Contra Diabolum di Red Owl (/viewuser.php?uid=31841)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cheden Chnospinci ***
Capitolo 2: *** 1. El Böcc dal Seerp ***
Capitolo 3: *** 2. Il Dream ***
Capitolo 4: *** 3. Un aiuto inatteso ***
Capitolo 5: *** 4. La Zingara ***
Capitolo 6: *** 5. Broken Flag ***
Capitolo 7: *** 6. La Scatola dei Tesori ***
Capitolo 8: *** 7. La chiave d'ambra ***
Capitolo 9: *** 8. La chiave nera ***
Capitolo 10: *** 9. Colazione in Città Alta ***
Capitolo 11: *** 10. Solo un amico ***
Capitolo 12: *** 11. Un pomeriggio al lago ***
Capitolo 13: *** 12. Incontri ***
Capitolo 1 *** Cheden Chnospinci ***
"Uuola,
uuiht, taz tu uueist, taz tu uuiht heizist,
Taz
tu neuueist noch nechanst cheden chnospinci."
Scongiuro
alemanno - manoscritto miscellaneo del XI secolo
(Traduzione:
"Bene, creatura, che tu sappia che sei chiamato creatura,
che
tu non sappia né possa pronunciare chnospinci")
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Capitolo 2 *** 1. El Böcc dal Seerp ***
Quasi cent’anni prima
In
piedi sul bordo del laghetto
celato nelle profondità del bosco, Agnese getta alcune
foglie nell’acqua
quieta. Non pesano niente e non vanno lontane e la bambina è
insoddisfatta.
Vorrebbero che volassero un po’ più in
là, verso il centro di quel curioso
specchio d’acqua, piccolo e profondissimo.
In
verità Agnese non lo sa, se
quel lago è davvero profondo, ma immagina che sia proprio
così: la mamma le ha
sempre detto di stare attenta a non cadere nel Böcc
dal Seerp, perché, se
lo facesse, annegherebbe.
Nascosto
tra i bassi rami di
nocciolo alla cui ombra l’ha adagiato, Mario piagnucola e si
agita.
Contrariata, Agnese si volta verso il cuginetto ancora in fasce e,
portandosi
un dito alle labbra, gli fa segno di tacere. Il bambino non capisce,
naturalmente, è ancora troppo piccolo. È per
questo che zia Elvina glielo
affida, di tanto in tanto: per avere un po’ di requie da quel
bimbetto
esigente, l’ultimo di una serie di cinque, che, con le sue
costanti richieste
di attenzioni, prosciuga le energie della donna.
Ad
Agnese non piace, Mario: lei
ha appena sei anni e fino a qualche tempo prima era abituata ad essere
lei la
piccola della famiglia. Per questo non bada a lui, ma lo lascia tra
l’erba
bassa, alla mercé di formiche e zanzare. A volte ha la
tentazione di prenderlo
tra le mani, alzarlo in alto sopra alla testa e buttarlo
nell’acqua scura, lì
nel bel mezzo del Böcc dal Seerp. E
chissà che il
serpente non se lo mangi.
Non
può farlo, naturalmente.
Anche perché sa benissimo che non c’è
nessun serpente, là dentro: sospetta anzi
che a lei non piacerebbe affatto
se,
svegliandosi, si ritrovasse quel piccoletto sul fondo del suo lago.
Meglio
non rischiare: non si sa
mai, con quella. È
sempre buona, con
lei, ma è meglio non rischiare di fare qualcosa che potrebbe
non piacerle. Non si sa mai.
Accovacciandosi
sulla riva
fangosa, Agnese immerge le mani nell’acqua e raschia il fondo
con le dita
grassocce. Una miriade di girini schizzano via, inoltrandosi nelle
profondità
del lago e allontanandosi rapidamente dalle manine della bambina.
«Non voglio
prendervi» dice lei, la voce come una cantilena.
«Voglio solo darle da
mangiare.»
Agnese
prende una manciata di
fango e la impasta con un po’ di foglie. Pensa che, forse, il
peso della terra
farà volare meglio le foglie, portandole là dove lei potrà prenderle. Con uno
sguardo speranzoso negli occhi verdi,
la bambina scaglia davanti a sé il proiettile brunastro che
ha appena
confezionato: il fango schizza verso il centro del laghetto, le foglie
cadono mestamente
a pochi centimetri dai suoi piedi. Non ha funzionato.
Agnese
aggrotta la fronte,
frustrata. Poveretta, non avrà fame? L’erba le
piace tanto, ama in maniera
particolare le spesse foglie di acetosa e quelle di borragine, morbide
e
larghe. Sospetta che le piacciano anche le ortiche –
soprattutto le cime tenere
– ma, quelle, Agnese non gliele porta quasi mai. Pungono.
La
bambina sta valutando se
entrare un poco nell’acqua – poco
poco,
nemmeno fino alle ginocchia – quando, dal sentiero poco
distante, uno
scalpiccio sommesso l’avverte dell’arrivo di
qualcuno. Lo sguardo vigile,
Agnese spinge i capelli chiari via dagli occhi e si volta per
accogliere gli
intrusi.
«Ohi, nini!»
l’apostrofa il ‘Tilio che, come suo solito, apre la
fila dei suoi compari. «Attenta a non caderci dentro, che poi
il serpente ti
mangia!»
Agnese
gli rivolge una smorfia –
nelle sue intenzioni un sorriso – e si pulisce le mani sugli
stinchi lasciati
scoperti dal vestitino estivo. «Non ci cado dentro»
mugugna, guardandolo di
sottecchi, quasi a sfidarlo. Non lo sa, il vecchio somaro, che lei
è molto più
agile di lui?
«E
dove l’hai lasciato, il
Mario?» chiede allora il Zepp, quello che quando parla si fa
fatica a capire
quello che dice, perché la sua voce raspa e trema come se
fosse sempre senza
fiato.
Prima
che Agnese possa spiegare,
il ‘Tilio vede il bambino. «Ma guardala,
‘sta stria!
L’ha lasciato in mezzo al prato.» Guardandola con i
suoi
occhi da uomo adulto, il ‘Tilio si rivolge a lei:
«Ma la tua zia lo sa, che è
così che curi tuo cugino?»
