventati? Li contasti e comprendesti. Dov’era Neji?
«Neji!» Esclamasti spalancando gli occhi. E, lo individuasti poco più in là rispetto all’accampamento. Volgesti il volto verso le montagne, balzasti in piedi e corresti dal giovane più rapido che potesti. Lo trovasti che stava camminando, apparentemente come se non avesse peso e, come se non fosse neanche consapevole di dove si trovasse, lungo un sentiero tra le rocce. Camminava come sospeso, gli occhi fissi, come se non vedesse dove andasse. I capelli lunghi fino alla vita e castani, di solito legati in una treccia, adesso erano sciolti e arruffati. Ti ricordava tanto una sorta di vittima sacrificale. Impressione accentuata ancor più dagli occhi grigio chiaro a mezz’asta e la pelle, se possibile ancor più pallida. E, soprattutto, dai tentativi di Astrid di stargli dietro e richiamarlo alla realtà: «Neji! Fermati! Fermati Neji!» Urlava la giovane che correva, letteralmente per cercare di raggiungerlo. A volte muoveva le mani come se avesse potuto tirargli uno schiaffo e, dei fili lucenti cercavano di acchiapparlo, ma una barriera glielo impediva.
La giovane si fermò e si appoggiò a una roccia, ansimando, portandosi una mano sul cuore. Il capo chino e i capelli che le scivolarono davanti. Poi si riprese e ripartì all’inseguimento. Tu stesso cercasti di fermarlo ricorrendo alla telecinesi, ma, ti accorgesti, che qualcuno stava già manovrando la sua mente. Qualcuno che parlava con la tua voce. “Cosa?” Pensasti sgranando gli occhi e, questo ti persuase a staccarti dal masso su cui monitoravi la scena dall’alto per inseguire a tua volta il giovane.    
E, per bloccarlo, gli congelasti le gambe. Sentisti appena la voce di Astrid chiamarti con un misto di gratitudine e stupore, tanto sperasti di non dover ricorrere al koliso. Il freddo e l’impossibilità di muoversi fu sufficiente per risvegliarlo. Il giovane prese a urlare per la sorpresa e il dolore e a guardarsi freneticamente intorno mentre voi due lo raggiungevate: «Neji!» Esclamò Astrid sollevata, abbracciandolo da dietro, felice che fosse tornato in sé. Il ragazzino avvampò prima di batterle la mano sull’avambraccio, mentre tu li raggiungevi.
Lei si tolse immediatamente.
«Sommo Camus!» Ti chiamò sbalordito quando tu spaccasti il ghiaccio con una manata ben assestata e, Astrid lo lasciò andare. Il vostro giovane amico cadde in ginocchio. «Che cosa mi è successo? Perché le mie gambe erano congelate?» Domandò con voce dolorante e gli occhi lacrimanti, incapace di muoversi. Il freddo pungente della lastra doveva avergli fatto più male di quanto avessi previsto. «Che cosa ti è successo?» Gli chiedesti inginocchiandoti davanti a lui. Astrid t’imitò, guardandolo con occhi preoccupati.  
«Io non lo so… Stavo sognando quando a un certo punto ho sentito la vostra voce».
«La mia voce? E che dicevo?» Chiedesti dopo esserti scambiato un’occhiata allarmata con Astrid.
«Non lo so, so che mi chiamavate e che non vedevo niente».
«Ma ricordi di esserti alzato?» Indagasti scoccando un’occhiata ad Astrid, i cui occhi d’oro liquido rivelavano tutta l’angoscia per la possibile risposta. 
«No, non mi ricordo proprio. Sommo Camus, che cosa mi è successo?» Domandò preoccupato cercando il tuo sguardo. Lui, che di solito l’aveva fermo come quello di un gladiatore dinanzi alla belva feroce, adesso sembrava solo un quattordicenne spaventato come tanti.
«Non è successo niente». Mentisti, poi lo rassicurasti e, quando si fu un po’calmato gli domandasti se ce la facesse ad alzarsi. «No, credo di aver perso sensibilità alle gambe». Si scusò il giovane. 
Così lo prendesti in braccio e, insieme, tornaste all’accampamento. Durante il tragitto, però, l’adolescente non fece che esporvi i suoi dubbi. «Nessuno di noi soffriva di attacchi di sonnambulismo. Credevo che fosse opera degli Specter, ero attento e invece… Credete che sia stato così anche per Iago?» Chiese spaventato.
«Non lo so». Rispose spaventato facendo vagare lo sguardo sulle rocce. Lo riportaste indietro. Quella sera ci pensò Astrid a badare ai ragazzini. Mentre tu ti accorgesti che Valentine non era più nella tenda assieme a te, Isaac e Fianna. E non potesti fare a meno di preoccuparti.
Solo dopo realizzasti. Che cosa ti prendeva Camus? Perché ti preoccupavi per lui? Era solo per le Lacrime di Kalì o… No, non lo amavi, ma gli volevi bene. Ammettesti sentendo le tue guance scaldarsi un po’. Adesso ti avrebbe fatto comodo averlo accanto, anche per avere un’opinione diversa.
Due giorni dopo vi giunsero i materiali che vi servivano per il progetto di Lady Pandora di ricostruire il precedente padiglione. E, fu così che nella spedizione, scopristi che era stato incluso l’Arpia. Ah, se non altro sapevi dove fosse finito.
Stavi aiutando a costruire il nuovo padiglione della Giudecca assieme ad alcuni celti e Skeleton. Non era la prima volta che lavoravi assieme ai soldati di rango inferiore, perciò non avesti problemi. Seguivate i progetti dell’architetto degli Inferi, che era lo stesso che aveva costruito i precedenti padiglioni. E che, adesso, aveva ridisegnato il tutto.
A un certo punto uno degli operai, dopo averti passato dell’acqua, ti disse che c’era Valentine. Ti girasti, lo vedesti e bevesti avidamente. Poi gli andasti incontro.
Dopo i convenevoli gli chiedesti dove fosse finito, che erano giorni che non si faceva vivo.
«Sono venuto a dirti che me ne vado». Annunciò.
«Te ne vai? Perché?»
«Affari miei». Rispose laconico, ma tu non ti accontentasti, volevi una risposta vera.
«Ma è per via del sovraffollamento della tenda? Per Astrid? Isaak?» Indagasti.
«Non mi importa niente dei mocciosi, Camus».
«Allora perché? Sei sparito per giorni, penso che dovresti darmi una spiegazione decente».
«In nome di che? Non mi sembra di essere tenuto a dirti niente».
«Pensavo che fossimo amici». Ti sfuggì prima che potessi fermare queste parole.
Il secondo Guardiano del Cocito ti fissò a lungo. «Amici». Ripeté soppesando questa parola. «Sì, forse su questo hai ragione». Concesse.
Dopotutto in questi anni eri riuscito ad andare oltre alla Surplice e altri schieramenti. Ti accorgesti, solo in quel momento, di essere cambiato. Quei vaghi pregiudizi che avevi covato sugli Specter erano solo frutto della paura che avevi provato tutto il tempo, decadi orsono. Li avevi odiati per principio perché allora era giusto così. Ma non lo era mai stato.  
«Allora resta. Perché non ci dai mai una mano coi bambini? Sei molto attento, conosci questi posti meglio di noi, potresti…» Lo Specter dell’Arpia s’appoggiò alla trave vicina e guardò dritto davanti a sé. «Non posso». Disse soltanto e tu ti accigliasti. “Perché no?” Non ci fu neanche bisogno di esternare questa domanda che lo stesso Valentine rispose: «Non sono tenuto a occuparmi di loro, solo perché tu e la Luce Ombrosa avete preso questa decisione. Non potete aspettarvi che vi seguano tutti in automatico». Ti guardò e incrociò le braccia: «Magari al Santuario può essere così, ma non qui. Qui le Armature d’Oro non contano niente e lo sai anche tu».
«Che vorresti dire? Qui non si tratta di Armature e Surplici, si tratta di bambini».
«Sto dicendo che non ti seguirò, tanto meno ti aiuterò». Chiarì il tuo collega del Cocito.
«Perché?»
«Perché sono uno Specter».
«E questo che cosa c’entra con i bambini?»
Lui ti guardò di nuovo, impietosito: «Credevo fossi più accorto, Camus di Aquarius, ma forse ti ho sopravvalutato. D’altronde cosa potevo aspettarmi da uno che preferisce sacrificare sé stesso per una ragione così stupida?»
Tante cose si potevano dire di te, fuorché tu avessi sbagliato tutto con Hyoga. Potevi sopportare miriadi di insulti, abusi e soprusi, ma nessuno, nessuno aveva diritto di insultare il tuo operato di maestro.
La rabbia così tanto controllata, divampò istantaneamente come una fiammata. «Ehi! Come ti permetti? Senza di me Hyoga non avrebbe mai risvegliato il Settimo Senso». Per una volta sembrò che vi foste scambiati i caratteri. Adesso eri tu quello impulsivo e fumantino. E lui, proprio come se ve li foste scambiati davvero, continuò a osservarti con sufficienza, mentre sbraitavi: «Come ti permetti di dirmi quello che avrei dovuto fare o no con il mio allievo? Chi ti credi di essere per rimbeccarmi?»
«Quello che ti ha trovato quando sei caduto negli Inferi». Ribatté in tono secco dopo averti scoccato un’occhiata ammonitrice che ti zittì subito. «Quello che ti ha raccattato dopo Asgard e che lavora con te da anni nel Cocito. E sai cosa penso tutte le volte che ti vedo? Dio, che spreco. Avevi tutta una vita davanti, ma hai preferito sprecarla a causa della tua stupidità». Fece staccando la schiena dalla trave per fronteggiarti apertamente.
«Non è stupido sacrificarsi per chi ami».
«No», concordò, «ma è stupido ingannare così le persone che ami o che ti amano. Non ti sei mai accorto che Milo avrebbe fatto qualsiasi cosa per te, occupato com’eri a combattere te stesso e a proteggere il tuo allievo. E poi lo tradisci così, facendoti ammazzare, pur sapendo che lui aveva già assistito al suicidio della madre e adesso è lo stesso, ma per mano sua. E ad Asgard poi… Non ne azzecchi una, ragazzino». Sputò con aria sprezzante.
Serrasti il pugno, impedendoti di spaccargli la faccia. Ma era difficile, estremamente difficile.
«Tanto sarei morto comunque, nella Guerra Sacra».
«Forse sì, o forse no, ma così non hai mai potuto scoprirlo, non ha avuto alcun senso e lo sai anche tu». Fece staccandosi dalla trave con una piccola spinta in avanti. Poi, continuando a tenere le mani dietro la schiena, si spostò davanti a te. Gli occhi scuri inchiodati nei tuoi.    
«Hyoga è diventato quello che è grazie al mio sacrificio! Cosa ne sa uno Specter del sacrificio e di essere un maestro? Non accetto la predica da te, che non sai nessuna di queste cose!» sibilasti livoroso. Ma l’Arpia sapeva come ribattere; infatti, non esitò a farlo: «Hyoga aveva già affrontato Scorpio. Se era arrivato all’Undicesima per ammazzarti, significa che ne era uscito vittorioso, imbecille; aveva già risvegliato il Settimo Senso. Non c’era bisogno di procurargli un altro trauma. Ma a voi Saint deve piacere la drammaticità, visto che non vi rinunciate mai. Anche adesso con quei bambini».
«Come puoi chiedermi di girarmi dall’altra parte mentre scompaiono ad uno ad uno? Come fai a essere così insensibile?»
«É come chiedere a una persona come si fa a restare impassibili quando esistono veri e propri mattatoi automatizzati che macellano gli animali per il supermercato. Oppure come si fa a ignorare il fatto che la Terra è talmente inquinata che ci stiamo avvelenando da soli. Oppure ancora, come si fa a ignorare che, in alcune parti del mondo stanno rendendo illegale una pratica che potrebbe salvare la vita di milioni di donne. Si fa nello stesso modo, si sceglie di fare altro di apparentemente più alla nostra portata e si sceglie non vedere. Altrimenti, se si pensassero a tutti i problemi che ci sono, non si vivrebbe più. Come noi non possiamo spurgare e punire tutti i malvagi, voi non potete salvare tutti». Rispose lo Specter in tono asciutto. Quelle parole, per quanto veritiere fossero, alle tue orecchie suonarono affilate come coltelli e tristi come una nenia funebre.
Eppure, nei suoi occhi, per la prima volta da che lo conoscevi, vedesti balenare la paura. E questo annientò tutto ciò che restava della tua ira. Quando parlò, anche il suo tono di voce si era fatto più mite e malinconico: «Ho già visto cosa porta essere come te e quella ragazza sulla mia stessa pelle molto tempo fa. Non pagherò lo scotto delle vostre stupidaggini una seconda volta». Concluse con un bisbiglio. Gli occhi persi in un ricordo tanto vago quanto lontano.
A che si riferiva?
Prima che tu potessi chiederglielo se ne andò, lasciandoti a meditare su queste parole e il vero significato dell’essere parte delle Armate Infernali. Non avevi mai pensato che questo Specter…  Prima che tu potessi completare il pensiero, ti richiamò e tu ti girasti a guardarlo. Ma vedesti solo le ali ripiegate a cuore della sua Surplice e, le mani che si tormentavano dietro la sua schiena, proprio sotto le ali. «Accetta un consiglio, non fidarti troppo degli Specter, se ti dicessi tutto quello che so e se restassi, potresti accusarmi di complicità. Anche se non condivido questi metodi sto solo cercando di preservare l’equilibrio in vista della futura battaglia e quel poco di amicizia che c’è tra noi». Ammise.
Lo guardasti sorpreso. Non avresti mai pensato che ci tenesse davvero. «Stammi bene». SI accomiatò, prima di scomparire tra le tende.  
Che cosa aveva voluto dire?

Paradossalmente l’aiuto di Fianna e dei druidi ti fu fondamentale per capire come usare l’acqua. Se tu avessi potuto parlare con il Titano che affrontasti prima che Aiolia scendesse nel Tartaro a recuperare Lythos, ti saresti anche fatto spiegare come si controllava l’acqua. Per ora il massimo che riuscivi a fare era studiare le correnti alla maniera dei Celti.
Per quanto ti sforzasti però non era sufficiente. Sì, il fiume ti rispondeva e ti riconosceva, ma non era il risultato che ti eri posto come obiettivo. Se non fosse stato per quel problema delle Lacrime di Kalì e per il tuo Cosmo. Ti guardasti le mani. Non avevi dimenticato lo scontro con il Guardiano e la Dea ambigua che Shaka aveva deciso di seguire. Il fatto che lei in poche mosse fosse riuscita a ingannare tutti voi e a fermare quell’essere che non avevi mai sentito nominare ti inquietava. Alzasti lo sguardo verso il cielo tempestoso. Chissà se le Lacrime di Kalì si nascondevano tra le nuvole proprio in questo momento per balzarti addosso? Le tecniche di Astrid sarebbero bastate contro di loro? Per la prima volta avresti voluto avere le capacità divinatorie dei druidi e delle sacerdotesse di Avalon.
Eppure, rammentasti, adesso, con gli occhi del futuro, che durante la battaglia contro l’Astronauta le Lacrime non si erano fatte vedere. Che gli Azoni avessero una facoltà simile? Ripensasti a quello che ti aveva dato la coppa. Forse non eravate soli in questa battaglia, c’era anche l’Azone che ti aveva aiutato. Sperasti di non sbagliarti a riporre fiducia in lui.
Forte di questo pensiero, tornasti a meditare e concentrarti. A interrompere la tua meditazione fu Fianna che ti portò da mangiare e ti fece compagnia.
«Come va?» Ti chiese e tu alzasti le spalle mentre tiravi fuori dal cestino il pranzo. Tu sbuffasti per la stanchezza ma riuscisti a mettere insieme le parole e l’espressione giusta per dire una bugia: «Bene e tu, va un po’ meglio da quando ho parlato al Consiglio?» Chiedesti guardandola con aria rassicurante, ti piaceva pensare di essere come una sorta di roccia per lei. Che, lo vedevi, ti ammirava per il tuo autocontrollo.
Purtroppo non te la potevi portare sempre con te e non potevi ancora sdoppiarti per essere dappertutto.
Lei annuì mentre mangiavi. Solo adesso ti rendevi conto di essere a corto di energie.
«Sì, molto meglio». Rispondesti quando ingoiasti. Fianna non era mai stata di troppe parole, però stavolta fece un’eccezione e ti chiese che cosa stessi facendo e, sperò di non aver interrotto niente.
«Non era un rito di quelli della tua gente, se è questo quello che intendi». Rispondesti dopo aver bevuto un sorso d’acqua dalla borraccia. «Sto cercando di portare avanti i miei studi sull’acqua».
«Acqua?»
«Voglio imparare a controllarla». Confessasti. Fianna annuì, poi si fece pensierosa e, quando parlò prese a raccontarti degli insegnamenti che le sacerdotesse e i druidi impartivano alle nuove leve prima che lei decidesse di prendere una strada tutta diversa. Ti spiegò pure come avresti potuto fare, ossia meditare sui serpenti.
Un ragionamento astruso ma lei balzò in piedi e te lo spiegò, spronandoti ad alzarti a tua volta. Tanto avevi finito di mangiare. Ti spolverasti i vestiti dalle briciole e la imitasti guardandola leggermente divertito e imbarazzato. Cosa mai pensava di fare una bambina? Pensavi, salvo poi ricordarti chi fosse quella piccola. Per questo ascoltasti attentamente. Ponesti le domande al momento giusto e lei, di fronte a spiegazioni che per te erano poco chiari, ne cercò altre. Ci teneva davvero che tu comprendessi.
Poi, passò a una dimostrazione pratica di magia divinatoria. E ti fece fissare l’acqua che scorreva sotto di voi. Lì per lì non ti disse niente, anzi, ti sentisti piuttosto stupido, ma quando un’immagine si allargò nel tuo campo visivo sgranasti gli occhi.
Assottigliasti lo sguardo, riconoscendo quei lunghi capelli castani e quella pelle pallida. “Neji?” Pensasti senza capire.
E poi, più in basso due testoline di bambine.
Cosa? «Anna? Saoirse?» Le riconoscesti confuso. Cosa ci facevano lì? Perché stavano cercando di fermarlo, aggrappandosi alle sue braccia a quel modo concitato? Anche se i loro volti erano coperti dalle maschere era evidente che fossero terrorizzate.
«Camus!» Urlò Astrid e la sua voce fu così forte che tu ti spaventasti e balzasti indietro di scatto. Il cuore che ti batteva rapidamente in petto per lo sforzo. «Camus!» Esclamò Fianna accostandoti a te, preoccupata: «Che cosa hai visto? Che cosa hai visto?» Ti chiese angosciata.
Poi sentisti l’esplosione dei Cosmi. Neji stava combattendo contro qualcosa, ma non era più all’accampamento.
«Neji! Devo andare a vedere! Andiamo!» Balzasti in piedi e corresti via a gran velocità. E corresti appena in tempo per vedere Astrid che distruggeva con l’aiuto del falcione d’oro lo scudo cosmico di Neji.
Le stridule grida di terrore delle bambine si sentivano anche da qui: «Astrid!», «Aiutaci, Astrid!» Urlavano.
«Ragazze!» Strillò lei di rimando smettendo di colpire la barriera per posarci una mano sopra.
«Astrid!»
«Camus!» Esclamò sorpresa girandosi verso di te. Gli occhi sgranati.
«Cosa sta succedendo?»
«Non lo so, a un certo punto Neji si è appisolato e quando si è svegliato mi ha attaccato alle spalle e ha rapito Anna e Saoirse!»
«Che cos’è questa barriera?» Facesti posandoci una mano sopra a tua volta.
«Non lo so!» Ribatté lei isterica.
Aggrottasti le sopracciglia, concentrandoti per scandagliare la barriera con il tuo Cosmo. Non avevi mai sentito prima un Cosmo simile. Era molto potente, certo, non come quello dell’Astronauta, ma neanche ci andava tanto lontano. Ad ogni modo forse potevi fare qualcosa. Congelasti gli atomi attorno alla barriera creando la sottile patina che rivelò l’effettiva dimensione della medesima. Niente comunque che un Saint non potesse non superare.
La ragazza al tuo fianco ti guardò colpita. Le guance rosse per l’imbarazzo. Ma tu non ci facesti molto caso. La prendesti in braccio e saltaste oltre. Ma non faceste che pochi passi che subito foste accerchiati da delle ombre nere umanoidi coi bordi fiammeggianti. «Cosa sono questi cosi?» Strillò Astrid. 
“I soldati ombra!” Li riconoscesti, mentre facevi scendere la ragazza che adesso era spaventata e ansiosa di raggiungere le ragazzine, le cui urla si allontanavano sempre di più. Materializzò i globi fosforescenti ma quelli regredirono su sé stessi fino a scomparire. «Che ti succede?»
«Non lo so! Non era mai successo prima!»
«Adesso calmati e cerchiamo di toglierci di torno questi cosi!» Non perdesti altro tempo che corresti alla velocità della luce. Ma ti accorgesti presto di due cose, la prima che stavi girando in tondo, la seconda, che non ti inseguiva nessuno. Ti fermasti. “No, un momento, questi non sono i soldati ombra del Drago Rosso!” Pensasti. “Ma allora a chi appartengono? Ah, non ha importanza!”
Non potevi chiedere aiuto ad Astrid, in panne com’era. Però potevi cercare il Cosmo del disgraziato che ti aveva rinchiuso in questo labirinto.
Ti concentrasti e scandagliasti tutta l’area. Poi lo trovasti. Riapristi gli occhi e, istantaneamente lo congelasti.
Immediatamente la trappola si dissolse e ti ritrovasti poco più avanti di Astrid che stava usando il proprio Cosmo e il falcione per combattere contro qualcosa che vedeva solo lei. Si fermò immediatamente guardandosi attorno spiazzata. Poi ti vide: «Camus…»
Anna lanciò uno strillo.
Correste immediatamente a vedere ma la strada vi fu sbarrata di nuovo dai falsi soldati ombra di prima. «Non perdere tempo con loro, sono solo delle ombre!» Urlasti alla ragazza che si era già messa in posizione, il Cosmo che le ribolliva a una spanna dalla pelle come un’aura nerastra. 
«Allora chi è il nemico?»
«Non lo so, ma è lui che bisogna bloccare».
«Indicamelo!» Tendesti un dito verso i monti e la ragazza ti sorpassò per sferrare un fendente d’energia dorata che scomparve tra le montagne. Due secondi dopo sentiste il rumore di un’esplosione e una nube di polveri si sollevò. Con il Cosmo appurasti che lo aveva preso. Ma anche così non potevate passare tutto il tempo a bloccarlo.
Proprio allora un soldato ombra si avventò addosso alla ragazza ma una Diamond Dust lo spazzò via.  Poi Isaac vi raggiunse: «Andate! Li terrò a bada io!» Urlò il tuo allievo.
E voi obbediste, finalmente liberi di proseguire senza intoppi, nel silenzio più totale.
No, non poteva essere troppo tardi.  
La scena che ne seguì fu una delle più terribili delle vostre vite.
Il ragazzino vi dava le spalle e tremava, inginocchiato davanti ai corpi delle bambine. Non capisti se fossero svenute o morte, anche a causa del suo, più grande, che v’impediva la visuale.
«Neji!» Sussurrò Astrid sgranando gli occhi per il terrore, mentre l’odore del sangue si spargeva dappertutto. Tu le facesti eco, incredulo. Questa non somigliava per niente alla perdita di Isaak, non avevi termini di paragone. L’esperienza passata non poté assolutamente aiutarti a metabolizzare il colpo. Perché Hyoga non aveva mai ammazzato Isaak con le sue mani. «Maestro Camus». Ti chiamò girando il volto verso di te. Quella faccia era il ritratto della paura più totale ed era chiazzata di lacrime e sangue. Persino tu sbarrasti gli occhi per l’orrore.
«È tutta colpa mia, credevo di essere abbastanza forte per contrastarlo. Credevo di riuscirci». Singhiozzò con voce rotta e gli occhi che ti osservavano da lontano, come se si trovasse su una lastra di ghiaccio alla deriva.
Tendesti una mano verso di lui ma la scacciò con un  «Non toccatemi, sono impuro… Sono un mostro». Appena lo disse dei miasmi nero violacei cominciarono a uscire dal suo corpo.
Ritraesti la mano mentre Astrid che era arretrata a sua volta, cercò di dire qualcosa che ignoraste entrambi. Poi gridò per la paura e tu ti girasti a guardarla. Ai suo piedi dei miasmi nero violacei stavano strisciando verso di lei. «Scappa, Astrid!» Le urlasti, ma lei tagliò i miasmi con il falcione e replicò allo stesso modo: «No, prendi Neji! Salvalo!»
Il ragazzino riprese a parlare in tono isterico: «Alla Palaestra ci hanno insegnato che il compito di un Saint è quello di dare la caccia ai mostri…» Sollevò il coltello che teneva in mano. Le radici dell’albero si animarono e, emergendo dal terreno si protesero verso di lui. «Se io sono un mostro, allora che questa follia finisca con me». Delirò piangendo, mentre si portava la lama alla gola.
«No, Neji!» Urlaste in coro. Provasti a congelare le radici e a spezzarle, ma i miasmi neri le protessero. Provasti a fermarlo congelandogli il braccio ma la cortina si ispessì.
«Camus!» Urlò la ragazza mentre il posseduto scompariva alla tua vista assieme ai corpicini delle bambine.
«Neji!» Strillò Astrid ed espanse furiosamente il proprio Cosmo. L’onda d’urto fu così violenta che spazzò via i miasmi e le radici e buttò a terra entrambi, inclinando pericolosamente il tronco spoglio. Ma questo si rimise dritto, come se non fosse successo niente.
Ti rialzasti sugli avambracci e vedesti Neji spaventato guardarsi repentinamente intorno. Lo chiamaste di nuovo. Improvvisamente foste sbalzati di una trentina di metri indietro e le radici presero a rianimarsi.
L’albero non era intenzionato a lasciarsi scappare la sua preda e tornò all’attacco. «Ti tireremo fuori da lì!» Gridasti prima di scagliare l’Aurora Execution che congelò solo parzialmente le radici., mentre i globi fosforescenti ti aprivano la via.
Il ragazzino si accorse delle radici e dei miasmi, vide quello che era successo e si spaventò: «Aquarius! Astrid! Io, io! Che cosa ho fatto!»
«Giusta osservazione!» Riprese la voce del falso te, con voce maschile ghignante, provenendo da tutte le direzioni. Vi guardaste attorno nel tentativo di individuarne la fonte. «Sei diventato un mostro, proprio tu che dicevi di volerti ergere più in su di ogni altro eroe, sei un miserabile».
«No, no!» Fece Neji scuotendo il capo, schiacciandosi il volto bagnato di lacrime di dolore tra le mani. Poi sussultò e si guardò le mani con orrore, scoprendole sporche di sangue. «Neji, non ascoltarlo! Non ascoltarlo!» Urlaste voi due all’unisono.
Ma al di fuori della barriera non potevate niente. Neanche i tuoi colpi più potenti servivano a qualcosa. Neanche Astrid riusciva a fare qualcosa.
«No, io non sono un mostro!»
«Sì che lo sei e c’è un’unica cosa da fare per i mostri come te, lo sai…» Il ragazzino vide il pugnale e tu sgranasti gli occhi, ammutolendo per un secondo. Ricominciasti a battere i pugni sulla barriera con tutta la tua forza senza successo. Ma non servì a niente.
Sentisti i passi di Astrid avvicinarsi rapidamente e sgranasti gli occhi. Ti girasti verso di lei e le andasti incontro. La stringesti al petto, costringendola a piegare le ginocchia e urlasti. «No! Non guardare!» Impedendole di sentire il rumore del coltello che affondava nella carne e, impedendole di vedere la scena dell’albero che vinceva la sua battaglia e assorbiva anche lui.
Astrid s’immobilizzò di colpo.
Solo quando l’albero si rigenerò ancora una volta e nuovi rami e nuove gemme crebbero su questi ultimi, si rianimò. La sentisti tremare tra le tue braccia. Il suo volto schiacciato sul tuo pettorale. Continuasti ad avvolgerla per impedirle di muoversi e, ripetesti, serrando a tua volta gli occhi pieni di lacrime, in tono addolorato e spaventato, con voce più bassa: «Non guardare». Mentre il falso te ridendo divertito, scompariva, lasciando dietro di sé solo l’eco della sua risata. 
Il suo tremore si fece più forte e dalla sua gola sgorgarono singhiozzi che si trasformarono in un vero e proprio pianto.
Solo allora Isaac vi raggiunse e s’immobilizzò di colpo, con gli occhi sgranati nel vedervi così. 
Guardasti la giovane tra le tue braccia. e, poi, reclinasti il capo all’indietro e urlasti: «Avevi detto che ci avresti aiutato! Perché non hai fatto niente? Perché?» Ma l’Azone non ti rispose.  

«É tutta colpa mia, maestro, sarei dovuto essere più attento». Si scusò Isaac quella sera dopo cena. Avevate mangiato soltanto per via della battaglia. Eravate rimasti alla mensa a cielo aperto anche dopo che questa si era svuotata.
Sollevasti lo sguardo dalle assi del tavolo e lo guardasti, riemergendo dai tuoi pensieri.
Il giovane con un occhio solo era il ritratto del dispiacere.
«Non è stata colpa tua, non potevamo immaginare che gli Specter avessero un piano d’emergenza». Cercasti di rassicurarlo. «Piuttosto, cerchiamo di non pensarci. Non è ancora il momento: molti altri periranno in questa battaglia; non ci conviene combattere con gli occhi offuscati di lacrime».
A dispetto dell’apparente freddezza con cui proferisti quelle parole, il loro senso era chiarissimo. «Avete ragione». Annuì il giovane dai capelli verde bottiglia. Perciò glissaste su un altro argomento.
I Marine erano tra quelli più in difficoltà. La stessa Anfitrite faticava molto a tenerli uniti; la maggior parte dei generali spingeva affinché se ne andassero. Gli unici che continuavano a sostenerla, a parte il Cavaliere di Octopus, erano Kaysa di Lymnades, Krishna di Crisaore e Sorrento di Siren. Se non fosse stato proprio per il Cavaliere di Octopus e alcuni ex Saint che li avevano aiutati durante la crisi oceanica, se ne sarebbero già andati da un pezzo.
La stessa Anfitrite sosteneva che era giusto combattere questa battaglia per la libertà. Disse anche di non averla mai visto tanto determinata. Forse ancora di più di quando era in vita. Sembrava non tenere conto dello stato in cui versavano le sue schiere. «Molti di noi sono scoraggiati e feriti. Non possiamo neanche combattere nel nostro elemento naturale e l’aria non è la stessa cosa». I Cavalieri di Nettuno infatti, avevano cercato di apprendere l’arte del volo dai fantasmi di Lady Viviana e Lady Niniane, ma con scarsi risultati.
Inoltre era come se fossero considerati come soldati di serie B in quanto costretti a pagare i prezzi pieni per l’acquisto dei materiali. Anche loro avevano un padiglione cui fare riferimento, ma non erano riusciti a idearlo. La loro Sacerdotessa dormiva tuttora in una tenda assieme ad alcuni Cavalieri-Sirena di sesso femminile. E questo pesava a molti dei loro sottoposti, che vedevano l’ingiustizia in cui versavano.
Come se non bastasse molti di loro erano feriti e demoralizzati. Non potevano riparare le loro Scale neanche con l’aiuto della Luce Ombrosa. Che pure non avevano mai visto, nonostante gli inviti della loro Sacerdotessa.
A complicare la loro situazione c’era che non facevano capo a una costellazione o a una stella. Bensì sull’energia Kundalini. Gli unici che usavano il Cosmo erano quei pochi ex membri di altri schieramenti che il mare aveva raccolto. «Non si riparano così facilmente le nostre Scale. Abbiamo bisogno di tutta una procedura speciale e i nostri fabbri sono a corto di materiale». Ti confessò il tuo allievo, preoccupato.
«Non ti chiederò quale per rispetto dell’Armatura e del Dio che servi, tuttavia ammetto che la situazione è critica».
«Già, se non fosse soprattutto per Krishna a quest’ora Lady Anfitrite sarebbe in difficoltà ancora più serie».
«Capisco. Non ho mai sentito parlare di questa Sacerdotessa. Finora neanche sapevo chi ci fosse alla testa delle schiere di Poseidone in sua vece». Ti faceva anche strano pensare che Hades e il Dio degli Abissi avessero delle donne come Sacerdotesse e Luogotenenti. Non per maschilismo, semplicemente dovevi farci l’abitudine. Ti sarebbero serviti altri decenni per abituarti a pensare alle due schiere capitanate da delle donne invece che da un Grande Sacerdote.  
«Come sta?» Chiese poi Isaac, sollevando l’unico occhio buono su di te.
«L’ho lasciata alla tenda poco fa. É distrutta».     
Isaac annuì, poi disse che doveva tornare dalle sue schiere, che quella sera i Generali di Poseidone si sarebbero riuniti a consiglio.
«Astrid?»
«Non c’è». Rispose Fianna scuotendo la testa. La guardasti stupito, poi ti preoccupasti. “Oh, no. Se le fosse successo qualcosa?”: «Dov’è?» Le chiedesti allarmato.  
«Alle Paludi Stigie». Vi raccontò di averla vista scoppiare in una risata isterica e di essersene andata. La bambina l’aveva seguita e l’aveva vista scomparire tra gli alberi delle Paludi, da cui proveniva la musica. Restasti di stucco, poi provasti un gran moto di disgusto per la bionda. Come era possibile? Come poteva essere tanto insensibile da andare a divertirsi dopo una disgrazia?
«É la verità». Proprio in quel momento Raki uscì dalla tenda, strofinandosi un occhio con fare assonnato: «Raki, dov’è Astrid?»
«Astrid? Non era con voi?»
«No». “No, per favore, ditemi che non è vero”.  
L’andasti immediatamente a cercare e, la trovasti dove ti avevano detto. Lo spettacolo cui ti ritrovasti ad assistere fu tra i più terribili della tua vita. Astrid, spogliata della sua Surplice, danzava con gli Specter, i fantasmi e le Ninfe Stigie come se non fosse successo niente. Sorrideva addirittura. E questo te la fece detestare ancor di più.

In quei giorni ti impegnasti a creare nuove strategie di battaglia e a fare la spola tra Lady Pandora e Lady Viviana per la questione dei Celtici. A proposito ti rodeva un tarlo: perché rendere loro la libertà, gli avrebbe di nuovo condannati a una spirale di sofferenza, mentre qui non era così.  
 E, questo stesso tarlo te l’aveva suggerito la stessa Lady Pandora. «Pensateci, Aquarius, cosa è peggio, per loro? Tornare alla vita e poi tornare qui fino alla fine dei tempi o restare prigionieri qui per sempre?» Aveva detto Lady Pandora prima di congedarti.
Adesso i druidi e le sacerdotesse stavano dibattendo la questione assieme alle regine e ai dux bellorum. E c’eri finito dentro con tutte le scarpe a causa del tuo lavoro da mediatore nel gruppo, ormai polarizzato dei Celti. Se avessi saputo che la questione si sarebbe risolta così li avresti mandati a quel paese in perfetto stile Death Mask. Se tu non ti fossi mai unito ai Celti a quest’ora avresti avuto meno responsabilità. Eppure, per quanto faticoso fosse, sentivi anche che era la cosa migliore da fare.  
In un certo senso invidiavi Astrid. Se alla sera conservava energie sufficienti per fare qualsiasi cosa, tu avresti preferito sotterrarti. Ma non potevi, tuo dovere era proteggere gli innocenti e, non eri sicuro che la tua compagna d’arme riuscisse a reggere una nottata di veglia intera senza l’aiuto della caffeina o di altre bevande. O anche soltanto di badare ai bambini. Da quando quei tre erano morti li aveva lasciati allo sbaraglio. A proposito di dovere, era anche il suo, per quanto sarebbe andata avanti questa storia?
Non ti piaceva che fraternizzasse così con loro e ignorasse tutti voi. Ti faceva ribrezzo vedere come a volte la salutavano. E di come lei ricambiasse pure! Anche se aveva due occhiaie da spavento, per contro sembrava piena di energie. Sembrava persino più in sintonia di te con gli Specter, cosa che ti faceva inarcare un sopracciglio. Quale miracolo era mai accaduto? E, se non era un miracolo, ma un rito, cosa era stato dato in cambio?
Deciso a scoprirlo e a farla finita con questa pagliacciata, la sera della vittoria degli Specter (che dopo l’attacco, da quando Astrid aveva cominciato a partecipare alle battaglie) la seguisti.
Avesti modo di vederla mentre scherzava con il Pipistrello e Cube di Dulallhan e beveva con Violate di Behemoth. Oltre che a danzare con le Ninfe Stigie. Non l’avevi mai vista ballare e dovesti ammettere che era una buona ballerina. Non da Bolshoi, ma decisamente più sicura e sciolta di te e molti altri, che eri rigido quanto un pezzo di ghiaccio.   
Era così che stava conquistandosi le loro simpatie? A sprezzo di voialtri, calpestando la memoria di Neji, Anna, Saoirse e Iago?   
A un certo punto Aliena rise: «Visto che sapete ballare benissimo?» Poi, le sfiorò il viso con un dito tinto di nero e le disegnò un’ala di farfalla con la magia. Tu sgranasti gli occhi per l’orrore riconoscendo quel disegno. «No, Astrid!» Sibilasti, ma lei non ti sentì.
Volteggiò con le Ninfe e poi con Myu della Farfalla. Che, non solo si rivelò un ottimo ballerino, (in confronto a te sicuramente, in realtà era solo discreto) da come le sorrise sembrava che avessero un flirt già da molto tempo. Cosa che ti fece sgranare gli occhi.
Scopristi anche che vigeva una sola regola in questo luogo: niente Surplici, quindi anche gli Specter erano costretti a togliersi la Surplice prima di entrare e Myu, non era mica così brutto nella sua forma umana. Qui i servitori di Hades, che facevano a turno per gestire gli Inferi, potevano smettere le loro Surplici e divertirsi come normali esseri umani. E, smettendole, persino il loro aspetto tornava meno spaventoso e decisamente più umano, come nel caso del sopraccitato Specter. A giudicare dal sorriso di Astrid non doveva baciare neanche male.
Era impossibile che l’avesse scambiata per una Ninfa Stigia. Per poco non ti prese un colpo quando la vedesti amoreggiare con lui.
Una rabbia gelida t’invase e, con tutta la sua freddezza e l’offesa, intervenisti.
La tirasti via da lui. «Camus!» Esclamò contrariata fulminandoti con i suoi occhi dorati. 
L’altro invece, dopo un istante di sconcerto rise divertito e ti incitò con un’entusiasta: «Falla divertire anche per me, amico!»
«Che cosa fai? Lasciami, lasciami! Ma perché? Mi divertivo». Protestò lei in tono lamentoso, neanche fosse una ragazzina di dodici anni, mentre la trascinavi via. «É così che ti divertivi? A sprezzo di Anna, Neji e Saoirse?» L’accusasti.
«Come osi?»
«Semmai come osi tu mancargli di rispetto così! Ti sei divertita anche troppo, adesso andiamo via».
Puntò i piedi: «Non se ne parla neanche».
Tu ti fermasti e ti girasti senza lasciarle il polso. Possibile che fosse tanto menefreghista? Allora non gliene importava davvero niente di quei bambini, la sua era veramente tutta una recita.
Il tuo sguardo guizzò lungo le spalline che erano scivolate sulle sue braccia. E, cosa peggiore di tutte, oltre all’offesa si aggiunse il desiderio. Lasciasti andare il suo polso come se tu ti fossi scottato.
Ti sentivi ridicolo. Non era possibile che una semplice ragazzina ti facesse capitolare così. Anche perché ti sentivi ancora offeso. «Per favore ricomponiti». Le suggeristi, forse con più serietà e disgusto di quanto avresti voluto.
Invece di fulminarti a sua volta con gli occhi e rispondere per le rime, un sorriso malizioso affiorò sul suo volto e replicò: «Che c’è? Ti dà forse fastidio vedere qualche centimetro di pelle? Oppure non sei più abituato a vedere una ragazza che si diverte?»
«E, quello lo chiami divertirsi? Sei proprio un’irresponsabile e irrispettosa! Come fai a divertirti sapendo di lasciare incustoditi Raki e Tokaki dopo quello che è successo? E poi con gli Specter. Lo sai chi è quello là? Quello è Myu della Farfalla, uno dei più forti di Hades, secondo soltanto ai tre Giudici Infernali!»
Per tutta risposta incrociò le braccia e ti guardò scocciata: «E, allora?»
«E, allora è un nemico del Santuario di Atena e tu dovresti essere a proteggere quei bambini». E i tuoi discorsi facevano pena. Con tanto di rima.
«Guarda che Hades e Atena sono alleati. Non è che mi stai facendo la paternale perché sei geloso?»
Nonostante l’incredulità la guardasti severo: «Qui non si tratta di gelosia! E, se lo venisse a sapere la tua madrina con chi credi che se la prenderebbe di più? Con me o con te?»
«Solo perché ho baciato uno Specter? Permetti che il tuo ragionamento non ha senso?» Ti fece notare alzando un sopracciglio.
«É lo stesso, devi stare attenta, ogni cosa qui è predisposta per farti cadere in tentazione e poi catturarti. Guarda Aliena, abbiamo già rischiato grosso una volta, cosa ti garantisce che Myu poi non faccia lo stesso? Che si approfitti di questi momenti per insinuarsi nella tua mente e controllarti? Scusa, ma non riesco a restare impassibile». Tentazione? Semmai trappola. Perché ti stavano uscendo questi lapsus?
«E allora? Ho dei bisogni anch’io, semi sopiti da tutto quello che mi è accaduto finora ma ne ho. Non vedo cosa ci sia di male nel baciare qualcuno ogni tanto. Dopotutto sono single, fino a prova contraria non ho mai giurato fedeltà alla Dea e, non saranno sicuramente due baci in croce e uno Specter a traviarmi. Aggiornati, Camus, non siamo più negli Anni Ottanta. E poi mi pareva di essere stata chiara, io non mi faccio sicuramente comandare a bacchetta. Inoltre, nel caso ti fosse sfuggito, io sono più pericolosa di tutti voi messi insieme.» per un momento, nel dirlo, ti sembrò più fragile e spaventata di quanto fosse realmente. Era come se il solo parlarne portasse alla luce la fragilità e il timore che non mostrava. Ma non era esterna, no, piuttosto era interna. Per te fu come una rivelazione: non avevi mai pensato che potesse essere spaventata dal suo stesso potere. Tuttavia non ti lasciasti commuovere e tornasti al discorso originale. «Non me ne frega niente di tutto questo, torna immediatamente da Raki e Tokaki, questa è l’unica cosa che m’importa».
Eppure in cuor tuo sapevi di stare sbagliando tutto; continuasti. La stavi trattando come se foste in guerra con l’Oltretomba invece che dalla stessa parte. In un certo senso era ancora una fraternizzazione con il nemico e avevi ragione. Come avevi ragione a trattarla così. Purché reagisse, finalmente. Non stava fuggendo, la verità era che si era stufata di tutto questo e aveva deciso di mollare. Si poteva essere più stronzi di così?
Non ci credevi per niente alle sue vuote giustificazioni. Neanche tu eri mai scappato, avevi affrontato il tuo dolore sempre e comunque. Quanto avevi sbagliato a giudicarla, credevi che fosse più matura e sensibile di così. Adesso la vedevi per la stronza che era davvero.  E ciò non fece che aumentare il tuo disgusto. Ed eri intenzionato a farglielo sentire tutto e a farla soffrire davvero. Anche se non era nelle tue corde e non ti era mai fregato prima. «Non cambiare discorso…» Cominciasti severo ma lei t’interruppe, con voce spezzata, come se stesse sforzandosi di parlare normalmente e non ci riuscisse. Non potevi neanche scorgere i suoi occhi a causa della falda a tendina. Aveva, infatti, chinato il capo. L’unica cosa che notavi era che stringeva i pugni e che tremava.
Non glielo dicesti a voce alta, eppure fu come se lo avessi fatto.
La sua intera figura fremeva di rabbia: «Permetti che anch’io voglia sentirmi, almeno la notte, di nuovo una ragazza normale? Che questa situazione sia stressante anche per me? Va bene, mi trovo negli Inferi, ma voglio solo sentirmi normale! Almeno qui. Tu non hai mai sentito questo bisogno qualche volta? Ah, ma che diavolo parlo a fare con te, non capiresti neanche la metà di quello che dico».
«E non ci tengo. Mi hai deluso profondamente».
Lei scoppiò in una risata divertita e se ne andò piantandoti lì.
Chiudesti gli occhi con un sospiro, prima di darti dell’imbecille per aver sperato che in lei ci fosse qualcosa di buono e andartene dalla parte opposta. Da quella notte la bionda non tornò più alla tenda.  

Ti alzasti dal masso piatto dove eseguivi i tuoi esercizi e ti stiracchiasti prima di profonderti in uno
sbuffo seccato. Ancora nessun miglioramento. Nonostante tutta la buona volontà di Fianna e del Druido non si erano ancora visti miglioramenti.
Quando tornasti all’accampamento, la prima cosa che facesti fu andare a trovare i ragazzini. Fortunatamente stavano bene, accuditi da Isaac e Fianna. Quei due insieme stavano facendo un lavoro decisamente migliore di quello di Valentine e Astrid. Cancellasti immediatamente ogni pensiero sulla ragazza. Non dovevi pensare a quella stronza. Adesso che le vostre forze si erano rimesse abbastanza, dovevate concentrarvi sulla prossima battaglia.
Persino i Cavalieri di Poseidone erano riusciti a ricevere gli aiuti necessari, grazie al decreto di aiuto gratuito di Lady Pandora. Così avevano potuto riparare le Scale e rimettersi completamente dalla convalescenza. Anche grazie all’aiuto dei medici Specter e celtici.  
Adesso la loro parte di accampamento risuonava del clangore delle loro armi e dei loro colpi. Molti avevano ripreso ad allenarsi.
Tokaki era sparito.
Ti tornò immediatamente in mente l’albero degli Specter.
Lo cercasti in lungo e in largo, senza successo.  Poi, lo vedesti ritornare alla tenda, guardandovi con due occhi grandi così: «Che cosa è successo?» Vi chiese perplesso quando ebbe colmato a gran velocità la distanza tra di voi.
«Come che cosa è successo? Eri sparito!» Esclamasti tu mentre Raki lo abbracciava.
«Ma ero solo andato in bagno». Protestò debolmente il ragazzino, separandosi dalla bambina. Buttasti fuori tutta la tua paura con un respiro profondo: «Non farlo mai più, adesso fila a dormire».
«Cosa? Devo farmela addosso adesso?» Chiese il giovane sgranando gli occhi per l’indignazione.
«Hai capito, dopo quello che sta succedendo non scherzare».
«Io? Piuttosto dovreste essere voi a non scherzare, da quando Anna e Saoirse sono scomparse, la bionda non fa che piangere tutto il tempo e a me tocca di fare da balia alla ragazzina!» Protestò Tokaki, indignato.
Posasti immediatamente la tua mano sulla sua spalla per fermarlo. «Cosa? Che cosa hai detto a proposito di Astrid?» Esclamasti strabuzzando gli occhi. Il ragazzino ti guardò perplesso: «Cosa? Quando?»
«Tre sere fa». Tre sere fa, cioè da quando avevi rifiutato di aiutare la giovane. E quella sera doveva essere successo qualcosa, ma tu eri troppo impegnato a piangerti addosso per accorgertene. Accidenti, non ci voleva: «Sai dov’è?»
«Non lo so, sono tre sere che non la vediamo».
«Allora come fai a dire che piange?»
«É Raki che lo dice, lei le legge nel pensiero». La piccola lemuriana confermò e ti rivelò che era stata la stessa Astrid ad averle chiesto di mantenere il segreto: «Ha detto che voleva piangere da sola, però non riesco più neanch’io ad avvicinarmi a lei, si sta chiudendo troppo in sé stessa. Ho paura che non tornerà più da me». Spiegò la quattordicenne con occhi pieni di lacrime.
Lasciasti andare la spalla del ragazzino, incredulo. Allora non era rimasta indifferente.
Il sedicenne sembrò ammorbidirsi un po’ e domandò, mostrando parte della sua preoccupazione: «Non le è successo nulla di male, vero?»
«Vado subito a verificare». Lui annuì un po’meno timoroso, poi se ne tornò dentro la tenda, trascinando delicatamente anche Raki. Quella sera avrebbe pensato lui a proteggerla.
Cercasti Astrid in lungo e in largo. Solo quando uscisti dalla tenda-infermeria allargasti il campo. Non era neanche da Menta. La quale era ancora in coma.  
La trovasti seduta a un tavolo della mensa con un boccale stracolmo di birra davanti. La guancia destra appoggiata sul tavolo e i capelli che le coprivano la faccia. Se non fosse stato per il colore della sua chioma, neanche l’avresti scorta.
«Astrid». La chiamasti sollevato nelle intenzioni, come una domanda nella realtà. Sembrava che le avessero tagliato la testa e l’avessero abbandonata sul tavolo. Improvvisamente si rianimò e borbottò: «Accidenti, in questo schifo di posto non posso neanche farmi un barracuda decente e devo accontentarmi della birra». Poi rise delle sue stesse parole e cominciò a gorgheggiare The greatest. Almeno, deducesti che si intitolasse così.
La sua voce partiva malamente rispetto al solito. Impastata e con le parole sbiasciate, come se avesse la colla al posto della saliva. Poi scoppiò a sghignazzare divertita e la sua voce sbocciò, tornando limpida come sempre.
«Sono ancora qui, non sono mica partita». Ti corresse raddrizzando il busto. E tu avesti la conferma che era proprio mezzo ubriaca. Un senso di disagio e timore ti attraversò: per la prima volta la vedevi toccare il fondo.
Lei, incurante di tutto, si pulì la bocca con il dorso della mano e domandò, allegra - un luccichio voluttuoso negli occhi: «Ma sai che ora che ti guardo vedo che sei carino? Dici che mi congelo se ti bacio?»
Preferisti ignorare la domanda e andare dritto al sodo. «Ho saputo quello che è successo, Raki mi ha detto tutto…» ma non avesti il tempo di finire che fosti interrotto: «Chi…? Ah… Ah, ho capito. Anna e Saoirse, Neji, Raki sì, mi ricordo. Sì. Bene, mi fa piacere. Mi hai detto che sono una stronza, eh? D’accordo, ti faccio vedere quanto importa, alla stronza… Vieni, vieni…»
Si alzò e, barcollando un po’, se ne andò. Tu la seguisti con un misto di angoscia e timore.
Avevi un leggero timore che potesse girarsi di colpo e mostrarti ben altro. Ma lei non sembrava interessata.
In poco tempo usciste dall’accampamento e vi inoltraste nella foresta risalendo il ruscello fino a una piccola area delimitata da sassi, bastoncini e candele. Al centro dello spiazzo, comunque pulito, c’erano quattro piccole erme sormontate da una croce di rametti legati insieme con un laccetto. E tutto attorno qualche fiore infernale fresco sopra altri molto più secchi. Contasti almeno cinque mazzolini per ogni tomba, come se le avesse portato i fiori tutti i giorni. Solo dopo capisti che erano le tombe-simulacro dei bambini che non era riuscita a proteggere.
Raki diceva sul serio la verità.
«Hai visto quanto sono stronza?» Rise la ragazza poi, canticchiando, con voce sempre più controllata e vibrante The greatest, s’inginocchiò. Quando la canzone arrivò al No, no, no, il suo «No!» Si trasformò in un ruggito di rabbia e di dolore disarticolato che la portò ad abbattere violentemente i pugni sul terreno. L’impatto fu così potente che aprì una voragine.
Arretrasti istintivamente di un passo.
Poi gemette e si ripiegò su sé stessa.
Si strinse il busto piangendo disperata. I capelli che le erano scivolati davanti al volto a causa del movimento repentino, nascosero le sue lacrime. Ma non la sua voce ormai trasformata in pianto vero e proprio.
Improvvisamente  rivedesti il piccolo Hyoga chino davanti alla buca nel ghiaccio che singhiozzava per Isaac. «Isaac… Isaac». E, di riflesso, anche tu ti sentisti così, quella volta per questo tuo fallimento come maestro. Poi il ricordo sfumò restituendoti alla realtà.
In questo momento non era un’apprendista e, non era neanche la Luce Ombrosa: era soltanto una ragazza persa e sofferente. Ti sentisti molto vicino a lei. Anche se i vostri dolori avevano una causa diversa entrambi condividevate lo stesso senso di responsabilità. Tuttavia, potevi solo immaginare quanto fosse grande il suo. Se quello che ti aveva raccontato corrispondeva alla verità, sulle sue spalle era stato posto un peso che la stava schiacciando.
Chinasti il capo, i pugni di nuovo stretti.
«Dovevo salvarli, gli avevo detto che l’avrei fatto e non sono riuscita a fare niente! Niente!» Gemette di dolore e rabbia, ormai completamente lucida a causa della sofferenza.
Ti avvicinasti a lei, che si era raddrizzata e spostata i capelli dalla faccia, prima di lasciar ricadere anche quella mano in grembo a far compagnia alla gemella. Il volto rigato di copiose lacrime che adesso potevi vedere. Di bocca le uscivano gemiti strazianti che non avevi mai sentito neanche da Surt quando la valanga travolse la sua adorata sorellina.
T’inginocchiasti accanto a lei e le cingesti le spalle con un braccio, stringendola di lato. Lei si strinse a te e tu chiudesti gli occhi asciutti.
Sembrava che t’implorasse di non lasciarla mentre si aggrappava a te e, tu, stavolta, riuscisti ad abbracciarla.
L’aiutasti a tornare alla tenda e, lì, la osservasti coricarsi nel giaciglio. Gli occhi ancora lucidi di pianto. Le tenesti una mano tutto il tempo nella speranza che da questo contatto potesse trarre la forza che le serviva. «Cerca di riposare, Astrid, per favore». 
L’indomani le portasti una tazza di latte e dei fiori che avevi colto vicino al ruscello. Già che c’eri avevi pure innaffiato il mughetto infero in vece sua.
Quando si svegliò, tu eri ancora lì, accanto a lei. Ti parve sollevata di trovarti ancora al suo fianco. Anche se eri tutto intorpidito e ti faceva male la schiena più del solito.
Non le chiedesti se andasse meglio, perché era evidente che non era così. Ciò nondimeno dovevate essere forti, eravate nel bel mezzo di una guerra e, le persone avrebbero continuato a morire.
Le chiedesti di resistere un altro po’, finché non fosse tutto finito. Più che una Saint sembrava un soldato di un conflitto molto più umano.
Pregasti Atena per lei che non si spezzasse mai.
La giovane annuì.    
Nei due giorni seguenti cercasti di tirarla su ed evitasti di farcela pensare più del dovuto. Così avresti evitato di offenderla e, al tempo stesso le avresti dimostrato la tua vicinanza.
Cosa ti animasse non lo sapevi neanche tu. Né avevi idea da dove le prendessi le energie. Sapevi di essere molto stressato. Era merito del tuo addestramento e del tuo invidiabile autocontrollo se non eri ancora crollato. Potevi abbatterti, ma crollare no, anche se avevi bisogno di una vacanza.
No, non potevi mollare adesso. Un mucchio di gente contava su di te e tu eri un guerriero. Avresti fatto vedere a tutti di che pasta eri fatto. 
Poi, appena finisti le lezioni di magia con Fianna e un Druido insegnante, tornasti alla tenda e lì ti addormentasti immediatamente, esausto.   
Sognasti un sorridente Luco della Driade attaccarti.
A trarti dalle tenebre dell’incoscienza, fu un profumo. «Te l’ho detto, non puoi battermi, Cavaliere». Lo sentisti sogghignare ai tuoi interrogativi e, improvvisamente, il profumo si fece più intenso. Da quando in qua sognavi anche gli odori? Un momento, ma nei tuoi sogni non erano mai comparsi. Apristi gli occhi e li vedesti davanti a te qualcosa di viola che te li fece sgranare di colpo, trasalendo. Guardasti meglio e capisti che era solo un mazzolino di fiori. E, che accanto c’era una ciotola fumante, subito dietro c’era Astrid che ti guardava spaventata dal tuo scatto: «Tutto bene?» Ti chiese. Ci mettesti un po’a metterla a fuoco e, notasti che si era data una ripulita.
Ti mettesti seduto e fu allora che vedesti che quella era la colazione: «Oh, grazie». Facesti sorpreso anche e soprattutto per i fiori.  
«Prego, ho pensato che potesse essere…» cercò la parola «un compenso per il tuo disturbo». Sorrise leggermente, spostandosi una ciocca dietro le orecchie. Fu così che ti accorgesti che vestiva di nuovo la sua armatura e, la prendesti come un buon segno. Allora a qualcosa era servito se, aveva deciso di ricominciare a lottare. Ti mettesti seduto e la guardasti assonnato, senza capire di cosa stesse parlando. «Mi rendo conto di essere stata un peso in questi giorni, però…»
«Di che cosa stai parlando? Guarda che io l’ho fatto perché volevo, pensavi che volessi qualcosa in cambio?» Chiedesti, mezzo divertito e mezzo offeso. Lei si fermò di colpo e ti guardò sgomenta, prima di arrossire per l’imbarazzo e distogliere lo sguardo: «Scusa». Farfugliò e, di lì in poi, a fronte dei tuoi tentativi di cavarle una risposta decente di bocca, lei si impappinò.
«Per cosa?»
«Pensavo che» poi borbottò qualcosa di non intelligibile che ti costrinse a domandare: «Come, prego?» Udito fine o no, non captavi ancora le frequenze dei pipistrelli. E la tua stanchezza non se ne era ancora andata.   
«Grazie per tutto». Fece a voce più alta, diventando scarlatta come la sua parure a forma di orecchio di drago. Annuisti come a dire: “Ok…” Poi pensasti che fosse meglio lasciar correre. Ti limitasti a ricambiare con un cenno del capo, mentre l’imbarazzo calava su di voi come una cappa. Aspettasti che dicesse qualcosa, ma non le venne niente. Si alzò e se ne andò.  

«Per questa battaglia avrò bisogno della collaborazione di tutti voi». Ricapitolò la donna in nero, i lunghi capelli sciolti come una cascata nera sulla schiena. «Per quanto siamo diversi dobbiamo collaborare e unire le forze per agire nel migliore dei modi. Ora che la Luce Ombrosa» a te non sfuggì il vago tentenno nella sua voce al solo nominarla, «È dalla nostra parte, non abbiamo più alcuna ragione per temere le Creature, o meglio, le Lacrime di Kalì, come ci ha informati il qui presente Aquarius».
«Spero mi vogliate scusare per avervi taciuto tanto a lungo contro chi ci saremmo battuti». Disse la signora in nero, guardandoti. «Non deve essere affatto facile per voi combattere contro il vostro stesso Santuario».
«Non preoccupatevi, mia Signora, non è la prima volta». La rassicurasti tu. Ma era la prima volta che lo facevi seguendo una giusta causa e vestendo la tua sacra Aquarius, non una Surplice.
In questi giorni le Signore a capo della Resistenza si erano riorganizzate e avevano schierato i loro paladini per strappare a turno pezzi di Inferi ai Morti. Una menzione d’onore particolare tra questi spettava a Sheffield del Basilisco e a Flegiàs del Licaone. Anche Myu della Farfalla si era distinto per le sue doti contribuendo a danneggiare e le truppe nemiche. Anche da solo Myu avrebbe potuto contrastare le Lacrime, in quanto il suo potere si basava sulle anime che lo schermavano dagli attacchi.
Non usare direttamente Astrid in campo era una buona strategia. La ragazza non era totalmente esperta nell’uso delle tecniche del Cosmo ed era ancora molto acerba come guerriera. Non aveva neanche la resistenza necessaria per sopportare lo sforzo fisico di una battaglia vera e propria.

«Mi hanno riferito che siete entrato in contatto con il nostro protettore Divino, è vero?» Domandò la donna.
«Sissignora».
«Che ne pensate?»    
«Sinceramente non so che cosa pensare».

Sembrò che volesse chiederti altro, ma poi ti congedò.
 

«Una voce che mi spronava in una direzione differente dai percorsi che conoscevamo». E che voi, però, tristemente conoscevate. Maledizione, stava succedendo ancora. «Questa voce non è di un avversario come gli altri, mi mette i brividi, ho una paura che non ti so neanche descrivere tanto è immensa». Cercò di rifiutarsi.
Tu le stringesti le spalle e incatenasti i tuoi occhi nei suoi: «So che può essere terrificante, ma per favore, cerca di guidarmi fino alla fonte». Lei annuì, soprattutto quando le promettesti che l’avresti salvata in tempo ed eri deciso a farlo, stavolta.
Così, eravate giunti ai piedi di un tronco di magnolia a fianco di una cascata di sangue. Dove trovaste Astrid osservare l’albero, le mani intrecciate dietro la schiena. Più che aspettandovi sembrava che stesse dialogando con l’albero.
La Lemuriana lanciò un richiamo alla sua amica, che si girò a guardarvi: «Raki, Camus!» Esclamò, perfettamente consapevole, poi vide anche Tokaki.
L’apprendista di Aries corse da lei e la strinse a sé, implorandola di fermarsi. «É tutto a posto, Raki, va tutto bene». 
«Che cos’è questo?» Chiese a mezza voce.
«Astrid, andiamocene via». La implorò Raki, mentre tu, come in un incubo, rivedevi Neji  avvicinarsi al tronco, trascinandosi dietro Anna e Saoirse.
«Cosa ci fai qui?» Le chiedesti, tu, invece e la bionda ti rispose che stavolta aveva voluto giocare d’anticipo.
Annuisti.
«Mi sta chiamando». Asserì Tokaki con voce trasognata, senza distogliere lo sguardo o mutare espressione e, per un momento il passato parve fondersi con il presente. Sembrava incantato.
Astrid sollevò il suo falcione di Cosmo dorato e l’aria attorno alla sua persona vibrò.
«Cosa stai facendo? Smettila, Tokaki!» Strillò Raki correndo ad abbracciarlo. Lui sussultò e si fermò. Vi guardò battendo le palpebre, come se non capisse che cosa stesse succedendo. «Maestro Aquarius, Astrid io… Cosa stavo facendo?»  
«Niente, è tutto a posto, non stavi facendo niente». Mentì lei ma il ragazzino non ci cascò e si staccò dalla stretta di Raki fissandola male.
«Non mentite, non sono un bambino. Basta menzogne, basta bugie, mi ci hanno cresciuto da tutta una vita, adesso voglio la verità».
Con un sospiro, decidesti di rispondere alle sue domande, di modo che sapessero: «É l’albero degli Specter, è lui che vi chiama a sé e vi uccide. É questo il motivo per cui vi hanno rapito». Rispondesti in tono lugubre osservando il tronco spoglio.
I due arretrarono come se la pianta avesse potuto divorarli.
Poi spiegasti alla tua compagna d’arme, che vi guardava leggermente stranita, che secondo la leggenda, era da questo che gli Specter erano nati. E che, fu dai suoi semi che Asmita della Vergine fabbricò il mala nel millesettecento, anche se, tale azione gli costò la vita.  
«Lo conosci?» Chiese Astrid in tono angosciato, guardando la pianta leggermente indietro alla sua sinistra.
Tu annuisti di nuovo e concludesti seguendo il suo sguardo: «Si dice che fu abbattuto da Tenma di Pegasus nella Guerra Sacra del Millesettecento». Mentre raccontavi, cominciasti ad avere la conferma della vaga idea dell’uso che potevano avere questi ragazzini per la causa degli Specter. Soprattutto ora che Luco della Driade era morto e la daga deicida di Saga era caduta nelle mani di Don Avido.      
«Perché noi non la sentiamo?» Domandasti poi, confuso, tradendo tutta la preoccupazione e l’angoscia che provavi con una piccola esitazione.
«Forse soltanto i bambini possono sentirlo».
«Ehi, noi siamo qui!»
«Siete comunque dei bambini».
«Non è il momento». Li bloccasti in anticipo. Non aveva senso neanche alle sue orecchie perché lei, Cosmo o non Cosmo, poteva sentirlo. No, il fattore età non c’entrava niente e neanche il Cosmo. Era qualcosa di più sottile. 
Astrid tornò a guardare voi, volgendo le spalle all’albero che si stagliava contro il paesaggio roccioso e il cielo tempestoso. Un refolo di vento smosse le vostre vesti. Ma non fu solo questo a farla rabbrividire, mentre osservava quei rami come se da un momento all’altro un paio d’occhi gialli e inquietanti si aprissero dalla corteccia e ricambiassero i vostri sguardi. «Camus?»
«Sì?»
«Orologi fermi, uno stato di trance che fa sembrare tutto sospeso come in un sogno, ragazzini che scompaiono e vengono ritrovati feriti o privi di vita… Adesso questa storia somiglia veramente a Picnic ad Hanging Rock». Asserì la tua versione femminile in tono talmente cupo che persino il coraggioso Tokaki rabbrividì.
Il vento che soffiava vi portò alle narici l’odore della cascata di sangue, vi riempì la bocca del suo sapore come se steste abbeverandovi ad essa. Persino l’ululato delle raffiche, nel riecheggiare tra le rocce, sembrava suggerire una delicata e, al tempo stesso spigolosa, inquietante melodia che faceva da solenne colonna sonora di un disastro. E se nel proferire quelle parole, persino lei era spaventata, non osavi immaginare quanto dovesse essere terrificante il film che stava citando.  
«C’è qualche problema?» Domandò una voce famigliare mentre osservavate l’albero. Con un sussulto vi giraste di scatto e vedeste Myu della Farfalla ritto in piedi su una roccia. Le braccia incrociate e lo sguardo fermo e autoritario. «No, nessuno». Mentì cercando di essere più convincente che poté.
Tornaste indietro e a metà strada lasciaste che i ragazzini vi precedessero.
Appena fosti soli le domandasti se andasse tutto bene. Non aveva abbandonato neanche un secondo il suo falcione. «Non è per via di quello che è successo, non potevamo immaginare che…»
«Lo so, eppure non riesco a non incolparmi per la mia impotenza». Fece lei asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, rivelando tutta la sua fragilità. Aveva preferito non mostrarla davanti ai ragazzini.  
«Dobbiamo fare qualcosa». Convenisti con lei.
«Dunque è per questo che sono stati portati qui! Gli servivano delle batterie per ricaricarlo». Sibilò lei.
«Dobbiamo distruggerlo». Dichiarasti.
Lei si bloccò e ruggì «No!» con tutte le sue forze. La guardasti interdetto e ti fermasti a tua volta.
Non era lei quella che voleva salvare i bambini? Allora perché adesso cambiava idea? «Perché no? Se gli Specter riconquistano il potere della magnolia degli Inferi…»
«Vinceranno la Guerra!» Ti zittì.
Anche questo era vero. «Sì, certo ma…» Iniziasti ma lei t’interruppe ancora una volta: «Abbiamo già il mala di Shaka e, un giorno tornerà nelle mani di un Cavaliere di Virgo, ma ora dobbiamo lasciare tutto così com’è».
La guardasti senza riconoscerla: si era bevuta il cervello, per caso? «Astrid non puoi lasciare che gli Specter riconquistino tutto quel potere».
Lo sguardo tagliente che ti rifilò, fu solo una velata anticipazione delle parole piene di determinazione che l’accompagnarono: «Sì che posso».
«Quindi non vuoi proteggere le altre persone? Lasceresti veramente che tutti gli altri soccombano per via di quell’albero?»
«No. Io le voglio salvare tutte. Non c’è nessun tutti gli altri, o tutti o nessuno, Camus e io non permetterò mai che questi fantasmi mettano in pericolo l’intero ciclo della Vita e della Morte. Non m’interessa per quale motivo ce l’hai a morte con gli Specter, non m’interessa che cosa ti hanno fatto, qui la Guerra non è contro di loro! Non è neanche contro Valentine». Già, ti eri scordato che Valentine fosse uno Specter «E se l’albero degli Specter possa rappresentare in qualche modo una fonte del loro potere, così sia. Così avremo qualcos’altro in più per contrastare quella daga che non sono riuscita a recuperare». Confessò.
«La daga? Come sai della daga?»
«Ero lì» emise un sospiro addolorato e ti raccontò tutto, persino di quello che aveva scoperto e di come adesso potesse effettivamente nuocere ai fantasmi e le anime tramite le Lacrime di Kalì. Restasti sorpreso dall’ultimo atto di bontà dello Specter, che l’aveva coperta permettendole la fuga. E, al tempo stesso, ci restasti di stucco nell’apprendere che l’unico medico tra gli Specter, l’unica persona che poteva rifornire le fila, era persa. Questa notizia andò a minare il piano che stavate tessendo.
Le chiedesti perché non avesse detto niente. Lei si strinse nelle spalle e abbassare il capo. Poi rispose, più piano, affranta: «Non lo so».
Adesso si spiegava tutto, la dedizione che ci metteva per curare quel mughetto, il fatto che ogni volta tu la trovassi sempre lì. Luco le aveva affidato la fonte del suo Cosmo, prima di morire. E da lì lei sperava di riuscire a farlo resuscitare. Nonostante ciò, non riuscisti a non guardarla di traverso. La sua genialata rischiava di mandare a monte ogni cosa. «Chi altri lo sa?» Le chiedesti, sforzandoti di parlare normalmente. «I nemici. Tra le nostre fila solo tu ed io».
“Fantastico!” Pensasti sarcastico.
Chiudesti gli occhi, imprecando mentalmente e incrociasti le braccia. Questa non ci voleva.
Quando li riapristi e parlasti, scegliesti le parole con molta cura: «Ti rendi conto che questa informazione ci doveva essere data molto prima?»
«Sì». Si scusò contrita con voce sottile.
Tu apristi gli occhi e la guardasti con disprezzo: «Dovrò riferirla ai nostri alleati». Dopodiché le voltasti le spalle e te ne andasti. Lei parve riscuotersi e ti seguì. Ti afferrò per un braccio e ti fermò, facendoti girare verso di sé: «Mi dispiace, Camus, mi dispiace davvero!»
Tu ti liberasti dalla sua presa e la trapassasti con lo sguardo: «Non è a me che devi chiedere scusa, qui non serviranno a niente le tue scuse. Questo non è un gioco e mi rammarica vedere che tu non abbia ancora capito la gravità delle tue azioni! Tuttavia anche tu sei molto migliorata. Se abbiamo questa nuova tecnica che permette alle Lacrime di ferire i fantasmi, non abbiamo bisogno dell’albero, per cui lasciamelo abbattere».
«No! Non possiamo fare affidamento soltanto su quella». Adesso ti sentivi di nuovo dilaniato dalla ragion di stato e i tuoi interessi personali. Come durante la battaglia delle Dodici Case. Ma già una volta avevi sbagliato, non avresti commesso lo stesso errore due volte. Non lo avresti mai permesso a nessuno, neanche a lei. «Astrid, quell’albero non può comunque restare in piedi!»
«Invece ci resterà! Ripeto, Camus, o tutti, o nessuno e, con tutti, dico anche gli Specter. Se questo è il modo che hanno escogitato per salvarsi così sia, ma cercherò un’altra soluzione, per sostituire le vittime sacrificali con quei fantasmi scassa palle».
«I fantasmi?» Questo era inaspettato.
«Meglio loro che i Vivi, no?»
«Guarda che anch’io rientro nella categoria». Le facesti notare; salvo poi rinvenirti.
«No, altrimenti il tuo cuore non batterebbe e non cercare di fregarmi, non sono Hyoga, con me non attacca, lo so che il tuo cuore batte e che stai facendo un Viaggio Astrale, quindi sei ancora vivo». Il ragionamento non faceva una grinza eppure ti ritrovasti lo stesso in disaccordo con lei.
«Quindi cosa ti aspetti che faccia? Che mi unisca a te in questa campagna suicida? Hai una vaga idea di cosa tu mi stia chiedendo?» Perché eri abbastanza sveglio da intuire che si sarebbe cacciata nei guai durante il prossimo scontro. Più grossi del solito, stavolta.      
«Veramente mi aspettavo che tu ti mettessi contro di me, di risponderti che non m’interessa, che io ho scelto di fare così e farò così, perché io non credo negli aut aut e voglio crearmi da sola le mie possibilità». Ribatté alzando le spalle, l’ira che cominciava a infiammare il suo sguardo.
Non t’impressionasti per quella silenziosa minaccia albergante in quelle iridi dorate.
Quello era il discorso più stupido e al tempo stesso più speranzoso e coraggioso che avesti mai sentito. «È una follia». Rilevasti, cercando di farla tornare coi piedi per terra. Peccato che neanche questo smorzò la sua determinazione o le fece cambiare idea, anzi, si accigliò ancor di più: «Non è la prima follia che faccio. Non mi tirerò indietro solo perché loro indossano delle Surplici e tu una Cloth e, non mi tirerò indietro neanche se tu dovessi diventare mio nemico, neanche se tutti gli Specter decidessero di darmi contro. So solo che in quel caso mi difenderò. Ora so come fare».  Concluse in tono secco.
Poi ti superò. 
«Tu sei una Saint…» Iniziasti.
«Io sono la Luce Ombrosa!» Sbraitò (girandosi di scatto) con una determinazione e una ferocia tali che ti ammutolirono. Era come avere a che fare con una fiera.
Le sue parole rimbombarono nella vallata e tornarono indietro in un’eco distorta. «E combatto per le stelle, ecco per chi combatto». Dichiarò sempre allo stesso tono, ma con voce più bassa, senza staccare gli occhi ferini dai tuoi.
«Non posso aiutarti a macchiarti di questo peccato. È immorale Astrid, non ti aiuterò a scavarti la fossa da sola. Per favore, non lasciarti consumare dal dolore, combattilo ed evita che anche i fantasmi abbiano in sorte la morte», facesti tu, opponendoti fermamente a tutto quello che aveva detto, perché sapevi bene da cosa le nascesse. Anche se condividevi i suoi intenti, non ne condividevi il metodo e tanto ti bastava.
«Quei fantasmi meriterebbero ben di peggio che la morte». Protestò in tono secco.
Nuove lacrime di rabbia le rigarono le guance.
Capisti di essere sulla strada giusta e, allora continuasti. «Lo so, ma non sei obbligata a dargliela tu».
«Non importa».
“Ho capito”, pensasti e sospirasti, rassegnato. Non potevi persuaderla a cambiare idea.
«Hai fatto la tua scelta». Le accordasti, ben sapendo che non le avevi accordato proprio niente. Che lei non ti considerava il suo maestro, tantomeno un padrone. Teneva troppo alla sua libertà per permettere a qualcun altro di decidere per lei.
L’unica cosa che potevi fare fu voltarle definitivamente le spalle. Alla fine la soluzione per il problema delle Lacrime di Kalì l’avevate trovata, no? Allora non serviva a niente continuare a collaborare.
Presa questa decisione la lasciasti lì.   
Mentre tornavi indietro ripensasti alle sue parole e a tutto quello che era successo.
Adesso comprendevi perché Valentine si fosse allontanato dicendo queste parole, che adesso si riaffacciarono nella tua mente. Era un avvertimento. Aveva cercato di dirti che cosa stavano facendo i suoi commilitoni e tu non l’avevi capito, occupato come eri.
Adesso cominciavi a capire che lui stesso aveva cercato di indurti a essere più forte fin da subito. Il suo comportamento era quello di un maestro nei confronti dell’allievo. Ma tu non l’avevi riconosciuto perché non avevi mai avuto bisogno di maestri.
Ora più che mai avevi bisogno di parlare con qualcuno che potesse aiutarti. Una persona che poteva veramente aiutarti. La freddezza e la ferocia della ragazza era spaventosa persino per te. Se fosse stata un ragazzo non avresti esitato a rimetterla in riga. Ma qualcosa te lo aveva impedito. Un piccolo grumo di oscurità dentro di te che ti sforzavi di combattere. Lo stesso che ti diceva che lei avesse ragione, anche se non ne condividevi il metodo. Né il piano che aveva, perché significava che si sarebbe messa in pericolo da sola. E lei non era abile quanto voi nella lotta. Le sue tecniche non l’avrebbero sostenuta in eterno e lo sapevate tutti.
Ti tornò in mente lo Specter dai capelli color lino.
Già. C’era un’altra persona cui potevi rivolgerti in questo frangente. Anche solo per chiedergli scusa. Per questo andasti a cercarlo.
Una volta dentro l’accampamento però, fu più difficile di quanto pensasti. Nessuno sapeva dove fosse andato. Avevi quasi perso le speranze quando sentisti un movimento alle tue spalle. Ti girasti e lo vedesti. Ecco perché nessuno sapeva dove fosse, era rimasto alle vostre spalle tutto il tempo. Valentine ricambiò il tuo sguardo, restando vicino alla palizzata. Sembrava chiederti se finalmente tu avessi realizzato. E tu, annuisti. «Avevi ragione, scusami». Ammettesti contrito.
«Non importa, sapevo che avevi bisogno di sbatterci la testa prima di capirlo».
«Sono così testardo?» Chiedesti lasciando che ti affiancasse.
«Temo proprio di sì».
«Dove alloggi, adesso?»
«Assieme agli Skeleton della legione del Cocito». Rispose il ragazzo al tuo fianco.
«Ti andrebbe una birra? Per scusarmi». Pronunciasti impacciato. Non eri abituato a chiedere scusa. A Hyoga non l’avevi mai chieste a Milo neanche. Ma almeno adesso, con Valentine, volevi veramente scusarti nel modo giusto. Lo Specter esitò. «Non fare quella faccia, offro io». Dicesti e lo Specter si rilassò: «D’accordo».  

«Alla fine hai capito che cosa intendevo dire?» Ti chiese a un tratto, mentre sorseggiavate la birra, appoggiati di schiena al tavolo della mensa e le gambe accavallate.
«Sì».
«Mi dispiace».
«Anche a me».
«Sappi comunque che non abbiamo avuto altra scelta». Si scusò. Se non altro, lui non approvava e, questo ti rassicurava. «La bionda come l’ha presa?» Non gli era mai rimasto impresso il nome di Astrid. 
Gli raccontasti del vostro litigio e lui restò di stucco. «Non saprei dire se avessi dovuto aspettarmelo oppure no. So solo che questo complica moltissimo la situazione». Commentò soltanto lui prima di tracannare un altro sorso.
Avresti voluto chiedergli se gli avesse dato fastidio il fatto che avessi parlato senza pensare che lui appartenesse alle nere schiere. Tuttavia non lo facesti. Valentine sembrava non essersene neanche accorto. Oppure non gliene importava proprio niente. Ad ogni modo andava bene così, con le scuse eri veramente negato.
Restaste a parlare del più e del meno finché entrambi non vi addormentaste al tavolo.  
A svegliarti fu il torcicollo e la scomodità della posizione in cui ti eri assopito. Se avevi sognato, non lo ricordavi. Alla fine avevate parlato tutta la notte, tra un sorso e l’altro. Non eri ancora abituato al sapore dell’alcolico, ma cominciava a piacerti la rossa. E ora ti sentivi annebbiato al punto giusto da non capire niente, finché non ti misero in mano un bicchiere pieno di un liquido rosso in cui riconoscesti, vodka, sale, pepe, uova e succo di pomodoro e… un sedano che ti solleticò la faccia, prima che tu prendessi e lo mangiasti. Fatto sta che fosti di nuovo in piedi e, pronto per capire che cosa stesse succedendo.  Eri talmente stanco che neanche ti eri accorto dell’arrivo dei cuochi.
«Uh, conosco questo cocktail». Mugolasti.
«Già, è ottimo in queste situazioni». Commentò il tuo amico bevendo avidamente il suo. Al resto avrebbe pensato il tempo. Quello che vi serviva davvero era un antidolorifico. Anche Valentine era un concentrato di acciacchi e dolori, soprattutto perché aveva dormito con la Surplice indosso. Avesti un’immensa pietà per lui al pensiero di tutte le piaghe che doveva avere sotto alla corazza.
«Ma voi Specter non ve la togliete mai?» Perché ora che ci pensavi, salvo quando Fianna lo medicò e quando dormiva con voi, erano giorni che non lo vedevi senza. 
E poi, quando arrivarono i primi avventori alla spicciolata, comprendesti che non sarebbe stato un giorno come gli altri. Il campo era sempre in fermento. Ma stavolta sembrava che qualcosa avesse infiammato gli animi dei presenti, ma che dico, di tutto l’accampamento.
Molti Specter discutevano animatamente tra loro, tra il rifiuto e il basito e, altri, presto cominciarono a protestare. Alcuni annunciarono che si sarebbero recati al Padiglione della Giudecca e avrebbero cercarono di chiedere udienza alla Luogotenente.
Persino i Marine con le loro schiere di Cavalieri Sirene e Tritoni che arrivarono erano allibiti.
«Ma che sta succedendo?» Chiedesti a Valentine.
«Non ne ho idea…»
A rispondervi però fu un cuoco: «Come, non lo sapete? Lady Pandora ha inviato una lettera a Don Avido, dice che vuole incontrarlo e discutere con lui».
Strabuzzasti gli occhi mentre Valentine eruppe in un: «Che cosa?» Facesti per porre delle domande quando ti sentisti chiamare alle spalle e ti girasti. Un gruppo di Cavalieri-Sirena ti si avvicinò trafelato e ti assediò con una raffica di domande. «Perché voi Gold siete tra quelli che, più di tutti hanno combattuto contro Pandora e le truppe di Hades».
«Non so moltissimo, quello che so viene dagli insegnamenti del mio anziano maestro». E anche da ciò che aveva appreso Hyoga. Per esempio era grazie a lui che avevi imparato il koliso, l’avevi osservato mentre si allenava. Eppure, parlando con queste persone che si erano accomodate a semicerchio attorno a te, scopristi che anche quello che sapevi non era poco.  Per quanto questa nuova versione di Pandora, adesso ti era chiaro perché avesse chiesto udienza proprio a te. 
Appena ne sapesti un po’ di più, anche tu ti mettesti a disquisire sull’argomento.
Qualcuno ti riferì anche che Astrid, fu vista uscire arrabbiata nera dalla tenda della Giudecca. E come darle torto, anche tu ti saresti infervorato se qualcuno cui tenevi avesse fatto una stronzata del genere. Appena lo pensasti i tuoi occhi cercarono la figura dell’Arpia. Ora non restava che attendere, perché dubitavate moltissimo che Lady Pandora si sarebbe mossa con solo uno sparuto drappello a farle da scorta.
E, così fu.
Lei si mosse portando buona parte di voi, tra cui anche te e le legioni Celtiche. Riconoscesti anche alcuni mostri della Notte. Cercasti con gli occhi anche l’Azone, ma non lo vedesti da nessuna parte.
Mentre marciavate ti rendesti conto che Astrid ti aveva affiancato. L’abito pulito sotto l’armatura. L’avresti riconosciuta tra tutti, per quanto si discostava dagli altri Specter e da qualsiasi altro guerriero presente.
Ti scoccò un’occhiata e tu la salutasti con un cenno del capo che fu ricambiato.
Poi, insieme vi recaste al luogo adibito per lo scontro: ossia la piana tra il Flegetonte e la Quinta Prigione.    
Come da programma, tu, Valentine, Aliena e gli altri guardiani dei Fiumi Inferi si fermarono sulle collinette. Alcuni Specter e Skeleton vi imitarono per dare l’impressione che voleste assistere. E, presto, vi ritrovaste circondati dal vociare, mentre tutti gli altri fecero da cordone di sicurezza per voialtri che, a un cenno di Pandora avrebbero evocato la potenza del loro Fiume.
In un certo senso ti sembrava di essere finito alla prima del Teatro della Scala. Ma questa volta non sarebbe finita con degli applausi.
Per vostra fortuna i vostri avversari non se ne accorsero e presero possesso di almeno metà dello spiazzo. Come poveracci che non possono permettersi il prezzo del balconcino e devono accontentarsi della platea.
Non pensavi, tuttavia che fossero così numerosi. Don Avido aveva schierato tutte le sue forze per questo sold out. Il messaggio era chiaro: questa per voi sarebbe stata la disfatta. Raramente le battaglie dell’esercito meno folto vengono vinte.
«Quanti sono?» Chiedesti a Valentine.
«Troppi». Rispose in tono lugubre.
Poi, presero a urlarvi insulti. Ma, grazie alla conformazione del paesaggio, quelle voci risultarono come amplificate.
Al tuo fianco Valentine strinse i pugni, fremendo di rabbia. Anche tu facesti una gran fatica per trattenerti. Avevi un buon autocontrollo, questo è vero, ma avevi anche voglia di chiudere quelle boccacce.
Un dux bellorum vi si affiancò e mormorò, adirato: «Che rabbia, credono che siamo dei codardi».
«Non m’importa, che lo pensino pure», suggerì Valentine, parimenti offeso, «poi assaggeranno tutta la furia dell’Arpia». Dichiarò e il Celta annuì. 
Solo in questo momento ti accorgesti di aver perso di vista Astrid. La cercasti con lo sguardo ma era come scomparsa. Anche Valentine non aveva idea di dove fosse. «Probabilmente avrà raggiunto il battaglione di Aiacos». Ipotizzò.  
Lady Pandora si staccò dalla testa del gruppo e si diresse a metà del campo, dove Don Avido la raggiunse. «Non ho intenzione di negoziare con voi». Annunciò la donna dalla lunghissima chioma corvina a capo delle Armate Infere, andando dritto al sodo.
«Peccato, speravo in una trattativa amichevole». Fece il Black Saint di Ara con un tono dispiaciuto che andò a contrastare il mezzo sorriso sarcastico che curvava la sua bocca. Ma questo lo capisti solo dal suo tono di voce. Quello che potevi vedere bene, era la Black Cloth di Ara che splendeva su tutto quel beige polveroso della pianura.
«E non sono neanche così stupida da prendermi una freccia nel cuore. La risolviamo con una lotta in singolar tenzone: il campione degli Inferi contro quello dei Morti». Aggiunse Lady Pandora determinata.
«Interessante, non mi era mai capitata una simile proposta prima d’ora. Ci sto». 
«Molto bene, allora io schiero in campo Rhadamantys della Viverna, Giudice Infernale della Caina». Chiamò la donna girandosi verso di voi, alzando al cielo il tridente di Hades.
Dalle vostre fila si levarono grida d’incoraggiamento, applausi e colpi di lance su scudi e Surplici per il campione che si staccò dalla bolgia e raggiunse la Signora. Nemmeno una volta si girò a guardarvi.
Anche tu non potesti fare a meno di tifare per la Viverna che si affiancò alla Luogotenente degli Inferi. La quale tornò a fronteggiare l’avversario.
Don Avido tacque a lungo prima di parlare: «Bene, io scelgo Gateguard di Aries, Custode della Casa del Montone Bianco!»
E, dalla parte dei Black Saints, si levò un’ovazione ancora più grande di quella che accompagnò la discesa in campo di Rhadamantys. Era come se più che a un gladiatore stessero applaudendo all’entrata in scena di una leggenda.
Un giovane dai capelli rossi a caschetto con indosso la Gold Cloth di Aries si staccò dal gruppo, raggiungendo il Black Saint. Il suo passo cadenzato trasmetteva orgoglio, come se fosse consapevole delle sue capacità e ne andasse fiero.  
Assottigliasti gli occhi. Non ricordavi di averlo visto durante l’ultimo scontro, ma ricordavi molto bene che un Gold avesse dato parecchio filo da torcere durante l’attacco a sorpresa.
Non era un lemuriano e questo ti aveva sorpreso, dal momento che eri abituato ai lemuriani come Custodi della Prima.  
Il giovane uomo incrociò le braccia al petto e alzò il mento, guardando il suo sfidante dall’alto in basso, come se valesse meno di zero. Anche dalla piccola altura da cui ti trovavi riuscivi a vederlo perfettamente. Una posa così arrogante non si trovava spesso ma si riconosceva subito. 
Intanto che Rhadamantys arretrò e piantò la punta di un’ala nel terreno e tracciò il cerchio in cui si sarebbe svolta la sfida. Poi, quando finì entrò all’interno e lo scontro iniziò. I  due contendenti cominciarono a camminare in cerchio senza staccarsi gli occhi di dosso. I muscoli tesi sotto le armature, pronti a scattare in qualsiasi momento. Sembravano due leoni pronti a sbranarsi.
Poi scattarono.      
Il rumore dei loro colpi riecheggiò per tutta la vallata.


«Oh, i vostri colpi sono inutili, Rhadamantys della Viverna, preparatevi a morire!» Urlò, prima di accoltellarlo con la daga deicida, ma Rhadamantys chiuse le mani attorno alla lama, fermandola.
Il Black Saint cercò di spingerla più a fondo, ma era come cercare di affondare un coltello nella roccia, tanto la presa della Viverna era salda.
Non potesti fare a meno di ammirarlo.
«Hai dimenticato una cosa, don Avido, negli Inferi, siamo noi i Signori!» E il Black Saint sgranò gli occhi, soprattutto quando si rese conto di non poter più contrastare la forza di Rhadamantys che, con un ringhio si rialzò e lo sbalzò indietro di sei metri.
Il Saint però riacquistò subito l’equilibrio.   

«É un trappola! Ci hanno teso una trappola!» Urlò Minos.

«Gateguard!» Chiamò il Saint e il predecessore di Mur si fece nuovamente avanti. Alzò le braccia al cielo, caricando il Cosmo per scagliare l’Elevazione di Forza, che raggiunse la volta Celeste Infera per ricadere su di voi sottoforma di meteore dorate. Istintivamente arretraste di un passo e vi abbassaste. Tu cercasti di fermarli. Congelasti rapidamente gli atomi assieme a Isaac che ti imitò e anche a Aiacos che lanciò le Fredde Lance del Loto Bianco sfruttando l’acqua da voi congelata. Senza troppo successo.
Dannazione, eri ancora troppo inesperto nell’uso dell’acqua per riuscire a fare alcunché soprattutto quando: «Blue impulse!» Sentiste gridare e un fiotto di Cosmo blu, un attacco di Bluegrad andò a colpire la vostra barriera minandone pericolosamente la stabilità.
Isaac si scagliò addosso al soldato ma Aiacos e Minos lo richiamarono agli ordini.
Il Marine del Kraken si bloccò immediatamente. Mosse la testa di lato in una smorfia di disappunto e obbedì ma si tenne comunque pronto a usare il Cosmo per fare qualcosa. Così come gli altri Specter e fantasmi che lanciavano ingiurie agli avversari. Intanto che lo Specter di Cetus manovrava l’acqua per andare a creare per voi un nuovo strato che congelasti nuovamente.
«Mantenete le posizioni! Mantenete le posizioni!» Ordinò di nuovo Minos.
Inutile, i vostri scudi non servirono a niente e vi ritrovaste a schivare quanti colpi più possibile.     

