La preda facile

di Hikaritokage
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il gatto e la lucertola ***
Capitolo 2: *** Cocci rotti ***
Capitolo 3: *** Nemesi ***
Capitolo 4: *** Kintsukuroi ***



Capitolo 1
*** Il gatto e la lucertola ***


IL GATTO E LA LUCERTOLA

Alcuni animali, quando sono braccati e non hanno altra via di fuga, si fingono morti.
Un pomeriggio d'estate hai visto il tuo gatto rincorrere una lucertola in giardino, catturarla senza nemmeno troppo sforzo, giocarci con una crudeltà che ti ha disgustata.
È la sua natura, ti sei detta.
È un predatore, anche se a vederlo non si direbbe.
E la lucertola è una preda facile per lui.
Hai creduto che l'avrebbe uccisa, come tante altre volte l'hai visto fare coi topolini e i passerotti incauti che finiscono nelle sue grinfie.
E invece no, perché quella lucertola era già morta.
Gli era morta tra le zampe, così, senza un motivo apparente.
Senza che lui avesse avuto modo di farle ancora più male, di farle male davvero.
Hai visto curiosità e disappunto attraversare gli occhi verdi del tuo gatto, l'hai visto colpire delicatamente la lucertola più di una volta, con la zampa e col muso, come se tentasse di svegliarla.
Ma lei restava immobile, a pancia in su, morta.
Hai visto il gatto perdere la pazienza, afferrare la lucertola tra i denti e scagliarla lontano, balzare nel punto esatto in cui ricadeva e aspettare che si muovesse di nuovo. Aspettare che scappasse, che tremasse davanti a lui, perché in fondo è lì che sta tutto il divertimento di un gatto di casa con la pancia già piena, uno di quelli che non vanno a caccia per mangiare.
Ma la lucertola volava in aria e atterrava malamente al suolo e lì giaceva immobile, perché era morta.
Hai visto il gatto perdere le speranze, voltarsi e andarsene in cerca di qualcosa di più interessante da fare.
E soltanto allora la lucertola si è girata a pancia in giù, con uno scatto improvviso, sfrecciando via tra l'erba e scomparendo in una crepa del muro.
Perché non era morta, fingeva soltanto.
Alcuni animali, quando sono braccati e non hanno altra via di fuga, si fingono morti.
È quello che fai tu.
Lui è un predatore, anche se a vederlo non si direbbe.
È la sua natura, e tu sei una preda facile.
E allora ti fingi morta.
Chiudi gli occhi, li apri solo se è lui a chiedertelo, e anche in quel caso hai imparato a non vedere.
Resti ferma, qualsiasi cosa ti faccia.
Resti in silenzio, qualsiasi cosa ti dica.
Non piangi, non tremi, non gridi, non ti ribelli.
Ti fingi morta.
E vorresti essere una lucertola.
E vorresti che lui fosse un gatto.
Perché allora si stancherebbe, la smetterebbe di giocare con te che non dai segni di vita. Ti volterebbe le spalle, si cercherebbe qualcosa di più interessante da fare.
Ma non sei una lucertola, e lui non è un gatto.
Di te, lui non si stanca mai.

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Capitolo 2
*** Cocci rotti ***