«Ma
no», si difende la piccola,
«non lo lascio mica sempre lì: l’ho
appena appoggiato. Poi me lo riprendo. Però
avevo caldo, volevo mettere un po’ le mani
nell’acqua.»
«Cosa
ci sei venuta a fare, qui?»
chiede ancora il ‘Tilio che, adesso che Agnese ci pensa bene,
dev’essere un
mezzo parente della mamma. «C’è anche la
fontana, sei hai caldo e vuoi
rinfrescarti. Non c’è mica bisogno di fare tutta
‘sta strada per venire fino a
qui, che è anche pericoloso.»
Agnese
si stringe nelle spalle e
pensa che non sono proprio per niente affari del ‘Tilio,
quello che fa lei.
Prima che lei possa replicare, però, il Mengo,
ch’è guercio e che secondo la
mamma è anche un po’ un porco, ridacchia.
«Lo so io, che cosa ci è venuta a
fare, qui.» La piccola lo guarda, solo blandamente allarmata.
Tanto non ci
crederebbe nessuno, se anche dicesse che lei
è lì sotto, sul fondo del lago. Be’, a
parte forse la Zingara, naturalmente. «È
venuta a cercare la bricolla del
Fino
di Róss»
dice infatti il Mengo, e lei scuote la testa: quella
è una storia a cui non ha nessuna intenzione di credere.
I
tre uomini ridono, come se la
battuta fosse estremamente divertente: il Fino
di Róss
era un mitico
contrabbandiere che, nel folklore locale, era scomparso nel nulla in
una notte
d’inverno, seppellendo però da qualche parte la
sua bricolla, un sacco pieno zeppo
di oro e franchi svizzeri che aveva
portato di nascosto in Italia. Si narrava che avesse stretto un patto
con il
Diavolo, chiedendogli di aiutarlo a sfuggire dai burlandòt
e
di conservare intatto il suo tesoro: il Maligno l’aveva
accontentato, ma,
com’era suo costume, aveva voluto in cambio l’anima
del Fino di Róss,
condannando il contrabbandiere a un’eternità
passata a guardia del suo tesoro
perduto.
Quella
è la storia che si
racconta ai bambini: il nonno di Agnese le ha detto che il povero Fino
era
scivolato su una lastra di ghiaccio e si era sfracellato sulle rocce a
picco
sul fiume, rompendosi l’osso del collo per portare in Italia
un po’ di
sigarette. Agnese ci crede, al nonno, e la battuta del Mengo le sembra
stupida.
Voleva forse prenderla in giro?
«No,
volevo cercare qualche
spugnola» dice allora, indovinando perché i tre
uomini sono lì, a zonzo per i
boschi. Sono troppo vecchi per andare a lavorare; sono troppo vecchi
anche per
andare in guerra, come il papà di Agnese, che è
in Russia da tanti, tanti mesi.
Anche il Zepp c’era stato, in Russia, ancora prima che Agnese
nascesse. Però
non doveva essergli andata tanto bene, perché è
tornato indietro che parlava in
un modo strano e ogni tanto guarda la gente con la faccia di uno che
non è mica
tanto a posto.
«E
le hai trovate?» le chiede il
‘Tilio, con la faccia di uno che non ci crede.
Agnese
fa le spallucce. «No, non
ne ho trovate. Tra un momentino torno a casa.» Ha fretta di
rimanere da sola:
sa che finché quei tre saranno lì con lei, lei
non si farà vedere, e la bimba non ha nessuna
intenzione di tornare a casa
senza averla almeno salutata.
«Vieni
con noi, ti accompagniamo»
le propone il ‘Tilio. «Ti facciamo vedere dove
cercarle e ti aiutiamo anche a
riportare a casa il Mario.»
«No,
grazie» scandisce Agnese,
con l’affettata educazione che le ha insegnato la maestra a
scuola.
Confusamente, la bambina avverte che il ‘Tilio ha paura che
si metta nei guai,
rimanendo da sola, e la cosa la irrita: è abbastanza grande
per badare a un
bambino di nemmeno un anno, ma non è abbastanza grande per
starsene in piedi
sulle rive di un laghetto?
I
tre uomini la guardano ancora
per qualche istante, poi scuotono la testa e si allontanano
borbottando.
Sicuramente si stanno lamentando di quanto sia sfacciata e
disobbediente, ma ad
Agnese non interessa. Sorridendo, li guarda sparire dietro la curva del
sentiero, inghiottiti dalle foglie dei castani e dei frassini.
Nella
sua culla fatta di rami di
nocciolo, Mario sgambetta e sbadiglia, ma, per una volta, non piange.
Forse
anche lui è contento di non essere più in
compagnia di quei tre sconosciuti.
«Finalmente»
sorride Agnese,
chinandosi per cogliere un fiore di trifoglio.
Finalmente, risponde l’acqua
del lago, in un gorgoglio di
bollicine.
Finalmente.
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Capitolo 3 *** 2. Il Dream ***
Oggi
«Hai
capito quello che ho detto?»
La
domanda urlata di Alessandra
fece trasalire Caterina e persino Matteo, il ragazzo di Alessandra,
sobbalzò
sul posto, sollevando per un istante lo sguardo dallo schermo
dell’iPhone che
teneva stretto tra le mani.
«Eh?»
strizzando gli occhi per
leggere quantomeno il labiale dell’amica, Caterina si sporse
al di sopra del
piano bianco del tavolino che la separava dagli altri due ragazzi,
facendo
attenzione a non rovesciare i bicchieri da cocktail posati su di esso.
«Non
sento un tubo!»
Alessandra
sospirò e disse
qualcosa, ma il suono delle sue parole si perse nel frastuono che
riempiva il
locale. Che posto di merda,
pensò
Caterina, facendo scorrere lo sguardo all’interno della
grande sala gremita di
gente. Sebbene il Dream fosse un
locale alla moda che attirava frotte di clienti già da un
paio di anni, quella
era la prima volta che Caterina ci metteva piede e, se fosse stato per
lei,
sarebbe stata certamente anche l’ultima. Era più
tipa da pub irlandesi, lei,
con i loro confortanti angoli bui e consunti tavoli di legno spesso: le
luci
violette del Dream, che pulsavano
al
ritmo della musica che fuoriusciva dagli altoparlanti posizionati un
po’
ovunque, stavano iniziando a farle venire il mal di testa.