«Ci si rivede, Aquarius del XX secolo». Ti salutò Don Avido sorridendo mellifluo.
«Cosa…?»
«Sei finito nella mia trappola, hai dimenticato che anch’io, come a suo tempo Hakurei, sono capace di usare la tecnica dell’Altare? Queste fiamme nere succhiano la tua forza!»
L’uomo si avvicinò a te e ti costrinse ad alzare la testa afferrandotela con la mano: «Adesso dimmi dov’è lei!» Capisti immediatamente a chi si riferisse. E, anche se avevi smesso di collaborare con lei, non significava che non l’avresti protetta lo stesso.
«Non te lo dirò mai». Dichiarasti determinato. Avresti preferito morire definitivamente piuttosto che metterla in pericolo. 
«Come preferisci, tanto non mi servi a niente, disertore». Il sorriso malefico del tuo avversario si ampliò e alzò una mano. Sgranasti gli occhi per l’orrore riconoscendo la spada che brandiva: era la spada benedetta con il sangue e le preghiere di Atena! Fece per calarla quando improvvisamente dalle nebbie si propagò una luminescenza dorata che si rifletté sul suo volto.
L’uomo l’alzò e guardò oltre la tua testa con occhi bramosi.
«Eccola!» Esultò mollandoti a terra. Tu atterrasti sul fianco e ti girasti. Dal polverone vedesti innalzarsi sempre di più un’enorme luce dorata. Un Cosmo d’Oro? Avevi già visto qualcosa di simile prima. Ma non ti ricordavi dove.
Tutti si fermarono e si girarono a guardarla spaventati. Poi la luce s’innalzò rivelando una testa crestata d’uccello che si scosse. Il becco che si apriva e si chiudeva lanciando grida mute e le ali immense che si sollevarono.
Spalancasti gli occhi, ricordando finalmente dove l’avevi già visto e ti rialzasti sui gomiti: «Astrid». Bisbigliasti mentre Valentine ti portava via da lì.
Dritto sotto le zampe del rapace il cui fulcro era proprio la giovane. Gli Specter, i Marine e i Celti si radunarono tutti sotto alle sue grandi ali, un momento prima che gli avversari lanciassero il loro attacco.
Il rapace ricadde su sé stesso trasformandosi in un’enorme cupola di luce che vi protesse e andaste a rinforzare, soprattutto quando un’orda di Saint delle Costellazioni Estinte vi si avventassero addosso.
La cupola li respinse e scomparve. Voi tutti partiste immediatamente al contrattacco. 
Un Black Saint balzò sopra le vostre fila e si lanciò contro Astrid urlando qualcosa di incomprensibile, ma tu fosti più veloce e ti parasti davanti alla giovane e li respingesti con dei colpi sferrati alla velocità della luce. Nessuno di loro, fortunatamente era provvisto del Settimo Senso. «Camus!» Esclamò sorpresa e tu la guardasti da sopra una spalla prima di ammonirla di non distrarsi. «Pensavo che…»
«Non è il momento, Astrid! Concentrati!» Lei obbedì, anche se stanca. Dannazione. Non era abituata a bruciare tanto Cosmo. 
«Forza, stai andando bene». La incoraggiasti, guardandola negli occhi. Finché sareste rimasti in piedi, non sarebbe mai finita. Afferrasti la sua mano e lasciasti che ti aiutasse a rimetterti in piedi. Pensavi che non avreste mai combattuto insieme ma ti sbagliavi. Astrid quasi crollò svenuta. La sorreggesti e ti passasti un suo braccio attorno alle spalle. «Forza, ce la possiamo fare», l’incoraggiasti sostenendola.
La sua fronte era imperlata di sudore.
La barriera non avrebbe retto ancora a lungo. «É inutile, dammi un momento». Ti supplicò.
Improvvisamente la voce di Rhadamantys risuonò per tutto il perimetro: «Voi ascoltate, ascoltatemi tutti!» E tutti gli occhi furono puntati su di lui, persino i vostri. «Non è finita. É questo il coraggio degli Specter? É questo il coraggio delle schiere della Resistenza? Dei guardiani degli Inferi, dei popoli antichi e delle schiere che hanno difeso i Santuari? É tutto qui? Vi arrendete già? E’ così che servite il Sommo Signore degli Inferi? È vero, loro sono più forti, loro sono più feroci, ma sono solo tagliaborse e tagliagole! Loro non sono guerrieri, noi invece sì! Abbiamo combattuto gli uni contro gli altri per secoli, ma adesso siamo qui, siamo coperti di ferite, ma siamo ancora vivi e, non abbiamo ancora finito di lottare! Finché i nostri cuori continueranno a battere e la nostra volontà di servire gli Dèi infiammerà le nostre anime, niente sarà perduto. Anche a costo di tramutarci noi stessi in ombre, non ci arrenderemo! Ognuno di noi ha la capacità di conquistare il mondo e renderlo suo schiavo e ha più potere di quanto immagina! Anche il più debole di noi può fare qualcosa per rovesciare le sorti di questa guerra. Siamo gli unici che possono fermarli e li fermeremo! Per ogni colpo ricevuto, noi ci rialzeremo! Non abbiamo ancora giocato tutte le nostre carte e non saranno due ferite così a ucciderci! Siamo veterani di Guerra anche noi, sappiamo come combattere, abbiamo assi nelle maniche e allora usiamoli! I Black Saint e i loro alleati si credono forti solo perché hanno una spada, ma noi lo siamo di più perché non abbiamo mai avuto bisogno di spade! Non ci serve la daga deicida! Noi abbiamo gli Inferi, noi abbiamo i Mari, noi abbiamo gli Dèi del Sonno, della Morte, della Giustizia, dei Sogni, le creature della Notte, la magia, il Cosmo e abbiamo la Luce Ombrosa! Scatenate il vostro Cosmo senza timore!» Urlò.
«Gli Inferi sono dalla nostra parte, non ci serve altro!» Ululò a sua volta Aiacos, dandogli manforte.
Tutti alzarono le braccia al cielo, gridando come un sol uomo.
Di nuovo carichi e combattivi. Persino Lady Pandora alzò in aria il suo tridente, urlando a sua volta. 
«Scatenatevi!» Ruggì Rhadamantys a squarciagola alzando a sua volta le mani, prima di levarsi in volo. Subito imitato da tutti coloro che erano dotati di ali e della capacità di levitare mentre tu e Astrid vi facevate in quattro per impedire l’avanzata dei nemici.
«Era ora!» Sbottò lei lanciando una piccola sfera nera che materializzò tra le dita addosso a un Black Saint che si avvicinò troppo.
«Ritiratevi, avete già fatto abbastanza». Vi ordinò Violate di Behemoth affiancandovi prima di abbattere un gruppo di Saint con la Brutal Real. Imitata da molti altri Specter, mentre voi guardiani dei Fiumi Infernali, arretraste nelle retrovie, dove attendeste il segnale per entrare in azione. 
   
Astrid
Camus e io stavamo ritirandoci più velocemente che potevamo. Ma era difficile muoversi con la vista sfocata a causa della velocità e la paura e la terra che tremava a causa degli attacchi e il rumore delle esplosioni e avversari e pezzi di terra che volavano dappertutto. A un certo punto

«No! Fermi!» Urlai e cercai di scagliarmi addosso ai nemici. Ne dovevo prendere almeno uno! Uno soltanto.
Fui fermata da un guerriero che, con un colpo ben assestato mi fece cadere bocconi. Poi mi prese per i capelli e mi tenne ferma, strappandomi un gemito di dolore. «Ben fatto, Francisca». Commentò qualcuno.
Il loro trionfo durò poco che materializzai il falcione di Cosmo e, mi rivoltai come una biscia, attaccandoli. Era colpa loro che stava succedendo tutto questo.
Il sangue mi andò alla testa e la mia rabbia divampò come un fuoco. Così forte da fare male pure a me. Non avevo mai provato niente del genere: «Bastardi! É colpa vostra! È colpa vostra se quei bambini sono morti!» Urlai menando fendenti che i miei avversari scansarono senza scomporsi.
«Di che cosa stai parlando?» Chiese uno di loro mentre cercavo di attaccarli.  
L’ex Gold Saint di Taurus, decisamente più piccolo del suo successore, mi guardò sbalordito un momento, poi mi attaccò. «Great Horn!» Esclamò e liberò il suo Cosmo.
Io urlai cercando di ripararmi dietro il falcione, finendo così con lo scoprire che il suo attacco mi passò attraverso. E lo stupore andò ad aggiungersi alla sorpresa, smorzandola un po’, come una goccia di bianco su una tinta rossa.
«Non è possibile!» Esclamò l’uomo, vedendomi ancora illesa. «Indossi una stola delle Ninfe Stigie!» Urlò poi, riconoscendo la stola che mi ero drappeggiata attorno al busto.
Ma davvero?
Se pensava che questo mi avrebbe sbalordita, non aveva fatto i conti con il mio sangue freddo. In un momento la lucidità tornò in me congelando come ghiaccio tutto quanto, permettendomi di incanalare la rabbia e usarla. Finalmente pronta per attuare una strategia.
Rialzai la lama e mi lanciai all’attacco senza timore, adesso che potevo attraversare i suoi colpi quanto mi pareva. “Non dargli tregua”, ripetei a me stessa per tutto il tempo che combattemmo. E, anche se l’Armatura del Toro lo proteggeva interamente, aveva ancora piccolissimi pezzi di pelle scoperta su cui colpire. Tutto si aspettò, infatti, fuorché lo colpissi alle cosce e sotto la spalla, infilando la lama sotto le protezioni degli spallacci e tirassi, di modo che potessi spezzare la sua Cloth. «Cosa?» Esclamò sempre più sorpreso, soprattutto quando alzai il falcione e lo colpii alla testa, tagliando il suo elmo in due. Rivelando la sua cascata di capelli scuri. Sembrava quasi più giovane di me, ma, nonostante ciò, non mi lasciai incantare. Saltai indietro usando il suo corpo come punto d’appoggio e mi spostai il falcione dietro la schiena, tendendo una mano verso di lui, le dita aperte a gruppi di due, rivelando la stella nera che lo avrebbe reso cibo le Lacrime. Poi, alzai le sopracciglia un paio di volte e gli feci cenno d’avvicinarsi, invitandolo ad attaccare. E lui non si lasciò certo pregare. Ben presto riuscii a sopraffarlo: aveva un modo diretto di combattere, troppo, senza tracce di slealtà a minare il suo operato. Ma non mi fu permesso di prenderlo a causa di una delle Lacrime, che lo afferrò. Solo in un secondo momento mi resi conto di avergli infilato la stella nera in corpo, mandando in fumo il mio stesso piano. Maledizione! Pensai mentre il poveraccio subiva il tocco incandescente della Lacrima, strillando a perdifiato, mentre dalla sua persona si levava un odore di bruciato.  
Gli volsi le spalle (a fatica, ho sempre un cuore) e me ne andai ma la strada mi fu sbarrata da un muro di fiamme dorate. «Dove credi di andare?» Mi chiese la voce del Cavaliere d’Oro dell’Ariete. Mi girai di scatto e gli lanciai una stella nera, ma lui la schivò scartando di lato. Sgranai gli occhi: non avevo contato che potessero evitarle!
Lui mi guardò, più altezzoso di Camus: «Ancora non capisco perché ci tieni tanto a sfidarci, donna, non potresti semplicemente restartene lì zitta e buona?» Mi chiese don Avido, guardandomi infastidito. Non risposi, se non trapassandolo con un’occhiataccia, digrignando i denti in perfetto stile Rhadamantys.  
L’uomo alto e muscoloso con i capelli a caschetto rossi mi guardò disprezzo: «Non posso credere che gli Inferi siano arrivati ad assoggettare persino una donna, per di più senza un’Armatura e un Cosmo degni di nota». Commentò.
«Assoggettato sarai tu!» Ribattei ricambiando la sua occhiata con una fiammeggiante, attraverso la frangia. L’uomo spalancò gli occhi un momento, per lo stupore, come se avessi toccato un tasto dolente, prima di assottigliarli di nuovo e replicare: «Lo sono già stato e non voglio esserlo mai più». Mi sollevò il mento e mi squadrò per un momento, come se cercasse qualcosa nel mio sguardo, prima di lasciarmi andare e volgermi le spalle con totale disinteresse.
Avevo sentito delle voci che volevano che un predecessore di Kiki fosse stato assoggettato ad Hades a causa del predecessore dello Specter della Farfalla. Che fosse quest’uomo dallo sguardo bruciante di vendetta?  «Ci si rivede, Specter della Farfalla». Salutò il Cavaliere di Aries con voce incolore nel vedere le Fairy volteggiare attorno a noi.
«Myu!» Esclamai sorpresa, mentre lo Specter volteggiava sopra di noi, battendo le grandi ali, le fairy tutte attorno a lui. «Tornatene nel tuo girone Gateguard». Gli ordinò.
«Con piacere, ma tu verrai con me! Force Soar!» Urlò e gli scagliò il proprio attacco che, comunque, andò a infrangersi senza problemi sul palmo teso di Myu della Farfalla. L’uomo fece un piccolo scatto indietro come a dire: “Accidenti, l’ha parato!” Lo Specter gli sorrise beffardo: «Ancora non hai imparato la lezione dopo tutti questi secoli, Gateguard di Aries? Noi Specter siamo superiori a dei semplici spiriti».    
L’orgoglioso predecessore di Kiki fece per attaccare nuovamente, con una freddezza e una lucidità allarmanti, ma prima che potesse fare qualcosa, una lastra di ghiaccio gli bloccò le gambe, costringendolo a fermarsi: «Che cosa? Chi diavolo si azzarda a fermare un Gold Saint?»
«Camus!» Urlai io all’indirizzo del mio collega, che stava correndo verso di noi e, ripresi a lottare con più forza per liberarmi dalla presa del fantasma. «E, mollami!» Ringhiai e, me ne liberai con una testata ben assestata al suo costato scoperto. Nello stesso momento allargai le braccia di scatto, approfittando della presa che si allentò.
«Scappa, Astrid!» Urlò di rimando quando fu abbastanza vicino e con uno slancio, preparò uno dei suoi attacchi di ghiaccio. Non me lo feci ripetere due volte e obbedii, più rapida che mai mentre si abbatteva addosso al mio aguzzino con lo stesso fragore e potenza di una bomba. A causa dell’onda d’urto che si generò fui sbalzata di parecchi metri in avanti e inciampai e ruzzolai giù dalla china, fermandomi sul ghiaino. Le orecchie che fischiavano e il terreno che, sotto la mia pelle ferita, continuava a tremare.
Gemetti di dolore.  
Improvvisamente vidi come in un flash, due mani dalle unghie curate sollevare un libro dalla copertina nera che, quando aprii, capii essere un album da disegno. Poi, vidi un paio di labbra scure e carnose aprirsi e prendere fiato, prima che la voce femminile  che le apparteneva, cominciasse a intonare una poesia:
«Conobbi dei cavalieri, molto tempo fa.
Uomini valorosi, combattevano per la gloria
collezionando sempre la vittoria.
Le loro  ali erano stendardo,
gli occhi di speranza e distruzione lanciavano il dardo.
Sotto al lor potere riunirono ogni fazione.
Nessuno poteva eguagliarli o superarli.
Tutti li amavano.
L’inno squillava per loro»
.
E questi erano i Saint.
«Tutti li amavano, questo l’ho detto,
persino una bambina, seduta sul suo letto
.
Ero io quella bambina».
Dicemmo insieme. Era vero. Io avevo deciso di seguire queste orme perché li ammiravo. Che figura ci facevo se mi lasciavo sconfiggere a questo modo dall’ansia e dalla paura? Quello che avevo detto a Camus erano solo belle parole e basta? Lui mi aveva urlato di andarmene e io l’avevo ascoltato. Ma se me ne fossi andata per davvero, me ne sarei pentita per tutta la vita. Ma al diavolo, chi se ne importava! Perciò cercai di rialzarmi più rapidamente che potei. Se fossi stata un po’più lucida avrei anche usato la Dark Resurrection, ma in quel momento l’idea non mi sfiorò neanche.
«Catturatela!» Urlò il Black Saint e, prima che potessi fare qualcosa, fui raggiunta e, delle mani rudi mi afferrarono per le braccia, strappandomi dal mio stato di shock. «Che cosa fate? Lasciatemi!» Urlai cercando di divincolarmi, ma senza successo, che mi ritrovai trascinata davanti a don Avido in un dejà-vu che non ero affatto decisa a rivivere.  
«Bè? Niente ammonimenti, niente discorsi da Saint? Niente di niente?» Mi schernì il Black Saint con un sorriso malefico stampato in faccia. «Non ho niente da dire a persone come voi!» Sbraitai rabbiosa, facendogli sgranare gli occhi. Gli smielati discorsi da redenzione non facevano per me, questi morti erano morti e tali dovevano restare. Il fatto che la Guerra fosse colpa loro non me li rendeva affatto simpatici o affidabili. Io non avevo nel cuore la pietà di Seiya e degli altri che, con il tempo avrei imparato a conoscere. Io ero dell’idea che se le persone vogliono ascoltarti, allora ti ascoltano. Avevo già provato questa strada e Luco aveva perso la vita per salvarmi.
«Che fanciulla incredibile e, dire che non si sarebbe detto, guardandovi in faccia. Le donne di solito amano sperticarsi in amabili discorsi sul bene e sul male, sul perché facciamo questo, implorano. Tu invece no».
«Aggiornati, brutto stronzo, c’è un motivo se io sono la leader dei Black Saint e tu no!» Sbraitai di nuovo e, sprigionai il mio Cosmo che divampò con una violenta fiammata, liberandomi dalla presa del mio carceriere e mi scagliai addosso al Black Saint, che sogghignando, mi lasciò fare. Quale fu la sua sorpresa quando lo afferrai per il bavero della giacca e tirai verso di me con tutta la forza che avevo. A quel punto cominciò a reagire e cercò di colpirmi, ma vidi arrivare il colpo e lo schivai abbassandomi, solo per prendermi una ginocchiata nello stomaco. Gemetti di dolore e, replicai rialzandomi di colpo, cercando di colpirlo con un pugno nel naso. «Tu la leader dei Black Saint? Vorrai scherzare, spero!» Mi schernì a sua volta, evitando il colpo un’altra volta.
«Non sottovalutarmi, ragazzina ingenua, i Black Saint non seguono nessuno, se non i propri interessi!» Fece, schivando ancora il mio colpo.
«Anch’io!» Ruggii e materializzai di nuovo il falcione di Cosmo e gli balzai nuovamente addosso.    
«Quanto sei patetica». Commentò il Black Saint. Poi, persi i sensi.  

Più che il dolore a svegliarmi, stavolta fu l’olfatto. Odore di pittura di pittura per la precisione. Ecco che cosa mi svegliò. Solo dopo mi accorsi anche che la sofferenza era reale.
Presi in mano la piuma bianca e, questa si sciolse come plastica fusa tra le mie mani. Mi portai le dita al naso e annusai: non c’erano dubbi, erano queste piume la fonte. Poi mi accorsi che un po’tutto qui, sapeva di pittura.
«Dove sono? Che posto è questo?»
«Rilassati, non ho intenzione di farti del male». Mi rispose la voce in tono pacato.
Una risata sarcastica mi uscì spontanea: «Certo, dicono tutti così» “nei film, poi succede il finimondo”. Pensai, pronta a materializzare la mia arma. «Anche quando Neji, Anna e Saoirse sono morti ho sentito quest’odore, perciò smettila di usare questa voce, non m’incanti, tu non sei il vero Aquarius, rispondi alla mia domanda, chi sei?»
«Ma cosa dici, Astrid?»
«Se sei lui dimmi qual è il mio colore preferito». Lo sfidai, pregando che non lo sapesse. Mentre io sapevo quello di Camus. La voce tacque ed io ebbi la conferma di quanto pensato. «L’unica persona che ci tiene davvero ad aiutarti». Ribatté con la sua vera voce, totalmente diversa da quella del mio amico. Questa era più roca e frusciante, aveva degli accenti strani nel suo greco che non riconoscevo affatto. Come se appartenesse a un’etnia diversa.
La luce delle mie mani divampò, rivelando la luminescenza violacea tipica degli Specter. Ma questo non mi rassicurò affatto. «Ah, sì?» Tergiversai guardandomi attorno. «Allora sai anche dirmi dove mi hanno portato e che posto è questo?»
«Certamente, questo è il Palazzo della Giudecca, la dimora del Signor Hades, il Dio dei Morti». 
«Buono a sapersi, se è così perché non sono in una cella?» Perché dalla luce questo mi sembrava un salone di una galleria d’arte più che una cella.
Perché?

 

«Prima vedrai attraverso le lenti e, quando il tuo potere si sarà risvegliato completamente, potrai vedere anche senza il loro ausilio».
«Fatti vedere, ne ho abbastanza di parlare con il muro! Rispondi alle mie domande: chi sei? Che cosa vuoi? Fatti vedere!» Ordinai. Tutto tacque. Cercando di tenere a bada la paura mi girai guardinga, guardandomi attorno, i pugni stretti che illuminavano la via.
Il mio interlocutore si sciolse in una squillante risata divertita: «Vuoi vedermi? Allora guardami». Seguii la direzione della voce e mi ritrovai a osservare un trentaduenne giapponese di bell’aspetto in marsina nera, pantaloni neri e un cappello a cilindro che gli copriva i capelli castani che gli stavano dritti in testa e sulla nuca come spilli. La barba di pochi giorni gli incorniciava la bocca curva in un sorriso smagliante che rivelava una chiostra di denti affilati. Totalmente in contrasto con la sua tenuta bohemien. Solo dopo mi accorsi che anche i suoi occhi non erano normali, bensì di un giallo miele che, nell’insieme andarono ad aumentare l’inquietudine che mi trasmise. Non era la prima persona con gli occhi gialli che incontravo, io stessa li avevo, però lui era diverso. Era come guardare negli occhi un demone. Ed io non potei non sgranare i miei e non fare un passo indietro per il terrore istintivo che mi incuse.
Per non parlare delle strane ali che uscivano dalla sua schiena, era come se un pittore pazzo gliel’avesse schizzate sulla schiena e poi si fosse dimenticato di dare loro un aspetto decente. Erano informi, quasi nebulose come frutto di pennellate aggrovigliate. Il che
Rinfoderò le nebulose ali nere e si portò una mano alla tuba. «Ciao, Astrid-chan». 
«Chi sei tu?» Chiesi, pronta a scappare via nonostante le membra tremanti. Avevo la sensazione di essere caduta dalla padella alla brace.  
«Oh, che maleducato, permettimi di presentarmi, io sono Yoma di Mephistophele, Stella dell’Avanguardia Celeste, per servirti». Il tutto in un tono talmente scherzoso che mi fece dubitare della sua sanità mentale. Quasi quasi era meglio la Viverna, almeno quello era stabile di mente e, inquietante in un modo più normale non così. Non sapevo neanche definire il tipo di inquietudine che quest’individuo mi suscitava. Era qualcosa che andava al di là dello sguardo demoniaco, era qualcosa che mi gelava il sangue. 
Uno Specter! Allora poteva aiutarmi! E glielo dissi, ma lui negò asserendo che non poteva, che non era compito suo agire. Che salvatore scrauso che mi ritrovavo.
«Come sai il mio nome?» Riuscii a dire, cercando di tenergli testa e di controllarmi, prima che un attacco di ansia mi paralizzasse. No, non potevo offrirgli il fianco.
«É naturale, nel corso della Storia hanno fatto di tutto per cancellarmi. Sei famosa, mia giovane amica, il tuo nome e l’eco delle tue gesta si è sparso per tutti i regni dell’Oltretomba e oltre ancora; non c’è nessuno che non conosca il tuo nome».

Avrei dovuto sentirmi lusingata? No, perché questa notizia non mi fece per niente piacere, intanto avrei preferito essere famosa per altro, non per le Lacrime e, poi, altri regni dell’Oltretomba? Aspetta, questo significava che esistevano anche… No, oh, no! “Questa non ci voleva, no…” Pensai sgomenta: significava solo altri guai in vista. «Che cosa vuoi da me?»
Improvvisamente scomparve e sentii una brezzolina sul fianco destro. Poi la sua voce mi arrivò dietro le spalle, strappandomi un sussulto: «Come, cosa voglio? Mi pare logico, cara. Mh, dovresti mangiare di più, sei pelle e ossa e non c’è niente da stringere». Commentò cingendomi da dietro e palpandomi un seno a più riprese.
Strabuzzai gli occhi esclamando immediatamente: «Ehi! Lasciami, maiale!» Cercai di divincolarmi ma lo Specter rise divertito, come se ci godesse da morire e volesse misurare il mio grado di sopportazione. Allora cambiai tattica ricorrendo al caro vecchio “Combatti il fuoco con il fuoco”. Anche se, in questo caso era rischioso. Spostai una mano avanti a me, le dita ancora lucenti dei colori della sua Stella. Improvvisamente la vidi comparire davanti a me e chiusi le dita su di essa. Nello stesso momento, spostai l’altra dietro la schiena con qualche difficoltà. Era un trucchetto che avevo appreso da una ragazza quando andavo al liceo. Ma se allora mi fece impressione, adesso non più. Ero stata molto fortunata, perché Yoma apparteneva alla categoria dei balordi che tendono ad aggredire persone indifese e gracili. Era stato un grosso sbaglio da pare sua, non solo perché ci separavano solo pochi centimetri d’altezza.   
Lo Specter si zittì e saltò via un secondo dopo. Poi commentai, dandomi l’aria di una che la sa molto lunga: «Mh, hai ragione, anche qui devo dire che non c’è molto da stringere». Mi girai per fronteggiarlo e lo ritrovai mezzo voltato di lato, a fissarmi con occhi sgranati e le guance purpuree e le mani a coppa sugli attributi.
Approfittando di questo momento lo avvisai, più minacciosa di quanto volessi: «Non ti avvicinare o ti disintegro. Se mi conosci bene come dici, allora sai anche che cosa posso fare. Non ti conviene farmi gridare». Per sottolineare le mie parole aprii il pugno, rivelando così il mio bottino: la sua stella Malefica fluttuante a pochi centimetri dal mio palmo. Il secondo era ovvio che lo stesse dicendo per rabbonirmi.
Yoma scoppiò in una risata sguaiata e alzò le mani in segno di resa: «Che ragazza ardimentosa! Non ti facevo così combattiva, non come la cara Pandora, che ci metteva sempre un’eternità per liberarsi di me».
Trasalii. Cosa aveva fatto quel maiale? «Che cosa hai fatto a mia zia?» Sbottai arrabbiandomi.
«Niente, niente, tranquilla». Mi rassicurò ghignando divertito, muovendo le mani come se volesse calmare una belva feroce. Ma io continuai a guardarlo biecamente. Mi appuntai di parlarne con la zia. Se le aveva fatto qualcosa, Hades si sarebbe giocato questo Specter; mi giurai mentre Yoma cercava di darsi un contegno.
In verità mi aspettavo che si facesse una risata e che facesse altri apprezzamenti per la mia audacia. Invece aveva reagito esattamente come lo stronzo che conobbe una mia ex compagna di liceo, che si tolse di dosso a questo modo. Anche se lei ebbe il coraggio di palparlo in mezzo a una strada, d’estate e, in pieno giorno. Dopo che lui l’aveva stretta a sé e l’aveva presa per i fondelli sulla sua mancanza di coraggio.  
Assottigliai lo sguardo: «Che cosa vuoi da me, Yoma? Immagino che la tua non sia solo una visita di cortesia».
«Potresti restituirmi la mia Stella? Non mi piace molto vederla nelle tue mani?» Domandò invece lui.
Mi faceva una paura del diavolo, ma non potevo permettere che l’avesse vinta.
«Mi credi così ingenua? Se questa è l’unica cosa che può fermarti allora non me ne priverò così facilmente».
La mia minaccia non sembrò neanche tangerlo perché si limitò a sorridere di nuovo: «Oh, già, giusto. Vediamo se riesco a riprendermela così: Rewind» Tese l’indice verso di me e, cominciò a muoverlo in senso antiorario. Improvvisamente sentii una forza immensa cominciare a strapparmi di mano, attimo dopo attimo, la Stella Malefica. Strabuzzai gli occhi e cercai di riafferrarla ma improvvisamente vidi me stessa balzarmi addosso. Mi ritrassi trattenendo il fiato rumorosamente e, la me stessa si mise dove mi trovavo originariamente. Il pugno lucente chiuso.
Si raddrizzò per fronteggiare lo Specter.
Mentre la Stella si riavvicinava sempre più al suo legittimo proprietario, mi resi conto che il mio doppio si muoveva come se, qualcuno, avesse effettivamente pigiato il tasto del REWIND.
Infatti la vidi balzare di nuovo tra le sue braccia e lottare per liberarsi dalla sua presa, prima di scomparire e la Stella Malefica tornare in possesso del mio avversario.
Poi anch’essa sparì. 

«Come hai fatto? Che cos’era quella forza? Cosa…? Perché il mio döppelganger?» Farfugliai spaventata: non avevo mai avuto a che fare con un potere simile. Tuttavia conoscevo la storia del döppelganger e, non potevo non esserne spaventata.
L’uomo spolverò il capello a cilindro prima di indossarlo nuovamente e sorridere: «Non ho evocato alcun döppelganger, come lo chiami tu. Quello che hai visto è il potere del Tempo. Come immagino avrai capito, posso manipolare il Tempo a mio piacimento». Spiegò rimettendosi l’orologio a cipolla in tasca.
Strabuzzai gli occhi: uno Specter con i poteri del Tempo? Ossignori, questo andava di parecchio oltre le mie possibilità, un potere del genere lo metteva al riparo da ogni mio attacco, persino dalle Lacrime di Kalì. Di tutti gli avversari che mi si erano parati davanti, questo era il più pericoloso, senza ombra di dubbio. 
«Sorprendente, nevvero? Non dirmi di no, il tuo stupore è più che evidente». Mi schernì divertito, cacciandosi le mani in tasca. Ora capivo perché gli orologi e il tempo si fermassero sempre in prossimità dell’Albero degli Inferi. Non era il campo magnetico dovuto alle rocce come credevamo, era lui che fermava il Tempo, lasciandoci in quell’atmosfera sospesa e trasognata tipica del mondo onirico. La stessa che rivedevo anche qui.
«Che cosa vuoi da me?» Reiterai, cercando di non far tremare la voce.
«Te l’ho detto, volevo conoscerti e informarti che il tuo piano è una gran perdita di tempo; non potrai mai salvare quei bambini, alla fine l’Albero li prenderà tutti, volenti o nolenti».
«Molto gentile da parte tua, mi domando a cosa ti serva dirmelo. Hai forse paura che riuscirò a fargli prendere i fantasmi invece di Raki e Tokaki?»
«No, l’Albero non accetterà mai delle prede come quelle che le offrirai tu. Anche se potesse, rischi di distruggere gli Inferi e allora sì che don Avido e i suoi l’avranno veramente vinta».
«Non c’è un’altra soluzione? Non puoi chiedermi di far sì che le cose seguano il loro corso, è troppo crudele, non posso e non voglio permetterlo, meritano di vivere, non di morire».
Lo Specter mi guardò pensieroso, prendendosi il mento tra pollice e indice. Ridusse gli occhi a fessure. Così in ombra a causa della tesa del cappello a cilindro, sembrarono ancor più predatori di quanto non apparissero: «Una soluzione ci sarebbe, la Stella Malefica dell’Ascensione Celeste, ossia la Driade, deve tornare tra le nostre fila». Decretò alla fine.
«Le mie capacità non bastano?» Chiesi infastidita.
«Permettimi di scusarmi se te lo dico così, cara ragazza; significa che le tue capacità sono quasi vicine allo zero. Oh, sì, non nego che tu sia potente, intelligente e coraggiosa, tuttavia non basta. Se ci vuole così poco per vanificare uno dei tuoi colpi più forti - perché lo è, no? - allora, è perfettamente inutile».
Distolsi lo sguardo, colpevole. «Luco della Driade è morto». Rilevai, ancora con i sensi di colpa per averlo lasciato lì.
«Lo so. Ma la sua Stella è ancora da qualche parte e, sicuramente sta aspettando di incarnarsi in un nuovo proprietario che abbia il suo stesso sangue o un Cosmo abbastanza forte da riuscire a contenerla nella sua anima». Fece, calcando volutamente l’accento sulla seconda scelta. E io lo capii immediatamente: «Cosa?» Esclamai.
«Non lo sapevi, ragazza? Le nostre Surplici sono incastonate nelle nostre anime, noi rinasciamo nei nostri stessi discendenti e, non hai tempo a sufficienza per trovarlo». Mi rivelò.
«Allora cosa vuoi che faccia? Che io mi offra volontaria come vittima sacrificale per l’altare degli Specter?»
Il giapponese sorrise mellifluo e ripeté quanto avevo già capito: «È semplice, diventa tu il nuovo Specter della Driade».
«Cosa? Io? Ma io non sono una…»
«Lo so che non hai legami di sangue con Luco, ma è la soluzione più sensata da prendere. Inoltre, quando un ramo si estingue, le Stelle se ne trovano un altro e con quella famiglia restano. Potrebbe arrivare il giorno in cui quella misera armatura che ricopre le tue membra non basterà più e, tu, anche se Luce Ombrosa, morirai. Capisci che sei ancora soggetta alle leggi dei mortali, non puoi sempre contare sulle tue tecniche per salvarti la pelle, come io non posso contare sempre sul Tempo per fare altrettanto. Sì, so anche questo e allora? Io sono la reincarnazione del Titano dell’Attimo Kairos, il fratello minore di Khronos».
Il mio cuore dette un colpo più forte per la paura mentre strabuzzavo di nuovo gli occhi. Ecco perché era così potente! Un Titano! Come diavolo si sconfiggeva un Titano? «E cosa vuoi che faccia se lo divento?» Tergiversai, cercando istintivamente una via di fuga.
«Niente, tu diventalo e basta».
Lo guardai di traverso: «E tu che cosa ci guadagni?»
«Perché pensi che io voglia guadagnarci qualcosa?» “Mah, non saprei, mi fai vedere questo, non fai che calcare l’accento su Luce Ombrosa, mi stai ricattando, non m’ispiri fiducia, dimmi un po’tu”, pensai sarcastica. Sollevai il volto per poterlo meglio trafiggere con lo sguardo e ribattere: «Sento puzza di ricatto da un chilometro di distanza, non mi freghi, lo sento che vuoi qualcosa in cambio, quelli come te non possono muoversi così senza un piano». Almeno lo speravo. Temevo che costui fosse un’imprevedibile che avrebbe potuto dare lezioni a Death Mask.
«Molto acuta. Sì, ci hai preso, la mia intenzione iniziale era proprio questa, infatti. Anche se mi hai interrotto: tu diventa lo Specter della Driade ed io vi aiuterò a sconfiggere don Avido e quel suo esercito di incapaci, dopotutto hai visto anche tu che cosa sono capace, no? Immagina cosa potrei fare su larga scala».
«Abbiamo già gli Dèi Gemelli e dei Sogni, cosa ce ne facciamo anche di te?» Che anche se non sembrava con gli Specter avevo parlato ed ero venuta a conoscenza delle forze alleate.
«Bel tentativo Astrid-chan, ma non hai tenuto conto di un piccolo particolare: anche tu sei necessaria per questa guerra, che cosa succederebbe se ti accadesse qualcosa? Diciamo un incidente? No, non vale con te. Che ne diresti se potessi rivedere la tua adorata madre?» Propose, trovando un punto ben più appetibile per me.
Ebbi un tuffo al cuore. Sgranai gli occhi e rialzai la testa di scatto. Quando continuò capii che aveva ampliato il suo sorriso: «Oh, adesso ho la tua attenzione».
«Tu potresti davvero far… rivivere mia madre?» Chiesi dopo una lieve esitazione e la mia coscienza che sbraitava che era la cosa peggiore che avessi mai potuto fare. Lo sapevo anche da me che era come stringere un patto col diavolo, ma volevo sapere se era possibile, solo questo. Lo Specter addolcì il tono di voce: «Ma certo, Astrid-chan, certo che posso». Era una trappola, era palese che fosse una trappola. Però… strinsi il pugno e mi volsi verso di lui: «E se ti proponessi una soluzione alternativa?»
«E quale?» Chiese confuso, smettendo di sorridere.
«Se riportassi in vita lo Specter della Driade? In quanto Luce Ombrosa ci dovrei riuscire, andrebbe bene lo stesso?» Lo guardai e lo vidi rivolgermi un’occhiata perplessa. Non seppe bene con che cosa ribattere. A quanto pare non aveva mai pensato che potessi trovare una soluzione alternativa al suo ricatto. «Mi dispiace, cara ragazza, ma non credo che sia possibile».
«Perché no? Dopotutto mi basta solo ridisegnare quella stella e anche lui torna in vita, non è un potere molto simile al tuo?»
«Non so. Per quanto possa essere efficace le Stelle Malefiche sono molto diverse dalle anime dei comuni mortali».
«Ma sono sempre Stelle, no?»
«Non è così semplice, Astrid e, poi, le stelle che tu ricrei non sono che una pallida eco di ciò che furono un tempo e, anch’esse sono destinate a spegnersi». Il mio cuore dette un altro colpo: “No, questo significa che…” Death Mask, Aphrodite e tutti quelli che avevo al Santuario erano ancora… No. Non era possibile. «Cosa ne sai tu? Che garanzia ho che non mi stai mentendo?»
«Non sto mentendo, ti pare che possa mentire in una situazione di estremo pericolo come questa?»
«Non saprei, la gente sarebbe disposta a fare qualunque cosa pur di sopravvivere».
«Giusto, ma noi non siamo la gente, noi siamo Specter, siamo dotati di Cosmo, tutti coloro che lo hanno sono destinati all’estinzione totale, credi che a me faccia piacere l’idea, nonostante tutto?»
«Provamelo».
«Farò di meglio, ti farò vedere direttamente». Poi, spiccò un balzo e balzò in groppa a un Pegaso candido come la neve che si abbassò di quota per permettermi di salire. Yoma, appeso al suo collo come se fosse un lampione, invece che il collo di un cavallo, mi tese la mano: «Prego, madamigella». Scherzò invitandomi a salire. Io lo guardai diffidente prima di decidere di accettare l’invito e salire in groppa all’animale che puzzava di pittura: «Non si scioglierà mentre siamo in volo, vero?»
«No, mia cara, non lo farà se non lo voglio io». Mi garantì.
«Non pensavo che il Tempo avesse anche il potere di creare le cose». Borbottai tra me e me e lo vidi serrare di colpo la bocca mentre mi sistemavo all’amazzone e mi aggrappavo all’animale come meglio potevo, prima che prendesse il decollo e mi ritrovassi sbalzata indietro per lo slancio. I grifoni erano più docili sotto questo punto di vista. Mi aggrappai alla criniera dell’animale con tutte le mie forze mentre il vento mi sventagliava i capelli e m’impediva di tenere la bocca chiusa e gli occhi aperti. Quest’affare sembrava un jet! Ma questo voleva anche dire che… No! Il colpo di frusta un’altra volta no!  
Ma non successe perché Yoma mi tenne la testa ferma. «Piaciuto il volo?» Sogghignò divertito. Se fossi stata meno scombussolata avrei anche risposto per le rime coprendolo di insulti, reincarnazione di un Titano o no che fosse.
«Sì.» balbettai ancora tremante e sconvolta per la velocità. Preferivo i grifoni, sinceramente, preferivo i grifoni
«Perché mi hai portato qui? Cosa ci facciamo?» Domandai scrutando le nuvole attorno a noi.
«Ci terrei che tu vedessi una cosa, guarda in basso».
«Cosa ne so che non te ne approfitterai per buttarmi di sotto? Non so mica volare, io!» Sbraitai.
«Non gridare! Sta calma, voglio solo che tu guardi sotto di noi».
Azzardai una sbirciatina, pronta a girare la testa di scatto verso Yoma. Però non riuscii a scorgere niente di rilevante: «Non vedo niente».
«Ci credo, da quest’altezza è praticamente impossibile per gli occhi umani, prova a cercare le stelle della costellazione di qualcuno». M’istruì. Eseguii e, con mia grande sorpresa, mi ritrovai a osservare, in mezzo a tutte le fiammelle violacee qui e là di Specter appostati, anche una costellazione d’oro. Acuii lo sguardo e mi accorsi che non era quella di Camus, bensì, spalancai gli occhi di scatto per lo stupore: «Death Mask!» Il solo sapere che un mio amico era qui mi accese di gioia e speranza. Non ero mai stata più felice di vederlo. Era qui, poco sotto di me
Salvo poi rabbuiarmi subito. Che cosa ci faceva qui? Che io sapessi era molto lontano dal suo parco giochi, come amava chiamarlo lui. «Anche lui combatte assieme a noi», m’informò lo Specter di Mephistophele ed io lo guardai. Vedendo la sua Stella Malefica splendere dentro il suo costato. Non avevo mai osservato la Stella Malefica di uno Specter prima, mi ero sempre limitata a ridisegnargliela, non mi ero mai domandata dove andasse quando sparisse. Adesso cominciavo a capire che cosa intendesse dire, riferendosi alla sua complessità. La Stella dentro di lui era come un altro organo collegato al resto del suo Cosmo tramite una serie di filamenti non troppo dissimili da delle coronarie e da dei capillari. Mi ricordò molto la mostra di corpi umani che vidi quattro anni fa con la scuola. Ora, se possibile, era anche peggio, perché gli stavo facendo l’ecografia con i miei stessi occhi a causa del fatto che la Stella gli era interna. Battei le palpebre e la mia vista tornò normale: «Cosa ci fa lui qui? Gli è successo qualcosa?» Chiesi preoccupata anticipandolo prima che avesse occasione di aprire bocca. Assassino o no, anche la sua vita era importante per me. Era forse venuto a salvarmi? No, non era possibile, pensai riacquistando la lucidità, lui era sparito prima che venissi trasportata qui, non poteva sapere che c’ero anch’io. Almeno così credevo.   
«Non gli è successo niente, ancora». Mi rassicurò e mi raccontò che cosa facesse negli Inferi, mettendomi a conoscenza della manovra orchestrata dalla zia per riconquistare gli Inferi. Il fatto che fosse riuscito a sopravvivere dopo la sconfitta e che continuasse a lottare ancora con la sua divisione, però era rinfrancante.
«Hai notato anche tu in che condizioni sono le sue stelle? Capisci, mia cara? Se hanno fatto in modo che nascessi tu non è stato certo per animare una festa di bambini con trucchetti di magia».
Poi ce ne tornammo alla foresta e, una volta a terra mi aiutò a scendere da cavallo. «Come faccio a sapere che non mi stai mentendo? Potrebbe essere come anche non essere!»
«Certo che sei testarda, eh? Una prova sola non ti basta?»
«No, se a produrla sei tu e, poi, perché mi hai riportato nel Castello di Don Avido se potevi salvarmi?»
«Perché mi andava così, altrimenti non c’è gusto. Ti ho portato qui per farti capire quello che intendo, guarda nell’accampamento, se hai salvato qualcuno a questo modo, allora dovrebbero essere nelle stesse condizioni del tuo amico. Quando avrai capito perché ti dico che è impossibile che tu possa riportarli in vita, allora verrai da me a supplicarmi di aiutarti». Sogghignò di nuovo, con la certezza di avere il coltello dalla parte del manico. «Non ho bisogno del tuo aiuto, Yoma. Anzi, ti dirò di più, ti dimostrerò che sarò capace anche di combattere e di salvare quei bambini!» Dichiarai convinta.
«Lo vedremo; ma ricordati sempre qual è il tuo compito e non perderlo mai di vista».
«Lo so bene cosa devo fare». Ridisegnare la Volta Celeste non si scordava così facilmente. Eppure, le mie parole sortirono solo l’effetto di farlo sorridere beffardo: «Bene, vedo che hai centrato il nocciolo della questione: questo è il motivo per cui le tue resurrezioni sono incomplete,  
«Allora questa volta farò in modo che non si spenga. Piuttosto, perché è proprio necessario che torni lo Specter della Driade?» Domandai.

«Tu hai una buona capacità di astrazione, no? Perché non la usi per capire come mai insisto tanto su questo tasto? Chissà che tu non possa trovare qualcosa di interessante, oppure no.» mi sfidò.
«Cosa posso fare io? L’ultima volta che l’ho usata è stato per capire come liberare un tizio dalla gabbia astrale e togliere il sigillo ai miei ricordi».
«E ti sembra poco?»
Bè, in effetti no, non era proprio poco. Ma qui non si stava parlando di risvegliare un ricordo e un potere. Era un altro paio di maniche. «Credo che se ci sia una persona che può effettivamente fare qualcosa, quella sei tu, anche se l’unica strada che hai è quella di porti delle domande e, dammi retta, per come ti ho fatto vedere ogni cosa, dovresti riuscire a capire come uscire da qui». Fece il mio interlocutore continuando a guardarmi da sopra una spalla con la coda dell’occhio. L’occhio dorato che gli vedevo fu illuminato da un lampo d’astuzia, prima che scomparisse, volandosene via come l’acrobata che era su quel pegaso bianco. Lasciandosi dietro me e i miei insulti gridati a gran voce.
Smisi di sbraitare dopo un quarto d’ora buono per cercare una via d’uscita. Che cosa aveva voluto dire quel pazzo con la sua ultima uscita? Ad ogni modo non avevo tempo per pensarci, dovevo uscire da qui. E forse un modo c’era. Non avevo solo palpato Yoma quando ero caduta da cavallo, ma gli avevo infilato le mani in tasca e gli avevo fregato l’orologio, sperando che fosse con quello che controllava il suo Cosmo.
Il problema era che per quanto fosse intrisa di Cosmo, non riuscivo a capire come funzionasse un orologio a cipolla. Ero abituata a quelli da polso o del cellulare, ma questo no.
In mio soccorso giunse una voce femminile, la stessa della poesia: “Non qui”. Sollevai la testa di scatto e mi guardai intorno con due occhi grandi così: «Chi ha parlato?»
“Non usarlo qui”, ribadì la voce e, non so perché, ma mi venne istintivo ascoltarla, nonostante il suo buffo accento che non riuscii a identificare. “I tuoi amici ti stanno già cercando adesso, quello che devi fare è trovare la sala della Meridiana e bruciare il tuo Cosmo. Non c’è tempo per le spiegazioni, fidati di me”.
«Ma io non so dove sia».
“Segui i dipinti” rispose la voce e io mi guardai di nuovo intorno: «I dipinti?» Quegli angeli in 3D che svolazzavano tutti attorno a noi erano dipinti? Riconobbi il tratto, questo era dello stesso artista sconosciuto che aveva dipinto il Pegaso. Che Yoma si fosse dato alla pittura?
Smisi di pensarci e feci come aveva detto la voce, non prima di aver materializzato il mio falcione di Cosmo d’Oro.

Il palazzo era veramente ampio, anche se il nero e le ombre la facevan da padrone, tuttavia non mancavano i colori. Neanche la penombra era riuscita a offuscare i colori degli angeli dipinti e delle nuvole e l’azzurro del cielo su cui si libravano. Chissà quanti anni ci aveva messo Yoma per fare tutto questo, io non ci sarei riuscita in neanche tutta una vita. Aveva avuto degli aiuti? Probabilmente sì. Solo i grandi artisti impiegano poco tempo per realizzare opere di queste proporzioni. Era un peccato che stessero negli Inferi, le avrei portate volentieri alla luce del sole ed esposte da qualche parte.  
Non c’erano finestre e le luci delle fiaccole rendevano il tutto ancora più inquietante ma al tempo stesso anche un po’medievale, precipitando il contrasto tra le pitture e l’ambiente circostante.
Sebbene non ci fosse nessuno, ebbi spesso avevo la sensazione di essere spiata. Più volte ebbi l’impressione che quegli angeli mi seguissero con lo sguardo.
Mi girai e vidi numerosi quadri di foggia rococò appesi alle pareti. Non riconobbi l’artista ma mi ritrovai a pensare che fosse molto dotato. C’era persino una copia del Santuario di Atena su una tela dodici per sette. Non avevo mai visto niente del genere, prima d’ora. Neanche la patina del tempo era riuscita a cancellare il tocco del pittore. E poi un ritratto a grandezza naturale della stessa Atena in stile rococò.
Restai sbalordita da come la Dea non fosse cambiata per niente in tutti questi secoli. Ma anche dalla giovinezza dei suoi tratti. Non l’avevo mai vista da giovane prima d’ora, anche se questa non era proprio Lady Isabel. Ma non riuscivo a capire dove fosse la sua chioma, era come se ci fosse rimasta solo un’ombra al posto dei capelli lisci.
Questo posto faceva impressione. Nonostante l’immensa meraviglia e il rispetto di queste opere, non potevo impedirmi di spaventarmi. C’era troppo silenzio, come se il palazzo fosse disabitato.
Così, senza che me ne accorgessi neanche, cominciai a cantare tra me e me la colonna sonora dei Pokémon per rassicurarmi. Mi sentii una stupida, eppure mi sentii meglio.
Le mie luci illuminavano il mio cammino, contribuendo a scacciare la paura, ma non l’urgenza.
Seguendo i dipinti e continuando a cantare arrivai al centro esatto del padiglione.
Lì sentii la voce di Myu. «Astrid».
«Myu! Mi senti? Sono qui, Myu!» Urlai e lui mi sentì perché urlò il mio nome ancora più forte. Bruciai il Cosmo come mi aveva detto di fare la voce e mi sentii prendere per i fianchi da delle mani invisibili. Chiusi gli occhi e chiamai il suo nome ad alta voce. Poi l’aria attorno a me cambiò e le mie orecchie furono invase dal rumore della battaglia e – quando li riaprii – circondata da un fittissimo sciame di farfalle.
Non avevo mai visto lo Specter della farfalla all’opera prima d’ora e ne rimasi sbalordita. Sembrava Silente mentre evocava l’Ardemonio per scacciare gli Inferi. Le farfalle volavano compatte attorno a noi disegnando ampi cerchi attorno alla sua persona e, a ogni giro della spirale, si allargavano sempre di più.
Seguendo i cenni dello Specter che fluttuava a mezz’aria, investivano tutte le anime nemiche che gli capitavano a tiro. Adesso cominciavo ad avere una vaga idea di come avesse fatto a salvare buona parte dei nostri durante l’assalto. Poi lo Specter mi vide e mi lanciò un messaggio telepatico come mi strappò un gemito di dolore e sorpresa: “Ti ho riportato qui come mi hanno ordinato, adesso scappa!”
Gli indirizzai un pensiero di ringraziamento, certa che mi avesse udita e obbedii senza farmelo ripetere due volte. Passai sotto lo sciame chinando la schiena e, quando fui di nuovo in mezzo alla battaglia materializzai il falcione di Cosmo per farmi largo tra i nemici e i combattenti.
Improvvisamente inciampai e caddi a terra. Una marea di fiamme nere si sollevò improvvisamente davanti a me e la riconobbi come la tecnica di Ara.
«Dove pensavi di scappare?» Mi chiese retorico don Avido avanzando verso di me.
Mi girai e vidi che la mia caviglia sinistra era stata imprigionata da una catena nera. Cercai di liberarmene ma appena la toccai le mie mani furono immobilizzate da dei fusti di rose. Senza che me ne rendessi conto, mi ritrovai inginocchio con le braccia dietro la schiena.
Cercai di divincolarmi ma non ci riuscii. Non riuscii neanche a bruciare il mio Cosmo. Anzi, lo sentii diminuire pericolosamente. E anche così non mi ci voleva un genio per capire che cosa mi stessero facendo. Se perdevo le forze io la Resistenza crollava. «Devo ammetterlo, ci hai fatto penare, ragazza». Ammise il Black Saint dopo avermi squadrato a lungo. Il mozzicone del sigaro tra i denti si arrossò quando fece un tiro. Poi chiamò alcuni sgherri: «Gateguard, Sommo Itia, Francisca, portatela via».            
«É inutile, don Avido!» Gli urlai di rimando mentre i tre si adoperavano. «Gli Specter combattono da decadi contro di te, non otterrai niente portandomi via!»
«Sì, invece, la resa immediata della luogotenente degli Inferi». Ribatté l’uomo e io sussultai.
«Ti sbagli! A Lady Pandora non importa un fico secco di me!»
«Se lo dici tu, signori, fate in modo che perda tutta la sua forza e portatela via».
Cercai di ribellarmi, ma i miei tentativi li fecero solo ridere.
Presto sentii l’energia venirmi meno e persi i sensi.
Quando aprii gli occhi ero immersa nel buio e lì sentii le risa si scherno di Neera e di tutti coloro che mi avevano ostacolato. Vidi i loro volti sfilare davanti a me uno per uno e, trovai la forza di guardarli in faccia e ribattere, lasciando che i bagliori si materializzassero attorno alla mia persona, strattonando le catene di Cosmo rinforzate dalle rose velenose di chissà quale Saint del passato.
E cercai i miei occhi fisici per poterli riaprire. E mi ritrovai di fronte a un ricordo di mia madre che mi insegnava quello che sapeva sui flussi energetici. «Vedi, Astrid, se tu sei capace di rilasciare energia, sei anche capace di riprendertela, è come se fosse una parte del tuo corpo, come una mano, quando l’allunghi».
«E come si fa?»
«Immagina di vederla e poi ritraila».
L’immagine scomparve e io strabuzzai gli occhi nella realtà. Ma nella foga della battaglia i tre non se ne accorsero neanche. Aveva ragione, era così. Invece che assecondare la tecnica di don Avido cominciai a riprendermi la mia energia. Perciò, cominciai a pensare: “Torna indietro! Torna indietro! Indietro!” Sempre più forte, come se le mie parole avessero potuto effettivamente bloccarla. Per usare la magia però bisognava crederci e io ci credevo. Dopo tutte le prove ricevute era impossibile per me non crederci. Bruciai il mio Cosmo e i tre si fermarono di colpo. 
Aprii bocca e mormorai «Dark resurrection», che andò a incrementare la mia volontà. Io non ero solo corpo, ero anche mente e spirito e Cosmo. Se immaginavo questa perdita di Cosmo come sangue che sgorga da una ferita aperta allora potevo oppormi. E fu così che feci.
Ma le voci che mi schernivano non se ne andarono.
In quel momento non m’importava niente della realtà circostante, quindi non so come reagirono i tre e se lo fecero. So solo che improvvisamente risentii la voce femminile della poesia riprendere a declamare:
«È vero, non sono un guerriero,
non sono addestrata, non sono un soldato. L’inno non suona per me».

“No, io non mi arrendo così! Io non sono impotente!” Ciò detto strinsi i pugni e l’aria attorno a me cominciò a ribollire, facendo tremare le catene e le rose mentre il mio Cosmo tornava a me e con esso la mia forza.  
Con uno sforzo mi alzai in piedi, ritrovandomi con le mani dietro la schiena e i piedi imprigionati, stupendoli: «No, è impossibile, non dovrebbe essere capace di alzarsi! Dovrebbe essere immobilizzata!» Esclamò un uomo alto due metri abbigliato nella Gold Cloth di Libra. Tuttavia la sua stazza non mi spaventò mentre accumulavo di nuovo il mio Cosmo e le fiamme di Black Ara si spegnevano.
«Ma ci sono altri campi dove tu pecchi e io prevalgo.
Ci sono cose che tu non puoi fare mentre io lo faccio
.
Ci sono magie che ti sono precluse e a me si sottomettono
».
E, appena lo pensai mossi le braccia e divaricai le gambe verso l’esterno, spezzando le catene che m’imprigionavano con un grido. Nello stesso momento liberai il mio Cosmo alla sua piena potenza e l’onda d’urto sbalzò via da me i pezzi di ferro, le rose, i miei carcerieri e spense le fiamme. Poi, con la Dark Resurrection mi guarii le ferite e uscii dal cerchio. «E ci sono sogni che non puoi sfiorare
mentre io posso abbracciare e realizzare
.
In quanto a ricchezza c’è molto più di quanto io mostri
».
E, con questo, rivoltai la tecnica contro di lui, sfruttando le immagini e il potere che il Creato mi stava prestando per riuscire a incrinare la presa dei Saint del passato su di me. 
Mossi una mano avanti e con un due dita, feci il cenno di bussare. E le catene che circondavano la mia persona s’incrinarono. Ripetei il gesto e caddero nuovamente in pezzi, come pure il velo di nebbia che era stato steso sui miei occhi, appena ci passai una mano luminosa davanti.
«Altro da me che neppure io conosco ancora».
Tutte cose che don Avido e i suoi sgherri sembravano aver dimenticato. Il Black Saint arretrò spaventato nel costatare che la sua tecnica stava andando in frantumi e, che né lui né i suoi sgherri erano capaci di contenermi.
Per me, queste catene non erano niente che non potessi spezzare. Mi rivolsi direttamente a don Avido, anche se non poteva sentirmi. Due facce della stessa medaglia che all’apparenza han fatto la scelta opposta, anche se io non avevo mai voluto questo potere, c’ero nata e basta. Ma come intenti erano diametralmente opposti e come scelte ancora di più.
Don Avido, che si era allontanato solo di pochi metri, mi guardò stupefatto mentre avanzavo. «Non può essere, nessuno era mai riuscito a vanificare la mia tecnica!»
Ma io non ascoltavo.
Gonfiando il mio Cosmo ripensai a tutte le cose che quella notte nel Giardino della Sesta entrarono in sintonia con me. E, per la prima volta sentii la terra, il cielo, l’acqua, Tutto, cantare. Mi resi conto solo in seguito, che ero io quella che stava cantando una melodia senza testo e apparentemente senza senso. Mi limitavo solo a cavalcare l’onda delle mie emozioni e a cantare in mezzo alla battaglia.
 «Per me canta tutto l’Universo. 
Sarai quello che vuoi tuttavia sono più forte»
.
Ed era proprio a loro che stavo attingendo per riprendermi ciò che mi era stato tolto.
«Io sono una Gigante Rossa, tu non sei niente, chi sei?»
Piano piano, spostando le persone con delicatezza e schivando i Black Saint e tutti gli altri avversari, oltrepassai le fila degli Specter e tornai al centro dell’arena improvvisata. La gonna e i capelli agitati dal vento del Cosmo che mi volteggiava dolcemente attorno.
«Per ora taccio, mi fingo a dir tanto una stellina, ma un giorno ti risponderò».
Improvvisamente la strada mi fu sbarrata da un Saint. «Allora non ti arrendi mai, eh?» Esclamò di nuovo Dune del Cammello e mi si scagliò addosso. Ancora una volta rilasciai il mio Cosmo e lo spazzai via il Saint della costellazione estinta. 
Era questa la differenza tra don Avido e me: io combattevo, io avevo smesso di scappare da un pezzo. 
«E anche se sono fragile, anche se sono un microcosmo
al tuo confronto; neppure tu mi puoi eguagliare
».  
Se qualcuno non mi chiamò, non lo sentii, in compenso, vidi le Lacrime di Kalì.
Strinsi i pugni un momento per darmi coraggio. Poi andai loro incontro senza timore alcuno, mentre la mia energia cresceva sempre più ad ogni mio passo e respiro, salendo come un’onda di marea. Il mio Cosmo che sfumava fino a raggiungere le tonalità più pure del bianco. Adorno di brilli fosforescenti danzava come l’aurora boreale attorno alla mia persona. Non mi era mai sembrato così bello. E tutte le Lacrime ne furono immediatamente calamitate.
«Perché io sono ciò che ti circonda».
Non era un Cosmo oscuro come avevano temuto la prima volta che m’avevano visto, era diverso da quello degli Specter. Ma era diverso anche da quello dei Saint. Non somigliava nemmeno a quello della Dea.
Lasciai che si espandesse sempre di più, mentre avanzavo, con Victory nelle orecchie, cantata dal Cosmo intero.
«Ciò che cresce e cresce ancora»,
Davanti a me vedevo solo come sarebbe andata a finire, ma non avevo paura. Avevo smesso di nascondermi. In essa erano contenute la magia e il Cosmo ma al tempo stesso non erano nessuna delle due. Non era né positivo né negativo. Né ostile ma neanche benevolo. Era soltanto questo, era. E, al tempo stesso era molto di più. Ma le sensazioni che donava erano le stesse che dava la notte stellata e in contemporanea anche la notte più buia. E, i cinque sensi erano gli unici con cui potevano captarlo, perché il sesto, il settimo e l’ottavo senso non lo recepivano nemmeno: era come se non esistesse. Eppure ero qui e non me ne sarei andata mai più.
«Sbagliando e arricchendosi».
Perché nessuno lo aveva mai percepito? Che non fosse così sviluppato? Poteva darsi ma se la spiegazione fosse stata ancora più semplice, talmente semplice da essere assurda? Ovvero, se fosse stato così grande da non essere percepito neanche dagli Dèi? Come era possibile che una semplice comune mortale fosse capace di tanto?
Improvvisamente mi accorsi del fiume di lava e fiamme davanti a me e mi fermai.
Allo stesso modo mi comparve davanti la figura di un uomo possente, dalla chioma ancora più folta e lunga di quella di Saga e Kanon. Era a torso nudo che camminava nella lava. Poi accanto a me sentii qualcuno sussultare. Volsi la testa in quella dimensione e vidi un ragazzino tedesco giapponese di quattordici anni dai capelli castano scuro e gli occhi scuri. A differenza dell’uomo indossava anche la cloth di Pegasus: «Controlla il tuo Cosmo se non vuoi finire bruciato». Fece di nuovo al Saint di Pegasus.
“Queste persone mi sembra di conoscerle” pensai mentre nella mia mente rimbombava una eco dei loro nomi.  
Poi, li seguii a mia volta, camminando nella lava, come avevo visto fare a loro e, con mia grande sorpresa, non ne risentii minimamente. Neanche il caldo sentivo più. Era solo più denso rispetto a un comune fiume limaccioso. E, in breve, lo superai.
Appena superato quel fiume anche i due scomparvero e io sollevai di nuovo gli occhi al cielo.
«Cambiando continuamente e ricreandosi».
Non sentivo più i Cosmi di chi ci circondava. Era come se esistessimo solo io e le Lacrime di Kalì e avessimo tagliato fuori tutti gli altri. Ora che ci pensavo, a parte comportarsi da squali, non avevano teso nessuna imboscata come avevano ipotizzato i Saint. Per la prima volta, mi venne da domandarmi: e se fosse stato tutto un caso? D’altronde avevamo appurato che non attaccavano mai, salvo per estinguere il Cosmo di qualcuno. Ma allora quello che era accaduto nella grotta? No, se avesse voluto attaccarmi non si sarebbe ritratta a questo modo. Eppure, ogni volta che gridavo arrivavano in massa. Perché solo quando gridavo io? Perché tanta solerzia? Dove erano dirette prima? Perché, se avevano una meta, hanno deviato dal percorso per venire da me? Chi ero io per loro? «Chi sono io per voi?» Chiesi a mezza voce e, nel mentre che lo dicevo, ebbi la sensazione di saperlo già. “Io sono la Luce Ombrosa”.
Adesso queste due parole avevano un senso logico per me. Finalmente realizzavo appieno che cosa significasse. Fu come se mi si fosse aperto un mondo.
Loro venivano attirate dalle mie grida quando ero in pericolo. Sapevano riconoscere quando ero in pericolo e quando no. Mi conoscevano. E accorrevano non per farmi a pezzi, bensì per aiutarmi.  Ma allora, perché avevano attaccato anche gli altri? No, non si poteva chiamare attacco il loro fluttuare flemmatico, quasi gentile, oserei dire, se non glielo comandavo io, che ero sulla loro lunghezza d’onda. Loro avevano attaccato, perché gli altri gli avevano sbarrato la strada, ecco la verità. Loro avevano sempre voluto aiutarmi e salvarmi, altrimenti non si sarebbero limitate a togliermi il germoglio di Eris dal petto, mi avrebbero fatta a pezzi da tempo. Se davvero mi avessero temuto come avevo presagito, avrebbero cercato di uccidermi quella volta.
No, queste Creature mi amavano, ecco la verità.
E, in quel momento sentii i loro sentimenti forti e chiari. Questi esseri provavano amore nei miei confronti, come se io fossi… no, ero in sintonia con loro ed ero parte di loro. Anch’io con le mani potevo distruggere, il mio potere era concentrato proprio tra le dita, come loro. Io potevo chiedergli di andarsene e le chiamavo a me inconsciamente, come inconsciamente avrei chiamato mia madre in una situazione disperata. 
Trattenni il fiato rumorosamente guardandomi intorno per lo stupore. Mi amavano e io non l’avevo capito. 
Per la prima volta percepii anche loro e i Cosmi, la vita di Tutto, mentre ero dentro questo vortice. Allora era questo che significava essere Il Cosmo. Spalancai la bocca per lo stupore, mentre percepivo la ricchezza, la vita, che mi circondava anche qui.
Le Lacrime mi stavano cercando, perché ero anche parte di loro. Ero stata io a chiamarle, allora tanto valeva affrontarle una volta per tutte. Per questo accelerai il passo e mi portai in un punto abbastanza spazioso per poter urlare che ero qui, che le avevo sentite e che non mi sarei mai più nascosta.
Il cuore che mi batteva all’impazzata tra le costole mentre con il Cosmo mi aprivo la strada tra le fiamme. Poi mossi le braccia e camminai
«Sono la vita e sono la morte
sono l’anima d’Universo infinito.
Chi sei, mi chiedi ancora
».
Feci un respiro profondo e strinsi i pugni prima di alzare la testa verso il cielo e guardarle direttamente, mentre lasciavo che il Cosmo si espandesse completamente, andando veramente a cancellare tutto ciò che ci circondava. Sostituendolo con i bagliori e la luminescenza dei Cosmi altrui, che, per la prima volta risplendettero come piccoli Universi a sé stanti nel Multiverso. Se urlarono, se si spaventarono, non me ne accorsi e non li sentii. Sapevo che tutti mi sentivano e mi vedevano, ma era come sentirli da molto lontano, come se le loro voci fossero attutite dal rumore e non per via della musica. In un certo senso era come se fosse l’occhio di un ciclone che diventava sempre più fitto e affollato. Ma non m’importava. Adesso chiedere scusa era più importante. Quello che era accaduto in città con Death Mask e Aphrodite, nell’aereo, nella grotta, era stato tutto un malinteso. Non mi temevano come pensavo. La verità era che mi amavano, che aspettavano soltanto un mio cenno per avvicinarsi a me e accogliermi come vecchi amici. Rinnovando un giuramento vecchio di secoli, mi toccavano come se fossi per loro la persona più preziosa al mondo. Adesso la mia attenzione era tutta per le Lacrime di Kalì che avevo ingiustamente temuto. Anelavo il loro perdono, mi resi conto.   
E, loro mi sentirono. Si precipitarono in massa da me come un nugolo di zanzare si scaglia su una fonte luminosa.
Probabilmente agli occhi di tutti dovevo apparire come la vergine sacrificale. Ma il mio atteggiamento non era quello. Non avrei mai sorriso così gioiosamente. Sarebbe andato tutto bene, me lo sentivo. Per questo pensai: “Eccomi, sono qui. Io non scappo più, sono qui”.
Le quali tesero le mani grigie e artigliate verso di me non contratte, ma come se avessero dovuto prendermi in braccio.
Rallentarono e, senza smettere di fluttuare, si avvicinarono e, a turno si posero davanti a me. Qualcuna di loro girò la mano per sfiorarmi la guancia con il dorso. Altre invece mi incorniciarono il volto tra le palme. Il loro calore non mi diceva niente, al mio tatto erano comune mani umane e fresche. Anch’io tesi le mie verso di loro, lasciando che le loro dita s’intrecciassero alle mie, che mi carezzassero dolcemente le braccia e i polsi, lasciandomi coccolare. Lasciando che tutti loro cancellassero il mio dolore, che riaccendessero la speranza in me. Un lieve tocco a testa e poi scivolavano via, riunendosi al mucchio che volteggiava attorno a me.
«Io sono il Sistema Solare».
Girai su me stessa per non trascurare nessuna di loro e accettare di stringere quelle mani, riconoscendo a ognuno il loro tocco. Sentendole diverse pur essendo tutte uguali come un esercito di cloni. 
Le Creature passavano accanto ai membri dei due schieramenti ignorandoli, tutti, tanto erano concentrate su di me, attirate dalle mie emozioni, dalla festa che si stava svolgendo. Perché questa era veramente una festa, la mia.
Poi mi fermai di nuovo e, girai i palmi verso l’esterno. Loro allargarono il cerchio, permettendomi di respirare, restando tuttavia vigili, attenti e premurosi. Come se un filo invisibile mi legasse a loro.  Dopodiché, lentamente, li alzai verso di loro, come se avessi potuto raggiungerli. Anche se da una parte mi sovvenne alla mente Atena omaggiata a questo modo da tutti i Saint, non era la stessa situazione. Io non ero una Dea e non ero una regina: io ero solo Astrid. Sentii allargarsi il sorriso sul mio volto e dal mio petto sgorgò una risata di gioia.   
I capelli e il vestito smossi dallo spostamento delle masse d’aria delle Lacrime, dando l’impressione che dovessi sollevarmi dolcemente in volo con loro da un momento all’altro.
Alzai le braccia al cielo e loro seguirono il mio movimento, alzandosi di quota fuori e attraverso il mio Cosmo senza assorbirlo e senza bruciarmi, compatibili come se fossimo, no, eravamo davvero della stessa sostanza. Il quale s’innalzò ancor più come una fiamma. Poi, lo aprii come se il mio Cosmo fosse un ventaglio, si chiuse partendo dal basso fino a raggiungere l’alto assumendo la forma di una colonna nera, grigia, argentea e bianca. E, le Lacrime di Kalì discesero dolcemente dal cielo e s’infilarono nella colonna, imitate da quelle che erano rimaste fuori, le quali la risalirono per tutta la sua lunghezza  e calando in picchiata su di me, lasciando sospesa tra le mie mani una scintilla nera, prima riprendere quota e andarsene, sfilando accanto ai membri degli scaglionamenti, come tutto era iniziato. Ma con la silenziosa, speranzosa promessa che ci saremmo rivisti presto.
Le varie scintille si unirono alla prima fino a formare una sfera nera che lanciò un brillio violetto. Seguendo il movimento delle mie mani, discese dolcemente fino all’altezza del mio petto e avvicinai i palmi fino a formare una coppa con cui riceverla, mentre il mio Cosmo si affievoliva dolcemente fino a scomparire. Così le Lacrime di Kalì se ne andarono. Le seguii con lo sguardo, commossa di aver compreso, di averle ritrovate e, grata del dono. 
Mi accorsi appena che i capelli e le vesti smisero di muoversi. Con questo dono tra le mani tornai alla realtà e scoprii che i Black Saint si erano arresi.

Osservai i fiori davanti a me. Ancora non ci credevo. Camus e gli altri mi avevano raccontato decine di volte che cosa fosse successo eppure stentavo ancora a crederci. Non pensavo che i Black Saint, di fronte al miracolo che avevo compiuto si sarebbero arresi tutti e avessero lasciato che gli Specter riconquistassero subito i territori perduti. Anche ora stavano lavorando a questo, mentre io, su esortazione di Aiacos e di Camus mi godevo un po’di meritato riposo. Non ero rimasta ferita nello scontro, ma ne ero uscita abbastanza provata. Ad ogni modo Aiacos mi aveva dato qualche giorno di riposo mentre riconquistavano definitivamente gli Inferi. Dicevano che il Flegetonte si era destato improvvisamente e aveva rotto gli argini, che io c’ero finita dentro ma che il mio Cosmo mi aveva salvato. Che il mio Cosmo aveva colto la lava e l’aveva sollevata in un turbine di Creature, fiamme talmente alto, da spazzare via anche le fiamme quando si era dissolto. Io neanche me ne ero accorta, tanto ero presa dalle Creature. A volte mi veniva da chiamarle ancora così. 
Da quando avevo scoperto la natura del mio legame con le Lacrime di Kalì, gli Specter mi guardavano diversamente.
Non potevano immaginare che per me questa scoperta aveva significato molto più di quanto sembrasse. Sotto al loro tocco mi ero sentita consolare. Era stato come essere circondata dall’amore dei miei parenti e, al tempo stesso riunirmi con una parte di me. Significava che non avevano mai avuto intenzione di uccidermi, che avevano sempre e solo cercato di raggiungermi e aiutarmi e che non mi avevano mai temuto. Era per questo che rispettavano il mio volere di tenersi lontane dalle battaglie sebbene io fossi Viva. Non era per via del mio legame con gli Inferi come avevo pensato guardando la zia, era perché ero io. E soltanto io. E, come lo squalo di una vecchia storia del mio libro delle medie, mi avevano omaggiato di un dono. Guardai il tesoro che mi avevano dato: una sfera nera lucida e grande quanto il mio palmo. Capivo che fosse di un materiale prezioso, ma non riuscivo a capire quale. Sapevo solo che, se cercavo di guardarlo più da vicino, riuscivo a intravederci le stelle e le galassie come se sfogliassi uno dei moderni atlanti astronomici. Al tempo stesso, avevo quasi la sensazione di guardarci attraverso, come se fosse fatta di vetro. Tuttavia se mi allontanavo la sfera tornava nera e perfetta e non riuscivo più a scorgere i brillii. 
Non sapevo che cosa significasse né a cosa servisse, ma qualcosa mi diceva che dovevo tenerla con me. Oltre ad avere la sensazione che tenessi in mano un pezzo di Universo. Ma forse stavo facendomi dei voli pindarici allucinanti e basta. Eppure, da quando io e loro ci eravamo ritrovate, non mi sentivo più così sola e impotente come prima. Sentivo la forza rinascere dentro di me come lingue di fuoco dorato. Persino la questione della Magnolia degli Inferi mi sembrava facilmente risolvibile.  
In quel momento sentii un rumore di passi avvicinarsi. Mi volsi nella loro direzione e vidi arrivare Camus. Il quale mi sorrise: «Ciao».
Ricambiai. «Siete già tornati?» Chiese poi. Era paradossale, ma da quando avevo rubato l’orologio di Yoma era più facile che perdessi la cognizione del tempo. E non era una cosa che giovava molto alle nostre truppe. «Sì, da un paio d’ore, mi avevano detto che ti avrei trovato qui». Adesso Camus passava molto tempo con Valentine al Cocito a rimettere in ordine la Prigione di Ghiaccio. 

«Sei riuscita a capire cosa sia questa sfera?» Mi chiese, tra l’incuriosito e un tentativo di fare conversazione.
«Non ancora».
«Secondo te serve a qualcosa?»
«Non credo, ma non mi sembra un soprammobile». Ammisi, guardando il dono delle Lacrime. Se non fosse stato per la scarsella che mi avevano fornito, avrei perso l’uso di una mano quasi sicuramente. «Pensi che possa essere un’arma?» Continuò pensieroso e incuriosito, nel tentativo di smuovermi.
«Non ne sono sicuro, tu cosa pensi che sia?»
«Non ne ho idea, ma stavo ripensando a quello che è successo quando è partita tutta questa storia».
«Ossia?»
«Cioè che tutto è cominciato con una serie di buchi neri e, poi sono cominciate a comparire le Lacrime di Kalì, oh, ancora mi sembra assurdo che avessero fatto tutto questo solo per portarmi un regalo».
Camus non disse niente, ma da come mi guardava, sembrava darmi ragione.
«Che cosa hai provato?» Mi chiese incuriosito. E io glielo raccontai, lasciandolo sbigottito. Così partì la sua seconda serie di congetture sulle Lacrime. Che secondo lui erano le anime dei nostri cari che erano venute a cercarci. Ma non poteva essere, perché non avevo riconosciuto nessun viso sotto quei mantelli. Non c’erano volti. Per quanto inquietante fosse la cosa, da loro avevo sentito provenire emozioni. Le avevo sentite connesse alla Natura, proprio come me. Per questo scartai platealmente quest’ipotesi. 

«No, io credo che la loro comparsa abbia a che fare con i buchi neri. Sai, non sono solo fenomeni astronomici. Nessuno ha la più pallida idea di cosa siano davvero. Per esempio, per mio padre sono tutto ciò che resta di una stella, una deformazione nel tessuto spazio-temporale che risucchia tutto ciò che orbita al suo interno, uccidendolo. Per mia madre sono la porta dimensionale attraverso cui gli spiriti giungono da un mondo all’altro. Personalmente continuo a preferire la teoria per la quale dall’altra parte dei buchi neri ci siano le fontane di luce. Io credo che vengano da lì».
«Sì, ma cosa c’è allora al di là?»
«Non lo so ancora». Ma qualcosa mi diceva che, se avrei continuato questa strada, lo avrei scoperto. 
Chissà se come in molte storie, la verità stava nel mezzo alle opinioni dei miei. Forse potevo davvero scoprirlo visto che c’ero finita dentro ed ero approdata in un altro mondo, nonostante il metodo poco ortodosso. Se ci penso, mi veniva ancora da imprecare; tuttavia era grazie a loro che ero ancora viva. Non potevo andarmene senza ricambiare il favore, ora che sapevo che era di me che avevano bisogno.
Il mio compagno d’arme mi domandò come mi sentissi e, per la prima volta trovai la forza di rispondere al vero senso di quella domanda. Soffrivo ancora - gli dissi - però ogni volta che mi guardavo attorno, come in questo momento «Penso che non posso lasciarmi sconfiggere così, anche se siamo circondati dalla distruzione più totale. Sono arrivata a un punto in cui la fuga mi ha stancata e allora mi sono detta, voltati e combatti. Io ho deciso di combattere per sopravvivere agli Inferi di Hades, svelare i misteri sulla scomparsa delle stelle e quello che mi circonda. Perché se c’è qualcuno che può effettivamente fare qualcosa, quella sono io, anche se non sono un Cavaliere». 

«Ancora». Mi fece notare.
«Ancora». Confermai facendogli eco.
Non avevo mai raccontato a nessuno di come mi fossi salvata da quello strano posto. Però mi bruciava ancora non aver ricevuto alcun aiuto concreto oltre la voce e Yoma. «E come va con tua zia?» Mi domandò a un tratto distogliendomi dai miei pensieri.
«Non abbiamo ancora parlato». Risposi.
«Pensi che ci parlerai?»
«Non lo so, un giorno, forse». Sbuffai e appoggiai la schiena al tronco dell’albero frondoso. La verità era che non mi andava di parlare con la zia. Mi aveva molto deluso con il suo comportamento nelle ultime settimane. Anche questa stupida idea di mandare la lettera a don Avido. Le era andata molto bene. Non potevamo rischiare un’altra volta, che poi, grazie a Castalia sapevo che cosa fosse successo nell’Ottantasei. Me lo aveva raccontato quando vivevo insieme a lei.
A differenza di Lady Isabel la zia aveva solo me e Rhadamantys disposti a combattere per lei e non ci sarebbe stato niente per toglierle un’eventuale freccia dal cuore. Ma che cos’era una freccia quando nel cuore ci stava la lama di un pugnale? La stessa che adesso si stava facendo strada nel mio, anche se emotivamente parlando.
Mi sentivo tradita da lei. Scoprirla la Sacerdotessa di Hades, sapere quello che ero. Era inevitabile domandarmi se tutto ciò che avesse fatto per me fosse una messinscena o no. Le persone sono capaci di mentire per anni. Avevo trovato un nuovo affetto, questo è vero, però mi mancava quello vecchio e non ero sicura di volermi accontentare di una bugia. Il discorso del “Anche se quello è stato un periodo molto felice, che ho cominciato a sperare che quella fosse la realtà” era troppo dolorosa da pensare.
«Ehi, ti sei rabbuiata improvvisamente, che hai?» Domandò Camus.
Mi spostai la falda a tendina dalla parte dell’orecchio libero: «Niente, è solo che ho paura». Era così, nonostante tutto avevo paura. Stavo toccando con mano gli orrori della guerra e non solo. Anche se era una guerra diversa da quelle che conoscevo, questa mi spaventava davvero, perché c’ero in mezzo. E io ero troppo codarda per salvarmi la vita con la fuga. Un sorriso nervoso curvò le mie labbra: «Sono stata spedita qui contro la mia volontà, sono stata catturata e non sono stata salvata, ho dovuto fare da sola. Perché nessuno mi ha aiutato? Perché sono finita qui?» Myu, la voce, Yoma avevano fatto solo una piccola parte, avevo dovuto pensarci io a tutto il resto. Ero stanca di essere forte. Volevo concedermi un po’di debolezza e fragilità.
Anche lui che mi era stato tanto accanto, perché non mi aveva aiutato? Io contavo su di lui per liberarmi dai tre sgherri di Don Avido. Dov’era in quel momento
«Forse perché non ce ne era bisogno». Ipotizzò Camus e io lo guardai a occhi sgranati: «Tu sei forte, non hai bisogno di essere salvata, te la puoi cavare benissimo anche da sola». 
“Tu credi davvero che io lo sia?” Pensai, confusa. Forse non si era reso conto della vaga ambiguità del suo discorso; se da un lato mi elogiava, dall’altro se ne lavava allegramente le mani.
«Il chakra di Minato Uzumaki scorre potente in te». Lo canzonai sarcastica. Mi ricordavo perfettamente di quella puntata di Naruto in cui il dodicenne Minato diceva la stessa cosa a Kushina. Il Guardiano del Cocito mi guardò perplesso: «Chi?»
«Un anime molto famoso». A volte questi Saint mi strappavano un sorrisetto divertito. Grandi e grossi com’erano e sembravano provenire da un’altra epoca tanto poco sapevano del nostro mondo. Non che fosse necessario essere un nerd, ma almeno per parlare di qualcosa di diverso, prendersi un po’in giro, fare i cosplay. A loro sarebbero venuti benissimo, gli sarebbe bastato andare in giro con la Cloth e avrebbero fatto invidia a tutte le parate a tema del Lucca Comics. 
«Non l’ho mai visto». Si scusò, negli occhi ancora il vuoto.
«Dovresti, non è mica male».
Proprio in quel momento sentimmo un rumore di passi. Ci sporgemmo a guardare in quella direzione: era uno Skeleton e aveva tutta l’aria di cercare qualcuno. A un certo punto ci vide e ci venne incontro. Ci salutò entrambi con un inchino e si raddrizzò. «Nobile Astrid, la Somma Pandora vuole vedervi». Annunciò il nuovo arrivato.
Al solo sentire il nome della zia, quel poco di buon umore ritrovato se ne andò. «Adesso sono stanca, torna all’accampamento e porgi le mie scuse alla Somma Sacerdotessa». Ribattei congedandolo. Lo Skeleton obbedì.
Camus lo accompagnò con lo sguardo e, solo quando l’altro scomparve alla vista mi guardò. Ma non disse niente. Anche se intuivo perfettamente che cosa avesse potuto dirmi. Non avevo voglia di parlare con lei. Non adesso.