COCCI ROTTI

La prima volta non è stata la prima.
C'erano già state carezze insistenti e abbracci troppo stretti, era già capitato che il suo sguardo ti costringesse ad abbassare il tuo.
Era accaduto che ti toccasse, quasi per caso, in un modo che ti faceva balzare il cuore in gola e ti mozzava il respiro e ti lasciava lì a chiederti cosa fosse appena successo, e se fosse successo davvero.
Poi un giorno è arrivata, risalendo come lava da qualche oscuro anfratto della coscienza, la consapevolezza che ci fosse qualcosa di sbagliato. Qualcosa che mai avrebbe dovuto esserci, impossibile da ignorare ancora.
Insieme alla consapevolezza è arrivato l'istinto, il bisogno di spingerlo via, di divincolarti. Ma non l'hai fatto.
Hai detto di no, tante volte, nella tua testa.
L'hai gridato, è esploso tra le pareti del cranio e ci ha rimbalzato dentro fino a stordirti. E poi è diventato un mormorio incessante, nella tua testa, sommesso e vano come una preghiera.
Lui non poteva sentirti. E non si è fermato.
Il tuo primo bacio ha avuto il suono stridente di qualcosa che andava in pezzi, spargendo schegge tintinnanti di dolore in tutto il corpo.
Dolore, dalle labbra fino al fondo della gola chiusa, gonfia di angoscia, graffiata dall'aria satura di lui - dell’odore della sua pelle misto al profumo che portava sempre, del sapore di sigaretta che impregnava la sua bocca e pungeva la tua.
Dolore, dentro le ossa e nei muscoli tesi allo spasimo, lungo la spina dorsale e nelle viscere aggrovigliate.
Dolore al centro del petto, dove il cuore sbatteva contro le costole.
Dolore, cocci rotti conficcati ovunque.
Avresti voluto piangere, ma non ci sei riuscita.
Ha lasciato e ripreso la tua bocca un'infinità di volte, ansimandoci dentro, infilando le mani sotto i tuoi vestiti.
Avresti voluto morire. E non sentire più niente.
Non sentirti più così colpevole.
Colpevole per il tuo silenzio, per il tuo corpo paralizzato e arreso.
Colpevole, per quello che gli stavi permettendo di farti, per avergli fatto credere di poterlo fare.
Colpevole, per la tua mano inerte che si è lasciata prendere e posare dove lui la voleva, per ogni suo rantolo soffocato contro la tua pelle esposta e umiliata.
Colpevole, per ogni volta che insieme a lui ti eri sentita importante, lusingata dai suoi complimenti, viziata da tutte le sue attenzioni.
Colpevole, perché da qualche parte nel profondo tu l'avevi sempre saputo, perché ti eri costretta a non vedere il riflesso nascosto nei suoi sguardi, a non sentirti a disagio dentro i suoi abbracci, seduta sulle sue gambe come fossi ancora la bambina che scappava a piangere da lui quando veniva sgridata da mamma e papà.
Colpevole, perché il pericolo l'avevi sentito arrivare da lontano eppure eri rimasta immobile, come un animale che si blocca in mezzo alla strada a fissare i fari dell'auto che lo travolgerà.
Colpevole, perché la prima volta non è stata la prima.
Perché tu avresti potuto salvarti.
E non l'hai fatto.

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Capitolo 3
*** Nemesi ***


NEMESI

Infilarti due dita in gola ti fa stare bene.
È doloroso, è disgustoso.
Ma è anche giusto, sai che dopo ti sentirai molto meglio.
Non vomiti per dimagrire, ti piace contarti le ossa allo specchio e ti sembra di non contarne mai abbastanza, ma il vero motivo non è quello.
Ti metti le dita in gola perché devi.
Perché tutto si deposita e ristagna e ribolle dentro di te, e da qualche parte devi lasciarlo uscire.
Perché la prima volta hai vomitato senza volerlo, sei tornata a casa in silenzio e ti sei chiusa in bagno e finalmente sei riuscita a piangere, hai pianto così tanto da vomitare tra i singhiozzi.
E dopo ti sei sentita meglio.
Ormai non ti capita più, ci si abitua, devi infilarti le dita in gola per buttare fuori l’angoscia che ti insegue ovunque, la paura che ti consuma, il disgusto per ciò che sei diventata, il senso di colpa che non ti lascia mai.
Ti metti le dita in gola e vomiti te stessa, vomiti l'anima striata di sangue, spingi più a fondo e ti graffi e continui finché gli spasmi non ti piegano in due.
Lo fai ogni giorno, più volte al giorno, tentando di raggiungere un limite nuovo, un traguardo che sposti sempre più avanti.
Tutto il marcio risale inarrestabile e si riversa fuori dalla tua bocca spalancata, viene inghiottito dallo scarico e finalmente scompare.
E tu stai bene.
Ti senti vuota, purificata. Pulita.
Ti senti forte, sei più forte della fame e del dolore, puoi ignorare deliberatamente il bisogno primario di nutrirti, l'istinto primordiale di non nuocerti.
E questo ti piace. È il solo sollievo che hai.
Quando è tutto finito ti prendi il tuo tempo per rimetterti in piedi, per eliminare con metodica precisione ogni traccia di quello che hai fatto.
Ti ricomponi e pulisci il bagno, con calma, in uno stato di quiete e benessere che vale tutti i tuoi sforzi.
Sciacqui il viso stravolto e lavi bene i denti troppo sensibili, corrosi dai succhi gastrici.
Sciogli i capelli, controlli che non ci siano residui, sistemi il trucco e spruzzi nell'aria un po' di profumo.
Cancelli la tua colpa, è facile come passare una spugna sulle piastrelle che brillano immacolate, come nascondere le ossa sporgenti sotto i vestiti informi, i segni sulle dita dentro le maniche lunghe anche in estate.
Sei brava, sei così brava che nessuno si accorge mai di niente.
Te lo chiedi spesso, se davvero sei tu ad essere così brava o se magari non se ne accorgerebbe nessuno in nessun caso, nemmeno se vomitassi in piedi nel bel mezzo del salotto all'ora di cena.
Te lo chiedi spesso, ma la risposta non la vuoi sapere.
Quando hai finito ti guardi allo specchio, e quello che vedi ti piace.
Ti piace tanto, perché finalmente nello specchio ci sei tu.
Finalmente, il controllo ce l'hai tu.
Esci dal bagno appagata, leggera.
Ma la tua pace dura così poco, dura sempre meno.
E sei costretta a vomitare ancora.