Alzandosi
in piedi ed ergendosi
in tutto il suo metro e cinquantacinque centimetri, Alessandra si
piegò in
avanti, riuscendo così a raggiungere l’orecchio
dell’amica. «Ho detto che ho
parlato con Mattia, il tipo che gestisce ‘sto posto: tra due
sabati potremo
suonare qui. Una figata, no?»
Davanti
ai brillanti occhi scuri
della giovane, carichi di aspettative, Caterina fece del proprio meglio
per
fare buon viso a cattivo gioco. Alessandra aveva sempre amato cantare
ed erano
quasi dieci anni che si esibiva come vocalist
di un piccolo gruppo che proponeva pezzi rock: in qualità di
sua migliore
amica, Caterina era presente a quasi tutte le loro serate. Sforzandosi
di
distendere in un sorriso le labbra pallide, la giovane annuì
debolmente. «Che
bello.»
Nell’udire
quella risposta
tiepida, Alessandra le lanciò un’occhiata
indagatrice, ma, prima che potesse
dire dell’altro, una giovane cameriera si fermò
accanto al loro tavolo. «Posso
portarli via?»
Caterina
fece appena in tempo a intravvedere
il suo viso perfettamente truccato e il suo seno abbondante, che la
camicetta
bianca, sapientemente sbottonata, faceva ben poco per mascherare, che
la mano
della ragazza calò sul mojito che la giovane aveva bevuto
solo per metà. «Aspetta
un po’!» sbottò con malagrazia,
lanciandosi in difesa del proprio bicchiere e
afferrandolo a due mani. «Ti sembra che abbia
finito?!»
La
cameriera ritrasse
immediatamente la propria mano e osservò con evidente sdegno
il viso della
ragazza, struccato e inondato di lentiggini, poi ritirò i
bicchieri vuoti di Alessandra
e Matteo e girò sui tacchi, non prima di aver lanciato un
ultimo sguardo carico
di antipatia in direzione di Caterina.
«Minchia,
Cate, datti una
calmata!» la rimbrottò Alessandra, incrociando le
braccia attorno al petto e
facendo tintinnare i braccialetti che le adornavano i polsi sottili.
«Quella
povera disgraziata stava solo facendo il proprio lavoro: si
può sapere perché
sei così nervosa?»
Caterina
affondò gli incisivi nel
labbro inferiore, irritata dall’osservazione
dell’amica. «Ho mal di testa»
borbottò, voltandosi per cercare la borsetta adagiata sulla
panca al suo
fianco. Sono sicura di avere una
tachipirina o qualcosa del genere, pensò, evitando
di incontrare per qualche
istante gli occhi di Alessandra. Appena le sue dita sfiorarono la pelle
scamosciata della borsa, però, questa scivolò via
dal sottile cuscino viola sul
quale era appoggiata e cadde a terra, riversando il proprio contenuto
sul
pavimento lucido.
«’fanculo!»
ringhiò la ragazza,
tuffandosi sotto il tavolo per recuperare i propri averi. Confusamente
avvertì
la voce di Matteo che le chiedeva se avesse bisogno di una mano, ma la
ignorò,
continuando a gettare all’interno della borsetta
ciò che ne era fuoriuscito
pochi istanti prima. Ci mancava solo
questa, pensò, esasperata, allungandosi per
raggiungere una penna che era
rotolata a un metro di distanza. Quando riuscì a riemergere
dal pertugio in cui
si era infilata, la giovane si alzò bruscamente in piedi.
«Vado un attimo in
bagno» annunciò seccamente.
Abituata
ai suoi sbalzi d’umore,
Alessandra si limitò a fare un vago cenno
d’assenso, mentre Matteo, che la
conosceva ancora poco, le rivolse un sorriso lievemente imbarazzato.
Volgendo
le spalle agli amici e passandosi una mano tra i lunghi capelli ramati,
Caterina ispirò profondamente, cercando di calmarsi e di
alleviare il dolore
sordo che le pulsava nella tempia destra. Il Dream
era stracolmo di gente che chiacchierava, rideva e si
accalcava tutt’attorno al lungo bancone del bar. A pochi
tavoli di distanza, un
gruppo piuttosto nutrito di giovani donne era impegnato a festeggiare
un addio
al nubilato: le damigelle,
palesemente alticce e con delle improbabili alucce di peluche fissate
alla
schiena, ballavano in maniera scompagnata, senza curarsi di invadere lo
spazio vitale
degli altri avventori.
Che tradizione demenziale,
pensò Caterina, orripilata. Irrompendo
senza scrupoli nel bel mezzo del trenino improvvisato, la ragazza
puntò decisa
verso l’insegna lampeggiante che indicava la toilette. Mentre
passava loro
accanto, alcune delle giovani smisero di danzare e la squadrarono da
capo a
piedi. Sentendo su di sé gli sguardi di quelle sconosciute,
Caterina avvertì le
proprie guance farsi improvvisamente più calde: lei odiava dare nell’occhio, essere
al centro dell’attenzione.
Ogniqualvolta sentiva di essere osservata, si trovava a desiderare di
essere
qualche decina di centimetri più bassa: superava
abbondantemente il metro e
ottanta di altezza, il che le dava l’impressione di essere
troppo alta, troppo
sgraziata, troppo vistosa.
Allungando
il passo per
allontanarsi dal gruppetto, la ragazza scartò bruscamente di
lato per schivare
un cameriere che si dirigeva verso uno dei tavoli reggendo su
un’unica mano un
vassoio con quattro o cinque calici di vino e, così facendo,
venne investita da
un altro uomo, che le si aggrappò alle spalle per evitare di
finire a terra.
«Scusa,
scusa» bofonchiò quello,
e Caterina storse il naso quando avvertì il forte sentore di
alcol nel suo
fiato. L’ubriacone anche no, grazie!