Erano passati alcuni giorni da quando gli scontri erano finiti. C’erano ancora qualche fuocherello di violenza e alcune piccole ribellioni, ma niente che non si potesse sistemare.  Nel frattempo Camus era andato con Valentine e i Giudici Infernali a riconquistare i Palazzi della Antenora, della Caina e della Tolomea. Quando la bandiera degli Inferi avrebbe sventolato di nuovo sopra il Palazzo della Giudecca, allora la Guerra sarebbe stata vinta per davvero.
Gli Specter erano più allegri del solito. Una nuova luce illuminava i loro occhi e una felicità nuova animava i loro volti. L’idea che la guerra fosse agli sgoccioli li rendeva felici. Era come se la fiamma della speranza ardesse nei loro cuori. E l’avevo accesa io, questo me lo riconoscevano. Adesso molti Specter mi salutavano allegri quando mi vedevano per l’accampamento e anche i Celti e molti altri li imitavano. Io ricambiavo i saluti. Mi faceva piacere sapere di essere stata utile in qualche modo. Alcuni Specter mi chiesero addirittura di insegnargli a usare le mie tecniche. E io rifiutavo dicendo che lo facevo così, non perché avessi studiato. Ma neanche questa delusione smorzava molto l’ammirazione che provavano per me.
Da un lato era rassicurante e me la godevo, dall’altro ero consapevole che fosse solo un fenomeno del momento. Quindi cercavo di non darci troppo peso. E poi, avevo sentito dire che i Redivivi erano trascendentali, quindi molto più potenti di me. Erano loro quelli che meritavano veramente l’ammirazione delle persone. Non io, che non riuscivo neanche a proteggere le persone. Menta era ancora in coma, per dire. Però i medici sostenevano che ci fosse speranza.
Sembrava che dovesse andare tutto bene e poi accadde il fattaccio.
«Il Palazzo della Giudecca è sparito!» Urlò uno Skeleton facendo irruzione a mensa.
Il silenzio calò immediatamente sulla mensa e, noi che stavamo mangiando avemmo diverse reazioni. Alcuni di noi si immobilizzarono di colpo, altri sputarono e altri ancora si strozzarono. Qualcun altro, invece domandò se fosse uno scherzo.
Guardammo il nostro messaggero. Non lo era.
Poi la mensa si agitò e gli Specter, più o meno balzati in piedi cominciarono a discutere animatamente tra di loro.
«Come è possibile? Dov’è andato?» Chiese Isaac guardandoci smarrito mentre Raki e Tokaki cercavano di capirci qualcosa. «In he senso è sparito?» Chiedemmo io e il ragazzino in coro.
«Nel senso che non si trova più, che qualcuno l’ha spostato». Mi illuminò uno Specter vicino.
«Che cosa? É impossibile!» Che io sapessi nessuno era capace di eseguire un trucco così alla David Copperfield!
«No, se hai la forza sufficiente e il Cosmo adatto». Mi corresse Raki e noialtri la guardammo. «Credi di sapere chi possa essere stato?» Le chiesi. Lei scosse il capo, le trecce alla francese si mossero sulle sue spalle. C’eravamo tagliate i capelli qualche ora prima. Io avevo dato una spuntatina alla falda e adesso ci vedevo di nuovo bene.
«Ho un’idea». Ammise lei, titubante.
Le presi la mano e dissi: «Bene, allora vieni con me». Lei mi guardò confusa e io specificai, «Credo che sia giunto il momento di conferire con le alte cariche degli Inferi».  
Non fu facile conferire immediatamente con i Giudici Infernali dato tutto il marasma che si sollevò, ma alla fine ce la feci. «Fate combattere anche me e i ragazzini». Dissi, cercando di mostrarmi più determinata di quanto non fossi. I tre Specter mi guardarono con occhi torvi. Avevo il cuore in gola e morivo di paura ma sentivo che dovevo esserci.
«Se vogliamo riconquistare il Flegetonte, allora devo essere presente anch’io».
«Per quale motivo?»
«Credo che laggiù sia successo qualcosa che ha a che fare con me e la Giudecca». Dissi.
«Ma se tu non sai neanche come è fatta la Giudecca». Obiettò Rhadamantys. Orpheo della Lyra lì presente annuì alle parole della Viverna.
«Ah, non è quel Palazzo buio e tetro pieno di quadri e affreschi di angeli in tre D che puzza di pittura?»
«Ok, sì, la Giudecca è quella». Confermò Lady Pandora attirandosi gli sguardi confusi dei suoi sottoposti. Forse loro conoscevano solo una piccola parte. «Ma tu come lo sai?» Mi chiese poi. Così raccontai ai presenti quello che era successo nella Battaglia della Piana, tralasciando l’orologio e la voce.
«Questo è strano», rimuginò la zia pensierosa, appoggiandosi al tavolino basso. «Perché mai Don Avido avrebbe dovuto spedirti laggiù? Non ha senso, inoltre quel Palazzo è blindato».
«Pensi che non sia stata opera sua?»
«No, stando al rapporto di Aquarius la loro trappola doveva privarti delle tue forze e delle tue capacità, non traslarti altrove, un Cosmo estraneo alla faccenda ha interferito portandoti laggiù. Ma perché proprio laggiù?»
«Avete rilevato dei Cosmi estranei in quel momento?» Chiesi io e loro scossero il capo, desolati.
«No, in mezzo a quella confusione non ci abbiamo fatto caso». 
Aiacos si sedette su una sedia.
«Io sì». E fu così che gli raccontai di Yoma di Mephistophele. Se il Silver Saint presente si accigliò, Lady Pandora e i tre Giudici Infernali sbiancarono, mentre mi fissarono. «Quello là è ancora vivo?» Chiese la zia e un luccichio di terrore balenò nel suo sguardo. «Sì, però l’ho rimesso in riga, non chiedermi come». Lei decise di soprassedere.  
«Era suo il Cosmo che ha interferito?»
«Sì. Adesso comincio a capire perché non mi abbia riportato subito da voi ma abbia lasciato che ci pensassi da me». Feci incrociando le braccia. Poteva avere senso.
«E se ci fosse una breccia proprio nella galleria d’arte?» Insinuò Minos, riprendendo il filo del discorso originale e noialtri lo guardammo. «Altrimenti Myu ti avrebbe localizzata molto prima».
«Può essere, lì dentro c’era un’alta concentrazione energetica».
«Dobbiamo localizzarla».    
«Posso farlo io», mi offrii. «Posso calcolare la sua esatta posizione in base alle stelle e al volo delle Creature».
«Ma qui non ci sono stelle, ragazzina».
«Ci sono sempre delle stelle. Mandatemi a chiamare i Saint dalla nostra parte che riuscite a trovare e gli Specter».
«Che vuoi fare?» Domandò incuriosito Rhadamantys.
«Una mappa dei Cieli degli Inferi e, se quello che penso è giusto, allora abbiamo un vantaggio, perché le loro conoscenze astronomiche non sono aggiornate quanto le mie». Spiegai. 
Purtroppo la zia non mi volle concedere questo aiuto, però Camus, Isaac, Raki, Fianna e Valentine sì. Quel pomeriggio dopo pranzo mi riunii con loro e gli illustrai il piano. Era molto semplice, prevedeva di usare l’archeoastronomia e un pizzico di storia e deduzione per individuarli. Il mio ragionamento era semplice. Essendo i nostri avversari provenienti dal passato, anche le loro conoscenze dovevano essere legate agli avvenimenti del passato. Quindi, considerando che pochissimi di loro mi erano sembrati di età avanzata, ci stava benissimo che, avrei potuto calcolare la posizione del Palazzo della Giudecca, sulla base della posizione delle loro costellazioni nel periodo della loro morte. Sembrava insensato, ma credevo che le costellazioni in qualche modo influissero sui loro protetti altrettanto quanto la cultura d’origine e la mentalità. Ciò voleva dire che spostandolo con loro probabilmente l’avremmo ritrovato da qualsiasi altra parte. Quindi «Se trovassimo i Saint che hanno spostato il Palazzo e io riuscissi a indebolirli a distanza, anche il Palazzo tornerebbe nelle nostre mani. Ma l’archeoastronomia mi serve per evitare che sprofondi in uno dei Fiumi Infernali». Spiegai. 
«Pensi di poter calcolare le loro posizioni in base alle stelle?» Tradusse Camus.
«Sì».
«Ma conosci la mappa del cielo?» Mi chiese Valentine.
«A memoria e quella che ci serve non sta in cielo, sta qui dentro». Feci picchiettandomi la tempia. Avrei dovuto coinvolgere anche Myu, forse, ma anche Raki andava bene con i suoi poteri telepatici e telecinetici. 
L'archeoastronomia è una combinazione di studi astronomici e archeologici; rappresenta la conoscenza e comprensione che gli antichi abitanti della terra avevano dei fenomeni celesti, di come li hanno utilizzati ed interpretati e quale ruolo la "realtà" dei movimenti della volta celeste ha svolto all'interno delle loro culture. In questo caso, avevo anche Raki, che poteva darmi delucidazioni sulle credenze del suo popolo. Visto che Don Avido era un lemuriano. Sempre sperando che non fosse finito nelle grinfie di un Saint di Gemini. Allora sì che sarebbe stato problematico trovarlo. In questo caso sarebbe stato un mix tra calcoli matematici e quanto di più simile potevo esercitare con l’astrologia. Sembrava funzionare piuttosto bene con i Saint. Lo studioso e docente britannico Clive Ruggles sostiene che è fuorviante considerare l'archeoastronomia come la semplice raffigurazione dell'antica astronomia, in quanto l'astronomia d'epoca moderna è intesa come una disciplina prettamente scientifica, mentre l'archeoastronomia considera in maniera riccamente simbolica le interpretazioni culturali dei più svariati fenomeni celesti, presenti in moltissime culture antiche. Questa disciplina è spesso gemellata con l'etnoastronomia, ossia lo studio antropologia dell'osservazione del cielo nelle società cosiddette primitive contemporanee (una prospettiva per l'interpretazione delle culture indigene). L'archeoastronomia si avvale anche dell'uso di documentazioni storiche (utilizzandone le fonti scritte per valutare la pratica astronomica del passato più remoto), precedenti l'origine della moderna disciplina astronomica, per studiare antichi eventi astronomici ed è pertanto strettamente associata con l’astronomia storica. Per favorire una migliore comprensione della documentazione storica l'archeoastronomia fa uso infine anche delle conoscenze astronomiche attuali. Ma il motivo principale per cui volessi usarla è che utilizza una varietà di metodi per rinvenire le prove di pratiche del passato, tra cui archeologia, antropologia, astronomia stessa, storia, come quella sei Saint, statistica e calcolo delle probabilità. E io avevo fatto tanti esercizi quando ancora studiavo. Mi ricordavo ancora come si faceva, visto che dando ripetizioni di aritmetica e algebra le avevo rispolverate.
Poiché tali metodologie sono differenti tra loro e l'uso dei dati provenienti da tali fonti può essere interpretato in maniera diversa, la loro integrazione all'interno di un'argomentazione coerente è stata per molto tempo una delle più grandi difficoltà da sciogliere per gli archeoastronomi. L'archeoastronomia contempla anche nicchie complementari all'interno dell’ archeologia dei paesaggi e mi poteva tornare utile in caso fossi riuscita a comunicare con la Terra. e dell' archeologia cognitiva. Le prove materiali assunte e la loro connessione con il cielo può rivelare come un paesaggio più vasto possa venir integrato nelle convinzioni inerenti al paganesimo circa i cicli della natura, così come accade ad esempio per l'astrologia Maya ed il suo intimo rapporto con l'agricoltura. Altri esempi che hanno riunito ed integrato le idee di cognizione del paesaggio circostante comprendono gli studi riguardanti l'ordine cosmico che è incorporato nelle direzioni delle vie di comunicazione e nell'erezione dei più disparati tipi d'insediamento. Può essere applicata a tutte le culture e a tutte le epoche. I significati derivanti dall'attenta osservazione del cielo possono variare da cultura a cultura; vi sono tuttavia metodi scientifici che possono essere applicati trasversalmente all'interno delle culture in sede di esame delle antiche credenze ed attraverso i quali si può giungere a certe interpretazioni archeo-astronomiche. È forse la necessità di bilanciare gli aspetti sociali e scientifici dell'archeoastronomia che ha portato il succitato Clive Ruggles a descriverla come "uno dei campi di lavoro accademico di più alta e fine qualità da una parte, ma la cui speculazione incontrollata può facilmente confinare con la follia dall'altra parte".  Io non ero il suo creatore e ammetto di essermi fermata, ma la mia era una mente duttile e malleabile. Potevo tranquillamente piegarla per affrontare questo campo.
Vero che affonda le sue radici nel Millesettecento, per essere precisi tre anni prima della Guerra Sacra del Periodo Illuminista, però era anche vero, che nessuno dei nostri avversari avesse la laurea e le mie conoscenze. 
Ci eravamo radunati in uno spiazzo e Fianna aveva chiamato per noi alcuni dei maggiori esperti deceduti dell’archeoastronomia che avrebbero potuto aiutarci. Ossia un archeologo, un antropologo, uno storico, una storica della scienza, uno storico della religione, qualche astronomo, degli artisti, dei letterati e dei religiosi.
Adesso i loro spiriti attendevano pazientemente che cominciassi.
Li avvisai di quello che avrei fatto e poi dissi a Camus e Isaac di cominciare. Maestro e allievo annuirono, poi crearono la grande cupola di ghiaccio che avrebbe contenuto il mio Cosmo e gli avrebbe dato una forma sferica. Espansi il mio Cosmo stando attenta a non rompere la cupola, nella cupola di ghiaccio creata da Camus. Tutti loro trasalirono nel sentirsi inglobati nel mio Cosmo e circondati dai globi fosforescenti che lo popolavano. Chiesi se stessero tutti bene e confermarono. Poi, mostrai loro la forma attuale della mappa celeste.
Gli astronomi del passato m’indicarono i punti dove si trovavano le costellazioni estinte, non senza qualche difficoltà, ma ci riuscirono. E le disegnai con le dita illuminate. Camus e Raki sgranarono gli occhi: «Non credevo che avessimo tutti questi soldati tra di noi, in passato!» Mormorò il primo. 
Poi Camus, che aveva partecipato a buona parte delle battaglie, mi disse quali soldati erano caduti per i Saint e Black Saint e li cancellai.
«Perché hai chiesto il mio aiuto?» Domandò Valentine a quel punto. «Ora lo vedrai. Indicami dove si trovano tutti gli Specter». Risposi modificando la luce delle mie mani. Lo Specter eseguì perplesso e io mi spostai a seconda di dove si trovavano. Ce ne erano molti sparsi per l’accampamento, ma tanti altri erano sparpagliati in giro a gruppi, loro con le loro truppe. Poi chiesi ad Isaac di descrivermi il comportamento dei Black Saint e dei loro alleati. Visto che aveva militato tra le loro fila, qualcosa doveva essere riuscito a capire. Il ragazzo mi guardò stupito prima di fare mente locale e raccontarmi: «Non sono un gruppo omogeneo come siamo noi. Tutti fanno capo a don Avido. I suoi secondi in comando sono i Black Saint di Eracle, della Balena e del Corvo, ma più di lì non gli importa niente. I Saint però rispondevano, ho notato, a due gemelli lemuriani, uno indossava la cloth di Cancer e l’altro di Ara».
«Hai visto se c’erano alcuni capaci di attacchi mentali?»
«Sì. Di solito però tendevano a tenersi in disparte rispetto a tutti gli altri». Perfetto. Feci cenno a Raki di avvicinarsi e la ragazzina obbedì, guardandomi titubante. «Ho bisogno che tu localizzi i predecessori di Death Mask. So che ce la puoi fare, questa camera dovrebbe amplificare le tue capacità».M’inventai e lei annuì. Poi si pose al mio fianco e si concentrò. «Li sento, sono qui». E c’indicò un punto in basso in prossimità di alcune stelle e Valentine obiettò: «Ma lì c’è la guarnigione dei Vivi che ci dà una mano».
«Eppure lo sento, è lì».
«Ma è un lemuriano?»
«No, però portava anche lui la cloth di Cancer».
«Lascia perdere tutti quelli che non sono lemuriani e continua a cercare, Raki». La incoraggiai e lei chiuse gli occhi per concentrarsi meglio. Dopo un po’esultò: «Trovati!» Ma la nostra felicità durò poco che lei cadde in ginocchio gemendo. «Raki!»
«Si sono accorti di noi! Mi dispiace, Astrid, non avevo pensato che…»
«Ritraiti immediatamente!» Lei obbedì e Fianna s’adoperò per portarla via. Ci avrebbe detto le informazioni più tardi. Per quanto fossi preoccupata, dovevamo continuare. Grazie all’aiuto delle persone che avevo riunito riuscimmo a calcolare le loro mosse. Con un margine di errore di poco inferiore al quindici per cento della perfezione. Anche se erano molto accurate, potevamo elaborare strategie per ogni cosa. Il bello era che essendo tutti loro abituati a ragionare per singoli, potevamo stilare anche strategie contro una persona soltanto. Ma per evitare sprechi prendemmo in considerazione un gruppo.
Tesi le mani che si illuminarono d’oro e afferrai il Cosmo del lemuriano con la punta di due dita. Avvertii una lieve resistenza, ma niente di che. Mi bastava tirare leggermente indietro la mano per riportare il Cosmo dov’era.
«Si è bloccato!» Esclamò Valentine guardandomi. Era evidente che si riferisse al fuori, anche se mi guardava sbalordito. «L’hai preso per davvero!» Specificò di fronte alle occhiate esterrefatte dei nostri compagni. «Bene, riesci a localizzarlo?» Gli chiesi. E lui annuì dicendo: «E non solo lui, anche tutti gli altri!» Si trovavano nei pressi delle rive sud Orientali del Flegetonte al confine con l’Inferno. Non potevano oltrepassare il confine, altrimenti avrebbero scatenato una guerra con il Regno limitrofo.
Isaac fremette; si vedeva che voleva correre ad avvisare gli altri, «Bene, dobbiamo catturarlo al più presto». Fece per realizzare quanto detto, ma Camus lo fermò posandogli la mano sulla spalla. Mi guardò esitando un secondo prima che scuotesse il capo: «Qualcuno deve tenere in piedi la cupola.» spiegò e il suo allievo si rilassò. «Avete ragione, maestro».
«Per quanto ancora puoi trattenerlo?» Mi chiese Valentine.
«Credo per sempre, ma sarebbe meglio che qualcuno lo vada a prendere».
«Non puoi trascinarlo fino a qui?»
«Non ci avevo pensato». Ammisi e, così feci. Valentine e tutte le persone che avevano la facoltà di percepire i Cosmi mi fecero la telecronaca in diretta. Nel frattempo anche Raki si era ripresa. «Tutto a posto?» Le domandai, sinceramente angosciata per lei. La bambina annuì: «Mi fa un po’male la testa». Annuii e le scompigliai la frangetta.
Quando fu dentro l’accampamento abbassarono la cupola e io potei finalmente liberare il Cosmo, ma, sorprendentemente, non persi la capacità di afferrare il Cosmo. Il piano aveva subito una leggera modifica, tramite questo Saint avremmo scoperto sì dove si trovavano, ma ci saremmo tenuti le informazioni e i nostri calcoli come riserva.
Ci recammo al centro dell’accampamento e trovammo i nostri lì che circondavano il Cavaliere del Cancro del Millesettecento. Aveva lunghi capelli di un azzurrino talmente pallido da sembrare d’argento, Lisci. L’elmo a maschera d’oro incorniciava il volto pallido e le sopracciglia ovali. Ma i suoi occhi erano verde oliva. Si guardava attorno spaventato mentre i nostri lo sovrastavano. Abbassai gli occhi sul terreno. Evidenti i tentativi che stava facendo per scappare.
Aveva lottato a lungo prima che il terrore prendesse il sopravvento. Mi avevano detto Camus e Isaac. Non sembrava il tipo che si spaventa tanto facilmente.
«Fermi, lasciatelo stare! Questo lo prendiamo noi!» Esclamò Valentine e gli Specter lo lasciarono passare. Il secondo Guardiano del Cocito lo afferrò per un braccio e, dopo avergli sibilato qualcosa, lo trascinò in piedi. «E ora andiamo dalla Somma Pandora», incurante delle sue proteste e delle domande da lui urlate. «Stai zitto o dico a lei di scatenare le Creature». Lo minacciò Valentine indicandomi con un cenno del capo. E il Gold Saint di Cancer del passato s’immobilizzò di colpo e si zittì. Mi fissò. Io sostenni il suo sguardo per tutto il tempo che fu davanti a me, poi Valentine lo trascinò via, aiutato da un altro Specter che chiamò. A quel punto il contatto visivo s’interruppe.
Tuttavia io, Camus, Isaac e Fianna li seguimmo. I nostri aiutanti dietro di noi.
I due Specter trascinarono l’uomo al Padiglione della Giudecca dopo avergli bendato gli occhi. Una precauzione abbastanza vana, ma se non altro rassicurante.
Costrinsero il Gold Saint del passato a sedersi davanti a Lady Pandora e i tre Giudici Infernali riuniti nel Padiglione. I quattro rimasero abbastanza perplessi nel vederci ma quando seppero Lady Pandora ci elogiò. Intanto l’altro Specter gli tolse la benda dagli occhi e il prigioniero batté le palpebre e prese a guardarsi intorno.
«Come avete fatto a catturarlo?» Ci chiese Aiacos guardandomi.
Sollevai le dita illuminate d’oro e alzai le spalle. «Non me lo chiedere, non so neanch’io di preciso». Risposi mentre il nostro prigioniero ci guardava da sopra una spalla. I lunghi capelli che spazzavano per terra. Ma i nostri superiori richiamarono la sua attenzione. Scoprimmo che si chiamava Sage e che combatté nella Guerra Sacra del Millesettecento in veste di Pontefice e, in quella del Millecinquecento come Cavaliere del Cancro, di cui portava le Vestigia. Detti un colpetto al braccio di Camus, che mi guardò e gli sussurrai all’orecchio: «Perché anche loro indossano delle Armature? Non dovrebbero indossarle solo i vostri successori?» Ma ora che ci pensavo anche Camus indossava la sua quando combatteva, se la toglieva solo quando non toccava a lui.
«Lo sai che non ne ho idea?» Mi rispose lui con l’aria di uno che non ci avesse mai pensato. Mi accontentai di questa risposta. Probabilmente doveva essere rimasta sui loro corpi e sulle loro anime una sorta di traccia del Cavaliere che furono. E si manifestava così.
Non assistemmo all’intero interrogatorio, a un certo punto ce ne andammo. Quando Valentine e l’altro Specter uscirono dalla tenda trascinandosi dietro Sage. Mi faceva strano poter associare un nome a un volto oltre Don Avido. Avevo già sentito altri nomi, tuttavia nella foga della battaglia non avevo capito quali appartenessero a chi. A parte Gateguard, s’intende.
Mi faceva anche strano incontrare qualcun altro della Quarta Casa che non fosse Lancelot o Sirrah (di cui avevo sentito parlare, più che altro) o Death Mask. Mi ero fatta l’idea che i Custodi della Casa del Cancro fossero tutti spostati e psicopatici. Invece Sage, così, a vista, mi dava una sensazione molto diversa, solo malinconia, equilibrio saggezza. Sembrava più in sé lui di molti altri che avevo visto al Santuario. Anche se era impossibile che, appartenendo al passato, non potesse avere qualche problema. Mi destabilizzò anche vedere un lemuriano indossare le Sacre Vestigia del Cancro. Cioè, davo per scontato che qualcun altro avesse indossato quelle Vesti, però un conto è darlo per scontato, un conto è vederlo davvero.
Ormai associavo quella cloth a Death Mask, per questo faceva così strano. Era così anche per tutti gli altri?  
Camus si scusò con noi asserendo di dover fare qualcosa ma non mi ricordo cosa, visto che ascoltai solo con un orecchio e poi me lo dimenticai. I miei pensieri vertevano tutti su Sage e sulla grande incongruenza che era.
A forza di pensarci comunque arrivai all’ora di cena. Tokaki aveva intenzione di passare un po’ di tempo con Isaac per una “serata tra uomini”, così aveva detto lui. Così mi ritrovai con Raki e Fianna a mensa. Fianna m’ignorava e Raki invece mi tartassava di domande su quello che avevamo fatto nella cupola poco prima. Mi domandai se per caso avesse un deficit dell’attenzione o se stesse usando la mia stessa tattica: quella della finta scema.
Considerando tutto, che stava appresso a Camus e che combatteva con lui da ben prima che arrivassi io, votai per la seconda.
Raki sembrava essersi ripresa, mi chiese pure che cosa volessi fare con quello che avevo fatto. Perciò le rispiegai che cosa intendessi fare con l’archeoastronomia: «É semplice, basandomi sulle costellazioni del passato, posso risalire alle loro credenze e alla loro mentalità, da lì posso provare, se non a indovinare, almeno a intuire le loro prossime mosse e intercettarli, come hai già visto fare oggi».
«Ah, non sapevo che si potesse fare».
«Diciamo che è un po’un azzardo ed è una strada molto lunga e tortuosa, ci sono un sacco di variabili da tenere in considerazione, però credo che dovremmo provarci». Spiegai mentre mi portavo un bicchiere alla bocca.
Raki giocherellò con il cibo con fare pensieroso: «Pensi che potrebbe aiutarci?» Domandò riferendosi al lemuriano del passato. Alzò gli occhi dalla ciotola per guardarmi. 
«Chi?» Chiesi, non capendo bene a cosa si riferisse.
«Quello che abbiamo fatto».
«Ah, pensavo ti riferissi a Sage». Feci dopo aver bevuto un sorso. La ragazzina mi guardò stupita e con un accenno di malizia: «Te lo sei ricordato subito».
«Ha un nome abbastanza strano, per forza». Alzai le spalle ripensando al suo significato. «Ad ogni modo lo spero, non mi fido di quello che potrebbe uscire dalla bocca di quell’uomo, ex Pontefice o no che sia. Non dimentichiamoci che stava dall’altra parte della barricata, per quanto possa essere forte, non credo che il Black Saint di Ara sia così potente da riuscire ad assoggettare l’ex Patriarca del Santuario». A forza di stare in mezzo a dei soldati stavo facendomi qualche esperienza. E Kanon era un esempio abbastanza calzante di forza per essere un umano. «Ci stavo pensando anch’io», ammise lei, anche se a malincuore. Forse per lei era persino più doloroso che per altri. Quello è una testimonianza del suo passato, delle sue origini. Erano leggende.
Feci per dirle qualcosa, ma fui interrotta dallo sbuffo e dal rumore di una persona che si siede di botto sulla panca accanto a me. Mi volsi e per poco non detti una smusata su un’ala della sua dannatissima Surplice. «Aiacos!» Esclamai. Poi mi calmai. Che cosa ci faceva qui? Di solito i tre Giudici Infernali si tenevano alla larga da queste zone. Come se considerassero feccia le proprie armate. Anche se c’era da ammettere che Aiacos era un tipo abbastanza strano e imprevedibile.  «Come è andata?» Se lui era qui significava che avevano finito. Sì, però la sua presenza era comunque incongrua con la tavolata e non solo, aveva gettato l’intera mensa nella confusione. Non come quando Pandora spedì la lettera, ma come quando un popolare di certe sit-com americane si accomoda al tavolo dei nerd.    
«Abbastanza bene, tuttavia è un osso duro». Rispose mentre io progettavo di tagliargli di colpo le belle ali di cui andava tanto fiero, visto che si era preso metà della panca, spingendomi sul bordo. E che, a seconda di come si muovevo poteva farmi molto male. Tanto lo sapevamo tutti che era monco. Invece gli chiesi perché fosse qui. Lui, dopo avermi guardato stranito, come se avesse realizzato solo in quel momento dove si trovasse, batté le palpebre. E poi disse: «Giusto. Ha detto che vuole parlare con te».
Noi due sgranammo gli occhi. Ah, quindi il motivo per cui si era accomodato era un atto di prepotenza bello e buono, una roba da… No, un attimo, perché diavolo era qui? Perché non aveva scomodato Violate? Ma in quel momento non ci pensai. «Con me?» Domandai perplessa. E lui annuì, poi si alzò (rischiando di centrarmi un’altra volta ma lo evitai) e mi fece cenno di seguirlo.
Il mio primo istinto fu di protestare, ma il suo cipiglio severo e folle mi zittì. Perciò obbedii.  Cercai istintivamente gli occhi di Raki e lei alzò le spalle perplessa. «D’accordo, arrivo, tienimi la zuppa in caldo». Mi raccomandai con la mia allieva, che annuì.
Mi alzai e mi pulii le mani sulla gonna e lo seguii. Mentre camminavamo mi sovvenne che Sage fosse un lemuriano. Probabilmente aveva le stesse capacità di Raki, Kiki e Mur. E io non ero tipo da lasciarmi fregare troppe volte, perciò, usai lo stesso trucchetto che avevo usato per depistare Kiki la notte del mio salvataggio e trasferimento agli Inferi. La canzone che scelsi fu A mhuirnin o dei Clannad e mi concentrai su quella fino a offuscare tutti i possibili pensieri.  
Mi feci scortare dallo Specter alla gabbia dove tenevano Sage. Non ero mai stata prima nella zona dei prigionieri. Questa parte di accampamento non l’avevo neanche ancora visitata. Mi ero immaginata chissà che e invece era stato sistemato dentro una buca abbastanza larga perché potesse starci seduto con le gambe piegate, legato a un palo con gli altri prigionieri Black Saint che avevamo fatto nell’ultima battaglia. Le mani bloccate da due nastri larghi una decina di centimetri ciascuno. Non erano comuni nastri, non bastava così poco per fermare uno spirito.
Sage ci sentì arrivare e si alzò. La buca era stata scavata perché potesse stare su solo dall’ombelico in poi. Altra precauzione inutile, ma a quanto pare necessaria. «Luce Ombrosa». Salutò trattenendo a stento l’entusiasmo della voce. Era un’emozione talmente incongrua per quel volto che mi accigliai. «Sommo Sage. Volevate vedermi?» Gli chiesi, tenendomi a distanza di sicurezza dal prigioniero. Non sembrava volermi attaccare ma non si poteva mai sapere. «Sì». Confermò. «Tu sei veramente la Luce Ombrosa, non è così?»
«Così pare e voi siete l’ex Cavaliere di Cancer…» sciorinai tutti i suoi titoli e i suoi occhi si allargarono. Gli feci pure la riverenza come a dirgli che gli riconoscevo l’autorità che gli spettava. «Non m’aspettavo che ti saresti inchinata».
«Siete pur sempre un Venerabile del Santuario, vi porto semplicemente il rispetto che vi meritate». Risposi e lui parve soddisfatto di sentire queste parole. «Non pensavo che ti avrei incontrato, credevo che quelli come te fossero solo delle Leggende».
«Le Leggende hanno un fondo di verità». Commentai. Nonostante fosse effettivamente un Venerabile questa conversazione mi suonava vuota. Lui osservò la mia armatura. «Non credevo tuttavia, che saresti nata tra gli Specter».
«Chi vi dice che io lo sia?» Domandai incrociando le braccia al petto e alzando il mento. Lui mi guardò confuso, aggrottando le sopracciglia ovali scure. «Non…» Iniziò e io scossi la testa in cenno di diniego, che poi rimarcai anche a voce.
«Hai ragione, quegli occhi sono troppo buoni per essere quelli di una Specter. Sei per caso una Saintia?» Chiese.
Mi lasciai scivolare di dosso il complimento come quando lavoravo al Kazablanc. «A dir la verità sarei l’attuale leader dei Black Saint del XXI secolo». Se avessi continuato a ripeterlo un altro po’avrei finito per crederci anch’io. L’importante era che lo credesse lui. Sembrò crederci perché mi guardò sbalordito. Ma non credo per la potenza del gruppo di cui mi facevo leader. Per niente. Sapevo perfettamente che erano piuttosto scarsi, a voler essere gentili.  
«Allora perché combatti con gli Specter?» Chiese incuriosito.
«Mi pagano». Inventai ironica, giusto per dare un tocco di originalità a questa conversazione sciapita. Ma per essere un lemuriano ci restò parecchio di sasso per non cogliere la bugia. E poi ero curiosa di vedere che cosa mi avrebbe detto. Ma lui tacque. «M’aspettavo che mi avreste fatto qualcosa». Buttai lì tanto per spezzare il silenzio che era caduto su di noi come una cappa.
«Tipo cosa?»
«Non so, qualcosa».
«Non posso, non tanto perché sei una Luce Ombrosa, mi tieni in scacco e sono prigioniero. Se volessi potrei liberarmi, ma perché ho un codice d’onore».
«Io dell’onore non so di che farmene». Risposi alzando le spalle. Perché mi veniva da alzarle continuamente? «Perché mi volevate vedere?»
«Volevo capire perché combattessi dalla loro parte». Rispose accennando allo Specter di guardia alle mie spalle. «E perché ve lo dovrei dire? Mi dispiace, signore, però decido io da che parte stare».
«Questo mi sembra giusto, ma non combatti anche tu in nome di Atena?»
«Io combatto in nome delle stelle, in questa battaglia ci sono solo finita in mezzo e non per mia spontanea volontà». Ribattei trattenendo un moto di rabbia. «Delle Guerre Sacre che state montando non m’importa un fico secco, voglio solo che questa storia finisca al più presto».
«Lo vogliamo tutti».
Gli rigirai la sua stessa domanda: «Allora perché combattete?»
«Per sconfiggere definitivamente il Dio dei Morti nemico della Dea e interrompere le sue crudeltà. Se possiamo dare il nostro contributo, così faremo, per il Bene che la Dea rappresenta».
«Ma senza le sue crudeltà voi non servite a niente, no?» Gli feci notare. Per me questa visione manichea della vita era superata.
«No, c’è sempre un nemico da sconfiggere, puoi biasimarci se cerchiamo di riprenderci la libertà che ci spetta?»
«No, però neanche posso appoggiarvi. Il ciclo della Vita e della Morte serve, non si può interrompere. Hades serve, gli Specter servono, gli Inferi stessi sono necessari per mandarlo avanti. Senza di esso neanche la Dea tornerebbe in vita».
«Lei sì, ne è estranea e non è una vera morte la sua. Non stiamo combattendo contro la Vita e la Morte, stiamo combattendo contro gli Inferi». Spiegò in tono che avrebbe voluto essere rassicurante, ma che su di me non ebbe effetto. Non credevo neanche a una sola delle sue parole. Aver vissuto in Italia e bestemmiare sul Parlamento italiano e il governo aveva i suoi vantaggi.
«Siete sicuro di essere un Saint?» Gli domandai.
Lui chinò il capo e si fissò le mani. Almeno supposi che si fissasse le mani. «Sì. Capisco bene il tuo turbamento, lo provai anch’io anni fa, quando il Sommo Itia cadde vittima delle Fairy degli Inferi e si ribellò all’egemonia della Nobile Sendai». Probabilmente il nome dell’Atena di quell’epoca. Lo ringraziai mentalmente per la lezione di storia.
«Capisco. Immagino che siate abbastanza deluso». Feci poi addolcendo un po’il tono della voce e la mia espressione. Almeno questo non stava cercando di farmi niente, per ora, potevo provare a mostrarmi un po’più cordiale.
Il Sommo sembrò stupirsi moltissimo delle mie parole. Mi guardò proprio come se gli avessi letto nel pensiero. «Non l’avrei mai messa in questi termini, però non posso negare di esserlo.» ammise.
«Mi dispiace, ma non posso farci niente». Mi scusai.
«Capisco».
«Posso andare adesso?» Chiesi, sempre in tono mite.
«Sì, certo, non ti trattengo oltre».
Lo salutai con un’altra riverenza e poi mi allontanai camminando all’indietro finché non raggiunsi Aiacos. Solo allora mi voltai. Lui mi chiese che cosa avesse voluto dirmi e io alzai le spalle e glielo dissi: «Credo conoscermi. Mi è parso che non sapesse bene neanche lui che dirmi». Non credo che avesse provato a leggermi nella mente, ma non si poteva mai sapere. Lo Specter annuì e poi mi congedò. Tornai a mensa e finii di cenare.

L’indomani dopo colazione e gli allenamenti (che facevo in compagnia di Raki e Tokaki tanto per fare qualcosa e per tenerli d’occhio) Aiacos mi convocò direttamente al padiglione della Antenora. Il Padiglione non era molto diverso da quello di Rhadamantys era solo un po’più simile alla cabina di una nave che avevo visto in alcuni film.
Si vedeva che questo era l’ammiraglio delle flotte degli Inferi. Ma mi venne anche da domandarmi dove avesse trovato tutto questo, considerando che avevamo perso l’accampamento principale.
Quando spostai lo sguardo sulla scrivania davanti a me (più un tavolino) vidi che ero già stata preceduta da Violate. La quale aggrottò la fronte.  
Salutai i due e, Aiacos mi disse di accomodarmi. Mi sedetti su una sedia e lì, il Garuda mi annunciò che le ricerche fatte utilizzando l’archeoastronomia avevano permesso la ricattura di buona parte dei fuggiaschi. Consentì (e mi parve sincero, ma era presto per dirlo con certezza) che non se lo sarebbe mai aspettato. Poi andò al nocciolo della questione e, si vedeva che non gli piaceva.  Il mio colloquio con il Venerabile Sage aveva dato i suoi frutti: «Il prigioniero ha detto che ci aiuterà, ma a una condizione, che anche tu sia presente».
Non mi interessò sapere come l’avessero convinto. Ma se riusciva ancora a parlare, significava che non l’avevano torturato troppo.
Il Garuda mi guardò solenne in attesa che dicessi qualcosa. Quando si accorse che stavo aspettando che lui continuasse, inspirò e indagò: «Che cosa significavano quelle parole?»
«Non lo so, credo che volesse dimostrarmi qualcosa». In realtà la seconda parte del discorso doveva restare tra me e me, ma preferii comunicargliela. In questo momento sentivo che era più giusto che anche lui sapesse. Non credo fosse sua abitudine confidarsi con le sue Ali. Ma se stava facendo un’eccezione alla regola, significava che era davvero importante. «Comprenderete che è un rischio ancor più grande da quando avete rivelato il vostro pieno potere?» Indagò di nuovo assottigliando gli occhi folli.
«Naturalmente». Ribattei accavallando le gambe e incrociando le braccia. Non ero stupida.
«Dipendesse da me vi lancerei in battaglia e vi lascerei libera di agire come meglio credete, ma Lady Pandora…» cercò le parole giuste per salvarsi la faccia davanti alla sua Prima Ala, «non credo sia d’accordo». Raccolse i fogli sparsi sulla scrivania con un gesto nervoso. Dal canto mio mi rigirai nervosamente la Sfera delle Lacrime e asserii col capo.
«Cosa ti hanno dato le Creature?» Chiese poi. Gli risposi, ma  istintivamente le mie dita strinsero l’oggetto con più forza. Chissà perché nella mia testa mi veniva da pensarla con la maiuscola..
«Potrei vedere, principessa?» Chiese, sforzandosi di essere gentile. Tesi il braccio verso di lui, ma non la lasciai andare. Lui non mi toccò neanche e si limitò a osservarla incuriosito. «Sembra dello stesso materiale delle Surplici». Lasciò che ritraessi il braccio.
«Non saprei. Mi sembra più delicata di una Surplice». Non era ossidiana, come peso mi ricordava più le uova di alabastro di Volterra. «Comunque la tua intenzione sarebbe quella di farmi lottare?» Chiesi tornando a guardarlo in faccia. Lui mi restituì uno sguardo confuso e io aggiunsi: «Allora fatemi lottare, me e i ragazzini». I due Specter mi guardarono incerti. «Ho le Creature e poi potrei esservi utile con le mie capacità e Myu potrebbe essere ancora più al sicuro». Come se loro non avessero già il pieno del controllo del loro Cosmo. Ero consapevole che con questo avrei sicuramente messo in pericolo Raki e Tokaki, ma non sarei stata da sola e così avrei potuto tenerli d’occhio e proteggerli meglio. Piuttosto che lasciare che la Magnolia degli Inferi li richiamasse di nuovo a sé.
«Myu della Farfalla? Cosa c’entra?»
«Io so a cosa serve davvero quello Specter». Inventai, eppure fu come se avessi appena rivelato di conoscere un codice segreto importantissimo. Se Violate inarcò un sopracciglio perplessa, Aiacos sorrise divertito: «Sapete cosa? Sto cominciando a rivalutarvi, principessa; siete più intelligente di quanto sembriate». Fece allegro agitandomi l’indice davanti, come a dire “questa mi piace”. Ignorai l’occhiataccia di Violate e storsi la bocca nel sentirmi apostrofare così. Quasi quasi preferivo gli sbraiti di Rhadamantys. Almeno non leccava spudoratamente come questo. «Sono davvero felice che voi siate la mia Seconda Ala.» mi elogiò subito dopo. A queste parole la sua Prima Ala lo guardò stupefatta ma non disse niente. Eppure vidi il suo sistema di idee crollare alle sue spalle.  
Poi  incrociò le braccia muscolose sfregiate dalle innumerevoli cicatrici e mi scoccò uno sguardo astioso che mi fece pensare: “Guarda che ha deciso tutto da solo, io il posto non te lo rubo”. Ma quella bruta doveva essere incapace di decifrare gli sguardi perché non ammorbidì il suo neanche per un attimo.
Il Garuda invece rifletté. Inspirai e dissi: «Io sono stata dentro la Giudecca e potrei guidarvi almeno fino a un certo punto, se Myu e Raki riuscissero a teletrasportarci al suo interno dalla galleria d’arte. É ovvio che non possiamo passare dall’ingresso principale e che è probabile che il Palazzo sia circondato da una barriera. Potreste prendere due piccioni con una fava se io venissi con voi: il Venerabile nel tentativo di redimermi» e calcai volutamente la voce su questa parola, oltre che disegnare le virgolette con le dita della mano libera L’unica cosa che avrei voluto, era che la voce mi tremasse meno e che il mio cuore battesse meno forte; «potrebbe mostrarci la strada e io potrei usare le Creature per risolvere il problema». Né Menta, né Camus né io avevamo mai confidato a chicchessia delle Lacrime di Kalì, non ci era mai passato per la mente di condividere queste informazioni. Ma da quando i Black Saints si erano arresi, ci aveva pensato Rune. Questo aveva visto un accrescimento esponenziale della mia popolarità e aveva dato il via a un nuovo culto da parte dei Celti, che mi voleva come veicolo della Dea. Come romanzo di Marion Zimmer Bradley volle che Boadicea fu a sua volta nei secoli passati. 
Nonostante questo a nessuno saltò mai in mente di chiamarle Lacrime. Credo per via della forza dell’abitudine. Anch’io alle volte le chiamavo ancora Creature. «É rischioso». Mi avvisò il Garuda.
«E quando mai si è visto il Garuda monco?» Gli domandai in tono blando. Con soggetti come lui era meglio puntare sull’orgoglio. Infatti lui mi guardò di nuovo, punto sul vivo. «Hai detto che sono la tua seconda ala, no? Allora lasciami fare il mio lavoro di sollevarti nel cielo». Feci alzando l’indice a indicare il soffitto del padiglione. Visto che credeva che io fossi la sua Ala, tanto valeva approfittarne.
Eppure, tentennò lo stesso: «Non so se Lady Pandora…»
«E da quando hai bisogno dell’approvazione di Lady Pandora per fare qualcosa?» Lo interruppi.
«Da quando è la mia superiore e voi siete sua nipote». Ribatté velocemente con voce secca, come se si fosse stufato di questo gioco.
«Bè, io non rispondo agli ordini di mia zia, sono maggiorenne da un po’e poi dovresti averlo capito che è molto difficile uccidermi». Gli feci notare piccata, anche se avevo l’idea di aver volato troppo in alto con l’ultima parte del discorso. Difficile non era sinonimo di impossibile e sapevamo tutti che persino lo Specter più debole avrebbe potuto farmi il culo in un corpo a corpo. Se non avessi avuto l’Ichor e le tecniche del mio caro maestro, probabilmente sarei morta da un pezzo. E di questo ero perfettamente consapevole. A volte avrei voluto guardarmi allo specchio per vedere tutte le mie cicatrici. Per fortuna che non ce ne erano molti qui e nessuno a grandezza naturale. «Davvero ti lanceresti in battaglia per farmi divertire?»
«Certo». Mentii. In realtà avevo solo fatto coincidere i miei interessi con i suoi. Potremmo chiamarla solo coordinazione e anticipazione. «L’ho già fatto tante volte, mi sembra». Garantii.
«Non sembrava». “Ahia, il folle non è stupido”. Pensai mordendomi l’interno delle guance e cercando di dare al mio volto un’espressione più incredula che spaventata.
«Va bene, adesso puoi andare, sei congedata. Anche tu Violate, seguila, siete le mie ali, è necessario che andiate d’accordo».
Avrei voluto chiedere altro ma mi morsi la lingua, feci una riverenza e dissi: «Come desiderate». Poi me ne andai, seguita dalla Behemoth. La mora fremeva di rabbia e il suo sguardo mi bruciava sulla pelle manco avesse avuto lo sguardo laser di Superman. Con un brivido di terrore mi domandai se stesse sviluppando una nuova tecnica.
Ma lo sentivo perfettamente che mi odiava. A dispetto degli ordini del suo padrone, la donna che camminava poco più indietro di me avrebbe voluto incenerirmi. Forse massacrarmi di botte, pascersi nel mio sangue e urlarmi che il suo Re era solo suo e che io non avevo alcun diritto di portarglielo via.  Mi fermai a metà dell’accampamento e lei m’imitò.
Lasciai che le mie dita si illuminassero dei colori dei Cosmi degli Specter: Poi, continuando a voltarle le spalle, raccolsi il mio coraggio e dissi: «Non credere che non sappia quello che stai pensando, Violate». Se mi fossi girata probabilmente il mio corpo avrebbe cominciato a tremare e, l’ansia crescente (che stavo cercando di combattere da quando Aiacos mi aveva chiamato) mi avrebbe sopraffatto. «Non ho alcuna intenzione di metterti in ombra o di sottrarti il tuo prezioso Re. Non mi legherei mai all’uomo che ha cercato di ammazzarmi». Le rivelai.
«Però lo vorresti uccidere». Costatò con voce profonda. Femminile, ma profonda. Violate parlava sempre molto poco. Ma quando lo faceva metteva i brividi.
«Certo, ma non lo farò, non mi basterebbe. La mia più grande vendetta sarebbe vederlo marcire dietro le sbarre di una prigione dopo un processo. Se solo fossimo ancora delle persone normali».
«Sei una stronza». Sibilò livorosa, anche se ebbi l’impressione che avrebbe potuto dire di peggio. Come se non sapessi che se fosse successo lo sarebbe andata a salvare. Era palese che amasse Aiacos alla follia, anche se non era ricambiata. 
«Mai negato di esserlo». Ma sapevamo entrambe che se fossi stata priva di Cosmo e di poteri non mi avrebbe mai voluta per sé come Seconda Ala. Ma era l’unico dei Tre Giudici Infernali a lasciarmi la libertà che desideravo e che avesse riconosciuto la mia utilità fin da subito, nonostante i trascorsi. Essere vicino a uno di quei tre poteva tornarmi utile per sapere le loro mosse. Non avevo intenzione di tradirli, volevo solo sapere.
E poi, questa vicinanza era un legame a doppio taglio. Aiacos riceveva ancora più forza e prestigio dalle mie capacità e io ricevevo rispetto e protezione dagli altri due Giganti. In quanto facente parte delle sue armate, né la Viverna né il Grifone potevano toccarmi con un dito o ordinarmi qualcosa che non volessi. Il rapporto tra i tre Giganti, per quanto labile fosse era abbastanza importante per il corretto funzionamento dell’esercito degli Specter. E, per quanto odiassi tutti e tre, gli Inferi erano più importanti dei nostri problemi personali. «Posso chiederti una cosa?» Chiese la mora, sorprendendomi. Non avrei mai pensato che mi avrebbe posto una domanda. Sperai che non fosse sulle sue questioni di cuore perché mi ero già espressa: «Dimmi pure».
«Di chi eri apprendista?»
«Del Cavaliere di Gemini». Risposi rifacendomi alle voci che giravano su di me nell’accampamento e che nessuno dei miei amici aveva smentito. Credo che avessero voluto proteggermi. E poi per familiarità di tecniche poteva anche sembrare.
«Non sembrava lo stile di Gemini». Costatò.
«Perché, ci hai combattuto?» Le domandai sentendo il cuore battermi rapidamente in petto per la paura.
«No».
«Ecco». Poi ripresi a camminare. Solo quando arrivai alla tenda infermeria dove Menta era ancora ricoverata, mi accorsi che aveva smesso di seguirmi da un pezzo.   
Preparare Camus e i ragazzini fu un po’ più complicato di quanto mi aspettassi. Anche se Raki e Tokaki si dimostrarono entusiasti di scendere in campo. Mi sarei aspettata un netto rifiuto da parte di Camus ma lui si limitò a sospirare e accordarsi con noi. «Vero che saranno esposti a un pericolo maggiore, ma è da tutta una vita che si addestrano. Sono anche sopravvissuti giorni interi prima che li trovassimo noi, non ho dubbi che se la sapranno cavare benissimo». Quando diceva così mi metteva persino più paura degli Specter. Perché era pur sempre di bambini che stavamo parlando. Già accettavo a malapena che degli adulti combattessero; ma dei bambini proprio no. Poi, Con una scusa ci lasciò soli. Io lo accompagnai con lo sguardo finché non mi ricordai delle parole di Milo a proposito della loro infanzia e lo seguii. 
«Se tu potessi, faresti in modo che non combattessero, vero?» Gli chiesi a bruciapelo. Il rosso mi guardò e annuì. Poi prese un respiro profondo e si tolse un pelucco dalla larga maglia nera.  «Però non abbiamo altra scelta. Possiamo solo sperare che, portandoli con noi diminuisca il rischio che l’Albero li attragga a sé. Ma non ci giurerei troppo, c’è un’alta probabilità che invece li chiami proprio in quel momento».
Non lessi frecciatine nel suo tono né nelle sue emozioni. Era troppo maturo per lanciarmene e aveva accettato la mia decisione. «Sono contenta che tu abbia fiducia in loro».
«Certo che mi fido, non sono così indifesi. Avrei voluto essere forte almeno la metà di loro alla loro età».
«Ma tu alla loro età hai combattuto contro i Titani».
«Combattere fisicamente è un conto. Mi sto riferendo alla loro forza mentale. Non sono sicuro neanch’io che avrei resistito tanto quanto loro con una minaccia simile. Non sento la voce dell’albero, non so quanto sia forte, ma se persino dei ragazzini con un Cosmo sviluppato come loro soccombono, non oso immaginare me al suo posto».
Lo guardai sbalordita: non pensavo che fosse così insicuro e fragile dietro quella freddezza. Proprio vero che la Cloth non faceva il Cavaliere. Mi venne istintivo posargli una mano sul braccio e lui si arrestò. Mi guardò confuso. «Sono sicura che avresti combattuto». Gli sorrisi sentendomi le guance in fiamme.
Le sue restarono eburnee, ma i suoi occhi rossi si ammorbidirono, lasciando intravedere per la prima volta la loro tristezza. Per un momento la patina di brina che li ammantava si sciolse, rivelandomi tutta la bellezza delle emozioni che quello sguardo mi trasmetteva. Tutto il ghiaccio della sua persona mi sembrò diventare acqua che scorre. «Non lo so. Ho commesso così tanti errori nella mia vita…» Il suo sguardo si fece vacuo e capii che stava pensando a qualcosa che lo turbava.
Io sorrisi e gli dissi: «Perché sei umano». E quelle parole lo riportarono alla realtà, solo che mi guardò come se gli avessi appena fatto la rivelazione del secolo. Non mi sembrò di aver detto niente di così eclatante, ma per lui probabilmente era così.
Tolsi la mano dal suo braccio e la intrecciai con l’altra davanti alle cosce. Solo allora lui parve rinvenirsi dal suo stato d’incantamento e disse: «Astrid io, volevo chiederti scusa».
«Per cosa?»
«Per essermi comportato come un macaco e per averti respinto quella sera, alla festa». Fece arrossendo, girandosi completamente verso di me. «Mi dispiace sinceramente. Ti devo raccontare una cosa, ma…» Non seppi che cosa mi dovesse raccontare perché cambiò idea: «Niente, non è ancora il momento, fa conto che non ti abbia detto niente».
«Ok, sapevo che eri misterioso, ma ora anche strano no». Sdrammatizzai ridendo e cercando di calmare il cuore che mi batteva più forte. Lui inarcò un sopracciglio. «Misterioso?» Ripeté.
«Bè, sì. Non è che parli moltissimo e che tu sia molto espressivo. Non sai la fatica che faccio tutte le volte per decifrare le tue espressioni». Spiegai sentendomi arrossire ancor di più. 
«Ah, basta così poco per essere misteriosi?» Fece stupito cacciandosi le mani in tasca.
«Oh, sì, pensa che le versioni originali dei bad boys erano solo ragazzi taciturni che stavano sulle loro con un’aura di carisma e mistero che li avvolgeva. Alcuni non sorridono quasi mai, un po’come te». Mi sentivo sempre più cretina a parlargli così e lui mi guardava come se fossi stata una cretina.
«Non è un’offesa, è un complimento».
«Grazie, lo apprezzo molto, però non lo faccio apposta, sono fatto così».
«Anche loro».
«Loro nascono così dalla penna degli autori, noi no».
Non sembrò molto convinto: «Non so. Vero che i personaggi dei libri sono imitazioni della realtà, però è anche vero che in un certo senso anche noi siamo personaggi protagonisti della nostra storia personale».
«Ma se è così significa che il nostro destino è già predeterminato, che non abbiamo libertà di scelta alcuna e che non possiamo neanche ribellarci alla volontà dell’autore». Commentò sconsolato riprendendo a camminare e io lo affiancai. «E se così fosse chi è l’autore? Perché ci vuole così male? Dove sta la differenza tra noi e le persone vere?»
«Perché, non ti senti vero?»
«Sì che mi ci sento, però mi domando se siamo protagonisti di un libro, come faccia il nostro sangue a essere rosso».
Scoppiai in una risatina: «A parte che il mio è d’oro, ma credo di aver capito. I cattolici dicono che tutto fa parte del progetto di Dio, del Suo Disegno. Io penso che in realtà faccia parte di una storia. Per me gli Dèi non sono solo artisti, ma sono anche scrittori, con cui condividiamo la penna; siamo responsabili tutti della Storia che stiamo scrivendo». Lo sguardo di Camus  si fece pensieroso e io presi fiato e continuai: «Non credo che ci voglia male, semplicemente credo che in realtà ci lasci più libertà di scelta di quanto crediamo di avere. Lo so perché anch’io scrivevo storie e alcuni personaggi si muovevano e agivano già come fossero una cosa a sé stante da me. Io dovevo solo limitarmi a riportare le loro azioni. A mio parere sono i più realistici e i migliori; di loro devi modificare poche cose. E se noi siamo i personaggi delle nostre storie, direi che abbiamo molta libertà di scelta, il limite sta solo nella nostra testa, il nostro ostacolo più grande siamo noi stessi. Capisci quello che sto dicendo?»
Un sorriso curvò la sua bocca. Abbassò il capo: «Credo di sì».
«E poi, buona parte delle nostre decisioni le abbiamo prese da noi, no?»
«Sì».
«Allora va bene così».
«Mi sento un tale cretino per averle prese».
«Tutti si sentono dei cretini per aver preso le decisioni di cui ci si pente; non ci si può fare niente. Solo che non potevamo saperlo». E io la pensavo veramente così. Il ragazzo dai capelli rossi che mi camminava accanto mi guardò stupito: «Anche tu?» Sembrava che si fosse reso conto solo in quel momento che anch’io avevo qualcosa di cui mi ero pentita. Mi parve di scorgere una parvenza di speranza in quelle iridi normalmente gelide. 
Feci spallucce e sorrisi: «Certo, ma ormai le abbiamo prese, possiamo solo sperare di non prenderne troppe in futuro».
Tornò a guardare davanti a sé: «Se quello che dici è vero significa che anche gli Dèi crescono insieme a noi». Commentò, poi pensieroso. «Che c’è un po’ di essere umano negli Dèi e che negli esseri umani c’è un po’di Divino. Ma tutte quelle persone cui succede qualcosa di brutto allora? Anche quello fa parte degli scritti Divini?»
«No, quelle credo che siano solo disgrazie, non credo che gli Dèi siano così sadici e malvagi da fare del male a questo modo alle persone». E lo sapevo perché anch’io avevo riversato su alcuni personaggi le mie frustrazioni e la mia cattiveria in passato, soprattutto da adolescente. «Per quelli di carta e inchiostro a volte sono fantasie erotiche pornografiche e altre vero e proprio sadismo e sessismo. Gli Dèi non sono sessisti, razzisti o maschilisti; almeno su questo sono sicura e, almeno in questo, dovremmo imparare a prendere esempio».
Camus ci rifletté e alla fine disse: «Discorso interessante. Adesso devo andare dai Celti, spero che potremo riprendere la nostra discussione anche in futuro».
«Lo spero anch’io».

Mi aspettai che alla fine Aiacos non ci avrebbe chiamati e invece sì. Subito dopo cena ci dirigemmo al Padiglione della Caina e lì trovammo i tre Giudici Infernali ad attenderci.
A precederci c’erano già Camus e Valentine, Violate e un tizio canuto che non avevo mai visto prima. Valentine e Camus ci salutarono, Violante arricciò il labbro superiore in un ringhio e Rune ci scrutò altezzoso. «Ecco, questa è la Luce Ombrosa e la seconda in comando di Aiacos». Mi presentò Minos, ghignando come se il collega avesse fatto un pessimo affare nello scegliermi. E chissà, forse era vero.
«Hai dei begli occhi, Astrid Micheila av Stjernene».
«Grazie». Ed ecco che cominciò a starmi sulle palle. Così a pelle. C’era qualcosa in lui che mi infastidiva. Forse l’evidente puzza al naso o l’espressione apparentemente calma e con gli occhi chiusi? No, non era cieco. Li riconoscevo al volo i ciechi.
«Rune di Barlog». Si presentò completando una domanda che non era stata mai posta. Per me era Pico de Paperis punto e basta.
«Non era una domanda». Ribattei sprezzante e lo Specter mi guardò come a dire: “Stai zitta sei fastidiosa”. Che avesse l’emicrania o che fosse stronzo? Eppure da quello che ci aveva raccontato… com’era che si chiamava… Cloe l’amica di Menta, era lo stesso che aveva preservato il segreto sulle Luci Ombrose. «Adesso che i Black Saint si sono arresi è potuto uscire dal tribunale e affidare tutto ai miei sottoposti. E’ anche grazie al suo contributo che siamo qui a parlare oggi». Spiegò Minos continuando a ghignare.
«Credo che io e te dovremo parlare». Dissi a Rune. Anche se mi stava antipatico a pelle, avevo comunque dei quesiti da porgli a proposito della distruzione degli archivi del Millecinquecento.  E poi mi era parso di capire che non si schiodasse quasi mai dal suo posto. E se lo faceva non andava quasi mai più in là della Valle del Vento Nero. Doveva essere proprio un’occasione più che speciale se Minos l’aveva sollevato momentaneamente dai suoi incarichi. «Se ci sarà occasione». Ribatté quest’ultimo aprendo leggermente i suoi occhi dorati.
«Naturalmente». Poi mi accorsi del libro che teneva sottobraccio e gli chiesi cosa fosse: «Il libro dei morti».
«Ah, quindi ci sono anch’io?»
«Tutti i Vivi sono qui».  “E chi giudicherà il giudice quando sarà il suo turno di schiattare?” Pensai, ma me lo tenni per me.
Minos ci richiamò: «Ora che le presentazioni sono terminati vi pregherei di cominciare la riunione». La riconquista del Flegetonte sarebbe stata attuata da un gruppo di soldati scelti. C’eravamo io, Camus e i ragazzi, i Guardiani del Flegetonte, i secondi in comando dei Giudici Infernali e Sage di Cancer.
I tre Giganti Infernali ci spiegarono la loro mossa. Avrebbero mandato noi in avanscoperta e li avremmo dovuto trovare il passaggio per il Castello degli Inferi.
«Secondo il qui presente Sage esiste questo passaggio per gli Inferi che hanno celato sulle rive del Flegetonte. Voi lo dovrete trovare».
«Scusate ma sa di imboscata». Obiettai attirandomi gli sguardi di tutti.
Minos fece un sorriso sardonico: «L’avevamo intuito anche da soli, grazie, ma non ho dubbi che con le vostre capacità riuscirete nell’impresa. Naturalmente anche noi verremo con voi, ci terremo in disparte finché non avrete trovato il passaggio e noi non l’avremo attraversato».
Fu strano per me incontrare Rune di Barlog per la prima volta. Non immaginavo che fosse così simile a Mu, salvo i capelli bianchi e le sopracciglia normali e la puzza sotto al naso. Il Pico de Paperis degli Inferi era anche armato di una frusta. Il Pico de Paperis degli Inferi, altrimenti detto: «Della Stella del Cielo Eccellente», era fastidioso come un riccio nelle mutande. Non avrei mai creduto di dirlo, ma per la prima volta sperimentavo sulla mie pelle la veridicità di queste parole.
A fine riunione, una volta concordato con tutto, Rhadamantys ci chiese: «Tutto chiaro?» Guardandoci negli occhi uno per uno. Soffermandosi in particolar modo su di me. Non senza una qual certa minaccia, oserei dire.
Poi, demmo il via all’operazione.

Ci dirigemmo prima noi secondi in comando. Dato che ci saremmo dovuti muovere alla spicciolata, i primi furono Camus e Valentine con Sage. Poi andò Violate. Io e i ragazzini ci dirigemmo alle scuderie prendemmo un grifone e volammo laggiù. I Celti erano riusciti a salvarne alcuni dalla distruzione dell’accampamento.
A Tokaki fece impressione sistemarsi dietro di me e aggrapparsi alla mia vita per non cadere, mentre Raki no. Credo che a lei questo volo piacque. Io quasi mi ero dimenticata quanto fosse bello volare con queste cavalcature.
Atterrammo dietro un’altura e poi, scivolando silenziosamente tra i massi della piana dell’ultima battaglia, ci dirigemmo verso le rive. Stando al piano ognuno di noi si sarebbe recato in diversi punti strategici e poi ci saremmo riuniti nei pressi della Diga. Era una costruzione che avevano edificato i Black Saint nel tentativo di contenere il Flegetonte e usare l’energia geotermica che produceva, come nuova fonte di sostentamento. Ne ero venuta a conoscenza solo poche ore fa, ma mi sembrava ancora impossibile che avessero fatto una cosa del genere. Ecco da dove si era originata questa piana! Era il letto del fiume originale. Santo Cielo, ma quanto era grosso il Flegetonte?
Saperlo non mi aiutava a stare tranquilla. Era solo per via di Raki e Tokaki che non davo di matto. A dirla tutta i ragazzini sembravano più preparati di me per queste situazioni. E non mi sorprendeva più di tanto: erano addestrati per questo. Avevo solo da imparare da solo.
Anche se buona parte dei Black Saint e dei loro alleati si erano arresi, una piccola cellula continuava ancora a imperversare ed eravamo più che sicuri che, se le congetture erano giuste, avessero collocato il passaggio per la Giudecca da queste parti. Visto che la Diga era protetta con le unghie e coi denti. Anche le Bestie della Notte avevano avuto non poche difficoltà a sgominarli. Anche se di loro erano sopravvissuti pochissimi, erano riusciti a darci questo piccolo margine di tempo per agire prima che i nemici tornassero.
Ora, sperai che Sage possedesse effettivamente le chiavi per accedere alla Giudecca.
«Eccoli!» Esclamò Raki indicando davanti a me. Guardai nella direzione indicata, ignorando l’ammonimento di Tokaki sulla distrazione e li vidi anch’io.
Li raggiungemmo e il gruppo ci accolse con qualche domanda e alcuni sguardi: «Avete incontrato gli altri?», «Ci sono stati problemi?»
«No, tutto tranquillo».
Aspettammo che arrivassero anche i restanti del gruppo, ossia Rune e Violate. Poi aspettammo.
Passò il tempo, troppo tempo. 
«Ci dev’essere qualcosa che non va». Fece Rune a un certo punto, guardando preoccupato la Diga. «Stando al piano avrebbero dovuto far saltare in aria la Diga come diversivo, perché ci mettono tanto?» Chiese sporgendosi leggermente oltre il nostro nascondiglio.
Guardai Raki preoccupata: «Raki, tu senti qualcosa?»
La ragazzina scosse il capo: «No, è come se qualcosa bloccasse le mie facoltà, non riesco a percepire i pensieri».
«Merda!» Sibilò Valentine mentre Camus si accigliò ancora di più.
«Sono stati intercettati?» Domandò Violate.
«É possibile, ma non temete, Death Mask saprà cavarsela». Ci garantì Camus e a me il cuore dette un colpo più profondo per la sorpresa: Death Mask? Guardai Camus sbalordita e feci per chiedergli di ripetere quando sentimmo un botto.
Noi che eravamo rimasti indietro ci sporgemmo dal nostro nascondiglio e vedemmo lampi di luce verde e rossi balenare sulla Diga e l’eco dei colpi e di risa sguaiate. «Che succede?»
«Non lo so! C’è qualcosa che mi blocca!» Esclamò Raki.
Io e Camus guardammo Sage. Il quale ricambiò il nostro sguardo con calma, impassibile. L’aria di chi aveva il coltello dalla parte del manico. Era lui che stava bloccandola. Camus fece per colpirlo ma l’ex Pontefice saltò via con uno scatto che non gli avrei mai fatto proprio.
«Camus!» Urlai.
«É stata opera tua, non è così?» Urlai io. Ma l’uomo non rispose. Non gli interessò. Perché? Perché tutto questo disinteresse? Un soldato di solito non ragiona così. Anche il Grande Sacerdote era sempre molto attento. Non avevo visto nessun Saint agire così, tranne quelli che avevano qualcuno su cui contare.
E in quel momento capii. Tesi il falcione verso Raki e spinsi leggermente la punta verso la sommità del suo capo. L’aria sopra la sua testa si ruppe con uno schianto, come se qualcosa di invisibile l’avesse tenuta in scacco fino a quel momento. Accidenti, come avevamo fatto a non accorgercene?
E il peggio era che era reale, colpendola avevo sentito chiaramente qualcosa di solido scivolare via.
Raki crollò in ginocchio e respirò forte.
«Raki!»
«Sto bene, io sento di nuovo tutto!»
No, aspetta, la presa su di lei non poteva essere così forte. A meno che non fossero… «Non fossero in due!» E, per la prima volta guardai alle nostre spalle e lì, per la prima volta, lo vidi. Il gemello di Sage. 
E io sgranai gli occhi nel trovarmi di fronte una copia sputata di Sage con i capelli legati e la Silver Cloth di Ara indosso. «Fratello!» Chiamò Sage. L’uomo spostò lo sguardo sul gemello con la Gold Cloth che stava affrontando Camus e poi guardò di nuovo noi due. Ma a differenza di don Avido, che sembrava così prodigo di parole, lui non disse niente.
«Stai indietro e continua a bruciare il Cosmo, Raki. Tokaki, pensa tu a proteggerla». Gli ordinai materializzando il falcione di Cosmo. 
Il ragazzino alle mie spalle obbedì.
Il lemuriano continuò a fissarmi incuriosito. Ancor di più quando tesi l’arma verso di lui.
Poi, mi ritrovai sollevata in aria senza sapere come. «Astrid!» Urlò Raki, spaventata in coro con  Tokaki. «Tu credi seriamente di poter combinare qualcosa?» Mi chiese il gemello di Sage.
«Lasciami subito andare!» Urlai a squarciagola espandendo il mio Cosmo con sì tanta forza che lui mollò la presa e io cascai a terra.
Poi sentimmo il boato. Ci girammo a guardare verso la Diga e la vedemmo crollare. Il fiume di lava fuoriuscì con una violenza che non gli facevo sua. La botta di calore e l’onda d’urto ci stordirono.
Ci rinvenimmo quel tanto che bastò per scappare via.  
Ma il gemello di Sage ci inseguì.
Così restai indietro ad affrontarlo.
«Vuoi combattere contro di me?»
«Sì!»
«Astrid!» Mi chiamò Raki.
«Andate!» Urlai. Dovevo catturarlo, almeno lui. 
«E sia».
Non potevo fare a meno di avere paura. Una paura folle nel vedere il Flegetonte destarsi in tutta la sua potenza. Capii immediatamente che questo fiume infero non mi avrebbe mai ascoltato. Che neanche le Lacrime di Kalì avrebbero potuto niente contro la lava incandescente.
Ma prima che potessi chiamarle qualcuno mi afferrò e mi spostò. «Death Mask?» Esclamai stupita.
«Che cazzo ci fai qui, imbecille?» Sbottò lui adirato quando mi riconobbe.
«Io? Che cazzo ci fai tu qui!» Sbottai a mia volta, per le rime.
«Non è il momento!» Esclamò con un basso ringhio facendomi scendere. Ah, loro dovevano essere la squadra di riserva che sarebbe entrata in azione nel momento in cui ci fossimo fatti scoprire.
«Non è il momento signorina». Ci redarguì pacatamente un tizio con una sgargiante parrucca rossa in testa che ci passò accanto per respingere alcune fiammate con un colpo dal nome lungo come un treno.
«Scappa!»
«E voi?»
«Noi sopravvivremo!»
«Death Mask!»  
«Fa come ti ho detto!» Poi saltò via.
Col cazzo che avrei cercato di fare l’eroina. Seguii il suo consiglio. Avevo già avuto fortuna con la lava una volta, non ne avrei avuta una seconda. Improvvisamente non so cosa successe, ma fu afferrata alla vita e fui scagliata via. Riuscivo solo a vedere Sage che se la filava con il suo gemello e io che non riuscivo ad afferrarli. No, non poteva finire così, dovevo scoprire dove andavano, perciò arrestai la caduta bruciando il mio Cosmo e, con il falcione, che conficcai nel terreno, evitai di cadere in uno strapiombo. Con quello mi rialzai e inseguii i due. Erano molto più veloci di me e a un certo punto a causa del caldo quasi mi sentii svenire e li persi di vista.
A quel punto sarei voluta tornare indietro, ma quando mi guardai intorno mi accorsi che ero su un picco di ciò che restava della diga, mentre il Flegetonte si impossessava di nuovo del suo immenso letto.
E fu allora che vidi poco più in basso Rhadamantys che cercò di tirarsi su mentre la roccia sotto di lui franava. Nelle sue azioni e nei suoi occhi lessi la paura. Poi si accorse che stavo cercando di tirarlo su e riacquistò la sua espressione bestiale: «Lasciami andare, idiota!» Urlò cercando di scacciare la mia mano sudata dalla sua Surplice rovente. Anche i pezzi della mia erano caldi e mi ferivano, ma non potevo perdermi in sottigliezze. Non con una vita da salvare, anche se avrei voluto vederlo morire. Alla zia era necessario.  
«Col cazzo!» Strillai a mia volta.
Con uno sforzo sovrumano aiutai uno sbalordito Rhadamantys a issarsi sulla roccia. Appena un attimo prima che la lava inghiottisse la roccia sottostante. Poi quando si girò verso di me gli puntai il pugnale sotto il mento, laddove la Surplice non lo rivestiva. Non avevo mica scordato come ragionassero.
«Che cosa?» Esclamò sorpreso, prima di scoccarmi un’occhiata piena di rabbia. L’occhiata di una viverna incavolata. Una parte di me considerò di star giocando col fuoco, ma non glielo diedi a vedere, con uno sforzo non da poco. «Ora fammi qualche scherzetto e ti trapasso la testa, intesi?» Lo minacciai. Lo Specter sgranò gli occhi gialli tendenti al verde chiaro: «Sei pazza! Non farai mai una cosa del genere, la tua mente non può sopportare oltre, Gemini».
«Posso, invece. Se è per difendere me stessa!» Ribattei risoluta continuando a sostenere quello sguardo. «E poi io non sono il Cavaliere di Gemini, io sono l’apprendista del Cavaliere d’Oro Odysseus di Ophiuchus!» Sbottai esasperata, rivelandogli finalmente la verità.
Lo Specter mi guardò sconcertato. «Odysseus di Ophiuchus…» Ripeté sgranando ancor più gli occhi, la rabbia definitivamente annientata dallo stupore.
«Esatto, quindi ti conviene fare il bravo, altrimenti ti ammazzo io». Ridissi per sicurezza, mentre mi gustavo questa sensazione di potere datami dalla posizione in cui ci trovavamo. La sua attenzione era tutta su di me e, decisi che l’avrei sfruttata. Solo con il senno di poi mi resi conto della stupidità delle mie parole. Però non gli detti il tempo di fiatare che continuai: «Ora, tu sai che io sono stata mandata qui per salvarvi, sai che Pandora è la mia madrina, sai che ho, cioè, sono la Luce Ombrosa che controlla le Creature, sai che ho questi poteri e sai anche che se lo desiderassi potrei estinguervi tutti in un colpo solo, fregandomene altamente di quello che potrebbe succedere con Pandora, Hades e il mondo; perciò, resta nei ranghi, chiaro?» Ribadii per sicurezza, senza staccare gli occhi dai suoi neanche per un secondo.
Sebbene avesse considerato di spintonarmi giù dal pinnacolo, lo Specter non ebbe altra scelta che obbedire.
Tolsi il pugnale dalla sua gola e lo tirai su completamente. «D’accordo, signorina, adesso cosa facciamo?» Chiese. Un’idea, mi serviva un’idea e alla svelta. Avevo solo i poteri della Luce Ombrosa su cui fare affidamento. «L’unica sarebbe volare». Dissi io. L’altro mi guardò e disse: «Mi hanno rotto un’ala». Ed effettivamente l’ala sinistra era stata spezzata. Accidenti.
«Te la aggiusto io, ma tu vola!» Poi mi aggrappai a lui e, con i miei poteri, riuscii a ricreare le punte dell’ala lesa.
Per la prima volta mi resi conto che quelle ali potevano davvero essere molto di più che semplici decorazioni. Rhadamantys mi strinse a sé di lato, piegò le ginocchia e volò dandosi lo slancio un attimo prima che un’onda di fiamme e lava sommergesse il nostro scoglio.
Ma proprio allora il Flegetonte si destò e una figura umana di lava e fiamme ci vide e cercò di acchiapparci. Rhadamantys mi lanciò via e poi, con l’aiuto di Valentine e Camus, che evocarono il Cocito, affrontò il Flegetonte.
Urlai a squarciagola. Improvvisamente la mia parabola ascendente si arrestò e mi ritrovai sospesa a mezz’aria. “Presa!” Esclamò la voce della mia allieva nella mia testa.
«Raki!» Esclamai girandomi verso di lei, che era in piedi su una roccia accanto al nostro grifone. Tutti gli altri erano insieme a lei. Non ero più stata più felice di sentirla e di vederla.  Nel frattempo il freddo del Cocito si scontrava con le fiamme sollevando delle coltri di vapore talmente dense da impedire la visuale.
La ragazzina sorrise e, mi posò con gentilezza su un picco vicino.   
Tutti gli altri ci corsero incontro. «Dov’è Rhadamantys?»
«É rimasto indietro!» Corsi verso il bordo del crepaccio e lo vidi svenuto su una distesa di ghiaccio, accanto a Valentine che cercava di trascinarlo via. Il ghiaccio si scioglieva sempre più velocemente. Anche Valentine era ferito e non riusciva a bruciare il Cosmo. Come se non bastasse, le Creature stavano già volteggiando attorno agli Spiriti del Cocito e del Flegetonte che erano impegnati in un serrato corpo a corpo che scuoteva la terra e il cielo. «Sbrigati, Valentine!» Urlò Rune.
«Pazzo! Se brucia il suo Cosmo le Creature smetteranno di volteggiare e lo ammazzeranno!» Urlai.
«Non possiamo raggiungerlo! Non ci sente!»
Però potevo volare. Saltai in groppa al grifone e, con un colpo di talloni lo spinsi in volo. Poi, lo feci scendere verso i due. Valentine sistemò Rhadamantys davanti a me sulla groppa dell’animale e lui si lasciò afferrare dalle zampe rapaci dell’animale per volare via appena in tempo. Ma eravamo troppo pesanti.
Lanciai un filo di energia verso Minos, agganciandomi così alla sua stella. Ma non avevo calcolato la velocità delle correnti che i due Spiriti avrebbero generato. Perciò lanciai altri fili, non senza difficoltà finché non riuscii a creare un vero e proprio cavo.
Fummo strattonati verso le rocce e per poco non ci impattammo. Fortuna che i ragazzi ci soccorsero prima grazie ai poteri telecinetici di Raki e, facendo leva sulla loro forza e sui loro Cosmi, riuscirono a tirarci su.
Mi sentivo come se mi si stessero staccando le braccia. Perciò lanciai altri fili che, intrecciandosi al primo crearono una corda, che, assicurò saldamente alla mia presa. E non riuscii a trattenere il grido di dolore che uscì dalla mia bocca. Le Creature si accostarono a noi e il Grifone sgroppò. Non so come riuscimmo a non farci disarcionare mentre cercava di allontanarle.
Raki ci tirò su più rapidamente e ci posò sulla terra.
Valentine balzò via un attimo prima che il Grifone potesse toccare terra. Invece io e Rhadamantys fummo sbalzati via. Se qualcuno si appressò a me chiamandomi ripetutamente, «Astrid, Astrid! Stai bene?» qualcun altro fece lo stesso con la Viverna. Non so chi. Ero troppo dolorante per saperlo. E, presto, persi i sensi. 

Quando rinvenni mi ritrovai a fissare il soffitto della tenda ospedaliera. Poi sentii tutto il resto. Per un momento ebbi un terribile dejà-vu che mancò poco mi procurasse una crisi. A impedirmelo ci pensò quella graziosa voce che il mio connazionale si ritrovava: «Oh, era ora che ti svegliassi! Così posso cantartele come meriti!» Sbottò facendomi sussultare. Lo guardai istintivamente. Indossava la Gold Cloth di Cancer ed era incazzato nero. Non l’avevo mai visto così adirato prima. 
«Death Mask!» E poi la mia voce si ruppe in un gemito di dolore che mi fece versare delle lacrime. Solo in quel momento percepii anche il bruciore terribilmente famigliare sulla pelle. Mi tornò in mente tutto e sussultai. Mi guardai.
«Mi spieghi che cazzo ci fai tu qui? Dovresti essere al sicuro al Santuario! Come ci sei arrivata? Perché?» Mi urlò fregandosi altamente del fatto che fossimo dentro la tenda ospedaliera e che i medici e le Velate stessero arrivando. Uno di loro lo rimproverò mentre una Velata mi risospinse tra i cuscini e mi fece l’elenco delle ferite riportate. Peccato solo che non capii quasi niente a causa dell’inveire di Death e del dottore che cercò di mandarlo fuori. Capii solo che a causa delle esalazioni del magma e delle sostanze disciolte ero rimasta intossicata per un po’ e a salvarmi era stata la Dark Resurrection.
Allontanai l’infermiera e, in quel momento mi resi conto che i pezzi della mia Surplice mi erano stati tolti. Poi, feci leva sul mio Cosmo e le ferite furono cancellate, sia nel fisico che nella mente. Quest’ultima soprattutto grazie all’Anesthesia.
Ringraziai la Velata per tutto e le dissi di prendere l’occorrente per togliermi le bende. La Velata eseguì. Poi, mentre mi liberava, richiamai Death, il quale sgranò gli occhi. Solo dopo realizzò che stavo di nuovo bene, proprio come nuova: «Ma tu fino a un momento fa non eri ferita?» 
«Il bello di saper usare la Dark Resurrection». Spiegai alzando le spalle. Mi sorpresi di me stessa. La vecchia me non si sarebbe mai comportata così tranquillamente di fronte a lui.
Ma ora le crisi erano ben lontane.
Poi lo guardai: «Non te l’hanno detto? Alla fine avevo ragione io, al Santuario».
«Ragione su cosa?»
«C’era davvero qualcuno che mi parlava ed era il mio maestro».
«Maestro? Aspetta, che cosa vuol dire? Che minchia stai dicendo?» E glielo confessai. Ci restò di sasso. Sulle prime pensò che lo stessi prendendo in giro e sghignazzò: «No, dai è impossibile, mi stai prendendo per il culo, è chiaro. Cioè, tu… no, dai è assurdo, non puoi essere…» Farfugliò, la bocca curva in un sorriso, pronto a sparare una risata sguaiata delle sue.
«Una Saint?» Domandai e lui smise di ridere per guardarmi allibito. Batté le palpebre e mi guardò dritto negli occhi. Si avvicinò di un passo e scrutò a fondo nei miei. Io sostenni i suoi senza problemi. Non mi facevano più paura quelle iridi blu spettrali. Avevo visto occhi più spaventosi qui. «No, aspetta, stai dicendo sul serio? Cioè, tu sei davvero una Saint?»
Sorrisi.
Lui si ritrasse e si raddrizzò continuando a guardarmi come se non mi riconoscesse. «No, non è possibile».
«Mi sembrava fosse chiaro che non ero così indifesa, Death». Dissi mentre crollava di nuovo a sedere sulla sedia accanto alla mia branda. Si tolse l’elmo a maschera e si passò una mano tra i capelli che avevano bisogno di una spuntata. «No, dai, è pazzesco; ma quindi tu sei il Gold Saint di Ophiuchus?»
«Così sembrerebbe». Ribattei. Fu veramente strano, ma anche piacevole, per una volta, ritrovarmi a bisticciare di nuovo con lui. Sapeva di casa. Mi era mancato, anche se stavamo parlando di un tipo poco raccomandabile.
Certo, non mi sentivo per nulla al sicuro ad averlo vicino. Non mi ispirava fiducia, né mai l’avrebbe fatto. Però era pur sempre un barlume del Regno dei Vivi, proprio come me e Raki. La sua presenza mi diceva che ero più vicina a casa di quanto pensassi. Anche se ormai mi trovavo abbastanza a mio agio, qui.
Death Mask guardò altrove senza vedere niente, perso nelle sue elucubrazioni. «E al Santuario? Cosa ne pensano?» Chiese infine, guardandomi di nuovo. Capii che se arrivava a formulare una domanda del genere significava che era veramente sconvolto. Lui di solito se ne infischiava allegramente di ciò che pensavano Lady Isabel e il Sommo Kanon. 
«Non l’hanno presa molto bene, ma se ne sono fatti una ragione. Se vuoi posso raccontarti tutto».
«Sì, credo che sia il caso».  
Mi feci passare un bicchiere d’acqua che avevo una sete tremenda e poi gli raccontai ogni cosa, da quando lui era partito a quando avevo affrontato e sconfitto Neera. E poi, tutto quello che era successo dopo che qualcuno mi aveva salvato la vita teletrasportandomi qui. Lo shock più grande per lui, fu apprendere che Lady Pandora fosse la mia parente più stretta. Lì veramente volle sapere ogni cosa.
«Ecco perché tua madre quando mi apparve si portò dietro gli Specter». Rimuginò a mezza voce mentre io carezzavo la mano di Menta. Nel frattempo mi ero cambiata. Mi avevano dato un vestito nuovo che mi lasciava scoperte le spalle e una gamba, ma mi sentivo nuda senza la mia Surplice. Menta non si era ancora risvegliata, ma secondo i medici era stabile e, questo era già tanto.
Poi chiesi a Death che cosa era successo quando avevo perso i sensi.   
Mi raccontò che avevano rianimato Rhadamantys, che si era ripreso immediatamente. Stranamente, visto che persino Camus ci aveva messo tre giorni per riprendersi. Così mi avevano detto e, mi aveva fatto visita tutti i giorni che aveva potuto. Questa suo gesto mi scaldò le guance.
Io mi ero svegliata il giorno dopo la sua dimissione. Ma lui non era venuto, aveva da fare con gli altri, aveva detto Death.
Gli chiesi anche degli altri, se fossero riusciti a portare a termine il piano e lui disse di sì e che non dovevo preoccuparmi.
Comunque Death si sforzò di recuperare per me i dettagli (dopo una supplica) e lui mi disse: «Quando si è rinvenuto ti ha guardato come a dirti, Mi hai salvato, nonostante quella brutta faccia che si ritrova. Ma non ti ha attaccato. Ti ha dato le spalle e ha ordinato che ti curassero».
Annuii stringendomi nelle spalle: «Ora dov’è?»
«E che ne so, mica sono la sua balia!» Sbottò guadagnandosi delle occhiatacce dai medici e dai pazienti. 
«Comunque non ti credere, il fatto che mi abbia risparmiato non significa niente». Ribattei io, spostandomi i capelli sulla spalla. E il mio compagno commentò, accorgendosene solo in quel momento: «Ti sono ricresciuti». Io annuii, adesso mi arrivavano cinque centimetri più in basso del seno. Poi si rinvenne e riprese il filo del discorso. «Adesso me lo dici che cosa cazzo ci fai qui?» Sbottò il mio connazionale adirato. Comunque se ero sopravvissuta al Flegetonte adesso potevo affrontare Pandora.

«Abbiamo riconquistato il Flegetonte grazie a te». Si complimentò la mia madrina, poi un’ombra passò sul suo volto. E parlò in tono più preoccupato e ansioso, nonostante la voce sottile. «Non puoi neanche immaginare quanta paura abbia avuto quando ho scoperto che tu eri presente».  Avevo chiesto udienza da lei nell’immediato, appena dopo colazione e dopo essermi sorbita gli interminabili rimbrotti di Death. Più che colazione merenda strappata a viva forza dalle cucine, ma dettagli.
La zia me l’aveva concessa subito, come se non avesse aspettato altro per .
«Dovrebbe essere un rapporto per la mia condotta?»
«No, dovrebbe essere una ramanzina».
La guardai senza capire, anche se il mio cuore osò sperare. «Una ramanzina?»
«Certo, per cosa credevi che ti avessi interdetto l’accesso al Fiume, per sport?» Domandò e, in questa domanda ritrovai un po’del sarcasmo di mia madre.
«Credevo che fosse perché vi servivo». Confessai.
Lei sgranò gli occhi viola e, nelle sue iridi lessi lo stupore e il dolore. «Come puoi pensare che io ti sacrifichi così?» Domandò spaventata, cercando di non far tremare la voce. «Non capisci che per me sei più importante della mia stessa vita?»
«Perché sono la Luce Ombrosa».
«No, questo non è vero». Sussurrò scuotendo il capo. Poi colmò la distanza tra di noi e mi incorniciò la faccia tra le mani. E mi fu impossibile non percepire il suo dolore. Ed era straziante. Mi sentii improvvisamente fragile, come se i pezzi della mia surplice fossero il mio esoscheletro e senza di essa fossi gelatina. Una lacrima le scivolò sulla guancia: «Come ti viene in mente una simile stupidaggine?»  
«Non ne voglio parlare».
«Perché?»
«Non ne voglio parlare, tutto qui, non c’è un perché».
«Dimmelo, Astrid, che cosa c’è? Perché dubiti di me a tal punto?» Era sempre da lei che andavo quando litigavo con la mamma da piccola. Era suo il letto in cui mi infilavo quando avevo gli incubi. Da che avevo memoria lei c’era sempre stata per me. Assieme a Rhadamantys e più di lui.
Sentii gli occhi riempirmisi di lacrime e, quando parlai, del discorso che mi ero preparata, riuscii solo a esalare: «C’entra, c’entra tutto». Feci un respiro tremolante e battei le palpebre. Ero sull’orlo del pianto anch’io, mentre mi rendevo conto che forse avevo preso una cantonata. Ma non volevo fidarmi troppo della mia speranza e del mio cuore. Avevo troppa paura di sbagliarmi. «È perché io sono…»
«No. Non posso cancellare quello che sei stata e che sei ancora e che sarai per tutti questi secoli. Hai compiuto tante nefandezze, le tue mani sono sporche di sangue come le mie. E non si toglierà mai, proprio come per me. Sto cercando di evitarti perché ti voglio ancora bene. In questi giorni ho scoperto molte cose su di me e ho paura, perché a causa di tutto io… Io…» Singhiozzai. Mi sforzai di continuare: «Mi aggrappo ancora ostinatamente all’idea che tu mi voglia bene perché sono io. E mi fa ancora più male che se mi avessero spezzato il cuore. Altrimenti dovrò pensare che per te io non sia altro che la Luce Ombrosa, lo strumento che il Divino Hades vi ha mandato come arma di risoluzione e che tutto quello che è successo finora, la nostra famiglia, il bene che ci siamo volute, altro non fosse che un sogno crudele».  
A quelle parole mi guardò inorridita e scosse il capo: «No, no, questo no Astrid. Non ho mai pensato questo, non ti ho mai visto così. Ogni cosa che ho fatto da quando sei nata a ora è stato per te e solo per te. É per permettere a te di vivere una vita felice che io ho sacrificato la mia riprendendo il mio ruolo di Sacerdotessa. A darmi la forza di rialzarmi sconfitta dopo sconfitta eri tu. Mi dicevo: Non posso mollare, non posso, io sono l’unica che può fermarli e li fermerò, per la mia bambina. Anche se questo mi teneva lontana da te non m’importava, perché quando alzavo gli occhi al cielo sapevo che tu eri viva ed eri sotto lo stesso cielo, che forse in quello stesso momento lo stavi guardando. Che mi avresti telefonato o mandato un messaggio. Anche se non ci siamo viste per quasi dieci anni, tua madre mi ha sempre parlato di te, mi ha sempre detto tutto».
«Zia…»
«L’unico motivo per cui vivo, per cui combatto e sono qui adesso, non è Hades, sei solo tu». Poi sollevò i suoi occhi viola pieni di lacrime di dolore su di me ed ebbi voglia di abbracciarla. Sentii finalmente la faglia immaginaria che si era aperta tra di noi, richiudersi. Istintivamente volli avvicinarmi di nuovo a lei anche fisicamente. Non pensavo che sarebbe arrivata a tanto per me. Non pensavo che ci fossero tante persone a proteggermi a prescindere, solo perché ero io e non perché ero la Luce Ombrosa. «Zia… Io, io non immaginavo». Cercai di scusarmi, anche se le parole mi sembrarono vuote e inutili.
«Come ci siamo ridotte a volerci così male, Astrid?» Pianse lei.
«Non lo so».
«Perdonami, piccola mia, perdonami, non era mia intenzione allontanarmi».
«Credevo fosse per via del tuo ruolo, di Hades…»
«Lo so, può sembrare, ma non è così. Anche a me riesce ancora difficile immaginare che tu possa essere diventata e metterti così in pericolo, è colpa mia, non dovevo dirti di lasciarmi, quel giorno».
«Zia, per favore, lo so che anche tu sei sconvolta e so che anche tu, come me, non mi riconosci. Ma io sono sempre stata così, è solo che ve l’ho nascosto finora». La zia mi guardò stupita e domandò: «Tu sapevi già di avere tutto questo potere? Questo Cosmo?»
«Sì, certo che lo sapevo».
«Perché non me l’hai detto prima?» Chiese mettendomi le mani sulle spalle.
«Perché non mi fidavo».
Le sue mani abbandonarono le mie spalle e distolse lo sguardo. «E non ti fidi tuttora».
«No». Ammisi, sincera.
La zia si allontanò e si accasciò sullo scranno, provata da tutto il dolore e la stanchezza. Si portò una mano alla fronte. «Oh, e dire che avevo sperato di tenerti al sicuro. Invece, prima tua madre e adesso te, mi sembra che tu stia andando in un luogo dove io non possa più raggiungerti. Non dovrei sentirti così lontana eppure è proprio così che ti sento. Questo dolore avrebbe dovuto unirci non dividerci».
«Io…»
«Io vorrei che tu guardassi oltre la Sacerdotessa degli Specter». M’implorò. Scossi il capo e dissi: «Sto cercando di farlo, credimi. Ma non è tenendomi lontana da te che la risolveremo».
«Non puoi chiedermi di farti rischiare tanto». Sussurrò orripilata, gli occhi ancora sgranati. Se possibile mi parve che avesse perso quel poco di colore che aveva.
Le presi i polsi e tolsi dolcemente le sue mani dal mio volto. Poi, spostai la presa sulle sue mani e dissi: «Non lo sto chiedendo. Considerala la costatazione di un fatto. Ho già perso la mamma, non lascerò che mi portino via anche te; devi solo darmi del tempo per riconoscerti anche così. Non so come ti vedono gli altri, ma per me, tu sei sempre la mia tata, la mia madrina e la mia cara zia».  Quel vecchio trombone di Sage non conosceva tutte le sfaccettature delle vicenda. Vidi i suoi occhi viola riempirsi di lacrime e poi, la Sacerdotessa degli Inferi mi strinse a sé. «Bambina mia, mio tesoro. Mi dispiace, mi dispiace tanto per tutto. Perdonami per averti lasciata sola, perdonami». E, in quel momento seppi che era ancora la mia cara adorata zia. Ricambiai la stretta sorridendo. L’abbraccio tra noi si sciolse lentamente. 
«Cosa c’è?» Domandò lei, accorgendosi del mio turbamento. «Menta…» Iniziai angosciata. Ero preoccupata per lei. Il suo sguardo si ammorbidì e mi carezzò la guancia. Poi mi spostò una ciocca dietro l’orecchio e sorrise: «Capisco, va da lei».
La guardai preoccupata. Una parte di me era già corsa via, ma l’altra restava lì insieme a lei. E i miei piedi sembravano incollati al terreno. «Ma tu?»
«Io ti aspetterò. Va da lei».  
«D’accordo. A dopo». 
Non feci che tre passi fuori dalla tenda quando mi sentii afferrare per un braccio e trascinare di lato.
Solo dopo riconobbi le ali della Surplice di Rhadamantys. «Rhadamantys?» Esclamai esterrefatta prima di cercare di liberarmi, ma lui non mollò la presa neanche un attimo.
Lui mi trascinò nel Padiglione dell’Antenora dove erano riuniti anche gli altri due Giudici. I quali quando ci videro si alzarono dalle sedie. Rhadamantys mi strinse entrambe le braccia e inchiodò lo sguardo al mio: «Cosa significa quello che hai detto sulla roccia?»
«Quello che ho detto, sono veramente l’apprendista del Cavaliere d’Oro di Ophiuchus!» Esclamai liberandomi con uno strattone. Pensavo che mi avrebbe riacciuffato e invece: «Espandi il tuo Cosmo». Ordinò.
«Perché?»
«Tu fallo». Eseguii continuando a scrutarli guardinga e Minos sibilò una trafila di ingiurie mentre Aiacos, che si era nuovamente seduto, balzò in piedi ed esclamò, inferocito: «Come pensavo, siamo stati raggirati».
«Quel farabutto!» Ringhiò Minos.
Strabuzzai gli occhi e smisi di bruciare il Cosmo. “E questa che diavolo di reazione è?”: «Cosa? Aspettate, mi sono persa, che cosa sta succedendo? Che cosa state dicendo?» Chiesi confusa.
A rispondermi però fu il Grifone: «Quando ti abbiamo aggredita non eravamo in noi, ci hanno fatto il lavaggio del cervello e ci hanno usati per tenere in piedi gli Inferi. Per il resto del tempo eravamo imprigionati e separati dal nostro Signore, ci usavano come tre pilastri per il nuovo regno dei Black Saint. Ma ricordiamo chiaramente che qualcuno ci ha raggiunto, ci ha lanciato il Fantasma Diabolico e ci ha spedito contro di te, poi ci ha rinchiuso di nuovo nelle nostre prigioni». Raccontò.
«Tutto quello che riuscivamo a ricordare era che dovevamo ammazzare te e che era stato un Gold Saint a mandarci sulla Terra. Perciò quando nella tua città abbiamo avvertito i Cosmi di Cancer e Pisces, abbiamo pensato che fosse stato uno di loro». Spiegò Rhadamantys.
«Cosa? Ma quei due come potevano trovarsi negli Inferi? E, soprattutto, come potevano utilizzare quella tecnica? Sono pochissimi al Santuario che ne conoscono l’esecuzione e posso garantirvi che Death Mask e Aphrodite non sono tra questi!» Esclamai allibita. «Solo perché siamo sulla stessa barca non significa che collaborerò con voi». Dissi, intuendo dove volessero andare a parare.
«Non siamo qui per proporti un’alleanza. Ma solo per trovare una conferma ai nostri sospetti, di te non ci importa niente». Ribatté la Viverna in tono aspro e sprezzante. «Capisci, adesso, la nostra rabbia? Siamo stati usati tutti e quattro». Ringhiò.   
«Se è così come avete fatto a uscirne?»
«L’estinzione per mano delle Creature ha annullato gli effetti del Fantasma Diabolico e, quando siamo rinvenuti, tu ci avevi appena riportato in vita. Al resto hanno pensato Lady Pandora e i medici degli Inferi in questi mesi». Concluse Minos. «Adesso crediamo che il mandante fosse in realtà Odysseus di Ophiuchus».
A quel punto strabuzzai gli occhi e sbottai: «É assurdo! Perché il mio maestro avrebbe avuto bisogno di farmi una cosa simile?»
«Non ne ho idea».
«Perché dovrei credervi?» Replicai sospettosa. «Potevate rinvenirvi prima».
«Prima avevamo altro di più importante cui pensare». Disse Aiacos. “Capisco… Adesso che erano semi liberi erano anche liberi di cominciare a pensarci”. Mi sembrò abbastanza logico e, mi sorprese come fossero riusciti a mettere da parte questo fastidio per la Guerra. Ma ormai avevo imparato a conoscerli, sapevo quanto fossero orgogliosi e tenessero al loro onore. Quasi più che alla loro stessa vita. Per loro essere usati a questo modo doveva essere ancora più umiliante che essere preda dei Black Saint. Per me era sconcertante pensare che Odysseus si fosse schierato dalla parte di Don Avido. E che avesse usato anche me per infiltrarsi nel Santuario. Già, il Santuario! Non ci avevo più pensato da quando ero qui! Accidenti. Chissà cosa era successo in queste settimane che ero rimasta bloccata qui.
«Siete davvero sicuri che non sia stato qualcun altro?» Indagai, giusto per sicurezza.
«Impossibile, le anime di coloro che combattemmo due secoli fa si sono già reincarnate e, attualmente sono i Cavalieri d’Oro».
«Odysseus di Ophiuchus non ha ricevuto il permesso di reincarnarsi». Aggiunse il Giudice canuto.
«Ma se è così come ha fatto a rinascere?» Domandai.
«Non è detto che sia rinato». Osservò Aiacos pensieroso, ma non meno incavolato. I due colleghi capirono immediatamente, io no: «Che cosa intendi?» Chiesi sedendomi a mia volta su una sedia.
«Potrebbe darsi che sia evaso dal suo girone, memore di quella volta che risorse per permetterci di conquistare il Santuario e ammazzare Atena prima della Guerra, ricordate?» Io non avevo la più pallida idea di cosa parlassero. Ma Aiacos sì, lo capii dal modo in cui annuì. 
«Perché, lui dove stava?» Domandai sentendo un dolore al cuore, come lo strappo di una ferita. Non ci volevo credere.
«Non sono affari che ti riguardano». “Aridaje”.
«Invece sì, visto che ha cercato di ammazzarmi e mi ha usato tanto quanto voi!» Sbottò inferocita. L’avevi già vista arrabbiarsi, ma ora non pensavi che potesse covare tanta rabbia anche nei confronti del suo maestro. Era perché eri anche tu un maestro che non capivi. Ma tu a differenza di Odysseus non avevi mai usato Isaac e Hyoga a questo modo.  «Ditemi cosa è successo». Comandò, anche se da come le uscì sembrò una preghiera.
«Non sono affari che ti riguardano». Ripeté il moro, ottenendo di farmi accigliare ancor di più: «L’ultima persona che mi disse così fece un grosso errore, adesso voglio sapere la verità».
«Va bene. Lui era sepolto nelle profondità del Cocito. Aveva non solo peccato di tentato Deicidio, ma anche di aver sottratto un’anima agli Inferi, facendola risorgere. La sua pena consisteva nel rinascere e vivere una lunghissima vita immortale. Ma quando morì la seconda volta lo imprigionammo. Da allora restò imprigionato nel Fiume di ghiaccio». Sussultai portandomi una mano alla bocca. Non era possibile. Il mio maestro non poteva… Ma allora perché non si era rivelato subito? Poi ricordai quello che avevo fatto con le carte. Sì, aveva senso.  
Le parole mi uscirono di getto prima che potessi controllarle. «Forse posso aiutarvi».
I tre mi guardarono stupiti. «Anch’io voglio vederci chiaro, voi non potrete mettere piede nel Santuario, ma io sì. Posso fare qualcosa con Odysseus e, posso agire direttamente senza tutti i problemi che avreste voi tra incidenti burocratici e diplomazia». Spiegai.
«Anche rispedirlo agli Inferi?» Domandò Minos interessato, con voce melliflua. Come se avesse voluto testare fino in fondo la mia lealtà. Perché, anche se non lo avevo detto a Death, io restavo lo stesso la Seconda Ala di Aiacos. 
Sgranai gli occhi per un momento, come se mi avessero dato un pizzicotto a tradimento. Non avevo considerato questo particolare. Però, era anche vero che io e lui non saremmo mai potuti stare insieme. Né come maestro e allieva né come altro. Lui era molto più vecchio di me, oltre l’immaginabile. Era una cosa disgustosa e, oltretutto era pure morto. Mentre io ero viva. No, io non potevo amare un morto. Volergli bene sì, amarlo platonicamente pure, però no. Non sarei mai diventata quella poveraccia di Bella Swan. E poi aveva minacciato Yoshino e i suoi genitori, non solo la Divina Atena.
No, non potevo permettere che continuasse a imperversare per il Santuario. Lo dovevo fermare.
Per questo fu una decisione abbastanza sofferta per me, ammettere che questi tre avevano ragione «A questo punto temo di sì». Ammisi, anche se mi fece male dirlo. Se era persino più pericoloso di quanto immaginassi, allora era giusto che tornasse qui. E li avrei aiutati, non prima di essere riuscita a strappargli la verità su ogni cosa.
Se mi aspettavo dei commenti per la serie: “Sei rivoltante” e “Come fai a venderti così facilmente? É pur sempre il tuo maestro”, mi sbagliai. Gli Specter non erano come i Saint, non ne avevano la mentalità neanche a pagarli. I tre si limitarono a sorridere e Aiacos ad avvicinarsi a me, cingermi le spalle con un braccio e a vantarsi. «Questa è la mia Seconda Ala». Sorrise affilato e fiero. Perché se Violate per lui era l’equivalente dei vecchi programmi della WWE, io ero l’equivalente delle tragedie. Ma da parte sua valse come un assenso, perché aggiunse: «D’accordo, affido tutto a voi, principessa, rispediteci quel fuggiasco».
«Aiacos…» Sibilò Rhadamantys per niente contento. Ma il collega sorrise a sfotterlo e aggiunse: «L’Ala è mia e risponde ai miei ordini, dico bene?»
A queste parole neanche lui seppe come ribattere. «Ma non ti da fastidio che io sia la Luce Ombrosa, un’apprendista Saint dell’Ophiuchus eccetera eccetera?» Gli domandai.
«No, in realtà no».

Camus

Adesso che a voi si erano riuniti il resto della guarnigione e avevate scoperto l’ubicazione del passaggio, potevate affrontare Don Avido. Mentre Death Mask e gli altri avevano distrutto la diga liberando il Flegetonte, Violate, Rune, Aiacos, Minos, Rhadamantys e Valentine avevano cercato. E avevano trovato. 
Poi, però, avevi perso il controllo del Fiume e avevi scoperto una sconcertante verità: se lo evocavi al pieno della sua potenza, ti sopraffaceva. E ti rendeva suo schiavo.
Ti eri svegliato tre giorni dopo il salvataggio. Ti sentivi le ossa a pezzi, parti del corpo che non immaginavi davvero potessero dolerti e un martello pneumatico sul cervello.
Poi erano stati i medici, Fianna, Isaac e Valentine a dirti dove ti trovavi e cosa stava succedendo.  In questi tre giorni avevi fatto mente locale e messo insieme la storia.
A salvarti era stato Valentine con il Greed The live. Non solo aveva tagliato il ghiaccio, ma aveva anche impedito al Cosmo con cui ti eri fuso, di prendere il sopravvento su di te. “Allora se ne è accorto!” Pensasti grato mentre mangiavi il cibo che ti aveva portato.
Poi aveva salvato il suo padrone. Conoscendo i loro trascorsi eri stato felice per lui; gli aveva finalmente dimostrato di potergli essere utile. Salvo scoprire che lui lo fosse già.
E tu, avevi guardato il tuo compagno incuriosito. «Cos’è questa storia?» E lui ti aveva raccontato degli avvenimenti della Guerra Sacra del Millesettecento. E di come avesse tentato di salvare Rhadamantys. Però aveva aggiunto un inquietante: «A volte, se ci penso, mi sembra di guardare un film, cioè, quello non sono io, è solo un tizio che mi somiglia. Ma quando guardo il Nobile Rhadamantys qualcosa mi dice che quella Viverna è ancora qui, che è sopravvissuta alla sua morte».
«Ed è un male?»
«Non lo so. Non mi ha mai detto come è morto; quello che so è che a causa dell’Ichor di Hades è diventato quello che conosciamo ora». Ammise scoccando un’occhiata fuori della tenda medica. Rabbrividisti di terrore. Non ti capitava spesso, ma succedeva. Se quello che voleva dire corrispondeva alla verità, avevate a che fare con un vero e proprio robot invincibile e incapace di altri sentimenti oltre la fedeltà al suo Signore. Le emozioni che provava erano solo collegate alla sua immensa, cieca, devozione, sconfinante nell’ossessione.
Neanche voi Gold eravate mai stati così assoggettati alla Vostra Dea a questo modo. Vero che per Lei avreste dato la vita, ma avreste comunque mantenuto una certa autonomia mentale e sentimentale. Adesso comprendevi fino in fondo quanto potesse essere pericoloso un tipo come Rhadamantys.
Guardasti l’Arpia che si era allontanata dal letto di Astrid e stava spostando la seggiola pieghevole accanto al tuo. Solo allora ti spaventasti e ti rizzasti a sedere di scatto. L’Arpia ti rimise giù spingendoti la spalla in basso. «Sta tranquillo, sta solo dormendo».
«Ma è ustionata!»
«Sì, ma si riprenderà. Uno dei medici ha già attivato le sue stelle del recupero». Spiegò e tu ti eri tranquillizzato un po’. 
«Come ci è finita qui?» Avevi domandato e lui te lo raccontò. Non avresti mai pensato che Astrid avrebbe salvato anche colui che odiava più di ogni altro. Ma era evidente che non l’avesse fatto per amicizia. Non aveva motivo di salvare uno dei suoi aggressori. Anche se si approfittava molto di Aiacos, c’era da dire.
Le riconoscesti una dose di stronzaggine che non ti piacque molto. Sapevi che fosse stronza, ma non immaginavi anche opportunista. Era di una naturalezza sconvolgente il modo in cui si rapportava a voi e quello con cui si rapportava con Aiacos e i suoi colleghi. Dov’era che finiva la sua stronzaggine e mostrava il suo vero volto?
Forse tu l’avevi visto. Se davvero fosse stata una stronza egoista fatta e finita non avrebbe mai creato quel piccolo cimitero per i bambini morti. Né avrebbe mai cercato vendetta o pianto per sua madre. A te l’aveva mostrato, ecco la verità.  
Cercasti di ricordare casi simili all’interno del Santuario, però prima che ci riuscissi, Valentine, seduto accanto a te, continuò: «C’è stato un periodo in cui si contenne». Eri felice di sapere che Astrid si fosse salvata. Aveva cercato di inseguire i gemelli. Che grande errore. Quando avevi evocato lo Spirito del Cocito non pensavi che sarebbe stato così sfiancante. La quantità di Cosmo che avevi impiegato aveva seriamente messo a dura prova le tue capacità fisiche. Ancora peggio che nella tasca temporale di Lady Asia.
Anche se ormai eri trascendente eri comunque uno Spirito Vivente. E come tale ne risentivi. Ma non pensavi che in questo lasso di tempo le tue forze fossero calate a tal punto. Né che il Flegetonte potesse essere così forte. Ora capivi perché persino i suoi Guardiani lo temevano.