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Capitolo 4
*** Kintsukuroi ***


KINTSUKUROI

Il perdono non arriverà mai.
Non smetterai mai di giudicarti, di dichiararti colpevole, di sentirti sporca. Da fuori non si vede, ma tu lo senti.
Ti piace pensare che se dovessi incontrarlo, se lo incrociassi per strada dopo tutti questi anni, per lui non avresti altro che gelido disprezzo negli occhi.
Ti piace pensarlo, ma sai che non andrebbe così.
Se davvero lo incontrassi, il cuore ti arriverebbe in gola rischiando di soffocarti.
Sentiresti bruciare ogni centimetro della tua pelle che ha toccato.
Sentiresti il suo respiro addosso, il suo sapore in bocca.
Il bisogno irrefrenabile di vomitare l'anima.
Cercheresti il conforto di quelle due dita infilate in gola, anche se non lo fai più da tanto tempo.
A volte ti chiedi se lui si sia mai reso conto, pienamente, del male che ti ha fatto. Di quanto ti abbia spinta sull'orlo del baratro.
Ti chiedi se riesca a dormire la notte, se sia capace di pensare a te come a una persona, non soltanto come l'oggetto di un desiderio malato. Una persona estremamente fragile, che è andata in frantumi e ha dovuto raccogliere i cocci.
Un vaso rotto non tornerà mai come prima.
Nel migliore dei casi, resterà deturpato da una ragnatela di cicatrici incollate insieme. E farà acqua da tutte le parti.
Tu sei così, solcata da un fitto intrico di crepe. Tra quelle crepe, si è annidata una ragazzina scheletrica e colpevole.
È sempre con te, la vedi, si nasconde nella tua ombra e nel riflesso sfuggente che cogli per un istante all'angolo di uno specchio, ne senti i passi spaventati nell'eco dei tuoi che rintoccano sicuri e spediti ovunque tu vada.
La vedi e la senti e qualche volta provi pena per lei, e molto più spesso invece sei soltanto arrabbiata.
Tanto, tanto arrabbiata.
Così arrabbiata da farti ancora del male, sperando di riuscire a farne un po' anche a lei.
E vorresti chiederle il perché.
Perché, come abbia potuto sopportare e convincersi che il silenzio fosse l’unica soluzione. Un silenzio complice e colpevole, un’agonia lunghissima, una macchia di vergogna nera e incancellabile sulla linea della vita.
Vorresti chiederle il perché, ma lei non ti parla.
Se ne sta lì, rannicchiata nel buio, e aspetta il tuo perdono.
E il perdono non arriverà mai.
Un vaso rotto non tornerà mai com’era prima.
Ma se quel vaso è tutto ciò che hai, tutto ciò che sei, devi almeno provarci a rimetterlo insieme.
Hai raccolto i cocci, al meglio che hai potuto. I frammenti troppo piccoli, quelli che davvero non avresti mai potuto aggiustare, li hai nascosti e dimenticati come polvere sotto un tappeto.
E con quella ragazzina ci convivi.
Puoi respirare e mangiare e ridere e uscire e lavorare e fare l'amore e cantare in macchina e sotto la doccia.
Le tue cicatrici non ti rendono speciale, più bella, preziosa. Ti tengono insieme.
Fanno di te la persona che sei.
Imperfetta e fragile.
Forte, come non avresti mai creduto.
Felice, nonostante tutto.
Nonostante lei.

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