Pensò, sottraendosi alla sua presa e sputando un
“non fa niente” che con ogni
probabilità non raggiunse mai le orecchie
dell’uomo.
Quando
finalmente riuscì a
guadagnare la porta del bagno, la giovane vi si lasciò quasi
cadere contro,
aprendola di scatto e poi chiudendola altrettanto rapidamente dietro di
sé. Salva,
pensò, mentre un’ondata di
sollievo la percorreva da testa a piedi. Lo stanzino era
miracolosamente vuoto,
pulito e, soprattutto, silenzioso.
La
spessa porta di legno che separava l’antibagno dal resto del
locale tagliava
fuori il suono delle voci e il rombo della musica, facendo penetrare
solamente
un brusio ovattato troppo lieve per peggiorare l’emicrania di
Caterina.
Sospirando
e sentendo un poco di
tensione scivolarle via dalle spalle, la giovane raggiunse il ripiano
di
granito che ospitava i lavabi e vi si appoggiò di peso,
scrutando il proprio
riflesso nello specchio posto al di sopra di esso. Aveva
l’aria stanca. La sua
pelle, sempre pallida, appariva ora quasi traslucida, secca e tirata
sugli
zigomi sporgenti. Le lentiggini, troppo abbondanti e troppo vistose per
poter
essere definite sbarazzine, arrivavano a sfiorare le profonde occhiaie
scure
che le cerchiavano gli occhi, dandole un aspetto decisamente poco sano.
Sembro già vecchia,
pensò Caterina,
toccandosi con l’indice un angolo delle labbra sottili e
tirando la ruga
piccola, ma visibile, che da qualche anno si era formata nella pelle. Ho venticinque anni e sembro già vecchia.
Persino i suoi occhi, dal taglio un po’ triste e di un
indefinibile colore tra
il marrone e il verde, avevano un’aria un po’
retrò. Forse dovrei truccarmi un
po’, considerò Caterina, ripensando alla
cameriera che aveva cercato di sottrarle il mojito e al suo impeccabile
eyeliner scuro. Forse dovrei smetterla di
prendermela per ogni minima idiozia…
In
quel momento, la porta
dell’antibagno si aprì nuovamente e due ragazzine
che di certo non potevano
essere maggiorenni piombarono davanti a Caterina, ridacchiando
convulsamente e
indicando qualcosa sullo schermo dello smartphone di una delle due.
Accorgendosi di non essere sole, le due ammutolirono per un istante, ma
poi ripresero
a confabulare tra di loro. Quando quella più minuta si mise
a sghignazzare
stridulamente, Caterina si allontanò rapidamente dallo
specchio. Sì, dovrei decisamente
imparare a essere più
paziente, decretò la giovane. Però
facciamo che inizio ad applicarmici domani.
Scacciata
da quell’insperata oasi
di pace, la ragazza si ritrovò di nuovo nel cuore del Dream e immediatamente venne travolta
dalla valanga di rumore e
confusione alla quale aveva cercato di sottrarsi qualche minuto prima.
Da
quella posizione non riusciva a vedere il tavolo al quale erano seduti
Alessandra e Matteo, ma era assolutamente certa che i due, che stavano
insieme
da pochi mesi soltanto, non stessero soffrendo per la sua mancanza. Una boccata d’aria mi farà bene,
pensò
Caterina, adocchiando la porta d’ingresso del locale.
Appena
ebbe messo piede
all’esterno, si trovò avvolta da una nuvola di
fumo di sigaretta e represse un
sorriso esasperato. Naturalmente,
pensò. Sebbene avesse lei stessa fumato per un breve periodo
della sua
adolescenza, la ragazza si era ormai lasciata alle spalle quel capitolo
della
sua esistenza e non aveva alcuna intenzione di respirare le esalazioni
emesse
dagli altri fumatori. Molto meglio
godersi la meravigliosa solitudine notturna di un parcheggio brianzolo,
si
disse, allontanandosi lentamente dalla folla radunata davanti alle
porte a
vetro del Dream.
Quando
si fu allontanata di
qualche decina di metri, estrasse il cellulare dalla tasca posteriore
dei jeans
e si lasciò scivolare su un muretto di cemento armato. Sono solo le undici e venti,
notò, demoralizzata. L’Ale
non vorrà mai andare a casa prima di
mezzanotte… giuro che questa è l’ultima
volta che mi faccio trascinare in ‘sto
schifo di un posto. E chi se ne frega del suo concerto!
Trovando
ben poco allettante la
prospettiva di gettarsi nuovamente nella bolgia infernale
all’interno del
locale, Caterina diede un’occhiata al proprio profilo
Facebook e Instagram e
poi rabbrividì, mentre un refolo di aria fredda si infilava
nel retro della
maglietta leggera che indossava. Anche se la primavera era
già sbocciata da un
paio di settimane, di sera le
temperature erano tutt’altro che estive. Improvvisamente
Caterina si rammaricò
di avere lasciato il proprio golfino nella borsa che aveva abbandonato
al
tavolo con Alessandra e Matteo. Per
fortuna, però, ho in tasca le chiavi della macchina.
Era una ragazza
previdente, lei, e teneva sempre sul sedile posteriore della sua Clio
un
giubbino leggero. E questo è il
momento
di usarlo… se solo mi ricordassi dove diavolo abbiamo
parcheggiato.
Per
sua sfortuna, il senso
dell’orientamento non rientrava tra le sue doti e Caterina ci
mise qualche
minuto a ricostruire la strada che lei e gli amici avevano fatto per
raggiungere il locale. Il Dream si
trovava in quella che era un’ex aria industriale e per questo
era dotato di un
parcheggio immenso, senza grandi punti di riferimento che potessero
aiutare la
giovane a individuare rapidamente la propria auto.
Però, se non sbaglio, dovrebbe essere
laggiù… ora che ci penso,
l’abbiamo lasciata sul retro. Quel cartellone
dall’altra parte della strada mi
ricordo di averlo visto.