Eri appena stato dimesso ed eri appena tornato all’accampamento celtico. Astrid, Valentine, Isaac e Fianna erano radunati alla tua tenda e sembravano discutere animatamente di qualcosa. La prima a scorgerti fu Fianna, che sgranò gli occhi e ti corse incontro. Ti gettò le braccia al collo e tu ricambiasti la stretta, contento di questa accoglienza.
Presto foste raggiunti anche dagli altri che vi si assieparono intorno e ti salutarono, chi stringendoti la mano, chi delle pacche sulle spalle e chi brevi abbracci fraterni e chi con un cenno del capo. Non eri mai stato meglio accolto come adesso.
Poi, quando i saluti e gli abbracci finirono, domandasti che cosa stessero facendo e Valentine spiegò che da adesso in poi si sarebbero occupati loro della Giudecca. Avevano trovato il Palazzo e adesso stavano organizzando la spedizione. Però stava anche cercando di convincere Astrid a non partecipare. Dopotutto lei era preziosa per Lady pandora e anche per Aiacos. Il quale già aveva poco gradito gli interventi della sua Seconda Ala, ma adesso preferiva se ne restasse al sicuro.
«Ammetterai che non hanno tutti i torti». Cercasti di farla ragionare tu nel pomeriggio che andaste a dare l’acqua al mughetto infero.
«Sì, però non posso sopportare l’idea che la zia…»
«Tua zia sa difendersi benissimo, posso garantirtelo io stesso». Dicesti, ma lei non dette cenno di averti ascoltato. Sembrava che ci fosse qualcosa che la turbasse. «Qualcosa non va?» Le domandasti.
«Sage sembrava volermi dimostrare qualcosa, sono quasi sicura che stia aspettandomi da qualche parte». Rispose Astrid dopo aver versato l’acqua sul mughetto. Si strinse la ciotola di legno al petto.
«Non ho il talento di Milo nel giudicare le persone, non ti so dire se sia effettivamente così o no». Ti scusasti.
«Io so solo che devo tentare».
«Tentare che cosa?» Chiedesti cadendo dalle nubi e quando lei ti guardò incerta e intimorita tu strabuzzasti gli occhi. «No, Astrid, gli ordini sono ordini, non puoi trasgredire».
«Ma non posso neanche lasciare mia zia da sola. Ti prego, Camus, ho già perso mia madre…» Nel dirlo gli occhi le si riempirono di lacrime. Batté le palpebre per liberarli e i lucciconi debordarono sulle sue guance. Girò il volto e se le asciugò con il dorso della mano. «Potrei andare io, se ti fa sentire più tranquilla». Ti offristi.
«Apprezzo la tua gentilezza, ma no. Già una volta un Gold fece lo stesso con mia madre e non è riuscito a proteggerla». Spiegò cercando di non offenderti troppo. Anche se t’infastidirono i sottintesi, non te la sentisti di costringerla a fare ciò che non si sentiva. Né di lasciarla andare da sola. Sentivi inoltre che sarebbe potuta arrivare a travestirsi pur di riuscire nell’impresa. Se le fosse andata male, avrebbe causato molti più problemi di quelli che immaginava. Sospirasti. Non avevi altra scelta: «Allora verrò con te». Dichiarasti.
Lei ti guardò stupita.
La sua idea era quella di seguirli. «E poi? Cosa pensi di fare?» Le chiedesti mentre vi avviavate verso il Flegetonte dopo aver recuperato la tua Gold Cloth. Fortunatamente che c’eri tu con lei, perché la paura le aveva ottenebrato il cervello, al punto da non riuscire a creare una strategia decente.  
Tu avevi elaborato il piano. Cinque secondi dopo la partenza dei pezzi grossi degli Inferi, eravate andati a recuperare la tua Aquarius ed eravate andati via con la scusa di fare un giro. Al sicuro nella foresta l’avevi indossata ed eravate andati avanti.
Avevate risalito il ruscello ed eravate entrati nel bosco. Da lì, stavate scendendo le montagne che arginavano il fiume di lava, tenendovi abbastanza alla larga per evitare di soccombere ai suoi miasmi e al suo calore. Peccato che tu dovesti per forza avvicinarti. Era scaduto l’effetto dell’ultima bevuta. E, ti eri portato la coppa dell’Azone apposta, oltre che una borraccia di acqua del Mondo dei Vivi per Astrid. La ragazza non aveva ancora la vostra resistenza e molte volte si era dovuta fermare per bere. Fortuna che molti ci avevano creduto quando avevate detto che vi sareste allontanati per un allenamento in solitaria. 
Spiegasti a grandi linee ad Astrid che cosa fosse e perché dovesti farlo, onde evitare che lei si preoccupasse. Poi ti spostasti i capelli dietro la schiena e immergesti il calice nelle fiamme e bevesti. Astrid ti guardò stupefatta: «É questa la medicina che prendevi per evitare di diventare un tutt’uno con il ghiaccio?» Chiese quando finisti e nascondesti il calice abbastanza lontano da lì. L’avresti recuperato in un secondo momento.
«Sì, ma non te la consiglio, fa venire ancora più sete di prima».
«Ma non ti lega a questi luoghi?» Chiese confusa.
«No, è l’unica cosa commestibile che gli spiriti possono sperare di trovare fin dai tempi più antichi». Tutti gli eroi del mito che discesero negli Inferi se ne dissetarono. Poi incrociasti le braccia al petto: «Come pensi di trovare la strada?» Domandasti guardandola e lei sfoderò dallo zaino un orologio a cipolla. «Ecco come». E ti spiegò che quell’oggetto era un’arma, cosa fosse in grado di fare e a chi appartenesse. Tu non l’avevi mai sentito nominare prima, ma non l’interrompesti.
«Ho visto fare questo a Yoma la prima volta che ci siamo incontrati, chissà, magari ci riesco anch’io». Poi azionò l’orologio e lo fece andare indietro di quattro giorni. Il paesaggio attorno a voi evaporò rapidamente, sollevandosi come le sabbie del deserto africano nel bel mezzo delle tempeste.
E arrivaste al momento fatidico. Astrid fermò il tempo e poi lo fece andare avanti lentamente. Vedeste così i due gemelli scappare.
«Seguiamoli». Disse e corse dietro di loro. Anche se nella realtà si muovevano alla velocità della luce, ci doveva essere comunque un modo per bloccarli. Corresti insieme a lei e vedeste i gemelli superare una roccia e scomparire in un portale che era mimetizzato alla perfezione con la roccia, come l’entrata per il Mondo Perduto di Viaggio al Centro della Terra di Jules Verne. Non avevi mai letto il libro, però avevi visto il film con Natasha nel breve periodo che vivesti con Hyoga e la tua nipotina. Ma la versione del Millenovecentosessantotto era quella che ti piaceva di più.  
Poi, alzaste gli occhi al cielo e vedeste librarsi la Giudecca sopra le loro teste. L’avevate trovata.
Risaliste la cima della montagna e lì, la ragazza riavviò l’orologio e tornarono a quattro giorni dopo. Entrambi sbatteste le palpebre nel sentire i miasmi e le ventate di calore che si levavano dal fiume di lava e fiamme.
Quindi il vero passaggio… Astrid sgranò gli occhi e raggiunse una piana tra le rocce. «Il passaggio è qui». Ti guardò. «Era qui che mi avevano imprigionato ed ero finita nella Giudecca».
«Dunque i gemelli non erano i veri custodi del passaggio», fece Astrid, poi ti guardò spaventata: «Dobbiamo avvisarli!»
«Non andrete da nessuna parte». Vi fermò una voce maschile volitiva. Vi giraste di scatto nella direzione della voce e vedeste Sage di Cancer. Astrid materializzò il suo falcione di Cosmo. 
«Purtroppo possiamo solo percepire il Palazzo ma il passaggio lo può aprire solo lo Specter che ci aveva sostenuti fino al giorno della comparsa della Luce Ombrosa». Rivelò un’altra voce alla vostra sinistra. Scattaste in quella direzione e vedeste Hakurei dell’Altare accennando ad Astrid. Avevi saputo dagli Specter che si chiamasse così.
«Cosa? Uno Specter?»
«Lo Specter di Mephistophele, colui che scatenò la Guerra Sacra del Millesettecentoquarantatré per pura noia, manipolando tutti noi come burattini». Specificò il sostituto del Patriarca. Potevate immaginare quanto odiassero quell’uomo. Anche tu sapevi cosa significasse essere manovrati. La rabbia che si prova quando lo si scopre, il fatto che per questi non si è altro che oggetti è rovente come fiamma di fornace. Non che ci si debba aspettare altro ma almeno un po’di umanità. No.
Lei ti spiegò la sua teoria cercando di ricostruire i fatti. Secondo lei era possibile che quel giorno fosse incappata in uno dei portali.
Era un po’ confusa, ammise, perché si era svolto tutto così velocemente che i ricordi si erano accavallati tra loro. Tu annuisti perché non sapesti cosa dire, di sicuro non ci pensavi, non avevi di questi problemi.
Però poteva comunque fare qualcosa. Dette qualche altro giro all’orologio e vi ritrovaste dento la Giudecca, circondati da angeli in 3D a mezz’aria. Non avevi mai visto prima una cosa del genere, né sentito così forte l’odore della pittura. Non avevi frequentato molte pinacoteche di recente. Ma sicuramente avrebbero avuto un odore migliore di questa. L’odore della pittura era forte e intenso quanto le rose di certi giardini durante la calura estiva certi giorni di luglio; che tu ne prendi una e ti sembra di annusare la coscia di una ballerina dell’opera. I colori leggermente sbiaditi erano come quelle rose che sembravano cavolfiori tanto erano rotonde.
Ma gli angeli lì dipinti avevano qualcosa di inquietante, era come se si muovessero per davvero. Erano il pallido ricordo di una guerra di cui tu non avevi neanche immaginato il potere e lo spavento. Ma di cui adesso avevi una vaga idea. Non avevi mai preso in considerazione la forza di Hades se riusciva persino a usare l’arte per mettervi in difficoltà e dichiararvi guerra.
Eppure la luce che cadeva dal soffitto e illuminava gli angeli era naturale e chiara. Abbassando lo sguardo vedesti tele su tele ammassate ai piedi delle pareti, mentre altre ancora erano state appese. «Dove siamo?»
«Nel padiglione della galleria d’arte». Spiegò Astrid. Poi ti fece cenno di seguirla. «Non so di preciso dove andiamo». Precisò a un certo punto, dopo aver specificato di aver soprannominato così questi posti. «Però possiamo provare a esplorare, magari per botta di fortuna possiamo incappare nella sala del Trono, altrimenti ci toccano le Tre Porte».
Arrivaste a una rampa di scale e cominciaste a scenderle. «Le Tre Porte? Cosa sono?»
«Me ne ha parlato Aiacos in questi giorni, quando mi ha raccontato delle sue gesta durante la Guerra Sacra per vantarsi; sono le Porte delle tre sale prima della Sala del Trono dove Hades concede udienza agli Specter. Ti giuro, quando non comanda e tartassa è talmente egocentrico che l’ho ribattezzato Sua Maestà. E se glielo dicessi sono quasi sicura che lo prenderebbe per un complimento!»
«Non ti distrarre». L’ammonisti mentre scivolavate tra i corridoi, cercando di non toccare gli angeli di Hades. Non avevi tempo per ammirare le sue opere d’arte, volevi solo andare avanti e… «Che ci fate voi qui?» Sbottò la voce di Rhadamantys. Poi la sua persona comparve verso la fine della rampa.
«Come siete entrati?»
«Lunga storia». Rispose Astrid nascondendo di nuovo l’orologio sotto ai vestiti. Lo portava legato al collo tramite una sottile catenella. Fortuna che era abbastanza piccolo da non darle fastidio sotto la corazza.  «Avete già trovato le porte?» Chiese poi, prima che la Viverna dicesse altro.
«Tu come…»
«Aiacos chiacchiera». Tagliò corto Astrid.
La Viverna la guardò torvo e poi replicò: «Sì, siamo appena alla prima».
«Meglio così».
«Adesso che ci fate qui?» La ragazza glielo disse e la Viverna le intimò di andarsene. Ma lei s’impuntò: «Non posso! Non posso lasciare la zia da sola adesso». Quelle parole dovettero smuovere qualcosa dentro quell’uomo, perché dopo qualche secondo di silenzio glielo concesse.
E così anche voi vi uniste alla comitiva.
Lady Pandora non fu per niente entusiasta della vostra presenza, soprattutto quella di Astrid. Ma non ci poté fare niente e si arrese alla presenza della nipote. «Starò nelle retrovie». Promise per convincerla.
«Va bene, purché tu scappi se va male, ok?»
«Ok». Mentì Astrid. E tu lo sapevi perché l’avevi vista tenere le dita incrociate dietro la schiena tutto il tempo. Però te lo tenesti per te.
 I quattro sembravano sapere perfettamente dove andare. Però porte era riduttivo, erano enormi portoni alti sei metri e larga tre. Almeno fu questo che deducesti quando foste davanti alla Prima, che Pandora chiamò Porta dei Ricordi. “Che nome suggestivo”, pensasti.  La Porta era incastonata tra due colonne di granito nero in stile dorico sormontate da due statue di grifoni che vi guardavano. I becchi a uncino e acuminati sembravano risplendere minacciosi nella penombra, sì come gli occhi di gemme. I due erano accovacciati e se la zampa destra era protesa a specchio sulla colonna, come se stessero per darsi lo slancio e scendere giù. La cosa più inquietante era che ti sembrava di riconoscere lo stile, come se le avesse scolpite la stessa mano che aveva dipinto quegli angeli.
Staccasti gli occhi dalle due statue e guardasti la porta proprio mentre Minos del Grifone si faceva avanti e poggiava le mani sulle maniglie. Il lucido legno d’ebano era impreziosito di intarsi floreali come certe decorazioni delle cattedrali gotiche color bronzo dorato. Le grandi maniglie erano due grifoni ad ali spalancate colti nell’attimo di saltarsi addosso.  
La porta, a dispetto dell’apparenza massiccia non oppose resistenza, anzi, si aprì con estrema facilità.
E varcaste la soglia della prima sala buia e spoglia. Era come se Hades avesse traslocato altrove perché neanche i corridoi della Casa di Atena erano così spogli e disadorni. Era come se nessuno ci vivesse da secoli, nonostante l’aria pulita che respiravate.
Vedevate solo un ampio salone vuoto pieno di specchi che sembrava preso pari pari dalla galleria degli Specchi di Versailles. Persino le decorazioni erano le stesse. Persino le stesse porte e gli stessi specchi che, specchiandosi gli uni negli altri, davano una strana sensazione di cadere nel vuoto. Avevi una vaga idea delle ricchezze dell’Oltretomba che i vari regni commerciavano tra loro, però non immaginavi che fosse così. Era come entrare in un duomo che aveva subito numerosi restauri nel corso del tempo, adattandosi di volta in volta ai vari stili. E il risultato era un bizzarro collage di più epoche.
Comunque risplendeva una fioca penombra. Questo posto, avevi già appurato, era strano. Anche se non c’erano candele e le tenebre cadevano leggere come un velo, senza opprimere, ci vedevate benissimo. Non avresti saputo dire se ci fossero lampadari, non riuscivi a vederli. Non si poteva negare però che al Signore degli Inferi non piacesse l’arte.
«E la notte cade come un telo
a smorzare gli occhi ed i televisori
e tu dietro un vetro guardi fuori
». Recitò Astrid a mezza voce mentre lasciava vagare lo sguardo smarrito sulla sala, dimentica momentaneamente della missione. Ti ritrovasti a oscillare la testa su e giù, d’accordo con lei.  
Arrivati a metà sala vi fermaste di botto.
Lady Pandora sembrava imbambolata. Tremava leggermente. La tua compagna d’arme la chiamò incerta sporgendosi verso di lei da dietro l’ala della Viverna. La quale fissò a sua volta la sua Signora, mentre Aiacos fece la spola tra voi due con lo sguardo e Minos vi fece cenno di andarvene.
Ma il portone dietro di voi si richiuse da solo, impedendovi la ritirata effettiva. Non avevate altra scelta che andare avanti, peccato che la strada era sbarrata da una donna e due uomini che riconoscesti come i gemelli Sage e Hakurei.
«Lo immaginavo che don Avido avrebbe posto delle guardie nelle sale». Ringhiò la Viverna, mentre Aiacos si scrocchiò le dita nonostante la Surplice. «Meglio per noi, ci sarà da divertirsi».
«Sì, tante belle marionette con cui giocare». Sogghignò il Grifone.
Ma l’unica che non si muoveva e parlava era la luogotenente degli Inferi.
Astrid si portò accanto a lei e la chiamò preoccupata: «Zia?»
Proprio in quel momento Sage parlò: «Benvenuti Specter e Saint» aggiunse dopo aver visto anche tu e Astrid, «vi stavamo aspettando».
«Cosa fate qui?»
«Noi siamo i guardiani delle Porte della Giudecca; se volete passare oltre dovrete sconfiggerci».
«Bè, non vedo che problema ci sia». Sogghignò Aiacos.
«Non credete che sarà così facile». Li avvisò Hakurei, poi i due scomparvero oltre la porta. Lasciandovi soli con la donna.
Non era molto alta, ma aveva lunghissimi capelli scuri e lisci lunghi fino alla vita. Sembrava di appena un anno più grande di Astrid. Aveva gli occhi scuri e la pelle candida risaltava a causa del nero della Surplice. Però in un modo più spettrale e non come un raggio di luce imprigionato nelle tenebre come Astrid.
Il suo volto tranquillo esibiva un dolce sorriso accogliente. Non sembrava neanche una Specter, era troppo dolce per esserlo. Ma la sua Surplice era strana. Non avevi mai visto prima una cloth del genere. Non riuscivi proprio a capire che cosa fosse. Il suo elmo era un diadema che le cingeva la fronte e le teneva fermi i capelli. Al centro spiccava una gemma esagonale. E, dietro le ciocche laterali della frangia più lunghe, s’innalzavano tre penne appuntite in una sorta di piccola cresta. Ci mettesti un po’ a capire che non era come l’elmo della cloth del Cigno, bensì a maschera come quello di Death Mask, solo più discreto. Il blocco centrale evidenziava le sue forme ma lasciava scoperte il collo, le braccia e le gambe. Ma scendeva affilato all’altezza del pube, lasciando scoperti i fianchi nudi e rotondi. Dietro la sua schiena si allungavano le quattro punte della coda. Mentre le cosce erano protette da dei cosciali che sembravano costituiti da diversi scudi che coprivano la gamba lateralmente. Mentre le ginocchiere erano due piastre romboidali appuntite che s’incastravano perfettamente con quelle dei parastinchi. Le scarpe da guerra invece recavano un primo e un secondo dito ornamentale che simulava gli artigli del rapace notturno da lei rappresentato. I bracciali della sua Surplice erano due incredibili, grandi ali con spunzoni dall’aria affilata che tendevano verso le mani. Se quelle ali erano gli scudi della guerriera non osavi immaginare che tecniche potesse disporre. Gli spallacci della sua Surplice erano affilati e tendevano verso l’alto. Ci mettesti un po’ per capire che le placche disposte a quel modo simulavano penne e scaglie.
Neanche le vostre cloth erano così accurate. Forse neanche… Sgranasti gli occhi: una God Gold Cloth. Quella donna non indossava una semplice Surplice!
«Perché fate quella faccia nobile Aquarius? Sembra quasi che abbiate visto un demonio». Sorrise ancora dolcemente la vostra avversaria. Poi tese le braccia verso Pandora e continuò: «E tu, piccola Pandora, quanto tempo è passato dall’ultima volta che ci siamo viste».
Pandora tremò. 
«Perdonami per allora, non era mia intenzione ferirti, dovevo solo fare in modo che mio figlio Tenma conquistasse la God Cloth di Pegasus». Continuò la donna. «Davvero, credimi, era tutta una recita, ti ho già perdonato per tutto, era solo un equivoco, siamo state manipolate entrambe, allora. E poi tu eri solo una bambina, adesso l’ho capito. Vieni qui, Pandora». La invitò.   
«No! Non lasciarti ingannare! Sono qui!» Urlò Astrid al suo fianco, angosciata. Ma la corvina non dette segno di averla udita. «Partita?» Domandò invece strabuzzando gli occhi. Voi la guardaste con un grosso punto interrogativo stampato in faccia e il timore crescente. Chi?
Come se fosse attratta da una forza misteriosa, la Sacerdotessa degli Inferi rispose e si mosse verso di lei.
«Vedo che la volta precedente non ti è bastato». Sorrise la donna mora. E fece per avvicinarsi, sorridente: «Ma non preoccuparti, vieni con me, poniamo fine a tutto».
«No, no, no! Non lo fare, non ascoltarla! Sta mentendo!» Cercò di richiamarla Astrid angosciata nel vedere la luogotenente di Hades così fragile. Sembrava imbambolata. Neanche la riconoscevate.
La giovane donna dai capelli mori sorrise affabile alla Luogotenente di Hades. Ma laddove la sorella terrena del Dio dell’Oltretomba non percepiva il pericolo, la nipote lo sentiva e lo vedeva tutto. «No! Non lasciarti ingannare!» E con un grido bruciò il suo Cosmo e si lanciò in soccorso della parente. I tre Specter cercarono di fermarla, ma non ci riuscirono. Mentre dribblava gli Specter Astrid urlò: «Non ascoltarla! Quella donna non ti vuole bene! Pensa alla mamma! Pensa ad Aida! Ricordati di Aida, di mia madre! Lei ti voleva bene per davvero, non questa donna!»
Poi superò la zia e si frappose tra lei e la guardiana. Da dove ti trovavi non riuscisti a vedere, ma riuscisti a vedere che aveva spento il suo Cosmo.
«Non so chi tu sia e cosa voglia da lei, ma se non ti allontani ti ammazzo!» Minacciò Astrid a Partita. La quale domandò: «Interessante, questo non è successo l’altra volta, chi sei?»
E Astrid cominciò a parlare in tedesco. Fortuna che tu eri poliglotta. Ma non ti aspettasti che quella lingua tanto dolce potesse assumere tonalità così secche: «Quella che ti aprirà il culo se ti azzardi a toccarla anche solo con un dito!»
La donna le lanciò uno sguardo compassionevole: «Ha irretito anche te, non è così?»
«Andate avanti». Suggeristi ai tre che ti guardarono interdetti.
«Ma sei matto?»
«Fatelo, ci pensiamo noi a Lady Pandora».
«Va bene, ve l’affidiamo, Cavaliere di Aquarius, ma se muore, non avremo pietà». E i tre Specter passarono accanto a Partita, che li lasciò passare tranquillamente. Ancora una volta però, le porte si richiusero dietro di loro. «Si riapriranno soltanto quando mi avrete sconfitto». Vi informò la donna.
«Che cosa le hai fatto?»
«Io niente, credo che sia in preda ai ricordi. Presto si dimenticherà di tutto e di lei non resterà neanche la memoria del nome».
Astrid le lanciò un insulto e attaccò a parlare alla Signora degli Specter in tedesco: «Ehi, ehi, guardami. Non puoi avermi dimenticato. Non puoi aver dimenticato me e la mamma. Ricordi il profumo dei tigli nel giardino della tua villa? Io sì. I picnic che facevamo sotto quegli alberi e la torta alle albicocche che preparavate? Me la davate sempre con un bicchiere di latte e quelle volte facevamo finta di essere tre fate sovrane del bosco. Fingevamo che fosse magico e giocavamo a far finta che ci fossero i folletti e le fate nel giardino. Ricordo il profumo della lavanda e il tuo vestito lillà. Ricordi qual era il tuo fiore preferito? Erano i girasoli, ricordi quando mi raccontasti la favola su quel fiore? E quando per il tuo compleanno ti regalai quegli orecchini a forma di girasoli che ti feci alle elementari? Li portavi sempre! Ma erano venuti male e sembravano dei soli. Io non ne ero felice ma tu li indossasti lo stesso, ti piacevano davvero. Ricordi come mi chiamavi? Mi chiamavi raggio di sole! Non puoi averlo dimenticato!»
«É inutile, la Sacerdotessa di Hades non conosce niente di quello che dici, il suo cuore è nero come la pece e ai suoi occhi ogni cosa è grigia. La Porta dei Ricordi, riporta alla luce il vero sé delle persone e Pandora è una donna senza luce».
«Ti sbagli! Stai zitta!» Esclamò di nuovo in greco Astrid e Partita richiuse la bocca. Poi tornò a rivolgersi alla zia. «Hai ancora quegli orecchini e lo so! Sono da qualche parte, li custodisci come un tesoro perché te li ho fatti io! Ricordati come mi chiamavi! Ricordati di me!» E quando le strinse le braccia con le mani, la donna rinvenne. «Sonnenstrahl. Mi chiamavi Sonnenstrahl! Dicevi che dovunque fossi andata ti avrei sempre protetto. Anche se ero solo una bambina. Ma adesso sono adulta anch’io! Adesso posso farlo! Posso essere veramente il tuo raggio di sole! Non puoi avermi dimenticato così facilmente dopo tutti gli anni che abbiamo passato insieme! Non so quanto tempo avessi passato con lei, ma lei è venuta da te con un secondo fine! Io no! Non puoi cancellare l’affetto che ci lega, che ti ha legato a mia madre, che ti spinge a combattere per me e a portare di nuovo il nero per una che neppure conosci davvero! Hai già dimenticato Aida Foscavalle?»
«Molto toccante. Ma adesso basta». E attaccò. Ma si fermò immediatamente. Pandora le aveva puntato al collo il tridente di Hades. «Non ti azzardare a toccare la mia figlioccia, Partita!» Sibilò malevola e di nuovo in sé.
Partita mosse la testa di lato come se avesse un tic. Poi, sempre con quella dolce espressione malinconica, commentò: «Peccato, c’ero quasi riuscita».
Però la colpì lo stesso. Astrid parò il colpo con il proprio bracciale e vacillò, gemendo di dolore. Ma Pandora alle sue spalle fu colpita lo stesso. Astrid sentì la zia espirare di colpo con quel gemito di dolore. Si volse leggermente e la vide cadere bocconi, gli occhi strabuzzati e il fianco insanguinato.
La bionda osservò la scena a occhi sgranati, come se non capisse bene che cosa stesse succedendo.
Poi la donna svenne.
A quel punto anche tu scattasti.
«Zia!» Urlò Astrid con ancora più forza e si gettò in ginocchio accanto al corpo della parente e la girò supina. Ti liberasti del tuo carceriere per correre in soccorso delle due. «Astrid, Milady!» Chiamasti gettandoti in ginocchio accanto a Pandora. Astrid le teneva la mano e cercava di svegliarla con l’altra: «Zia! Zia! Rispondimi, zia! Ti prego, svegliati!» Ma la Sacerdotessa non dette segno di ripresa. Con gran sorpresa della donna con indosso la cloth del Gufo. «Zia?» Domandò, guardandola perplessa, ma nessuno di voi gli rispose.
«É stato più facile del previsto». Commentò la voce maschile, ma, proprio in quel momento, la fiamma di Cosmo di Astrid si riaccese, ardendo con più forza e rabbia di prima. Con tanta forza che i suoi capelli si sollevarono e le vesti ondeggiarono. Le lacrime di dolore e furia le scivolavano sulle guance.
La chiamasti a più riprese alzando la voce. Sembrava diventata sorda ai tuoi richiami.  La ragazza inginocchiata al fianco sinistro della ferita materializzò il suo falcione e, facendo leva sul medesimo, lentamente si rialzò e si girò verso la guerriera. Le membra frementi per la rabbia.  
«Vuoi sfidarmi tu invece sua? Accomodati, non avrei mai pensato che quella donna potesse essere capace di veri legami famigliari e sentimenti.» chiese lei.
Avrebbe anche potuto dirle una cosa come: “Come puoi stare accanto a quella donna? Non sai chi è? Eppure dovresti sapere che Pandora è colei che libera il male nel mondo. La donna che da sempre detiene il comando dell'armata infernale al fianco del suo Re”. Ma le sue parole non avrebbero sortito ugualmente alcun effetto. Era talmente infuriata che neanche li ascoltava.
Proprio allora Pandora gemette di dolore.
«È viva!» Sussurrasti, poi, a voce più alta: «Astrid! É tutto a posto, è viva!» La rassicurasti tu sollevato e animato dalla speranza. Lei ti guardò angosciata da sopra una spalla ma si fece coraggio e annuì. Fece un respiro profondo e le membra smisero di tremare. Anche il suo Cosmo si ammansì un poco, ma non si spense. Anzi, prese a ribollire.
Dopodiché girò di nuovo la faccia verso Partita. Quest’ultima sgranò gli occhi per un momento. Se fosse stata meno coraggiosa, probabilmente sarebbe anche arretrata di qualche passo. Potevi solo immaginare che espressione terribile dovesse avere la tua amica.
Ma quando parlò, passò di nuovo al greco. «Io non so se questa Pandora sia la stessa di cui parli, la donna che conosco io è una persona buona e gentile, è la roccia che per molto tempo ha impedito a mia madre di andare alla deriva. É una donna forte che ha fatto degli errori gravissimi, lo riconosco. Ma il male ha sempre fatto parte di questo mondo, non importa il colore delle tue vestigia, sotto quale bandiera militi e per quali Dèi combatti, tanto si finisce sempre per avere le mani sporche di sangue e morti sulla coscienza. Ciò che conta sono le intenzioni, sono quelle che determinano il nostro ago della bilancia. Non so cosa abbia fatto né chi fosse prima di noi. Ma so che quella Pandora non esiste più. So cosa è adesso ed io non ho intenzione di tradire la mia famiglia». Ciò detto tese il falcione di Cosmo d’Oro verso di lei. L’arma sembrò sfavillare ancora più intensamente nelle sue mani. Come se fosse ricolma di energia, non solo fatta di energia.  
Partita non disse nulla, si limitò a sgranare gli occhi di fronte a quell’arma.  
«Io non sono ancora una Saint e non sono neanche una Specter. Io sono ancora io e non saranno vuoti discorsi manichei a farmi cambiare idea». Sbottò Astrid incazzata nera. Veramente, non avresti mai pensato di usare questa parola, ma era proprio così. Non esisteva una maniera più fine per spiegarlo. 
«Non sai cosa stai facendo, lei è pericolosa».
«Anch’io».
«Come fai a crederle? Non vedi che ti sta manipolando?»
«No, lei non lo farebbe mai. Non sono così manipolabile e se lo faccio è perché vedo un tornaconto personale anche per me. Io credo nelle lacrime che ho visto rigarle il volto, ho visto la luce in lei che non si è mai spenta. Io credo in questa vita e credo nel suo amore. Io credo in lei con tutta me stessa. E ora te lo dimostrerò. In guardia, Sage di Cancer».
Lo Specter del Garuda e quello di Minos l’affiancarono - minacciosi: «Non una parola di più».  
Ma la bionda rifiutò il loro aiuto. «No, devo farlo da sola. Andate».
«Ma…»
«É una faccenda tra me e loro, andate, gli Inferi sono più importanti di me». Ribadì.
I tre obbedirono. Minos ringhiò «Va bene! Ehi, tu, prenditi cura di Lady Pandora!» Ti sbraitò guardandoti da sopra una spalla e tu annuisti. Si vedeva che gli pesava lasciare la sorella terrena del suo Signore qui. Aiacos fece un verso di stizza: gli sarebbe piaciuto restare a guardare, ma capiva perfettamente la necessità. Minos invece non disse nulla.
«Astrid…» Mormorò Pandora mentre tu le raffreddavi le ferite. «No, Astrid, non combattere contro di loro, sono troppo forti… No… Lasciami».
«State tranquilla, se la sta cavando alla grande…» La rassicurasti, che con un occhio controllavi lei e con l’altro sua nipote.
«No. Non posso… Non deve… Non la mia bambina…» Continuò a farneticare la mora ferita. Prendesti il tuo mantello e lo stracciasti per farne delle bende con cui le fasciasti la ferita.
Mentre le prestavi soccorso capisti. Non avresti mai immaginato che quella donna dalla faccia pulita e dolce potesse essere tanto meschina.
«Partita, non toccarla, non te lo permetto, lei non… non deve!» E tu sgranasti gli occhi. Se Partita in precedenza doveva essere stata una persona tanto importante per Pandora, non fu altro che una falsa amicizia da parte della donna con la Cloth della Civetta. Avevi sentito dire che la Divina Atena fosse accompagnata spesso da una civetta. Non avresti mai pensato che la sua civetta fosse una donna con una Cloth. Era un essere sovrannaturale, probabilmente non era neanche umana come potevate esserlo voi tre.
Pandora sembrò perdere i sensi e tu la rinvenisti battendole una mano sulla guancia. «Milady, mia Signora». La chiamasti e la donna riaprì gli occhi purpurei e ti guardò. «Raccontatemi tutto, fatemi sapere cosa succede. Proteggerò io Astrid, ma per favore, ditemelo».
Lei tossì un paio di volte prima di prendere fiato e raccontarti la sua storia. La voce inframmentizzata dai gemiti di dolore e le ferite. Purtroppo non eri ancora capace di annichilire il dolore, potevi solo disinfettare le ferite. Così venisti a sapere che Partita era la sua migliore amica nella vita precedente. Anche se a separarle c’erano sedici anni di differenza. Infatti la ragazza contro cui combatteva Astrid era già adulta, sposata e incinta del suo primo figlio. Eppure questo non aveva impedito alla bambina di stringere amicizia.
All’epoca la madre di Tenma di Pegasus lavorava per la famiglia di Pandora come cameriera, ma lei non l’aveva mai considerata inferiore. Le voleva molto bene, andò pure a trovare la neo famigliola quando Partita dette alla luce suo figlio. Fu in quel momento che la piccola rivelò a Partita e a Yoma della gravidanza di sua madre. Speravano che da grandi lei, Tenma e il fratellino minore in arrivo avrebbero potuto giocare tutti insieme.
Ti commosse e ti stupì questa dolcezza da parte della Sacerdotessa di Hades.
Tutto cambiò la sera di Natale dello stesso anno, quando il fratello minore neonato di Pandora sparì appena la loro madre entrò in travaglio. Lei morì di quel parto che non ci fu. La colpa ricadde su Partita e alla bambina apparvero gli Dèi Gemelli, Hypnos e Thanatos. Le dissero che doveva ritrovarlo e le consegnarono il Tridente simbolo del comando degli Specter.
Gemette per il dolore e tu le tamponasti la ferita al fianco mentre Astrid continuava a fronteggiare i nemici.
«Astrid…»
«Continuate, vi prego continuate».
La donna obbedì, anche se a malincuore. «Quando rividi Partita stavo salendo le Case degli Astri per…» Sibilò tra i denti, «Per uccidere Alone. Quel maledetto traditore aveva soggiogato la coscienza di Hades e ci stava sacrificando tutti quanti per il suo diletto personale, credeva di poterci salvare uccidendoci tutti. Era pazzo. Yoma di Mephistophele per fermarmi risvegliò i miei ricordi e chiamò Partita dal passato. Quando la vidi capii che le volevo ancora bene. Non avevo mai voluto ucciderla, volevo solo sapere perché l’avesse fatto. Se era stata lei. Lei mi fece credere che non fosse successo niente, mi abbracciò e mi colpì a tradimento, per poco non mi uccise. Poi, mi prese in giro chiedendomi di poter combattere, concedetemi il permesso, disse. Ti prego, salva Astrid, salvala. É tutto ciò che ho, non posso permettere che Partita me la porti via. Quella donna è vendicativa, se la scambiasse per una Specter… No, non posso restare ferma un minuto di più». Cercò di rialzarsi ma tu la sospingesti di nuovo a terra con delicatezza. Non era ancora il momento di alzarsi. 
Arrivavi a capire il desiderio di Pandora, il dolore da lei provato per l’inganno che aveva subito fin da subito. Ma ora la situazione era molto diversa rispetto a due secoli fa. Yoma di Mephistophele l’aveva riportata indietro anima e corpo. Qui Pandora stava seriamente rischiando di morire. In qualche modo Partita era riuscita ad andare oltre i pezzi della sua Surplice.
Proprio allora sentisti la voce della messaggera di Atena schernire la giovane bionda che si era avvicinata e l’aveva respinta di nuovo. Astrid atterrò sul sedere ma si rialzò.
«Tu credi davvero che questo sia sufficiente? Credi che quella donna ti voglia bene solo perché sei la sua bambina? Bè, ti dimostrerò che è solo un’opportunista manipolatrice!» Dichiarò Partita prima di indicarla con lo stesso dito con cui, avevi scoperto aveva fermato tutti gli attacchi della ragazza e, comandare: «Mostrami la tua anima!»
Astrid s’immobilizzò di colpo trattenendo il fiato rumorosamente. Voi due urlaste il suo nome ma invece di uscire dal suo corpo, tutto attorno a voi prese a tremare, ogni cosa. Persino i vostri corpi e i vostri spiriti, era come se qualcosa cercasse di uscire dai vostri corpi, dalle pareti, dalle Sacre Armature, persino.
Poi ogni cosa attorno a voi divenne nera e miriadi di bagliori fosforescenti presero a volteggiare attorno ad Astrid, di cui distinguevi appena la figura umana solo perché illuminata a tratti sui contorni di oro e di violetto. I vestiti e i pezzi di Surplice erano quasi trasparenti. Sembrava che la ragazza fosse fatta di energia e cristallo. Non avevi mai visto una cosa del genere. Non era normale. Non sembrava neanche umana.
Perché stava rispondendo il suo Cosmo? Perché non rispondeva il suo spirito? Sembrava che non avesse neanche… Sgranasti gli occhi nel costatarlo mentre cercavi di proteggere la Signora degli Inferi, che gridava come una dannata. Al tempo stesso cercavi di resistere al dolore. Neanche quando eri morto la prima volta avevi sofferto come ora.
Cosa diavolo stava succedendo?
«Basta, fermati!» Articolasti il tuo grido informe, continuando a sforzarti di sorreggere Pandora, ormai più morta che viva. La quale gemeva tra le tue braccia come se la stessero ferendo a morte e si aggrappava a te come se tu avessi potuto salvarla.
Anche a te sembrò di morire un’altra volta e avesti paura. Un cieco, ancestrale terrore che neanche sapevi descrivere.
Terrore dolore e grida che condividevate con Partita. Non riuscivi a girare la testa e a guardarla, ma eri sicuro che fosse  ridotta come voi.
Cercasti di sforzarti per guardare Astrid e, con un immane sforzo di volontà ci riuscisti. 
Astrid, che avrebbe dovuto essere un corpo immobile, si mosse.
Non per via degli spasimi ma proprio perché sì. Si stava muovendo veramente, come se fosse abituata a questa sua condizione. Poi tese un braccio verso la sua avversaria, in una posa elegante che non le conoscevi. Nel farlo il nero si dissolse e tutto smise di tremare. Il dolore scomparve e vi lasciò ansimanti e bocconi. Pandora perse i sensi, mentre tu ti sforzasti di restare sveglio.
Tornasti a guardare la ragazza. 
Al posto del nero adesso c’era tutto l’universo nella sua magnificenza, con le sue nebulose colorate, le sue luci scintillanti e le sue zone d’ombra. Se riuscivi ancora a distinguerla era solo perché i suoi tratti continuavano a essere illuminati vagamente d’oro e di viola. Spalancasti gli occhi nel rammentare il sogno della donna cosmica. Improvvisamente ebbe un senso.
Poi, dalla sua persona crebbero delle penne sulla testa, la schiena, le braccia e sulle cosce. Sulle braccia e sulla schiena s’allungarono a formare delle grandi ali e una coda di rapace con timoniere molto simili alle piume della coda del pavone.  Ogni piuma risplendeva come se fosse fatta di un materiale prezioso. Dal polpaccio in giù le sue gambe si munirono di scaglie e dal suo tallone crebbe un altro dito da rapace.
Come se non bastasse, per la prima volta percepisti la sua energia a un livello così profondo che ti stupisti ancor di più. La sentivi oltre le tue ossa, direttamente nella tua anima.
Era in voi ed era attorno a voi. Densa come la nebbia, impalpabile come l’aria. Per la prima volta capisti cosa significasse avere a che fare con una vera emanazione del Cosmo. E capisti appieno le parole di Clio, la Velata. Lei non ha un Cosmo.  Non aveva sbagliato, ma era incompleta. Lei non aveva solo il Cosmo, lei era il Cosmo.
E capisti anche perché quando lo bruciava non lo sentivate: era così grande da non poter essere percepito. Come se un batterio cercasse di percepire un elefante con le sue sole forze. 
Partita la guardò sconcertata, come se si fosse resa conto di aver commesso un gravissimo errore.
Spalancò le grandi ali e con un colpo si sollevò a mezz’aria. Poi urlò e dalla sua bocca uscì il verso stridulo e penetrante di un rapace. Eppure così amplificato che lo sentiste risuonare nel profondo dell’anima.
L’ex amica di Pandora cercò di arretrare, atterrita mentre i bagliori si disponevano attorno alle ali della vostra amica come a sparare un colpo.
“No!” Pensasti. Posasti a terra Pandora e corresti a frapporti tra le due, braccia spalancate.
Il rapace astrale si fermò sgranando gli occhi. «No, basta, Astrid, basta!» Urlasti. Ma lei non dette cenno di averti udito.
Se avevi sperato che qualcosa di lei ti fosse rimasto, ti sbagliavi. E per poco non arretrasti. Neanche sembrava più lei, sembrava un ibrido tra questo rapace e un essere umano. Ammesso che ci fosse mai stato qualcosa di umano in lei.
Sembrava indossare una maschera di luce all’altezza degli occhi e le sue labbra erano bianche, ma i suoi occhi continuavano a rifulgere di stelle. Neanche si vedevano più le iridi e le pupille. Dal naso si allungava un becco a uncino affilato come quello delle statue dei grifoni.
A completare il quadro, il resto della sua faccia continuava a recare i colori dell’Universo. Proprio come i suoi capelli, che fluttuavano attorno alla sua testa come se la giovane fosse immersa in una piscina. Era come guardare una statuetta di cristallo.
La corona di piume che si allungava sulla sua testa dava la bizzarra idea di un’aureola. Scendendo scopristi che aveva le piume anche sul petto e poi, seguendo le linee delle costole, scendevano sui fianchi con una dolce curva, lasciando scoperto l’addome fino al bacino. Da lì in poi le piume si allargavano di nuovo dal pube fino alle ginocchia, come calzoni. 
Le zampe davanti, pur conservando le curve delle gambe femminili, recavano dettagli di quelle dei rapaci.
Astrid batté le lai e fu allora che vedesti che della sua vecchia forma restava la parte superiore delle ali, i pollici e gli indici. In effetti le braccia non si erano arcuate come nelle ali degli uccelli.
Tuttavia le remiganti, le setole e le altre piume crescevano direttamente dalla sua carne.
Eppure, nonostante tutto non avesti paura.
Sentivi di poterti fidare di lei. Non aveva importanza per te quale fosse il vero aspetto della sua anima. Neanche che fosse la Luce Ombrosa. Non importava nemmeno se fosse identica al suo Cosmo, lei era sempre lei. E questo non sarebbe mai cambiato. «Va tutto bene, calmati».
Astrid ti si avvicinò, allungando il collo verso di te.
Ti girò intorno, fluttuando con grazia, incuriosita, proprio come nel sogno, mentre il manto dei colori dell’universo si muoveva assieme a lei. A un certo punto ti sorrise e la maschera scivolò via dai suoi lineamenti, rivelando il candore della sua pelle, il candore delle perle dei denti, e i colori luminosi dei suoi occhi e dei suoi capelli. Non l’avresti mai detto, ma non pensavi che ti sarebbero mancati. Soprattutto gli occhi.
Era proprio come nel tuo sogno. “Un sogno premonitore”, pensasti.
Poi, così come la sua anima era stata tirata fuori, fu risucchiata dentro il suo corpo e tutto tornò alla normalità. A parte qualche calcinaccio e granello di polvere che piovve dal soffitto.
Astrid crollò in ginocchio e tu la sorreggesti prima che cadesse. Peccato che dette una testata sul pettorale della tua cloth. Sgranasti gli occhi e la scostasti per verificare che non se la fosse spaccata a causa della caduta. Qualcuno al posto tuo sarebbe morto dalle risate. Peccato che non ci fosse assolutamente nulla da ridere. La giovane gemette di dolore. «Astrid! Astrid! Tutto bene?»
«Sì, sì, mi gira la testa perché?» Chiese lei posandosi una mano sulla parte lesa.
«Niente». Mentisti e girasti la faccia verso Partita alle tue spalle, che era svenuta. Poi riportasti la testa dritta e la guardasti: «Ce la fai a camminare?»
«Sì, credo di sì. La zia?» Chiese cercandola con lo sguardo e la trovò ancora sdraiata a terra.
«Sta bene, è solo svenuta». La rincuorasti e lei annuì, poi si separò da te. Andasti a raccogliere Pandora da terra. La quale, quando fu tra le tue braccia mugolò e riprese conoscenza. «Aquarius…»
«Ce l’ha fatta».
«Grazie…» mormorò prima di richiudere gli occhi.
Ma ancora una volta il passaggio vi fu sbarrato. Partita si riprese dallo shock e si frappose di nuovo fra voi.
La zia di Astrid riaprì gli occhi, confusa.
«Devo ammetterlo, non avrei mai pensato che la Luce Ombrosa fosse così forte, ma non mi avete ancora sconfitto». Commentò divertita.  Astrid si mise davanti a voi per difendervi.
La moglie di Yoma le si avvicinò. «No, fermati Partita!» Urlò Pandora in coro con te.
«E io non avrei mai pensato che tu fossi così stupida». Replicò Astrid sorridendo.
La donna la guardò confusa, fermandosi di botto: «Che vorresti dire?». Per tutta risposta la bionda alzò un braccio e urlò: «A me, Civetta!» E la Cloth di Partita si scompose e si rimpicciolì per volare sull’avambraccio di  Astrid, che si era raddrizzata. Sembrava il negativo di Atena.
La donna, spoglia della sua Cloth la guardò interdetta. Anche voi. Non sapevate aveste questo potere sulle cloth. «Ma come… Quando?»
«Tu non sei una Specter come hai cercato di farmi credere tutto il tempo. All’inizio non capivo bene che cosa fosse la tua Armatura. Perché a forza di lavorare per resuscitare gli Specter ho imparato a riconoscere le loro Surplici e, grazie alle feste sono anche riuscita a vedere tutte le Surplici o quasi nella loro forma totemica. Non avrei mai detto che mi sarebbe tornato utile, però sì, lo è stato. Ci ho messo un po’ per capirlo, ma non esiste alcuno Specter della Civetta. Hades non permetterebbe mai che esistesse una Surplice simile se in tutti questi secoli non ha fatto altro che dare contro ad Atena. Quella è una Cloth, nonostante le apparenze. La Civetta è un simbolo di Atena ed io sono capace di comunicare con le cloth». Rivelò lasciandovi tutti a bocca aperta.  
«Non ho mai pensato di batterti direttamente. E no, non ti ho attaccato totalmente in preda alla rabbia e alla cieca come ti ho fatto credere. É stato molto difficile anche per me non lasciarmi sopraffare, ma mi bastava toccarti anche una volta sola per passarti una Stella Nera. Devo ammetterlo, è stato faticoso. Però ce l’ho fatta. Adesso ne hai in corpo almeno una decina. Se vuoi avere salva la vita non bruciare il tuo Cosmo o diverrai cibo per le Creature, morta o no che tu sia». Poi comandò alla Civetta di potare via Partita. La cloth obbedì. Spalancò le ali, si librò in volo, afferrò la sua proprietaria e scomparirono.
«Perché l’hai lasciata andare?» Chiese Pandora.
«Perché io non ho niente da dimostrarle». Spiegò lei, poi, tutti e tre oltrepassaste la seconda Porta. Quella dei Sospiri.
Questa era nera come la precedente, ma le colonne che la circondavano erano in stile ionico e, sopra di esse c’erano due minacciosi Garuda colti nel momento di urlare. I motivi che adornavano questa porta erano in flamboyant.  Ossia riprendevano quella corrente di gotico detta fiammeggiante. 
Se la Porta dei Ricordi si era rivelata letale, non osavi immaginare cosa potesse fare quella dei Sospiri.
E poi, che tipo di sospiro? Non esistevano solo quelli per amore, ma anche per rassegnazione, frustrazione, sollievo, ma anche di dolore. Considerando il luogo in cui vi trovavate, probabilmente dovevate pensare al peggio, come al Ponte dei Sospiri di Venezia, che, malgrado il nome poetico e romantico, in realtà non si riferisce a quello degli innamorati. Bensì a quelli emessi dai condannati a morte che lo attraversavano. E trovandovi voi negli Inferi aveva molto più senso che fosse una cosa simile. Già, ora che ci pensavi: «Scusate, Lady Pandora, come si chiama la Terza Porta?»
«Porta dell’Ignoto».
“Come supponevo”. Anche Astrid ti guardò perplessa. Queste Porte non erano collegate alla poesia e al romanticismo come suggerivano i loro nomi, ma avevano un significato molto più macabro. I morti esigevano di essere ricordati, per la morte di qualcuno si sospirava e poi, si lasciavano andare verso l’Ignoto. Perché solo chi muore può dire di sapere come sia l’Aldilà.  
«Mi domando se Aiacos e gli altri ce l’abbiano fatta, mi sembra troppo tranquillo, qui». Commentò Astrid, riprendendo a guardarsi intorno, il falcione di Cosmo d’Oro sollevato, pronta a difendersi.
Le desti ragione.
Aggiustasti la presa su Lady Pandora e anche tu ti guardasti attorno. Se era come pensavate, probabilmente il prossimo avrebbe fatto leva sui vostri sensi di colpa per la sua morte. Ma chi? 
«Dov’è Aiacos? Dove sono gli altri? Non sento più i loro Cosmi.» fece Pandora passandoti un braccio attorno alle spalle.
«Piuttosto, ma vi siete accorti che questa sala è strana?» Chiese Astrid avvicinandosi. «L’altra era decorata e adorna in un certo senso, ma questa è vuota, perché? Non sembra neanche una sala, le pareti mi sembrano troppo lisce come un vaso».
«O un’urna cineraria». La correggesti tu e le due donne sgranarono gli occhi.
«Precisamente, Camus». Disse la voce di un uomo davanti a voi. Ma con tua grande sorpresa, vedesti che il nuovo arrivato era Shaka. Lo chiamasti stupito, ma l’altro fece una smorfia confusa. «Perdonami, mi sa che ti stai confondendo con qualcun altro». Sollevò le palpebre e tu avesti l’effettiva conferma che non fosse Shaka: gli occhi si Shaka non erano scuri. Non avresti saputo dire di che colore fossero, ma non erano del consueto azzurro. Nei giorni passati insieme in viaggio, non avresti mai dimenticato delle iridi come le sue.
Tu e Astrid arretraste. «Chi sei tu? Che ne è stato di Shaka?»
«Non ne ho idea. Non lo sento più da quando ha abbandonato gli Inferi. Io sono Asmita di Virgo, Cavaliere di Atena del Millesettecento e sono qui per riprendermi il mio mala».
«Che ne hai fatto degli Specter?»
«Li abbiamo affrontati io e i Sommi Sage e  Hakurei. Vorrei piuttosto che rispondeste a una domanda: che cos’era quell’energia che si è liberata prima? Era uno di voi, ne sono sicuro, però non so come sia successo»
«Partita ha usato la tecnica sbagliata sulla persona sbagliata». Replicò Astrid e il Saint del passato la guardò. «Capisco. Cosa siete, fanciulla? Perché somigliate tanto al Cavaliere di Aquarius del XX secolo?»
«Boh? Non siamo parenti».
«Bizzarro…» Commentò con voce trasognata. Come se la vostra somiglianza lo affascinasse molto. Non ricordavi di averlo mai visto combattere durante l’ultima battaglia o quella prima dove Zaphiri di Scorpio perse la vita. Era un problema, non avevi la più pallida idea di come si comportasse il predecessore di Shaka o se fosse forte quanto lui o no. “Devo anche tenere in considerazione un altro fattore: Shaka era la reincarnazione di Buddha, se questo fosse solo un essere umano comune come me potrebbe essere più facile. Ma se non fosse così sarebbe un problema ancora più grande”. «Ce la fate a stare in piedi, Lady Pandora?» Domandasti alla donna tra le tue braccia.
«Sì, credo di sì».
«Bene». Ciò detto la facesti smontare con tutto il rispetto e la cortesia che le dovevi. Poi ti facesti avanti, con gran sorpresa di Astrid. «La Luce Ombrosa è stanca e non può combattere, se dobbiamo affrontarci allora il tuo avversario sarò io». Dato che era così forte sarebbe stato più producente se avesse combattuto per ultima, mentre tu, invece no. Il tuo cuore cominciò a pompare più rapidamente. Non dovevi lasciarti sopraffare dai sentimenti. Non dovevi, ma la verità era che morivi dalla voglia di farla pagare a Shaka per avervi suonati come tamburi quella volta. Non avevi dimenticato il dolore che avevi provato e l’umiliazione che ti aveva inflitto. Soprattutto davanti al tuo adorato allievo quando eri tornato negli Inferi. Eri convinto che se non ti avesse ferito a tal punto almeno saresti caduto in piedi e non sdraiato e impotente come allora.
Colleghi e compagni quanto ti pare, ma se ci ripensavi ti scaldavi. Era più forte di te. E il fatto che somigliasse tanto a Shaka era un buon incentivo per fargli assaggiare i tuoi colpi. Ti eri tenuto questo peso troppo a lungo. E, soprattutto non avevi mai accettato che quello scemo si fosse fatto ammazzare da voi. Davvero non aveva idea del male che ti aveva fatto. Tutte azioni necessarie, certo, ma quanto dolore e quanta ira ti avevano fatto, tu che in fondo avevi considerato i tuoi coetanei come dei fratelli. Anche se glielo avevi nascosto.
Rabbia e rancore si mescolavano dentro di te risvegliando il tuo Cosmo, che prese a ribollire.     
«Camus…» Ti chiamò Astrid.
Ti bastò un’occhiata per farla tacere e annuire. Poi tornasti a guardare il biondo davanti a te. Sembrava che non avesse bisogno di chiudere gli occhi come Shaka per controllare e accumulare il suo Cosmo. «Come desideri, Aquarius del Cocito». Ti concesse. Poi alzò una mano e mostrò il mala che, fino a poco prima stava allacciato ai fianchi di Lady Pandora: «Tuttavia questo sarà meglio che lo tenga io».
Spalancasti gli occhi esterrefatto e le due dietro di te trasalirono nel riconoscerlo. E quando l’aveva preso? Non l’avevi neanche visto muoversi. «Mi è giunta voce che state cercando di ricostituire l’Albero degli Specter, capirete bene che non posso permetterlo. Non ho fatto a caso tutta quella fatica l’altra volta per distruggerlo».
Perciò chiuse gli occhi e si mise in posizione del loto. Anche tu sentisti che stava cercando di raggiungerlo col Cosmo per distruggerlo. In quanto padrone dell’Ottavo Senso lo poteva fare, ma anche tu avevi qualche trucco. Se Virgo non usava il Khan per proteggersi era scoperto. Lo potevi almeno danneggiare fisicamente. Perciò lo congelasti. Ed erigesti una cupola di ghiaccio attorno all’Albero. 
Il biondo fece una smorfia ma non si lasciò distrarre che, stavolta, sferrò il Khan. E tu congelasti gli atomi per creare uno scudo dietro cui le due potessero ripararsi. L’impatto fu tremendo lo stesso. Ma lo scudo fece il suo dovere. Dopo esserti accertato che le due stessero bene tornasti ad affrontare il vostro nemico. Un’altra cosa che ti fu chiara era che Asmita non era un tipo molto loquace. Bene, neanche tu avevi tanta voglia di perderti in inutili chiacchiere.
«Sembra che tu sia all’altezza della situazione, ma vediamo come te la cavi con questa». Agitò il suo mala e improvvisamente le membra ti si fecero più pesanti. Vacillasti e crollasti bocconi. Astrid dietro di te gridò, mentre tu osservavi con sgomento i bracciali della tua Cloth annerirsi e affilarsi, riprendendo i colori della tua vecchia Surplice. In quel momento ti tornò in mente l’Azone canuto che ti aveva dato quel calice e comprendesti le sue parole.
«Ecco la tua vera natura Specter di Aquarius. Mi dispiace, ma la tua corsa finisce qui, proprio come quella della Viverna». Ma prima che avesse il tempo di agitare la sua corona, tu lo anticipasti congelandogli la mano. L’uomo, scottato lasciò andare il rosario che cadde a terra. 
«Non credere che ti sarà così facile catturarmi! E poi, questa non è la mia vera natura. Io sono nato Saint di Atena e tale rimango!» Bruciasti il tuo Cosmo con tutte le tue forze finché non sentisti la Surplice cambiare forma e materiale sulle tue membra. Improvvisamente sentisti l’energia crescere di botto, volgesti la testa alle tue spalle e vedesti Astrid che stava disegnando le stelle della tua costellazioni con le sue mani lucenti e che, stava togliendo da te il velo nero che Virgo vi aveva posto. Solo allora il tuo Cosmo e la tua Aquarius cambiarono davvero tornando del colore e delle fattezze originali. Poi la giovane lo fece sparire. Non immaginavi che avesse anche questi poteri, ma se era così: “Astrid…” Pensasti.
Poi tornasti a rivolgerti ad Asmita.  «Sembra che tu sappia già come comportarti, Aquarius del XX secolo». Costatò vagamente sorpreso. Anche lui come voi aveva un buon autocontrollo. Bene, se ti somigliava almeno un po’ caratterialmente potevi affrontarlo meglio. 
«Ho già affrontato qualcuno come te in passato, non sono tanto stupido da cadere due volte nella stessa trappola». Rispondesti. Il giovane ti attaccò e tu scansasti i tuoi colpi e rispondesti con la Diamond Dust che si scontrò con il suo Tenma Kofuku. Fu solo per miracolo che le due tecniche si equivalsero.
Per la prima volta ti accorgesti che eri molto cambiato dai tempi della Guerra Sacra. All’epoca un colpo come questo avrebbe distrutto la tua Diamond Dust. Invece eri riuscito non solo a resistere ma anche a perforare la sua tecnica e dissolverla, costringendolo a saltare via.
Il ghiaccio s’infranse sulla Porta, ma non la ruppe. Di che diavolo erano fatte queste porte?
Asmita atterrò aggraziato in piedi davanti a te e tu riportasti la tua attenzione su di lui.  
«Molto interessante». Sorrise il predecessore di Shaka notando come evitavi senza problemi i suoi colpi.
Peccato che Asmita non fosse Shaka in tutto e per tutto, perché il giovane biondo non si fece scrupolo di arrivare alle mani. E picchiava forte. Eccome se picchiava.
Riuscisti ad afferrare il mala ma anche Asmita fece lo stesso e vi ritrovaste a fare il tiro alla fune con quelle perline. Però la corona era troppo antica e delicata e non resse. Le perline volarono in tutte le direzioni.
«Con questo non potrai più imprigionare gli Specter». Esclamasti balzando via da lui. Ti detergesti un rivolo di sangue che ti colava da un angolo della bocca. Sentivi di averne la bocca piena. Accidenti. Neanche contro l’Astronauta era stato così. Lì avevi proprio sentito le energie abbandonarti, ma qui sentivi di essere fatto a pezzi fisicamente. Ma ne valeva la pena.
Asmita fece un’espressione interrogativa. «Quello che hai tu è il mala ma Astrid e Pandora hanno cercato la perlina di Rhadamantys mentre io ti distraevo». Era questo che avevi detto ad Astrid tramite il Cosmo. Era un piano rischioso, ma era il primo che eri riuscito a elaborare.
A quel punto Asmita sollevò le sopracciglia. «Cosa? Vuoi dire che i grani sono centosette?»  
«Esatto!» Poi ti girasti di lato e rivelasti Pandora e Astrid, che si stava rialzando dopo aver deposto la perlina ai piedi della zia. La quale alzò il tacco e l’abbatté sul grano, spaccandola. La perlina andò in frantumi liberando una quantità di luce ed energia che vi costrinse a ripararvi la faccia e vi sventagliò i capelli.
La Viverna si avventò addosso ad Asmita con un ruggito di rabbia. Degno della fiera di cui portava il nome.  E fu Rhadamantys, con il suo Sekishiki Meikai ha a rispedire il predecessore di Shaka nel suo girone.
E fu allora che la sala si trasformò, rivelandosi per quello che era davvero.
La luce lieve avvolgeva gli affreschi e i decori nella penombra. Scene di battaglia e il mito di Orpheo ed Euridice. O molti altri a voi ignoti che cercarono di salvare i propri cari. Riconoscesti l’Alcesti che si sacrificò per il marito Admeto quando giunse la sua ora. Oppure ancora Enea che parla con suo padre Anchise nell’Aldilà, ma anche Dante accompagnato da Virgilio prima e Beatrice poi.
Attorno a voi risplendevano frammenti di vetro a grappoli  dal soffitto che riflettevano ogni cosa lanciando lampi di luce. La pesante cappa di aria viziata era sostituita dal profumo di un dolce incenso alla lavanda e l’aria si era fatta più leggera. Non solo grazie al ghiaccio che andava sciogliendosi. Rispetto alla sala precedente, anche la struttura era molto più leggera e spoglia. Quasi come se avesse dovuto sollevarsi verso l’alto.
Rhadamantys vi guardò tutti per accertarsi che steste bene, poi, spalancò la terza Porta: quella dell’Ignoto. La sala dove vi ritrovaste era custodita da Sage e Hakurei ed era lì che erano impegnati i due Specter  rimanenti.
Fu proprio quest’ultimo ad accorgersi di voi e richiamò l’attenzione del gemello: «Fratello, eccola». Poi i due gemelli le scagliarono addosso i loro attacchi.
Ma la ragazza fu tratta via da lì da Aiacos, che l’afferrò per la collottola tipo gatto e la spostò rapidamente. «Aiacos!» Esclamò lei mentre tu colpivi i due con la Diamond Dust. Hakurei ribatté ai tuoi colpi. Per essere un Silver Saint era molto potente, non a caso la Cloth di Ara aveva scelto lui. 
«Astrid!» Urlò Pandora e corse da lei. Anche tu guardasti la scena allibito e ti distraesti. Fortuna che i Cavalieri seguivano le regole della cavalleria, perciò Hakurei non ti attaccò.
Astrid non si muoveva più. Il sigillo della Dea Atena appiccicato sulla fronte le impediva ogni movimento. Come era possibile? Quando le era stato appiccicato?
Vedeste Sage balzare via.
Pandora provò a tendere una mano verso di lei ma una scarica di energia le colpì le dita e gliele fece ritrarre con un gemito di dolore. Anche Aiacos si era scostato di colpo. Pure tu avvertivi l’energia provenire da quel talismano con l’Ichor della Dea. Non avevi mai percepito prima d’ora un’energia tanto forte come questa. Ti venne istintivo classificarla come un pericolo e indietreggiare. Era ciò che la tua persona, il tuo lato oscuro temeva. 
«Non potete toccarla». Li avvisò Sage. «Quelli sono talismani purificatori, grazie ad essi l’anima di Astrid si salverà e una Saint tornerà all’ovile».
«Bastardo, come hai potuto? Togliglielo subito!» Sbraitarono Rhadamantys e Pandora in coro, volgendosi verso di lui. Poi lo raggiunsero. Rhadamantys lo avrebbe anche afferrato per il collo ma l’ex Patriarca si era scostato in tempo.
La Viverna ringhiò mentre tu deviavi un colpo di Hakurei che era indirizzato a Pandora. Minos e Aiacos intanto lottavano per svegliare Astrid che sembrava essersi addormentata di botto.
Ma proprio allora Sage espanse il suo Cosmo e vi sventagliò tutti agli angoli della Sala.
«É tutto inutile, non riuscirete mai più a contaminarla con la vostra nefanda presenza».
Hakurei intanto usò la tecnica di Ara, l’Immolazione del Cosmo su di lei. Ma questa tecnica era diversa da quelle che conoscevate, questa sembrava più una benedizione. Non era impossibile, sugli altari si benedivano le offerte. Ma anche si purificavano. Stavano tentando un rito di purificazione in tutto e per tutto sperando che il sangue della Dea facesse effetto.
«No, siete voi che la state contaminando, non vi azzardate a toccare la mia bambina neanche con un dito, brutti mostri!» Sbraitò Pandora rimettendosi in piedi a fatica.
«Non potete esorcizzarmi». Fece la ragazza e i due gemelli si volsero verso di lei. Forse era vero che aveva dei demoni in sé, ma non erano esseri estranei a lei, erano le sue ferite e il suo dolore. Ed erano pronti a combattere insieme a lei. Poi alzò il braccio. «Perché non c’è niente da esorcizzare in me». Rispose lei, afferrando il talismano con due dita e staccandoselo dalla fronte.
Immediatamente i suoi occhi tornarono normali. Poi appallottolò il talismano e lo lanciò via alle sue spalle.
«Tu sei il male, sei tu il vero male del mondo». L’accusò Hakurei, che tra i due era il più fumino. Ma la vostra amica non si lasciò sconvolgere. Anzi, sollevò il braccio, le dita risplendenti di luce lattiginosa: «Cenere alla cenere, polvere alla polvere, torna nel passato, vecchio fossile». Sibilò muovendo il braccio con l’orologio.
Hakurei l’attaccò, ma si scontrò contro la luce e si dissolse in cenere. Lo stesso accadde al suo gemello, che era rimasto indietro. E quando Astrid lo guardò, lui sollevò le sopracciglia e commentò: «Oh, come ho fatto a non accorgermene prima? Pandora non ha liberato solo il male, stavolta ha liberato anche la Speranza. Oh, ora posso morire in pace». Poi gli occhi gli si rivoltarono indietro e, mentre cadeva all’indietro, si dissolse.
Che strano, per un momento ti era parso che il fantasma di un sorriso avesse animato la sua bocca. Solo tu vedesti la giovane nascondere nuovamente l’orologio tra le trame della veste. 
Ancora una porta e avreste potuto affrontare don Avido.
A spalancare questa, tuttavia non fu uno Specter, bensì Pandora in persona. La sala delle Udienze era buia e tetra. In un certo senso sembrava di essere dentro una catacomba. Non come la Quarta, ma una catacomba umida e fredda, in un certo senso. Qui si sentiva fortissimo il tocco degli spiriti quale tu eri. Un freddo dolce ma sottile, spoglio della secchezza di certe giornate e dell’umidità di altre. Era un freddo pulito e sottile che si percepiva appena sullo strato più esterno della pelle. 
Il pavimento era di un azzurro chiaro contrastante con il buio che cadeva dalle pareti. Anche il buio era strano, era come se fosse una vernice che era stata fatta colare giù dalle pareti. Da dove vi trovavate non si vedevano bene neanche i confini, ma si vedeva la pedana con i cinque gradini e lo scranno sopraelevato del Dio vero Signore di questo posto.
Rhadamantys accanto a voi fremette di rabbia. «Come osa insozzare con la sua presenza questa sacra Sala del Dio Hades?»
Quando anche tu guardasti meglio nella direzione in cui quegli occhi erano fissi, non potesti non trattenere il tuo stupore: don Avido era seduto sullo scranno che una volta fu del Dio dell’Oltretomba. Non faceva neanche un misero tentativo di fuga, era come se stesse dominando tutta la situazione. «Non pensavo che sareste riusciti a superare le mie guardie». Vi accolse, gelido. Un sigaro che pendeva dalle sue labbra.
«Le tue guardie, neanche la loro identità gli riconosci». Sbottò Rhadamantys disgustato mentre vi fermavate tutti in blocco.
Il Black Saint alzò le spalle e buttò fuori una nuvoletta di fumo: «E a cosa mi serve? Una volta che assumi il controllo dell’Oltretomba non importa più».
«Tu non hai il controllo sull’Oltretomba, tu l’hai perso da un pezzo». Gli ricordò Pandora. Poi mosse il tridente e ordinò: «Alzati immediatamente da quel trono, non sei degno di starci seduto! Non sei il padrone degli Inferi!»
L’uomo ignorò il suo ordine e borbottò: «Così dicono». Un sorriso malefico si allargò sulla sua faccia. Il sorriso di chi ha il coltello dalla parte del manico. O che crede di avercelo.
Lasciò avvicinare soltanto le due donne che erano con voi.
«Non m’interessano tutti gli altri, mi interessa soltanto lei». Fece allungando un dito verso Astrid. «Per quanto riguarda voi potete anche sparire».
A quel punto Pandora mollò un fendente a Don Avido che schivò abbassandosi, poi si girò verso di lei. E la spazzò via con un colpo di Cosmo mentre Astrid manifestava il suo falcione. «Difenditi!» Gli intimò.
«Non ho bisogno di armi».
«Va bene lo stesso».
La strategia di don Avido era semplice, in quanto lui riusciva a manipolare le anime. Infatti, ben presto, nonostante che indossassero una Surplice, Minos e Aiacos furono scagliati contro Astrid.
La ragazza mosse delle proteste e i due non riuscirono a opporsi. «Qualcosa ci sta controllando!»
Non poteva andare avanti così, sarebbe andata a finire male. Dovevi fare qualcosa e non ti venne niente di meglio che usare la tecnica di Tempesta nella stanza di Cerebro per far svegliare il Dottor Xavier in X-men.
Ossia, abbassare la temperatura, finché il Black Saint non fu costretto a fermarsi.
Tutti nella Sala stavano battendo i denti. «Come diavolo…» Ma non finì la frase che Pandora, tremante, gli puntò il tridente di Hades alla gola.
«Ah, e tu credi che questo misero trucchetto possa bastare a fermarmi? Stai attenta a come ti muovi, madama, rischi di tagliare il naso a qualcuno». La derise l’uomo accennando al suo timore.
«Meglio, una parte di te in meno da sopportare».
«Non credere che lei sia la sola».
Solo allora il Black Saint si ricordò della presenza di Astrid e, come già molto prima, anche tu avevi percepito la Loro. Le Creature erano qui fuori della porta, che aspettavano un cenno da parte della loro padrona.
Le due si scambiarono uno sguardo. «Insieme?» Domandò la bionda materializzando una stella nera tra l’indice e il medio.
Le Lacrime scattarono attirate dalla stella-cibo e voi vi abbassaste di colpo mentre le Lacrime si fiondavano nella stanza a gran velocità.
«Insieme!» Urlò Pandora. E infilzò Don Avido nello stesso momento in cui lei saltò.
Il nemico afferrò l’arma per il manico e lo fermò: «Credevate che bastasse questo per fermarmi?» Non fece in tempo a pronunciare l’ultima sillaba che l’altra gli piantò le mani sulla schiena e disse, con un sorriso: «Dimmelo tu se questo ti basta» poi spinse la stella nera dentro di lui e le Creature, che si erano innalzate, gli si scagliarono addosso, in picchiata. Le mani protese verso di lui.
Astrid si scostò con un balzo mentre le Creature terminavano il loro lavoro riducendolo all’impotenza. Ma il Cosmo del Black Saint, adesso percepibile, era ancora nell’aria. I tre Specter scattarono immediatamente. «É ancora vivo, quel maledetto ci è sfuggito». Ruggì Minos.
«Dobbiamo riprenderlo!» Ringhiarono Aiacos e Rhadamantys rialzandosi.
Poi lo vide a pochi metri da voi, ferito, che, gemendo, cercava di strisciare via, trascinandosi sul pavimento. Lo Specter tese le mani verso di lui e fece per usare il Cosmic Marionation ma Astrid lo fermò. «No». Posò una mano sul braccio di Minos e lo Specter la guardò con astio da sotto la folta frangia candida ma non la colpì. «Non può più nuocere a nessuno, ormai». Gli fece notare la giovane accennando al Black Saint ferito che gemeva di dolore sul pavimento scuro pochi metri più in là.
Lo Specter lo fissò per un po’ prima di abbassare il braccio e darle ragione. Ma si vedeva che gli bruciava di non poter infierire su di lui come desiderava.    
Adesso era veramente finita.
Non sapesti come successe, fatto sta che perdesti i sensi.

Ti svegliasti nella tua camera da letto. Finalmente dormivi in un vero letto, anche se era stato solo per medicarti le ferite che avevi riportato nello scontro con Asmita. Eppure il materasso era così morbido, rispetto ai soliti giacigli, che ti sembrava gelatina. Fossi stato più pazzo ti saresti alzato e avresti dormito sul pavimento. Anche se dubitavi che qualcuno te l’avrebbe permesso.
I medici degli Inferi e le Velate si erano occupati di voialtri. Erano passati cinque giorni che avevi trascorso tra visite mediche, cibo, bagno, visite mediche, visite di amici e riposo. Tutto nello stesso ciclo. Ma anche così ci sarebbero voluti come minimo un mese per recuperare la mobilità. Astrid veniva a trovarti tutti i giorni da quando ti eri svegliato. Anche la Nobile Pandora, quando aveva potuto alzarsi era venuta da te. E ti aveva fatto strano vederla con una camicia da notte chiara e una vestaglia dello stesso colore. Sembrava un fantasma per il contrasto con la lunga chioma corvina, adesso legata in un elegante chignon. Tra pazienti ci si fa visita a vicenda qualche volta. Soprattutto se ci si conosce.
Ma anche Fianna e gli altri ti venivano a trovare dopo i pasti, mentre gli Specter fuori della Giudecca festeggiavano. La piccola la prima volta che venne da te si arrampicava sul tuo letto e ti gettava le braccia al collo piangendo. Avesti la sensazione che si stesse colpevolizzando, però riuscisti a tranquillizzarla in tempo e a farle capire che andava tutto bene. 
Astrid era quella che sembrava stare meglio e, anche lei aveva smesso momentaneamente le vesti nere e i pezzi di Surplice in favore di un comodo abito bianco e con decorazioni e sfumature color crema, di seta. «E l’altro?»
«Ah, è un po’malconcio, se ne occuperanno le Velate, nel frattempo le dame di Lady Niniane mi hanno dato questo di ricambio». Rispose lei alzando una spalla.
Vedevi perfettamente che il rapporto tra le due si stava ricostruendo e ne fosti felice. Poi ti sovvenne alla mente un pensiero.
«Lady Pandora, potrei parlarvi un momento in privato?» Le chiedesti e la donna annuì. Astrid si alzò e vi lasciò soli. La zia di Astrid si passò le mani sulla gonna della camicia e domandò: «Di che cosa volevate parlarmi?»
«Di affari, principalmente. Adesso che la Guerra è finita credo che sia opportuno riconsiderare la mia richiesta a proposito dei Celti».
«Credevo che ve ne foste scordato».
«Non mi scordo le cose così facilmente». Ti scusasti. «I Celti hanno combattuto valorosamente, questo glielo dovete riconoscere e anche la libertà».
«Dipendesse da me non esiterei a dargliela, però questo potere non spetta a me. Spetta al Divino Hades, farò in modo che le venga recapitata non appena sarà qui, nel frattempo mi farebbe piacere se collaborassimo ancora una volta. Naturalmente per il benessere degli Inferi. Adesso c’è da ricostruire ogni cosa».
«Naturalmente».
Non ti fidavi completamente delle parole di Pandora, però ti fidavi della piccola Fianna. Forse erano le medicine, forse era il periodo, però quasi non riconoscesti la bambina senza i disegni blu e gli abiti di cuoio che usava per combattere. Neanche senza la polvere addosso. La veste di foggia  romana le stava benissimo e anche i capelli puliti e acconciati. Sembrava anche più in salute e tranquilla.
Soprattutto adesso che Viviana non era più un pericolo per lei. La piccola guerriera continuò a farti da portavoce tra te e i Celti per tutto il tempo necessario alla tua guarigione.
Fu lei a raccontarti, per esempio che alla fine un gruppo di loro aveva deciso di stabilirsi negli Inferi. Oppure, che i dux bellorum, con la benedizione delle Sacerdotesse e dei Druidi avevano arrestato e deposto Lady Viviana e l’avevano condotta di fronte a Rune di Barlog. Che si era visto costretto, assieme al suo superiore, a rispolverare i tomi risalenti al Milleduecento, per aprire un nuovo processo per la Sacerdotessa Reale di Avalon. Quella donna aveva compiuto un atto tremendo nei confronti dei suoi stessi Dèi. Probabilmente in passato riuscì a ingannare il proprio popolo con un Cosmo da Silver, al massimo; ma non avrebbe  impressionato gli Specter. Ed era l’ora che avesse ciò che meritava.
Fianna si sdraiò accanto a te e tu le carezzasti la testa con fare paterno: «Sei contenta?» Le chiedesti e lei disse di sì. Finalmente anche lei aveva la sua parte di giustizia.
Fu sempre lei, poi, a dirti che gli Specter si stavano riorganizzando e ricostruendo gli Inferi come li conoscevano prima. Il che era un bene. I Black Saint avevano portato troppi danni a questi luoghi. Anche le Creature avevano contribuito a peggiorare ogni cosa. «Vogliono che la Luce Ombrosa resti qui». Ti disse un giorno mentre il dottore ti visitava.
«Ah, sì? Perché?»
«Le Creature stanno ancora imperversando per queste terre, anche dai Regni Limitrofi giungono notizie preoccupanti: gli inferi orientali stanno scomparendo quasi completamente e non sappiamo tra quanto toccherà a noi». Ti guardò angosciata: «Tu credi che Luce Ombrosa ci salverà?»
«Non lo so». 
Nei suoi occhi leggesti la paura. «Ma tu puoi dirglielo, no?»
«Non so se mi ascolterà».
Lei si volse completamente verso di te: «Ma deve, tutti ascoltano te». Perciò fosti costretto a prometterle che avresti parlato con lei. Tanto l’indomani si sarebbero tenuti la cerimonia di liberazione ufficiale e i festeggiamenti per Hades. Presto sarebbe tornato negli Inferi. Ti venne da sbuffare. Aveva lasciato fare a voi tutto il lavoro sporco e lui se ne era rimasto beatamente in panciolle chissà dove per tutti questi anni.

La mattina seguente la Giudecca era in fermento: era arrivato il giorno in cui la bandiera degli Inferi avrebbe sventolato di nuovo sul tetto del Palazzo. In realtà la statua reggeva un tridente, ma per l’occasione era stato rimosso per la cerimonia. Dava un tocco più umano e vivido, mentre la bandiera sapeva di libertà. Dopotutto avevate vinto una guerra decennale. Anche gli ambasciatori degli Dèi della Notte erano giunti in visita per celebrare questa vittoria. Un chiaro messaggio per tutti i regni limitrofi, ossia che la Guerra Civile era finita. Tra i presenti c’erano sicuramente anche esponenti dell’Inferno, di Hel, di Plutone, di Anubis e di altri regni di cui tu ignoravi l’esistenza, ma, che in un modo o nell’altro, nel corso degli anni, vi avevano sostentato. Per esempio, era anche grazie ai commerci con il Regno di Lucifero che voi avevate candele e oli profumati, oltre che il profumo che avevi indossato per l’occasione.
Ti stavi preparando anche tu per la cerimonia. In virtù dei tuoi servigi avevi ricevuto il diritto del palco d’onore. Perciò ti eri fatto un bagno con qualche difficoltà per via delle bende e avevi lasciato che ti lavassero e ti pettinassero i capelli. «Le punte sono rovinate, mio signore, desiderate tagliarle?» Aveva chiesto una delle serve e tu avevi detto di sì. A essere onesti quell’azzurro non lo sopportavi più. Adesso i capelli non ti sfioravano più gli stinchi e ti sembravano più leggeri, anche se ti arrivavano lo stesso alle ginocchia e il volto libero della barba che finora ti aveva ombreggiato il volto. Avevi temuto che sotto la barba la tua pelle avesse perso la sua freschezza giovanile, ma non era stato così. E ciò ti fece tirare un sospiro di sollievo.
Poi avevi indossato i vestiti puliti sotto la Cloth riparata e tirata a lucido e ti eri avviato ai festeggiamenti. La Gold Cloth ti sosteneva premurosa come una vecchia amica e una madre e, al tempo stesso, ti faceva da esoscheletro. Ciò non cancellava il dolore delle ferite, ma le rendeva sopportabili.
Mentre camminavi per i corridoi del Palazzo, che era stato ripulito dai decenni di polvere e di sporcizia e stava acquisendo un nuovo, tetro splendore, incontrasti Astrid. Era di nuovo infilata nel vestito nero e indossava i pezzi della sua Surplice. La parure a orecchio di drago faceva bella mostra di sé al lato della testa. Anche lei era stata tirata a lucido. La stola delle Ninfe Stigie avvolta attorno al suo corpo come le ali delle armature egiziane dei libri di egittologia. Però sembrava turbata mentre guardava fuori della finestra. Come se stesse cercando di sforzarsi di non piangere.
Che cosa le era successo? La chiamasti e lei trasalì e si volse di colpo verso di te. Poi ti riconobbe e tirò un sospiro di sollievo. «Camus». Ti salutò e poi disse: «Hai tagliato i capelli».
Decidesti di assecondarla con qualche convenevole: «Sì, ne avevano bisogno». 
«Peccato, mi piacevano quelle punte azzurre». Commentò un po’dispiaciuta, poi tornò a darti il profilo e a guardare fuori dalla finestra bifora. «Tutto bene?» Le chiedesti.
«Non lo so».
«C’è qualche problema?» Le chiedesti ancora appoggiandoti a tua volta alla balaustra.
«Quello che è successo in quella stanza…» Cominciò, turbata. Si guardò le mani «Io… io non so cosa sia accaduto. Non so improvvisamente mi sono sentita sopraffatta da quella forza e, non era né buona né cattiva, era entrambe e nessuna delle due. Non è stato brutto, è stato… bellissimo. Mi sentivo benissimo, come se avessi già vissuto prima questa sensazione, come se fossi veramente me stessa. Ero Tutto, in tutti e in Tutto e… e…» Si arrese e cambiò discorso «Ma poi ho sentito anche il niente. Non provavo assolutamente niente, guardavo Partita e l’ho trovata una formichina insignificante che avrei potuto schiacciare. Non avevo mai provato prima qualcosa di così tanto intenso, non saprei neanche come descrivertelo, non ci sono parole per farlo. Non riuscirei a trovare dei termini coerenti tra loro e… Dèi, che cosa mi è successo?» Farfugliò anche qualcos’altro e a te fece una gran pena. Non ti piaceva proprio vederla soffrire. Le stringesti la spalla con una mano e lei si interruppe di colpo. «Non ti è successo niente di male». La rassicurasti con voce dolce. Poi abbozzasti un sorriso: «Adesso potresti vantarti di poter dire di avere tutto un universo dentro di te». Ti complimentasti ma Astrid aggrottò le sopracciglia. Poi ti guardò: «Scusa?»
Ne avevi sentito parlare una volta sola, dai filosofi dell’Oltretomba, durante la Guerra, poco prima dell’arrivo di Shaka. Non eri sicuro di averci capito molto, però sembrava una cosa carina da dire: «Sì, sai quella storia che ogni persona è un mondo a parte? Bè tu sei tutto l’Universo». Sentisti le guance scaldarsi nel dire queste parole e, improvvisamente, anche sostenere il suo sguardo incredulo ti fu estremamente difficile. “Ed è stato anche molto suggestivo”, pensasti sentendo il cuore battere più velocemente, ma lo tenesti per te. Non eri bravo a esprimerti. Eri più bravo a stendere piani. Sotto l’aspetto emotivo sentimentale eri totalmente mancante. Il termine corretto sarebbe stato sublime, perché sublime è laddove il bello e il terrificante si fondono insieme.  
Le sue labbra si curvarono in un dolce sorriso.
Ora che la guardavi bene ti accorgesti che non era mica brutta. Avevi sempre saputo che era bella, solo che te ne rendevi conto adesso. Ti venne voglia di spostarle una ciocca dietro l’orecchio e lo facesti. Stava molto meglio con i capelli lontani dal volto. «Uao, un poeta». Scherzò lei addolcendo lo sguardo mentre le sue guance si tingevano di rosso. Poi però si rabbuiò e tornò a guardare dritto di fronte a sé. Lasciasti andare le sua spalla. « Però… sono stanca di questa storia. Magari all’inizio poteva anche farmi piacere, ma ora mi sto stancando. Questa storia ha un che di morboso e non mi piace. Cioè non gira tutto attorno a me, non sono nessuno degno di nota, io sono un fallimento, non ho neanche preso la laurea, io…»
«Tu sei Astrid e basta». La interrompesti continuando a sorridere dolcemente. Anche se ti sentivi un ebete non importava. E risentisti le sensazioni di quella notte che l’avevi strappata da Myu. Tra cui anche i sensi di colpa per questa tua uscita.
Lei ti guardò come se tu le avessi fatto una rivelazione di chissà quale portata. Fece per replicare ma una Velata l’anticipò: «Lady Astrid, Lady Pandora vuole vederla». Astrid si girò a guardarla: «Sì, arrivo, continuiamo dopo, Camus, ok?» Ti domandò guardandoti negli occhi. Il suo sguardo era così speranzoso che non te la sentisti proprio di dire di no.  
«Ok». L’accompagnasti con lo sguardo; con l’inspiegabile sensazione di aver perso un’occasione che si espandeva dentro di te.
La seguisti tenendoti più indietro. Raggiungeste Lady Pandora sul terrazzo interno al cortile della Giudecca. Tu fino a questo momento neanche sapevi che la Giudecca ne avesse uno. Ma la sorpresa più grande, per voi, fu vedere alcuni dei tuoi compagni, Shun e Milo.  Quest’ultimi stavano discutendo con Pandora, la quale piegava la testa in atteggiamento deferente davanti a Shun che aveva… i capelli neri e gli occhi verdi? Aspetta, ma perché era vestito di nero così? E quel Cosmo, che fosse Hades? Era tornato? Non l’avevi mai visto in faccia prima, ma neanche ti aspettavi che avesse la faccia di Shun, l’ex Bronze Saint di Andromeda.
Poi i tre si accorsero del tuo arrivo e si volsero verso di te.
«Camus!» Ti sorrise il cicladico dai lunghi, mossi capelli biondi e violetti, ma non ti venne incontro per stringerti la mano come avrebbe fatto prima della Guerra Sacra e del tuo “tradimento”. Quella volta lui preferì sostenere Saga e volgerti completamente le spalle, anche se non sapevi perché. Non sapevi neanche chi ti avesse sostenuto, durante gli ultimi gradini. Ma eri sicuro che non fosse Milo. Ti ferì leggermente questo sorriso che, pur essendo amichevole era duro e non contagiava gli occhi. Come molti altri da quando eri tornato alla vita quattro anni prima.
La sua felicità era contenuta, molto piccola rispetto a come sarebbe potuta essere in passato. 
E poi si accorse di Astrid, che si era tenuta indietro, insieme alla guardia infera e agli Specter, che aveva già reso omaggio al loro Signore. Il volto del tuo vecchio amico si illuminò in un modo che ti fece male. «Astrid!» Esclamò, si scusò con il Dio dell’Oltretomba e la sua Sacerdotessa e colmò la distanza tra loro in poche falcate, passandoti accanto. Non riuscisti a non impedirti di seguirlo con lo sguardo e a guardarlo da sopra una spalla. Non era mai stato così sollevato e felice di vedere qualcuno. Neanche te. Ti desti dell’imbecille per l’ennesima volta. Avevi ignorato così tante volte la sua amicizia da darla per scontata. L’unico punto di contatto che avevate era Hyoga e basta. Solo che tu non avevi mai voluto veramente separarti da lui. Non sapevi neanche tu perché, abitudine, probabilmente. 
Sperasti che Astrid non facesse lo stesso errore. Poi tornasti a guardare dritto davanti a te e andasti a rendere omaggio al Signore degli Inferi, che attendeva: «I miei rispetti, Lord Hades, a nome mio e del mio compagno Shaka della Vergine, guardiano della Sesta Prigione».
«Lui è Camus di Aquarius, il Guardiano del Cocito». Ti presentò Pandora indicandoti con un cenno della mano. Il Sotterraneo Oscuro ti ordinò di raddrizzarti: «Meritate un encomio per i servigi resimi: ben fatto, Aquarius e anche Virgo, senza di lui non avremmo mai avuto il supporto delle bestie della Notte. Mi domando perché non sia qui, il mio ospite desiderava rivederlo».Commentò poi cercandolo con lo sguardo. Aveva una voce fredda e un timbro totalmente diverso. Se avesse avuto la pelle più gelida della tua non ti saresti sorpreso, ma non ci tenevi a sfiorarlo neppure per sbaglio. Bastava già la forza del suo Cosmo a rizzarti i peli sulla nuca. E quest’elogio sembrò un modo per ricordarti che non eri più solo un alleato, ma una pedina invischiata nelle sue trame. Come decadi fa. 
Ti scusasti con lui spiegandogli dell’increscioso incidente che l’aveva portato ad allontanarsi. 
La zia di Astrid prese in mano la situazione e domandò: «Vogliamo cominciare, fratello mio?» Chiese, ossequiosa. Ma a te dette solo l’impressione di essere viscida. Il volto di ShunHades restò impassibile, però assentì con un cenno del capo.
Così Pandora attirò l’attenzione di tutti: «Si comincia, date i segnali ai servi». Le Velate presenti scivolarono silenziose fuori della porta e dei musici suonarono delle trombe e dei corni. Prima che la donna potesse dire qualcosa, suo fratello divino gli disse che la cerimonia era per lei. Che se la meritava. Lei lo guardò sbalordita, poi annuì: «Grazie, sono onorata».
«Non devi, hai combattuto bene, questa festa è anche e soprattutto la tua». Lei sembrò commuoversi, poi si ricompose rapidamente e si rivolse a tutti voi Gold presenti sul terrazzo: «Spero che voi Gold Saint possiate accettare di unirvi a noi nei festeggiamenti di questa sera, come pegno per il prezioso contributo che ci avete dato. Il nostro Signore è tanto generoso da aver concesso un dono a ognuno di voi, nobili Saint che avete combattuto al nostro fianco perorando la nostra causa».
Guardasti il nemico di Atena sbalordito. Ma lui si era già tirato indietro. D’altronde era la festa della sorella, era libera di fare come desiderava.
Un dono da parte della Sacerdotessa di Hades? Questa non ve l’aspettaste proprio. Vi guardò tutti, scrutandovi con i suoi occhi violetti. Poi andò ad inchinarsi di fronte a Shun. «Mio Signore, quale onore è per me rivedervi».
 «Vieni fratello mio, sarai affamato, stavamo per metterci a mangiare». Lo invitò la Sacerdotessa indicando la Sala dei Banchetti con un ampio gesto del braccio.
Sotto di voi erano radunati tutti gli Specter nelle loro Surplici nere. Gli Skeleton e gli altri Spiriti stavano più indietro, ma sapevi che presto si sarebbero mescolati tra loro.  La statua dell’angelo sopra la Giudecca, la falsa misericordia, era stata girata verso l’interno per l’occasione. Sul terrazzo c’erano Lady Niniane, Fianna, Lady Anfitrite, Lady Pandora, i vari ambasciatori e le loro guardie, più i tre Giudici Infernali e Astrid.
Gli ambasciatori degli Dèi della Notte ti vennero subito incontro chiedendo notizie di Shaka e tu dovesti raccontare la verità, con tutta la cautela di cui eri capace. «Ci dispiace sapere questo, alla Nostra Signora non farà affatto piacere». Commentò sdegnato uno dei due. «Rincresce anche a me, ma la donna con cui il mio collega è fuggito è un’Azona».
Il solo pronunciare questa parola bastò per far sgranare gli occhi e impallidire i due: «Un’Azona? Ne siete certo?» Che reazione era mai questa? «Sì, lei stessa ha dimostrato di possedere tecniche e Cosmo legati al Tempo. Sono sicuro che fosse una Dea». Rispondesti tenendo la tua confusione solo per te. I due si scambiarono un’occhiata sconvolta prima di tornare a guardare te. «Questo è impossibile».
«Perché gli Azoni sono morti da secoli. L’ultima traccia risale all’anno Mille; già ai tempi si diceva che ci fosse stata un Apocalisse e loro si sacrificarono per permettere di vivere a tutti noi». Ti spiegò il secondo, intimorito.
«Ma se invece non fossero morti per davvero?» Ipotizzasti vagamente intimorito da questi discorsi. Perché ora che ci pensavi, anche tu avevi conosciuto un Azone, quello delle truppe di Hades. A proposito, perché non era qui? Se avevi capito bene, gli Azoni erano sempre un passo dietro di voi per riportare gli avvenimenti. Questo doveva essere un avvenimento degno di nota, no? Allora perché l’Azone di Hades non era qui? Non percepivi neanche il suo Cosmo. Non potevi esserti sbagliato: la forza e il carisma che emanava era la stessa di quella di Lady Asia. Impossibile sbagliarsi tanto. 
Non aveste tempo di discutere oltre che la cerimonia iniziò e foste costretti a prendere posto.    
Lady Pandora fece un commovente discorso in cui proclamò che questo era un giorno di festa. Che erano finalmente liberi. Temesti per lei, perché il suo discorso era un’arma a doppio taglio per come era presentato. Ma evidentemente se l’era preparato bene, perché non scadde affatto nel ridicolo o nell’offesa.
Ringraziò tutti voi per l’aiuto prezioso che le avevate dato. Si scusò anche perché sapeva quanto era doloroso per voi spiriti aver contribuito alla salvezza degli Inferi. Che gli Inferi erano crudeli e non avevano pietà per nessuno. Che avrebbero continuato a soffrire. Ma era anche vero che grazie alla vostra lotta tutti quanti sarebbero stati salvi. Volle ringraziare in particolare sua nipote Astrid, presentandola ufficialmente e la invitò a raggiungerla accanto a sé.
Applaudiste per incoraggiare la giovane, imbarazzata. Anche  la zia si girò verso la nipote, sorridendole. La bionda la raggiunse. Pandora la guardò a lungo, con orgoglio e felicità. Poi le sorrise e le porse l’asta della bandiera. «Vuoi sistemarla insieme a me?»
«Sì». Ricambiò la giovane e insieme rimisero l’asta nelle mani della statua. La bandiera di Hades prese a sventolare nella brezza infera del Cocito mentre sotto di voi gli Specter e i vostri alleati urlavano festanti lanciando coriandoli e altri materiali che non sapevi dove si fossero procurati. Intanto che le due donne, dopo essersi sorrise vicendevolmente, alzarono le loro mani intrecciate, cavalcando quest’ondata di giubilo e potere.
E anche voi non poteste fare a meno di sorridere e applaudire.