Era
meno vicina di quanto le
sarebbe piaciuto, ma voleva godere ancora di qualche minuto di
tranquillità
prima di raggiungere nuovamente gli amici. Dopo essersi stiracchiata
pigramente, Caterina si avviò verso il lato opposto del
parcheggio,
giocherellando distrattamente con il bordo liscio del sottile
portachiavi
metallico che aveva estratto dalla tasca.
Certo che potevano anche metterla, qualche luce in
più, osservò la
ragazza, notando che il parcheggio era più buio di quanto
non le fosse sembrato
in un primo momento. Se si escludeva il rombo delle macchine che
correvano
sulla superstrada poco distante e l’eco della musica che
proveniva dal locale,
il silenzio era quasi totale. Non c’erano voci, non
c’era il frusciare del
vento, non c’era nemmeno il canto dei grilli che aveva
accompagnato la maggior
parte delle notti della sua vita. C’era però
l’odore dell’asfalto caldo, acre,
penetrante, appena intaccato dal sentore dei gas di scarico e della
benzina.
Improvvisamente,
Caterina udì dei
passi alle proprie spalle.
«Aspetta!»
Ancor
prima di voltarsi, la
ragazza seppe che non si trattava di nessuno che conosceva. Irrigidendo
istintivamente i muscoli delle gambe e delle braccia e trovandosi a
stringere
le dita sulle chiavi dell’auto, la giovane ruotò
lentamente sui tacchi,
trovandosi così a fronteggiare la persona che la stava
seguendo.
Oh, cazzo. Anche se prima non
l’aveva visto bene, le bastò
un’occhiata per capire che l’uomo che le stava
davanti era lo stesso che
l’aveva travolta qualche decina di minuti prima
all’interno del locale, quando
aveva cercato di raggiungere il bagno. È
l’ubriacone. Quanto avrà bevuto? Se la
sarà presa per come l’ho trattato?
Cercando
di cogliere qualche
informazione in più sullo stato psicofisico
dell’individuo, Caterina fece
scorrere su di lui un’occhiata rapida, ma minuziosa. Era
giovane,
indiscutibilmente bello e con un fisico di tutto rispetto, a giudicare
da
quello che riusciva a intravvedere nella penombra, ma quelle
informazioni non
le parvero di alcuna rilevanza, considerate le circostanze. Dev’essere alto più o meno
quanto me,
considerò, invece. Ma scommetto
che è più
forte di me, e probabilmente pure più veloce.
Occhieggiando
alla propria sinistra,
la ragazza cercò di calcolare la distanza che la separava
dalle persone intente
a fumare davanti all’entrata del locale. Qualcuno
l’aveva vista? Qualcuno
l’avrebbe sentita, se avesse gridato?
«No,
no, cosa guardi?» le chiese
l’uomo, avvicinandosi a lei di qualche passo. «Ti
ho spaventata? Scusa, non
volevo! Non preoccuparti, non voglio farti del male.»
Immediatamente,
la giovane
indietreggiò, facendo attenzione a non finire intrappolata
tra due automobili.
Lo sconosciuto si muoveva in modo apparentemente sicuro, segno che,
forse, era
meno ubriaco di quello che aveva temuto. Allo stesso tempo,
però, le sembrava
che parlasse in modo leggermente impacciato, come se avesse la lingua
impastata. In ogni caso, è meglio
non
approfondire la faccenda.
«Che
cosa vuoi? Non ci
conosciamo, lasciami in pace» gli ordinò, facendo
del proprio meglio per
mantenere un tono di voce ragionevole, ma fermo.
L’uomo
si passò una mano tra i
capelli scuri, come se l’osservazione della giovane
l’avesse messo a disagio.
«Sì, lo so, però… prima ti
sono venuto addosso. Volevo scusarmi.»
Caterina
deglutì. «Scuse
accettate» disse, un po’ troppo in fretta.
«Adesso sparisci.»
Così
dicendo, la ragazza si
incamminò decisa verso l’ingresso del locale,
cercando di superare l’uomo sulla
sinistra. Quello, però, allungò rapidamente una
mano e la richiuse sul braccio
della giovane. «No, aspetta un attimo.
Voglio…»
Senza
lasciargli il tempo di
terminare la frase, Caterina ritrasse di scatto il proprio braccio.
«Lasciami
immediatamente!» sibilò, sentendo la paura
mescolarsi alla rabbia. Forse
avrebbe dovuto veramente urlare per attirare l’attenzione. O
forse avrebbe
dovuto prenderlo a calci, e al diavolo le conseguenze.
Per
tutta risposta, l’uomo
ridacchiò, apparentemente divertito. «Va bene, va
bene, non ti tocco» disse,
sollevando le mani come per dimostrare di essere innocuo. «Tu
però me lo dici,
il tuo nome?»
«No!»
sputò lei, trovando
oltraggioso il fatto che quel tizio osasse farle una richiesta del
genere.
«Ma…»
«Allontanati
immediatamente da
quella ragazza.»
Le
proteste del giovane vennero
interrotte da una voce profonda. Alzando lo sguardo oltre le spalle
dello
sconosciuto, Caterina vide Hasim, uno dei buttafuori del Dream,
avanzare a grandi passi verso di loro. L’uomo aveva
conosciuto Alessandra durante un’esibizione della ragazza e
da allora erano
diventati amici: era stato lui a darle il contatto del gestore del Dream, dicendole che c’era la
possibilità
di farsi conoscere da un nuovo pubblico. Caterina l’aveva
già incrociato un
paio di volte, in passato, e le era sembrato una persona per bene, ma
mai come
in quel momento era stata felice di vederselo comparire davanti.
L’uomo
che aveva cercato di
approcciarla si voltò di malavoglia verso di lui.
«Non sto facendo niente» gli
disse, con la voce che tradiva tutto il fastidio di essere stato
interrotto.
Senza
nemmeno ascoltarlo, Hasim
lo raggiunse e lo superò, frapponendo tra lui e Caterina
tutta la sua
ragguardevole stazza. «Ti ha dato fastidio?»
chiese, chinandosi leggermente per
incontrare gli occhi della giovane.
Caterina
esitò appena un istante,
poi si strinse nelle spalle. «Non più di
tanto» replicò. Per qualche ragione,
l’idea di confessare all’uomo la paura che
l’aveva assalita la metteva a
disagio. Si sentiva decisamente più tranquilla, ora che lui
era al suo fianco
e, a conti fatti, quell’idiota non aveva fatto nulla di
eccessivamente
minaccioso. Forse perché non ne
avuto il
tempo, si disse, soffocando però subito il
pensiero.
«Ne
sei sicura?» insistette
Hasim, gli occhi neri luminosi nel buio della notte.
Caterina
gli posò una mano sul
braccio e gli sorrise. «Assolutamente» lo
rassicurò. «Potresti riaccompagnarmi
dentro, però? L’Ale penserà che mi sono
persa…»
Caterina
non si voltò mai, mentre
il buttafuori la scortava verso l’ingresso del locale, ma era
assolutamente
certa che gli occhi dell’altro uomo la stessero ancora
seguendo.
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Capitolo 4 *** 3. Un aiuto inatteso ***
Oggi
Caterina
alzò gli occhi dalla
propria dispensa, la punta dell’evidenziatore ferma a pochi
millimetri dalla
pagina. Poi riabbassò prudentemente lo sguardo sul paragrafo
che stava
leggendo, evitando di commentare la scena che si stava svolgendo a
poche decine
di centimetri da lei.
Halima,
il volto rosso quasi
quanto l’hijab che aveva indossato quel giorno, stava
sottolineando
furiosamente alcune frasi che aveva scritto quella stessa mattina. Il
tratto
della penna era talmente profondo che quasi passava il foglio da parte
a parte.
«Niente» sibilò la ragazza, arricciando
il naso per spingere in su gli
occhiali. «Non le va bene assolutamente
niente.»
Caterina
contò fino a tre, poi si
lasciò sfuggire la frase che mai, per nessun motivo, avrebbe
dovuto lasciarsi
sfuggire. «Te l’avevo detto, io, che fare la tesi
con la Magni non era una
buona idea.»
Immediatamente
Halima lasciò
cadere la penna sul tavolo e si voltò per guardare in faccia
l’amica. «E con
chi avrei dovuto farla, se non con lei?» sbottò.
«Non è che avessi molte
alternative, eh! E poi, la mia almeno è una tesi utile,
sulla traduzione…»
Cogliendo
la frecciatina,
Caterina incrociò le braccia davanti al petto scarno.
«Pure la mia è una tesi
sulla traduzione, sai?» si difese. «Se stai
insinuando che non è una cosa
utile…»
Halima
alzò gli occhi al cielo.
«Sì, in effetti è davvero fondamentale
che qualcuno si prenda la briga di
tradurre degli scarabocchi fatti in una lingua che nessuno parla
più da
centinaia di anni…»
Arricciando
le labbra in una
smorfia di disgusto, Caterina afferrò nuovamente
l’evidenziatore rosa. «Quanta
ignoranza» commentò sdegnosamente.
«…
e comunque», riprese Halima,
«io almeno studio la traduzione di articoli accademici: non
come qualcuno, che traduce incantesimi e formule
magiche.»
Il
tono con cui aveva pronunciato
quei termini non lasciava alcun dubbio su quale fosse
l’opinione che la ragazza
aveva a proposito dell’argomento scelto dall’amica
per la propria tesi di
laurea. Esasperata, Caterina sospirò. «Ma cosa ne
vuoi sapere, tu, che nemmeno
hai mai fatto Filologia Germanica. E poi ci sono anche benedizioni,
ricette
mediche… sono testi di un’enorme
rilevanza culturale, sai?»
«E
allora? Se volete
chiacchierare, andate in corridoio o in cortile!»
Evidentemente disturbata
dalla loro discussione, la ragazza con la quale dividevano il tavolo le
richiamò all’ordine, facendo loro notare che, in
effetti, la biblioteca
dell’università non era il posto migliore in cui
fare conversazione. Decidendo
di lasciare cadere l’argomento, Caterina tornò a
dedicarsi alla noiosissima
dispensa che illustrava gli elementi base del marketing.
Posso dire che non me ne frega assolutamente nulla
delle “4P del
Marketing Mix”? Si chiese, colorando con la punta
dell’evidenziatore la
freccetta curva che recava la dicitura “Price”.
Forse Halima non aveva tutti i
torti, quando diceva che l’argomento con il quale aveva
scelto di laurearsi non
aveva la benché minima utilità pratica. Ma
chi se ne frega? Una volta uscita da qui, mi andrà
già bene se troverò un
impiego come stagista addetta alle fotocopie: tanto vale che mi
concentri su un
argomento che mi interessa, no?
E la
traduzione di antichi testi
germanici e anglosassoni le interessava davvero. Era quasi come un
gioco
enigmistico, per lei: le piaceva concentrarsi sulle parole arcaiche
trascritte
dagli antichi monaci, con la loro grafia incerta e fluida nella forma,
la
divertiva formulare ipotesi su termini per i quali non esisteva una
traduzione
ufficiale e trovava estremamente soddisfacente riuscire a trarre una
traduzione
di senso compiuto da quella che, a prima vista, sarebbe potuta sembrare
un’accozzaglia di parole senza senso.
Quando
traduceva, Caterina si
trovava immancabilmente a fantasticare sul contenuto dei testi che
aveva sotto
gli occhi. Leggeva di ortiche, piantaggine e altre piante medicinali e
la sua
mente correva inevitabilmente ai pomeriggi della sua infanzia quando,
in
primavera e in estate, si ritrovava a ruzzolare tra boschi e prati,
cogliendo
fiori e preparando intrugli fantasiosi con tutte le erbe che le
capitavano a
tiro. Erano ricordi che sapevano di libertà, spensieratezza
e prati assolati ed
erano sufficienti per allontanare un poco la noia di ore intere passate
seduta
alla scrivania.
La
sua tesi era ormai a buon
punto, sebbene la sua relatrice, la Professoressa Boschi, non fosse
meno
intransigente di quella scelta da Halima. Il problema era che tra lei e
la
discussione finale si ergeva un ultimo ostacolo, apparentemente
insormontabile:
l’esame di Marketing 1, al quale la ragazza era
già stata bocciata due volte. Del
resto, come diavolo faccio a studiare su
una dispensa ultra-sintetica, quando del corso avrò
frequentato sì e no due
lezioni?