La musica suonata dai musicisti inferi non era male, per niente. Era delicata, scivolava tra di voi senza infastidire nessuno. Non pensavi che lo Specter della Sfinge avesse lo stesso talento musicale di Orpheo della Lyra. Lo guardasti un momento e tornasti a concentrarti sul cibo. Bè, sicuramente non aveva lo stesso viso. Lo Specter non si era ancora ripreso dal pungo rinforzato di Astrid. Aveva ancora il naso tutto storto. 
Se fosse stata una tavolata normale probabilmente l’atmosfera sarebbe stata più festosa di così. Invece gli unici che si sentivano a proprio agio erano Astrid e gli Specter a cui era più legata. In questo caso, Valentine, che non si faceva troppi problemi a chiacchierare con lei come se niente fosse e, Aiacos. Il quale ascoltava annuendo tutto ciò che la sua Seconda Ala diceva.
A volte anche Milo interveniva nel discorso, ponendo domande all’amica. Non ci credeva ancora che lei fosse riuscita a sopravvivere negli Inferi quasi tutto da sola. E a costruirsi anche una Surplice.  «Normalmente ti direi che schifo, ma  capisco perché tu l’abbia fatto». Commentò quando lei disse dove si era procurata i pezzi.
Trovasti molto carino da parte di Astrid però che cercasse di condividere con te i suoi meriti. «Non ti schernire, Camus, dopotutto c’eri anche tu con me quella volta». Ti rimproverò scherzosamente, prima di bere un sorso di vino dalla sua coppa. Stiracchiasti la bocca in un sorriso. Fece uno strano effetto cenare alla stessa tavola del Signore degli Inferi. Sapevi che Shun e Astrid erano conoscenti, ma non immaginavi che avrebbe finito per destare la curiosità del Signore dell’Oltretomba. Avevi sentito dire, ora che ci pensavi, che Shun si fosse offerto per farle da fisioterapista. Adesso avevi una vaga idea del perché. Aiolia non pensava neanche questo. Non pensavo certo che fosse l’attuale incarnazione del Signore dell’Oltretomba. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, preda com’ero dello stupore e della confusione. 
«Qualcosa non va?» Le domandò lui, perfettamente tranquillo, guardandola di rimando.
«No, la cena è ottima. È solo che adesso capisco come mai Shun mi faceva quello strano effetto».
«Strano effetto?»
«A volte mi accorgevo della Vostra presenza, quando credevate che io non vi stessi guardando». Inventò. Ormai eri diventato abbastanza bravo da capire quando mentiva o no.
Il volto di Hades mostrò un po’di curiosità, anche se manteneva la stessa espressione di chi si era appena alzato dal letto e non è ancora del tutto sveglio. «Dunque ti eri accorta di me?» Domandò con voce seria.
Confermai: «Anche se pensavo di avere le allucinazioni». Ma non avevo paura di lui. Non più di tanto in realtà. «Dunque, è a voi che devo la vita?» Chiese poi dopo un respiro, smuovendo il cibo nel suo piatto con la forchetta. Non era cibo Infero, proveniva dalla Terra, ce lo avevano assicurato Pandora e Camus in persona. E, ve l’aveva anche provato, mangiandolo. Persino Hades aveva assicurato che era la verità. “Altrimenti questo corpo non potrebbe più tornare in superficie, sarebbe costretto a restare imprigionato negli Inferi”. Aveva detto e, non sembrava che l’idea lo stuzzicasse. Anche se non aveva ancora compreso come potesse essere viva negli Inferi. Era la stessa domanda che vi ponevate tutti  dal momento che Camus le aveva spiegato tutto sull’Ottavo Senso ed era lampante che lo avevo già risvegliato. Oppure avere un oggetto che agevolasse il passaggio da un mondo all’altro, come la vecchia collana della zia o di Raki. «Dovresti aver compreso da tempo, oramai che non fossero allucinazioni, umana». Mi apostrofò il Dio in tono secco. Non replicai, mi rimisi soltanto a mangiare. Poi inghiottì e disse: «Già, dovevo comprenderlo».
«Le vostre insicurezze mi fanno tenerezza». Commentò il Dio dell’Oltretomba, con un sorriso sprezzante.  Un sorriso ironico curvò la bocca di Astrid. Potevi solo immaginare quante frecciate gli stesse tirando in quel momento.    
Pandora si alzò in piedi e attirò l’attenzione su di sé. «E ora come promesso ecco a voi il dono».
Batté le mani e, il portone si spalancò, lasciando passare uno spirito femminile che si fermò davanti alla tavolata. «Helena». Mormorò Death Mask sbalordito nel riconoscerla. La giovane dai capelli castani legati in una coda bassa, che lo riconobbe e gli sorrise.
Ma anche tu eri sorpreso perché poco dietro di lei c’era Surt. E per Izo e DeathToll c’erano gli altri loro compagni, che avevano sorretto gli Inferi tutto il tempo. Anche Milo restò abbastanza sbalordito nel vedere Écarlate di Scorpio. Ma per lui era già una ricompensa sufficiente l’aver ritrovato Astrid, che ora era seduta accanto a lui. Ovviamente anche la parentela di Astrid con la sorella terrena del Dio dell’Oltretomba era saltata fuori, ma questo non aveva sconvolto più di tanto i tuoi compagni d’arme.
Death Mask aveva reagito come se gli avessero raccontato la barzelletta del secolo, Milo aveva semplicemente sgranato gli occhi per lo stupore e aveva chiesto se fosse vero. Però lei aveva un modo di fare talmente coinvolgente che sembrò esserselo scordato.
«Abbiamo pensato che vi avrebbe fatto piacere rivedere una vecchia conoscenza». Spiegò la zia con un sorriso. Si capiva che era il dono di benvenuto per gli ospiti.
«Ma come è possibile? Lei non dovrebbe essere nel Valhalla?» Chiosò Death Mask indicandola, con il timore che fosse solo un brutto scherzo. Ma la zia non si scompose e replicò, in tono tranquillo: «Giovane Cavaliere, non lo sapevate? Helena credeva nella Dea Atena». 
A questa rivelazione il mio conoscente tornò a guardare lo spirito della donna che amava? Ah, avevo dimenticato che si era innamorato anche lui, a ventitré anni ma si era innamorato. Chi l’avrebbe mai detto? Pensavo che quelli come lui neanche conoscessero il significato di quella parola.
«Immagino abbiate molte cose di cui parlare».
«Sì». Mormorò lui incredulo, senza staccarle le iridi lucide di lacrime di dosso. Lucide? Ti venne da inarcare le sopracciglia per la sorpresa. Ma quello era veramente Death Mask? L’uomo che conoscevi tu aveva solo il furore e la follia negli occhi.
E, quella sera vedeste tutti quanti Death Mask parlare a raffica con quella donna ordinaria. Non pensavi che un tipo grossolano come lui si innamorasse di una bellezza dimessa come quella. Non che fosse brutta, ma tu la trovasti anonima. Non aveva neanche un minuscolo difetto cui aggrapparsi per dire che te la saresti potuta ricordare.
Però in un certo senso avesti paura per lei e compassione per lui. Non avresti mai detto che un tipo pericoloso come lui potesse amare qualcuno. Anche tu avresti parlato volentieri con il tuo predecessore del Millesettecento, però non lo facesti. Non t’interessava e, neanche Mistoria sembrava interessato a dirti qualcosa.
Il pensiero ti correva più frequentemente al fatto che Death Mask si fosse innamorato e che, nonostante tutto non l’avesse ancora dimenticata. Quanti anni erano passati da allora? Trentasei? Eppure il cuore del siciliano palpitava solo per lei. E a te il cuore non palpitava per nessuno?
Al di là dell’amore paterno che provavi per Isaac e Hyoga e di ciò che provavi per la piccola Natassia, non c’era davvero nessuno che ti interessasse? Dopotutto il tuo unico giuramento era falso. “Bè, sì” mi rispondesti “qualcuno in realtà c’è”. E gli occhi ti sfuggirono su Astrid che rideva e scherzava con sua zia.
Non avevi più visto altri Guardiani delle Case degli Astri dopo il Guardiano della Casa di Plutone, di Mercurio e di Urano.
Eppure non avresti mai dimenticato Eragon. Ci restasti così quando lo vedesti unirsi alla tavolata. Il Dio degli Inferi lo salutò come suo gradito ospite e lo invitò ad accomodarsi insieme a tutti loro. La Sala era ammutolita. Ma al cenno del Dio (che era rimasto impassibile) si rianimò, anche se nell’aria continuò ad aleggiare uno stato di tensione. Il Guardiano cercò di scusarsi dicendo che non si sarebbe trattenuto a lungo, presto sarebbe dovuto ripartire e, che era giunto solo per un rapido saluto. Il che era quasi interpretabile come una minaccia a giudicare dal suo Cosmo.
«Tu non sei uno dei giovani che era insieme a mia figlia?» Chiese quest’ultimo quando ti ebbe davanti. Le sopracciglia aggrottate.
Annuisti.
«Come mai non sei con lei?» Indagò scrutandoti. Le pupille verticali si assottigliarono.  
«Abbiamo ritenuto opportuno separarci, il mio collega è rimasto con lei». Spiegasti senza scendere nei particolari. Era palese che stessi mentendo e forse lui stesso se ne accorse. Dilatò le narici come se annusasse e tu lo fissasti senza capire. Ma dove non arrivasti con la ragione arrivasti con l’istinto e ti si rizzarono i peli sulle braccia.
Perché ti stava annusando?
«Non stai mentendo», decretò alla fine. Lo guardasti sconcertato da queste parole: che cosa intendeva dire? Ma prima che tu potessi porti ulteriori quesiti che lui continuò: «Cosa le è successo?»
Proprio allora sentisti una voce chiamarti e dei passi di corsa raggiungerti: «Camus!» Ti girasti e vedesti Astrid correre verso di te: “Astrid!” Pensasti. «Eccoti, finalmente ti ho cercato dappertutto». Fece la bionda in nero, rallentando fino a fermarsi davanti a voi. La voce che andò spegnendosi sul finale quando si accorse della presenza del Guardiano. Sembrava che non credesse ai propri occhi e che ne fosse intimorita. L’uomo, o meglio l’essere, ricambiò squadrandola da capo ai piedi.
A togliersi di torno l’imbarazzo però ci pensò la stessa Astrid con una riverenza e un: «Buonasera, signore, o buongiorno. Mi scusi, ma non ho idea di che ore siano».
«Sono le dieci e mezzo di sera». Rispose quest’ultimo.
«Allora buonasera».
«Buonasera. Questa giovane non è vostra figlia, oppure mi sbaglio?» Chiese il Guardiano tornando a guardarti.
«No, non lo è».
L’essere annuì. Poi guardò Astrid e disse: «Volevo ben dire, ha un odore completamente diverso dal tuo. Tu devi essere la Luce Ombrosa, non è così?»
Astrid batté le palpebre sbalordita e le uscì un: «Sì, ma lei come fa a…»
Il Drago Rosso la interruppe: «Non sento il tuo Cosmo e ho i miei dubbi che tu lo stia trattenendo». Ribatté laconico facendole richiudere immediatamente la bocca. Poi la guardò dritta negli occhi e si complimentò: «Hai dei begli occhi».
Astrid s’impappinò: «Grazie, signore». Il Guerriero decise di ignorare il suo incartarsi. Assottigliò gli occhi. «Sei una Specter? Non riesco a capire che cosa dovrebbe rappresentare la tua Surplice.» spiegò poi, riferendosi alla sua armatura.
«No, signore, non sono una Specter, me la sono fatta da me».
«Oh, sei un fabbro?»
«No».
«Oh, peccato. Comunque ammirevole da parte tua».
«Grazie».
Astrid si sedette accanto a te. Sembrava turbata. Anche se avevi sentito tutta la conversazione, ti preoccupasti lo stesso. Quel Guardiano non emanava un’aura di positività.  
«Che succede?» Le chiedesti sporgendoti leggermente verso di lei.
La giovane smise di guardarlo e rabbrividì di terrore. «Non lo so, mi ha messo in soggezione. Era come essere guardati da un serpente». La stessa sensazione che avevi provato anche tu.  
«In senso positivo o negativo?» Chiedesti, visto che lei aveva una particolare affinità con i serpenti.
«Negativo. Ma chi era quello?» Chiese poi dopo essersi gettata un’occhiata alle spalle.
«Quello è il Guardiano della Casa di Marte. L’ho incontrato altre volte». Dicesti poi a mo’ di spiegazione.
«Della Casa di Marte? Che cosa significa? Che cos’è?»
«Non so neanch’io di preciso, fino a pochi mesi fa non ne avevo neanche sentito parlare». Spiegasti colpevole. Era colpa tua questa mancanza, visto che ti eri istruito da solo. Poi ti sporgesti verso di lei e le sussurrasti all’orecchio: «Odysseus ti ha mai parlato di loro?» Astrid non aveva detto a nessuno di essere l’allieva di Ophiuchus e non avresti tradito tu il suo segreto.
Lei ci pensò un po’su prima di scuotere il capo e chiedere: «Loro? Aspetta, vuoi dire che ce ne sono altri?»
«Se ho ben capito sì».
«Che cosa voleva da te?»
«Voleva chiedermi di sua figlia». Rispondesti incerto se parlarne o meno.
Astrid sgranò gli occhi: «Sua figlia? Perché, la conosci?» Gli faceva impressione che uno così avesse una figlia. Potevi solo provare a indovinare che cosa pensasse. Ma non assecondasti eventuali domande. Non ti piaceva parlare di lei, non ti fidavi, anzi, avresti preferito dimenticarla, visto quanto accaduto a Černobyl’; «Sì, ci ho viaggiato insieme per un po’». E ora che ci pensavi, era una buffa coincidenza il fatto che sia Astrid che l’Azona avessero in comune tre lettere del nome. Nah… era solo una coincidenza.  
«Ma se lui è così allora lei…» Cominciò la bionda, intimorita.
«No, no, lei non ha attributi dragoneschi, in realtà non gli somiglia per niente, ma li abbiamo affrontati e posso garantirti che sono potentissimi». La ragazza ti parve impallidire. Le battesti la mano sulla spalla e le dicesti di stare tranquilla e di non pensarci. La ragazza annuì. Bevesti un calice di vino per darti il coraggio di affrontare Surt, che si era accomodato accanto a te. Sembrava teso quasi quanto te. 
Avevi aspettato di aver raccolto sufficiente coraggio prima di chiedere a Surt di parlare. Il guerriero ti seguì e insieme passeggiaste fuori dalla sala dei banchetti. La musica e l’eco della festa sempre più lontani mentre un’altra, più selvaggia e rumorosa impazzava fuori delle mura della Giudecca.
Andasti dritto al punto: «Volevo chiederti scusa».
«Ti riferisci a quello che è successo ad Asgard? Non ci pensare, è tutto risolto». Ti sorrise, ma era un sorriso forzato, era come se si stesse trattenendo. Sapevi riconoscere una persona controllata come te quando la vedevi. Non era il caso di Surt, non proprio, era più un tenere la fiamma sotto controllo, come se avesse potuto imprigionarla sotto uno strato di ghiaccio. Ma tu sapevi che quella era lì e che ti avrebbe bruciato. Tanto valeva prendere il toro per le corna.
«No, non solo, anche prima, quando mi ospitasti per il mio addestramento». Era quello che più ti premeva. Il guerriero di Odino si rabbuiò e guardò davanti a sé. «Non ho mai davvero avuto occasione…» Cominciasti, ma lui ti fermò con un cenno della mano, poi ti mollò un pugno dritto in faccia.
Lo guardasti sbalordito con la faccia dolorante. Surt ti diede altri colpi accompagnandoli a un motivo: «Questo è per mia sorella, questo è per tutti gli anni di felicità che mi hai tolto, questo è perché mi hai ammazzato, questo è perché ti sei ribellato a me e, questo…» Ti afferrò per il collo e ti tirò su: «Questo è perché sei un vero scassapalle.» poi ti fece un occhio nero e ti lasciò cadere bocconi in ginocchio, dove ti colpì allo stomaco con un calcio. Per miracolo non vomitasti: «Mia sorella Simmone è morta per causa tua, ci sono state molte volte durante la Guerra Sacra in cui avrei voluto ammazzarti, ma non l’ho fatto allora né lo farò adesso. Io seguo ancora l’ardente giustizia e la giustizia vorrebbe che tu seguissi un equo processo e scontassi i tuoi anni con la giusta pena. Attenderò con ansia il giorno in cui verrai processato, probabilmente nella prossima vita. Fino ad allora mi accontenterò delle botte che ti ho lasciato. Adesso siamo pari, amico mio». Ciò detto ti lasciò lì, dolorante e ferito e se ne andò.
Malgrado tutto, riuscisti a trovare la forza di fare un piccolissimo sorriso. Prima che il dolore prendesse il sopravvento e ti facesse gemere.
Dovevi andare a medicarti altroché. Con il tuo Cosmo non era che potessi fare molto. Infatti facesti un salto alle cucine dove medicasti l’occhio nero e per il resto ci avresti pensato dopo.     
Anche se Astrid era voluta rimanere alla Giudecca con la sua parente, tu avevi preferito tornare all’accampamento. Sarà la forza dell’abitudine, però ti sentivi più a tuo agio in mezzo alle tende e ai Celti e gli altri alleati festanti che a Palazzo.  «Ehi, Camus, ti unisci a noi?» Ti chiamò Death Mask e così ti riunisti a lui e Milo che erano seduti davanti a un falò tra le rocce. Un boccale di birra per uno. Milo ti tese un altro boccale, che sicuramente si era preso per sé. Non ti dispiacque per niente questo gesto e lo ringraziasti con un cenno del capo, facendo attenzione ai rotoli di carta igienica dentro alle narici.
«Raccontaci la situazione». Fece Death Mask dopo aver bevuto un sorso di birra che gli lasciò un bel paio di baffi di schiuma biancastra. Vi sforzaste di non ridere, non si poteva mai sapere con quel permaloso.
«É semplice, in realtà, sta succedendo qualcosa, non ho idea di cosa, ma ha tutto a che fare con gli Azoni».
«Azoni? Che cosa sono?» Chiesero i due. Il siciliano si accorse dei baffi di schiuma e se li pulì.
«Hai presente Lady Asia?» Chiedesti a quest’ultimo e lui annuì, mentre Milo aggrottò ancor più le sopracciglia. «Lei è un’Azona». Confessasti e il vostro collega della Quarta strabuzzò gli occhi: Death Mask strabuzzò gli occhi. «Cosa? Mi stai a prendere per il culo? Quella mocciosa scribacchina è un’Azona?»
«Sì, e non è neanche l’unica».
«Ho sentito quello che dicevi durante il banchetto, è anche più potente di me?» Chiese il siciliano distraendosi un attimo da Helena. Voleva veramente giocare a chi ce l’ha più lungo con quello? Ma che problemi aveva quell’uomo? «È possibile». Ipotizzasti. Se tu avevi fatto una gran fatica per affrontarne uno, non osavi immaginare quanto dovessero essere potenti tutti insieme. Ti venne pure da chiederti se altri Azoni fossero figli di Guardiani, come Lady Asia e Lord Island. Se mai fosse dovuto scoppiare un conflitto tra voi e loro, non osavi immaginare la portata della strage. Sicuramente avrebbe superato di gran lunga ogni ecatombe delle Guerre Sacre finora combattute.
Persino Astrid sarebbe risultata inutile in quel frangente. Probabilmente l’avrebbero sopraffatta senza problemi. E in lei scorreva il sangue d’oro degli Dèi.
«Scusate se vi interrompo, ragazzi, ma qui c’è gente che non ne sa niente, potreste essere così cortesi da aggiornare anche me? Grazie». Fece Milo inarcando il sopracciglio e sporgendosi verso di voi e tu ti scusasti.
Insieme tu e Death Mask lo metteste al corrente di tutto. Tra grugniti, imprecazioni e spiegazioni alla fine Milo incrociò le braccia e rifletté: «Voi credete che qualcuno al Santuario conosca questa storia?» Vi chiese scrutandovi entrambi.
«No, ma qualunque cosa sia è logico che l’unica che possa saperne qualcosa possa essere solo la Dea. Ma siete sicuri che siano degli Dèi?» Indagò il siciliano.
«Sì, ho visto Lady Asia all’opera e posso garantirti che lo sono davvero, anche se non ha mai avuto bisogno di espandere il suo Cosmo». Confermasti.
«E se la figlia è così forte non oso immaginare il genitore». Commentò poi Milo, preoccupato.
«Che cosa sta succedendo?»
«Non lo so, so solo che questa storia è più fitta, intricata e oscura di quanto credessimo. Ma a voi da fastidio il fatto che Astrid…» Domandasti poi, per cambiare discorso, anche se il resto della domanda ti morì in gola.
«Un po’, se devo essere sincero». Fece Death Mask sfregandosi la nuca. «Però non più di sapere che lei è l’apprendista del Gold Saint di Ophiuchus; per la miseria! Non pensavo che quella ragazza celasse tanti segreti!» Sbottò e poi scosse il capo.
«Anche tu però non scherzi, non ci avevi detto di Helena». Lo punzecchiò Milo, cercando di dirottare la conversazione su un piano più piacevole per non rovinare l’atmosfera. Ma si capiva che era spaventato anche lui.  
«Perché, avrei dovuto?» Ribatté l’altro in tono scazzato fulminandolo con lo sguardo. Il cicladico sorrise e alzò le braccia in segno di resa. «No, era per parlare di altro se ti da fastidio».
«Non è che mi dà fastidio il fatto che la mia protetta sia la nipote di Pandora e che fosse anche l’apprendista di Odysseus; è solo che finalmente molte cose hanno senso». E ve le raccontò sulla base di ciò che raccontasti tu a proposito della tua amica. Normalmente tendevi a non condividere le informazioni con nessuno, tuttavia questa pensasti che fosse giusto lo sapessero.
«Per me non cambia niente». Decretò alla fine Milo. «Non sono le sue origini a essere importanti, è quello che è e che fa che lo è e lei è sempre Astrid. Sono contento di sapere che non soffre più di tanti attacchi di ansia come prima e che sta combattendo anche contro la tristezza».         
«Quello che mi preoccupa sono gli altri, mi avevi detto che non la vedono molto di buon occhio, giusto?» Facesti a Milo.
«No, non tutti, è riuscita a farsi molti nemici. Anche qui, se non sbaglio».
«Sì, ma se l’è cavata bene; non ha neanche avuto bisogno del mio aiuto per guadagnarsi il loro rispetto».
«Cosa ha fatto di preciso?» Domandò Death Mask. E, anche qui, tu gli raccontasti tutto ciò di cui eri stato testimone. Alla fine Death Mask e Milo ti osservavano sconcertati. Poi Milo si chiuse in sé stesso per riflettere, come durante la Guerra Sacra contro Eris, che, avevi sentito, aveva guidato lui le truppe insieme alla Divina e alle Saintia. Death Mask, invece, sembrava elucubrare qualcosa. Anche lì avesti un flashback della sua versione sedicenne nella Sala della Meridiana dello Zodiaco. 
Credevi che fosse finita qui con i doni, invece ne ricevesti un altro e assai meno terribile. Hades ti mandò a chiamare il giorno seguente, proprio mentre ti eri quasi addormentato. A causa del dolore delle nuove ferite avevi passato una notte insonne.  
Ti sistemasti alla bell’e meglio, mangiasti qualcosa e raggiungesti il Sovrano Infero e la sua Luogotenente.
Non eri mai entrato prima nella sala del Trono. Bè, in realtà sì, però non avevi fatto troppo caso ai dettagli come adesso. Né avevi mai conversato con il Dio dei Morti. Il quale adesso aveva ripreso il suo posto nell’Oltretomba con il proprio corpo mitologico. Ti chiedesti come avesse fatto, ma, soprattutto, ti sorprese vederlo inarcare il sopracciglio alla tua vista. Anche Pandora ti scrutò confusa: «Cosa vi è successo, Cavaliere?» Ti chiese Pandora sgomenta.
«Ah, niente di che, sono inciampato nelle scale ieri sera, troppo vino». Ti scusasti, ma era palese che fosse una balla. Certi vizi non li avevi ancora persi e Pandora ti scoccò un’occhiataccia. «Però stavolta hanno fatto bene, me le sono davvero meritate». Aggiungesti, per metterci una pezza. La donna si fece da parte dopo aver asserito che avrebbe mandato i suoi medici a darti un’occhiata e tu potesti inchinarti.
Faceva una strana impressione trovarsi davanti a questo giovane moro dai capelli lunghissimi che non avrà avuto più di una trentina d’anni. Anche se non eri sicuro dal momento che un leggero velo semitrasparente offuscava leggermente la sua figura già in penombra. Al suo fianco riconoscesti la sagoma di Pandora e dell’Azone che ti aveva aiutato.  
T’inchinasti al suo cospetto, rendendogli il rispetto che meritava. «Gold Saint di Aquarius». Ti salutò con una voce profonda, stavolta con un tono sorprendentemente piacevole. Non pensavi che fosse capace di dare un colore alla propria voce. «Signore».
«Mi è giunta voce dei servigi che avete reso agli Inferi e meritate un premio. Esaudirò un vostro desiderio». Fece, ignorando volutamente la tua faccia.  
Qualcosa ti diceva che questo favore ti fosse stato fatto dai due sottoposti di Hades. Chissà quanto avevano faticato per convincerlo.
Avresti potuto chiedere di tornare nel tuo corpo fisico per non sentirti in colpa nei confronti di Astrid. Il desiderio di starle accanto cresceva in te ogni giorno di più. Il fatto che tu fossi morto e lei viva era un gran peso per te. Però per quanto smaniassi, non potevi mettere a repentaglio il trattato di pace. Tu dovevi restare negli Inferi, nel Cocito. La pace sulla Terra e la sicurezza di Atena erano più importanti dei tuoi sentimenti.
Tuttavia c’era qualcun altro che potevi aiutare. Perciò sollevasti la testa e guardasti il Sovrano dell’Oltretomba: «In effetti ci sarebbe una cosa che desidero davvero».
«Ti ascolto».  
      
«Alla fine ci sei riuscito». Commentò Valentine osservando i Celti che facevano armi e bagagli.
«Sei riuscito a ridare loro la libertà».
«Sì». Non avresti mai creduto di riuscire a farcela davvero. E l’avevi ottenuta a una condizione, che Viviana restasse imprigionata finché non avesse rinunciato alle sue idee. Sapevi che quella donna non avrebbe mai rinunciato tanto era forte la sua convinzione. Non si sarebbe mai neanche abbassata a mentire. Era troppo orgogliosa anche solo per pensarci.
Ma adesso Fianna era libera.
I Celti si radunarono in mucchio. Fu come assistere a un secondo Esodo. Che tu eri comunque riuscito a vedere una copia piratata de I dieci Comandamenti. Dove molti avevano dormito, tu eri sopravvissuto. Non fu molto diverso anche adesso. La differenza era che gli Specter si erano assunti il compito di scortarli fino all’Ingresso dell’Ade.
Molti ti salutarono e ti ringraziarono. Altri ti salutarono come un fratello e pregarono di rivederti. Molti del clero erano rammaricati perché non ti eri voluto unire a loro. Anche se comprendevano perfettamente cosa ti legasse a questi luoghi.
I bambini furono quelli che ti commossero di più. Che per ringraziarti avevano intrecciato per te dei gioielli incantati fatti dei fiori che avevi avvolto nella brina perenne. Lady Niniane ti ringraziò benedicendoti per tutte le cose che avevi fatto per loro. Poi si riunì al suo seguito.
Poi i dux bellorum, che erano al comando suonarono il corno e gli spiriti partirono. Pensavi che se ne fossero andati tutti e invece no. Fianna era ancora lì. «Fianna!» Esclamasti stupito. Valentine, che era rimasto accanto a te finora e stava andandosene, si bloccò e si girò lentamente verso di voi. «Sei ancora qui? Perché?»
Non capisti. Quella era la sua gente, non aveva il minimo di senso che lei non andasse con loro. Aveva combattuto per loro tutto il tempo. Aveva cercato di aiutarti e proteggerti. Aveva fatto tutto questo per la sua famiglia. «Ma come, credevo che tu saresti voluta andare via, adesso sei libera, puoi andare con la tua famiglia». Ma lei ti guardava come a dire: “Io sono già con la mia famiglia”.
La dodicenne scosse il capo e si avvicinò a te: «Io resto con te, fratello». Ti sorrise prima di fiondarsi tra le tue braccia come la bambina che era davvero. Tu ricambiasti la stretta con un braccio e sorridesti commosso. Aveva rinunciato a una nuova vita, per restare insieme a te.
«Bene», sbuffò Valentine seccato. «A quanto pare avrò un’altra bocca da sfamare in più, che palle!»
«Dai, dillo che non ti dispiace». Lo stuzzicasti e quello ti guardò con due occhi grandi così.
«Chi sei tu? Che ne hai fatto di Camus?»
Ridesti e lui fece, guardandoti spaventato: «Non farlo mai più, sei inquietante».
Ti fu impossibile non sorridere: «Abituati». In fondo anche tu avevi un lato divertente. Non c’era niente di male a mostrarlo ogni tanto.     

Nei giorni seguenti gli Inferi affrontarono la ricostruzione e voi completaste la convalescenza. La vostra ripresa fu molto più rapida della ricostruzione, ovviamente. Per quella ci sarebbero voluti decenni, prima che tornasse al suo stato originario. Visto che Hades, con il problema delle Creature, non si sarebbe certo sprecato a darvi una mano. Come dargli torto? Quelle Creature mettevano terrore a chiunque.
E tu affrontavi le conseguenze dei vari colpi di Surt, tra cui il naso storto che un medico ti rimise a posto. Più la benda sull’occhio andato, che fece inarcare un sopracciglio ad Isaac. Ti era andata bene, tutto sommato, Hyoga portava un occhio di vetro.   
Non capivi che cosa ci facesse con voi. Sembrava anche lei convalescente. Addirittura delle bende spuntavano da sotto la vestaglia e gli orli della camicia da notte. Quando gliel’avevi fatto notare si era immobilizzata di colpo come se tu l’avessi beccata a fare qualcosa di osceno. Poi si tranquillizzò.
Fortuna che voi Saint avevate la pelle dura. Infatti, tempo pochi giorni, le tue ferite migliorarono e scomparvero. Avevi sempre beneficiato di una pelle che guariva in fretta, tempo cinque o sette giorni ed eri come nuovo, qualsiasi cosa ti succedesse. A parte le fratture e danni molto più gravi, ovviamente. Ma a quanto sembrava, il danno più grande l’aveva subito lei. Ti era giunta voce della morte di Tokaki, avvenuta durante la tua convalescenza. E, questo andò a spiegare perché anche lei fosse ricoverata in quei giorni. Ti dispiacque moltissimo saperlo. Anche tu come lei la vedesti come una sconfitta.
L’andasti a cercare. Avevi saputo, chiedendo in giro, che era tornata nell’accampamento celtico con Raki. Anche se la popolazione si era fortemente dimezzata, qualcuno era ancora lì. Le trovasti vicino al ruscello, sotto uno degli alberi dove Astrid in passato era solita riposarsi. Ma te ne restasti in disparte e ti allontanasti quando ti accorgesti che le due stavano facendo il bagno. Tante cose, ma non eri un guardone.
Ti avviasti verso l’accampamento, ma il vento che soffiò ti portò le loro parole e tu, incuriosito, ti fermasti ad ascoltare. «Dai, ti faccio io i capelli». Le propose Astrid.
«Davvero lo puoi fare?»
«Certo, non sarà come essere usciti dal parrucchiere, ma non me la cavo male». Le garantì.
«Sai, il Grande Kiki quando ero più piccola mi acconciava i capelli. Purtroppo non sapeva fare molto oltre una coda alta. Mi manca tanto, io a volte sogno che venga a salvarmi, sogno che è deluso da me perché non riesco a cavarmela da sola. Sono l’apprendista di un Cavaliere d’Oro da tutta una vita, eppure non ho ancora risvegliato il Settimo Senso. Probabilmente non ci riuscirò mai; mi sento molto, troppo impotente». Cercò d’incoraggiarla. «Ma no, ma che dici, non sei impotente anzi. Sei molto forte e sei molto resistente. Altrimenti non saresti sopravvissuta finora». Il vento cadde e tu, curioso, ti avvicinasti di soppiatto. Quel tanto che bastava perché il tuo orecchio percepisse le loro parole. Ma sempre rispettando la loro privacy.
«No, non è vero, sono un’inetta, sto cercando di essere forte, forte come te… Io ho sempre saputo che cosa provavi i primi tempi al Santuario, non pensavo che un giorno mi sarei ritrovata nella stessa situazione anch’io». 
«Sì però ho paura. Ho tanta paura.» singhiozzò Raki. Non l’avevi mai sentita così triste prima d’ora.
«Bussa sempre di notte…» Cominciò e la bambina si zittì. Da quando Tokaki era misteriosamente morto, il rapporto tra Astrid e Raki si era rafforzato. E, al tempo stesso, anche tu ti eri avvicinato a lei, ulteriormente. Non sapevate di preciso cosa fosse successo, sapevi solo che durante la Guerra Tokaki era scomparso.
Adesso la bambina si faceva acconciare i capelli da lei. Non immaginavi che l’apprendista di Odysseus avesse anche questo lato materno, che la portava a occuparsi dei giovani rimasti con solerzia. A fine canzone la piccola si strinse a lei e le domandò: «Credi che torneremo mai al Santuario?»
«Sì, Raki, vedrai che ci torneremo. Il tempo di mettere a posto le ultime cose e torneremo a casa». Promise convinta e, alzando il volto al cielo scuro, per la prima volta, ci credette davvero.
Nei giorni seguenti scopristi che ti era rimasta impressa Bella signora.
La cantava in un modo che sembrava moltissimo a un invito. E tu la vedevi davvero questa bella signora, solo che nel mare nero della notte scura, ci vedevi lei, che tendeva una mano verso di te, sorridendoti. Come quel sogno che avevi cominciato a fare da quando vi eravate spostati nuovamente. Nel tuo sogno ti vedevi nel nero del Limbo e, a un tratto una serie di lampi di luce, come delle comete, cominciavano a solcare il cielo attorno a te. E, mentre tu le seguivi con lo sguardo, meravigliato, ti girasti e vedesti il cielo tempestato dei colori dello spazio e delle sue stelle venire verso di te, rimpicciolendosi sempre più fino ad assumere una forma vagamente femminile. Quando ti passò accanto girò il volto per guardarti. Nella sua forma riconoscerti dei tratti umanoidi, come se quell’essere fosse stato trasparente. L’essere fluttuante di spazio e di stelle ti girò intorno un paio di volte e tu con lui, mentre ti accorgevi che assumeva tratti sempre più femminei e sempre più simili ai tuoi. Il suo viso di poco più in alto del tuo, proteso verso di te. A un tratto il manto variopinto arretrò lasciando liberi una pelle candida e i capelli biondi della persona, della donna che avevi davanti. Anche se solo una parte, non avevi mai visto degli occhi più affascinanti di quelli di… “Astrid!”  Pensasti sorpreso mentre la sua persona si delineava davanti a te e sorrideva divertita. Il manto che fino a quel momento l’aveva rivestita si fermò all’altezza delle clavicole e ti ritrovasti a osservare i bellissimi, dettagliati, occhi gialli della tua versione femminile.
Curvò le belle labbra né piene né sottili in un sorriso e ti strizzò l’occhio prima di sfrecciare via a gran velocità.
Eppure, nel vedere quella vera, non riuscivi proprio a perdonarle la sua omertà.
Eppure, adesso, qualcosa dentro di te, si faceva strada. E riconoscevi questa sensazione. Adesso che avevi occasione di pensarci.
Non ti sarebbe dispiaciuto provarci con Astrid. Lei era stata la prima persona ad abbracciarti in quel senso e avevi sognato molte volte di baciarla da quando la Guerra era finita. Ma se all’inizio avevi liquidato la cosa alla stregua di uno dei tanti sogni erotici che facevi, adesso ci pensavi.
Non avresti saputo dire di preciso, ripensandoci quando avevi cominciato a interessarti a lei, forse da quando l’avevi aiutata con il lutto. Non le eri rimasto accanto solo per amicizia, no. Solo che non te ne rendevi conto neanche tu.
Non facevi che ripensare a quello che avevi provato durante l’assalto alla Giudecca. Quando avevi visto Astrid combattere finalmente senza timore, ti eri sentito orgoglioso di averla come compagna d’arme. Sarebbe stata un ottimo acquisto per i Gold. Però erano anche gli unici momenti in cui lei sembrava tornare alla normalità. Spesso l’avevi vista dirigersi nella Foresta dei Suicidi. Parlando con lei ti aveva raccontato che era stato l’ultimo posto dove era stato visto Tokaki. Poi aveva detto che era tutto confuso. Aveva detto che il ragazzo aveva sentito il barlume della Stella Malefica. Tu eri talmente preso dal combattimento che non te ne eri neanche accorto. Lei si sentiva tremendamente in colpa per essersi allontanata da lui. Se non l’avesse lasciato solo, se fosse rimasta all’accampamento come gli Specter avevano ordinato, forse Tokaki sarebbe stato ancora vivo. Si colpevolizzava continuamente asserendo che fosse colpa sua se adesso era rimasta solo Raki. Ti sentivi in pena per lei. E non sopportavi le occhiatacce che il tuo collega del Cancro le lanciava. Ti sembrava quasi che l’accusasse. Quando poi il suo connazionale si accorgeva di te e che lo guardavi sbottava: «Che cazzo vuoi, Camus? Che ti guardi? C’hai qualche problema?»
E visto che tu non rispondevi, quello sbuffava, emetteva un verso di stizza e se ne andava. Era bene che un tipo del genere stesse lontano da Astrid. Non ti fidavi di lui. Non era capace di prendersi cura di nessuno, sapeva solo uccidere. 
Di lui e delle sue battute, sinceramente non ti fregava niente, lo tolleravi in virtù della Cloth indossata e del patto di fratellanza tra i Gold. Già il fatto che Death Mask si fosse innamorato (lo avevi visto chiaramente quando era apparsa Helena) ti lasciava esterrefatto. Neanche pensavi che un sicario, un assassino come lui fosse capace di amare. Era impossibile. Neanche Aphrodite lo poteva soffrire.
Ti sorprendeva però che Hyoga lo guardasse riconoscente. Questo non ti era sfuggito anni prima, durante la Guerra Sacra contro il Gran Dio Zeus. E anche tu in un certo senso, gli eri grato per aver salvato la tua dolce Natasha. Però ciò non toglieva che lui era sempre lui.
Anche se Hyoga poteva essergli riconoscente per qualcosa, tu non eri il tuo erede. Né ti interessava sapere perché. L’importante adesso era evitare che Astrid stesse a contatto con una persona così. Soprattutto ora che era emotivamente più fragile. Non che non ti fidassi, ma piuttosto che con Death Mask, assassino provetto, pazzo, cospiratore doc e avido di potere, era meglio Myu. Non avresti mai creduto di dirlo, ma persino lo Specter della Farfalla era una compagnia decisamente più raccomandabile del tuo collega.
Lo sapevi e probabilmente, anzi no, sicuramente, lo sapeva anche Astrid, impossibile che una così dimenticasse questo dettaglio. Te l’aveva detto tante volte durante questa guerra che ormai avresti saputo ridire a memoria quel discorso. Anche tu eri consapevole che fosse sequestro di persona e che Astrid gli avrebbe fatto un culo a capanna (d’accordo, caro, ti passo il termine. “Grazie, coscienza”) se avesse potuto. Come eri consapevole che tutti nel Santuario si erano macchiati del reato di complicità. Per questo ringraziavi di non essere tra loro. Almeno tu non le avevi fatto nulla di male. E questo ti fece realizzare una cosa: eri una delle poche persone di cui lei potesse fidarsi davvero. Una delle poche con cui, poteva avere un rapporto sano e reale.  
Con questa consapevolezza ti allontanasti definitivamente.

I tuoi impegni purtroppo ti portavano a parlare con i tuoi compagni e colleghi Saint soltanto la notte. Alla fine anche loro erano rimasti per permettere ad Astrid di affrontare il periodo di lutto. Almeno qualche giorno con la zia.
Milo aveva cercato di parlarci dicendole del ricatto del maestro e alla fine aveva concordato con lei che sarebbero tornati in tempo per il plenilunio. Così Milo si era rabbonito e l’aveva lasciata in pace, anche se era evidente che fosse dispiaciuto per la sua perdita. Te l’aveva raccontato lui stesso una di quelle sere.
Di giorno dovevi occuparti di faccende più importanti. Avevi appena ultimato i preparativi per il ritorno del Cocito e avevi finito di parlare con Rune di Barlog. Avevi fatto molta fatica a chiedergli il permesso di visitare l’archivio e consultarlo. Quattro ore soltanto per convincerlo ad aprire la porta e due per persuaderlo a restare al tuo fianco durante le tue ricerche. E a un certo punto avevi ringraziato il tuo addestramento, che ti aveva permesso di non dare in escandescenze, anche se c’eri vicino. Eri umano anche tu. Controllato, civile e pacato quanto vuoi, ma sempre umano eri. E in quel momento ti era veramente venuta voglia di rimettere Pico de Paperis nel suo buco e di chiudere l’entrata con una bara di ghiaccio. Non prima di avergli rifatto i connotati come si deve.
Ma ti eri saputo controllare. Anche se avevi vent’anni non eri una scimmia in preda agli ormoni e alla collera. In più sarebbe stato controproducente. Volevi sapere di più su tutto quello che stava succedendo e anche Milo, Shun e Death Mask erano dello stesso avviso. Questa situazione non piaceva neanche a loro. «Tu le puoi fare qui, noi possiamo farle direttamente al Santuario». Aveva esposto Milo, che era quello più preoccupato tra tutti. Prima le Creature, poi la Luce Ombrosa, dopo saltavano fuori gli Azoni e i veri Guardiani delle Case degli Astri. Se, come sospettavate tutti, si stava preparando una tempesta - per essere poetici - ancora più grande, dovevate essere pronti.   Shun aveva aggiunto di essere preoccupato. Non era sicuro che la Terra e il Santuario avrebbero retto una nuova Guerra Sacra. Solo in quest’anno ne avevano affrontate già due e di fila, per di più. Ad ogni modo anche lui avrebbe fatto ricerche sfruttando i poteri della sua costellazione e del suo rango. Death Mask invece disse che non gliene fregava niente, avrebbe combattuto come suo solito.
Quando Astrid ti aveva raggiunto di sua sponte, proprio nel tribunale degli Inferi, che stava riprendendo la sua vecchia funzione, c’eri rimasto di sasso. «Ciao, Camus». Ti salutò sorridendo.
«Astrid? Ciao, ma… cosa ci fai qui?»
«Avevo voglia di vederti e ti ho portato qualcosa da mangiare. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere, visto che sei molto impegnato ultimamente». Disse con un candore tale che ti ricordò la neve. Ti venne istintivo ringraziare che le ferite fossero molto migliorate in così breve tempo. «Se però non ti va, va bene lo stesso, eh? Non sentirti obbligato a pranzare con me». Aggiunse poi di fronte alla tua espressione smarrita. Ti rinvenisti: «No, con piacere, è solo che sono solo sorpreso di vederti. Pensavo che fossi con tua zia alla Giudecca».
Avresti voluto chiederle anche di Milo e Death Mask, cioè, perché non c’erano anche loro. Ma poi pensasti che la Guerra vi aveva legati moltissimo. Era normale che fosse più legata a te che ai suoi vecchi conoscenti. E poi, molto meglio così, no?
«Sì, c’ero, ma oggi le cose sembrano andare bene e anche la zia insiste col dire che ogni tanto anch’io devo uscire. Bè, se non altro, dalla Giudecca». Fece poi accennando agli Inferi con il dito della mano libera. «Sostiene che ai giovani non faccia bene chiudersi in casa».
«Tua zia ha ragione».
«Allora, dove andiamo?»
«Conosco il posto giusto». Ed era anche abbastanza vicino a dove ti trovavi tu. Non ci avevi mai mangiato prima, ed eri curioso di fare questo pic-nic improvvisato. Stavi riferendoti al campo di fiori di Orpheo della Lyra. Anche se Euridice non si trovava più lì, il campo di fiori non era sparito. Probabilmente Hades doveva essersi dimenticato di toglierlo quando aveva ricreato gli Inferi.
Ma a te non dispiaceva. Il lato ancora più bello? Non vi sareste dovuti preoccupare delle formiche.
Eri contento di passare un po’di tempo in sua compagnia. Astrid ti piaceva davvero. Era coraggiosa, ma non mancava mai di essere femminile e, per certi versi, era anche molto forte. Non aveva paura di mostrare le sue emozioni, cosa che tu dovevi ancora imparare a fare.
Aveva anche dei lati buffi che ti strappavano davvero un sorriso genuino. Come quello che albergava sulla tua faccia in questo momento, mentre scherzavate. Senza neanche accorgervene avevate anche finito di mangiare. Alla fine tra voi due si era creata davvero una bella atmosfera. E a un tratto qualcosa ti parve fosse cambiato tra voi. Era come se si stesse facendo largo qualcosa che finora era rimasto sopito. No, meglio, che era cresciuto e non ve ne eravate accorti. Anche lei sembrava stordita, in un certo senso, come te. Ti accorgesti per la prima volta che aveva gli occhi lucidi, che ti guardava con affetto e dolcezza e qualcosa di più.
Poi ti passò un frutto e tu trattenesti la sua mano nella tua, continuando a guardarla dritto negli occhi come se tu avessi potuto scavare nel suo sguardo. Fino a raggiungere la sua meravigliosa anima. Al tempo stesso col tatto assaporavi la morbidezza della sua pelle liscia e fresca tipica della vostra età.    
Il suo sguardo era un riflesso del tuo. Faceste per avvicinarvi quando: «Ho interrotto qualcosa?» Chiese Aiacos e voi due vi giraste a guardarlo trasalendo. I vostri cuori batterono veloce e le vostre guance erano rosse come i tuoi capelli (non inventare, lo sentivi anche tu) «No, stavamo solo parlando».
Con un calcolato sforzo mastodontico, tu ti rimettesti comodo sui fiori, se no anche tu saresti schizzato a sedere come lei.
«Spero di futilità». Ma la sua espressione maliziosa disse il contrario. Prendesti il frutto dalla mano di Astrid e lo mangiasti, giusto per avere una scusa a cui aggrapparti. Il Garuda non era un cretino.
«Cosa ci fai qui? Non dovresti essere con Lady Pandora?» Chiedesti. Che ormai eri talmente abituato a collaborare con i Giudici Infernali da conoscere alla perfezione le loro mosse. «Abbiamo appena finito e ho voglia di riposarmi un po’». Ma non era possibile che avesse fatto tutta questa strada solo per riposarsi. A meno che non gli piacesse il campo di fiori - poco probabile - era lì per la sua Seconda Ala. Solo in quel momento ti ricordasti che Astrid era una sua collaboratrice e che Aiacos teneva in particolar modo a lei, forse quanto a Violate. Anche se per motivi diversi.  
Se l’espressione di Astrid fosse stata traducibile in parole sarebbe suonata come un: “E quale modo migliore di venire a infastidire me, eh?” «Ti devi annoiare molto se ricerchi la mia compagnia». Scherzò lei. Aiacos inarcò le sopracciglia e assunse una faccia di finta innocenza: «Credete di essere noiosa?» Chiese con voce ridente. Si vedeva che stava trattenendosi dal non prenderla in giro. Normalmente ad Aiacos non fregava granché di quello che facevano i suoi sottoposti. Si divertiva soltanto in battaglia. Quindi, o aveva bevuto, ma non credevi, o aveva un piano o, più probabile, si stesse godendo l’espressione di Astrid e la stesse prendendo in giro tra le righe. Ma Astrid non era una ragazzina. Era una donna, perciò non abboccò. Ignorò il proprio rossore e disse: «Credo di essere nella media, pensavo ti divertissi soltanto in battaglia quando Violate combatte per deliziarti». La sua prontezza di spirito era sorprendente certe volte.
Lo Specter fece il giro e si sedette davanti a voi. Fece una strana impressione vederlo accomodarsi in mezzo ai fiori. Fu un po’come assistere all’atterraggio di un extraterrestre, o come vedere una roccia nera in mezzo a macchie di colore. In ogni caso, la sua presenza stonava persino con il paesaggio. «Ah, la guerra è un conto, la vita al di fuori di essa è un’altra. Non guardarmi così Aquarius, tutti noi bene o male siamo riusciti a ritagliarcene una». Ti rimbrottò allegramente intercettando il tuo sguardo. Non ti piacque granché averlo qui e non vedesti l’ora che se ne andasse. Sentimento condiviso dalla bionda - come scopristi gettandole una rapida occhiata
«Violate non parla?» Domandò quest’ultima, sarcastica. Restasti sbalordito nel riconoscere un barlume della persona solare che conoscevi.
Lo Specter rispose con noncuranza: «Francamente preferisco quando combatte non so se mi spiego». Eppure girava voce che la stesse rivalutando da quando l’aveva salvato dai Black Saint. Cosa avvenuta durante la riconquista del Piriflegetonte. «Volevo parlarvi, per questo vi ho cercato. Avrei potuto scomodare qualche Skeleton o Violate, ma certe cose è meglio dirle subito e di persona». Ti accigliasti confuso, mentre Astrid sembrò aver capito benissimo.
«Cosa mi devi dire?»
«Mi sono ricordato qualche dettaglio che ti potrà essere utile per rispettare il nostro accordo».
Lei sussultò come se fosse tornata alla realtà. Poi esitò un momento prima di rispondere: «Sono tutta orecchi». Di che accordo stavano parlando?
«Bene, allora è bene che sappiate che se volete catturarlo dovrete…» E di lì le raccontò tutto. Astrid restò di stucco nell’apprendere tutto questo sul conto del suo maestro. E anche tu non potesti fare a meno di stupirti. La cosa che ti sorprese di più, fu apprendere che anche Astrid non era la sola a essere sopravvissuta tanto a lungo. «Aspetta, un momento, frena. Mi stai dicendo che non sono la prima persona ad essere giunta qui senza l’ausilio dell’Ottavo Senso?» Domandò ad Aiacos mentre quest’ultimo si accomodava sui fiori del campo una volta dimora di Orpheo della Lira. Adesso l’ex Silver militava nelle vostre fila, avevi sentito dire, ma non avevi ancora avuto occasione di incontrarlo. Ancora una volta lontano dalla sua Euridice, ma, sicuramente, più sereno di prima. «A quanto pare».
«Chi c’è riuscito prima di me?» Chiese incuriosita.
«Asclepius».
Al solo udire quel nome strabuzzaste gli occhi per lo stupore: lo stesso Asclepio che conoscevate voi? Colui che creò la tecnica della resurrezione? «Asclepius? Cioè, intendi il Dio della Medicina?» Gr Domandasti guardando in faccia il Garuda alla ricerca di segni di menzogna. Anche Astrid girò la testa verso di lui, ma lo fece così velocemente che le vertebre del collo le scricchiolarono sinistramente. Ti venne istintivo pensare che alla prossima la testa le si sarebbe svitata da sola; dal canto suo Aiacos ignorò il rumore: «Sì». Sorrise, affilato come sempre.
«Conosco il mito, ma non avrei mai immaginato che fosse vero anche questo». Ammise Astrid, pensierosa.
Il nepalese sfoderò un altro sorrisetto folle, molto simile a quello della sua Prima Ala. «Ormai dovreste saperlo che tutte le leggende hanno un fondo di verità». Sembrava comunque contento di aver segnato un punto in più su Astrid.
«Me lo dimentico sempre». Commentò lei guardando dritto davanti a sé, oltre l’ala destra del Garuda. Poi abbassò lo sguardo sui fiori e si grattò la testa. I suoi occhi accesi di una nuova consapevolezza. «Se t’interessa ho saputo che militava nelle fila della Vostra amata Dea». L’informò in tono pungente lanciandoti un’occhiata obliqua che ricambiasti con una di traverso. 
«Davvero? Non lo sapevo». Mentì. Se il Garuda fiutò la bugia non lo dette a vedere, ma tu comprendesti appieno la manovra di Astrid. «Come si chiamava?» Domandò con voce esile.
«Odysseus di Ophiuchus». Rispondesti tu invece di Aiacos. Il quale ti fulminò con gli occhi per avergli rubato le parole ma si riprese in fretta per sfoderare il suo sorriso di perfido, folle, trionfo.  
«Ma il Saint d’Ophiuchus non è un Cavaliere d’Argento?» Domandò lei a quel punto in coro con lo Specter, in tono più forzato rispetto al suo. Non poteva permettere che scoprisse altri dettagli su voi Saint, spie o non spie all’interno del Grande Tempio. Il che ti fece provare un moto di gratitudine per lei.
Sorprendentemente però fu lo Specter a rispondere: «Ora, fino al XVIII secolo era un Gold Saint, forse il più importante di tutti. Dicevano che fosse la persona più sacra del Santuario».
«E ti pareva?» Commentò la ragazza, immusonita. Aveva appena scoperto che il suo maestro era un Dio. Magari fosse stato un umano, magari un Silver. Ma questo andava oltre le sue possibilità. E forse anche delle tue dal momento che se già da Vivo fu potente, figuriamoci da Redivivo. Non osasti immaginare la potenza del Cosmo di Odysseus. Però potevi indovinare quello che aveva pensato lei: per un momento, un bellissimo momento, aveva sperato di sbagliarsi.
«Dicevano?» Rilevasti tu.
«Morì molti anni prima della rinascita di Atena di quel periodo a causa delle gravi ferite che riportò per salvare due giovani da un’eruzione vulcanica. Con il proprio Cosmo evitò di essere dissolto dall’eccessivo calore, ma non riuscì a rigenerarsi a causa dell’enorme quantità di energia consumata. Dopo aver promesso ai bambini che aveva salvato che sarebbe ritornato, spirò. E, tornò veramente, ma ormai era maledetto. Nessuno sa da dove nascesse la sua maledizione». Raccontò. 
«Come hai detto che era risorto questo Gold Saint?» Domandò esitante e vagamente preoccupata.
facesti per dirglielo quando Aiacos si alzò, si scusò per l’interruzione e se ne tornò all’Antenora.      
«Che accordo hai stretto con gli Specter?» Chiedesti e lei, dopo parecchi secondi di esitazione, parecchi tentativi vani di sviare il discorso, vuotò il sacco.
Ancora una volta, quella ragazza ti aveva amareggiato. Però capivi perfettamente le sue intenzioni. Anche tu avresti fatto lo stesso se avessi potuto, tempo prima, piuttosto che batterti contro Hyoga. Tu più di ogni altro lo sapevi molto bene. Per questo non la biasimasti. «Spero solo che tu riesca nell’impresa». Le dicesti alzandoti.
«Camus io…»
«É tutto ok, va bene». La rassicurasti, rendendoti conto di essere stato più gelido del dovuto. In fondo lei aveva stretto quell’accordo per il bene della Divina Atena. Era una cosa da Saint: cioè tutti voi avreste messo da parte i vostri affetti per servirLa e proteggerLa. E glielo dicesti. «Allora perché mi sembra che tu mi stia accusando?» Ti inginocchiasti davanti a lei e la stringesti dolcemente a te, facendole poggiare la testa sulla tua spalla. Affondasti le dita tra i suoi capelli e ti beasti del suo profumo e della dolcezza di quelle membra: «Ma io non ti sto accusando». Dicesti con dolcezza. «Voglio davvero che tu ci riesca». Lei ricambiò l’abbraccio. Avresti voluto stringerla a te più a lungo, però dovevi veramente andare. Sciogliesti la stretta. «Se faccio aspettare ancora Pico de Paperis mi serviranno altre sei ore per convincerlo un’altra volta». La nipote di Pandora sorrise e annuì. Vi metteste d’accordo per rivedervi presto in questi ultimi giorni prima della sua partenza per il Regno dei Vivi.      

Eri stato sincero con Astrid. Ma adesso che la Guerra non c’era più, avevi anche il tempo per concentrarti sui tuoi sensi di colpa. Non riuscivi a toglierti dalla testa la sua espressione smarrita la sera della festa di qualche settimana prima. Né la freddezza che le avevi dimostrato quando ti aveva solo chiesto un gesto di conforto.
Ti guardasti la mano. Decisamente, il tempo agli sgoccioli non ti aiutava. Neppure a concentrarti sui libri. Non l’avresti mai detto a Rune, però era la sedicesima volta che ti incantavi sulla stessa frase, tanto eri distratto.
Quanto eri diventato gelido da ignorare persino una ragazza? La rispettavi e la stimavi, ma non riuscivi a perdonarti per non averla salvata. Forse se tu l’avessi fatto, avrebbe ritrovato un po’di forza per reagire. E anche per salvare Tokaki. Perché tu lo sapevi che stava soffrendo come un cane anche se cercava di stare su per Raki e anche per la zia.
Era evidente che fosse troppo per lei. Solo Atena sapeva quante volte l’avevi vista piangere mentre dormiva. Fino a quel momento credevi che fosse impossibile, nonostante che conoscessi anche tu la storia della Donna Scheletro. Secondo la leggenda una giovane donna cadde in acqua e restò intrappolata sotto al ghiaccio. I suoi pesci si nutrirono di lei finché del suo corpo non restò che lo scheletro. Un giorno un povero pescatore fece un foro nel ghiaccio e la pescò.
Spaventato, il giovane uomo corse via, ma lo scheletro rimase impigliato nella lenza e lo seguì, anche nel suo igloo. L’uomo restò per giorni appiattito alla parete opposta della sua dimora, sempre sotto lo sguardo dello scheletro. Una sera si addormentò e, quella sera, lo scheletro si accorse che l’uomo aveva versato una lacrima nel sonno. A volte succede, avevi sentito, che gli uomini piangano per qualche motivo mentre dormono.
Allora lo scheletro si avvicinò e bevve quella lacrima. E, da quella lacrima riacquistò la carne, gli organi, la pelle e i capelli. Sicché quando il pescatore si svegliò, vide dinanzi a sé una fanciulla.
Ma tu non avevi mai pianto quella lacrima.
Tutto quello che avevi potuto fare per lei, però, durante i turni di guardia, fu solo posarle una mano sulla sua. E ormai questo gesto era diventato una sorta di rito. Se aveva incubi non erano mai rumorosi, non si agitava, non scalciava, anzi, se ne stava perfettamente immobile. Solo l’espressione cambiava. Se erano attacchi d’ansia allora la faccenda cambiava e lì si destava e si cingeva il busto con le braccia come a tenersi ferma. Lottava la sua silenziosa battaglia contro i suoi demoni interiori. Mentre tu non sapevi cosa fare, ma qualcosa ti diceva che non volesse il tuo aiuto, per questo ti limitavi a fare il minimo indispensabile, come svegliarla se l’incubo era troppo per lei o ad aspettare che la crisi passasse. Almeno, non vomitava già più. Poi, un giorno, ti eri avvicinato a lei mentre aiutava a lavare i panni e l’avevi abbracciata. Lei ti aveva lasciato fare e aveva ricambiato. Ecco, la vostra interazione si riduceva a questo. Decidesti che ci avevi pensato anche troppo e ti mettesti finalmente al lavoro.
 
Il giorno dell’appuntamento arrivò piuttosto in fretta, anche se tu avevi vissuto questi giorni come un mese intero. In realtà non c’erano solo le foreste delle Ninfe Stige, c’erano anche altri posti negli Inferi che valeva la pena di vedere. «Vuoi farmi da guida per gli Inferi?» Ti chiese stupita e divertita. Non vedesti cosa ci fosse di male e rispondesti, pacato: «Ho pensato che potrebbe essere interessante».
«Ma non è che ci sia tutto questo bel vedere». Ribatté ragionevole. E tu rispondesti con un sorriso divertito: «In realtà qualcosa di bello c’è». Lasciandola completamente di stucco. E così l’avevi portata a vedere il prato degli asfodeli. A dir la verità era la prima volta che ti ci recavi anche tu. Avevi solo sentito parlare della sua ubicazione ed eri andato a vedere per meglio memorizzare la strada.  
E di fronte a tutti quei fiori l’avevi vista aprirsi in un’espressione di pura meraviglia. Si avvicinò esitante ai fiori e li sfiorò con le mani. Poi quando realizzò che erano veri scoppiò a ridere.
In questa zona vivevano gli eroi del passato. Ma al momento anche loro erano nell’accampamento celtico, si erano spostati dalla Valle molto tempo prima. Però voi non li avevate mai incontrati.
Avanzaste lungo il sentiero che tagliava in due quella pianura viola.
«Dissi; e d’Achille alle veloci piante
per li prati d’asfodelo vestiti
l’alma da me sen giva a lunghi passi,
lieta, che udì del figliuol suo la lode
». Recitò Astrid, ammaliata da quella distesa che sembrava una brughiera alle prime luci dell’alba appena appena nebbiosa ai suoi confini, delimitati da betulle ordinate. E tu prendendo spunto dalle opere che al Santuario il Saint della Lyra aveva aiutato a trasporre, continuasti. Ma con il libro XXIV.
«Indi ai vestiti
d’asfodelo immortale Inferni prati
giunser, dove soggiorno han degli estinti
le aeree forme, e i simulacri ignudi
.» Per la prima volta ringraziasti Orpheo della Lyra per la sua splendida trasposizione dell’Odissea se ancora adesso te la ricordavi parola per parola, scopristi.
«Non esattamente La pioggia nel Pineto, ma ci può stare», sorrise lei. Non avevi la più pallida idea di che stesse dicendo. Fortuna che gli Specter erano riusciti a preservare zone degli Inferi come queste. Niente batteva il Regno dei Vivi, però eravate in quello dei Morti, vi dovevate accontentare, purtroppo.  
Raccogliesti un fiore e glielo porgesti. Astrid lo accettò, sorridendo imbarazzata e sorpresa. Poi se lo portò al naso. Improvvisamente percepisti una coppia di Cosmi poco distante da voi. «Ecco dov’era». Esclamò una voce maschile. Lei sollevò la testa di scatto e tu ti girasti e vedesti Thanatos e Hypnos fluttuare a mezz’aria. Istintivamente ti parasti davanti ad Astrid. Era la prima volta che vedevi i Gemelli Divini. Avevi visto Apollo e Artemide, ma gli Dèi della Morte e del Sonno no. Ti sorprese molto vedere le loro Kamui, rispettivamente argentea e nera e l’altra dorata e nera. Anche se lì per lì non avevi capito chi era chi.
Astrid si era rialzata e l’aveva guardati sbalordita e confusa. Forse più di te. «Mi cercavate?» Domandò intimidita.
«Certamente, Luce Ombrosa, abbiamo visto che cosa avete fatto per gli Inferi in questo periodo e ne siamo rimasti molto colpiti e vorremmo porgervi la nostra ricompensa per i servigi che avete recato al Sommo». Spiegò in tono cordiale quello in Armatura d’Argento, che, sembrava anche quello più duro e anche carismatico dei due.
«Oh, grazie, non me l’aspettavo… Quale sarebbe?»
«Vorremmo concedervi il rarissimo privilegio di visitare i Campi Elisi». Al solo udirli anche tu restasti sconcertato. Avevi sentito dire che Hades ne avesse interdetto l’accesso agli umani, anche a quelli più meritevoli. Nessuno era abbastanza degno per metterci piede.
Astrid, che nel frattempo ti aveva affiancato, strabuzzò gli occhi. Ti guardò incerta e tu sorridesti e annuisti. Anche se avresti voluto continuare l’uscita. Non l’avresti mai privata della libertà. Se voleva visitare i Campi Elisi non avrebbe dovuto rinunciare per te.
«Accetto con gioia!» Esclamò lei. Ma è logico, cosa se ne fa una persona del campo di fiori e della valle degli Asfodeli, se può visitare l’Eliseo. Com’era che diceva Virgilio?
I Campi Elisi «conoscono un loro sole e stelle loro».
Ivi, in mezzo a prati e boschi bagnati «dal corso copioso dell’Erìdano», senza fissa dimora, le anime dei beati continuano a esercitarsi nelle attività che svolgevano in vita, la ginnastica, la cura delle armi, la danza, il canto. Meritano questo destino «il manipolo di quanti han patito ferite combattendo
per la patria, e sacerdoti puri per quanto han vissuto,
e poeti sacri che hanno cantato cose degne di Febo,
e chi ha reso più bella la vita scoprendo saperi, o comunque
si è meritato di lasciare negli altri memoria di sé»
Ancora una volta, grazie Orpheo, era lui quello che in passato si era preoccupato di darvi un’istruzione adeguata, almeno sulle opere come l’Iliade, l’Eneide e l’Odissea. Aveva fatto un lavoro magistrale con quegli spettacoli teatrali, aiutato dall’intera Rodorio. Tu sapevi di fisica solo perché te ne parlò quella dottoressa che si prese una cotta per te, ma all’epoca eri già maggiorenne. Gli studi classici non ti erano mai importati. Non eri tipo che si interessava molto alla lettura e alla letteratura. Capivi… In realtà neanche tu sapevi che cosa capivi, a parte la sopravvivenza.
Oddei, tu eri già morto prima ancora di morire. Eri solo un fantasma che non aveva niente per sé. Tu, al di là del Cosmo e dei sentimenti, eri vuoto rispetto ad Astrid. Lei era viva a tutto tondo, non solo perché era qui anima e corpo. Lei era Viva, perché aveva idee sue e pensieri suoi. Tu appena avevi dei gusti. No, forse non era più così. Ti toccasti le fasce sui tuoi avambracci che celavano i serpenti dipinti. Ora come non mai la tua ghianda cerimoniale e quei serpenti sembravano bruciare sulla tua pelle. Come ad appesantirti, ma era solo un’impressione. Ed era positiva, perché ti ricordava che non eri più così vuoto. Adesso avevi qualcosa anche tu, eri un Celta onorario, ma ti bastava? No, non ti bastava. Era ironico, ma avevi di più adesso che vivevi qui che quando eri davvero vivo.
«Però, possiamo andarci domani? Prima vorrei concludere quest’uscita». Fece la ragazza. E tu la guardasti abbastanza sorpreso. Non pensavi che sarebbe voluta rimanere con te. I due Dèi glielo concessero e le dissero come rintracciarli, poi sparirono.
«Perché?»
«Perché anche se non ho dubbi che i Campi Elisi siano splendidi, io prima voglio vedere fin dove si estende». Ti sorrise.
Avresti voluto avere la capacità di saper intrecciare i fiori, per metterle una corona tra i capelli. Il viola le sarebbe stato benissimo, forse ancor più del nero e del giallo. Peccato che non sapevi fare. I due Dèi acconsentirono.  
Dopo la vostra uscita la ragazza aveva chiamato gli Dèi Gemelli e si era fatta scortare nei Campi Elisi. Da dove non era più uscita.

Non avevi più rivisto Astrid e ora mancava giusto un giorno alla partenza.
Stavi passeggiando in vista del tuo ritorno al Cocito. Saresti stato costretto a stare laggiù per i prossimi decenni a venire, tanto valeva riempirsi gli occhi di qualcosa. Avevi già girato le Paludi delle Ninfe Stigie e anche la zona attorno all’accampamento. Adesso mancava soltanto il campo di fiori. E fu lì che ti bloccasti di colpo per la sorpresa. «Credevo che fossi nei Campi Elisi». La salutasti, felice di rivederla. Lei girò la testa verso di te e ti sorrise. Era seduta tra i fiori e sembrava un po’ più tranquilla dal vostro appuntamento. Ma era una tranquillità apparente. Oggi più che mai traspariva.  
«Oh, in realtà sì, ero lì fino a mezz’ora fa. Non è per via degli Dèi Gemelli sono simpatici. Alle ninfe che ci vivono e che potrebbero farmi compagnia non piaccio proprio; mi sento più a mio agio qui. Ormai mi sono abituata al tepore di queste lande e alla Volta di questo cielo. Il buio non mi ha mai dato fastidio, dopotutto, se non ci fosse, non potremmo vedere le stelle». Fece alzando il naso al cielo, prima di abbassarlo sui fiori su cui era seduta. Le braccia incrociate sopra le ginocchia piegate all’altezza del petto. «Lo so, è sciocco, vero?» Sorrise malinconica, mentre un piccolo refolo di vento soffiava, sollevando il profumo del campo di fiori. E tu rivivesti tutto questo come un dejà-vu. «Non mi pare». Rispondesti.
Lei t’informò con voce fragile come il vetro, lo spettro di un sorriso sul suo viso: «Il mughetto bianco sta finalmente germogliando, sai? Presto gli Specter avranno di nuovo la Stella dell’Ascensione Celeste». Eppure c’era qualcosa che non andava in quell’espressione, era come se stesse sforzandosi di essere allegra.
«Bene, mi fa piacere. Che hai fatto al polso?» Chiedesti notando la fascia candida che le cingeva la mano e il polso sinistro. Lei la guardò prima di rivolgere lo sguardo su di te e sorridere: «Niente, è solo la ricompensa che ho chiesto al Divino Hades per aver contribuito a salvare gli Inferi». “Oh, che coraggio”, pensasti. «Che cos’è?»
«Un tatuaggio, me lo sono fatto fare dal Dio dell’Oltretomba in persona, val più di una medaglia al valore, no?»  Fece alzando le spalle.
«Come hai fatto?»
«Oh, è bastato usare il cellulare di Shun e fargli vedere un tutorial, poi gli ho mostrato la foto dell’animale che volevo mi dipingesse ed ecco fatto. So anch’io cosa successe nel Millesettecento, me l’ha detto, ma stavolta non si è ripetuto perché, bè, non si può ammazzare una fotografia o un file digitale». Ridacchiò divertita.
Ti fece impressione pensare all’altero Dio dell’Oltretomba che segue pedissequamente un tutorial per tatuaggi. Sperasti che Astrid non gli avesse involontariamente suggerito l’idea per la prossima Guerra Sacra.
Restate in silenzio per un po’.
«Myu ti ha già salutato?» Chiedesti dopo, per rompere quel silenzio che era caduto tra voi.
«A Myu non cambia niente se ci sono o se me ne vado». Ribatté lei tornando a guardare in alto e, a te, dispiacque molto. Anche se era colpa tua sentivi di aver fatto bene, almeno lei era salva dall’influenza dello Specter. Però restava ancora una questione in sospeso che ti premeva. E, per questo non avevi bisogno dell’intercessione del Dio dell’Oltretomba. «Non abbiamo finito il nostro discorso, quello della festa». Facesti. Anche se temevi che avrebbe rovinato l’ultimo giorno che avreste passato insieme, volevi almeno parlarne chiaramente.
Lei capì al volo e tornò seria: «Oh, quello?» Domandò imbarazzata, spostandosi i capelli dietro la spalla sinistra, intanto che tu ti accomodavi accanto a lei. «Sei uno Spirito Vivente, lo so; Fianna me l’ha detto». T’anticipò, impedendoti di dire quello che davvero ti premeva.  
«Ma nel mio cuore al primo posto vi è la Dea». Le ricordasti in tono mesto ed era giusto che sapesse, che non avevi agito per gelosia. Anche se più piccolo di lei, sapevi quali erano le tue priorità. E, anche se lei ti attirava per il calore che era capace di smuovere dentro di te, era giusto mettere prima in chiaro le cose. Forse era meglio farlo adesso, sicché evitaste entrambi di affezionarvi l’uno all’altra. «Non credo che tu accetteresti mai il secondo o il terzo posto e, francamente, neanche io». Continuasti poi, dispiaciuto.
Lei non fece una piega, si limitò soltanto a chiudere gli occhi. Fece un respiro profondo prima di rispondere: «Lo so, però resta ugualmente una stronzata».
La guardasti stupito da cotanta blasfemia: «Perché?»
Riaprì gli occhi e volse il viso verso di te: «Perché sono due sentimenti completamente diversi. La venerazione e la devozione per la Dea sono una cosa, amare veramente una persona è un’altra. É come amare Dio per i cristiani, è ovvio che sono due tipi di amore che non potranno mai essere eguagliati e che in tempo di Guerra la Dea avrà la precedenza assoluta». Fece poi, girando di nuovo il volto verso l’inquietante volta stellata.
La guardasti sbalordito, pensavi che si sarebbe arresa subito. Non che custodisse un’intelligenza brillante a tal punto da arrivare a comprendere fino in fondo che tipo di amore potevate aspirare voi Saint. «Non dico che sono innamorata, non ancora e non penso, è troppo presto, poi non credo neanche che il mio concetto di amore sia lo stesso che hai tu».
«Non so cosa sia l’amore, ma se somiglia un po’ a quello che provo per la Dea, allora penso che mi piacerebbe provarci, un giorno.» ecco, gliel’avevi detto. Lei continuò a fissare la volta celeste come incantata.
«Pensi che ci sarebbe una speranza?» Chiedesti speranzoso e vagamente intimorito di ricevere un due di picche. Lei alzò le spalle: «Non lo so».        
«A te piacerebbe scoprirlo?» Ritentasti.
La giovane ti guardò, gli angoli della bocca curvati in un sorriso stiracchiato. «Vuoi la verità? Sì che mi piacerebbe», sorrise, davvero, poi il suo sguardo si velò di malinconia e il sorriso si spense; «ma non adesso, non ci è concesso». 
«Nessuno ha mai detto di correre». La rassicurasti tu giocherellando con un filo d’erba. Lei curvò le labbra in un sorriso e ti tese la mano, che tu stringesti nella tua. Era pur sempre un modo come un altro per iniziare. Poi decidesti che non ti bastava più e la stringesti a te di lato. Lei appoggiò la testa sulla tua spalla. «Domani mi accompagnerai in superficie?» Ti chiese guardando il cielo.
«Purtroppo non mi è concesso uscire dai confini dell’Ade, devo tornare subito al Cocito». Sospirasti dispiaciuto.  
«Mi aspetterai?» Volle sapere con voce esile, dopo un momento di esitazione.
«Sì, ma solo se mi prometti che nel frattempo vivrai la tua vita». Ed eri serio, dal momento che anche questo era un giuramento e, quando entrambi sareste stati dalla stessa parte, solo un’altra Guerra Sacra ti avrebbe impedito di conoscerla davvero. E, questa era già una grande speranza. Fintanto che lei era Viva non aveva senso imporle di non posare gli occhi su qualcun altro, era anche giusto che vivesse. Volevi per lei una vita lunga e felice. Anche se il vostro non era un addio vero e proprio era più giusto così. 
«Lo farò. Ma tu intanto cosa farai?»
«Ho un po’di lavoro da svolgere, perciò non penso che me ne starò tutto il tempo con le mani in mano ora che la Guerra è finita ed è tutto tornato alla normalità ». Avevi scoperto che potevi essere utile anche come Saint non solo come Guardiano del Cocito e come ambasciatore per i Celti che contavano su di te.
«Ti aspetterò sulle Rive dell’Acheronte». Le sussurrasti mentre la tenevi stretta a te. La sentisti sorridere contro i tuoi capelli e rispose: «Ci conto».

Aldebaran

Stava arrivando la prossima luna piena. Mancavano solo ventiquattro ore. Lady Isabel ti aveva convocato per ragguagli sull’addestramento. La Dea ti era sembrata molto preoccupata per Shaina. Ti aveva fatto piacere saperlo. Però avresti preferito, nel profondo del tuo animo, che la Dea non si crucciasse così. Per quello bastavate tu e Yoshino. Non era facile stavolta mettere da parte il tuo amore per tua moglie per essere un maestro inflessibile. Come non era facile fingere che andasse tutto bene con Yoshino. La piccola avrebbe compiuto diciotto anni di lì a poco e non era più così piccola. Continuava a incoraggiare la madre, ma si vedeva che era preoccupata anche lei.
Avrebbe voluto parlare a sua volta con la Divina, però non poteva. Diceva che il Cosmo glielo impediva. Ogni volta che saliva le scale fino alla Tredicesima, sentiva che il Cosmo la rispediva indietro. Non come quando Shura aveva dovuto combattere contro Artù, bensì come due calamite girate per lo stesso polo.
Shura passava molto tempo in compagnia di Yoshino. E si vedeva che la giovane era molto legata al suo amico. Aiolia invece preferiva restarsene in disparte dai due, come se ancora non sopportasse lo spagnolo, che aveva dimostrato tutto il suo valore nella Guerra Sacra contro il Gran Dio Zeus. Tu sapevi il prezzo che aveva pagato per riuscirci. Anche se le cicatrici non si vedevano più, sapevate tutti che a volte soffriva ancora per il dolore alle braccia e che si svegliasse di soprassalto la notte, credendo di averle perse di nuovo.
Il prezzo da pagare per opporsi a Zeus e sopravvivere. Per puro miracolo eravate riusciti a salvare anche Aiolia, quella volta.
Gliele avevano riattaccate con l’Ichor giusto in tempo e poi era andato a salvare Yoshino, che stava per cadere nella trappola della gemella Tomoe.
Nonostante il legame che univa i due, anche Shura stava faticando moltissimo per tenere a bada Yoshino.
E al plenilunio mancava così poco. Era il sedici di luglio e la Grecia non ti era mai sembrata così calda come adesso. La tua mente, come se i due argomenti fossero collegati, dirottò su un altro tema. Forse avevano ragione tutti quegli attivisti allarmisti che lanciavano allerte in tutto il mondo. Ti aveva anche colpito quella ragazzina svedese che aveva deciso di fare lo sciopero del clima a soli sedici anni. Su una cosa concordavi con lei: la vostra casa era in fiamme. Ma non solo per l’emergenza climatica. Se avesse visto anche lei la devastazione che si lasciavano dietro le Creature, se avesse visto tutti questi profughi, avrebbe capito che l’emergenza era su tutti i livelli.
Ma il livello su cui la combattevate voi era totalmente differente dal suo.
Che cosa era successo a Seiya e a Hyoga per tardare tanto?
Guardasti il tuo giardino, tra le colonne degli appartamenti privati del tuo Tempio. Shaina era in bagno a farsi una doccia.    
Anche lì ti sentivi in colpa. La tua consorte era rimasta molto provata dallo scontro con Odysseus, probabilmente non si era neanche ripresa. Ma i ragazzi che avevate visto erano misteriosamente scomparsi. Li avevi cercati insieme a Yoshino, che era rimasta sconvolta quanto te, quando gliel’avevi raccontato. Ma non li avevate trovati da nessuna parte. Anche alla Palaestra non li riconoscevano. L’unico indizio che avevate di loro erano i messaggi del gruppo social sul telefono, che non erano ancora stati cancellati. Avevate provato a contattarli in chat privata, ma nessuno di loro aveva risposto, neanche visualizzato. Neanche i loro Cosmi avevate rilevato. Era come se fossero scomparsi completamente. O come se non fossero mai esistiti, come dei fantasmi. E questo inquietava entrambi. Fortunatamente Yoshino era molto forte e non era andata in crisi come Astrid. Lei sopportava tutto con una forza e uno stoicismo che una qualsiasi ragazza normale non avrebbe mai avuto. Anche Shura discuteva con voi di questo argomento, ma non riusciva davvero a cavare un ragno dal buco.
Da dove erano saltati fuori quei due che avevano sostituito il Saint di Orion, di Aquarius e di Sagitter? Ti erano sembrati molto giovani. Più dei tuoi commilitoni, appena appena nell’età di Yoshino. Se esisteva già una nuova generazione, voi a cosa servivate qui? Servivate per proteggere Yoshino e per te era molto di più di quanto sperassi.
Tuttavia questi apprendisti avevano un’energia diversa, era la parola giusta per definirla. Non eri neanche riuscito a riconoscere questi Cosmi, ma avevi intuito che fossero molto potenti. Se addirittura due di loro sostituivano dei Gold significava che una nuova generazione era già arrivata. La vostra presenza era solo un intoppo. Eravate come dei camion ingombranti che ingolfano il traffico. Tutti voi, anche Paradox e tutti gli altri. Che stavano cominciando ad accusare i segni della consunzione delle Creature. Alcuni allievi della Palaestra erano morti così. In questi mesi avevate imparato a riconoscerla e, avevate compreso che le Creature esercitavano il loro potere anche senza bisogno di avvicinarsi. E non avevate trovato niente con cui difendervi. Anche altri Saint della vecchia guardia erano morti e, le cloth erano scomparse. Questa scoperta in particolare aveva spaventato tutto il Santuario. Neera doveva avere un complice o qualcuno che svolgesse il lavoro al posto suo. Anche Kanon si era inalberato e aveva stretto ancor più la sorveglianza. Era un miracolo che foste riusciti a non mandare in panico la popolazione di Rodorio. A volte capitava qualche episodio di isteria, ma per fortuna la presenza e il Cosmo della Dea bastavano a calmare e rassicurare gli animi. Ma nessuno di voi era sicuro che sarebbe bastato a lungo.
La fazione dei no odiava ammetterlo, ma aveva bisogno di Astrid. Anche Milo ci stava mettendo un’eternità per recuperarla. Cosa diavolo stava succedendo negli Inferi per tardare tanto? La Guerra non era ancora finita o lei non riusciva a trovare l’uscita?  
Il più impaziente tra voi era proprio Aiolia, mentre, a sorpresa, Milo, quando era sottopressione, sapeva controllarsi molto meglio. Forse girare tanto intorno a Camus doveva avergli lasciato qualcosa. Oppure, Milo sapeva come comportarsi. Tra tutti era quello che si impegnava di più per dimostrare di essere all’altezza della sua Armatura. Ancora più di prima. Soprattutto da quando era stata indossata da Sonia.  
Quella sera voi Gold avevate fatto una riunione strategica per decidere il piano di emergenza. Una riunione strategica sotto le stelle della Sesta, o almeno, ciò che restava delle stelle. Anche quelle stavano scomparendo repentinamente, non solo le costellazioni. Voi stessi cercavate di attingere più energia che potevate dal vostro Cosmo. Era l’unica soluzione che avevate trovato per contrastare questa debolezza.   
La vostra punta, lo sapevate anche voi, era piuttosto debole. E il massimo delle sue tecniche, praticamente era un defibrillatore in confronto a tutte le tecniche in possesso di Odysseus e quelle che poteva sfoderare. Come se non bastasse, Lancelot era ancora con lui.
Forse se l’aveste aiutata tutti voi, qualcosa in più saresti riuscito a fare. Maledisti te stesso per non essere riuscito ad apprendere qualche trucco illusorio in più, che pure non ti aveva salvato da Sorrento. Li avevi completamente accantonati e ora sentivi di aver fatto male.  
«Probabilmente con lo scettro, la Dea sarebbe anche più potente di Odysseus. Lei sa come combatte, lo ha già affrontato». Disse Shiryu. Ed era già qualcosa su cui basarsi.
Saga, in forma di civetta, smise di giocherellare con un sassolino e vi guardò come se lo aveste distolto dai suoi pensieri. Da quando si era purificato aveva ripreso la sua forma animale. Però sembrava molto più tranquillo di prima. «Tu non credi che voglia davvero ritrovare Astrid, eh?» Chiese Shura, appoggiato alla colonna diroccata. Le braccia e le gambe incrociate.

«Già. Non mi posso fidare di quell’uomo, ci tiene tutti in scacco e sapere che Astrid è viva e che appena tornata potrebbe cadere nelle sue mani… no. Non lo posso sopportare». Rispose Aiolia. Sembrava destabilizzato senza l’altro capoccione dello zodiaco. «Perché Milo e Shun ci mettono tanto?» Chiese retorico.
Shura, seduto poco più in basso lo guardò. Anche Shiryu, accomodato accanto a lui sollevò gli occhi ciechi sul vostro compagno del Leone.
«Abbi fiducia, Aiolia, andrà tutto bene». Lo rassicurò il padre di Ryuho di Dragon.
«Ma io ho fiducia in voi». Rispose Aiolia. Ed era noto che fu il primo di voi a riporre fiducia. A te mancava Seiya. Quel ragazzino turbolento ti stava simpatico. Anche adesso che era cresciuto ti dispiaceva non averlo ancora intorno. I loro Cosmi non erano rintracciabili.
«Possiamo solo sperare che sia andato tutto per il verso giusto». 
«Smettetela di essere così pessimisti», vi redarguì Saga, «Siamo Gold Saint, abbiamo affrontato minacce peggiori e, vedrete che riusciremo a compiere il nostro dovere anche stavolta».
Improvvisamente la Meridiana si illuminò e dodici rintocchi suonarono nel Santuario. Scattaste in piedi tutti quanti. «Cosa? Com’è possibile?», «Un’imboscata?», «Ai posti! Tutti ai vostri posti!» Tuonò Saga riprendendo la sua forma umana con un lampo di luce. Un altro lampo e cloth di Gemini già indosso. Scattaste tutti immediatamente. Nel frattempo, grazie a Kiki capiste che si trattava di Lancelot e Odysseus. Quei bastardi non avevano rispettato le loro condizioni. Accidenti, ve lo sareste dovuto aspettare.  
Ma stavolta eravate pronti. In men che non si dica chiudeste la trappola che avevate forgiato con i vostri Cosmi addosso a loro. L’altra volta non avevate avuto piena occasione di sfruttare questo incantesimo lemuriano, ma adesso sì. Addirittura, in questo lasso di tempo, l’avevate pure perfezionato.

“Sì! L’abbiamo preso!”

“Ma allora funziona davvero! Come hai fatto? Dove hai trovato il tempo di perfezionare questa tecnica?” Domandò Aiolia a Kiki, che osservava tutto grazie alla telepatia.
“Mi sono ricordato dell’impresa delle Saintia al Santuario di Eris; solo che non potevo istillarci il potere purificatore della Dea della Luna, perciò ci ho istillato tutte le cose positive che conosco, il mio sangue e, le due Dee l’hanno benedetto con il proprio Cosmo e il proprio Ichor”. Spiegò il giovane Ariete senza staccare gli occhi dal nemico.