Dopo
un’altra mezz’ora di studio
silenzioso, Halima si tolse gli occhiali e, sbilanciandosi indietro
sulla
sedia, si stiracchiò platealmente. «Sai che ti
dico?» annunciò, lanciando
un’occhiata al proprio orologio da polso. «Io me ne
vado: per oggi ho fatto fin
troppo. Se mi do una mossa, riesco a prendere l’autobus delle
16:15 e non devo
aspettare quello delle 17:30.»
Chiudendo
di scatto la dispensa,
Caterina annuì. «Io resto ancora un
po’» disse. «Però faccio pure
io una pausa,
perché inizio a non capire nemmeno più quello che
sto leggendo.» Rapida, la
giovane recuperò l’astuccio e il resto del
materiale che, durante la sessione
di studio, aveva sparso su buona parte del tavolo della biblioteca. Poi
infilò
il tutto nella consunta tracolla di stoffa verde militare che la
accompagnava
ormai da sei anni, ovvero dal giorno in cui aveva messo piede per la
prima
volta all’interno di una delle sedi
dell’Università di Bergamo.
«Andiamo?»
la spronò Halima,
sistemandosi in spalla il proprio zainetto. Mentre percorrevano le
ampie scale
di pietra che conducevano verso il piano terra e quindi verso il
chiostro
dell’antico monastero che ospitava il dipartimento di Scienze
Umane e la
biblioteca umanistica, Caterina lanciò un’occhiata
alla macchinetta del caffè
posta accanto all’ingresso. Perfetto,
pensò, mentre l’ombra di un sorriso le piegava le
labbra. È tutta per me!
«Ci
vediamo domani, allora?»
chiese, rivolta all’amica.
«A
domani» confermò Halima,
sollevando una mano a mo’ di saluto.
Quando
la ragazza si fu
allontanata, Caterina posò la tracolla sopra al tavolino
ingombro di volantini
posto accanto alla macchina del caffè e prese a frugarsi
nelle tasche, alla
ricerca della moneta da due euro che era assolutamente certa di avervi
depositato quella mattina. Eccoti qui,
pensò, pescandola dalla tasca dello spolverino che aveva
portato con sé per
difendersi dalla pioggia sottile che cadeva dalla sera prima.
Mentre
si apprestava a
selezionare la bevanda, udì i passi leggeri di alcuni
studenti che entravano
dalla porta e, con la coda dell’occhio, li vide scuotere gli
ombrelli nel
tentativo di liberarli dalle gocce di pioggia. Sempre senza voltarsi,
Caterina
prese atto del fatto che qualcuno aveva appena preso possesso della
fotocopiatrice posta alle sue spalle, mentre qualcun altro aveva preso
posto
sugli ultimi gradini della scala che portava al piano superiore e
qualcun altro
ancora indugiava accanto alla bacheca, leggendone forse gli annunci.
Inizia a esserci un po’ troppa folla, per
i miei gusti, si disse,
mentre, con la punta del dito, componeva il codice corrispondente a un
cappuccino con polvere di cioccolato. Nell’istante preciso in
cui la macchina
iniziava a ronzare e a preparare quanto le era stato ordinato, la
ragazza avvertì
una presenza alle proprie spalle.
«Oh,
ma sei davvero tu?» le
chiese una voce.
Caterina,
che si era chinata per
raccogliere il resto dall’apposito sportello, si
rialzò lentamente, stringendo
nella mano le monetine sino a quando non ne avvertì i bordi
penetrarle nel
palmo. Com’è possibile
riconoscere una
voce dopo averla sentita pronunciare solo un paio di frasi?
Si chiese,
mentre il suo cuore accelerava i battiti in maniera del tutto
involontaria.
Voltandosi
quel tanto che bastava
per guardare in faccia il suo interlocutore, la giovane si impose di
mantenere
un’espressione assolutamente neutra mentre i suoi occhi
incontravano quelli
dell’uomo che, qualche giorno prima, l’aveva
avvicinata nel parcheggio del Dream.
«Cosa
vuoi?» lo interrogò,
mettendo in quelle parole quanta più ostilità
possibile.
Lui
parve stupito dal suo tono astioso
e sgranò gli occhi, come se la domanda l’avesse
colto alla sprovvista. In
maniera del tutto indipendente dalla sua volontà, il
cervello di Caterina
registrò il fatto che quel tizio aveva degli occhi di un blu
davvero
stupefacente, talmente intenso da farle quasi dubitare che fossero
naturali.
«Scusarmi.»
La
replica dell’uomo la distrasse
dalla sua contemplazione e la ragazza incrociò le braccia
davanti al petto,
creando inconsciamente una barriera tra sé e lo sconosciuto.
«Non me ne faccio
niente, delle tue scuse» ribatté asciutta.
«E, poi… come facevi a sapere che mi
avresti trovata qui?» Mentre pronunciava quella domanda,
Caterina sentì una
punta di inquietudine morderle lo stomaco. Era forse uno stalker? Un
maniaco?
L’aveva seguita di nascosto e così aveva scoperto
dove studiava? E se avesse scoperto anche
dove abito?
Si chiese, mentre l’inquietudine raggiungeva per un istante
un picco molto
simile all’angoscia.
L’uomo
si strinse nelle spalle.
«In realtà, non lo sapevo.
Io…»
«Ti
dispiacerebbe muoverti?»
Immersa
com’era nel confronto con
lo sconosciuto, Caterina non si era accorta che il suo cappuccino era
pronto
già da diversi secondi e che dietro di lei si era formata
una piccola coda di
tre persone. La ragazza che le stava alle spalle e che le aveva rivolto
la
parola con tanta scortesia era decisamente più bassa di lei,
ma, in compenso,
era equipaggiata con una notevole quantità di borchie e
spuntoni di ferro che
fuoriuscivano da parti anatomiche piuttosto improbabili. Davanti
all’immobilità
di Caterina, la ragazzetta – che doveva anche essere
piuttosto giovane –
sollevò le sopracciglia con aria esasperata.