L’unica che non esultò fu Shaina, accanto a te, con indosso maschera e cloth. «No, non l’hai preso».
«Che vuoi dire?» Domandasti e la Sacerdotessa-Guerriero, continuando a guardare nella direzione in cui era scomparso il suo predecessore, si portò una mano alla spalla sinistra e la strinse come se, avesse potuto tenere insieme le sue carni. «Lo sento, è ancora vivo».
“É ancora vivo?”, “Com’è possibile?”, “Eppure avrei giurato di averlo colpito”.
«L’avete solo ferito». Ti illuminò Shaina, che accanto a te percepiva tutto tramite il Cosmo. Poi abbandonò la Seconda a grandi balzi, incurante dei tuoi richiami.
Avresti voluto seguirla ma i tuoi compagni ti costrinsero a mantenere la posizione. Così dovesti assistere da lontano, tramite il Cosmo, alla battaglia di Shaina. Lancelot l’aveva affrontata per primo. Dapprima la tua consorte aveva avuto non pochi problemi ad avvicinarsi anche soltanto a Lancelot.
Il quale aveva sorriso dei suoi tentativi e li aveva giudicati patetici. Per quanto avesse provato ad addestrarsi non sarebbe mai riuscita ad avvicinarsi. Anche il suo Thunder Claw non si avvicinava neppure di striscio al volto del Lost Saint.
Ma presto smise di ridere. Per ogni volta che Shaina veniva spedita al tappeto, altrettante si rialzava. Il suo comportamento, a un certo punto, non era più normale. Così almeno lo giudicaste tutti voi. Era ferita ma continuava a rialzarsi con la stessa verve della prima caduta. Neppure Shura, che tante volte si era rialzato, aveva mai conservato lo stesso slancio e lo stesso ardore.
Persino Odysseus, che osservava in disparte, era rimasto colpito.
Voi tutti vi aspettavate, soprattutto da Shiryu in su, che avrebbe ripreso la scalata. Ma il Gold Saint Maledetto non lo fece. Perché? Spirito di cavalleria, forse? Da un lato sperasti che fosse così, dall’altro, sperasti che fosse per via della trappola che gli impediva il passaggio.
Però il Cosmo di Shaina stava diventando sempre più flebile e le Creature si stavano avvicinando. Lo sapevi perché qualcuno urlò: «Le Creature! Arrivano!» Soffocaste un’imprecazione, non ci voleva.
E il Cosmo di Shaina era… Stringesti i pugni. “No, Aldebaran, resta fermo!” Ti ammonì Kiki telepaticamente.
Facile a dirsi per lui. “Capisco quello che provi, ma mantieni la posizione!” Digrignasti i denti e cercasti di ignorare (visto che reprimere non funzionava) il tuo istinto. Volevi correre in suo soccorso.
“Aldebaran!” Ti richiamò Kiki allarmato. E alla fine tu urlasti. «Io non ce la faccio a stare a guardare mentre Shaina soccombe!» E anche tu abbandonasti la posizione, costringendo tutti gli altri Gold a seguirti. Ma a te non importò quasi niente delle loro parole, commenti e ammonimenti. Non potevi permettere che Shaina morisse e non eri sicuro che Odysseus avrebbe rispettato il giuramento di Ippocrate.
Per questo corresti, più rapido che mai da lei e, con un Greath Horn, spazzasti via Lancelot. Il quale si rialzò dalle rocce e rise sguaiato, mentre il sangue gli colava sul mento. «Accidenti, che colpo! Ma non dovresti intrometterti nel bel mezzo di uno scontro, che dirà la Divina Atena se lo scoprisse?»
«Dirà che sono arrivato in aiuto di una mia compagna d’arme!» Ribattesti tu, incrociando le braccia. «Prenditela con qualcuno in grado di affrontarti, Lancelot».
«E quel qualcuno saresti tu? D’accordo, se insisti, ma ti avverto, stavolta non ci saranno scocciatori a interrompere la nostra lotta».
Non replicasti neanche. Semmai ti accigliasti ancor di più. Lancelot attaccò con il Sekishiki Meikai Ha e vi ritrovaste alla Bocca dell’Ade. Il Parco Giochi di Death Mask. Non c’eri mai finito prima ma non vedevi l’ora di andartene da lì. Quel posto era agghiacciante.
Lancelot comparve sopra una collinetta, circondato da una marea di fuochi fatui. Improvvisamente ti mancò il fiato e crollasti in ginocchio. Ti portasti una mano alla gola come se fosse stato sufficiente per liberare le vie respiratorie. Lancelot rise: «In questo posto tu soccombi e io sopravvivo! Qui sono io che ho potere, non tu! Ma non preoccuparti, sarò clemente con te, ti concederò una morte rapida e indolore. Onda infernale dello Tsei She Ke!» Urlò, ma il colpo non arrivò.  
Mentre boccheggiavi vedesti il colpo scontrarsi contro una barriera e dissolversi.
«No! Adesso basta così!» Urlò una voce maschile. Lancelot non aveva fatto i conti senza l’oste. Probabilmente uno degli Specter.
«E voi chi siete?» Chiese Lancelot nel vedere questo civile. Anche tu eri sorpreso, eri sicuro che solo i Saint del Cancro e gli Specter potessero sopravvivere a questi luoghi. Che stava succedendo?
«Io sono un negromante, uno dei tanti dell’Armata di Death Mask del Cancro». Fece il ragazzo facendo sgranare gli occhi a entrambi, persino quello ferito di Lancelot. «Negromante? No, è uno scherzo».
Ma aveva risvegliato l’Ottavo Senso per riuscirci? Tu stesso avevi dei problemi a stare qui, ma loro? Loro neanche avevano il tuo Cosmo o la tua Cloth. Ti preoccupasti soprattutto per gli anziani.
Ma lo studente era serio. Schioccò le dita e i fuochi fatui che, finora avevano combattuto per il tuo avversario si fermarono. Quello sapeva usare la magia? Al suo fianco comparvero dei nonni con il deambulatore e il respiratore. No, dai, avevi sicuramente preso una botta in testa. «Non potete venire qui a sconvolgere gli inferi dopo quello che abbiamo fatto!» Sbottò.
Lancelot scoppiò a ridere, sguaiato.
«Vi rimanderemo da dove siete venuti». Dichiarò il ragazzo, convinto, mentre tutti loro concentravano i loro poteri. «Ma prego, fate pure!» Li invitò Lancelot aprendo le braccia, per dimostrare loro non potevano niente contro di lui. E l’onda di energia vi investì. E vi ritrovaste bocconi al punto di partenza al Santuario. Con grande sorpresa del tuo avversario.
«Toglietevi!» Urlò la voce di Shura ed entrambi trasaliste. Ti girasti a guardare e vedesti tua moglie.
Cingeva il collo di Shura con un braccio e sembrava svenuta. La chiamasti e lei mosse la testa verso di te. «Aldebaran!» Shaina cercò di raggiungerlo ma vacillò e Shura la sorresse. Ti rialzasti e corresti al loro fianco.
Proprio allora ti accorgesti di un altro Cosmo in avvicinamento: il Venerabile Shion.
«Arretrate immediatamente». E voi tre obbediste.
«Shion». Salutò Odysseus, pacato. «Allora non hai ancora imparato niente?» Domandò con un mezzo sorriso di scherno. «Al contrario, maestro, ho imparato molte cose in questi anni».
«E pensi che basteranno contro di me?»
«Non lo so, so soltanto che non mi arrenderò tanto facilmente».
«Se ne sei convinto tu, allora va bene».    
Il Venerabile alzò le braccia al cielo per lanciare il suo attacco più potente: «Questo andrà a rafforzare l’incantesimo di luce!» Esclamò il Venerabile prima di lanciare lo Starlight Extintion assieme allo spirito di luce a forma di Serpentario. Contrariamente a quanto vi aspettaste, però, la tecnica fu incanalata dal talismano e andò effettivamente a rinforzare le maglie della rete che avevate creato tempo prima, adesso riunite grazie ai fermagli e ai disegni realizzati dal più giovane Aries, costringendo Lancelot ad arretrare. Poi ti passò Shaina per avere entrambe le braccia libere.
«Ah, volete regolare i conti, mio re?» Lo canzonò Lancelot a gran voce mentre vi allontanavate.
«No, per me la cosa può finire anche qui. Sono qui per aiutare i miei amici». Dichiarò Shura. Lancelot arricciò il labbro insoddisfatto. Mosse la testa di lato e poi rise: «Bè, mio re, chi sono io per mettervi contro di voi? Fate pure, se è questo che volete».
«A che gioco stai giocando, Lancelot?»
«Io a nessuno, semmai siete voi che siete saltati alle conclusioni sbagliate».
«Cosa significa?» Chiese Shura ma la tua voce sovrastò la sua, ma solo perché era più grave: «Che significano queste parole? Ti aspetti che ci crediamo? Dovrai passare sul mio cadavere prima di torcere un capello a Yoshino».
«Non farei mai una cosa del genere. Io sono un servitore fedele di Miss Yoshino e Miss Tomoe».    
«Sta dicendo la verità». Decretò Shura e tu lo guardasti sbalordito. Shura era accigliato. Non si fidava di Lancelot. Ma lui sapeva riconoscere le bugie quando le sentiva, non avevi motivo di non fidarti del suo giudizio.

«Cosa significa? Che sta dicendo?»

Ma non aveste il tempo di dirglielo che a quel punto, anche la Dea comparve accanto a voi. Arma

La Dea chiamò a sé uno scettro con quattro ali e proclamare: «Odysseus, sei stato tra i Vivi troppo a lungo, mi piange il cuore vedere che la tua anima non ha ancora trovato il riposo che si merita». Impugnò lo scettro e, alzando la voce, lo puntò verso di lui: «Torna alla tua tomba!» Prima di scagliargli i fulmini di Nike anche se il Tredicesimo Cavaliere li evitò tutti.
Quando i fulmini cessarono, Odysseus aprì di nuovo gli occhi e sorrise: «Mi costringete a usare le mie tecniche, Signora». Materializzò il bastone di Asclepio e lo piantò in terra

«Pensi veramente che una cosa del genere possa sconfiggermi?» Domandò beffardo Lancelot.
La proiezione nel Cosmo di Kiki si limitò ad assottigliare ancor di più gli occhi. «Credi seriamente di potermi sconfiggere così?»
“Non lo credo, lo penso.” Ribatté il giovane, sicuro delle proprie possibilità, facendo spalancare gli occhi a Lancelot per la sorpresa. Poi il Gold Saint dell’altra dimensione scoppiò a ridere sguaiatamente.
“Ora!” Esclamò Kiki nelle vostre menti.
E, tutti i possessori di un talismano alzarono in aria il proprio ciondolo. Lo capisti da come miriadi di luci dorate balenarono su Rodorio e sul Grande Tempio e attorno a voi.
A quel punto ti strappasti il monile dal collo e alzasti in aria il ciondolo che ti aveva dato Kiki e in esso infondesti il tuo Cosmo. L’oggettino tra le tue dita risplendette come un sole e poi, la luce assunse la forma di un grosso uccello rapace dalle zampe lunghe che, aprì il becco e agitò le ali prima di scagliarsi addosso a Odysseus. Il quale ben presto si ritrovò a cercare di proteggersi la testa con le mani nonostante l’Armatura. 
Poi Kiki spalancò le braccia e urlò: «Starlight Extintion!» rilasciando una quantità spropositata di Cosmo che colpì in pieno il maestro della giovane defunta. 

«Che prodigio è mai questo? Supera in potenza persino l’Atena Exclamation!» Esclamò Odysseus sgranando gli occhi, per la prima volta stupito e sconcertato, rialzandosi da terra. Ma non era ancora finita perché tutti i Cosmi che fin lì si erano manifestati in forma totemica di uccello segretario, si unirono allo Starlight Extintion del Custode della Prima Casa, aumentando esponenzialmente la potenza del colpo. “Questo è lo Zodiaco Clamation”, rispose Kiki, che, finora, levitando grazie alla telecinesi, aveva tenuto le braccia in alto, per abbassarle di colpo su Odysseus nel proferire le ultime parole e, lo Spirito Guerriero risplendette di luce ancora più fulgida prima di gettarsi addosso al Cavaliere Maledetto.
In quel momento comprendesti il vero piano di Kiki: non sarebbe stata Astrid a sconfiggere Odysseus, ma sarebbe stato lui.

Il tredicesimo Cavaliere curvò la bocca in un mezzo sorriso sarcastico prima di utilizzare le: «Onde di Guarigione!»
«Eh, no, non ti lascerò scappare! Glorious Horn!» Urlasti partendo al contrattacco. Tendesti repentinamente le mani verso di lui, come a spingerlo indietro e, gli scagliasti il tuo colpo, riducendolo in polvere, salvo poi scoprire che aveva evitato il tuo colpo. Ma la distrazione fu sufficiente perché udiste lo stridio assordante da uccello rapace che prese la forma di una figura femminile con attributi rapaci. Una cresta di penne dietro la testa, braccia e ali che erano un tutt’uno come un’arpia, una coda e piume che s’innalzava alta sopra tutti voi sfruttando il vostro Cosmo e il potere delle vostre Cloth.  
Ma anche di fronte a questo miracolo, Odysseus non arretrò. Dietro di lui si sollevò la figura di un Ophiuchus molto simile al Buddha Naga armato di bastone che si scagliò addosso al vostro. «Credete forse di spaventarmi con un trucco del Continente Mu? Pensate forse che io non conosca la leggenda delle Forze Contrapposte?» Domandò e la voce di Kiki risuonò tutt’attorno a voi come se fosse il Cosmo stesso a parlare: “Non importa cosa credete o no, ma non vi permetteremo di avanzare oltre! Nessuno lo permetterà!” Poi, tutti insieme guidati dal carisma e la volontà del giovane Ariete, uniste i vostri Cosmi e i vostri attacchi in una versione tutta nuova dello Zodiaco Clamation di Regulus di Leo. E Odysseus sarà anche stato potente quanto gli pareva, però niente avrebbe potuto contro tutto il Santuario, non solo i Cavalieri d’Oro. Stavolta gli avreste dimostrato che, nonostante tutto ciò che rappresentava e paventava, se voi tutti decidevate di combattere come un sol uomo, non avrebbe avuto scampo.
Lo Spirito Guerriero spalancò la bocca in un grido muto. 
Odysseus neanche la guardò, sicuro che ne sarebbe uscito vincitore con la sola imposizione del suo bastone, ma si sbagliò.
Perché Atena infuse anche il proprio Cosmo nella Creatura Dorata evocata da Kiki e dagli altri Lemuriani. Costringendo così Odysseus a strabuzzare gli occhi e guardare la Dea che, sulle scale della Nona, puntava contro di lui il bastone con le quattro ali. Come a indicare allo Spirito la via.
I due Spiriti si incontrarono e cominciarono a lottare senza esclusione di colpi. Ogni colpo sferrato provocava un lampo di luce e uno spostamento d’aria che spazzava via la polvere, sventagliava vesti e chiome e costringeva a socchiudere gli occhi. 
E, ben presto, Odysseus si ritrovò in seria difficoltà.
«Com’è possibile? Quello non è lo scettro di Nike eppure il mio potere sta venendo meno!» Così, mentre Odysseus cercava di opporgli tutte le tecniche che conosceva, Shaina trovò la forza di rialzarsi e rispondere, seppure con voce stentorea a causa delle ferite. 

«Non hai capito, Odysseus, Atena non ha mai riposto ogni sua speranza nello Scettro di Nike!» Esclamò Shaina rialzandosi, tenendosi la spalla ferita con una mano. Barcollò un momento ma ritrovò subito la stabilità: «É sempre stato su di noi che la Divina ha fatto affidamento e io combatterò, finché avrò solo un alito di vita in corpo!» Dichiarò tua moglie, tendendo le mani verso di lui. Il Cosmo d’Argento ribollente di nuova energia.
Odysseus osservò questo miracolo vagamente stupito e, si ritrovò ad arretrare per non essere colpito dai raggi di luce della barriera. «Non scappare, Odysseus!» Urlò Shaina, che si era ripresa un po’, prima di gettarsi di nuovo all’attacco con il Thunder Claw, unendolo allo Zodiaco Clamation del Santuario. E, con un grido, artigli sguainati, si lanciò addosso al suo predecessore.   

Proprio in quel momento ti accorgesti delle Creature che si lanciavano in caduta libera sul Santuario. Le mani grigie e artigliate tese verso di voi. Istintivamente voi tutti vi riparaste alzando le braccia. Almeno quelli che poterono, altri urlarono e gridarono abbandonando la posizione. Improvvisamente attorno a voi si sollevò un refolo di vento che andò a contrapporsi alla corrente fredda smossa dagli esseri. Non ebbero neanche il tempo di toccarvi che si arrestarono di colpo, come spaventate.
Che cosa stava succedendo? Che fosse merito dello Zodiaco Clamation? Ti domandasti, salvo poi risponderti che era impossibile, dal momento che era fatto di Cosmo. I vostri Cosmi erano  la ragione principale per cui loro vi braccavano.  

Una figura atterrò accanto a te e tu volgesti il capo verso il nuovo arrivato che, con la sua sola presenza, allontanò da te ben tre Creature: «Sirrah!» Esclamasti riconoscendo quella chioma color salmone.
Lui ti sorrise: «Terrò io a bada le Creature! Voi combattete!» Esclamò, prima di saltare tra le rocce e scomparire alla velocità della luce, lasciando dietro di sé una scia come di un fulmine dorato.  

“Forza, concentrate tutte le vostre preghiere sullo Spirito!” Vi spronò Kiki e voi tutti obbediste. Un fenomeno simile l’avevate già riscontrato ad Asgard, ma allora il fulcro di tanta speranza eravate voi dodici. Adesso faceva un po’strano non esserlo e non sentire soltanto la speranza, ma anche il coraggio e la sete di vittoria.
La vostra energia crebbe fino a sopraffare l’attacco di Odysseus. Lo Spirito e Shaina infransero la presa del Naga e travolse Odysseus con un lampo di luce che vi costrinse a chiudere gli occhi.
Quando li riapristi, il Cosmo di Odysseus era scomparso e Shaina era in ginocchio che ansimava rumorosamente, provata per lo sforzo. La Silver Cloth ridotta a pezzi per lo sforzo.
La chiamasti e la raggiungesti appena prima che svenisse. Anche se non aveva raggiunto il Settimo Senso, i suoi sforzi erano encomiabili.
“La forza del Santuario mi ha sorpreso molto, per cui voglio fare una cosa per voi”, disse Odysseus, “Userò le Onde di Guarigione su di voi, sicché al prossimo scontro potrete combattere al massimo delle vostre potenzialità”.

«Perché lo fai?» Urlasti al Saint e, ti parve di percepire il suo sorriso, prima di risponderti, ad alta voce: «Perché sono un medico, ed è mio dovere curare le persone». Spiegò prima di scomparire di nuovo, lasciando qui Lancelot.

 

Hyoga

Tu non avevi avuto la stessa fortuna di Seiya. A dir la verità non avevi neanche idea se il rito avesse funzionato o meno e, da quanto tempo fossi lì.
Avevi solo brancolato nel buio per un tempo che ti era parso infinito, con l’unica compagnia della tua voce. Era come se la Cloth di Sagitter e del Cigno si rifiutassero di parlarti. «Ho forse sbagliato qualcosa nel procedimento?» Ti interrogasti. Era la terza volta che te lo chiedevi. Ripassasti tutti i punti. Eppure li avevi osservati quasi alla lettera. Forse non ti eri concentrato abbastanza? “Non è questo il problema” disse all’improvviso una voce, che sembrava quella di un Dio. Una voce così potente che ti immobilizzasti di colpo.


«Che cosa hai sognato?» Ti domandò una giovane bionda con gli occhi azzurri che riconoscesti come la giovane Natassia di Bluegrad.
«Principessa Natassia?» Esclamasti sorpreso riconoscendola.
«Cavaliere del Cigno, che sorpresa rivedervi qui». Sorrise lei. Non l’avevi mai vista sorridere prima. Quindi se lei era qui c’era anche Yakov? Ti guardasti attorno e lo cercasti con lo sguardo ma non lo trovasti.
La principessa di Bluegrad si scusò dicendo che non c’era tempo e ti portò rapidamente dal tuo secondo accompagnatore.  
«Signor Degel, eccolo, ve l’ho portato!» Esclamò la giovane e il Gold Saint di Aquarius si girò verso di te. E tu restasti di stucco nel vederlo. Se non fosse stato per gli occhiali e il colore verdognolo della sua chioma, avresti giurato che fosse Camus. Ma come era possibile? Era un trucco? Chi era costui? Tu ricordavi di Mistoria di Aquarius, eppure anche questo era un tuo predecessore. Non ti eri mai particolarmente informato sui tuoi predecessori, perché la conquista della Cloth che un tempo fu del tuo maestro era stata improvvisa. E, dopo avevi maturato la decisione che non t’importava a chi fosse appartenuta prima di te, adesso eri tu il Gold Saint di Aquarius.
«Ben fatto, Lady Natassia».
«Chi sei tu?»
«Io sono Degel di Aquarius, Cavaliere di Atena del Millesettecento». Si presentò.
Facesti la spola con lo sguardo tra l’uno e l’altra, poi dicesti: «No, mi state prendendo in giro tutti e due, non può essere».
«Perché dite questo?»
«Perché il Cavaliere di Aquarius del Millesettecento è Mistoria di Aquarius, non ho mai sentito parlare di voi da nessuna parte. Che fine ha fatto il Gold Saint che conosco io?».
«Non ho idea di cosa stiate parlando, giovane Aquarius, non ho mai sentito parlare di questo Mistoria da nessuna parte. Non so bene neanch’io perché mi trovi qui. L’ultima cosa che mi ricordo era che stavo leggendo un libro. Tuttavia non saprei dire se mi sia addormentato o no, perché quando mi sono svegliato, mi sono trovato in compagnia della principessa di Bluegrad del XX secolo e di una giovane dai capelli neri che si è separata da noi».
«Separata? E dove è andata?» Chiedesti.
«Ha detto che ce ne era un altro e che doveva cercare Pegasus».
«Perché? Vuole forse fargli del male?»
«No, non sembrava. Ad ogni modo non possiamo raggiungerla».
«Cosa? Perché?»
«Non possiamo percepire il suo Cosmo e, non credo che ci sia concesso di deviare dal percorso». 
Ma che avevano in comune queste persone? Il tuo predecessore e forse precedente incarnazione del tuo maestro, sembrava essere legato in qualche modo a Bluegrad come te. Ma la terza persona di cui parlavano che legame aveva con Seiya?
«Perché vi angustiate tanto per il Primo Cavaliere della Dea?» Chiese poi, incuriosito l’Aquarius dai capelli verdi.
«Perché siamo partiti insieme, non vorrei che gli fosse successo qualcosa». Rispondesti. Il tuo predecessore annuì. «Comprendo, ma dovreste avere più fiducia nel Saint di Pegasus, i portatori di quella Cloth sono famosi per la loro forza e la loro resistenza. Sono sicuro che se la saprà cavare benissimo anche da solo». Cercò di rassicurarti e tu replicasti il suo cenno, sperando che avesse ragione. “Sì, in fondo Seiya non è uno sprovveduto” pensasti.
«Comunque sia non è prudente restare qui, dobbiamo trovare una via d’uscita e al più presto».
«Aspettate, io sono venuto qui per cercare una cosa che ha perso Atena, la Bronze Saint di Horologium mi ha ingannato?» Domandasti.
«Non credo, è più probabile che si sia sbagliata». Ribatté il giovane. Poi ti invitò a venire con lui. «Visto che siamo qui, non ci resta che aiutarvi ad andarvene». Disse e tu, decidesti di seguirlo. Non ti fidavi di lui, però ti fidavi di cosa sarebbe successo se lui avesse deciso di tradirti.  

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Il Cacciatore di Serpenti ***


Il Cacciatore di Serpenti



 

Death Mask
Le informazioni che avevate raccolto non vi piacevano. A te meno di tutti, già eri il Cavaliere d’Oro più debole, sapere che il Guardiano della Casa di Marte era a piede libero non ti faceva piacere. Ancora meno apprendere dell’esistenza della figlia del suddetto Guardiano e tutto quello che era successo. La storia delle sue tecniche e poteri aveva fatto tremare i polsi a Milo. Per quel poco che ti era mai fregato, non ricordavi di averlo mai visto così pallido e spaventato. Aveva raggiunto lo stesso grado di pallore di Astrid.
Era come durante l’invasione dei Senza Volto scappati dalla Quarta.

Stavi passeggiando per gli Inferi, vicino all’accampamento celtico. Gli Specter vi avevano lasciati liberi di gironzolare, soprattutto tu, che, in quanto Saint del Cancro, eri quasi utile. Soprattutto per stanare eventuali Black Saint o anime fuggiasche. Non te l’aveva chiesto nessuno, in realtà, però ti annoiavi tanto al punto di accontentarti anche di questo. «Che rogna. Non c’è neanche un bar dove svagarsi!» Esclamasti dopo un lungo verso di stizza. Quasi rimpiangevi la compagnia di Cherie. Che avevi lasciato con il tuo maestro.
«Se ti annoi tanto, allora potresti fare quattro chiacchiere con me». Propose una profonda voce maschile in alto a destra, di poco più squillante di quella di Shura. Ti immobilizzasti di colpo per lo spavento, spalancando di poco gli occhi. Sollevasti la testa nella direzione da cui era piovuta quella proposta e lo vedesti.

Appollaiato sulla roccia, seduto a gambe accavallate, c’era un giovane. Era più vecchio di te di pochi anni, probabilmente era sui ventotto. Sorprendentemente era più esile di te ma al tempo stesso aveva il fisico più sviluppato di quello di Camus, che spesso avevi canzonato tra te, chiamandolo elfo.
Aveva la pelle abbronzata e una bella faccia ovale molto espressiva. Era un tipo che sorrideva spesso, lo vedevi dalle fossette e da come s’increspavano i suoi tratti. Anche se il suo sorriso smagliante era il garbato sorriso di un predatore che non lascia scampo alle sue vittime. E si divertisse a farne scempio.
Tipi così li odiavi. Almeno tu avevi la decenza di finirli in fretta e senza spargimenti di sangue.
Non eri mai stato religioso e non avevi mai creduto alle stronzate sul Bene e il Male che ti propinavano in Chiesa da bambini. Ma a vedere costui, non avesti alcun dubbio a classificarlo come folle e maligno.
Poveraccio, stava mettendosi nei guai a venire a rompere le scatole a te.   
Purtroppo, a causa dell’altezza, non riuscisti a vederne gli occhi. Gli scompigliati capelli castani scuri gettavano un’ombra sugli occhi e ai lati dei medesimi. Non avresti saputo dire però se fossero scompigliati di loro o se usasse il gel. Anche tu lo usavi, però non così. Quella pettinatura, conferiva alla sua faccia la bizzarra forma di un cuore spigoloso, affilando ancor più quei tratti. Il mento era piatto, come se a quel cuore avessero tagliato la sua punta. Se si fosse lasciato crescere un pizzetto, probabilmente ci sarebbe somigliato ancor di più. Le guance erano scavate.  
Tuttavia a stupirti e confonderti ancora di più, furono il suo abbigliamento e l’arma di piatto sulle sue gambe. Indossava un candido gilet senza maniche lungo fino alle ginocchia bordato d’oro e pantaloni larghi e bianchi con stivali marroni. Tutto quel bianco faceva contrasto con la pelle più scura. Al collo era drappeggiata una sciarpa candida e vaporosa come una nuvola. Anzi, a dirla tutta, sembrava così morbida che sembrava indossare veramente una nuvola. I lembi lunghi ricadevano sulle sue spalle, facevano il giro sulla schiena, per ritornare ai lati della roccia, accanto ai bordi del gilet. Non portava una maglia e tu avevi la visuale del suo fisico allenato. Alle braccia portava dei bracciali d’oro di foggia antico egizia e un sottile braccialetto al polso sinistro. Con la mano sinistra si sosteneva la testa. La sua fronte era cinta da una sottile tenia dorata che attenuava l’oscurità della sua frangia. Guardando il posto non ti saresti affatto sorpreso se fosse un guerriero a sua volta.
A suggerirti che fosse un guerriero, fu la sua arma, adagiata sulle sue gambe accavallate celate dai larghi, comodi pantaloni infilati negli stivali marroni alti al ginocchio. Lui si accorse del tuo turbamento e ti chiese, inarcando le sopracciglia in una smorfia di falso stupore: «Ti è già passata la voglia di chiacchierare? Non mi chiedi chi sono?» Continuò. 
Ti voltasti completamente verso di lui, sicché foste faccia a faccia. Ignorasti la sensazione che ti gridava di arretrare e scappare via. Non saresti stato un Saint se l’avessi fatto, ma saresti stato umano. E questo tendevi a dimenticartelo abbastanza spesso. «Perché, dovrei averne? Ma sarebbe meglio che tu scendessi prima di farmi venire un torcicollo». Avevi fatto del tuo meglio per trattenere la tua linguaccia, anche se avresti voluto investirlo con una vagonata di insulti. Eppure il tuo istinto ti suggeriva di cercare di essere il più rispettoso possibile. E non era per via dell’arma.
«Hai ragione, in effetti è vero, è piuttosto scomodo per te parlarmi così». Ammise e scese dalla roccia con un balzo. «Così va meglio, no?» Dèi, quanto avresti voluto strappargli via quel sorriso idiota.
Sorridesti a tua volta, falso come un serpente: «Decisamente». Così potesti appurare l’effettiva grandezza della sua arma e che i pantaloni erano tenuti su da una fascia d’oro che faceva il paio con i gioielli e la tenia.  
Solo allora, a un metro e mezzo di distanza, ti accorgesti che i suoi occhi avevano un taglio trapezoidale e che il suo sguardo era ancora più perfido di quello che pensavi. Le sue sopracciglia dritte erano inclinate verso il basso. Nonostante il dolce castano chiaro che virava sul giallo, come certi alcolici che ti piacevano, delle iridi. Una parte di te tirò un sospiro di sollievo: dovevi esserti immaginato chissà che. Al confronto, persino il vero colore delle tue iridi era più inquietante. Eppure l’impressione di essere squadrato da una belva feroce non diminuì. Sembrava il tipo di persona capace di ridere a crepapelle mentre fa una strage. E, questo, tu non l’avevi mai fatto. Avevi riso, ma non per le tue gesta, bensì per la vittoria, ti eri vantato, ma solo per incutere timore. Come quando incontrasti Elda di Cassiopea o Shiryu di Dragon per la prima volta. Assassino sì, sadico pure, folle anche, ma non così. Questo sconosciuto era su un livello superiore che non ci tenevi per niente a raggiungere. Quelli erano gli occhi di un mostro, qualcosa di inumano infilato in un corpo umano.
Il suo fascino era maligno, completamente diverso dal tuo. Il suo era una trappola per le vittime.
Il tuo corpo l’aveva capito prima di te, mandandoti tutti quei segnali di pericolo che stavi ignorando.
Ma se tu cercasti di ignorarli, non sfuggirono al tuo interlocutore, che adesso sorrideva affilato.   «Bell’alabarda». Ti complimentasti, mentre osservavi il gingillo. Non era un’arma qualsiasi.. Era un’alabarda montata su un manico nero che gli arrivava all’altezza della gola, senza contare l’affilato zaffiro romboidale, lungo trenta centimetri, fissato al manico da due anelli d’oro, che faceva da pomolo. La parte metallica cominciava dalla gola in poi dell’uomo. Lì, fissati da due anelli uno sopra l’latro, il manico era rivestito d’oro. Trenta centimetri più sopra, c’era l’attaccatura dell’alabarda. Questa ricordava molto una lancia medievale, con due code affilate e la punta allungata come certe punte natalizie che avevi visto a giro.    
Ai lati della punta, come se partissero proprio dalle code, si aprivano le due lame dell’alabarda. Venti centimetri più su, altre due punte tendevano verso l’alto aprendosi a V.
Le lame erano asimmetriche, nonostante che condividessero la stessa ampiezza dell’attaccatura, e una delle due era più corta dell’altra. Ma non per questo meno affilata.
L’ascia principale era molto più grande e lunga di quella secondaria e dava l’idea di essere sbilanciata. L’altra era più piccola, probabilmente gli arrivava all’altezza del ginocchio. Entrambe le lame erano decorate con uno zaffiro rotondo da cui si dipanavano quattro fili d’oro che, a coppie di due, rifinivano i bordi e i due più interni. Come rette parallele distanti otto centimetri l’una dall’altra, si riunivano agli esterni, chiudendoli in una L leggermente ricurva. Sulle punte delle lame dolcemente incurvate come ventagli, erano fissati due zaffiri tagliati a goccia.     
Intuivi che non era un’arma normale. Forse era come le spade dei gladiatori di Miss Tomoe. Eppure era bellissima. Non avevi mai visto prima un’arma così. Forse era preziosa quanto le vostre Cloth.
Il nuovo arrivato ignorò il complimento e ti rassicurò, con voce melliflua: «Rilassati, non intendo farti niente di male». Ma tu non ti fidasti. Perché avresti dovuto? Non eri mica nato ieri.
Parlava in greco antico, ma la sua voce tradiva un accento diverso da quelli che conoscevi.   
«Chi sei? Perché ti sei fatto tutta questa strada per venire a parlare con me?» Chiedesti, cercando di non sbottare.
«Il mio nome è LaFerain e vengo dall’Inferno». Si presentò, ma a te questa presentazione disse poco o niente. A essere brutalmente onesti, non l’avevi mai sentito nominare. Avevi affrontato di peggio e, malgrado tutto, questo non sembrava neanche un granché. Probabilmente era il classico tipo tutto fumo e niente arrosto che cerca di fare la voce grossa. «Tu invece sei Death Mask del Cancro». Continuò senza darti il tempo di parlare.
“Ma bene, il diavolo ha fatto i compiti. Questo rende lo scontro ancora più interessante”, pensasti. Ma anche tu avevi fatto i compiti. Qualcosa sulla superstizione popolare e dai film sugli esorcisti e sul diavolo avevi appreso.
Tornasti a coprirlo degli insulti che la tua bocca taceva, piegata nel ghigno orgoglioso che ostentavi. Se possibile, il suo si ampliò ancora di più.
Non riuscivi a classificare questa specie di essere. Era un demone, ma era completamente diverso da quelli che avevi affrontato quando avevi risolto il casino dei Senza Volto. «Ah, non c’è bisogno di essere tanto formali, Death Mask, io leggo nella tua anima, sono perfettamente capace di sentire tutto ciò che provi e pensi».  
Meglio, non era nelle tue corde essere rispettoso. Se avessi potuto metterti le mani in tasca l’avresti fatto, sfortunatamente la Cloth te lo impediva. E tu, non avevi affatto paura dell’Inferno, c’eri già stato. «Quand’è così, che cazzo vuole un sudicio demone da me? Perché ti sei scomodato tanto per raggiungere gli Inferi quando ti sarebbe bastato venirmi a trovare molto prima, come l’altra feccia della tua razza?» Domandasti, completamente a tuo agio.
Il suo volto sarebbe stato benissimo tra quelli della Quarta. Non avevi mai avuto un demone a ornare quelle pareti. Era da un po’ che non lo facevi, chissà se ne eri ancora in grado?
Amore quanto ti pare, redento quanto vuoi, ma la tua vera natura non si poteva cambiare. Tu eri stato forgiato dall’odio e dalla disperazione. Non avevi bisogno di essere amato da tutti, alcuni potevano tranquillamente odiarti, ti facilitavano solo il compito di ucciderli. 
Ti erano sempre stati qui gli arroganti e questo diavoletto qua aveva tanto bisogno di essere rimesso in riga. A vederlo non sembrava tanto potente. Il tuo dito sarebbe stato più che sufficiente per rimandarlo a casa dal Suo sovrano. Ma non potevate permettervi anche una Guerra Sacra contro l’Inferno di Lucifero.
Mentre immaginavi i modi più cruenti per ammazzarlo ti parve di avere a che fare con un tuo simile e ciò te lo rese ancora più odioso. Soprattutto quando sorrise di nuovo, soddisfatto. Avresti voluto leggergli nel pensiero ma non ti interessava abbassarti al suo livello.
Lui esultò, pienamente soddisfatto: «Ah, sì, sì, sì! Sì! Finalmente! Questo è il vero Death Mask! Il potente, letale, spietato Death Mask!» Fece spalancando le braccia un momento, per poi lasciarle ricadere lungo i fianchi. A parte quella che reggeva l’alabarda. «Devo dirtelo preferisco l’onestà all’ipocrisia, anche se, a quanto ho capito, tu sei anche questo!» Ti punzecchiò facendoti sentire sgradevolmente più marcio del normale.
Ti accigliasti. «Bada a come parli». Lo minacciasti, offeso. 
«D’accordo, lo terrò a mente, non c’è bisogno di scaldarsi tanto». Scherzò, fingendo uno spavento che non provava per nulla.
Questa conversazione stava cominciando a infastidirti e anche parecchio: «Non amo tergiversare, vuota il sacco, che cosa vuoi da me?»
«Volevo solo conoscerti».
«Perché? Che cosa ci guadagni?» “A parte un biglietto di sola andata per l’arredamento della Quarta?”
Lui smise di sorridere e si avvicinò di un passo per sussurrarti: «La faccia di quello che ha ammazzato i demoni che stavano cercando di scappare dall’Inferno quattro anni fa».
«Ah, quelli, non c’è di che».
«Non ho mai detto che ti volevo ringraziare». Puntualizzò l’altro, trapassandoti con lo sguardo, arretrando di un passo, restituendoti il tuo spazio vitale. Un minaccioso lampo giallo illuminò i suoi occhi per un istante. Ti guardò a lungo, poi scosse leggermente il capo e smise di sorridere. Il suo volto si oscurò e sibilò di nuovo, serio: «Se non fossi sotto la protezione di Asia te l’avrei già fatta pagare per la tua intromissione».
«Asia? Non conosco nessuno con questo nome e…» Ti interrompesti di colpo: in realtà sì, c’era qualcuno che conoscevi. Camus aveva nominato una certa Asia, la scribacchina dietro la quale si era perso Shaka. No, dai, non poteva essere! Cioè, quante probabilità c’erano che si stesse riferendo alla stessa persona? Però se la conosceva o era uno dei suoi nemici oppure era… Lo guardasti sconvolto, tutta la baldanza finora dimostrata andò a farsi benedire, neanche fosse passata la papera artica. Il tuo sorriso cancellato.
«Vedo che hai capito; non pensavo che ci saresti arrivato così presto». Commentò l’altro, con aria compiaciuta. A quel punto fu il tuo turno di arretrare di un passo, mentre LaFerain - giusto? - continuava: «Sì, sono l’Azone al servizio di Lucifero e per colpa tua l’Inferno è nei guai con l’Inferno Giapponese».
Ti riprendesti per ribattere: «E allora? Avevano sconfinato nel mio territorio, a me non me ne importa da dove provengano, li faccio fuori lo stesso».
«E i casini diplomatici li lasci a noi, vero? Dopo tutta la fatica che ho fatto per venire a cercarti? Sai quanta fatica ho fatto per convincere i miei colleghi a incontrarti? Ah, ma stavolta non andrà così, caro mio. Non te la farò passare liscia». Dichiarò. Il sorriso completamente scomparso.             
«Provaci. Azone o no, non esiterò a staccarti le mani e farti a pezzi».
Lui alzò le sopracciglia un momento e annuì, curvando gli angoli della bocca in un sorriso ironico. «Come se i tuoi colpi potessero qualcosa contro di me. Non ti preoccupare, non ho intenzione di farti alcunché; non mi è permesso, anche se lo vorrei davvero, tu non hai idea di quanto lo vorrei. Ma mi accontento di guardarti e basta». Poi sollevò l’indice della mano libera, mosse un dito e sentisti un bruciore diffondersi a macchia d’olio sul tuo bicipite destro. Istintivamente te lo premesti con l’altra mano e gemesti di dolore. Non avevi mai provato niente di simile, neanche in Sicilia.
Boccheggiasti per la sofferenza, gli occhi colmi di lacrime, mentre l’altro rideva malvagio.
Ti scopristi il braccio con mano tremante e vedesti un tatuaggio a forma di leone rampante coronato. Poi guardasti lui. Non ti eri accorto di essere caduto in ginocchio a causa del dolore: «Che minchia mi hai fatto? Che diavolo è questa roba? Che cazzo vuoi? Toglimelo immediatamente o ti spacco la faccia!»
«Quello è il mio marchio, scusa, ma i tre graffi satanici per me sono demodé, mi piacciono di più le cose elaborate. Quando lo sentirai bruciare significa che avrò bisogno di te e tu verrai da me, perché soltanto io posso spegnerlo e togliertelo. Più lo ignorerai, più ti farà male e scaverà nelle tue carni, se cercherai di toglierlo sappi che danneggerai solo la tua pelle e ti scaverai nel tuo stesso braccio».
«Tu, maledetto! Schifoso bastardo! Avevi detto che non potevi toccarmi, che sono sotto la protezione di Lady Asia!» Urlasti, scosso dalla rabbia, che non avevi mai sentito divampare come in questo momento.
Lui continuò a oscillare la testa su e giù e fece, in tono carezzevole: «Oh, sì, a cose normali non posso toccarti fisicamente né interferire con la tua storia e quella del Santuario, peccato che non siano circostanze normali e che Asia mi abbia dato il permesso. Tranquillo, non voglio ucciderti, ci servi vivo» disse in tono lugubre «e lei non mi perdonerebbe mai se uno di noi ti ammazzasse.» dopodiché si avvicinò e ti dette un buffetto amichevole sulla guancia; «Risparmia le energie, mio focoso Gold Saint, ne avrai bisogno». Ti suggerì in tono più basso, chinandosi leggermente, «LaFerain, bastardo…» Ringhiasti con voce fremente per la rabbia. Mai odiato tanto qualcuno come adesso in vita tua.
Si raddrizzò, rise sguaiato e si dissolse senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio. «LaFerain!» Ruggisti e le rocce circostanti ti restituirono l’eco del tuo urlo. «Death Mask!»
Sussultasti e girasti la testa sopra una spalla. Dietro di te c’era Milo che ti guardava con due occhi grandi così. Probabilmente era venuto a cercarti.
«Se ci tieni alla tua vita, vattene». Lo minacciasti. Ma lui non si lasciò impressionare. Tu non avresti mai ammazzato uno dei tuoi colleghi Gold. O almeno, il pensiero non ti aveva mai sfiorato. Si avvicinò: «Ma non dire stupidaggini, ti ho cercato dappertutto». Ti porse la mano per aiutarti a rialzarti, ma tu la scostasti con un gesto sgarbato e facesti da te. Milo non se la prese, ti conosceva abbastanza per roteare gli occhi al cielo e ignorarti, come tutti al Santuario. La tua perfidia era leggendaria, sì come la tua cattiveria. «Va bene, ce la fai ad alzarti?»
«Sì, sì».
«So già che non me lo dirai però te lo chiedo lo stesso, perché hai urlato?» Con sua grande sorpresa, invece, glielo raccontasti. Lui ti ascoltò e poi, quando guardò il braccio, ti fece notare che non c’era niente sul tuo braccio. Guardasti la tua pelle e restasti stupito tu stesso. Te lo toccasti: «É impossibile, ti giuro che mi ha marchiato, ti giuro!» Sentisti la risata malefica di LaFerain risuonare tra le rocce.
«Ti credo». Disse con tua grande sorpresa. Lo guardasti. «Non sei il tipo che si mette a raccontare balle per essere compatito, tu non vuoi la compassione. E devi essere veramente spaventato se mi hai raccontato tutto». Costatò.
«Sì, spaventato, sì…» Facesti. Sembravi impazzito di colpo. Sarà perché ne avevi subite di ogni in questi anni o che quello là ti aveva distrutto? No, era impossibile, non poteva riuscirci. E non te ne eri neanche accorto. Era questa la cosa grave, come era possibile che tu, provvisto di poteri telepatici, non fossi riuscito ad accorgertene? Ti portasti una mano alla fronte e le tue dita incontrarono il tuo elmo a maschera. «Torniamo dagli altri».
«Vai avanti tu, ti raggiungo tra poco».
«Non se ne parla neanche. So che non ci siamo quasi mai parlati prima oltre i Chrysos Synaigen, però credo che sia il caso di raccontare agli altri qualsiasi cosa ti sia successa. Se è un attacco nemico o uno scherzo di pessimo gusto lo devono sapere».
«Perché, vuoi sbattermi in prima pagina su Gazzi Inferno, la Gazzetta degli Inferi?»
«Ovvio che no, ma se sono dei nemici dobbiamo elaborare una strategia, non lasceremmo mai un nostro compagno d’arme nei guai e tu sei uno di noi, che ti piaccia  o no». Dichiarò Milo, facendo sfoggio di tutto il suo carisma. E tu in questo momento, per la prima volta, capisti come si dovesse essere sentita Astrid i primi tempi al Santuario. Lei era stata la seconda persona dopo Helena che avevi compatito, ma non avresti mai pensato di arrivare a compatire te stesso. Camus l’aveva anche detto che le battaglie che combattono gli Azoni sono di un livello inaccessibile per i Saints. E, se c’era una cosa che Astrid ti aveva insegnato (riconoscesti) era che non faceva male abbassarsi a chiedere aiuto, ogni tanto. Anche se ciò significava mettere da parte il tuo smisurato orgoglio
«Sì, scusami, hai ragione. Torniamo dagli altri». Ti sforzasti di dire e di essere un minimo cortese. Dopotutto si stava scomodando per te, un minimo di cortesia gliela dovevi. Un minimo.
E, soprattutto, questo non era un nemico che potevi affrontare da solo.
«Maledetto sia il mio orgoglio». Borbottasti tergendoti il sudore dalla faccia con mano tremante.
Odiavi ammetterlo, ma dovevi parlarne con i tuoi commilitoni. Appena avresti riacquistato un minimo di padronanza di te stesso, s’intende.

«Stavolta non possiamo tornare nel mondo dei Vivi portando con noi solo delle notizie». Fece Milo quando fosti tutti riuniti attorno al braciere, quella sera. Avevate deciso di darvi appuntamento in ciò che restava dell’accampamento celtico. «Dobbiamo studiare una strategia».
«Per quanto io faccia fatica ad ammetterlo, temo che tu abbia ragione». Ti accodasti tu. In queste ore ti eri calmato un po’. Lo Scorpione se la cavava bene come ansiolitico, anche se aveva dovuto capire di non starti troppo addosso, se no qui ci avrebbe messo le tende in pianta stabile. Si era limitato a restare in disparte e a venire a trovarti ogni due ore finché non era venuto il momento di riunirsi a cena. Fortuna che andavate avanti con il cibo importato dal mondo dei Vivi. A proposito, non ti era passato per la mente di indagare su quel LaFerain. Ad ogni modo, non potevi lanciarti allo sbaraglio contro un avversario del genere. Attaccare e basta non sarebbe stato sufficiente a garantirti la vittoria. Dovevi agire d’astuzia, stavolta. In quel momento ti mancò Aphrodite. Lui sì che sapeva sempre escogitare una buona strategia.
Ma ora che ne avevi parlato, un’ombra di terrore era calata anche sul volto di Camus. Che vi aveva rivelato di essere stato avvicinato anche lui da un Azone. Quello di Hades. Il protettore degli Specter.
«Anche tu?» Chiedesti, senza nascondere il tuo stupore.
«Sì». Confermò. La situazione vi ricordò moltissimo Asgard. Tutti e tre ricordavate benissimo quella battaglia. Ora non era molto diverso. «Se solo Shaka fosse qui probabilmente ci direbbe altro». Borbottò Camus accomodandosi contro la roccia. La ciotola messa da parte accanto a lui. Tu avevi lo stomaco chiuso, non avevi proprio toccato cibo. Facesti una pernacchia: «Sì, certo, come no, prima che quello si svegli la Guerra Sacra sarà già cominciata, ammesso e non concesso che ci sarà una guerra». Aggiungesti. Sapevi anche tu della sbandata dell’altero Cavaliere di Virgo. Tutti tranne Shun, che, in questo preciso momento, vi ascoltava senza dire niente. Ti aveva dato un’occhiata e aveva decretato che stavi bene. Camus poi aveva spiegato a Milo quali poteri potessero usare gli Azoni. Probabilmente ti aveva intrappolato dentro una tasca temporale. Lì dentro potevano fare il bello e il cattivo tempo, ma quando ne uscivano, era come se non fosse successo niente. Ed era ancora più tremendo di vedere le cicatrici e le eventuali ferite deturpare le tue membra. Sapevi cosa era successo, ma non avevi le prove per dimostrarlo e il fatto di essere sotto la protezione di quella mocciosa scribacchina ti scocciava assai. Ancora di più sapendo che aveva permesso a quel tale di ridurti così. Ma che cazzo voleva quella lì da te? Aveva scatenato pure un altro Azone per cambiarti? Ma che è sta fissa di voler cambiare le persone? Tu eri così punto e basta, non sapevi di che fartene di redimerti. Anche se avresti nascosto con tutte le tue forze questo tuo lato a Helena. Non volevi che lei lo venisse a sapere. Astrid… Bè, Astrid lo sapeva già, questo ti facilitava le cose.
Avevate preferito non coinvolgerla in queste riunioni. Meno ne sapeva, più probabilità c’erano che non si ficcasse nei guai. 
«Non ti credere, anche se ha perso la testa per Lady Asia, riesce ancora a porsi delle domande e ne ha poste di parecchio interessanti». Ve le riferì tutte e voi non sapeste come rispondere. Non vi eravate mai posti queste domande, neanche avevate mai paventato una possibilità come questa. Avevate appreso le varie nozioni (quelle poche cui avevate avuto accesso voi che aveste un maestro, ossia tu Aphrodite, Aiolos, Saga, Kanon e Shura) con la stessa inerzia con cui ci si sveglia la mattina. Tuttavia la lampadina non vi si era accesa lo stesso. Almeno a voi tre, non avresti saputo dire di Saga. Aiolos… Sì vabbè, lasciamo perdere. Per come erano andati i fatti, il ragazzo non se ne sarebbe accorto neanche se gli avessero sbattuto la verità in faccia.
Ti sorprendeva piuttosto come avesse fatto il Santone del Santuario a scoprire tutto ciò. Non ricordavi che avesse altri hobby come la lettura, oltre la meditazione. Non aveva neanche un telefono per comunicare con voi e, finora, non si era neanche degnato di condividere con voi le informazioni che stava raccogliendo.  Che fosse per amore o per proteggere Lady Asia o la Divina Atena, non c’era dubbio che restare all’oscuro di tutto vi metteva in difficoltà. «Hai già provato a raggiungere Shaka con la telepatia?» Chiedesti a Camus. In quanto stanti sullo stesso piano, aveva più probabilità di te di comunicare con lui.
«No, ma anche se fosse, non riesco a percepire il suo Cosmo. È come se fossero scomparsi». Spiegò Camus. «Una dimensione parallela?» Ipotizzò Milo.
«No, ormai due mondi si sono uniti». Fece Shun, che aveva ereditato anche la capacità di Shaka di guardare tra le dimensioni e i mondi un tempo scrutati dal suo predecessore. «Credo che abbiano entrambi azzerato il loro Cosmo». Era la più probabile.
«Con il poco che abbiamo adesso però non saremmo capaci di creare una strategia vincente e i numeri giocano a nostro sfavore su tutti i fronti».
«Se coinvolgessimo Astrid forse…» Iniziò Shun ma voi tre lo zittiste in coro con un secco: «Non dirlo neanche!» Poi vi guardaste stupiti. Se fosse stato meno buio avresti giurato che Camus fosse anche arrossito. L’imbarazzo era palese sulla sua faccia. Mentre Milo era confuso. Non si aspettava che anche voi reagiste così. Inarcasti un sopracciglio senza nascondergli il suo fastidio, come a dire: “Embè? Hai finito di guardare?”
«Astrid non deve sapere che cosa sta succedendo». Fece poi Milo, che decise di riprendere il filo del discorso. «Noi siamo Saint esperti, combattiamo da tutta una vita, siamo guerrieri, lei no, non ha neppure la Cloth ed è un miracolo che sia riuscita a sopravvivere finora agli Inferi e alla Guerra Santa. Almeno lei. È già un grande risultato anche il fatto che sia riuscita a salvare anche Raki». Ah, già, c’era anche quel problema degli apprendisti scomparsi da riferire nel rapporto. Che rogna.
«E come la mettiamo con l’Albero?» Chiese Shun meditabondo. Aveva appreso anche lui della distruzione del Mala di Shaka. La vostra arma più potente contro gli Specter non esisteva più. Per le prossime Guerre Sacre come avrebbero fatto? Gli leggevi questo tormento in faccia, ma a te non importava, dovevate concentrarvi sul presente.
Camus scrollò le spalle. «Ormai non c’è più niente da fare. Gli Specter non sono stupidi, lo sorvegliano a vista». Rispose. Dopo la Guerra Sacra del Millesettecento non si sarebbero lasciati ingannare o imprigionare una seconda volta. Anche il Mala di Shaka era ormai irrecuperabile. Lo avevano requisito gli Specter. E già lì dove tu gli avevi dato dell’imbecille per non averci pensato, Shun e Milo l’avevano difeso. Era ridotto in fin di vita, che cosa importava il Mala in quel momento? Non avevano tutti i torti però
«A questo punto credo che dovremmo continuare a mantenere la corrispondenza, potrei trovare qualcosa di interessante negli archivi».

«Buona idea, anche noi faremo un salto negli archivi e controlleremo». Decretò Milo parlando anche per te e Shun. Il quale annuì, tu lo imitasti per riflesso. A te non te ne fregava una beata mazza di questa storia, volevi solo liberarti di LaFerain e di qualsiasi cosa ti avesse fatto. 

 

Non avevi riposto per niente fiducia nei vostri accompagnatori Specter. Vi eravate radunati in tempo per le nove di mattina. Appena dopo colazione, darvi una sistemata e di riunirvi nell’accampamento.
Isaac e la piccola peste che ti ricordava in un modo disgustoso Cherie, che stava appresso a Camus, non c’erano. Meno male. Non avresti sopportato la visione di un’altra ragazzina petulante. Come neanche degli Specter, come Valentine, che aveva già fatto ritorno al Cocito. Ti era già bastato ritrovare la tua ex compagna d’addestramento e il tuo maestro, che se ne erano già andati appena mezz’ora prima.
Raki e Astrid arrivarono accompagnate dai tre Giudici Infernali. Per tutto il tempo ti domandasti perché mai Aiacos continuasse a fissarvi in cagnesco a questo modo. Astrid era palesemente a disagio dal comportamento del Garuda. Mentre Raki sembrava ignorare tutti e tre come se si fosse talmente abituata alla loro presenza, da non trovarli più invasivi e ingombranti.
Il tuo sguardo si soffermò sul Garuda. Era la prima volta che lo vedevi dal vivo al di là della festa. Ma ti venne solo voglia di ignorarlo. Non avevi voglia di azzuffarti di prima mattina. Non te ne fregava niente di una persona del suo calibro. «Lady Pandora desidera che scortiamo Lady Astrid fino alla Bocca degli Inferi». Spiegò Minos del Grifone, il quale camminava dietro ad Astrid. La quale aveva smesso i pezzi della sua armatura e i gioielli ed era solo con il vestito nero e il polso sinistro fasciato.
Tu alzasti le spalle come a dire che non te ne importò niente. Avevi già salutato DeathToll e Cherie un’ora prima e loro erano tornati alle loro Prigioni. Anche agli altri non importò granché.
Ma anche gli altri due Specter non erano immuni al tuo poco interesse. Il più feroce sembrava proprio Rhadamantys della Viverna, riconoscibilissimo dalla Surplice e dall’elmo a forma di testa di drago. Stava alla sinistra di Astrid, mentre Aiacos era alla sua destra, il canuto del Grifone chiudeva la fila.

Avevi capito che era una persona importante per gli Inferi, ma non pensavi fino a questo punto. Addirittura da meritarsi l’appellativo di Lady. Vederla vestita di nero fu come una sorta di deja-vu per te. La prima volta che l’avevi incontrata era vestita di nero e anche la notte in cui l’avevi salvata era vestita con quel colore. Ma il vestito a là Madonna in Like a Prayer faceva tutt’un altro effetto su di lei. Anche a guardarla bene qualcosa in lei era cambiato. Non solo i capelli erano ricresciuti e adesso superavano il seno di cinque centimetri, ma i suoi occhi erano più feroci, più simili a quelli di voi Gold Saint. Paradossalmente sembrava più allenata dell’ultima volta che l’avevi vista, ma anche più malinconica e pacata. Uno strano misto che non avevi mai visto prima addosso a lei. Era come se avesse raggiunto una nuova dimensione dell’esistenza. Coi nervi a fior di pelle che doveva avere, non si sarebbe più lasciata cogliere di sorpresa e avrebbe reagito ancor più prontamente. «Non ti porti dietro la tua armatura?» Chiedesti, notando che il suo bagaglio era un semplice zaino. Appeso alla cintura di cuoio in vita, c’era un sacchetto di stoffa rotondo. Probabilmente dei soldi. Astrid non faceva niente per niente.
Un mezzo sorriso increspò la tua bocca nel ricordarti anche questo.
«No, non ne ho più bisogno, l’ho lasciata alla zia». Milo rabbrividì leggermente. Non era ancora abituato a considerare Astrid sotto questa luce. Dal canto suo sia Raki, sia la bionda lo ignorarono.
Tu invece contraesti la bocca in una smorfia divertita. Trovavi abbastanza ironico il fatto che la tua protetta fosse la nipote della Sacerdotessa che, decadi fa vi riportò in vita parlando di benevolenza e misericordia. In cambio della testa di Atena neanche stesse parlando della testa di Medusa. Col senno di poi la sedicenne Pandora sembrava una novella Polidette. Il patrigno di Perseo.
Che ironia. E adesso vi affidava di nuovo Astrid.
A che gioco stava giocando Hades? Non eri stupido, lo vedevi benissimo che gatta ci covava. Probabilmente era il suo modo per consolidare la vostra alleanza e tenervi d’occhio. D’altronde voi avevate messo tra le sue fila due Saint, perché lei non avrebbe dovuto collocare una spia tra le vostre? E chi meglio di lei poteva fungere da spia, dietro tutta la facciata.
Credere alla sincerità di Pandora sarebbe stato come credere alla bontà di un aspide velenoso. Anche se lo metti davanti al focolare per riscaldarlo, questo cercherà di morderti lo stesso. Su una cosa eri sicuro, Astrid non si sarebbe mai piegata alla volontà della zia e, se era sopravvissuta tanto non era solo per merito di Camus.
Se la memoria non t’ingannava, e non t’ingannava davvero, dietro a quel bel faccino, c’era una stronza dalla forza di mille cavalli. E Camus, in queste quattro sere ve l’aveva anche confermato. Per di più, stando qui non poteva che essere peggiorata. Perciò non c’era pericolo alcuno. I problemi sarebbero sorti qualora avessero voluto impiegarla in battaglia. Grazie a lei avreste potuto respingere finalmente il problema delle Creature e debellarlo finalmente.
Adesso era tutto nelle mani di Atena. Solo Lei aveva la facoltà di convincere quella giovane ribelle a unirsi alla vostra causa.
Ovvio che l’idea non ti faceva piacere, ma sapevi che era meglio lasciarla combattere piuttosto che segregarla. Ve ne aveva dato prova più volte, no? E voi Saint eravate rincoglioniti dalle botte, ma non troppo da comprendere i vostri sbagli. E con Astrid non avreste sbagliato più. Il suo potere e il suo Cosmo erano qualcosa di straordinario. E se persino tu, ex assetato di potere, arrivavi a concepirlo, chissà quanto doveva essere duro il sacrificio di Pandora e Hades.
Scoccasti un’occhiata a Camus, che ricambiò e, in quel momento, comprendesti che eravate giunti alla stessa conclusione.     

Poi vi metteste in marcia verso il Regno dei Vivi, lasciandovi alle spalle gli Inferi, nel silenzio quasi più totale, quasi spettrale.
Rhadamantys e gli altri due Giudici Infernali vi scortarono verso il Regno dei Vivi.
Mentre superavate le varie Prigioni, vi rendeste conto che gli Specter stavano facendo un buon lavoro di ricostruzione. Anche tu, da quando avevi restituito ad Hades l’anima dello Specter che avevi portato con te tutto il tempo. L’uomo infilato nella sua Surplice ti scoccò un cenno di saluto che tu ricambiasti con un’occhiata da sopra la spalla, prima di tornare a guardare dritto davanti a te.

Anche Caronte vi salutò, quando sbarcaste sulla riva opposta, dove si stavano di nuovo radunando gli spiriti e, la tua Armata Brancaleone, stava smantellando tutto. Ti guardasti attorno alla ricerca del Drago Rosso, ma quello era sparito.
Soprattutto Astrid, con un lezioso, untuoso: «Milady». Quando l’aiutò a scendere porgendole la mano.
«Caronte». Ricambiò la giovane. Se fosse stata un’altra probabilmente l’avrebbe affogata con le sue stesse mani. Così erano gli Inferi.
Infine risaliste la Bocca degli Inferi tramite la scala a chiocciola. La stessa che usaste voi ex Specter durante la Guerra Sacra, per uscire da lì. 
Una volta sulla sommità del cratere, fu il momento dei saluti. Astrid salutò i tre con un cenno del capo che fu ricambiata rispettivamente dalla Viverna e dal Grifone con un’occhiata sprezzante e un ghigno sadico. Una smorfia che solo in questo ti rammentò LaFerain. Istintivamente ti portasti una mano al braccio marchiato. «É stato un piacere combattere insieme a te e non vedo l’ora di affrontarvi di nuovo». Minacciò velatamente Minos.
Shun restò impassibile e silenzioso tanto a lungo che per un po’ avevate pure dimenticato la vostra presenza.
«Lo so, prima o poi riuscirò a prendermi la mia giustizia».
«Sempre che i miei fili non arrivino prima».
«Chissà, Grifone, chissà».
«Anche se sei l’eroina degli Inferi non dimenticarti piuttosto il prezzo della tua libertà». Le ricordò invece la Viverna. Tu, Shun e Milo vi accigliaste. Invece Camus restò perfettamente impassibile, tutt’al più, credesti di vederlo guardare Astrid con uno sguardo vagamente intimorito. Ma forse fu solo la tua impressione.«Ho fatto una promessa e la manterrò». Ribadì lei con voce secca.
Guardaste Camus in cerca di spiegazioni, ma lui non vi degnò di uno sguardo. I suoi occhi rossi erano fissi su Astrid.
Rhadamantys ridusse gli occhi a fessure e le strinse la mano con forza come se avesse voluto fratturargliela. «Non giocare con il fuoco, ragazzina». Sibilò prima di voltarle le spalle e rituffarsi nella Bocca dell’Ade, seguito da Minos che, prima, la guardò da sopra una spalla: «Ci vediamo, bambolina». Probabilmente, da sotto quella frangia da cagnolino, le aveva pure strizzato l’occhio. 
Eppure a reagire fu Raki. Vedesti chiaramente le sue spalle irrigidirsi, come se avesse percepito i suoi pensieri. 
Salutaste Camus che vi aveva accompagnato fino a qui. Disse a tutti e tre la stessa cosa nell’orecchio: «Aiutatela». Ma ciò non fece che aumentare i vostri dubbi e le vostre domande. Qualsiasi cosa fosse successa, doveva essere grave se si apriva tanto a darvi questo messaggio criptato. Comunque annuiste tutti e tre. Poi lasciaste che lui e Astrid si abbracciassero a lungo. Un po’ troppo per i tuoi gusti.
«Ehi!» Esclamasti disgustato per svegliarli mentre Milo tossicchiò, divertito. Shun si limitò a sorridere, le guance rosate. Difficile dirlo a causa della penombra e dei colori fosforescenti dei fuochi fatui. E i due parvero svegliarsi. Sciolsero l’abbraccio. Le loro mani ricaddero lungo i rispettivi fianchi. Poi Camus salutò anche Raki. Fu l’unico dei vostri accompagnatori a calcolarla. Raki ricambiò. Ma non ridiscese nella Bocca dell’Ade. Volse invece la testa verso l’ultimo Giudice Infernale. E fu allora, che vi accorgeste che era rimasto qualcun altro.

Aiacos si era attardato ancora un po’. Il nepalese non sembrava per niente intenzionato a dirle qualcosa. Guardò la tua amica e disse: «Datemi la mano, principessa». “E adesso cosa vuole, questo?” Pensasti al limite della pazienza. Milo riuscì a trasformare una risatina divertita in un colpo di tosse.
Lei, esitando, obbedì, ma si vedeva che al minimo sgarro sarebbe stata pronta a ritirarla. Più la guardavi più avevi la certezza che non fosse la stessa Astrid che ricordavi. Anche se in quel momento ti dava la schiena.
Le dita del nepalese raggiunsero le sue e, con delicatezza gliele girò di modo che il palmo fosse rivolto verso il cielo. Lo vedesti da come mosse il braccio. Vi adagiò qualcosa con l’altra mano. Poi la lasciò andare. Lei si avvicinò la mano al corpo e ne osservò il palmo, confusa. Che cosa le aveva dato? Non facesti in tempo a chiederglielo che lei alzò la testa di scatto e disse, stupita: «Ma questo…»
«Ci tenevo a restituirvelo, consideratelo un ringraziamento per ciò che avete compiuto per noi e le nostre scuse». Spiegò Aiacos continuando a guardarla.
Lei lasciò ricadere la mano chiusa a pugno lungo il fianco, poi annuì: «Grazie».
«Ricordate, principessa; dovunque voi siate, se avrete bisogno, io correrò da voi». Promise poi lo Specter, inchinandosi, portandosi una mano al cuore. Il suo gesto costrinse Camus ad allontanarsi per non essere colpito dalle sue ali. Era la tua impressione o aveva appena formulato un giuramento? Lui? Anche Astrid sembrava pensarla come te, almeno lo credevi.  
«Ok». Replicò, incerta su cosa dire prima che il moro raddrizzasse la schiena, girasse sui tacchi e si tuffasse a sua volta nella Bocca dell’Ade. Lasciandovi soli con Camus.
«Che cosa ti ha dato?» Le chiedesti quando anche lei dette le spalle al cratere e all’amico di Milo.
«Niente». Mentì. Ma era palese che avesse mentito. Qualsiasi cosa fosse dovevi accertarti che non fosse niente di pericoloso. «Sei sicura? Dalla faccia non si direbbe».
Lei aprì la mano e ti mostrò ciò che le aveva dato il nepalese. Inarcasti un sopracciglio e la guardasti come a dire: “Embé, tutto qui?” E lei vi spiegò che era quello che le aveva strappato la notte dell’aggressione. «Che bel ricordo!» Esclamò ironico Milo, prima di suggerirle di buttarlo appena possibile. Anche Shun le domandò se le fosse proprio necessario. La bionda non rispose.
Tu neanche te ne eri accorto che quella sera gli avesse strappato un bottone. Tutta questa manfrina per uno stupido bottone. Bah, Specter. «Non me ne parlare». Replicò Astrid roteando gli occhi.
«Ma poi la tua vendetta su di loro l’hai avuta?» Chiedesti, perché, conoscendola, non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di fargliela pagare. «Oh, sì, anche se non è stata soddisfacente come credevo. Bè, siamo rimasti qui anche troppo, che ne dite di andarcene?» Approvaste tutti quanti. Così, teletrasportasti tutti quanti alla Quarta, ricomparendo proprio nel corridoio di passaggio.
Non era troppo diverso dalla Bocca dell’Ade, al massimo l’aria era più pulita.
Eppure le due si gettarono in ginocchio e baciarono in terra. Soprattutto Astrid. Era come se tornando qui si fosse liberata di un grosso peso.
«Bè? Che diavolo ci facciamo impalati, qui? Dobbiamo andare alla Tredicesima». Possibile che dormissero tutti quanti questa mattina? E tu perché non ti univi a loro? Non mentirmi, lo sappiamo entrambi che non era la voglia di assolvere il tuo dovere. “Stai zitta!” Mi sibilasti.
«Dammi solo cinque minuti». Ribatté la giovane con voce sollevata, raddrizzando la schiena, gli occhi chiusi. Raki riacquistò una parvenza di contegno. «Mi è mancata l’aria di questo mondo».
«Magari la sentiresti meglio se uscissi di qui». Le facesti notare e lei riaprì gli occhi. «Sì, giusto, hai ragione».
Si rialzò e fece un respiro profondo. La salita fu qualcosa di memorabile. Quei pochi che erano nelle Dodici Case vi vennero incontro per sapere come fosse andata. Prime tra tutte Paradox e Integra alla terza. Che scambiarono qualche convenevole con Astrid. A parte Paradox che abbracciò la giovane come se fosse stata sua sorella. «Anch’io sono contenta di rivederti, Paradox», sorrise Astrid ricambiando la stretta. Integra la informò che da quando era sparita avevano dato la caccia a eventuali complici di Neera. «Davvero?» Chiese Astrid staccandosi dall’abbraccio della gemella maggiore. Quest’ultima confermò: «Sì, ne abbiamo catturati due, ma non hanno ancora parlato».
«Bene, almeno li avete presi, che è già tanto. Continueremo dopo, ora devo salire alla Tredicesima».   

«Sì», «D’accordo», dissero le due poi vi lasciarono passare.
Ma non andaste lontano che trovaste Lancelot con Mur. Probabilmente tutto questo schiamazzare li aveva fatti uscire fuori dagli appartamenti privati. Se il tuo coinquilino si aprì in un’espressione di folle felicità, Mur fu più contenuto e si limitò a salutare l’allieva del suo allievo e Astrid.
«Che gioia saperti viva, Raki». Fece posandole una mano sulla testa quando il loro abbraccio si sciolse. «Il tuo maestro sarà felicissimo di saperlo quando glielo dirò».
«Dov’è?»
«È in arena a supervisionare il conferimento di una Cloth, ma non preoccuparti, dovrebbe arrivare tra poco. Anche il Venerabile Shion sarà lieto di rivederti. Ed è un piacere rivedere anche te, Astrid». Fece poi, guardando la giovane in nero. Ma non avresti saputo dire quanto fosse sincero, dopo tutte le cose che ti avevano riferito Milo e Shun sulle gesta di Astrid, prima che sparisse negli Inferi. Comunque il lemuriano le tese la mano. Lei la strinse con la propria e la scosse una volta: «Anche per me, Mur. Sono felice di essere di nuovo qui, Lancelot». Disse, in tono più duro, spostando lo sguardo su di lui. 
Gli occhi brillanti del Lost Saint se possibile, illuminarono ancor più il suo volto. «Astrid, è una bella, bellissima cosa che ti sia di nuovo qui, oh, dopo passa da me, ho delle cose da raccontarti. Cose molto importanti». Voleva essere di nuovo legato alla colonna?
«É la mia impressione o sembri più pazzo dell’ultima volta che ti ho visto, Lancelot?» Vederlo così su di giri era preoccupante. Lui sorrise, garbato e reclinò il capo indietro, la sua ciocca quasi gli andò dietro la spalla. Si pose le mani sui fianchi e rispose, con l’aria di chi sa tutto. «Oh, lo saresti anche tu se sapessi quello che so io».
«Che cosa sta dicendo?» Domandasti e Milo rispose, rubando le parole di bocca a Mur: «Sembra che abbia delle informazioni molto importanti su Odysseus di Ophiuchus. Asserisce di aver fatto il doppiogioco tutto il tempo che ci ha traditi. Shura non ha rilevato bugie in lui e neanch’io». Aggiunse.
«Stai attento, lo sai che è addestrato per resistere agli attacchi mentali».  Fece Milo avanzando di un passo.
«Mi ha lasciato vedere tutto quanto».   
«Se è così allora dopo verrò anche da te». Promise Astrid. «Sì, vieni, per favore». Poi si fece da parte per lasciarvi uscire.
Astrid e Raki non erano più abituate al chiarore del giorno. Infatti, soprattutto Astrid, gemettero di dolore e si prese il volto tra le mani. «La luce, è troppo forte!» Gemette lei quando Shun le chiese che cosa succedesse. «Anche a me fa male!» Milo al fianco di Raki, tirò un sospiro di sollievo. Tu invece non ti scomponesti, c’eri abituato. Agli altri due invece era andata bene, i loro occhi non erano ancora messi tanto male da non sopportarla. Gli sarebbe bastato battere le palpebre per un po’ e sarebbe andato bene. Le due ragazze si aggrapparono a Shun e a Milo e riprendeste la salita. Alla Quinta a salutarvi fu Aiolia. Non era cambiato molto, aveva solo la barba più lunga di qualche giorno. Ma il sollievo che animava i suoi occhi verdi era inequivocabile. Il quale, con gran sorpresa della ragazza, disse si essere contento di rivederla. «Mia sorella sarà felice di saperlo».
Lei fece un sorriso stiracchiato mentre si stringevano la mano. «Grazie, Aiolia». Ma solo questo, poi salutò Raki più calorosamente. Poi passò a voi tre, soffermandosi in particolare su Shun: «Mi dovete delle spiegazioni».
«Aiolia, io…» Fece il fratellastro di Seiya abbassando lo sguardo, vergognoso. Milo fece un passo avanti istintivamente, pronto a proteggere il Custode della Sesta. «Lo so, me lo dirai con calma dopo, se vorrai potrai venire anche tu, Artropode».
«Ovviamente, Gattaccio».   
Anche Shiryu e Ryuho furono felici di rivedere le due e Shun. «Dove sono Hyoga e Seiya?» Chiese Shun. «Sono ancora in missione, non sappiamo quando torneranno».
«Non preoccuparti, se la caveranno benissimo». 
Attraversaste l’Ottava nel Silenzio più totale, a parte quando a un tratto, Milo si rivolse direttamente ad Astrid: «Sei consapevole che adesso dovrai comunque andare a Milos?» La guardò da sopra una spalla mentre attraversavate il corridoio di passaggio.
Anche tu la guardasti.
«Naturalmente». Ribatté dopo qualche minuto di silenzio. «Sempre meglio che marcire a Capo Sounion, ancora grazie, Piattola, per essere riuscito a fargli cambiare idea».
«Figurati». Rispose lui, ignorando il soprannome che fece ridacchiare Raki, ma suonò più come un “mi dispiace”. Avevano fatto del loro meglio. Desti una pacca sulla spalla alla tua amica, che ti guardò e ti fece un sorriso mesto.
Shura non era alla Decima, probabilmente era da qualche parte a Rodorio. E Aphrodite invece abbracciò Astrid e la spupazzò come se fosse il suo giocattolo preferito che aveva perso da tempo.   
Riusciste a liberarvi di lui con la promessa che lei avrebbe passato la giornata insieme a lui. E Milo parve cogliere un altro senso in queste parole. Probabilmente era legato al piano che avevano e al ricatto di Odysseus. Saggia decisione, la Casa di Aphrodite era la seconda tra le più sicure di tutto il Santuario dopo quella di Atena. Saggia decisione.  
Arrivaste finalmente alla Tredicesima Casa e faceste rapporto ad Atena in persona, che era assisa sul trono. Kanon si ergeva fieramente al suo fianco, le vesti nere bordate di rosso e i gioielli sacerdotali appesi al collo. L’elmo del Gran Sacerdote posato sul capo e il volto libero dalla maschera.

«Bentornati a casa, miei Gold Saint e bentornate anche voi, Astrid di Ophiuchus e Raki di Aries, siamo felici di sapervi vive e di nuovo tra noi». Vi salutò la Dea mentre voi tutti vi inginocchiavate, pugno a terra, al Suo cospetto.  
«Dea Atena», «Mia Signora». Replicarono in tono sommesso e rispettoso.
«Ben fatto Scorpio, hai portato a termine il tuo compito egregiamente». Continuò la Dea e Milo chinò il capo rispettoso. Poi passò a voi due rimanenti: «Sono certa che sia stato un viaggio doloroso per te Shun, sono felice di vederti più sereno e Cavaliere di Cancer, spero che tu abbia buone nuove su cui ragguagliarmi». 
Milo parlò per tutti voi: «Naturalmente, Divina, ma non ci sono solo buone nuove. Mi dispiace di essere foriero di brutte notizie, ma temo si stia preparando qualcosa di grosso e di terribile».
«Di che cosa stai parlando, Scorpio?» Chiese Kanon mentre la Dea assisa sul trono si accigliò, preoccupata.
Così gli raccontaste tutto ciò che era avvenuto, omettendo la tua aggressione da parte dell’Azone che asseriva di venire dall’Inferno. «Azoni? Chi sono gli Azoni?»  Chiese Kanon confuso. Nessuno di voi li aveva mai sentiti nominare, prima. Anche la Dea si dimostrò angosciata. Soprattutto quando Milo menzionò i Guardiani delle Case degli Astri.
La Divina parve impallidire ancor di più quando glieli nominaste, soprattutto il Drago Rosso e Lady Asia, oltre alle informazioni che Camus aveva riferito: «Qualsiasi cosa stiano macchinando questi nuovi nemici dobbiamo essere pronti. Non possiamo permettere che assaltino il Santuario una terza volta».
«É una fortuna che Shaka si sia unito a lei, così potrà attingere a quante più informazioni possibili per la nostra causa». Asserì Kanon quando passaste a Shaka, omettendo il dettaglio cruciale del suo innamoramento. Ora come ora non erano gli Inferi a preoccuparvi di più. Gli Azoni costituivano una minaccia ancora più grande. La Dea stessa mormorò, stupita: «Credevo che fossero estinti».
Kanon la guardò e domandò: «Li conoscete, mia Signora?»
La Divina fece cenno di sì col capo: «Sono i figli della Dea Norrena Saga della Storia e della Poesia e di suo marito Khronos, il Titano del Tempo».
«Marito? Ma il Titano del Tempo non era sposato con sua sorella Rea?» Chiese Astrid perplessa.
«Certo, ma ci sono delle leggende secondarie poco note che vogliono che, dopo che Zeus spodestò Khronos, lui sia stato cacciato e abbia vagato a lungo per il mondo e trovò rifugio presso il Pantheon Norreno, che lo assistette e gli diede una nuova casa. Addirittura, per sugellare la loro alleanza con i Titani, una di loro, la Dea Saga lo sposò. Dalla loro unione nacquero dei figli fortissimi, Dèi capaci di manipolare il tempo come il padre, ma che si occupavano della storia come la madre. In sostanza loro trascrivono tutto ciò che accade nei vari Santuari e nei Pantheon. La Dea Saga, per incrementare il suo potere e per ricordare a tutti che la vera sovrana della Terra era lei, mise uno dei suoi figli al servizio di ogni Dio o Dea dei vari Pantheon sparsi in tutto il mondo. Credevamo che fossero scomparsi nell’anno Mille». Raccontò con un tremito nella voce.
Ma se lei era spaventata, per voi fu molto più destabilizzante apprendere che esisteva un’altra Dea che deteneva il potere e l’egemonia sulla Terra oltre Atena. Una Sovrana Nascosta. Era questa la cosa peggiore.
Avevate già affrontato i Titani, non eravate certi che, dopo questa sareste sopravvissuti a un’altra Titanomachia, non contro tanti Dèi con i poteri del Tempo. Il Keraunos di Aiolia stavolta non vi avrebbe salvati.
«Questo significa che sono un vero e proprio esercito!» Esclamò Kanon allibito mentre Milo intervenne: «Mia Signora, finora sono comparsi solo due Azoni, quello di Hades e la vostra».
«E anche quello di Lucifero». Aggiungesti senza dire altro.
«La situazione è molto più grave di quanto pensassimo. Convocate immediatamente il Chrysos Synaigen». Decretò Kanon.   

«É successa anche un’altra cosa negli Inferi». Intervenne Astrid e la vostra attenzione fu ricatturata di nuovo. Si tolse lo zaino che portava in spalla e ne estrasse un involto che srotolò davanti alla Dea e a Kanon: «Le Creature mi hanno dato questa».  Fece mostrandone il contenuto.
Il gemello di Saga e la Divina si sporsero verso di lei, non senza nascondere la loro curiosità e il loro stupore: perché mai le Creature avrebbero dovuto regalarle un oggetto simile? Che cos’era davvero? Cosa simboleggiava?
Ti sporgesti anche tu per vedere e scopristi che era una sfera nera grande quanto la mano della bionda. «Non ho mai visto nulla del genere, prima d’ora». Commentò Kanon mentre la Dea si alzava dal trono, scendeva i gradini della pedana e si inginocchiava di fronte a lei: «Posso?» Chiese. Astrid la depose con delicatezza nelle sue mani a coppa e la Dea se la portò davanti al volto.
«State attenta, mia Signora, potrebbe essere un’arma». L’avvisò Kanon, rinvenendosi, ma la Dea non l’ascoltò.
Voi due osservaste la Dea con trepidazione, mentre studiava la sfera. Non ti era mai passato per la mente di chiederti che cosa mai dovesse pensare, ma adesso te lo chiedevi e non riuscivi a darti una risposta. «Secondo voi che cos’è, Mia Signora?» Chiese Astrid.
«Non ne ho idea, temo che questo lo possa sapere solo tu». Rispose la Dea, poi le restituì la sfera. «Conto su di te per scoprire che cosa sia». Ordinò. Astrid chinò il capo: «Sarà fatto, mia Dea».

Poi gli occhi della Bianca Fanciulla si addolcirono: «Dovete essere stanche per il lungo viaggio, andate a riposare».

Stavate scendendo le scale quando foste raggiunti da un trafelato Kiki. Raki lo riconobbe all’istante e le si illuminarono gli occhi: «Maestro!» Urlò, gioiosa.
«Raki!» Chiamò di rimando il giovane lemuriano, felice e incredulo. Le lacrime inumidivano già i suoi occhi. La ragazzina si separò dal fianco di Astrid e corse a gettargli le braccia al collo. Le frasi che si scambiarono in seguito ti ricordarono molto quelle di Hyoga e Natasha dopo che la salvaste dall’influsso degli Inferi, quattro anni prima. Solo che i due lemuriani avevano le lacrime agli occhi. Raki piangeva proprio apertamente. «Maestro!» Singhiozzò, felice.
«Raki! Non ci credo, Raki!» Sorrideva. Quei due sprizzavano una gioia talmente intensa da far male. Al tuo fianco anche Astrid e Shun sorridevano commossi. «Maestro, mi siete mancato, maestro!» Disse la ragazzina, continuando a stringersi a lui. «Non ci pensare, adesso sei qui, è tutto finito, va tutto bene, sei qui, Raki!» La discostò un momento per guardarla e sollevarla in aria come quando era ancora bambina. Non che fosse molto diverso, adesso, Raki era piuttosto bassa anche per essere nella pubertà. Forse era di poco più bassa della Dea. «Sono così felice di saperti viva, Raki!»
«É stata Astrid, lei mi ha salvato!» Fece la quattordicenne, volgendo il capo verso la tua protetta, che finora se ne era rimasta in disparte a osservare la scena.  Kiki seguì il suo sguardo e trattenne il fiato rumorosamente. Potevi solo immaginare che gli si fosse fermato il cuore per un istante. «Astrid» esalò a mezza voce, per lo stupore. Era come se avesse avuto paura di farla svanire se avesse parlato a voce un po’più alta.
A proposito, ma tu che ci facevi ancora qui? «Ciao, Kiki». Rispose la bionda, sorridendogli apertamente.
«Guarda un po’chi abbiamo trovato negli Inferi. Ci crederesti che la nostra Astrid è diventata l’eroina della Guerra Santa?» Scherzò Milo, ma il rosso non lo calcolò neanche di striscio. 
Il lemuriano si staccò dall’allieva e si avvicinò ad Astrid senza staccarle gli occhi di dosso neanche un momento. «Astrid… Non ci posso credere, sei viva!» Ecco, adesso cominciasti a sentirti di troppo. Ti scostasti di qualche passo per concedere ai due un po’di privacy. Non eri abituato a tanta dolcezza tutta in una volta. Eri uno duro, tu. Eppure, avresti tanto voluto che qualcuno ti abbracciasse allo stesso modo, che qualcuno ti accogliesse così.
Poi Kiki abbracciò Astrid e la ragazza, dopo un sussulto iniziale, si ammorbidì e ricambiò. E per te questo fu decisamente troppo. Se fossi rimasto un minuto di più ti sarebbe venuto il diabete. Cominciasti a scendere le scale. Non avevi fatto che dodici scalini che fosti costretto a fermarti nuovamente. «Death Mask», ti richiamò Kiki e tu ti girasti sulle scale per guardarlo: «Grazie anche a te, per avermele riportate entrambe». Disse, grato. Se tu fossi stato più infantile lo avresti preso in giro senza pietà, perché con quell’ “avermele”, l’avevano capito anche i muri che amava Astrid. Invece dovesti reprimere un moto di gelosia.
Anche da lì riuscisti a vedere Astrid girare la testa di scatto verso di lui e guardarlo stupita.
Emettesti un grugnito di risposta che poteva suonare tanto come un “dovere” come un “ma và al diavolo”. «La prossima volta sta più attento, perché non sarò così gentile; se dovesse finire nei guai e in pericolo un’altra volta, verrò personalmente a prenderti a calci». Ribattesti in tono burbero.
Lui sorrise, come se avesse preso per modo di dire la tua raccomandazione paterna. 
Poi fosti superato da un piccolo tornado colorato, seguito a pochi passi di distanza da un divertito Shura.
Ah, Yoshino doveva aver saputo.

 

Shura

Il ritorno di Astrid era stato accolto bene soltanto da quei pochi che la conoscevano e l’apprezzavano. Il resto dei suoi detrattori e di Rodorio invece no. Secondo i superstiziosi questo era foriero di sventure. Ma si guardavano bene dal dirlo, adesso che la Dea aveva dichiarato che la giovane fosse graziata.
Tu avevi una miriade di motivi per non essere contento. Primo tra tutti il fatto che Ionia avrebbe ripreso a condurre i suoi esperimenti su di lei. Questo non lo potevi sopportare. Come t’intimoriva l’idea che dovesse affrontare Odysseus. Nessuno di voi aveva avuto ragione su di lui, era impossibile che ci riuscisse lei.
Anche se la ragazza in nero che avevi visto in arena quel pomeriggio era riuscita a tenere testa a uno dei suoi diffamatori con una facilità strabilianti (per una come lei, ovvio) era evidente che non avesse speranze.
 Il ricongiungimento di Yoshino e Astrid fu una cosa commovente, davvero. Peccato che non potesti restare per godertelo fino in fondo, che doveste partecipare all’assemblea straordinaria indetta dal Gran Sacerdote. Tu e Saga pensavate che avesse a che fare con Odysseus, invece, con vostra grande sorpresa, non fu così. Fu strano per tutti voi sentire Saga appellarsi alla fratellanza dei Saint invece del fratello. Iniziò la riunione dicendo che anche se non sempre eravate tutti sulla stessa lunghezza d’onda e che eravate molto poco uniti, non vi avrebbero chiamati tutti se non fosse stata una vera emergenza. Peccato che Hyoga e Seiya non avevano potuto rispondere perché ancora in missione. 
L’emergenza di cui parlaste non aveva niente a che vedere con Odysseus. Per fortuna che stavolta l’avevate scoperta in tempo. Ma erano una scoperta e una fortuna vane, considerando quanto apprendeste subito dopo tutti voi. Ossia dell’esistenza degli Dèi Azoni e del loro incredibile potere. In particolare di quella di cui avevano raccolto più informazioni, una certa Dea Asia. «La conosco». Si lasciò sfuggire Aphrodite e voi tutti lo guardaste spaventati. «L’ho incontrata mentre ero in missione in Thailandia qualche mese fa. Ho avuto un assaggio dei suoi poteri e del suo Cosmo, non ho mai visto niente di simile».
«Anch’io la conosco», disse Aldebaran e voi tutti lo guardaste sorpreso: «A gennaio, prima dell’imboscata di Eris, i Silver Saint Castalia dell’Aquila e Shaina di Ophiucus, furono incaricate di recuperare le ClothStone che si trovavano in un museo. La missione prima era stata affidata al giovane Bronze Saint di Apus però lui fallì e tornò al Santuario con entrambe le gambe rotte». Si fermò. Tutti voi annuiste, chi più chi meno ne aveva sentito parlare. Il vostro compagno continuò: «Il ragazzo riferì che il ladro era un uomo che poi cambiò aspetto in un drago e che, mentre stava per affrontarlo, comparve dal niente questa ragazza che gli spezzò le gambe con pochi colpi mirati. Dice di non averla neanche vista muoversi e che poi calmò il drago, che nel frattempo aveva appiccato l’incendio al museo di Rio de Janeiro. In seguito quando altre ClothStone furono individuate, la missione fu assegnata alle nostre valorose compagne d’armi, ma anche loro furono sconfitte con una facilità quasi estrema dalla loro avversaria. La stessa che aveva spezzato le gambe al nostro commilitone. Con loro però, inspiegabilmente e per fortuna, ci andò molto più leggera, gli unici a pagare per quell’incontro furono i Black Saint, stando al rapporto sembravano conoscersi».    
«L’avevi già riferito alla Divina?» Volle sapere Aiolia e Aldebaran scosse il capo e spiegò che la consorte aveva fatto rapporto prima di lui. Questo andò a spiegare perché una missione tanto semplice fu poi affidata ad Aphrodite. Poi continuò: «Questo significa soltanto che gli Azoni hanno in mente qualcosa da molto più tempo di quanto pensiamo e che hanno intenzione di servirsi dei Guardiani per riuscire a sconfiggere definitivamente la Dea e riportare la Dea della Storia e della Poesia e il suo Consorte sul trono della Terra. Dobbiamo impedirglielo a tutti i costi».
«Credete che ci siano loro dietro la comparsa delle Creature?» Chiese Aldebaran.
«É possibile». 
«Un momento, ma quando siamo rinati in questa dimensione non li abbiamo visti». Fece Kiki.
«Gli Azoni sono sempre gli stessi per tutte le dimensioni, anche se questa dimensione ospita ben tre Dee Atena, c’è sempre una e una soltanto Azona a lei assegnata». Rispose Kanon in tono lugubre, che si era fatto riferire quante più informazioni possibili su di loro dalla Divina, che adesso si era ritirata nelle loro stanze. Sapevi già che secondo lui Yoshino e Tomoe andavano considerate alla stregua di due cellule figlie nate dalla medesima cellula madre che si era divisa in due per l’intervento dell’Aiolos del Mondo Perduto. In un certo senso era ironico, c’era una sorta di rimando alla maledizione più famosa della Dea, quella di Medusa. Una sorta di macabro parallelismo e, al tempo stesso, una sorta di legge del karma.
Ma non erano solo questo. Erano molto di più di questo. E tu lo sapevi che eri il miglior amico e il Saint più fedele di Yoshino.  Quindi sapere che Lady Asia poteva attentare anche alla sua vita era angosciante. Ancora di più apprendere, grazie a Milo e a Death Mask, che questa Dea non esitava a usare le sue tecniche e i suoi poteri se necessario. E, grazie ad Aphrodite, che era anche furba e spietata.
Questo era tutto un altro genere di avversario con cui misurarsi e non era neanche certo che ne sareste usciti vittoriosi. Non era la prima volta che vi sareste lanciati in guerra, ma non così, con il rischio centuplicato all’ennesima potenza. Forse sareste sopravvissuti tutti se aveste potuto usare le armi di Libra. Avevi sentito dire che i Saint raggiungevano la potenza di un Dio se brandivano un’arma. Tuttavia, se questi Azoni erano tanto potenti dubitavi che sarebbe potuto bastare. Un conto poi, come evidenziò Aphrodite, era misurarsi con un umano, un altro con degli Dèi che non si sarebbero fatti ammazzare tanto facilmente. Comunque la si girava, Aphrodite continuava ad avere ragione: restavate comunque in svantaggio.
Aiolia balzò in piedi: «Quindi significa che lei, che la Dea Asia, conosce già tutto di noi? Le nostre mosse e le nostre strategie? Tutte quelle che potremmo anche attuare?»
«Sì». Confermò Milo.  
Anche se nessuno di voi parlò, la domanda aleggiò lo stesso sulle vostre teste come un avvoltoio che vola in cerchio sulla carcassa. “Come possiamo affrontare dei nemici del genere?” E stavolta, neanche gli zucconi del Santuario ebbero la prontezza di spirito di traslarla sul piano uditivo per mezzo delle loro bocche. 

La riunione si protrasse fino a tardo pomeriggio. Riusciste pure a parlare di Odysseus. Stavate proprio occupandovi di lui in questo momento. All’improvviso un domestico, lo stesso che aveva portato dentro mappe e tavolo poco prima entrò. Fece una riverenza e annunciò che la Gold Saint di Ophiuchus era in attesa fuori della porta e che voleva conferire urgentemente con il Gran Sacerdote.
Conoscendo Astrid era evidente che fosse venuta a conoscenza di qualcosa e non era una buona idea farla attendere. Soprattutto in una situazione cos. Kanon, continuando a tenere le mani sul tavolo disse: «Avevo intenzione di mandarla a chiamare, ma a quanto pare mi ha anticipato. Fatela entrare».
Il servo s’inchinò con un deferente: «Sì, eccellenza.» poi andò ad aprire e Astrid, ancora vestita di nero, fece il suo ingresso.  Anche lei ti si inchinò (se non altro portava rispetto, a differenza di sua madre e suo padre) e poi passò direttamente al sodo: «Volevate tenermi all’oscuro del vostro piano per Odysseus di Ophiuchus, forse?» Insinuò, ma per niente sorpresa. Accidenti, doveva aver parlato con Lancelot e doveva avergli detto quello che a voi aveva taciuto in questi giorni a causa del giuramento che aveva formulato.  
«Astrid…» Iniziò Kanon ma la giovane lo interruppe: «Non sono una bambina e non sono un’ancella!»  Non le capitava spesso che d’infuriarsi a tal punto. Ma questa sua fredda, lucida determinazione mise paura persino a te, che di sangue freddo ne avevi da vendere. Sarebbe stato meglio se si fosse infuriata e avesse battuto i palmi sul tavolo.
«Astrid, capisco che tu sia sconvolta, era pur sempre il tuo maestro e ora…»
«Non è questo il punto». Lo bloccò di nuovo. Poi palò in tono più pacato e ragionevole: «Sono già stata tradita e abbandonata da una persona che reputavo alla stregua di una figura paterna. Il punto è che io sono una Saint; non è più necessario tenermi all’oscuro di tutto. Che senso ha cercare di proteggermi se tanto sappiamo già come andrà a finire?»
«Ed è proprio per questo che ti ho fatto passare adesso, crediamo che tu possegga le carte in regola per aiutarci contro Odysseus. Se, stando alle parole di Death Mask hai un accordo con l’Oltretomba, credo che dovresti mettercene a parte. Potremmo anche collaborare». Propose e lei lo guardò stupita, dato i trascorsi dei mesi precedenti. Soppesò le sue parole e infine annunciò: «Sono lusingata dall’offerta, ma debbo a malincuore dirvi di no».
Era impazzita, forse? Voleva morire? Ma si rendeva conto di quello che diceva? La scrutasti e ti rendesti conto che i suoi occhi erano molto più lucidi di due mesi fa. I suoi, erano gli occhi di una persona sana di mente. Forse era più assennata lei di tutti voi riuniti in questa stanza.
Kanon non fece una piega, si limitò soltanto a ribattere: «Capisco, c’è forse una motivazione precisa dietro a questa scelta?» 
«No, nessuna motivazione in particolare, solo…» Prese la punta di una delle mappe con le dita.  
«Togli le mani dalla mia scrivania». Suggerì pacatamente Kanon.
«Prima vorrei che voi  rispondeste a una mia domanda, per cortesia». Completò con voce cortese, ma non per questo non suonò di meno come un ordine.  Kanon attese e lei la esplicitò: «Perché volete scendere in campo anche voi? È me che vuole e io sola posso affrontarlo, anche se ha attaccato tutto il Santuario».
«Perché questa non è solo la tua battaglia e molti altri Saint sono stati ricettacoli di nemici potentissimi. Non possiamo permettere che accada un’altra volta e Odysseus è un Redivivo. È più potente persino di noi riuniti in questa Sala. E vuole te. Non so se comprendi appieno il rischio, ma noi sì e io non oso immaginare cosa ti farà se cadrai nelle sue mani; se noi non riusciremo a impedirlo. Stavolta possiamo fermarlo, possiamo arginarlo in caso che tutto vada storto».
«Capisco».
Kanon continuò «Comprendo tutto quello che ti si agita nel cuore. So quanto sta soffrendo in questo momento, d’altronde è la persona che ti ha aiutato a crescere, capisco che sia strano per te. Come anche che pensi che non possa volere questo da te, che lui non potrebbe mai, ma a volte non sempre si fa il bene per il bene. A volte anche le buone azioni nascondono secondi fini». Cercò di spiegarle. Nonostante la calma apparente, la vedeste comunque fissare le carte con una faccia dispiaciuta. «Non è compito vostro».
«Vero, ma se è l’ultimo legame che ti lega all’Oltretomba allora non esiteremo ad aiutarti a spezzarlo». Garantì Aiolia a nome di tutti. In verità volevate vedere per quanto ancora sarebbe durata la sua maschera di contegno. Poteva sfuggire ad Aiolia, che viaggiava col paraocchi, ma non a te o a Milo o ad Aldebaran e a Kiki.
La sua maschera era quasi crollata. Lo sentivate, anzi no, lo vedevate tutti che era molto provata. Quasi sicuramente questa reazione era frutto di un forte stress accumulato nel corso di queste settimane. Kanon continuò a parlare finché lei non scoppiò in lacrime. Dapprima batté le palpebre e poi le lacrime cominciarono a rigarle il volto, inesorabili e inarrestabili. Poi le sue spalle furono scosse dai singhiozzi. Si schiacciò il viso tra le mani e pianse, inginocchiandosi di fronte al tavolo, costringendovi a sporgervi oltre esso per guardarla: «Non potete farlo, non potete, non potete.» piagnucolò in preda a una crisi.
Se da un lato vi sentiste in imbarazzo e la biasimaste, dall’altro invece la compatiste. Ne aveva passate tante, troppe, chissà quante crisi aveva affrontato o no. Non era ancora pronta per essere una guerriera a tutto tondo.
«Astrid» iniziò Death Mask avvicinandosi e le strinse la spalla sinistra con tutte le intenzioni di smuoverla e ricordarle di non fare brutte figure. Ma lei non lo ascoltò.
«Che senso ha avuto finora, allora? A cosa mi è servito non rivelarvi niente se tanto voi già…?» La sentiste mormorare, distrutta, come se fosse crollata sotto al peso degli eventi. Kiki la riportò alla realtà dicendole che eravate preoccupati per le sorti del Santuario e per le sue. Se fosse riuscita a portare a termine l’accordo preso con gli Specter sarebbe stata libera per sempre da loro. Non avrebbe più dovuto loro nulla. Che pure era riuscita a farsi valere e distinguersi anche tra loro. L’Eroina degli Inferi, la chiamavano. Mentre qui quasi tutti la disprezzavano. Non ti era difficile immaginare che fosse un cambiamento molto drastico per lei. Eppure le parole di Kiki sortirono il loro effetto.
Lei tirò su col naso, si soffiò il naso in un fazzoletto che le passaste e disse con voce lacrimosa: «Lui è il mio maestro, lui non è un mostro». E lo disse guardando in faccia Kiki. Il quale annuì dispiaciuto.
Kanon sospirò. Quel giorno si sentiva magnanimo, altrimenti avrebbe sopportato meno questi piagnistei. «Astrid, capisco che tu sia sconvolta, però…»
«Io non sono sconvolta, io sono disperata e terrorizzata. Tutto quello che ho fatto per tenervi separati non è servito a niente».
«Sappiamo che hai cercato di agire in buona fede».  
Solo a te le frasi sconnesse di Astrid parvero avere un filo logico, solo che non capivi cosa fosse. O a che si riferisse. Ti ricordava molto qualcosa, ma non capivi cosa. Non era ciò che legava Aldebaran e Yoshino. No, era qualcos’altro, simile.  
«Tu sapevi chi era? Sapevi che poteva essere pericoloso e non ci hai detto niente?» Fece Aiolia, cadendo dal pero. «Questo è alto tradimento». Esclamò inalberandosi subito. La protetta di Aphrodite e Death Mask trasalì e girò la testa di scatto verso di lui. Il suo connazionale seguì il suo sguardo continuando a starle vicino.
Ma Kanon lo rimise a cuccia e si rivolse ad Astrid. «Quello che dice Aiolia è vero: questo è un atto d’insubordinazione molto grave, meriteresti di essere punita con la morte seduta stante per i crimini commessi al Santuario, non ultimo l’omertà e la complicità. Tuttavia ti sei dimostrata estremamente leale anche nel torto pertanto soprassederemo tutti». Fulminò Aiolia con lo sguardo prima di tornare a rivolgersi a lei. «Hai ragione a dire così e anche a rifiutare il nostro appoggio, dopotutto il tuo potere potrebbe riuscire a fermarlo e non sei più la ragazza che sconfisse Neera. Dipendesse da me preferirei schierarti proprio come ultima risorsa, che come pedina iniziale, capisci? Il rischio è troppo alto, non posso farti rischiare il collo con un’azione suicida. Non dico che tu possa scendere in campo con noi, ma devi essere pronta a difenderti in caso di necessità».
«Non potete farmi questo».
«Non stiamo dicendo che te lo impediremo, vogliamo solo essere sicuri che tu possa riuscirci».
«Lo dissi anche agli Specter e lo dirò anche a voi, io rispedirò Odysseus di Ophiuchus nella tomba dove deve stare».
A questo punto Aphrodite, che era rimasto in silenzio tutto il tempo, parlò con voce gentile. Anche lui si era reso conto che i suoi discorsi erano troppo strani per essere delle semplici farneticazioni: «Cos’è che non ci stai dicendo, Astrid? É forse successo qualcosa che ignoriamo?»
A quel punto lei s’irrigidì e rispose, dopo qualche secondo di esitazione. «No; non è successo niente».
Incrociasti le braccia. «Sta mentendo». Intervenisti forse in tono più duro di quanto volessi. Ma ormai era fatta e non potevi tornare indietro per correggerti.
Trasalì e ti guardò. Ti rivolgesti direttamente a lei, continuando a tenere le braccia incrociate. «Perché stai mentendo di fronte alla Sacra Assemblea? Perché ti ostini a volerlo proteggere? Puoi ingannare gli altri, ma non puoi ingannare me». Dicesti. E gli altri tornarono a guardare lei, che sembrò quasi sollevata, mentre tu continuavi: «Mentire di fronte al Gran Sacerdote è un atto gravissimo, a cosa ti giova macchiarti di una tale onta? Oltretutto per un uomo come Odysseus?»
Lei distolse il viso rigato di lacrime da te, che la fissavi disgustato. Quelle lacrime così false, come solo quelle di una traditrice. Quasi ti faceva schifo guardarla. Persino Death Mask e Aiolia non ce la facevano. Anche se per motivi completamente differenti.
Astrid chiuse gli occhi e regolarizzò il suo respiro. Poi, proprio quando Kanon stava per dare l’ordine di portarla via, lei aprì di nuovo bocca. «Io non posso fare quello che mi chiedete, non posso.» mormorò come un disco rotto, ma con voce stranamente normale e triste.
«Perché non puoi? Per quale motivo tu non dovresti» quando incrociasti i suoi melanconici occhi dorati tacesti. Per contro un’idea balenò nella tua testa con sì tanta forza che ti fece sgranare i tuoi. L’avevi riconosciuta. Era la malinconia insita negli occhi di Death Mask, quando credeva che nessuno lo guardasse. Gli occhi di chi aveva perso la persona che amava o che sa che tra poco la perderà e cerca di fare di tutto perché ciò non avvenga. Come anche gli occhi della giovane asgardiana al momento dell’addio. Gli occhi di chi è a un passo dal dolore e al tempo stesso spera che quest’addio possa essere un arrivederci. Queste iridi erano persino più eloquenti. Ecco dove avevi visto quello sguardo. Ecco chi ti ricordava. E, a questo, persino tu ammutolisti.
Lei sorrise mesta mentre Death Mask e Shiryu comprendevano, seguiti da Saga, tutti gli altri. Infine  anche Aiolia e pure Kanon. «Astrid, tu» cominciò Death Mask, ma la voce gli morì subito in gola per lo stupore.
«Sì». Confermò con la sua, rotta e il respiro pieno di singulti. Vi raccontò tutto quello che provava per il suo maestro. Le pesava moltissimo, perché Odysseus era comunque una persona molto importante per lei. Aveva accettato l’accordo dei tre Giudici soltanto perché era stato lui a dare il via a tutto. Se non avesse istigato i tre probabilmente lei avrebbe ancora la sua vita normale. «Mi vergogno da morire per questo». Disse, ed era vero. Come poteva continuare ad amare l’uomo che le aveva fatto questo? Non capivi questo conflitto dilaniante, che si era aggiunto alla sua fragilità. Inoltre, Odysseus aveva messo in pericolo Yoshino e la Dea. Non poteva continuare a farla franca e lei non voleva rendersi complice, nonostante i suoi sentimenti che stava sforzandosi di cancellare.
La sua tenacia e la sua forza nella giustizia era tale che sorprese pure tu.
Potevi solo intuire quanto il suo cuore, come un uccellino che si dibatte furiosamente in una gabbia, stesse cercando di fuggire a questo patto. Ma non poteva trasgredire. Il tuo sguardo corse su Kiki.
Anche lui era sofferente, non si aspettava niente di tutto questo. E avesti pietà per lui, anche se non ti sfuggì il luccichio di vaga speranza che balenò in quelle iridi violette. 
Alla fine lei concluse dicendo: «Per questo dico che non potete farmi questo, che non potete». Singhiozzò. E, forse, per un misto di stupore e rispetto, nessuno di voi ebbe il coraggio di formulare quella frase.
«Cavaliere di Capricorn, accompagna l’apprendista del Gold Saint di Ophiuchus a sciacquarsi il viso». Ordinò Kanon, impietosito o forse infastidito. C’erano delle volte in cui ti era veramente difficile interpretarlo, ciononostante obbedisti.

Porgesti la mano ad Astrid per aiutarla a rialzarsi e lei l’accettò. Poi, l’accompagnasti fuori della Sala. Ti scusasti dicendo di non sapere dove fossero i bagni alla Casa di Atena, ma lei non disse niente. Fu lei a guidarti lungo i corridoi e le stanze fino al bagno, dove ci si chiuse dentro.
Quando ne uscì sembrava un po’ meno sofferente. «Credi di essere sufficientemente forte per sostenere questo compito?» T’informasti quando lei uscì. Avresti voluto concederle la sua privacy, però non ti era permesso.
«No». Ti rivelò, contraendo di nuovo il viso in una smorfia di dolore. E tu avesti un moto di pietà verso di lei. Le posasti una mano sulla spalla e la stringesti con dolcezza. Lei la coprì con la sua.

«A nome di tutti noi, ci dispiace moltissimo per tutto». Facesti. Qualcosa ti diceva che quella era l’unica occasione per esprimerglielo. Lei annuì. «Grazie, Shura».
«Siamo contenti comunque che tu sia riuscita a resistere tanto, soprattutto durante la riunione». Continuasti, impacciato. Era Milo quello bravo con le parole, non tu. «Credevamo che non ti saresti mai ripresa completamente».
«Non lo so se mi sono ancora ripresa».
«Qualsiasi cosa tu abbia in mente, noi saremo un passo indietro per aiutarti, questa notte, qualsiasi cosa succeda».
«Grazie».
Forse era meglio se l’aveste lasciata andare. Kanon non se la sarebbe presa a male se l’avessi fatto.  «Ora torna all’Ottava, è quasi ora di cena, vedrai che i domestici ti prepareranno qualcosa di buono». Non le avevi consigliato l’Ottava a caso. Dopo Death Mask e Aphrodite, la Casa di Milo era quella più sicura di tutte. Ma non perché Milo era il Cavaliere di Scorpio, bensì perché quei due erano amici. E lui ti era parso che avesse una buona influenza su di lei.
«Sì».
Non ci avreste mai creduto neanche se te l’avessero raccontato.    

«Fa quasi male vederla così distrutta». Mormorò Aiolia mentre guardava la Luna, quella sera. La sera in cui Astrid avrebbe dovuto misurarsi contro Odysseus.
«Sì, anche a me. Ascolta, Aiolia…»
«So quello che vuoi dirmi, non preoccuparti Shura, è tutto a posto, so che Aiolos, il mio vero fratello riposa in pace. L’ho rivisto e abbiamo condiviso la morte con lui per la seconda volta, va tutto bene. Dimentica quello che ti ho detto la seconda volta che siamo risorti, io non mi ricordavo cosa era successo prima; ma so che a causa mia hai dovuto sopportare dei mesi di rabbia e rancore ingiustificati e mi dispiace».
Non era proprio quello di cui volevi parlare, però andava bene lo stesso. Forse non era il caso di dirgli che avevi intenzione di aiutare Astrid, qualora fosse in difficoltà. Lo dovevi a Yoshino. Non avrebbe sopportato di perderla una seconda volta. «Aiolia io, ti ringrazio, anche se delle semplici scuse non basteranno mai per rimediare alla mia colpa».
«La stessa cosa vale per me». 
«Io non so cosa sia l’amore», confessò Aiolia, in un rarissimo slancio di fragilità, continuando a guardare quel poco che restava del cielo stellato, « so di averlo visto da vicino, ma è tutto qui. La cosa che più gli si avvicina è la venerazione per la nostra Dea, credo. Ma quando guardo Astrid lo rivedo, vedo come ama; riconosco in lei, lo stesso sguardo di Atena per tutti noi e Astrid, che però combatte al nostro fianco, ecco… vorrei essere meno arido di quello che sono». Lo immaginavi, come capivi perfettamente di chi stesse parlando in realtà.
«Sì, anch’io vorrei esserlo».
«Se c’è una persona che conosce l’amore, quella è proprio Astrid e non voglio che debba patire come noi». Disse guardandoti. A un orecchio estraneo poteva sembrare che parlasse di Aiolos. E di chi altri vuoi che avesse parlato?
Ma tu sapevi che la sua mente non era qui, che non si stava riferendo davvero alla perdita dell’unico punto in comune che avevate quando eravate bambini. Sapevi bene che la sua mente era volata via, sulle correnti artiche delle bufere di Asgard. A fare compagnia al dolore di Death Mask, che, ancora adesso, non aveva dimenticato anche lui, la ragazza che gli era morta tra le braccia. Come sapevi quanto fosse struggente il loro desiderio, alle volte, di tornare in quelle terre perennemente congelate dalla preghiera della Rappresentante di Odino. 
«Combatterai anche tu?» Ti chiese guardandoti.
«Sai che lo farò».
«Credi che questo potrebbe portare degli sconvolgimenti nel piano?»
«Parecchi. Se è legata all’Oltretomba come ci hanno riferito Shun, Milo e Death Mask, allora dobbiamo stare anche più attenti. L’hanno trasformata in una pedina nelle loro mani. Anche la missione suicida che le hanno affidato lo dimostra».
«Tu credi che lei ce la farà a portare a termine questo compito?»
«Credo di sì. Se c’è qualcuno abbastanza ostinato allora quella è lei». E lo sapevate perfettamente anche voi. Stavolta avreste dovuto lasciarla agire invece di ostacolarla. Capo Sounion e l’Isola di Milo non avrebbero mai visto Astrid. Ora come ora era più utile qui. Eppure vederla in questi termini ti faceva pena.
Improvvisamente, senza sapere bene perché, ti tornò alla mente Yoshino che ti supplicava di tornare da lei vivo e vegeto.

Astrid

Ovvio che la rivelazione li aveva sconvolti dal primo all’ultimo.

Avevo smesso di piangere da un po’, ma il sonno tardava ad arrivare. Non avevo neanche fame, per questo lasciai scorrere i minuti, limitandomi a chiudere gli occhi di tanto in tanto. Stesa sul divano. Più volte mi parve di scorgere qualcosa con la coda dell’occhio, era come se qualcosa si fosse mosso accanto a me. Silenzioso come un fantasma. Ma era solo una mia impressione data dai giochi di luce, finché poi sentii i passi degli altri Saint che percorrevano il corridoio di passaggio e seppi che la riunione era finita. Mi alzai e andai a sedermi sulla regista in terrazzo, a osservare il sole che stava tramontando e tingeva il cielo di bellissimi colori e le nuvole di rosa. Riconobbi anche del rosa, dell’arancione e del verde, oltre al giallo, in questo tramonto. Anche se era molto delicato, a me piaceva di più quando il cielo, tramontando, sembrava arcobaleno.
«Eccoti qui, oh, scusa, credevo che mi avessi sentito arrivare». Si scusò, poi  quando scattai a sedere di colpo e cercai di scorgerlo nella penombra, poi riconobbi la sua sagoma. Era solamente la Piattola che si era tolto l’armatura e indossava abiti civili per il Santuario. Ossia la maglia rossa d’allenamento e i pantaloni neri con quelle buffe scarpe allacciate ai polpacci tramite quei lacci diagonali. Non pensavo che continuasse a vestire questi colori anche in queste occasioni. Anche se sapevo che il suo guardaroba era molto più fornito di così. Mi sorpresi di me stessa: molte delle cose che sapevo di loro dal mio passato come domestica, le avevo dimenticate. Non mi ricordavo neanche più dove tenevano il sale o i piatti nelle rispettive cucine o come erano disposti i loro mobili. Mi sembrava di non riconoscere più niente qui.  
«Shura mi ha detto che eri qui.» proseguì tranquillo, affiancandomi, continuando però a guardare di fronte a sé. Mi rilassai e tornai lentamente a sedere: «Sì, spero che non sia di disturbo». Risposi.

«No, va bene, mi fa piacere che tu l’abbia ascoltato e poi sono dei mesi che non ci vediamo, sono felice di passare un po’di tempo insieme a te».
«É il tuo modo per dirmi che ti sono mancata?»
«Più che te le tue lezioni astronomia. Ho provato a sbrigliarmela da solo, ma non ci ho capito quasi nulla».
«Capisco, allora appena questa storia finirà vedremo se potremo riprendere tutto».
«Lo spero proprio, erano divertenti».

Chissà quanto sarebbe stato lieto se avesse saputo tutta la verità fino in fondo. A volte, senza volerlo, mi sembrava che lui intuisse più di quanto desse a vedere. Anche se erano solo dei casi e non ci dava tanto peso. «Sì, è vero. Pensi che riuscirai a guardare in faccia una sporca traditrice come me?» Lo provocai. Sapevo che già una volta si trovò invischiato in una situazione simile a causa di Eris e di Rigel di Orion che passò dalla sua parte per amore di Kyoko, l’ex Saintia di Equuleus. Volevo vedere quanto influenzasse il suo giudizio tutto ciò e come avrebbe reagito. Per lui era già stato uno shock vedermi al fianco di Pandora e indossare quella ferraglia che mi ostinavo a chiamare Surplice. Oltre che apprendere la verità sulla mia famiglia. Era già tanto se non aveva reagito male negli Inferi. Per quel che ne sapevo stava solo trattenendosi. 
«Certo che sì. Non è la prima volta che mi capita una cosa del genere. Con la storia di Shoko e Kyoko ci ho già fatto le ossa. L’importante è che tu sappia sempre dove punta la bussola morale». Mi rassicurò. La mia bussola morale, almeno quella, non era cambiata. Anche se era difficile capire dove avrebbe puntato in futuro. E quanto Milo potesse intuire davvero. «Come è andata a finire la riunione? Hanno protestato tanto dopo che me ne sono andata?» Chiesi poi, dopo qualche minuto di silenzio.

«No, anzi, sembravano più sollevati».
«É chiaro, l’importante è che il piano sia pronto. Potresti illuminarmi, per favore?» Esitò e capii che non era autorizzato a parlarne. In compenso mi disse che Kanon riteneva più saggio far sì che io restassi all’oscuro. La loro strategia si basava sulla mia ignoranza. Sospirai e decisi di sbottonarmi un po’di più: «Ascolta, non so voi, ma te l’ho già detto una volta e te lo ripeto ancora: io non sono né buona né cattiva, nessuno di questi due lati prevarrà mai in me. Decido io cosa sono e come comportarmi, è chiaro? E, al contrario di quello che predice il vostro oracolo, io non mi sento né cadere nei dubbi e, dunque avvicinarmi alle Tenebre, né avvolta dalla Luce più pura». Questa era la conclusione cui ero giunta dopo aver appreso cosa ci fosse in me, mentre ero nei Campi Elisi.

Mi guardò sconvolto. «Non senti niente?»

«No. Mi sento normale, ma non diversa». Almeno qualcosa, ma quanto sarebbe durata ancora? Quello che sarebbe potuto succedere mi avrebbe cambiato per sempre «Cambiata, forse maturata quello sì, ok, ci sta. Ma diversa da me stessa no.» Sospirai e cambiai discorso. Mi ero stufata di pensare e ripensare a questo punto. Mi girai verso di lui sulla sedia, vergognandomi del mio parlare a ruota libera. «Sai, a proposito, dicono che le parole ci forgino e ci rendano quelli che siamo, soprattutto questi vaticini, queste intuizioni senza scampo e senza senso». Dissi dopo una pausa passata nel silenzio più totale.

«Senza senso?»

«Sì. Perché devo affidarmi alle parole di un tizio che non ho mai visto né conosciuto in vita mia, per sapere quello che devo fare della mia vita? Perché, se sto tanto bene con me stessa così come sono, devo lasciare che le parole di qualcun altro mi feriscano e mi cambino?»
«A cosa ti stai riferendo?»
«A niente in particolare, ho solo fatto una specie di bilancio di quello che mi è successo finora e mi sono accorta che la maggior parte delle cose che ricordo sono solo etichette che tutti mi hanno affibbiato, anche questa cosa del Patto, immagino che abbia cambiato di molto il vostro modo di vedermi». Ecco, forse per sommi capi e a piccoli passi sarei riuscita a rivelarglielo. Mi invogliava a dirgli tutto come quella notte nel mio osservatorio astronomico. Per il momento lui non colse il vero senso delle mie parole e andò bene così. «Stai dicendo che non credi a quello che ti è stato riferito?»

«No. Non saranno certo le parole del Grande Sacerdote e neanche quelli di tutti gli Dèi messi insieme a dirmi quello che devo fare o essere. E, poi, essere è un verbo, non un soggetto».

«Che significa?»

Le parole che dissi erano più per me che per lui. Perché mi sembrava di stare perdendomi di vista. Temevo che tutto quello che era successo potesse avermi fatto dimenticare chi ero ai miei stessi occhi. E più di tutto temevo che cambiasse il modo in cui mi giudicavo. «Che il verbo essere è qualcosa che si è qui, e ora, è solo un istante che l’attimo dopo non c’è più, e che ogni cosa è in continuo mutamento e cambiamento; cioè, ogni cosa è passeggera. Questo potere», alzai le mani a coppa e queste s’illuminarono di quella calda luce bianca e gialla mandanti quelle scintille di varie sfumature dei miei occhi; «è qui, è sempre stato con me». Ma era molto di più di questo. Ogni volta che le lasciavo risplendere così riuscivo a sentirmi di nuovo connessa alle stelle, sentivo le loro voci. 

Lasciai che il luccichio si spegnesse e riadagiai le mani in grembo.
Restammo in silenzio per un po’ a guardare le stelle, poi mi domandò, tanto per fare conversazione: «Che cosa stavi cantando, l’ultima volta che sei stata all’Undicesima?»
Alzai le spalle. «Una canzone così, non è importante».
«Potresti farmela sentire?»
Sorrisi divertita e lo guardai: «Perché?»
Alzò le spalle: «Così, mi va».
Avrei tanto voluto esaudire la sua richiesta, però non mi sentivo in vena. «Non credo che sia una buona idea, un’altra volta, va bene?»
Restò un po’deluso ma acconsentì: «D’accordo. Allora potresti rispondere tu a una mia domanda.» Annuii e lui me la sottopose, incuriosito: «Perché leggi la mano?»
«Perché… perché mi piace». Confessai senza troppi giri di parole. Ne avevo usate anche troppe  oggi per svicolare. Almeno una volta nella vita, volevo essere chiara e coincisa. Ecco la verità che c’era dietro alle mie motivazioni. Anche se c’era un Prezzo da pagare lo pagavo volentieri. Ora che ci pensavo era da molto tempo che non la leggevo più, chissà quanto dovevo essere arrugginita.  

Restammo in silenzio per un po’, beandoci della reciproca compagnia. Mi era mancato davvero in questi due mesi. Non lo avrei mai perdonato per via del mio arrivo poco ortodosso, però almeno, mi sentivo di essere un po’indulgente verso di lui. Almeno questa eccezione per stasera, la volevo fare.
Dopo un po’disse che moriva di fame e che si metteva a tavola. Si alzò ed entrò dentro, poi ricomparve sulla soglia e mi chiese se volessi mangiare qualcosa anch’io e sì, effettivamente avevo un po’fame. Preparò qualche piatto greco e un sostanzioso piatto di riso selvatico che riconobbi come una delle mie ricette e che avevo insegnato a Lythos. Disse che gli era piaciuta tanto che si era fatto dare la ricetta dalla sorella minore di Aiolia. Io fino a quel momento neanche sapevo che sapesse cucinare. Quando gli feci i miei complimenti rispose che si era fatto insegnare qualche trucco dai domestici. Lui si affidava completamente a loro solo quando era esausto. A cose normali preferiva trattarli con rispetto. Questo significava anche tenere la casa in ordine il più possibile: «Ecco perché Casa tua non è mai stata troppo difficile da pulire». Esclamai stupita. Mi raccontò che era abituato a svolgere questi lavori. Di solito in tempo di pace se ne stava sulla sua isola e conduceva una vita semplice. Non si sbottonò più di tanto ma capii che aveva trovato un modo per vivere al di fuori del Santuario, di ritagliarsi anche lui uno spazio privato.
«Quindi se non fossi stata mandata negli Inferi da Hades…»
«Sì, avresti vissuto casa mia; avevo appena finito di pagare l’affitto della mia casa solo qualche giorno prima. È un po’che non ci metto piede, non posso garantire niente sulla polvere e il suo stato, però. Temo che dovrai lavorarci su, prima di renderla di nuovo agibile». Scherzò. Quanto era buffo in quel momento. Posai il bicchiere e inghiottii in tempo, prima di strozzarmi: Sorrisi cercando di non ghignare troppo. Se fossi scoppiata a ridere adesso, quello che avrei voluto dire non avrebbe avuto più senso logico. «Lasciatelo dire: come agente immobiliare fai schifo». Scoppiammo a ridere entrambi, sguaiati come iene, divertiti.
Quando ci calmammo lui disse, senza malizia: «Certo che hai davvero dei gusti strani». Ma si capiva che voleva solo vedermi sorridere. 
«Perché?»
«Voglio dire: Odysseus? Seriamente? Come si fa a fossilizzarsi su una persona sola quando al Santuario siamo così tanti?» “E vivi?” tradussi, ma non lo dissi. Per quanto la situazione fosse tragicomica non si sentiva di affondare più di tanto il coltello nella piaga. E io lo ringraziai per questo. Mi guardò con un sopracciglio inarcato dalla perplessità. Solo dopo si accorse del tono malizioso che aveva usato. Quando faceva così era inevitabile, gli piaceva stuzzicarmi. Era veramente un bravo analizzatore, aveva capito che se faceva così gli davo molta più soddisfazione di Camus. Se lui lo aveva fulminato con gli occhi, io distoglievo proprio lo sguardo. A volte diventavo tutta un tremolio che quasi non camminavo e finivo per fare quegli strani balletti che tanto lo facevano sganasciare dalle risate. Non che avesse cominciato a parlarmi delle sue performance amatorie fuori del Grande Tempio ma quasi. Aveva scoperto che non mi lasciavo sconvolgere dall’argomento, ma anzi, ricambiavo molto volentieri buttando giù una caterva di doppi sensi che lo lasciavano di stucco ma che al tempo stesso lo mettevano a suo agio.
Questo era il fantastico rapporto che si era andato delineando con la Piattola prima che fossi trasportata negli Inferi.     
«Che ti devo dire? È così e basta e, comunque no, togliti quello che stai pensando dalla testa».
«Ma è dall’infanzia che ti piace o...?»
«No, no. Si è sviluppato dopo, prima era solo il mio maestro e sì ecco, gli volevo bene. Non dico che sia impossibile innamorarsi a sei anni ma, come dire, è successo dopo, per me». Risposi imbarazzata scrollando le spalle.
«E nel frattempo non c’è stato nessun altro?»
«Bè, sì, ovvio che qualcun altro c’è stato ma erano sempre amori non corrisposti, cotte adolescenziali, ecco». Devo ammetterlo ma io e l’amore camminavamo molte volte su binari opposti. Anche perché non mi era mai interessato più di tanto avere un ragazzo. Sì a volte mi ero trastullata con queste fantasie e anch’io avevo avuto qualche flirt. Mai niente di serio o approfondito, però mi andava bene così.
«E, cosa ti fa pensare che lui ti ricambi?»
«Non lo penso, infatti». Confessai con un pessimismo che gli fece sgranare gli occhi. Sospirai: «Sono passati tanti anni e io ero solo una bambina, probabilmente mi vede ancora così. Poi è molto triste, voglio dire, io sono viva e lui è uno spirito. Cioè, qui parliamo di necrofilia e non è che la cosa mi entusiasmi molto, se devo essere sincera, come se già non bastassero le mie crisi». Spiegai, accartocciando la spiegazione su sé stessa. Sapevo dove voleva andare a parare e anch’io sapevo che avrei dovuto parlare con Kiki. «Inoltre, Odysseus non ha motivo alcuno di ricambiare i miei sentimenti. Sono piuttosto realista, lo ammetto».
Lui si accomodò sulla sedia accanto alla mia: «Vorrei dirti che sei molto pessimista, in realtà, però, temo che tu abbia ragione; potrebbe succedere il finimondo in ogni momento». E i miei sentimenti per Odysseus potevano rappresentare un notevole impedimento. In quel momento eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Era rassicurante sapere che la Piattola mi capisse così bene e fosse dalla mia parte.

«Hai già pensato a come catturarlo?» Volle sapere, tornando serio, completamente. Ecco, questo era il Gold Saint che tutti rispettavano. Abbassai lo sguardo: «Francamente no. Io e lui possiamo comunicare telepaticamente, non vorrei che potesse sentirmi. Sto facendo del mio meglio per tenere la mente silente».  La Piattola si zittì e mi fissò a lungo con compassione, poi lasciò cadere lo sguardo sul piatto davanti a me e mi consigliò caldamente di finire: «So che hai lo stomaco chiuso, ma avrai bisogno di energia se hai davvero intenzione di gettarti in battaglia». La cosa strana era che in realtà sentivo che avrei potuto mangiarmi un bisonte tutto intero. In altri momenti mi sarei chiesta se fosse normale, ma avevo già passato del tempo in uno stato come questo negli Inferi. Ormai certe paturnie come allora non le facevo più. Mangiare era un atto puramente meccanico completamente separato dai miei sentimenti.   
La mia bocca s’incurvò in un sorriso divertito mentre seguivo il suo consiglio. Inghiottii e dissi: «É buffo, sai? Sono andata avanti a zuppa di carne e verdure per due mesi che adesso non riesco quasi più a riconoscere i sapori e i piatti della cucina greca. Mi fa strano vedere qualcosa di diverso dalla zuppa».
Comunque, per ammazzare la tensione, Milo era perfetto. Per un po’, grazie a lui, riuscii pure a dimenticarmi del gravoso compito che mi spettava.

 

Stavo pensando a Le piaghe de Il principe d’Egitto della Dreamworks quando cominciò, verso le dieci di sera. E, come se fossimo in quel tempo, a farci scattare in piedi, furono i serpenti. Come in un vecchio incubo uscirono strisciando dappertutto. I loro corpi viscidi si muovevano sinuosi sul pavimento pulito. Le loro voci sibilanti chiamavano il loro padrone a gran voce.
Per la paura saltai sul divano rapida come un gatto, mentre Milo chiamò a sé la sua Scorpio che gli si dispose immediatamente sul corpo e, usando la telecinesi, spostò i serpenti per aprimi la via: «Vai, Astrid. Io non posso muovermi da qui ma tu sì, tu devi!» Mi spronò.
«Datti una mossa, Astrid, non ho fatto tutte queste scale per fare i tuoi porci comodi!» Berciò Death Mask comparendo nel corridoio aperto dalla Piattola. La sua Cloth già indosso. Entrambi esclamammo il suo nome e lui ci ignorò entrambi mentre i serpenti cercavano di lottare contro il potere di Milo. Una frazione di secondo dopo suonarono i rintocchi della Meridiana. Io e Milo stavamo attendendo pazienti. «É cominciata, andiamo. Muoviti!» Mi spronò a saltare nel corridoio e raggiungerlo proprio mentre un serpente velenoso si alzava di qualche centimetro da terra e rivelava la sua natura di cobra. Se avessi saputo che mancava così poco avrei chiamato mio padre oggi pomeriggio. Mi pentii di non averlo fatto e di non aver neanche cercato il mio cellulare. 
«Va bene!» Esclamai e saltai via, evitando per un soffio le mascelle velenose del serpente che ricadde sui suoi simili.
«Fermali più che puoi, Milo». Si raccomandò, ma suonò lo stesso come un urlo sguaiato.
«Va bene». Appena fummo fuori del salotto cominciò a tartassarli con le Quindici Punture dello Scorpione. Aveva aspettato fino a quel momento prima di cominciare ad attaccare per rispetto per me.
«Andiamo da Odysseus?» Chiesi cercando di sottrarmi alla sua presa mentre lottavo per infilarmi i sandali che si erano sfilati.
«Niente domande e sbrigati!»
«Un secondo!» Esclamai e quello emise un verso di stizza ma mi accontentò. Li rinfilai velocemente. «Hai fatto? Adesso andiamo!» Poi ricominciò a trascinarmi appena un secondo prima che finissi. Il rumore delle strida di dolore dei serpenti mi annunciava che la Piattola stava bene e mi ferì al cuore.
Tutti quei serpenti… “Oddei, Snakye, perdonami per averli lasciati alla sua mercé”. Pensai per un momento. Ma scacciai subito quel pensiero. Non era il momento di pensarci. Cercai di concentrarmi su altro. Mi aspettavo che la sua apparizione fosse una cosa più eclatante non così discreta. Lui intuì la mia titubanza e mi trapassò minaccioso con gli spettrali occhi azzurri che si ritrovava. «Per favore Astrid, non costringermi a usare le maniere forti per portarti da lui. Hai detto che hai un compito, no? Non pensare adesso al WWF, Milo ha la pelle dura, se la caverà benissimo. Pensa alla battaglia!»
«Ci sto provando». Ma la voglia di salvare quegli animali era più impellente. Death Mask intercettò i miei pensieri e mi afferrò per il braccio, bloccandomi. «Ah, non ci pensare nemmeno. Sì, devo essere pazzo a farlo e non lo sono. Spietato sì, cinico pure, ma senza cuore no e non ci tengo a vederti morire per mano di quegli animali al soldo del Cavaliere Maledetto. No grazie, stavolta passo. Non me ne frega se non mi ascolti, il tuo vero obiettivo sta dall’altra parte».
Proprio in quel momento uscimmo dall’Ottava e salimmo i gradini più velocemente che potemmo mentre lui, sempre con lo stesso sistema, allontanava i serpenti. Avremmo potuto correre alla velocità della luce, se lui mi avesse dato un passaggio, ma non lo facemmo. Più tempo per elaborare una strategia.  
«Eh, già». Ma intuii lo stesso cosa volesse dirmi. Aveva di nuovo paura di non potermi salvare. Aveva già perso Helena che amava anche non se ne era reso conto. Aveva perso la Cloth già una volta, la vita e gli amici. A me si era affezionato e lo sapevo, come sentivo cosa stesse pensando. “Hai così paura, Death Mask?” Pensai stupita. Se avesse saputo quello che avevo fatto negli Inferi alle spalle di tutti loro, dubitavo fortemente che ne avrebbe avuta altrettanta. Meno male che il mio Cosmo non era percepibile ai loro sensi, altrimenti dubitavo fortemente che mi avrebbe parlato così.
Persino gli Specter lo sapevano e mi temevano e cercarono di entrare nelle mie grazie in tutti i modi. Per la prima volta, mi fermai senza che lo desiderassi e le mie labbra si mossero da sole e gli dissi qualcosa che non capii ma che lui intese benissimo. Oh, no! Non adesso, non adesso, per pietà! «Vuoi combattere contro di me?» Chiese accogliendo la provocazione con un’occhiataccia mentre io ricacciai tutto indietro. «No, ma se non mi lascerai andare sarà anche peggio di così! Andiamo!»
E lo superai.
I serpenti che continuavano a cercare di sconfinare entro la sua barriera telecinetici. Ma non si lasciò sfuggire questo cambiamento. «Cosa era quella cosa di prima? Sei impazzita?»
«Certo che no!» Urlai di rimando e la mia voce rimbombò tra le rocce. Lui mi seguì e se ne uscì con un verso, anzi no, un ringhio: «Bene, perché non ti conviene sfidare me. Mi spieghi come pensi di riuscire a sconfiggerlo?» Chiese poi.

Avevo appurato che le costellazioni in precedenza erano dodici. Ma, avevo considerato solo quelle tropicali. Nello zodiaco siderale, esisteva una tredicesima costellazione. Una tredicesima costellazione che Castalia e Shaina conoscevano bene, a quanto sembrava. Non solo perché Shaina era la Silver Saint dell’Ofiuco. Ma perché era stata posseduta proprio lì, nello spiazzo tra le due Case dello Zodiaco. Ci avevo fatto caso fin da subito a quel posto, se devo essere onesta. Passare di lì mi ricordava troppo casa. Il che era strano.
Ma ora che sapevo la verità dovevo verificarlo. Cosa voleva lo spirito del Cavaliere d’Oro Maledetto da me? Perché aveva scelto proprio me come apprendista con tutti i bambini nati in questo mondo?
Death aveva insistito per venire con me, non si poteva mai sapere con gli spiriti, soprattutto se non avevano mai trovato la pace. Detto da colui che la pace l’aveva negata a tante persone era tutto dire, poi.
«Con il potere delle Stelle, mi sembra logico». Poi mi morsi il labbro, sperando che non avesse colto ciò che mi si agitava nel cuore.
«Sì, ma lui è un Cavaliere d’Oro mentre tu, tu non hai nemmeno il Settimo Senso!» Se ne uscì dopo aver annaspato un po’, alla ricerca di un termine che non mi sminuisse al punto da offendermi. Tacqui per non rivelargli cosa era accaduto nella Foresta dei Suicidi. Non aveva idea di quanto fosse veramente rischiosa per me questa storia. A prescindere dal mio adorato maestro o no. Non avevano idea dell’enorme scommessa, del Prezzo che tutto ciò esigeva. Questo andava al di là della mia incolumità, anche se mi avrebbe scatenato contro l’intero Santuario.  «Che tu ci creda o no, anche un potere apparentemente insignificante come il mio può essere decisivo in talune situazioni».
«Ti conviene sperare che questa sia una di quelle». Ribatté macabro.
«Grazie». Dissi sarcastica, ma mi uscì più uno squittio da topolino impaurito.
«Ti vuoi tirare indietro?»
“Sì” «No».
«Ho saputo quello che è successo con Neera. Allora era questo il vero intento degli ambasciatori di Poseidone». Disse Death mentre mi accompagnava nel luogo delle rovine del Tempio Maledetto d’Ophiuchus. «Altro che alleanza, quelli stavano cercando l’ubicazione del Tempio per rapirti! Che gran figli di…»
Lo interruppi prontamente: «No, non è esattamente così. Loro cercavano sì il Tempio Maledetto ma per impossessarsi del potere che esso cela. Il fatto che sia maledetto è perché nessuno a parte un Cavaliere o una Sacerdotessa con un potere superiore o la Dea stessa, possono contrastarlo. La radice di tutti i vostri mali parte proprio da qui. Escludendo il Cavaliere d’Ophiuchus e maledicendolo, avete portato lo squilibrio nello zodiaco e nelle dodici Case». Ecco, finalmente lo stavo mettendo a parte della mia teoria ed era meglio concentrarsi su questo che sul mio problema.
«Che vuol dire?»
«Conosci l’origine della Costellazione del Serpentario?» Gli domandai, prendendo alla larga la domanda. Death non comprese. «Sì, ma cosa c’entra?»
«C’entra perché i Cavalieri d’Ophiuchus erano insigniti di poteri curativi, erano i medici tra le costellazioni, ed erano anche quelli che una volta fungevano da collegamento tra tutti gli altri Gold, l’amicizia, la collaborazione, tutte queste cose qui, ma a un livello ancor più sentito di quello che c’è adesso. Ed erano le persone più sacre all’interno del Santuario, sacre, capisci? Quasi allo stesso livello di Atena. Ragione e Religione una di fianco all’altra, entrambe mezzo per arrivare alla verità tanto agognata dall’essere umano e alla sua medicina. Una regina guerriera per le battaglie e un sacerdote guaritore per le anime. Persino gli Specter avevano un commilitone che se ne occupava, ma perché noi no? Facendolo diventare un Cavaliere d’Argento, escludendolo dalla rosa e sigillandolo, vi siete avvelenati da soli. Per questo avete avuto così tanti problemi tra voi nel corso dei secoli mentre tra le altre fila non ce ne sono stati».
«Stai dicendo che la questione di Atena e Arles non c’entra?»
«No, solo che questa è solo una delle conseguenze di questa scelta. Il Cavaliere d’Ophiuchus avrebbe potuto contrastare quello di Gemini e guarirlo dalla sua malattia. Ma ciò non è avvenuto proprio perché non c’era più da tempo». “Tra amore e morte, vi siete privati di quello che sta in mezzo, ecco cosa avete fatto”. Pensai. «E, poi, non penso affatto che sia maledetto».
«No? E, allora cos’è?»
«Una questione di semantica».
«Semantica? Prima la psicologia, poi l’astrologia, cazzo, Astrid; parla chiaro non ci capisco più niente!» Sbottò.
«Pharmacon. La parola farmaco in greco ha due significati, medicina, ma anche veleno».
«Che cazzo stai a dire?»
«Voglio dire che sta usando il suo potere per avvelenarci, adesso ti è chiaro?» Forse c’era lui dietro tutta la storia della malattia che stava colpendo tutti i Saint. Se fossi riuscita ad averne la conferma forse avrei davvero potuto fare qualcosa per loro.   
«E, Hades?»
«Chiunque avrebbe paura della morte al punto da accettare l’offerta del Signore dell’Oltretomba, se non c’è nessuno che possa salvarlo».
«Ma lui non ha una tecnica che gli permette di essere immortale?»
«Sì, la Dark Resurrection, però anima e corpo sono due cose completamente diverse».
«É per questo che il Cavaliere cerca vendetta?»
«Anche».
«E, tu cosa vuoi fare?»
«Farlo smettere». Dovevo ricondurlo ai suoi doveri, quelli veri, non a cercare di attentare alla vita di Atena. Già, fermarlo era l’unica soluzione possibile e facendo ricorso esclusivo ai poteri delle Stelle. Non mi sentivo di usare le tecniche del Gold Saint, già quelle erano difficilissime per me da raggiungere, figuriamoci quelle... no. Non dovevo nemmeno pensarci. Quelle tecniche, per quanto fossero già più mie e più vicine, le sentivo meno normali e meno anomale di quanto avessi pensato. Non potevo usarle, anche perché non avevo idea di cosa potessi effettivamente farci.
Altrimenti avrebbero scoperto la verità su di me.
Appena prima che raggiungessi il ring dello scontro, mi fermò posandomi le mani sulle spalle e girandomi verso di sé. Mi ritrovai a guardare il suo volto preoccupato ancora piegato in quella smorfia arcigna che tanto lo caratterizzava: «Battilo quello stronzo! Appena l’hai ridotto male dammi il segnale e aprirò la Porta degli Inferi».
«Ok».
Poi ritrasse le mani e riprendemmo la nostra avanzata fianco a fianco. Gli altri Saint vicini o pronti a intervenire come concordato ed era tutto quello che sapevo. Ci fermammo al centro esatto dello spiazzo tra le due Case, proprio tra le rovine che furono teatro della mia ultima battaglia notturna. Per un momento ebbi un flash di Neera, ma poi lo scacciai.
Strinsi le mani in pugni, poi mormorai: «Mostrati, lo so che sei qui». Le mie gambe si piegarono da sole e acquisii la posizione di partenza della naginata che mi aveva insegnato. Posai una mano a terra. Chiusi gli occhi e lasciai che la mia energia uscisse dal mio palmo e formasse la forma della mia arma. Che si materializzò subito e raccolsi. Poi mi rialzai. «Mostrati, te ne prego». Continuai. Capii di esserci riuscita quando sentii il verso stupito di Death. Aprii gli occhi e alzai la testa.
Dal cielo notturno cadevano polveri biancastre, luminose come scintille e, tra esse c’erano delle squame dorate. Presi il bastone anche con l’altra mano. Il cuore mi batteva all’impazzata.
Strinsi convulsamente il bastone con una mano, prima di tenderne una verso quelle squame. Poco prima di toccare gli oggetti solidi si dissolvevano da sole. Squame di serpente, Odysseus d’Ophiuchus. Casa. Lui.
All’improvviso in mezzo a questa nevicata, la sagoma del Cavaliere maledetto fece la sua comparsa. Manifestò il proprio Cosmo e spazzò via questa nevicata illusoria. Eppure non mi spaventò e, lo percepii chiaramente. Strano, avevo più paura per me stessa che di lui. Feci un respiro profondo e chiusi gli occhi. «Ho ragione, Cavaliere? Sei sempre stato tu a chiamarmi qui, non è vero?» Domandai e li riaprii. L’uomo fece un cenno d’assenso e usando il Cosmo come mi aveva detto Yoma tempo prima, potei vederlo. «Ma non è per possedermi come con Shaina, che mi hai chiamata». Dichiarai mezzo tergiversando, mezzo per sicurezza.
Odysseus confermò: «Già, aspettavo che tu avessi compiuto progressi sufficienti per sostenere l’esame finale».
«Come immaginavo, erano tutte delle prove, fin dall’inizio. Perché sono stata scelta io per sostenerle?» Chiesi e lui mi guardò dritto negli occhi. Il mio cuore batté un colpo più profondo ed ebbi l’impressione che il mio stomaco facesse una capriola all’indietro.
«Ogni Cavaliere d’Ophiuchus, quando le stelle muoiono, deve addestrare una persona legata a esse affinché possa riportare in vita il Cosmo, è una legge sacra che ci è stata imposta dalla Madre Terra. Noi Cavalieri d’Ophiuchus siamo sempre esistiti anche prima, sebbene avessimo altri nomi, ai tempi. Noi abbiamo il compito di selezionare i Medici del Cielo. Tu sei quasi pronta, ma ti manca ancora qualcosa, cioè la forza spirituale del vero Saint d’Ophiuchus». Dunque i miei poteri allo stato attuale non bastavano e Lancelot aveva detto il vero oggi pomeriggio. «Cosa devo fare per acquisirla?» Domandai.
«Combattere contro di me, usando il tuo Potere. Credo sia superfluo dirti il resto». Ossia che avrei dovuto combattere con tutte le mie forze. Sì, era superfluo. «Non c’è altro modo?» Chiesi.
«No».
Avrei preferito una risoluzione più pacifica. Ma le mie speranze erano state vane. Tuttavia non avevo intenzione di combattere contro di lui.
Però c’era la vita della mia migliore amica in gioco. Dovevo fare qualcosa. Gli volsi le spalle e feci per andarmene. Lui allora mi attaccò usando le Onde di Guarigione ma non mi trovò impreparata come credeva. Dissolsi il falcione e materializzai subito uno dei globi fosforescenti che aprii per creare il muro di luce.  Dal mio soggiorno negli Inferi ero cambiata, se non avessi avuto i nervi a fior di pelle probabilmente non avrei mai reagito così prontamente. Tuttavia il suo colpo fu molto più forte del mio e lo infranse. Cascai a terra per l’impatto. 
«Attaccalo, attaccalo ora, prima che si riprenda!» Mi urlò Death ma non lo feci, il colpo era stato troppo forte.
Odysseus chiuse gli occhi come per non vedere questo spettacolo. «Che seccatura». Mosse il braccio e io mi rimproverai per il mio cuore tenero. Se avessi combattuto come al solito avrebbe retto, le nostre forze si sarebbero addirittura equivalse.
Mi rialzai con meno fatica di quanto si aspettasse. Il mio maestro non sembrava affatto impressionato, ma in realtà lo era eccome, solo che lo nascondeva. E io lo conoscevo bene. “Credevi che il mio soggiorno agli Inferi non mi sia servito a niente?” Avrei voluto dirgli, una delle mie solite, vuote frasi a effetto, ma non ci riuscii. Arrivai solo a guardarlo con occhi tristi, mentre dentro di me mi chiedevo “Perché?” Ero delusa, davvero delusa da lui. Non volevo ammettere che i miei compagni d’arme avessero avuto ragione fin dall’inizio. «Allora hai imparato qualcosa negli Inferi».
«Sai come si dice, no? Fai tesoro di tutte le tue esperienze». Il falcione non mi avrebbe aiutato, stavolta. Dovevo arrangiarmi in un altro modo.
«Non ti servirà a molto, non contro di me». Mi redarguì Odysseus. «Combatti contro di me, cosa aspetti? Attaccami!»
«No!»
«Sei pazza? Attaccalo!» Mi urlò a sua volta Death. Scossi il capo. «È il mio maestro, non posso!» Avevo aspettato tutti questi anni per rivederlo e adesso questo? No!
«Ah, no? Che peccato. Allora vediamo se riesco a farti cambiare idea». Ed evocò i serpenti velenosi. Subito ne fui accerchiata. «Mi dispiace, ragazzina». Sibilò Samael mentre guidava l’avanzata dei suoi simili.
Saltai sopra un masso per portarmi al sicuro da quel mare di serpi. Uno in particolare sembrò avercela con me. Era un aspide che s’innalzò sopra tutti gli altri e mi attaccò. Per lo spavento cascai all’indietro dal masso e finii addosso ai serpenti che mi si avvinghiarono addosso e strisciarono cospargendomi del loro viscidume e, alcuni di loro mi sibilarono nelle orecchie, «Mi dispiace, signorina», «Noi non vorremmo», «Ci perdoni», «Ci scusi». E, più forte di tutte, le voci dei miei amici e degli altri abitanti del Santuario: «Astrid!» In primis, Shun e Death Mask «No, Astrid!», «Lasciala, maledetto, ritira i tuoi serpenti!», persino Shura urlò il mio nome con una rabbia tale da far gelare il sangue nelle vene anche a me che ero impegnata. Quasi scivolai dal masso.
«Non li ritirerò affatto, questa è la sua prova e deve dimostrarsi in grado di superarla». Ribatté Odysseus.
«Andatevene, lasciatemi!» Cominciai a supplicare. Ma i serpenti non mi ascoltarono, anzi, morsero e strinsero più forte. A un tratto un cobra reale strisciò sul mio addome e si alzò aprendo il cappuccio, con fare minaccioso sul mio petto. Allora, con le lacrime agli occhi provai a fare una cosa che non facevo da tempo, parlare ai serpenti, come quando parlavo ancora con Snakye. Ma, adesso che il potere di rigenerarmi era attivo e, con esso anche le tecniche che mi aveva insegnato, potevo far leva su esse per annientare il dolore.
«Anesthesia». Mormorai e il mio intero corpo perse la sensibilità irrigidendosi e, questo turbò non poco sia i serpenti che lo stesso Odysseus. Considerando poi che quelli che avevano morso e assaporato il mio sangue cominciarono a stare male e a morire, potei sentirmi meglio. In quel frangente potevo muovere solo la bocca e gli occhi, ma per me era sufficiente.   
«Fermati». E, il cobra mi sentì. «Fermatevi tutti, oppure morirete avvelenati dal sangue della Gorgone che scorre dentro di me». Continuai. Gli altri serpenti mi sentirono e, alcuni si ritrassero. Il cobra, invece, portò il muso a pochi centimetri del mio volto e sibilò: «Come osi pronunciare una simile blasfemia? Solo il nobile Odysseus possiede quel sangue».
«Io sono la sua apprendista, Astrid av Stjernene, per favore, lasciami andare».
«Dammi un motivo per cui dovrei farlo».
«In nome dell’amore che provo per la vostra specie».
«La parola di un’umana non è sufficiente, solo il Sommo Odysseus ci ha sempre trattati bene, accettando tutto di noi, in cambio gli facciamo da sacri messaggeri e portiamo la sua Sacra Armatura Dorata. Tu cosa hai mai fatto per noi?».
«Il mio migliore amico era un serpente, mi è stato vicino finché non è morto, ammazzato dagli sgherri di Eris. Lo stesso serpente che ho fatto tatuare sul mio polso destro, qualche mese fa, dopo che sono riuscita a vendicarlo». Il cobra mi fissò facendo saettare la sua lingua biforcuta a continuai: «Io, grazie a quel serpente non ho più avuto paura di voi. Ma il mio sangue è letale, non voglio che qualcuno di voi muoia a causa mia, perciò ti prego, lasciami andare».
Il serpente soppesò a lungo la mia proposta e, infine dichiarò: «E sia». Poi, assieme agli altri serpenti scese dal mio corpo e io, con la Legge del Risveglio, annullai gli effetti dell’Anesthesia e potei così rialzarmi in piedi e rivolgermi alle serpi che stavano già strisciando via: «Sbrigatevi, non voglio che ci rimettiate la pelle!»
«Notevole», si complimentò il mio maestro, facendomi voltare verso di lui, «ma non abbastanza! Fantasma diabolico». E, fui investita dal colpo di Ikki. Kanon mi aveva spiegato come funzionava questo colpo. In pratica mi faceva vivere un’illusione talmente tragica che avrebbe mandato in pezzi la mia mente e la mia anima. Ma un colpo è sentirne parlare, un altro è subirlo. Cascai immediatamente a terra, in preda a una tremenda fitta di dolore alla testa. 
Rividi tutto quello che era successo dopo la scomparsa del mio maestro. L’avevo cercato tutta la notte senza trovarlo da nessuna parte. Poi, la prima parte della mia adolescenza, passata a cercare di provocare disastri per farlo uscire allo scoperto. Non avevo avuto altra scelta, ma non sapevo proprio più che fare per riaverlo con me. E, fu proprio allora, che mi accorsi dei sentimenti che provavo per lui. Ma, nonostante questo, lui se ne era andato comunque e, non sarebbe più tornato. Ma poi, più lo sconforto aumentava, più perdevo l’uso dei miei poteri che, con il tempo, sbiadirono da soli, assieme ai miei ricordi di Odysseus legati all’infanzia.
Non era il mio più grande segreto, ma meglio questo che quell’altro. Nonostante il dolore, ero riuscita a schivare la sua tecnica per quanto avessi potuto. La Dark Resurrection stava già provvedendo a rimettermi in sesto.
Nessuno doveva saperlo. Nessuno.
«Dunque è questo quello che provi per me?» Mi domandò, con voce piena di compassione.
Non mi ero sentita così sola come allora. E, la seconda, la passai a imparare l’astrologia, per sfuggire al fato che mio padre aveva scelto per me e, soprattutto, per non riaprire una vecchia ferita che non ricordavo più, neanche a livello conscio di avere.
«Astrid!» Urlò Death Mask. Appena lo sentii mormorai: «Death!» Lui mi chiamò di nuovo e io mi girai nel buio per cercarlo. «Dove sei? Non ti vedo!» Poi lo sentii di nuovo e comparve anche il suo volto e io mi ricordai a chi apparteneva quella voce. E, che questa era solo un’illusione che mi stava riducendo in pezzi. Appena lo capii mi ribellai: «No!» Urlai e mi presi la testa tra le mani. «Lasciami andare! Basta! Hai avuto da me ciò che volevi basta!»
In quel momento capii che non mi ero affatto sottratta al suo colpo e che la Dark Resurrection faticava per salvarmi. «Non puoi sottrarti al Fantasma Diabolico». Mi fece notare il Cavaliere Maledetto con voce piena di compassione. Improvvisamente, vidi la sua costellazione e le dita mi si illuminarono per cancellargliela ma Death Mask urlò di nuovo: «Non farlo! Stai ferma! Non farlo o ti ucciderai!»
Ucciderai? M’immobilizzai di colpo.
«Nessuno deve interferire con la prova altrimenti sarà tutto vano!» Sbottò Odysseus e, dal rumore che udii capii che gli puntò addosso il bastone di Asclepio a mò di minaccia. L’altro si bloccò immediatamente. 
«Lascialo stare!» Urlai io e, con uno sforzo di volontà, mi frapposi tra loro. Per un momento ritornai alla realtà. Ma l’immagine di fronte a me cambiò di nuovo. Mossi la testa da una parte all’altra per cercare di scacciarla ma non ci riuscii e mi ritrovai di nuovo nel buio.

Dalla mia prigione sentii urlare il mio amico della Quarta Casa. «Astrid! Liberala, bastardo!»
«Non posso, una volta scagliato il Fantasma Diabolico non si torna indietro!»
Imprecai mentalmente cercando di aiutare la Dark Resurrection, l’unica che davvero mi stesse separando dalla morte in quel momento. “Come faccio a distruggere l’illusione?” Mi domandai, cercando di non dare di matto mentre ero sottopressione. Era quello che voleva, quello che sarebbe accaduto se avessi perso il controllo. “Le illusioni svaniscono da sé appena smetti di crederci”. Mi ricordai. Ma questa coinvolgeva tutti i miei sensi. Come uscirne?
Stavolta, in soccorso, giunse la mia memoria, riportandomi il passo di una storia che avevo letto: “La verità non è qualcosa che si vede solo con gli occhi, ma è qualcosa che puoi adattare alle circostanze. Qualcosa che può catturare come una rete e trascinare qualcuno con te. Come le illusioni. Anche la verità è a doppio taglio e, alle volte, è il sollievo più grande che qualcuno possa ricevere”. Ma se la verità non poteva salvarmi allora avrei trovato l’uscita da sola, addentrandomi nelle illusioni. C’era sempre qualcosa di irreale, un punto di rottura, no? Io l’avrei trovato.
Ma dovevo muovermi. E, per farlo, feci leva sulla mia immaginazione. Scomposi questa parola risalendo alla locuzione latina da cui derivava: In me mago agire. Mi ricollegai al Mago o Eremita dei Tarocchi e da lì, l’essenza nelle mie carte giunse in mio soccorso modellando l’illusione che aveva creato a mio vantaggio.
Poi, mi trovai davanti a un muro di buio. Sollevai il pugno, che si illuminò d’oro e lo schiantai contro la lastra, mandandola in frantumi. E, con esso anche il Fantasma Diabolico che ribaltai grazie all’aiuto della Carta dei Tarocchi, inglobandoci anche Odysseus.
Aveva giocato anche troppo.
Davanti a me si formò l’immagine del mare mosso con il cielo tempestoso sullo sfondo, poi l’immagine divenne reale mano a mano che aggiungevo dettagli presi dai miei ricordi, come l’odore della salsedine o lo sciabordio delle onde e l’umidità e il bagnato.
Odysseus si guardò attorno impassibile.
Mi venne un’idea rischiosa, ma era l’unica scelta che avevo. Chi l’avrebbe mai detto che la mia ansia e la mia tempesta interiore mi sarebbero potute tornare utili se collegate al potere dei Tarocchi? Anche la mia empatia venne in mio soccorso e mi fece provare tutte le sue emozioni, tra cui anche i sentimenti che provava per me, identici ai miei. “Maestro! Ma allora tu…” Pensai sorpresa trattenendo il fiato rumorosamente. Eppure, nonostante questo, non aveva esitato ad attaccarmi in nome di un Bene superiore. Anche se di ciò si rammaricava, capii che non si sarebbe fermato finché non avrebbe raggiunto il suo scopo. Cioè, prendere la testa di Atena. E, io mi ero messa in mezzo.

Nonostante la sorpresa non mi concessi il lusso di pensarci in un ultimo lampo di lucidità. Anche se era l’uomo che amavo, stava comunque attentando alla mia vita e a quelle del Santuario.
Con uno sforzo sovrumano mi girai, dandogli le spalle e, basandomi sulle sue emozioni, ebbi la piena visuale su di lui e la sua costellazione. Costellazione che, con dita luccicanti di oro, ricreai di fronte a me e che usai come specchio per acchiapparlo. Lui se ne accorse e si bloccò.
«Che vuoi fare?» Domandò spaventato.
Chiusi il pugno e ci ritrovammo su una piattaforma petrolifera nel bel mezzo dell’oceano. Il vento che spirava attorno a noi e il cielo buio e tempestoso che non lasciava requie agli sventurati che ci cadevano dentro. Mi volsi verso di lui, che si guardava attorno, spaesato: «Che cos’è questo posto? Dove siamo? Che potere è questo?»
«Questo è il potere dei Tarocchi e permette di cambiare le sorti di chi ne ha contratto il patto. Un potere che, in cambio della tua felicità, può anche salvarti la vita. A prescindere da qualsiasi situazione tu ti trovi. Come questa, con il Fantasma Diabolico. Hai detto che questo attacco distrugge la mente, no?» Cominciai ad arretrare sempre più verso il bordo. Lui non staccò da me i suoi occhi gialli dalla pupilla verticale neanche per un secondo. Io feci altrettanto. Aprì bocca per dire qualcosa ma lo interruppi domandando, «Ma se non c’è niente, se non ci fosse già più niente da distruggere?»
Mi fermai sul bordo.
Lui mi guardò, in attesa della mia prossima mossa. Per tutta risposta congiunsi le mani all’altezza del petto come in preghiera. Abbozzai un sorriso triste e una lacrima scivolò sulla mia guancia. Poi, mi lasciai cadere all’indietro, in quel mare in tempesta. Lui non fu abbastanza veloce, ma, tramite il legame che avevo creato alle nostre costellazioni, l’impatto e quello che accadde dopo lo sentì tutto con tutta la potenza che quei pensieri erano capaci. Una potenza che io ero riuscita a combattere e controllare parzialmente con l’aiuto di cinque amici e uno psicologo. Ma lui no.

Il mio maestro chiuse gli occhi e un sorrisetto si disegnò sul suo volto. Poi, mosse una mano per disperdere le onde. Ma la mia psiche, supportata dal potere che avevo appena scatenato, si ribellò all’ordine. Anzi, aumentò ancora di più l’intensità con cui l’ansia si frapponeva tra noi, divenendo spessa come una muraglia d’acqua rombante e travolgente.
Aprì di nuovo gli occhi e provò a dissiparli sfruttando il suo potere, ma non ci riuscì.
Io mossi le braccia verso di lui e tutto ciò, che aveva assunto la forma dell’acqua, rispondendo al mio gesto, si scagliò addosso a lui. Che, si ritrovò invischiato in questo mare ribollente ad ascoltare quel groviglio di pensieri discordanti e senza senso, incubi di aggressioni, solitudine, assassini, stupri e ricordi in perenne movimento che si innalzavano e abbassavano come onde impetuose travolgendolo tutti insieme e trascinandolo in un vortice quasi impossibile da distruggere. Infine, come da rinforzo, sopraggiunsero le Ombre Volanti che andarono ad arginarlo e costringerlo alla ritirata. Mentre io continuai a precipitare a gran velocità, nei recessi più profondi di me stessa e sentivo gli effetti del colpo abbandonarmi come foglie secche che si staccano da un ramo a causa del vento. Ma non era ancora sufficiente.

L’acqua si ritrasse permettendomi il passaggio e, in breve, mi ritrovai dentro il gorgo di un maelstrom che completò la sua opera di purificazione.
Sentii chiaramente il Fantasma Diabolico, come una corona di spine lacera e già secca in più punti che si riduceva sempre di più, portato via dal vento. Tuttavia percepii anche il dolore dell’uomo che amavo, così, mossa a pietà rimossi il luccichio, di modo che lui potesse essere libero di staccarsi da me. Non doveva seguirmi dove stavo andando. Questo posto era solo mio e di nessun altro.
Il gorgo marino si aprì completamente e mi mostrò il fondo sabbioso da cui occhieggiava un antico fossile di ciò che un tempo credevo fosse solo un sogno da cui trassi una poesia.
Chiusi gli occhi richiamando a me quelle parole. Le mie labbra si aprirono e la recitai, finalmente consapevole che in realtà fosse un incantesimo: 
«Prendi, ti dono le mie piume, scaldati.
Ecco, queste sono le mie ali, vola.
Questo è il mio becco, schioccalo e mangia.
Tieni, queste sono le mie zampe, calcia!
Questa è la mia forza, usala e caccia!
»
Aprii gli occhi.
Il fossile si agitò, si staccò dal fondale e si scosse e batté le ali per liberare le ossa dai granelli di sabbia. Alzò il muso spolpato verso di me, rivelandosi per lo scheletro di un uccello rapace. Un Serpentario.

«Vieni da me!» Urlai.

Balzò in piedi, spalancò le ali scrollandosi gli ultimi granelli di dosso e, con una spinta, mi volò incontro. Poi la luce invase ogni cosa e andò a riempire le ferite del mio animo.
Quando scomparve lentamente come un flash, mi ritrovai bocconi e con il fiatone, come se avessi corso per miglia, a stringere tra le mani solide zolle di terra.
Il cuore mi batteva all’impazzata nel petto, pieno di vita. L’adrenalina ancora in circolo e i miei muscoli guizzanti, pronti a rispondere al mio volere e le lacrime che rigavano le mie guance.

«Astrid!» Esclamò la voce sollevata di Death Mask cui altre fecero eco stupite.
Deglutii e respirai dal naso, più volte. Poi, alzai gli occhi e mi ritrovai a guardare il mio maestro che mi fissava allibito. «Te l’avevo detto». Gli dissi, tra un ansito e l’altro, rialzandomi e alzando i pugni, di nuovo luminosi e pieni di energia. «Sta lontano dai miei amici!» Lo avvisai, minacciosa.
Nonostante i miei sentimenti non gli avrei mai permesso di alzare un dito su di loro. 
«Sei sopravvissuta al Fantasma diabolico?» Domandò con voce piena di sorpresa, ammirazione, sollievo e ancora scosso dall’indomabile tumulto in cui l’avevo lanciato.
I Cavalieri e civili dietro di me mormorarono sorpresi.
«Astrid!» Esclamò qualcuno e, qualcun altro aggiunse: «Che mi venga un colpo».
«Non sta scritto da nessuna parte che uccide». Ribattei, poi ripetei la mia preghiera, cercando di smorzare un po’il tono della mia voce: «Fermati adesso, non voglio combattere contro di te!»
«Peccato, perché è quello che voglio io. Gravity Destroyer!» E, la gravità si fece sentire crepando il terreno sotto di noi e atterrando tutti tranne me che piegai appena le ginocchia e alzai un braccio.
So che con quelle parole detti l’impressione di somigliare a Shun, detto anche il Cavaliere Gentile, ma non era per gentilezza che lo avevo avvisato. 
Immediatamente rividi la sua costellazione e i fili di luce che avevo creato, si fecero sentire di nuovo. Lui si piegò leggermente, come se qualcuno gli avesse dato una poderosa pacca sulla spalla. Con un respiro profondo, cominciai ad assorbirne l’energia e la luce.
«Astrid!» Urlò sofferente portandosi una mano al petto. «Lasciami!»

Le lacrime cominciarono a offuscarmi la vista. Attaccarlo mi feriva, ma lui aveva minacciato i miei amici e non poteva passarla liscia. «Solo se disfi la tecnica!» Lo ricattai. Ma lui non lo fece, allora sibilai «Bene». E, continuai, nonostante che avessi il cuore in frantumi.

Quando giunse al limite di sopportazione crollò in ginocchio ed esaudì il mio volere. Come promesso lo lasciai andare. «Adesso capisci perché non voglio combattere contro di te? Lo capisci?» Gli domandai, sforzandomi di mantenere salda la voce. 
«Sì, lo capisco». Affermò, ma ciò non lo fermò lo stesso, perché se ne liberò bruciando tutto il suo Cosmo per evocare la tecnica successiva: «Eclissi di sangue!» Improvvisamente le stelle della sua costellazione divennero rosse e s’ingrandirono a dismisura. Sì tanto che i fili che ci si erano avviluppati si strapparono e anche la sua forza aumentò. Ma la sua faccia divenne rossa e le vene sul collo gli si gonfiarono per lo sforzo. Ero atterrita e non mi venne in mente niente. 

L’unica era lasciare che smettesse e, pregare che avessi ragione. La ebbi solo per metà, perché quando represse la tecnica tornò sì normale, con il fiatone e la pelle imperlata di sudore, ma trovò abbastanza forza da lanciare la Moira.
Il vento cominciò a soffiare impetuoso da tutte le parti sollevando polvere, smuovendo le ciocche dei miei capelli e la mia gonna, costringendomi a socchiudere gli occhi.
Le nuvole sopra di noi cominciarono a lampeggiare e a roteare su loro stesse fino a formare una corrente circolare potente come un tornado ma più debole, come una tromba d’aria.
Sentii le grida dei miei amici che si chinarono. Qualche coraggioso gridò: «State giù! State giù!» mentre io socchiusi gli occhi per via del vento. 
Il portale sulla dimensione delle Moire si aprì e le catene dorate discesero dal cielo.
Presi un respiro profondo e, materializzai la luce e l’energia che avevo preso in prestito tra le mie mani. La lanciai in aria e, con un gesto, come se aprissi una pergamena, la luce si dispiegò e andò a formare una cappa protettiva su di noi.
Le catene cominciarono a picchiare violentemente sulla cupola di luce,  producendo lo stesso rumore della grandine, tentando di spezzarla.
«State tutti bene?» Urlai girando la testa prima sopra una spalla e poi sopra l’altra per verificare che fossero tutti vivi. Alcuni Cavalieri si stavano rialzando guardandosi attorno con aria smarrita mentre altri, chini sui compagni più deboli o gli apprendisti o gli allievi della Palaestra, si rialzavano o alzavano le teste per assistere a questo miracolo.  
«Sei pazza?» Mi chiese Odysseus.
«No!»
«Se la Moira non fa una vittima comincerà a uccidere indistintamente e non potrò richiudere il portale finché non avrà fatto una vittima!» Urlò.
«É l’unico modo?» Domandai alzando gli occhi alle catene che cercavano di oltrepassare senza successo la barriera. Le guardai di nuovo e deglutii a vuoto. Lui intuì quello che avevo in mente. Era una follia. Non avevo mai avuto così tanta paura anch’io. «No! Non sai quello che dici! Non sei una Dea, non puoi farlo!» Neanche lui lo era, ma non era questa parte che risposi: «Ah, no?»
«Astrid! No!» Urlò nuovamente Death Mask e subito tutti gli altri gli fecero eco.
E, sperando di aver ragione, dissolsi la barriera sopra il mio maestro e me, muovendo la mano nel senso opposto.
Le catene mi piombarono addosso. Chiusi gli occhi preparandomi al dolore che sarebbe venuto e alla morte. Poi sentii il rumore della lacerazione e del sangue che cadeva a terra. Ma non avvertii il dolore non fui trapassata. Aprii gli occhi e mi ritrovai davanti il torace del mio maestro. «Maestro!» Esclamai sconvolta «No! Maestro, no!» La catena si estrasse da sola dalla sua carne. Lui emise un gemito strozzato, mordendosi il labbro inferiore. «Astrid! Levati!», «Levati da lì è pericoloso!»
Vacillò un po’ e io lo sorressi posandogli le mani sul torace: «Maestro!» Esclamai di nuovo mentre lui chinava la schiena fino a raggiungere il mio orecchio. I suoi capelli per poco non m’inglobarono. Proprio allora Shura gridò: «È una trappola! Non ha usato davvero la Moira!»
«Sciocca». Mi sussurrò, poi aggiunse, «Dark Resurrection». Con mia grande sorpresa, spavento e sollievo, vidi la ferita richiudersi completamente e l’Armatura tornare a rivestire la sua carne intonsa. Ebbi un conato di vomito e per poco non cominciai a vedere il mondo a pallini. Poi la paura prese il sopravvento su di me e gridai: «No!» E, lo spinsi via con tutta la forza che avevo.
Nel farlo le mie mani si illuminarono e, la spinta che gli diedi, lo fece arretrare di cinque metri e cadere bocconi. Non ebbi il tempo di gioirne che con la telepatia mi scagliò di nuovo a terra e mi fece fare qualche metro in scivolata sul terreno, lateralmente, come a tracciare una linea di confine con il mio corpo, strappandomi un ululato di dolore.  
«Astrid!» Urlarono gli altri Saint mentre il portale si richiudeva sopra di noi. «Astrid! Stai bene?» Mi domandò il più vicino. Mentre un altro prese a gridarmi: «Rialzati!»
«Queste sono le Lesioni Passate». Spiegò mentre il mio corpo doleva per intero ricordando il dolore. Gridai ritrovandomi presto sdraiata in posizione fetale.
«Patetico, ho sprecato tempo per niente». Commentò Odysseus in tono piatto. Avevo perso, non sarei diventata Medico del Cielo, ma almeno i miei amici erano salvi. E, Odysseus era ancora vivo. Anche se avevo paura, tanta paura. Non volevo morire. Non per davvero.  «Maestro…» Rantolai preoccupata e sull’orlo di una crisi di lacrime. Ma, stavolta non mi avrebbe salvata.
«No», s’intromise una voce maschile, mentre il mio cuore cessava di battere. «Non è ancora la tua ora, vivi, umana, dimostrami che tu sei come l’acqua come dici sempre».
«Thanatos?» Domandai riconoscendolo.
«Non farmi cambiare idea». Mi avvisò in tono burbero, poi non parlò più, poi una luce bianca e calda mi avvolse e sentii un forte dolore all’addome, che mi strappò un grido di dolore. Eppure, quando respirai, mi sentii bene. Pensai di essere morta, ma il mio cuore era ancora al suo posto, tutto intero, che batteva all’impazzata il sangue nelle mie vene. “Non voglio morire. Non voglio morire! Non voglio morire!” E, come se quel pensiero fosse una formula magica, la ferita prese a bruciare. Cominciai a emettere gemiti di dolore e versi gutturali che cercai di soffocare mordendomi le labbra, ma invano.
Usai la Dark Resurrection ancora una volta, combinata all’Anesthesia con uno sforzo sovrumano. Quando la luce si dissolse, ero di nuovo intera e con i vestiti ridotti a brandelli ma decisamente viva. Mi rialzai sui gomiti e mi portai una mano alla ferita, scoprendo solo la pelle e i tessuti interi sotto la mia mano. Mi guardai l’addome, persino il vestito si era riparato.

Non avevo altra scelta, un’altra parte di me smaniava per combattere. Una parte che finora avevo cercato di reprimere. Stavolta la lasciai fluire libera. E, alle mie labbra salì un’altra parola che fino a quel momento non avevo ancora usato: «Hypnoterapy». Sussurrai bruciando il mio Cosmo più che potei e oltre ancora, spinta dalla necessità. Me ne aveva parlato Lancelot solo poche ore prima, ma non mi aspettavo che le rovine reagissero sì bene. 
Se Odysseus mi lesse le labbra, io lo ignorai e mi concentrai per far sì che questo potere soporifero contagiasse tutti all’interno del Santuario. Nessuno escluso, tranne noi due.
«Devo ammetterlo, sono sorpreso, non credevo che avresti trovato il modo di addormentare tutti». Si complimentò mentre mi rialzavo in piedi.

Se quel Cavaliere era maledetto, allora dovevo fare quello che avevo fatto a Shura. Forse però il mio maestro aveva assistito, oppure avevo il mio intento scritto in faccia, perché mi schernì: «Cosa credi di fare? Pensi che io sia così stupido da lasciarmi cogliere di sorpresa come il tuo amico della Decima?» Ma solo io riuscivo a sentire il sollievo mescolato all’amarezza e al dolore nelle sue parole. «Te l’ho già detto almeno una decina di volte, la stessa mossa non funziona mai due volte su un Cavaliere. Anzi, già che ci siamo, ti impartisco le ultime lezioni». Alzò il pugno in aria che s’illuminò del suo Cosmo e poi lo abbassò di colpo dicendo: «Gravity Destroyer!»
Immediatamente il terreno sotto di me cominciò a riempirsi di crepe e sollevarsi a zolle intere. Mi lasciai sfuggire un urlo di paura e sorpresa quando il mio stesso corpo si sollevò in aria da solo. 
Poi mise le mani davanti a sé e ordinò: «Armageddon». E ogni cosa intorno a me esplose addensandosi in una nube la cui onda d’urto mi spazzò via. Solo secondariamente mi accorsi che i miei compagni galleggiavano privi di sensi a mezz’aria e cercai di proteggergli opponendo la Muraglia di Luce. Tutta la forza della mossa si schiantò contro questa tecnica che, pure mi sembrò molto più debole di prima. I casi erano due, o io mi ero rafforzata, ma ne dubitavo, oppure una delle mosse che aveva usato finora, aveva consumato la maggior parte del suo Cosmo, proprio quello che mi serviva.

Una volta superato l’istante di terrore e il batticuore da sospensione in aria, capii che galleggiare in aria non era tanto diverso che nuotare. Perciò cominciai a contrattaccare. Magari lui aveva formulato il giuramento di Ippocrate, ma io no, non l’avevo mai fatto. Perciò non avevo alcuna remora. Concentrai i miei globi nelle mani e le alzai in alto sopra la mia testa e glielo lanciai ma sio scontrò contro uno specchio dalla cornice elaborata che comparve dal nulla e mi restituì il colpo, potenziato. Lo schivai per un pelo. «Questo è lo Specchio Gravitazionale». Spiegò. Non mi ci volle un genio per capire che aveva concentrato il suo Cosmo per creare una superficie riflettente che facesse tipo specchio riflesso.
Maledizione! «Hai giocato anche troppo, torna giù». Ordinò e il mio corpo divenne improvvisamente pesante. Cascai a terra di sedere e lo stesso successe anche alle rocce e a tutti gli altri. Adesso, al posto delle rovine del tempio di Ophiuchus si era aperta una conca.  Capii che doveva aver annullato entrambe le tecniche.
E poi passò al Buco Nero. Un buco nero si aprì sotto i miei piedi e ci finii dentro. Sentii la sua voce raggiungermi: «Il buco nero risucchia la vittima distruggendola con l’antimateria o portandola nell’altra dimensione, comunque vada, tu non sopravvivrai».
«Lo so come funzionano i buchi neri!» Urlai mentre il dolore prendeva il sopravvento. No, non avrei mai permesso una cosa simile. Bruciai il mio Cosmo e con un grido, usai a mia volta il Gravity Destroyer per opporre la gravità alla gravità. In altre parole, concentrai i miei atomi e l’antimateria che mi componeva per impedirle di distruggermi. Con un ruggito di rabbia e dolore, ce la feci e riuscii anche a fermarmi e a contrarmi, opponendomi alla forza di gravità. «Cosa?» Lo sentii dire.
Un altro grido da fiera uscì dalla mia gola. Ritrovai le briglie dell’Hypnoterapy, e ne scagliai una a Odysseus. Non tanto per riuscire ad addormentarlo, quanto piuttosto a stordirlo, sì da allentare la sua presa quel tanto che bastasse perché potessi rialzarmi completamente e tornare indietro. Il trucco funzionò e lo sentii arretrare.
Continuando così concentrai il mio Cosmo e la gravità nella mano e distrussi la sua. Poi, espandendo completamente il mio Cosmo, distrussi anche il Buco Nero.
Riapparvi semi chinata davanti a lui e con le mani doloranti, mentre la Dark Resurrection provvedeva a sanare le mie ferite. Il fiato grosso per lo sforzo. Stavo sprecando troppa energia, maledizione. Non riuscivo neanche ad avvicinarmi come negli Inferi. Lui non era idiota come Violate o distratto come don Avido, strappargli le stelle non sarebbe bastato. Era ancora nell’altra dimensione, lo capivo perché non percepivo la sensazione del suo Cosmo. La sua presenza era la stessa di un’immagine proiettata, proprio come i fantasmi o Mordred. Non potevo neanche ricorrere alle Lacrime perché avrebbero fatto scempio di questo posto.     
Anche quello che era successo quella notte era avvenuto per prepararmi. Questa era la prova finale. Mi alzai di nuovo in piedi e misi le braccia in posizione, come avevo visto fare a Shura.
Il soprannaturale ce l’avevamo nel sangue e, la Luce Ombrosa non era legata ai Poteri delle Stelle come pensavo, ma a me, perché ero io la Luce Ombrosa, ed ero anche un’Incantatrice.
Lui decise che si era stufato. Ma anch’io.  Attaccarlo frontalmente non sarebbe bastato, non dopo la tecnica delle Lesioni Passate, no. Dovevo agire d’astuzia e c’era un solo modo per farlo.
Per la prima volta mi appellai al potere oscuro che era celato in me e che fu ben felice di rispondermi e propagarsi nel mio corpo.
Mi guardai le mani e le braccia e sentii delle linee invisibili percorrerle come guanti. Lo stesso accadde ad altre parti del mio corpo. Improvvisamente sentii la necessità di ammazzarlo e di fare un festino con le sue carni.
Un sorriso malefico si delineò sul mio volto.
Ma non adesso, dovevo incanalare quest’energia e controllarla. Il mio obiettivo era neutralizzare Odysseus. Sapevo come fare e sapevo anche cosa fare. Gli Specter stavano aspettando che portassi a termine il mio compito.  
«Ancora in piedi?» Domandò in tono di benevolo scherno come faceva quando ero bambina.
Mi scagliai contro di lui urlando come una fiera. Il corpo che agiva da solo per automatismi. Lui mi lasciò fare, ma non riuscii a toccarlo neanche per sbaglio: «Questa è l’Inavvertibilità. Ne hai già avuto un assaggio molte volte», spiegò mentre la sete di sangue cercava di obnubilarmi il cervello. Scossi il capo continuando a ringhiare piano, come una bestia ferita e intontita. Avevo una tale confusione in testa, che mi sembrava dovesse scoppiare da un momento all’altro. All’improvviso ritrovai me stessa e gridai: “Basta! Sono io che comando qui dentro!” E tutto si quietò, pronto a servirmi.
La mente schiarita e la mia bussola morale intatta.
Fu allora che mi accorsi di qualcosa che mi colava lungo il braccio sinistro. Qualcosa che pulsava leggermente. Mi guardai il braccio ferito e, con l’indice e il medio della destra, che s’illuminarono di nuovo come se avessi concentrato il mio potere lì, passai le dita sulla ferita e quella si richiuse immediatamente. Questo era uno dei poteri legati alla nostra Costellazione, mi aveva detto Camus tempo fa, derivati dal mito. Si diceva, infatti, che Asclepio avesse ricevuto in dono da Atena di cambiare il suo sangue con quello della Gorgone Medusa e, questo spiegava perché ero immune ai poteri pietrificatori del Silver Saint di Perseo, ai veleni dei serpenti e perché Odysseus avesse un diavolo per capello. E, se lo attingevo dal fianco sinistro era velenoso, ma quello del fianco destro aveva il potere di guarire qualsiasi malattia e far risorgere i morti. Ancora una volta mi tornò in mente la frase che usava ripetermi mia madre: “Tutto è collegato” e, se io, in quanto Luce Ombrosa, disponevo di questi poteri, forse era il caso di usarli.
E fu con questi pensieri che riuscii a imbrigliare definitivamente l’energia oscura che stava propagandosi nel mio corpo. Dovevo pensare, la mia salvezza stava nella mente, nella mia intelligenza. Continuare a combattere come una furia cieca non mi avrebbe giovato e cercai una soluzione mentre camminavamo in cerchio come avevo visto fare a Gateguard e a Rhadamantys. Per la prima volta capii che questa mossa serviva a studiarsi e a cogliere di sorpresa l’avversario, dovevo essere più rapida di lui.

Mi tornò in mente un sogno con i Serpentari che mi accompagnavano nel mio volo. Lo stesso cui mi ero unita nei recessi della mia anima. Poi, pensai al Sagittario. La sensazione che di solito accompagnava le mie riscoperte si fece di nuovo sentire e capii che dovevo seguire alla svelta questa pista. Sagittario, Sagitter, no, Sagittarius. Per lo zodiaco tropicale e Ophiucus, la nostra

costellazione, per lo zodiaco siderale.

Ecco l’errore.
Spalancai le braccia e di fronte a me comparvero le due meridiane con i due zodiaci.

Odysseus si limitò a osservare impassibile mentre io, muovendo le braccia le riunivo in una sola e scompariva in un’esplosione di luce e scintille che si dissolsero nell’aria. «E, quindi? Cosa stai cercando di dimostrare?»
Non lo ascoltai e continuai nel mio ragionamento. L’Ophiucus aveva anche un altro nome: Serpentarius. Il Serpentario. In Natura esisteva un predatore di serpenti. Un uccello rapace che portava lo stesso nome. Lo stesso che ero io. E, questo spiegò anche perché Saga reagì a quel modo dopo il suo svenimento: aveva visto il Sagittarius Serpentarius addosso a me. Io non ero solo il Sagittario e non ero solo il Serpentario, ero entrambi. «Tutto è collegato». Mormorai più a me stessa che a lui. E, appena lo capii, dentro di me sentii riaccendersi la luce e i miei poteri tornare a scorrermi nelle vene con la stessa potenza di un fiume in piena.
«Sei sorprendente». Si complimentò il mio maestro. «Ma è perfettamente inutile».    
«Non sottovalutare un Serpentario». Lo avvertii.
«Perché chiami così la nostra costellazione?»
«Perché esistono molti tipi di Serpentari, ma uno come me non l’hai mai visto. Infatti io non sono il “portatore di serpenti”, io sono il “cacciatore di serpenti”». Odysseus rise divertito, tenendosi la pancia: «Questa te la sei appena inventata, non esiste il cacciatore di serpenti».
«Se dici così vuol dire che non hai viaggiato abbastanza, maestro». Lo provocai calcando l’ultima parola di arroganza e disprezzo con un sorrisetto di superiorità. Non aveva mai sopportato la mancanza di rispetto e aveva sempre cercato di insegnarmi a essere rispettosa con gli adulti. Avendo avuto molti allievi, il rispetto era la cosa che desiderava di più. Le mie parole sortirono l’effetto sperato e lo vidi accigliarsi e lanciarmi uno sguardo d’avvertimento. Alzai le mani luccicanti sopra la mia testa e mossi la testa da un lato e poi dall’altro poi cominciai a muoverle imitando Shura, arricchendo la danza che mi avevano insegnato le Ninfe Stigie. Appena battei le mani A mhuirnin o cominciò a risuonare nella mia testa. E, per me, fummo di nuovo nelle Paludi Stige.
Spostai il mio peso su una gamba e spazzai il terreno con uno chassé dell’altra per portare il mio piede all’altezza del mio ginocchio sollevando uno spruzzo d’acqua. Mossi la gamba indietro e continuai a muovermi liberando la mente e incatenando lo sguardo al suo, intanto che gli alberi crescevano repentini attorno a noi innalzandosi al cielo e le Ninfe cominciavano a comparire, evanescenti come spettri, danzando. Mi unii a loro nelle danze e presto assunsi la loro stessa consistenza.
Il mio avversario aggrottò le sopracciglia, domandandosi cosa stessi facendo, mentre i serpenti, da lui di nuovo evocati, si agitavano di nuovo ai suoi piedi. Capii di essere riuscita nel mio intento quando quest’ultimo si girò a cercarmi spaesato, soprattutto quando si accorse che i colpi gli tornavano indietro come se si scontrassero contro un campo di forza. «E, questo cosa vorrebbe dire? Che diavolo di posto è?»
«Lo vedrai». Sogghignai e la mia voce si propagò per ogni dove, come sparata da decine di casse da dolby surround.
«Sei pazza se credi di fermarmi». Ma ormai vedevo queste parole per quello che erano. Una provocazione. Solo una provocazione, niente di più. Curvò le labbra in un sorrisetto divertito e mi attaccò di nuovo, ma stavolta non mi trovò impreparata. Spalancai le braccia, le portai al petto e le alzai repentinamente al cielo innalzando una barriera di Tenebre e Luce degli stessi colori del cielo notturno terrestre che si rincorrevano con quelli del cielo Infero, alternandosi quasi in un vortice di colori. “Venite da me” le chiamai.
E, le Paludi Stige, la musica e i loro abitanti si dissolsero e io tornai della mia normale consistenza.  
Seguendo i movimenti delle mie mani, le centootto stelle infere assunsero la forma di Serpentari d’oro dal cuore oscuro, che presero a svolazzare e camminare attorno a me, lasciandosi dietro una scia rossastra, purpurea e viola, dello stesso colore dei Cosmi degli Specter.
«Le centootto stelle degli Specter! Come è possibile?» Esclamò basito riconoscendole. Appena lo disse mi parve di percepire la presenza dei Tre Giudici Infernali oltre che quella delle altre ottantotto costellazioni dello zodiaco.
Per finire, il mio Cosmo comparve tutto attorno a noi, inghiottendo il paesaggio circostante e isolandoci. Adesso eravamo circondati dai bagliori fosforescenti che facevano parte della mia aura, frammentata qui e lì dai Cieli dei due Mondi. La trasformazione non fu solo esteriore. Interiormente mi sentii le membra di nuovo leggere come quando scoprii la grotta e Partita evocò la mia anima.
La mia mente si liberò di quasi tutto. Capii di stare usando uno dei poteri della Luce Ombrosa, quello che mi permise di coprire quella distanza immane dal Santuario alla spiaggia in così breve tempo.  
Il Cavaliere si fermò. «Che cos’è questo?» Domandò di nuovo, spiazzato.    
«Questa sono io». Dichiarai tranquilla, mentre i Serpentari si trasformavano in energia pura e si disponevano ai lati del mio corpo per formare un grosso paio d’ali. Aprii le braccia e sentii le piume e le remiganti come se fossero davvero parte di me. Percepivo ogni singola piuma, ogni singola setola e tutta la forza in essa contenute. Sentii il resto disporsi sulla mia schiena e sulla nuca, avvolgendomi. Creando così la cresta del Serpentario, la coda e la maschera sui miei occhi e la bocca come il becco del rapace e le sue zampe ai miei piedi. Era come essere un tutt’uno con la mia costellazione. La stessa che aveva spaventato tanto Saga e meravigliato tanto Camus.
Il mio avversario rimase interdetto, non avendo mai visto niente di simile prima d’ora. Come dargli torto? Non era un’Armatura e non era una Surplice, era solo energia. Si ricompose subito: «Credi che basti questo per fermarmi?» Mi spedì nuovamente contro i serpenti. Immediatamente dalla mia persona si separarono altrettanti Serpentari che uccisero le serpi prima di salire di quota, compiere una giravolta a mezz’aria e tornare ad essere parte dell’energia che mi permeava.

Odysseus digrignò i denti e provò con un altro attacco ma lo deviai con un semplice, lieve, gesto della mano, annullandolo e disperdendone l’energia. Il resto invece era andato a infrangersi sull’ala di energia neutra che sormontava la mia pelle. 
«Fiamma di Ade!» Urlò e me la scagliò addosso ma non ebbe alcun effetto, come poté costatare quando il fuoco si spense dopo pochi secondi, lasciandomi completamente illesa e le fiamme continuarono ad ardere piano fino a spegnersi in terra.
La trasformazione regredì facendomi tornare illesa come prima della lotta. A questo punto Odysseus sgranò gli occhi mentre con la mano spazzavo via una fiammella che era rimasta sulla mia spalla.
«Non è possibile», era la prima volta che qualcuno lo vanificava, «non è possibile! Bisogna essere un fantasma o uno Specter affinché...», sgranò gli occhi e ci arrivò, «un momento, tu… No, non puoi essere una Specter! Come fai ad averne la forza?»
«Io sono l’Acqua». Risposi enigmatica. Se Odysseus in passato con lo Specchio Gravitazionale defletteva gli attacchi nemici io, con l’analogia dell’acqua, assimilavo le caratteristiche di questi poteri e adattarmi oltre che a replicarli con tutti gli altri cui già disponevo e ricombinarli a mio piacimento.
«Che significa che sei l’acqua?»  
Lo ignorai. Era ora di farla finita. Spostai le braccia indietro, in equilibrio su una gamba sola, come un serpentario che piomba sulla preda. «Ali del Serpentario!» Esclamai e, avanzando di un passo, mossi entrambe le braccia verso di lui, come fossero le ali del suddetto rapace. E, l’energia si scagliò addosso a lui, tramutandosi in un grosso serpentario ad ali spalancate.
«Specchio Gravitazionale!» Urlò ma l’animale di energia emise il suo grido e lo mandò in frantumi, poi si trasformò in un fascio di energia luminosa.
«No! Non è possibile!» Lo sentii urlare prima che l’energia lo travolgesse con violenza e ferocia. Poi tutto fu solo un’esplosione di luce e l’onda d’urto fu così forte che fui sbalzata indietro e rotolai su me stessa per ammortizzare l’impatto. Quando scomparve mi rialzai e guardai di nuovo in direzione del Saint che giaceva riverso a terra.
Con un respiro profondo mi calmai e rimandai l’energia da dove l’avevo presa, ringraziando mentalmente i loro legittimi proprietari per l’aiuto ricevuto. Anche l’altra, che se ne tornò placida dentro la mia anima.
Avanzai fino a raggiungere il mio maestro. Giaceva supino con il cloth a pezzi. I frammenti di varia grandezza e il bastone erano sparsi tutto attorno a lui. Tuttavia era ancora cosciente e guardava il cielo con un sorriso estatico e le tempie bagnate di lacrime di dolore. Non so neppure io come facesse a non gridare come un ossesso, ma non c’erano tracce di sangue da nessuna parte.
«Le stelle sono così belle questa notte, non trovi anche tu?» Le lacrime mi rigarono il volto mentre crollavo in ginocchio per il dispiacere e il terrore.
“Perché non usava la Dark Resurrection?” Mi chiesi con una vaga sensazione di timore. Non so neanche come trovai il coraggio di parlare. «Sì, sono splendide». Lo guardai sforzandomi di trattenere le lacrime che minacciavano di sgorgare copiose dai miei occhi: «Perché hai voluto che ti attaccassi?» Domandai con le lacrime agli occhi, inginocchiandomi accanto a lui, prendendo la sua mano nella mia. Con l’altra gli carezzai il capo. Adesso non sembrava più il mio avversario, né il mio maestro, solo Odysseus. Che mi sorrise e balbettò: «Per farti acquisire i poteri del Gold Saint d’Ophiuchus; erano l’unica cosa che ti mancava. Prendili, sono tuoi». Confessò, sciogliendo la stretta per pormi la mano nella mia in un gesto simbolico. Chiusi gli occhi e altre lacrime si liberarono dalle mie ciglia, rigandomi le guance e scuotendomi il petto e le spalle in un pianto che mi sforzavo di tenere silenzioso.
«Cosa c’è?» Domandò premuroso come mi ricordavo, con le sue ultime forze. Lo guardai, le lacrime che mi rigavano le guance. Mi sentivo il cuore a pezzi. Non avrei mai voluto fargli una cosa del genere. «Perché? Perché non c’era altro modo?»
«Le regole non le ho decise io. Mi dispiace per tutto il dolore che ti ho causato». 
«Non è giusto, non può finire così». Mormorai avvicinandomi di più al suo volto perché potesse sentirmi. Se avessi parlato a voce più alta probabilmente la mia voce si sarebbe spezzata e non sarei più riuscita a fare un discorso di senso compiuto.
«Te l’ho detto no? L’esame è proprio questo e tu, l’hai appena passato». Affermò orgoglioso anche se faticava a respirare a causa delle ferite che gli avevo procurato. In effetti gli mancava parte dell’altro braccio e tutta la parte inferiore del corpo e della chioma. Però non versava sangue e gli altri pezzi di se stesso erano stati disintegrati. Neanche a livello atomico sarebbe più riuscito a ricomporsi. Ma lui non poteva più ricomporsi. Gli sollevai la parte superiore del corpo, stringendolo a me: «Ssst, ssst, non sforzarti, sei ridotto male». Gli suggerii angosciata, non sapendo che altro dire. Perché non si rigenerava? Perché? Lui capì cosa pensassi e mi carezzò i capelli con la mano libera che sollevò a fatica. «Non preoccuparti per me, va bene così, doveva andare così».
Scossi il capo: «No, non è vero».
«Astrid io sono già morto, non puoi più fare niente per me da tempo». Posò quella mano sulla guancia e io la trattenni con la mia. «Non è vero, ti prego…»
«Ho atteso per tutti questi secoli l’arrivo di un aspirante Medico del Cielo degno di ereditare il mio ruolo e, non potevo trovare miglior erede di te. Tu mi hai ricordato cosa si prova ad avere degli allievi, qualcuno che si fida di te, qualcuno di cui occuparsi. Sono contento di averti conosciuto, anche se mi duole non essere più… » Gemette di dolore e la smorfia cancellò il sorriso.
«Non parlare, ti prego, cerca di risparmiare le forze». Implorai interrompendolo. «Resta con me, ti prego, ti amo, non abbandonarmi, ti prego».
Lui sorrise di nuovo e non solo dissolse la mia tecnica invocando la Legge del Risveglio, ma «Avrei voluto essere più forte e non arrendermi mai, come te». Poi, mi cinse la nuca con le dita e mi carezzò lo zigomo con il pollice. Con uno sforzo, accostò le labbra al mio orecchio e sussurrò: «Ti nomino Medico del Cielo». Infine spirò, reclinando il capo all’indietro, fregandosene delle mie suppliche. 
Con occhi annebbiati di lacrime lo vidi dissolversi in miriadi di bagliori fosforescenti innalzarsi e sfiorarmi i lati del volto, spostandomi dolcemente le ciocche di capelli con una ventata tiepida.  

Chinai il capo ed emisi un gemito di dolore mentre le lacrime mi rigavano il volto. Ma lo rialzai subito per vedere i suoi occhi un’ultima volta prima che sparissero anch’essi in un bagliore fosforescente. Poi, anche il mio Cosmo scomparve, lasciandomi lì, sul lastricato distrutto, con le braccia lungo i fianchi e il volto rigato di lacrime.  Ancor prima che me ne rendessi conto, reclinai il capo all’indietro e liberai un grido di dolore straziante che risuonò per tutto il Santuario. Poi piansi e piansi.

 

Milo
Riapristi gli occhi con un respiro profondo e ti ritrovasti sdraiato in terra, la guancia premuta contro la pavimentazione. Ti rialzasti a sedere e ti guardasti intorno. Le guardie erano nella tua stessa situazione. «Cosa è successo?» Domandasti sulla soglia della Tredicesima Casa. Facendo mente locale ricordavi che, dopo aver liberato il passaggio ad Astrid eri corso alla Tredicesima passando per i sentieri dei servi. Non li usavi spesso e, in realtà eri solo saltato tra le rocce.
Da lì avevi percepito lo scontro tra le due forze finché non eravate crollati tutti addormentati. Era stato stranissimo. Neanche vi eravate accorti di essere scivolati nel sonno, finché non ti eri ritrovato dentro il sogno. Adesso non ricordavi che cosa avevi sognato. La prendesti come una sconfitta personale. Se non fosse stato che ne andava dell’incolumità di Lady Isabel, saresti corso a vedere. Ma la Divina aveva la precedenza.
«Mia Signora!» Esclamasti ricordandoti di lei. La raggiungesti nelle sue stanze private e la vedesti seduta sul letto, le mani intrecciate in grembo. «Mia Signora!» La tua Signora alzò lo sguardo su di te. «Milo! Stai bene?» Ignorasti la sua domanda e ti accorgesti che stava piangendo. Gliela rigirasti. Lei rispose, con voce commossa: «Un Saint è tornato a casa, dopo anni di assenza».
La guardasti confuso: «Milady, di che cosa state parlando?»
La Divina sorrise e ti congedò dicendoti: «Vai dagli altri, hanno bisogno di te».
Comprendesti che voleva restare sola. Probabilmente avrebbe chiamato Mii o Shoko o le altre, se proprio avesse voluto un po’di compagnia. Ma non la tua. Perciò non potesti fare altro che inchinarti ed eseguire il suo ordine. «Sì, Divina Atena». Poi ti raddrizzasti e uscisti dalla stanza.
Quando raggiungesti gli altri, i tuoi occhi si spalancarono da soli per lo stupore. Sul fianco della montagna, laddove una volta comparivano le rovine, adesso, c’era una depressione di una decina di metri. I resti del Tempio di Ophiuchus quasi completamente riportati alla luce.
Ti rassicurò vedere i Saint presenti nel luogo dello scontro  con i volti rigati di lacrime ma vivi e vegeti. Ma stavano piangendo? Che cosa era successo? Persino l’impassibile Shura aveva le guance rigate di lacrime silenziose. Saga, una mano sulla spalla di Shura, aveva gli occhi chiusi come se la scena fosse troppo dura per lui. Altri distoglievano lo sguardo dalla scena. Yoshino, accanto a Shura e Lancelot, non esprimeva meno disperazione. Gli altri Saint e soldati presenti, piangevano a loro volta. Shaina aveva le mani sulla bocca della maschera mentre Marin, vicino alla compagna, osservava il tutto impassibile. 
Non ci fu bisogno di parlare, né di dire alcunché. Era evidente che lì era morto qualcuno che non sarebbe tornato mai più. Aphrodite aveva le mani al volto, come se le dita avessero potuto in qualche modo arginare le lacrime.
Ti facesti largo tra di loro e salisti sul bordo del cratere. Lì ti fermasti.
Al centro esatto della depressione c’erano due Saint inginocchiati e anche così riconoscesti Astrid e Death vicino a lei. Ci doveva essere un animale ferito, non era possibile che questi versi provenissero da gola umana. Sembravano quasi il pigolio di un uccellino. Solo dopo realizzasti che era il pianto di Astrid, quando lei scoppiò a piangere a dirotto.  
Aiolia poco distante era piegato sulle ginocchia anche lui e, osservava in silenzio.
Shun, dall’altra parte, era in piedi versava lacrime mentre suo fratello maggiore gli teneva una mano sulla spalla con gli occhi lucidi di lacrime appena trattenute. 
La tristezza e la disperazione che permeava quel luogo fu così tanta che le lacrime sgorgarono da sole anche dai tuoi occhi.
Mai vittoria fu più dolorosa di questa. Astrid aveva tenuto fede al patto, anche a costo di dilaniare il suo stesso cuore. 
Mentre lei piangeva e si disperava Death Mask la prese delicatamente sottobraccio e la portò via. Quando ti passò accanto la faccia china e la piega severa della bocca la disse lunga su quello che pensava.

Shura

I funerali del Gold Saint d’Ophiucus si tennero tre giorni dopo. Anche Astrid partecipò. La vostra Dea le stette vicina per tutto il tempo. Avresti preferito vederle accanto Yoshino, ma le due Atena non potevano sfiorarsi neanche a causa dell’identica polarità dei loro Cosmi.
Yoshino le era rimasta accanto dopo e tu non te l’eri sentita di intrometterti. Aveva bisogno del sostegno e dell’affetto delle sue amiche più care. Anche Paradox, Raki e Castalia rientravano nel gruppo.
Anche ora che la cerimonia era finita da settantadue ore, avevi ancora fresche quelle immagini e il lamento delle prefiche. Anche per la vostra morte si erano lamentate a quel modo? Probabilmente sì.  
Ma la cosa che vi sorprese di più, oltre la passione che mise nel canto, fu che alcuni civili che conoscevano il brano, tra cui qualche Silver, intonò questa melodia assieme a lei.
«Ahi, ahi, il mio cuore è pesante…» Che andò ad accompagnare il lamento, prima di soppiantarlo del tutto. Un omaggio davvero molto più genuino di quello che avrebbero potuto offrirgli dei perfetti sconosciuti.
E, alla fine, senza che ve ne rendeste conto, tutti voi stavate cantando assieme a lei, cercando di stonare il meno possibile. Persino Saga, Kanon, Aphrodite, con una insospettabile voce tenorile ben accordata a quella di contro tenore di Shun, persino Milo, persino Aiolia e persino tu. Anche se più stonati che intonati, ma ci provaste, mentre le scintille della pira funeraria simbolica ascendevano al cielo buio illuminandolo di rosso. Anche le Saint rimanenti cantarono, ancora meno intonate di voi.

Bevesti un sorso di birra, tornando al presente. Un presente ancora più amaro di quanto odiassi ammettere. Vi eravate sbagliati su tutta la linea. Alla fine Lancelot vi aveva raccontato tutto. il Gold Saint d’Ophiuchus non aveva mai avuto intenzione di attaccare nuovamente il Santuario e attentare alla vita di Atena, voleva solo aiutare la sua amata allieva. Sapeva che, se ve l’avesse detto non ci avreste mai creduto, per questo era ricorso a questo trucco. Come sapeva perfettamente che l’unico modo per farle conquistare rapidamente il Settimo Senso fosse di combattere. Lui aveva scoperto tutto questo prima di tutti e aveva fatto in modo di proteggere Astrid dalle insidie di Ionia insieme a te. Non ti aveva detto come, però.
Anche il suo tradimento era tutta una recita che avevano orchestrato per testare i poteri di Astrid. Avrebbero preferito che usasse subito le tecniche del Gold Saint invece che tutti i poteri di cui disponeva tranne quello. Ma alla fine era andata bene lo stesso. E gli Specter avevano riavuto il loro fuggiasco.  Ma, ci tenne a sottolineare, che lui non aveva mai cercato di attentare alla vite della sua adorata allieva scagliandole contro quei tre. Lui cercò di fermarli, senza riuscirci e andò come andò.
Amata.
Fin da quando lei mise piede al Santuario, lui aveva agito solo nel suo interesse. Dovevate aspettarvelo che tra i due ci fosse un collegamento; soltanto il Gold Saint d’Ophiuchus era capace di guarire qualsiasi tipo di ferita e malattia. Anche quelle mentali. E, ne avevate avuto una dimostrazione indiretta. Ma pur sempre una dimostrazione.
Scuotesti il capo: Astrid non era questo, dovevate smettere di chiamarla così. Lei adesso aveva i poteri del Tredicesimo Gold Saint ma non era e non sarebbe mai diventata una Saint. La Sacra Vestigia  era rimasta assieme al suo legittimo possessore. E, anche se fosse avvenuto il passaggio di proprietà, Astrid non l’avrebbe mai voluta. Né quella, né il nome. Inoltre le mancava la preparazione specifica per essere davvero una di voi. Non era una Saint, non era una Sacerdotessa-Guerriero e non era una Saintia, era soltanto una ragazza investita di un potere più grande di lei.
Prima di venire qui aveva tutto quello che voi avevate sempre desiderato. Adesso si ritrovava a vivere il vostro stesso dolore.
La cosa più spiazzante sul maestro di Astrid, era che non avreste mai pensato che, più che dalla vendetta, fosse mosso dal desiderio di completare la formazione della sua apprendista. Come avevano fatto il vecchio Izo con te e Camus con Hyoga e il mentore di Aphrodite. Non avresti mai immaginato che lo stesso sarebbe accaduto anche a lei. Non c’era mai stato un altro Gold Saint d’Ophiuchus dopo quello Maledetto, non potevate immaginare che l’unico sistema fosse questo. Ma, se ci fosse stato un modo, avresti cercato di asciugare le lacrime della ragazza che piangeva sei Case più giù della tua.
Un’altra vittima di queste assurde regole senza senso atte solo a fortificarvi. Eppure, nonostante tutta la vostra tempra, piangevate ancora per un fratello, un amico, un maestro caduto o per un gesto di generosità, gentilezza o di misericordia. Tutto questo ti fece tornare in mente quel giorno orribile. Il tuo maestro non avrebbe mai potuto gioire con te della tua investitura, in compenso, ti era apparso per sostenerti quando eri stato perso e ti aveva aiutato a risollevarti.
Avresti voluto essere più forte per poter aiutare Astrid a superarlo. Avresti voluto dirle che sarebbe passata, ma come poteva passare facilmente se il rapporto che legava quei due, era intriso di sentimenti che non erano mai potuti fiorire, ed essere vissuti completamente? Sentimenti che nel vostro mondo erano così rari da essere preziosi? Cosa si diceva in questi casi? «Mi dispiace» era troppo poco, troppo riduttivo. Forse Death Mask poteva davvero rendersi più utile di chiunque altro, considerando che aveva vissuto lo stesso dolore.
«A cosa pensi?» Ti domandò Saga, accovacciato sul tavolo, di nuovo nella sua forma animale. I tre topolini sul suo capo gli fecero eco, come al solito.
«Ad Astrid, avremmo dovuto immaginarlo». Adesso molte cose ti erano chiare, compreso il comportamento di Lancelot. Odysseus non aveva mai voluto davvero la testa di Atena. Né fare di Astrid il nuovo contenitore per la sua anima. Stando agli scritti che ti erano tornati in mente era lui che si occupava dei bambini del Santuario, era lui che li accudiva, che li istruiva e li proteggeva. Per questo era considerato come una sorta di padre dagli ex Cavalieri d’Oro che lo conobbero. Tu avevi pensato che l’avesse fatto solo per dovere, ma, se per anni e oltre si era occupato di allevare i futuri Saint senza stancarsi mai, doveva essere spinto da una motivazione più potente del giuramento di Ippocrate, del dovere e dell’amore verso Atena. Era l’amore paterno che provava per quei bambini a spronarlo. Lo stesso che, anche da risorto, l’aveva spinto a occuparsi anche di Astrid, dopo averla cercata tanto a lungo.      
«Non ne sapevamo niente, lo sai, è inutile crucciarsi. Hades non ce lo riporterà indietro». Tentò di ricordarti Saga. In queste ultime parole sentisti l’eco di una vaga speranza.
La verità era che Odysseus non era incluso nel pacchetto resurrezioni, né mai lo sarebbe stato. Anche al tuo amico pesava la tristezza di Astrid. Ironico, vero? Voi, che inizialmente foste i suoi principali oppositori, dispiaciuti per lei. Ma perché non avreste dovuto esserlo?
Ti alzasti da tavola spingendo la sedia indietro.
«Dove vai?» Ti chiese il tuo compagno seguendoti con lo sguardo.
«Scendo». Dichiarasti laconico e, lui comprese.

Ti ritrovasti sulla soglia della Quarta Casa a osservare il frontone del Tempio di Cancer, indeciso se chiamare Death o se entrare e basta. A risolverti l’indecisione ci pensò il tuo stesso collega comparendo sull’uscio. «Shura! Cosa ci fai qui, impalato sulla mia soglia?»
«Sono venuto a trovare Astrid, è in Casa?»
Il siciliano ti sembrò parecchio stanco, quando ti rispose: «Sì, è qui, entra». E, ti fece cenno di seguirlo. Durante il tragitto ti accorgesti che si respirava un’aria di lutto e tristezza più dolce e delicata del solito, come una camera mortuaria piena di fiori. Ma non ancora così satura dell’odore che si poteva respirare in quei luoghi. Non era l’aria da villa spettrale diroccata che creava di solito Death. Questa era la tristezza di un amico che soffre assieme a un altro. La Casa sembrava solo essersi adeguata.
In salotto trovaste Lancelot, il quale ti indirizzò un cenno del capo e ti avvisò che lei era molto giù di morale. Sembrava che il lutto della ragazza avesse portato una specie di tregua tra i due Cavalieri del Cancro.
Death Mask si fermò davanti a una porta chiusa dei suoi appartamenti privati che non avevi mai visto e bussò: «Posso entrare, Astrid?» Domandò.
Una voce flebile vi rispose affermativamente dall’altra parte e Death aprì la porta. «Come stai?» Le chiese in tono gentile, quasi mite, entrando. Tu lo seguisti, restando due passi indietro, incorniciato sulla soglia.
La ragazza alzò il capo per guardarlo con occhi vacui e pieni di tristezza e disperazione. Era seduta sul letto, abbracciava un cuscino e indossava una camicia da notte che sicuramente qualcuno le aveva portato dalla Tredicesima. Nel complesso era il ritratto della devastazione. Quella vista bastò come risposta alla domanda di Death Mask. «Hai una visita». Disse soltanto, indicandoti, impacciato. Non se la cavava affatto con questo genere di cose. A essere onesti fino in fondo non sapevi neanche tu ci sapevi fare.
Lei volse lo sguardo verso di te, restando in silenzio. Dal canto tuo ti accorgesti che i suoi occhi sembravano scrutarti dal fondo di un precipizio dal quale non riusciva a risalire. Un po’ come quello de Il silenzio degli innocenti. Solo che tu, dal tuo, non eri mai completamente risalito.
«Vi lascio soli». Disse di nuovo il tuo collega e poi uscì, lasciando la porta aperta.
Lo accompagnasti con lo sguardo e poi, quando scomparve oltre la soglia, tornasti a guardare lei.
«Volevo solo dirti che so come ti senti, credimi, lo so meglio di quanto immagini».

Il suo sguardo si animò di diffidenza: «Cosa ne sai?» Domandò in tono stanco come se avesse già dovuto sorbirsi questa solfa infinite volte. La voce rotta e impastata, come se fino a quel momento non avesse fatto altro che piangere e basta, come confermavano gli occhi gonfi e arrossati. Ora che ci facevi caso la sua pelle era tirata, come se non mangiasse da giorni e, i suoi capelli erano annodati e spettinati. Chissà se sarebbero diventati come quelli di Odysseus?
“Credimi, lo so meglio di quanto immagini” pensasti rammaricato, prima di confidarle che: «Anch’io ho perso il mio maestro, per diventare il Santo del Capricorno». Appena lo dicesti avesti la certezza che forse potevi aiutarla a superare almeno in parte il suo dolore. E, per i tuoi standard era già tanto. «É successo nello stesso modo in cui è successo a te, anche se io all’epoca ero ancora un bambino». Lei ti guardò stupefatta e richiuse la bocca che aveva aperto. Tu continuasti: «Tra i Saint è una cosa non sempre comune, ma presente. Anche Aphrodite ha perso il proprio mentore per ricevere l’investitura di Cavaliere dei Pesci così come Hyoga per risvegliare il Settimo Senso, quindi, come vedi, non sei sola. Non posso parlare per tutti gli altri, ma posso raccontarti la mia esperienza, se può farti stare meglio».
La ragazza si limitò a fissarti e, tu, prendesti il suo silenzio per un assenso.   
Prendesti la sedia vicina alla finestra, la spostasti di fronte al letto e ti accomodasti dopo averle chiesto il permesso. Lei annuì.
Ti sedesti a schiena curva, di modo che i vostri occhi fossero quasi alla stessa altezza, i gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate di fronte a lei. Facesti un respiro profondo, cercando le parole giuste per raccontarglielo senza spaventarla. Non era facile perché questo non l’avevi mai confidato a nessuno. Neanche ai tuoi migliori amici, neanche ad Aiolos o ad Aiolia. L’unico che lo sapeva era Saga di Gemini, perché lui si presentò in modo troppo repentino per essere arrivato lì dopo. Lui aveva visto per forza, lui sapeva, ma si era tenuto in disparte, portando silenziosamente insieme a te il peso della morte di Izo. Non eri stupido, certe cose ci arrivavi a capirle. «Me lo ricordo ancora con chiarezza, ero appena tornato in Giappone dopo il mio addestramento in Spagna. Il maestro Izo era un samurai e viveva secondo il codice morale della sua gente, il bushido. Quel giorno si accorse che ero in preda ai dubbi per via del fatto che, sebbene avessi terminato l’addestramento, non mi sentissi sicuro. Mi sembrava di non essere affatto migliorato, temevo pure di non aver affatto ereditato Excalibur. L’avrei ottenuta solo una volta che sarei diventato Cavaliere a tutti gli effetti. Avevo completato il mio addestramento con successo ma la mia investitura non l’avevo ancora ricevuta. Lui per tutta risposta, dopo che mangiammo della zuppa di cavoli, mi portò in un campo e lì, mi spiegò che una volta che avrei imparato a padroneggiare la tecnica niente e nessuno avrebbe mai potuto tagliarmi. Poi mi sfidò dicendo che se non l’avessi tagliato, lui mi avrebbe ucciso. Non scherzava come pensavo inizialmente. Anch’io ho provato a farlo ragionare ma alla fine, per difendermi, lo tagliai, usando la Sacra Spada Excalibur».
La ragazza non disse niente e tu, sospirasti. Poi, i suoi occhi cominciarono a versare lacrime. Aprì bocca e le uscì un singhiozzo: «Mi dispiace, io non pensavo…» Si deterse il viso con il dorso della mano ma non servì a niente. E, tu, per la prima volta in vita tua, ti apristi completamente: «Io non piansi quando mi resi conto di quello che era appena successo e cosa avessi fatto. Ma ricordo che fu allora che il mio sguardo perse tutta la sua innocenza e divenne tagliente come la lama di una spada, la stessa che ti inquieta così tanto. Il resto lo persi a poco a poco. Un anno dopo, Arles mi incaricò di giustiziare Aiolos di Sagitter che aveva rapito la neonata Atena. Sulla strada del ritorno mi imbattei nella Silver Saint Mayura del Pavone, che stava fuggendo anche lei dal Santuario con due bambine, le figlie di Olivia, l’allora leader delle Saintia. Con il senno di poi penso che quello fosse il modo del Fato per punirmi di non aver creduto al mio compagno. Proprio come mi aveva urlato Mayura. Ma io non l’ascoltai. Avrei dovuto darle retta; quando mi resi conto di quello che era successo Aiolia aveva perso suo fratello e io avevo ucciso un altro innocente». Sospirasti. «A volte penso che se quella volta, quel giorno in Giappone, se io avessi pianto invece di trattenermi, forse molte cose non sarebbero mai successe. E, poi, scoprii di non essere più in grado di farlo, i miei occhi si erano asciutti e il mio cuore si era inaridito. La prima volta che piansi di nuovo per il dolore della perdita di qualcuno, fu quando io, Death Mask, Aphrodite, Saga e il Venerabile Shion, fummo resuscitati come Specter per guidare l’esercito di Hades da Atena al Santuario e Shaka lasciò questo mondo per colpa nostra, per fermarci. Tutto questo per dirti che fai bene a piangere e disperarti, le tue lacrime non sono un segno di debolezza, anzi, dimostrano quanto sei forte in questo momento. Tu hai trovato il coraggio di piangere il tuo maestro perché hai capito le sue motivazioni, mentre io no. E, ora per Izo è tardi e io non posso più piangere per lui». La bocca ti si chiuse da sola.
L’amica di Death Mask e Aphrodite ti fissò a lungo, impietosita. Poi allungò le dita e ti prese una mano tra le sue, con delicatezza e la girò, rivolgendo il palmo verso di sè. «Che cosa fai?» Le domandasti un po’confuso, ma non la ritraesti. In un bisbiglio ti sentisti rispondere: «Permettimi di aiutarti a piangere di nuovo, mostrami il tuo passato».
«Vuoi leggermi la mano?» Domandasti abbassando a tua volta la voce.
«Sì». Mormorò in un soffio e le sue iridi recuperarono parte della determinazione che le conoscevi. Non sapevi se ne fosse davvero in grado di far sgorgare quelle lacrime. Ma pensasti che forse non le avrebbe fatto male provare; anche se ciò l’avrebbe portata ad assistere a molti altri omicidi e rivivere un’altra volta lo stesso dolore. Già lei era spaventata da voi, da tutti voi, anche se fingeva spavalderia, non volevi darle un buon pretesto per temervi davvero. «Non è una bella storia». L’avvisasti contrito per quello che avrebbe potuto trovare. E, appena lo dicesti realizzasti che la sua fosse una pessima idea. Stava soffrendo già per questo, come avrebbe fatto a sopportare anche il tuo dolore?
«Non importa, lascia che ti aiuti». Continuò avvicinandosi al bordo del letto, per stare più comoda. E, dal momento che era quello che desiderava e, che quelle parole riaccesero in te la speranza di piangere per quella vecchia ferita, di sentirti debole per un po’, accettasti. «Viaggia con me». Ti invitò con voce dolce, prima di girare dolcemente la tua mano e di cominciare a leggere. Grazie agli allenamenti aveva capito qual era la mano che usavi di meno, per questo la trovò senza errori.
Death ti aveva raccontato della sua esperienza con Astrid. Eri pronto a subire un trattamento analogo, invece, nella sua vividezza fu molto lieve e delicato, come una canzone d’amore d’altri tempi portata dal vento. Fu come passare una serata seduti su una terrazza di un vecchio appartamento e sorseggiare un bicchiere di brandy intriso di ricordi. A ricordare degli anni che non sarebbero tornati più.
Fu davvero come viaggiare indietro nel tempo, trasportato dalle sue parole. Quando leggeva la mano cambiava totalmente registro, parlando come un libro stampato. Forse il migliore che avesti mai letto e, ti pentisti dell’enorme paradosso che fosse, perché era orale e non scritto e, tu non avevi nient’altro che la tua memoria per immagazzinare quella voce e quelle parole. I ricordi affiorarono nella tua mente, grazie alle descrizioni precise della sua voce malinconica. Che, nella tua mente, prendeva la forma di dolci petali viola e soffi di vento. E, in un certo senso, ti parve di essere preso dolcemente per mano e ricondotto indietro, nei meandri del tuo carattere, della tua persona e dei tuoi ricordi.
Lei ebbe accesso a tutto di te, dalla tua data di nascita al tuo vero nome, alla tua infanzia solitaria, l’addestramento, Izo, quel giorno. Avevi dimenticato che un tempo la tua chioma era stata castana e non bruna e i tuoi occhi avevano un taglio più dolce, erano più grandi e risplendevano d’innocenza. Rivedere il vecchio Izo andò a intaccare quella barriera tra te e la tua tristezza.
Poi, fece la sua comparsa Saga e la chiromante ti confermò quello che pensavi sulla sua presenza. E, che fu colpa di quella vicinanza che tu non potesti piangere.
Poi la Notte degli Inganni, la discesa di Aiolos per le Dodici Case, con in braccio la neonata. La Shadow Arrow, la freccia segreta che aveva il potere di immobilizzare le persone tramite le ombre, che il Sagittario usò per inchiodare la tua e quella di Aphrodite. Ma che tu tagliasti e, non potendo credere a quello che vedevi, le tue orecchie si erano fatte sorde alle sue parole e avevi deciso di aiutarlo a suicidarsi per non infangare l’onore del Sagittario. Avresti dovuto capirlo allora, quando la neonata Atena ti fermò usando il suo Cosmo, evocando lo scettro di Nike sottoforma di statuetta della Dea della Vittoria che, quella notte, strinse nelle sue paffute manine.
Ma vi eravate liberati dall’influsso della Dea e, tu, Death Mask e Aphrodite eravate tornati al suo inseguimento. Al ponte sospeso Death aveva provato a fermarlo tempestandolo di colpi e Aphrodite di rose, tu avevi tagliato il ponte. E, ti eri sentito male due volte perché avevi creduto di aver ammazzato anche la Vostra neonata Dea. Tagliando così, assieme a quel ponte, ogni legame definitivo che aveste mai avuto con Atena. Sì, spesso passandoci avevi preso a vedere così quel ponte che tu stesso avevi tagliato. Avevi pianto, quando eri tornato in te, che cosa avevi fatto? E, poi, Arles ti aveva spedito sulle tracce di Aiolos un’altra volta, quando aveva saputo che era sopravvissuto.
Ricordasti quello che avevi fatto a Mayura nel tentativo di fermarla e metterla alla prova. La sua risposta e, quello che avevi fatto per proteggere Aiolia in seguito per via dei sensi di colpa, diventando la sua ombra, in linea con il tuo carattere schivo, complesso e ombroso. Di come, a sedici anni, a forza di sospetti e osservazioni sul Gran Sacerdote, scopristi la verità e facesti la stupidaggine di parlarne direttamente con Arles che ti lanciò il Genro Mao Ken e ti assoggettò in parte al tuo volere, tranne il tuo demone. Il quale si ribellò per un po’, riuscendo persino a spaventarlo, anche se inutilmente. Poi andò avanti fino alla Titanomachia, dove aiutasti Aiolia più di una volta e vi salvaste la vita a vicenda. E, dove ricevesti l’Ichor di Ceo. E, poi, la Scalata delle Dodici Case dove avesti la conferma di essere stato imbrogliato e, il dolore che, fino a quel giorno ti eri sforzato di sostenere ti piombò addosso come un macigno, schiacciandoti, mentre Shiryu, innalzandosi grazie alla Pienezza del Dragone, ti portava con sé nello spazio. Non avevi resistito alla vergogna e, prima di lasciare la troposfera eri riuscito a rispedirlo indietro dandogli sia la tua corazza sia Excalibur. L’Ichor del Titano aveva solo contribuito a ritardare la tua morte.
Poi, i fatti della Guerra Sacra contro Hades. Il piano di Shion, il desiderio struggente di correre da Atena e rinnovare il giuramento di fedeltà nonostante la vostra nuova condizione. Le lacrime di sangue che solcavano il vostro viso e che solo Mur aveva visto ma aveva scambiato per allucinazioni. La lotta contro i Cavalieri d’Oro superstiti che vi aveva ferito come poche cose al mondo. Le lacrime che sapevano di fiele e amarezza per Shaka, il tuo corpo che tornava a essere polvere quando i primi raggi del sole vi sfiorarono. E l’ultimo sorriso che lanciasti a Shiryu, prima che cominciaste a bruciare il vostro Cosmo e a concentrare tutta la luce del sole nella freccia di Aiolos. L’esplosione di luce e l’oblio che vi venne incontro assieme alla paura.  

Dopodiché, il cielo plumbeo di Asgard. La tua ricerca di Aiolia e oltre, fino ai fatti dei Senza Volto a ora. Come una costante rivide assieme a te il tuo demone e, mentre tu, ogni volta che lo nominava ti eri sentito schiacciato dalla colpa, proprio qui lei ti sorprese: «Quello non è un demone».
Sollevasti gli occhi stupiti su di lei, mentre i ricordi continuavano a fluire attorno a voi, assumendo di nuovo la forma della foresta di bambù. Lei continuò: «Fa paura, lo so, ma questo perché quella è la forza dentro di te. La forza che ti riveste della Surplice d’Oro e che ti fa diventare puro istinto. Una creatura a metà tra questo e l’altro mondo, proprio come il Capricorno che è a metà tra la Terra e l’Acqua. Ma non è un mostro, è una scintilla divina. Quella è la tua vitalità, la tua ira per le ingiustizie che hai subito, sono tutte le lacrime che non hai versato e la forza del Dio delle Foreste che rivive in te, Shura. La Decima Casa anticamente era denominata Medium Coeli. Sai cosa significa? É il mezzogiorno, la Vita, il momento del giorno al massimo del suo apice eppure a un passo della sua decadenza. Il massimo della forza e prossimo a calare al tempo stesso. Proprio come te, nato sotto il segno di Pan, il Dio delle Foreste, la forza selvaggia della Natura. Rappresenta la realizzazione professionale che si avrà, la fuga dal nido di origine, il successo, l'indipendenza, i riconoscimenti che avremo o non avremo, l'ambizione e la decisione ad inseguire determinati obiettivi, la forza di abbattere gli ostacoli. In pratica la libertà, quella che non chiede scusa e che è. Quella è la forza del Dio Pan, il figlio di Ermes ed è anche la tua umanità. Quella scintilla è una parte di te ed è una forza che nessuno può controllare, se non tu. Gemini non fece altro che tirarla allo scoperto. Non è da temere perché tu non hai mai fatto del male a nessuno. Sei sempre riuscito a fermarti ogni volta che rischiavi di trasformarti. Se tu riuscissi a incanalarla non avresti più paura di cadere. Tu non puoi cadere, non puoi spezzarti per davvero, ma puoi piegarti e puoi piangere, perché sei un essere umano e, questa realtà non cambierà mai, per quanto tu affili il tuo corpo, la tua anima resta umana. Non c’è alcun demone dentro di te, Shura». Disse sfiorandoti il viso con una carezza e tu, alzando lo sguardo tornasti al presente, ritrovandoti ad annegare in due profondi, bellissimi, espressivi, pozzi dorati scintillanti. «Perciò piangi, Shura, piangi. Excalibur non si spezzerà mai per questo. Piangi per Izo e per Aiolos, per te stesso, se vuoi». Sussurrò posandoti la mano con cui prima ti aveva carezzato sulla guancia in un gesto colmo di dolcezza. I vostri respiri molto vicini, quasi che steste per baciarvi.  
La barriera che con quella lettura aveva incrinato, si riempì di crepe, mentre lo sguardo di quella ragazza straordinaria completava l’opera. E, il dolore riuscì finalmente a trovare la via per uscire. Via che, per tanto tempo gli avevi bloccato. Qualcosa ti pizzicò gli angoli degli occhi. Battesti le palpebre per scacciare quella sensazione di fastidio e, con tuo grande stupore, sentisti la prima di una lunga serie di lacrime rotolare sulla tua guancia scavata. A cui subito ne seguirono altre e altre ancora, di riflesso a quelle che solcavano il volto della giovane davanti al tuo. Le vostre fronti ancora in contatto.  
Ti togliesti gli occhiali e chiudesti gli occhi, il petto scosso dai singulti.

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Libro Terzo: La Voce delle Stelle ***


Libro Terzo: La Voce delle Stelle

 

 

«Ascoltate bene quello che ho da dire, ho svolto delle ricerche e ho scoperto che i poteri insiti nel Cosmo della nostra ospite sono destinati a crescere sempre di più».

«A crescere? Come è possibile?» Esclamò Milo.
«È diventata più potente di Saga e Kanon in così breve tempo, anche dei Cavalieri di Bronzo, il suo Cosmo non può crescere ancora, finirebbe per sopraffarla e controllarla».  

***

«Mi domandavo perché tu parlassi in sincrono con lui, come se foste una cosa sola e poi ho capito. Non so cosa sia di preciso questa dimensione, ma ha proiettato le tue paure e te le ha messe davanti come ostacolo. Allora ho pensato: Visto che è un sogno e, che io stessa sto sognando, allora posso farlo anch’io». Sorrise tutta trionfante.

***

«Mi dispiace, non ho più forza per impedire il suo arrivo». Si scusò ancora, alzando il volto, guardandovi con la faccia rigata di lacrime.

 

***

 

«No, se seguiremo i progetti che ho trovato in Jamir e useremo le nostre tecniche».
«Progetti?»

 

 

***

 

«Solo chi è caro agli Dèi viene scelto per questa competizione».

***

 

«Dovevo immaginarmelo che avrebbero mandato te!»
«No, aspetta, non è come credi, vengo in pace, sono qui per aiutarti!»

 

***

 

Guardasti Kanon allarmato.
Ora chi è che infrange i trattati?   

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Ci sono anch'io ***


Ci sono anch'io


Astrid

Abituarsi ai cambiamenti è difficile, ma adattarsi alla sofferenza è ancora più arduo.
Mi dicevo che dovevo reagire ma non era facile. La consolazione di Shura aveva funzionato abbastanza per riaccendere un barlume di speranza. Mi era stato un po’ d’aiuto sapere che non ero stata la sola e mi aveva stupito tutto il sostegno e la comprensione che stavo ricevendo. Anche lui mi aveva lasciato una stella: una nana bianca, quasi a compensare il buco nero che aveva dato il via al mio secondo tempo.
Dopo la lettura Shura era rimasto alla Quarta ancora per un po’, finché entrambi non ci eravamo calmati. Poi, dopo aver fatto un salto in bagno a sciacquarsi la faccia se ne era andato e non s’era più fatto vedere. Solo dopo mi ero sciacquata la faccia anch’io. Death Mask non diceva niente e io non mi sentivo ancora in forze per tornare a frequentare le sedute del mio psicologo. La morte del mio maestro mi aveva trascinato in un limbo di apatia. Nonostante l’incoraggiamento dei miei commilitoni e il sostegno dei miei amici, i miei sogni erano tornati agitati come prima. Ogni volta che chiudevo gli occhi cercavo di salvare inutilmente mia madre ma lei tutte le volte mi salutava e poi se ne andava. E io, per quanto corressi velocemente non riuscivo a raggiungerla.
Altre invece, sognavo Rhadamantys che mi faceva a pezzi sotto gli occhi disgustati di mio padre.
Infine, rivivevo la morte del mio maestro, il Gold Saint Odysseus di Ophiuchus, ora ancora di più che tutte le altre. E tutte le volte non potevo fare niente per impedirlo. Anche se mi aveva detto che era tutto ciò che desiderava, non ero d’accordo. Fosse dipeso da me nessun’altro sarebbe più morto.
Mi svegliai di soprassalto ansimando, con il cuore che batteva rapidamente per la paura. Misi a fuoco la stanza e, dopo qualche secondo, la riconobbi per la camera degli ospiti della Quarta Casa. 
Non ricordo come ci finii. So che fu Death Mask, una volta cessato l’effetto dell’Hypnotherapy a portarmi via. Finora era stato lui a passarmi una nuova tunica portata da un’ancella che la medesima mi aveva fatto indossare. Ero uscita soltanto per andare alla Tredicesima dopo la notizia riferitami da quel lecchino spudorato di paggio. Poi avevo fatto ritorno alla Quarta. Sì che come ingresso mi aveva sempre ricordato una tomba. Invece mai come adesso mi ricordò una tana. Un rifugio per la mia povera anima a pezzi. A prescindere dalle maschere. Ero talmente a pezzi che neanche le calcolai, sebbene avessi l’impressione che anche loro piangessero con me. 
Non volevo vedere nessuno, volevo solo restarmene in pace con il mio dolore. Death Mask e Lancelot facevano a turno per assistermi. Mi tenevano compagnia, principalmente. Soprattutto il giorno e, se per caso uno era impegnato, l’altro restava sempre con me. Per il resto non avevo mangiato per cinque giorni, ero andata avanti solo ad acqua e lacrime. Mi stavo trasformando in cadavere sotto ai loro occhi. E loro stavano cercando di impedirmelo, mettendomi davanti il cibo e mangiando insieme a me, dopo giorni che avevo passato digiuno o quasi a causa delle crisi.
Mangiavamo in un silenzio quasi sacrale.
Non erano bravi a consolare, ma che consolazioni puoi aspettarti di ricevere da due assassini? Era già tanto che non avessero cercato di uccidermi.
Eppure, in quel momento, persino loro andavano bene perché scacciasse la mia paura. In un certo senso era come essere tornati indietro nel tempo, prima che scoprissi che Aphrodite, lui, Kiki e Mur mi tenevano d’occhio. E ora rivedevo di nuovo gli occhi di Odysseus, mentre spirava tra le mie braccia. E il grido che lanciavo nel sogno, lo lanciavo anche nella realtà.
Proprio come quello che, questa notte mi svegliò. Mi ritrovai seduta ad ansimare per la paura. Lo stomaco in subbuglio. Lo sapevo riconoscere ormai, anche dal lieve tremolio delle mie viscere.
Mi portai una mano allo stomaco mentre cercavo di regolarizzare il respiro e impedire all’onda di marea della crisi di travolgermi.
«Ehi, stai bene?» Domandò la voce di Death Mask e io sobbalzai, trovandomelo di fronte, incorniciato sulla soglia, la faccia atterrita. Una mano sullo stipite e una lucerna nell’altra. Arretrai da seduta, sussultando di nuovo: la luce della fiammella gettava ombre inquietanti sui suoi lineamenti.  
Death non era un guardone, anzi, per essere telepate, era piuttosto discreto. Almeno con me, rispettava di parecchio la mia privacy.
Scossi il capo mordendomi il labbro prima di cominciare a tremare. Non ne potevo più di queste uccisioni, non volevo più vedere le mie mani macchiate di sangue. Che fosse Ichor o Aima non m’importava, volevo tornare quella di prima. Ma non lo sarei stata mai più, perché era stata tutta una menzogna. Quella Astrid che lavorava al Kazablanc, che viveva come una persona normale, non era mai esistita. 
Death Mask si avvicinò, posò la lucerna sul comodino, si sedette sul bordo del letto e mi pose una mano sulla testa, impacciato. Dopo un iniziale momento di smarrimento, mi aggrappai a lui e piansi. Lui s’irrigidì per la sorpresa ma invece di respingermi ricambiò: «Va tutto bene, era solo un sogno». Cercò di convincermi, cercando di non mostrarsi troppo disgustato. Mentre mi abbracciava poggiò il mento sulla mia testa, incastrandomi nell’incavo del suo collo, rivestendomi come un esoscheletro e coprendo le ferite ancora aperte della mia anima. Per essere un assassino sapeva mentire benissimo con il corpo. Ed era un bene perché adesso avevo bisogno di credere che fosse una persona per bene e che potesse scacciare i miei demoni interiori.
Mi tenne stretta a sé finché non mi fui calmata o, almeno, esaurii le lacrime per quella sera e l’ansia si ritrasse un poco.  «Su, su, adesso smetti di piangere». Fece passandomi un fazzoletto che recuperò dal cassetto del comò, dove gli dissi di aver messo i pacchetti. Al povero diavolo avevo sporcato la canottiera che usava per dormire.
Mi scusai e mi pulii il viso, cercando di cancellare le tracce del mio pianto e della mia disperazione. Lui ne usò un altro per ripulirsi alla bell’e meglio a sua volta, cercando di mitigare il più possibile la sua espressione schifata. E, come dargli torto?
Ormai avevo perso la cognizione del tempo. Sapevo solo che l’unica non facevo, altro non era che piangere. Mi domandai come mai non mi si fossero seccati gli occhi, a forza di piangere tanto. Perché non fossi ancora diventata afona o perché non mi avessero ancora buttata fuori.
«Mi dispiace». Mormorai così piano che quasi fu un pensiero che un mormorio. 
«Di cosa?» Rispose mentre finiva di pulirsi, appallottolava il fazzoletto e lo gettava nel cestino.
«Di questo, di tutto e del fastidio che vi do». Spiegai. “Io non merito tutto questo disturbo”. Pensai ma non fui capace di dirglielo. Mi vergognavo anche di me stessa per costringerlo a sorbirsi tutto questo. Avrei preferito che mi scacciasse. E, sapevo che lui lo sentiva, che mi stava leggendo nel pensiero. Ma che ero troppo afflitta per chiederglielo. Non erano neppure pensieri, erano più che altro emozioni. Grazie alle precedenti lezioni di Kanon avevo imparato a riconoscere le sensazioni delle letture del pensiero.  «Ormai ci sono abituato». Rispose tranquillo, guardandomi. «E poi ti capisco benissimo. Se non fosse che sentivo il bisogno di vendicarla, probabilmente mi sarei lasciato andare come te, solo che nessuno mi avrebbe aiutato e, forse, non sarebbe servito a niente comunque». Sapevo a chi si stesse riferendo. Morendo aveva sperato, almeno un po’, di poter riunirsi a lei, ma non gli era stato concesso neanche questo.
«Per questo mi stai aiutando?»
«No». Lo guardai confusa e intimorita. Mi guardò dritto negli occhi e rispose:  «Lo faccio perché siamo amici». Strabuzzai i miei per lo stupore. Lui mi guardò con intenzione e disse: «Se non ci credi sonda le mie emozioni, guarda tu stessa cosa provo». Ci provai, incerta. Dopo un po’, quando riuscii a concentrarmi, percepii il suo dispiacere e la sua tristezza per me, per non sapere bene come comportarsi. Sentii il suo desiderio di vedermi di nuovo sorridere e tornare a cantare come prima. La sua frustrazione con sé stesso per non saper fare di meglio. Stava cercando di infondermi speranza e di farmi capire che non ero sola. Lui era stato il primo che si era avvicinato a me, che mi aveva protetto dall’inizio alla fine e nessuno gli aveva detto di farlo. Come avevo fatto a non capirlo quando Argor mi pietrificò? Dai suoi rimproveri e da tutte quelle volte che mi era stato vicino? Io credevo che era perché qualcuno gliel’avesse ordinato, o per via del suo debito non perché mi volesse bene. In quel momento realizzai di essere la seconda persona che desiderava proteggere.
Per la prima volta mi apparve sotto una luce diversa. Sapevo che a volte gli assassini risparmiavano qualcuno, credevo di essere io quel qualcuno. Non che proprio si rifiutasse di uccidermi per tutt’una serie diversa di motivi che con il dovere non c’entravano una cippa. 
Lo guardai sbalordita e anche malinconica. Fino a quel momento non avevo mai pensato che il suo affetto per me fosse molto più genuino di quanto sembrasse. Come avevo fatto a non accorgermene prima? Appena finito di percepire tutto questo, sentii il calore tornare a invadermi il petto e mi si allargò il cuore. Provai un gran moto d’affetto per lui che, forse, non aveva idea di quanto questi tentativi, significassero per me.  
Un piccolo sorriso commosso s’impossessò del mio volto. «Davvero?»
Asserì con il capo senza dire niente e poi tolse la mano dai miei capelli. «Sì, aspetta un attimo».
Si alzò e uscì dalla mia camera per ritornare con un sacchetto. Risvegliando un ricordo risalente a quasi sette mesi prima, strappandomi così un altro sorriso involontario, nonostante la tristezza e il dolore: «Brioches?»
«No, biscotti. Stavolta però non divorarli». Si raccomandò.
Un sorriso involontario curvò le mie labbra: «Te lo ricordi, eh?»
«Non si scorda facilmente una che si strafoga neanche fosse un lupo mannaro».
«Te lo feci apposta». Rivelai un po’divertita, scostandomi la frangia dal volto. In effetti la sua faccia sconcertata era così buffa, che il solo ricordo mi strappò una risatina sommessa, nonostante la distruzione e il dolore dentro di me. Normalmente Death non amava essere deriso, però si limitò a curvare la bocca in un sorriso. Se ripenso a quel giorno, non saprei dire chi di noi due fosse più spaventato dall’altro. Io lo facevo per spaventarli perché mi spaventavano, loro pur essendo spaventati quanto me, cercavano di aiutarmi. Avevamo quasi lo stesso sguardo, solo che non ce ne eravamo resi conto. «Lo immaginavo. Non mi chiedi se c’è il veleno?» Scherzò e io lo accontentai. «Non è che sono avvelenati?»
«No, tranquilla, anche perché, già che ci sono, ne vorrei un po’anch’io».
«Accomodati». E passammo quella parte di nottata a mangiare i biscotti. Alla fine mi sentii un po’ più in forze e molto meglio rispetto a prima. La paura era passata e così anche l’ansia. La tristezza che rendeva il tutto più agrodolce ci avrebbe messo di più a passare.
«Adesso cerca di dormire un po’, va bene? Ti lascio la candela accesa». Disse accennando al lume che aveva rischiarato la mia camera per queste ore. E che si era consumata.
«Ci provo». Risposi.
«Buonanotte, Astrid».
«Buonanotte, Death». E uscì. Restai a guardare per un po’ la fiammella ondeggiante al ritmo lieve del mio respiro. Sulla pelle e nel cuore, sentivo ancora il suo tocco e il calore che era riuscito a infondermi. Poi, soffiai sulla candela e le tenebre tornarono ad avvolgere la stanza. Solo che il freddo non ebbe più il potere d’intaccarmi e di terrorizzarmi. E, malgrado la tristezza e il dolore, riuscii a chiudere gli occhi e riaddormentarmi. 
E dopo l’annichilimento, ci fu la fase della rabbia. Non mi guardai allo specchio mentre mi spazzolavo i capelli, ormai lunghi fin sotto alla gabbia toracica. Non avevo il coraggio di incrociare il mio stesso sguardo. Non ero certa di cosa avrei trovato una volta che avessi guardato sulla superficie riflettente. E, forse era anche questo a spaventarmi quasi più di ogni altra cosa.
Non era come quando persi Snakye, il cui tatuaggio, era ancora nascosto dalla benda sul polso. Questo dolore era ancora più forte. Avevo lottato tanto per ritrovare il mio maestro e la mia memoria per lasciarla andare subito. Forse sarebbe stato meglio non ricordare affatto.
Non avrei mai creduto che la persona che amavo mi avrebbe aggredito a quel modo. Anche se alla fine si era rivelato tutto un trucco, il dolore che provavo era reale e, questo, non potevo dimenticarlo.
Prima che sospendessi le visite il mio psicologo diceva sempre che era per via di tutti questi tradimenti che avevo l’ansia. Secondo lui, la mia mente si era ormai convinta che non potessi fidarmi di nessuno. Era il prezzo che avevo pagato per la mia stupidità infantile e la mia investitura a Medico del Cielo. Anche se gli altri mi consideravano, erroneamente, una Gold Saint. Già, ero diventata un Cavaliere d’Oro; il Cavaliere d’Oro di Ophiuchus e una Specter. Quale ironia: una Specter che diventa Cavaliere d’Oro. Accidenti ad Aiolia e tutte quelle volte che aveva insinuato che lo fossi. Se magari fosse stato zitto, non ci sarei mai diventata, giusto per proprietà dell’etichettamento: accusa una persona di essere una cosa e un giorno quella persona lo diventerà.
Piano piano mi calmai.
«Va meglio?» Mi chiese Death quando mi lasciò andare e mi soffiai il naso nel fazzoletto che mi passò.
«Sì, grazie… Vado… in bagno». Balbettai. Quando fui dentro mi chiusi la porta alle spalle e accesi la luce, che sapevo essere sulla mia destra. Mi guardai allo specchio dopo essermi sciacquata il volto.
Uscii dal bagno e trovai Death che mi aspettava fuori della porta della mia stanza. «Grazie ancora e, scusa per averti svegliato».
«Non ci pensare, adesso cerca di dormire». Fece carezzandomi la testa per un momento. Un gesto che gli stava diventando abituale. Poi tornò in camera sua.  Ma non dormii più.  
Per risolvere questo problema riflettei una notte intera. All’alba del giorno dopo giunsi a tre conclusioni: o lo soffocavo e, di conseguenza, un giorno sarebbe esploso, travolgendomi, o lo sfogavo subito e rischiavo di farmi scoprire, oppure lo incanalavo da qualche parte.
Ma non riuscivo a vedere quale percorso intraprendere. Mi sembrava di essere diventata una specie di Saga II. Non rischiavo uno sdoppiamento di personalità ma un cambiamento più simile a quello di Lena nel secondo libro di Beautiful Creatures. Adesso che sapevo cosa si provasse a sentirsi così in bilico, avrei fatto meglio a non canzonarlo più di tanto. Ma io, a differenza di Saga, uno psicologo lo frequentavo già e, non avevo paura di chiedere aiuto. Sicuramente mi avrebbe dato una mano a controllarmi per evitare che la Stella Malefica prendesse il sopravvento. Ma era la cosa giusta da fare, considerando che ciò avrebbe potuto causare non pochi disastri? Ora potevo parlare tranquillamente del mio maestro con lo psicologo. Di come mi avesse salvato più volte, in passato e ora fino a che non era rimasto il vuoto. D’accordo il segreto professionale paziente e dottore, ma ero una Saint e lui lavorava per il Santuario. Come potevo parlargliene senza scatenare una Guerra e la fine del trattato? Shun mi aveva spiegato che non rientrava nei patti di alleanza un’altra corruzione. Come se non bastasse, avevo anche un altro problema che si poteva riassumere in questi versi:   
        
S.O.S. il tempo vola
S.O.S. il tempo scade.

Muoviti: manca poco a mezzanotte.
Lo starter ha già sparato.
Corri, Astrid, la gara è cominciata.
 
Un minuto a mezzanotte.

Questo era ciò che il Tutto mi suggeriva. Perfetto. Ogni mattina appena sveglia queste quattro parole non facevano altro che rimbalzare nella mia mente come un mantra ripetuto all’infinito. Era quasi ovvio che me le segnassi, no?  
Se questa storia fosse stata un film vecchio stile, di quelli che davano in TV nei primi anni Duemila, adesso sarebbe comparsa la scritta “Fine primo tempo” e sarebbe partita la pubblicità. Sfortunatamente non era un film e non c’era nessuna pubblicità. Non c’era intermezzo e non c’era Baglioni a cantare la sua canzone per combattere la noia. Perché non c’era neanche quella, c’era solo tristezza ed io avevo maturato di aver appena finito il mio primo tempo come Saint
Adesso toccava al secondo. Max Pezzali cantava: Che c’è il mio secondo tempo e non voglio perdermelo. Il mio secondo tempo come Saint era cominciato sotto i peggiori auspici. Mia madre era morta e Seiya non aveva saputo dirmi perché né era riuscito a salvarla. Non ero riuscita a salvare tutti i tributi degli Inferi, uno di loro l’avevo ucciso io stessa e ne stavo pagando le conseguenze. Infine il mio maestro si era fatto ammazzare da me.
Mi presi la testa tra le mani, affondando le dita nei capelli.
I volti di Tokaki e di Odysseus affiorarono nella mia visuale e il mio cuore si strinse in una morsa.
«Signori, perché a me? Che cosa vi ho fatto?» Mormorai sigillando gli occhi. Spostai le mani dai miei capelli e le congiunsi in preghiera davanti alla mia bocca: «Vi prego, che cosa volete da me?» Anche se Camus me l’aveva già detto negli Inferi io non mi ero fidata, anzi no, non l’avevo voluto ascoltare. Quello che mi sorprendeva, a parte che si fosse mosso proprio il Custode della Decima, fu il mio stoicismo. Non avevo fatto una piega per accogliere il suo dolore e realizzare il suo desiderio. Chissà perché ma mi era più facile mettere da parte i miei problemi per aiutare gli altri, invece che me stessa. Proprio come quando ero più giovane e mi sentivo tutta sbagliata dentro e combinavo “disastri” senza accorgermene. Già, adesso che avevo a che fare con dei veri drammi e veri disastri, mi rendevo conto di tutta la mia inesperienza e ingenuità. Io non sapevo ancora proteggere le persone. Avevo osato il passo più lungo della gamba e ora, al mio elenco insanguinato si erano aggiunti anche il mio maestro, Anna, Iago, Saoirse, Tokaki e Neji. Tutte quelle vite stroncate a causa della mia inesperienza. E anche se avessi avuto una seconda occasione nella prossima vita, probabilmente non li avrei riconosciuti.
Accidenti a me. Se solo fossi stata più abile e meno distratta.
Sentii un fruscio e girai la testa di scatto in quella direzione e mi parve di scorgere Death Mask scomparire oltre l’uscio. Già. Sicuramente si stava rompendo le scatole di avermi qui e, come dargli torto.

Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria fresca. La Quarta Casa cominciava a puzzare di stantio per i miei gusti. Mi lavai, mi pettinai e mi vestii. Mentre stavo allacciando i sandali, il domestico di turno mi domandò: «Ristrutturerete il Tempio d’Ophiuchus, mia Signora?» Roteai gli occhi ed emisi un verso esasperato: «Per l’ultima volta, non sono la tua Signora e no, non lo farò. Perché me lo chiedi?» Chiesi poi. Dal funerale di Odysseus tutti mi apostrofavano così.  
«Alla Tredicesima Casa si vocifera di sì». Spiegò con un misto di perplessità e delusione. Lo guardai confusa a mia volta: «Cioè?»
Il ragazzo s’impappinò: «Che adesso che il Tredicesimo Cavaliere è tornato, ci sarà bisogno di restaurare il suo Tempio, non potrete stare per sempre nella Tredicesima Casa, dovete assolvere anche i vostri doveri di Gold Saint. So che state già cercando degli operai, posso offrirmi volontario?» Domandò, sperando in una paga di qualche tipo, dal momento che il mio status si era elevato di molto. Logico, no? Per quale altro motivo avrebbe dovuto rivolgermi la parola e a quel modo? Ma le sue parole, il suo tono entusiasta, mi fece imbestialire. «Chi te l’ha detto?» Domandai invece, irata, incrociando le braccia e inarcando un sopracciglio. L’altro capì di non aver fatto una mossa molto intelligente, perciò rispose, incerto: «L’ho sentito dire dal Gran Sacerdote».
Sospirai e chiusi gli occhi, portandomi una mano alla radice del naso. Poi la aprii e mi coprii le palpebre sibilando: «Kanon.» in tono esasperato.  
«Non so chi sia questo Kanon». Mormorò l’altro in tono di scuse. Io lo ignorai. Mi diressi, invece, verso la Tredicesima Casa passando per i sentieri dei servi, più per abitudine che per reale volontà.
Presi i sentieri segreti dei domestici e qualche scorciatoia che mi aveva mostrato Odysseus molto tempo prima. in un quarto d’ora giunsi alla Tredicesima passando dal retro. Attraversai le cucine e, dopo aver superato numerosi corridoi e qualche stanza, sempre sotto l’occhio vigile dei soldati che si inchinarono al mio passaggio, bussai alla porta laterale della Sala del Trono.
La porta si aprì e mi ritrovai di fronte Mr Simpatia, il quale inarcò le sopracciglia per lo stupore: «Nobile Astrid!» Esclamò e Kanon, dall’altra parte, fece eco stupefatto.
«Scusatemi Zenais, non ho fatto tutta questa strada per essere fermata proprio adesso. Desidero parlare con il Gran Sacerdote, è urgente». Non so neppure io come feci a mantenere il tono di voce arrabbiato e a non pensare a ciò che si stava agitando dentro di me. Proteggendomi così dai poteri mentali del Gran Sacerdote.
«Il Gran Sacerdote…» Iniziò ma il Patriarca lo interruppe con un «Falla passare», sicché Mr Simpatia richiuse la bocca e si fece da parte, lasciandomi entrare. 
Feci una piccola riverenza a Kanon e poi mi raddrizzai. «Oggi un ragazzo è venuto da me e mi ha chiesto quando inizieranno i lavori di ristrutturazione del Tempio d’Ophiuchus, che cos’è questa storia e perché non sono stata interpellata?» Gli domandai, indignata, impedendogli di parlare. 
«La tua domanda è legittima». Rispose alzandosi. Poi prese fiato e continuò che: «Dal momento che sei il nuovo Gold Saint di Ophiuchus devi prendere il tuo posto tra le schiere della Dea ed è giusto che anche tu abbia la tua Casa».
«Scordatelo!» Sbottai dopo qualche secondo e l’eco di questa parola rimbombò per tutta la Sala per qualche secondo. «Come, prego?» Domandò con finta sorpresa quando l’eco scomparve. Sapevo che stava concedendomi la possibilità di rimangiarmi le mie parole, ma non m’importò. «Ho detto: scordatelo; cosa c’è di difficile in questa parola? Ce l’avete già un Saint di Ophiuchus, non avete bisogno di me». Il mio rifiuto non lo scalfì nemmeno. Era come se lo avesse preventivato, perché controbatté: «Invece sì. Shaina è solo un Silver Saint, il suo Cosmo, per quanto lei si possa sforzare e si sia sforzata, non raggiungerà mai i livelli di un Gold Saint. Dacché ha messo piede al Santuario ci ha provato con tutta sé stessa ma non ha mai raggiunto il Settimo Senso. Certo, è abile, è forte, è astuta, è intelligente ed è spietata, ma non potrà mai raggiungere i livelli di un Gold. Per di più non potrà continuare ad assolvere ai suoi doveri ancora per molto, mentre tu sei giovane, in salute, padroneggi delle tecniche altrimenti perdute per sempre e, sei forte. Inoltre lei stessa rifiuta questa carica per paura della maledizione. Tutti al Grande Tempio temono quel luogo, ma tu no, perché è la tua Casa e lo sai. Mi domando perché tu non ne prenda legittimamente possesso». 
Questo significava che in me si era già destato il Settimo Senso per sconfiggere Odysseus? Allora perché non lo sentivo? Ma non era questo ciò che mi premeva: «E, finire a presidiarla per il resto della mia esistenza? Restare nella Casa a combattere i nemici che mi si presenteranno innanzi e non potermi muovere finché non riceverò l’ordine contrario? Neanche per sogno». Sospirai e sentii la forza concessami dalla rabbia cominciare ad abbandonarmi. «Ascoltate, vi sono immensamente grata per essermi venuti a riprendere agli Inferi e, per tutto quello che avete fatto per me fino a questo momento, ma io non sono una guerriera, ce la faccio a malapena a non avere una crisi d’ansia in questo momento e, pretendete che io assolva al dovere di un Saint? Anche se ho giurato fedeltà ad Atena le Sacre Vestigia del mio maestro non mi riconosceranno mai come loro proprietaria. Non solo perché non ho risvegliato niente ma perché l’unica cosa che voglio in questo momento è seppellirla assieme a lui. È con lui che deve stare. Io non sarò mai il nuovo Gold Saint d’Ophiuchus, fatevene una ragione e...» Non feci in tempo a completare la frase che mi interruppe con un grido rabbioso: «Tu adesso non sei più una semplice ancella e neanche più la custode della Luce Ombrosa! Tu sei una Gold Saint e hai dei doveri da rispettare! E, come tale ci si aspetta che tu li rispetti! Hai capito?» La mia risposta non cambiò neanche di fronte alle minacce.
E da allora restai nel salotto di Death Mask. Non so quanto tempo passò. So solo che a un certo punto me lo ritrovai davanti, incavolato nero. «Alzati». Esclamò autorevole. Sollevai lo sguardo su di lui senza vederlo. Una volta mi sarei anche spaventata, adesso non mi diceva niente. Lui invece mi guardava furioso con quei suoi occhi spettrali. «Cosa cazzo stai facendo? Ti sembra questo il momento di fermarti? Cosa cazzo ti credi di fare? Credi che il tuo maestro vorrebbe vederti così? Ti senti impotente perché tutte le sfighe sono cadute addosso a te? Beh non è così, svegliati! Odysseus è morto, fattene una ragione!» Ma le sue parole mi sembravano vuote e arrivare da molto lontano. Lui si passò una mano in faccia e poi emise un verso di frustrazione. «Ma guardati, una volta mi avresti risposto in qualche modo, mi avresti anche rimesso in riga o staccato la testa a morsi e adesso neanche quello».
Se ne andò lasciandomi lì a fissarlo senza capire bene cosa fosse successo.

Qualche giorno dopo questo fatto, Shura scese di nuovo alla Quarta. Stavo giocherellando con il cibo della colazione, cercando di ignorare gli inutili tentativi di Lancelot di tirarmi su di morale e i sibili stizziti che Death indirizzava a quest’ultimo per farlo tacere; ché non aveva voglia di sentirlo fiatare già di prima mattina. A quel punto avevamo sentito il rumore di un paio di nocche bussare sulla porta. Ci eravamo girati e lo avevamo visto in piedi, nella sua tenuta d’allenamento, con tanto di pettorali, bracciali, coprispalle e ginocchiere di cuoio sopra una canottiera verde scuro e pantaloni neri come la sua chioma.
«Mio Re». Salutò Lancelot sbalordito.
«Oh buongiorno Shura, cosa ci fai qui a quest’ora?» Domandò Death Mask, incuriosito e in un tono più gentile del solito, sicuramente per non traumatizzarmi. Come se ci volesse così poco. «Scendi ad allenarti? Aspetta un momento che finisco qui e vengo anch’io». Disse poi ma lo spagnolo lo congelò rivelando che «In realtà sono qui per lei». Disse guardandomi. Ricambiai con tanto d’occhi e mi cadde il cucchiaio di mano per lo stupore.
«Per lei? Perché?» Domandò il siciliano balzando in piedi, improvvisamente alterato.
Shura non si scomodava così per niente e non eravamo amiconi. Quindi il motivo doveva essere uno solo: Kanon. «Ce l’ho già avuto un maestro, non ho più niente da imparare». Dichiarai a mia volta in tono secco, dopo averlo fulminato con lo sguardo. Poi tornai a occuparmi della mia colazione come a dire: “discorso chiuso”. Mi portai la tazza di caffè alle labbra. Mentre bevevo Shura si pose alla mia sinistra e mi fissò insistentemente finché non ce la feci più a ignorarlo. Misi giù la tazza pulendomi la bocca con il tovagliolo, lo guardai infastidita con le sopracciglia aggrottate.
«Invece, hai tanto da imparare». Mi contraddisse quando ebbe la mia attenzione. «Per prima cosa ad ascoltare fino in fondo ciò che hanno da dire i tuoi interlocutori, seconda cosa, a portare un po’di rispetto e terza cosa, me l’ha chiesto la Dea Atena in persona».   
«Per prima cosa no se ciò che hai da dire non rientra nei miei piani; devo capire che cosa sia quella Sfera che le Creature mi hanno dato, cosa ha a che vedere con me e quale sia il compito di un Medico del Cielo. Seconda cosa mi scuso se ti ho dato quest’impressione ma no, non ci tengo a uccidere un altro maestro e terza chiedi scusa alla Dea da parte mia ma ti ha scomodato per niente. E poi sono solo un’ancella è meglio che riprenda il mio lavoro, mi sono assentata anche troppo». Ribattei scostando la sedia e alzandomi. In realtà della Sfera Nera mi ero completamente dimenticata da un po’. A quelle parole Shura si irrigidì come se avessi bestemmiato contro la Divinità. Lui che era sempre così ligio al proprio dovere e che ogni parola di Atena o del suo Portavoce in Terra era legge, non poteva sopportare questo rifiuto.
«Con permesso». Mormorai andandomene, cercando di mantenere la voce più salda che potevo.
Forse non arrivava nemmeno a capire perché la Dea desiderasse che mi allenasse. Sperava che alla fine io potessi prendere il posto che mi spettava tra le mie schiere e combattessi per lei, vincolata da un probabile giuramento di fedeltà. Ma se Lady Isabel credeva che fossi così stupida da cascarci, si sbagliava.  Mi aspettai che il Cavaliere di Capricorn mi seguisse e cercasse di fermarmi, magari convincermi a cambiare idea, invece non lo fece. Per fortuna.
Così andai al lavoro. All’ufficio di collocamento, tutti smisero di fare ciò che facevano e di chiacchierare per fissarmi e, poi, s’inchinarono mormorando: «Gold Saint d’Ophiuchus» o «Nobile Astrid». Makarios mi venne incontro, disegnò un inchino e mi domandò, un pizzico di timore reverenziale negli occhi e nella voce: «Nobile Astrid, cosa fate in questi luoghi? Siete venuta a controllare il nostro operato, forse?» Fu strano e abbacchiante sentirlo parlare così formalmente e senza neanche una traccia di quel tono beffardo che gli conoscevo. Se avevo sperato di ritrovare una parvenza di normalità, mi ero sbagliata. Ma non ero intenzionata ad arrendermi così facilmente. Per cui strinsi le labbra per un momento. Presi coraggio per mantenere la voce salda e dissi: «No, rialzati, per favore, tutti voi, rialzatevi, per favore, non sono un Gold Saint, sono ancora un’ancella e, sono venuta per lavorare». A forza di ripetere queste suppliche, evidenziandole con i gesti, riuscii a farli rialzare. Non riuscii a convincerli: ai loro occhi non ero più una loro collega. Neanche Chrysafi riuscì a guardarmi. Neanche Lythos, che era presente. “No, vi prego, non guardatemi così, vi prego”. Implorai disperata mentalmente. 
«Lavorare?» Domandò il giovane come se avessi parlato di nuovo in un’altra lingua. Mi sentii improvvisamente tagliata fuori da tutti loro, un po’ come all’inizio. Però non mi arresi: «Sì, mi sono assentata dal lavoro per quasi tre mesi, spero che questo non pregiudichi la mia posizione. Sono venuta qui per chiedervi di riprendere, mi va bene anche qualche lavoretto, sono disposta a farlo anche gratis, se ciò può farvi piacere, poi deciderete voi se riammettermi o no. Ti prego». Sussurrai, sperando che mi accettasse.
«D’accordo se è ciò che desiderate segnatevi pure nella casella vuota». Disse, incerto indicandomi la lavagna. Avrei preferito che mi ricordasse che ormai appartenevo alla Tredicesima, invece che accontentarmi così passivamente. Ma mi costrinsi a farmi andare bene questo trattamento.      

Purtroppo la tintoria era in ferie, perciò mi ero dovuta arrangiare con un vecchio lavatoio ancora in funzione. Prima di cominciare a lavorare mi sciaquai le mani e, mettendole a coppa, raccolsi un po’d’acqua e bevvi per sedare la sete. Quando mi fui dissetata e feci per cominciare a lavorare vidi il mio riflesso. Avevo delle occhiaie da spavento e un’aria distrutta e sofferente. I miei occhi erano bui e grigi, come se tutta la loro luce fosse stata risucchiata in un buco nero. Ma questo, ne ero sicura, non aveva nulla a che vedere con gli Inferi. A volte mentre lavoravo mi fermavo per riprendere fiato o strizzare i vestiti quando erano troppo impregnati d’acqua. Dovevo stare attenta a non rovinarglieli, ma non c’era pericolo, stavolta stavo usando una semplice saponetta. Ci avrei messo molto di più ma almeno mi sarei concentrata su qualcosa. O così speravo. La verità era che mi domandavo che cosa mi fosse successo. Se la ragazza che prima avevo intravisto riflessa nell’acqua fossi veramente io.  
Avevo quasi finito quando qualcuno mi mise sotto al naso una bella pesca noce, come piacevano a me. «Tieni». Disse la voce della Piattola, in tono gentile. Da quando aveva scoperto che non lo conoscevo si era addolcito. Anche se manteneva lo stesso una qual certa rigidità sia nei modi sia nel portamento.
Lo guardai tergendomi il sudore dalla fronte poi mi appoggiai al lavatoio. Lui sostenne il mio sguardo, si vedeva che era triste per me. «Stai lavorando da tutta la mattina, mangia qualcosa». Mi pregò garbato. Il mio stomaco rumoreggiò come a sottolineare le sue parole. 
Annuii e la presi e, dopo averla lavata sotto al getto d’acqua, mangiai. Il tutto sotto ai suoi occhi chiari, che non si staccarono da me nemmeno per un attimo. Quando finii e gettai via il nocciolo me ne allungò una seconda. Mi girai verso di lui e vidi che aveva un intero sacchetto, fresco di mercato. Aveva fatto questa deviazione apposta? Ma certo, eravamo dall’altro lato della montagna del Santuario, cosa ci sarebbe venuto a fare qui, altrimenti? Presi anche questa e lo ringraziai. Si fece da parte sulla roccia e io mi accomodai accanto a lui. Poi mangiammo.
«Vuoi una mano?» Mi domandò riferendosi ai vestiti. Scossi la testa: «No, ce la faccio anche da sola, grazie». Visto che ero vicina a una fonte d’acqua potevo bagnarmi la testa quanto mi pareva per evitare l’insolazione. Per la pelle non c’era problema, mi ero messa la crema solare.  
«D’accordo, posso farti compagnia?»
«Sì, certo, anche se non ho molta voglia di parlare». Lo avvisai in tono di scuse.
«Non importa, ti capisco».
Stavo lavando i panni quando mi accorsi della presenza di qualcun altro alla mia destra. Ma non era Milo, lui stava alla mia sinistra e, teneva lo sguardo puntato nella direzione in cui sostava il nuovo arrivato.  Girai la testa nella medesima parte e vidi Shura. Sospirai. Avrei dovuto immaginarlo che non si sarebbe arreso così facilmente: «Che cosa vuoi?» Gli domandai seccata cercando di non roteare gli occhi. Possibile che non potessi smaltire le fasi del mio lutto in santa pace in questo posto? 
«Perché stai lavando i miei vestiti?» Domandò invece un po’confuso. Aveva l’aria di uno che mi avesse cercato dappertutto. Se fossi stata meno stanca lo avrei anche trattato male, tanto ormai mi consideravano una loro pari, non più soltanto un’ospite. Ma non avevo voglia di affrontare di nuovo l’argomento. «Perché sono un’ancella e oggi qualcuno doveva lavare questi abiti».
«Non lavoravi alla Tredicesima?» Domandò inarcando un sopracciglio, con aria confusa.
«É quello che le ho detto anch’io». Disse Milo facendo spallucce, accomodato sulla roccia a destra del lavatoio. Le ginocchia strette al petto e le braccia incrociate sopra di esse. 
Ripresi a sfregare con più forza.  
«Non dovresti farlo». Suggerì a un certo punto il Custode della Decima e io mi fermai quasi automaticamente, come se avesse spento il mio motore interno. Posai le mani sul bordo del lavatoio e chiusi gli occhi. Feci un respiro profondo. «Perché non posso?» Chiesi in tono lacrimoso.
«Perché il tuo Cosmo si è svegliato. So che per te queste parole non hanno alcun senso e che stai cercando di far finta che non sia cambiato niente, ma non potrai fingere ancora a lungo. Purtroppo lo sappiamo tutti e non è un atteggiamento onorevole». Concluse tristemente. Nel parlare colmò la distanza tra di noi.
«Chi se ne frega dell’onore». Sputai velenosa. E poi lui doveva essere l’ultima persona al mondo a parlarne, visto cosa l’aveva portato a fare il suo senso dell’onore. Ma non glielo dissi, non ero ancora così fuori da rinfacciargli un dolore. «Non ho chiesto io di diventarlo, se senti che il mio lutto ti offende allora per favore, ignorami e ignora le malelingue».
«Non è quello il problema». Anche se il mio primo impulso fu quello di scostarmi non lo feci. Sentivo gli occhi pizzicarmi per via delle lacrime. Aggrottai la fronte e chinai il capo, ma non riuscii a fermarle, che un paio caddero nel lavatoio.
Mi morsi il labbro per trattenere il gemito di pianto che stava per sgorgare dalla mia gola.  
Shura stava dicendo la verità e avevo paura. Era cambiato tutto, mi sentivo come se il mondo si fosse capovolto, io fossi caduta da qualche parte e fossi osservata da mostruosi occhi famelici. Come un uccellino caduto dal nido o un piccolo pipistrello che non è riuscito a volare e non può arrampicarsi per tornare alla sua tana. Attese che dicessi qualcosa. Alla fine riuscii ad aprire bocca e mi uscì un piccolissimo: «Ho paura». E in quelle due parole trasparì tutto ciò che provavo. La paura, le immagini di morte ogni volta che chiudevo gli occhi. Avevo giurato a me stessa di non uccidere mai più. E, invece mi ero ritrovata a infrangere di nuovo questo giuramento. Ad ora solo Raki, Kiki e Death Mask, potevano provare a immaginare quanta paura avessi.    
«Lo so». Disse posando una mano sulla mia spalla, impacciato e la strinse. Non era avvezzo a questi gesti, si sentiva, ma andava bene anche un rigido tocco come quello, purché potesse darmi la forza di rimettere insieme i pezzi. Coprii la sua con la mia, trattenendola. «Ma ora sei una di noi, non lasceremo che un membro della fratellanza dei Gold Saint resti in difficoltà». Promise. Strinse di più la presa e disse: «Non c’è bisogno di un giuramento per riconoscere e accogliere una sorella. Benvenuta tra noi, Astrid di Ophiuchus». Le stesse parole che gli disse Saga per non lasciarlo andare alla deriva dopo la morte di Izo. Mai però mi sarei sognata di sentirmele dire proprio da lui.
Mi asciugai le lacrime con il dorso dell’altra mano. Shura sfilò la sua e nessuno dei due tentò di avvicinarsi. Nemmeno quando aprii bocca e dissi: «Non chiamarmi così. Non è quello il mio nome».
«Allora come vuoi essere chiamata?»
«Solo Astrid, Astrid del Serpentario». Dissi, con un piccolo sforzo per tenere salda la voce.
«Va bene».  Poi ci salutò e se ne andò.

Quella sera tornai alla Tredicesima alla mia stanza. Death Mask e Lancelot ne furono abbastanza dispiaciuti, forse più Lancelot che Death, ma accettarono la mia decisione. I miei colleghi della Casa di Atena si zittirono di colpo quando mi videro. Poi disegnarono inchini e riverenze mormorando: «Nobile Astrid». Cui ricambiai con un cenno del capo prima di  lasciarmi passare.
La mia stanza era rimasta uguale a quella notte. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime di dolore, ma sopportai. Non avrebbe riportato in vita Odysseus lasciarla in quelle condizioni. Perciò cambiai le lenzuola, riassettai e la pulii.
Quando finii, mandai un messaggio alla mia amica. Era arrivato il momento di chiarirsi. Ci incontrammo in una locanda. Non le aveva dato fastidio raggiungermi qui. Anzi. «Astrid».
Mi girai e vidi Yoshino raggiungermi: «Ciao». Salutai in tono mogio. La mia amica si sedette vicino a me e mi cinse brevemente le spalle con un braccio. «Come stai?» Non mi fece le condoglianze, anche lei era presente al funerale.
«Ancora male». Lei non disse niente, dispiaciuta. Il locandiere venne da noi per le ordinazioni e prendemmo un apericena. Adesso che ero una Gold potevo fare un po’come mi pareva e nessuno poteva dirmi nulla se volevo uscire. Neanche Mylock. Dopo un po’ le raccontai cosa era successo e le chiesi consiglio: «Cosa devo fare secondo te?» Proprio in quel momento arrivò il nostro aperitivo.
«Per me dovresti accettare. Se esistono delle persone che possono infonderti speranza, sono proprio loro». E con loro capii che si stava riferendo ai Saint. Sbocconcellammo e bevemmo. Un sorrisino di scherno mi piegò le labbra. Speranza. Sì, certo, come no. “Proprio quello che mi serve in questo momento”, pensai ironica. «E se non fosse speranza quella che mi serve?»
Yoshino batté le palpebre perplessa e preoccupata. «Allora cosa ti serve?»
«La forza. Quella che mi ha permesso di trovare il modo di sciogliere la Gabbia Astrale, quella che mi ha condotto verso i ricordi mancanti e di rivelare il mio Cosmo. Quella che mi ha permesso di reagire». E il coraggio, soprattutto il coraggio.   
Finimmo di mangiare, pagammo e uscimmo. Yoshino se ne era rimasta zitta, pensierosa. Poi mi guardò e domandò: «Cosa ti aveva spinto qualche mese fa?» Alzai il dito verso il cielo meno luminoso. Nell’arco di un mese era peggiorato tantissimo. Era come se il firmamento si stesse svuotando. Allo stesso modo di come i Saint morivano. Anche se me lo nascondevano per non mettermi sotto pressione, sentivo la loro impazienza e la loro paura. Ogni notte andavano a dormire temendo fosse l’ultima e ogni mattina si svegliavano temendo di morire.
Stavolta le vittime erano i Cavalieri del Pesce Volante, della Mosca e dello Scultore, subito seguiti dal Dorado e dal Piscis Austrinus e dall’Hydrus. Prima se ne erano andati il Saint di Cepheus, la Saint di Indus e di Carena e il Saint di Lacertae. Altro che costellazioni estinte, qui si erano estinte delle vite e altre ancora avrebbero seguito lo stesso destino. Anche negli Inferi. Mi bastava battere le palpebre per vedere il Cielo Infero sopra di me, negativo oscuro della volta celeste. Esattamente come teorizzò l’astronomo in merito alle stelle nere. Le stelle infere non erano invisibili nel cielo, erano solo mimetizzate e solo i miei occhi potevano percepirle. Il mio passaggio era stato vano lo stesso, erano diminuite di trenta elementi e parecchi Specter, Skeleton e Velate minori. «E adesso?»
«Adesso non funziona più».
«Per me non è vero. É un periodo, vedrai che torneranno a infondertela di nuovo».  
Quella notte sognai di trovarmi in uno stadio sulla pista d’atletica leggera che circondava il campo da calcio. Ero ai blocchi di partenza e le altre persone ai posti erano persino più determinate di me. Ed erano tutti miei ex conoscenti universitari. Lo starter dette il via e tutti noi scattammo. A un tratto, mentre correvo, la mia pista cominciò ad assumere un colore dorato e poi a risplendere e sollevarsi sempre più in alto rispetto a tutti gli altri. La mia corsia improvvisamente cominciò ad assumere una colorazione dorata e mentre gli altri tagliavano il traguardo io continuavo su verso la volta celeste. Per la prima volta dopo settimane non mi svegliai piangendo e mi sentii di nuovo rilassata e un po’ più tranquilla. Cosa stavo facendo? Mi stavo lasciando morire ma non riuscivo a fermarmi.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla mia porta. A quest’ora? Presi il telefono e lo accesi: erano solo le tre. Accesi la lucerna e andai ad aprire e mi ritrovai davanti una ragazza poco più alta di me con i capelli striati d’argento dai lineamenti molto simili a quelli della Dea Atena. La differenza era che indossava dei gioielli di smeraldo e che aveva le labbra carnose e la carnagione scura.
Anche nella penombra i suoi occhi erano lucenti di gioia e sembrava il ritratto dell’emozione. La cosa strana era che sembrava sprizzare luce da tutti i pori. Addirittura mi fece il namastè e disse: «Ciao». Sempre con un sorriso smagliante. Ricambiai confusa poi le domandai: «Scusa, credo di essere ancora addormentata ma non credo di averti mai visto prima».
Il suo sorriso si spense e le sue guance già scure si scurirono di più. Si passò una mano tra i capelli e scoppiò in una risata: «Ah, scusami. Forse ho scelto il momento sbagliato e ti ho tirato giù dal letto. Scusami tanto, forse sarei dovuta passare tra qualche ora ma non ce la facevo più ad aspettare. Cioè non stavo più nella pelle». S’incartò e scoppiò di nuovo a ridere, di una risata piena, di pancia. Tesi le mani verso di lei e le mossi come a dire: “Frena frena”. Lei si zittì e abbassò la mano. Mi feci da parte per lasciarla entrare e lei mi guardò incredula come se le stessi facendo un grandissimo onore. «Davvero, mia signora?» Domandò sull’orlo della commozione. Ma dovetti ripeterle l’invito tre volte prima che lei accettasse e si accomodasse sul tappeto. Questa tipa era tanto strana. Richiusi la porta e mi sedetti sul letto. Restammo a guardarci. Lei continuando a sorridere emozionatissima e io assonnata e perplessa.
Alla fine fui io a rompere il silenzio: «E così non stavi più nella pelle?» Mi sembrava di essere in ascensore. Quelle scomode situazioni in cui sei in ascensore con qualcuno e non sai cosa dire.
«Mi deve scusare tanto è che l’occasione di incontrarla è talmente unica che non volevo lasciarmela sfuggire».  Feci un sorriso di circostanza. «Avevo anche preparato un piccolo presente da portarvi ma temo di essermelo scordato. Mi perdoni per questa infinita negligenza».   
Inarcai un sopracciglio: veramente non vedevo proprio di che dovesse scusarsi. Cioè, ok che era una regola di cortesia e ok che mi stavo appena svegliando. Ma come minimo questa comparsata meritava un calcio nel culo e una ridda di imprecazioni. Non tutta questa gentilezza che le stavo riservando. Poi era quasi divertente il modo in cui si stava prostrando ai miei piedi.
«Non preoccuparti, non importa. Potresti anche rialzarti e spiegarmi il motivo della tua visita, per favore?» Lei ripeté che voleva vedermi e parlarmi, tutto qui. «Scusa se te lo chiedo, ma ci siamo già incontrate da qualche parte?» Le chiesi imbarazzata più che mai. Lei chinò il capo in un cenno d’assenso. Ma mi ci volle un po’per interpretarlo in una maniera diversa da quella greca. «Tante volte».
«Sì? Non mi risulta». Mi scusai e mi passai una mano sulla testa, scostandomi i capelli.
«Bè, non adesso, adesso ti sei presa una pausa, ma l’ultima volta che ci siamo visti, tu mi hai aiutato tanto». Mi immobilizzai e la guardai. Che si riferisse alla mia anima? Cosa c’entrava adesso? «Tu non sei qui per me, vero?» Lei scosse il capo, stavolta più seria. «Ti sbagli, io sono qui per te, Astrid».
«Mi sembra proprio di no, ti rivolgi a me come se fossi chissà chi». Non ditemi che la mia vera forma era una specie di Divinità, per alcuni adesso. «Bè, in effetti tu sei chissà chi». Ammise.  
«Già, Il Cosmo, eh?» Domandai leggermente sprezzante, ma lei ignorò il mio tono.«Sì».
«E allora?»
«E allora sono venuta a conoscerti».
Adesso il torpore era sparito del tutto. «Mi hai conosciuto, bene, ora te ne puoi anche andare. Non t’interessa veramente di me, a te interessa la Luce Ombrosa».
Lei tacque per un po’ ma non si mosse. Anzi, sembrò riflettere un po’prima di guardarmi con compassione. Mi guardò come se sapessi esattamente ciò che provavo: «Luce Ombrosa, Cosmo, Creato, Astrid, per quanti nomi tu possa avere resti sempre tu e io sono qui per aiutarti anche se non mi credi». Continuò lei, speranzosa. La guardai senza capire bene da dove traesse questo entusiasmo. Poi come mi aveva chiamato? Creato? «Perché?»
«Perché tanto tempo fa hai ascoltato la mia preghiera, mi hai salvato la vita e io non posso fare altro che esprimerti la mia più profonda riconoscenza». Fece portando una mano al petto e inchinandosi leggermente.
«Non sono una Dea». Rilevai. Lei si alzò in piedi e mi guardò di nuovo con quegli occhi brillanti:  «É vero, sei molto di più». Sorrise raddrizzandosi. Il suo sorriso era smagliante eppure era un sorriso vero e spontaneo. Sembrava davvero felice di essere qui con me. Era come se la fonte della sua gioia fossi io. Lei non me lo nascose, anzi, ero proprio io la fonte della sua gioia. Lei mi amava in un certo senso. Un amore sconfinato per tutto ciò che rappresentavo e portavo in me. Per l’emanazione del Cosmo che ero.
Poi mi prese dolcemente per mano e mi alzò in piedi: «Permettimi di ricordartelo, permettimi di meravigliarti ancora». Mi portò con sé come una specie di sorella maggiore. Anche se stavamo andando contro il muro. Improvvisamente tutto attorno a noi si fece nero e una scia di polvere d’oro si mise a volteggiare attorno a noi. La mia stanza scomparve e la polvere di stelle si mise a creare le galassie, i colori, l’universo tutto intorno a noi. E mi meravigliò davvero. 
«Sembra Il pianeta del tesoro». Il mio cartone animato preferito, commentai sbalordita mentre mi separavo da lei.
«Ho sempre amato quel film». Sorrise lei guardandosi attorno, guardando con affetto le stelle e i pianeti che fluttuavano intorno a noi. Poi mi mostrò il cielo stellato. E facemmo a gara a riconoscere le costellazioni, le nebulose. Lei perse ma incassò bene la sconfitta. Poi mi raccontò che «Una volta anch’io mi ritrovai in una situazione molto simile alla sua».
«E cosa successe?»
«Seguii le stelle. La costellazione della Vergine è la mia costellazione guida». Rispose lei e, come se le avesse chiamate, le stelle di Virgo risplendettero. «E dove ti portarono?»
«Nel posto dove potei dare un senso alla mia vita. E lei? Cosa ha intenzione di fare?»
«Non lo so. Da quando ho perso il mio maestro…» Mi strinsi nelle spalle e sospirai: «É come se avessi anche perso la via».  
Lei abbassò un momento lo sguardo. Poi lo rialzò e mi guardò: «Allora le faccio un regalo». Si spostò fluttuando in una zona e la polvere d’oro la seguì, si posò sulle sue mani e lei se l’accostò alla bocca. Quando le discostò la polvere mi volteggiò attorno tre volte, prima di sparire. Anch’io girai su me stessa per guardarla. E mi ritrovai a fianco della sconosciuta, che, sempre sorridendo piena di compassione e amore, mi cinse le spalle con un braccio e m’indicò la costellazione del Serpentario. Solo allora mi ricordai del suo nome scientifico: Ophiuchus. Ophiuchus come Odysseus e da lì sentii risplendere anche il suo Cosmo d’Oro. Le lacrime mi rigarono le guance.
«Maestro…» Le stelle luccicarono di più, come a ricambiare il mio saluto.
«Vede? La vostra costellazione è sempre lì. Il Suo maestro non è scomparso, può sempre ritrovarlo, ogni volta che alzerete lo sguardo al cielo lui sarà lì. Gli potrà parlare tutte le volte che vorrà e lui l’ascolterà e risponderà. Lui veglierà sempre su di Lei». Promise sorridente. Poi mi rivelò che era stata lei a indirizzarlo da me quando nacqui. La guardai stupefatta: «Davvero?» Lei confermò.
«Lo conoscevi?»  Le domandai incredula.
«Da molto moltissimo tempo. Ma posso garantirti che il periodo più felice della sua vita è stato davvero quello che ha trascorso al tuo fianco. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato e mi ha detto di riferirti queste parole: Cosa dice la canzone de Il Pianeta del tesoro?» Un altro indovinello. Le mie labbra si curvarono in un sorriso nostalgico e affondai le dita nelle braccia.
«Quale?» Lei mi sorrise enigmatica e mosse la testa come a dirmi: “Quella”. «Ma quale, quella degli 883?» Chiesi.
«Proprio quella. Odysseus mi diceva sempre che le piaceva da morire e che voleva diventare come il protagonista. Diceva sempre che nessuno ti avrebbe mai fermato perché non eri quel tipo di persona». “Allora mi ha ascoltato.” Credevo che non mi ascoltasse. «Già, una volta mi sarebbe piaciuto». Feci distogliendo lo sguardo. Mi misi a sedere e mi abbracciai le ginocchia. «E ora che cos’è cambiato?» Chiese sedendosi accanto a me. Le braccia incrociate sulle sue cosce. Scrollai le spalle e tornai a guardare le stelle che aveva ricreato: «La realtà». Lei tacque per un po’ prima di parlare: «Io credo proprio di no. Se ci pensa in realtà la Sua vita somiglia più a quella di Jimmy che a quella di molte altri. Potrebbe davvero finire per realizzare il suo sogno di essere come lui e andare anche oltre. Di essere quello che vuole e di arrivare a toccare davvero quella stella».
«Dunque cosa devo fare?»
«Me lo dica lei, ha davvero perso la voglia di combattere e di vivere? Ha davvero dimenticato quella canzone?»
«No».
«Allora combatta ancora».
«Non so se riesco».
«Sì che ci riesce, lo sta già facendo». Fu come se mi avesse aperto un mondo. La guardai sbalordita e stavolta mi guardò più seria. Era come essere guardati da una persona determinata. «Lei è libera di fare quello che desidera, può anche essere una  guerriera a modo suo, l’importante è che poi alla fine possa dire: ci sono anch’io».  Era brava a parlare. Avrei voluto avere almeno la metà del suo talento: sentivo l’energia dentro di me ribollire. Mi aveva fatto venire voglia di fare qualcosa, di scuotermi di dosso la polvere. La guardai a lungo prima di uscirmene con un: «Somigli alla Dea Atena ma non sei lei». Commentai alla fine. Non credo che Lady Isabel fosse capace di tanta luce, pace e speranza. Ecco. Mi aveva infuso speranza. Aveva riacceso la fiamma alla base del mio essere. La guardai grata. Forse era vero che avevo bisogno anch’io di speranza. E per me era più Dea lei che Lady Isabel. Forse era blasfemo da dire, ma era la verità.
«Grazie». Sorrise. Poi una luce si intensificò davanti a noi, avvolgendoci nel suo calore e nel suo lucore bianco aureo. La mia accompagnatrice si alzò in piedi e disse: «Adesso è tardi, devo andare. Mi ha fatto davvero piacere incontrarla almeno una volta». Mi fece un ultimo namastè e andò incontro a quella luce. 
«Anche a me. Grazie di tutto». Si fermò e mi guardò da sopra una spalla.  Sorrise mentre le luci dell’alba illuminavano la sua persona. Aprii gli occhi scaldata dai raggi del sole che erano entrati dalla mia finestra. E per la prima volta dopo tempo scoppiai a piangere di gioia, il cuore traboccante di felicità e comp
letezza. Per la prima volta non mi sentii più sola.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3750619