«Beh?»
Muovendosi
in maniera del tutto
automatica, Caterina recuperò la propria bevanda e si fece
da parte, lasciando
che gli altri studenti potessero servirsi a loro volta. Subito, il
giovane
sconosciuto le si fece più vicino. «Come stavo
dicendo», riprese, «io non
sapevo affatto che ti avrei trovata qui. Ero semplicemente venuto in
biblioteca
per cercare un libro che mi serve per il mio prossimo esame, tutto
qui.»
Caterina
avvertì chiaramente lo
scricchiolio della plastica del bicchiere che si incrinava sotto la
pressione
delle sue dita. «Quindi tu studieresti qui?»
chiese, piegando le labbra in un
sorriso sarcastico. «Strano, non ti ho mai visto.» E sta tranquillo che, se ti avessi visto da queste
parti, non mi sarei
scordata facilmente di te. Perché quel tipo era
bello da fare schifo,
inutile negarlo. Gli occhi azzurri erano gradevolmente in contrasto con
i
capelli scuri, di un castano intenso, tagliati in un taglio
curato-ma-non-troppo che lo facevano probabilmente apparire
più giovane di
quanto in realtà non fosse. La sua pelle aveva quasi un
riflesso bronzeo, come
di chi sta molto tempo all’aria aperta e può
concedersi il lusso di un’abbronzatura
sana e graduale, i tratti del suo viso erano eleganti, il naso dritto,
le
labbra dalla curva morbida… Caterina si concesse una breve
contemplazione delle
sue spalle larghe e dei suoi muscoli che riempivano in modo decisamente
suggestivo la camicia che indossava e poi si costrinse a tornare con i
piedi
per terra e a bere un generoso sorso di cappuccino.
Se
l’uomo si era accorto del modo
in cui lei l’aveva guardato, non lo diede a vedere. Anzi,
aggrottò leggermente
la fronte, come se fosse stato turbato dalle parole della giovane.
«Ehm… in
realtà ci siamo già visti. Ci siamo anche
già parlati: non ti ricordi?»
Per
un brevissimo istante,
Caterina si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor
d’acqua. «No» ribatté
poi, risoluta.
Il
giovane inclinò leggermente la
testa di lato, sfoggiando quello che alla ragazza parve un sorrisetto
leggermente imbarazzato. «Quest’autunno, sempre qui
in biblioteca… la
fotocopiatrice che si mangiava i fogli, tu che tiravi dalla parte
sbagliata e
li sbriciolavi, scomodando nel frattempo tutti i santi del
Paradiso…»
Improvvisamente,
un flashback si
palesò nella mente della ragazza. Adesso che ci pensava
meglio… ora che glielo
aveva fatto venire in mente, aveva come un vaghissimo ricordo di lui
che le
mostrava come liberare i fogli incastrati…
«Oh» commentò, mentre le guance le
si arrossavano un poco per l’imbarazzo.
L’uomo
si aprì in un gran sorriso
e lei ebbe l’impressione di rimanerne abbagliata.
«Ti ricordi, adesso?»
Nel
tentativo di non fissarlo con
troppa insistenza, la giovane finì il cappuccino.
«Sì, mi ricordo» replicò
sbrigativa. «Questo non toglie però che
l’altra sera tu ti sia comportato come
un grandissimo stronzo. Continuo a non avere niente da dirti.»
«Ma
almeno ti sei convinta che
non sono uno stalker?» le chiese, indovinando i pensieri che
le erano passati
per la mente qualche minuto prima.
Lei
annuì. «Sì. Non sono
assolutamente fisionomista, ma, in effetti, ora ricordo di averti
già
incrociato da queste parti.»
«Bene»
commentò lui. «Senti,
capisco che tu voglia liberarti di me il prima possibile, ma me li
dedichi,
cinque minuti? Probabilmente a te non te ne fregherà niente,
ma vorrei
spiegarti perché l’altra sera mi sono comportato
in quel modo… voglio dire, di
solito non le faccio, quelle cose.»
Caterina
gli lanciò un’occhiata
scettica. Avrebbe voluto rispondergli che non sapeva cosa farsene,
delle sue
spiegazioni, ma doveva ammettere di essere curiosa. «Cinque
minuti» acconsentì,
incrociando le dita e sperando di non aver fatto la scelta sbagliata.
Mentre
lei recuperava la
tracolla, lui le porse una mano a mo’ di presentazione.
«Io sono Michael: ti va
se ci sediamo un attimo nel chiostro, che c’è un
po’ più di spazio?»
Lei
gli strinse appena la mano,
ritraendosi velocemente quando si accorse di avere le dita
sgradevolmente
fredde e anche un po’ sudaticce. «Caterina. Va
bene.»
Quando
raggiunsero la prima
arcata libera e vi si sedettero, Michael abbassò brevemente
lo sguardo sulle
proprie scarpe da ginnastica, come se stesse cercando le parole
migliori per
introdurre il discorso. «Avevo bevuto. Cioè, non
che di solito io sia
esattamente astemio, ma l’altra sera avevo decisamente
esagerato. Per un motivo
davvero stupido, tra l’altro: avevo litigato con il mio
migliore amico per una
cavolata e lui mi ha dato buca all’ultimo minuto. Avremmo
dovuto trovarci
direttamente al Dream, ma quando
ero
già lì da un pezzo Lorenzo mi ha scritto per
dirmi che non aveva voglia di
uscire.»
«Mh»
commentò Caterina, senza
riuscire a mostrare un eccessivo coinvolgimento.
«Be’,
oramai ero lì e mi sembrava
stupido tornare a casa» continuò Michael.
«Sono entrato, poi ho visto che c’era
quella festa di addio al nubilato, le ragazze mi sembravano tutte
sull’allegro
andante e, come dire… ho pensato che ci fosse la
possibilità di divertirsi un
po’. Da sobrio non riuscirei mai a rimorchiare una ragazza
ubriaca persa,
quindi ho pensato di adeguarmi al loro stato…»
«Che
mossa intelligente» commentò
Caterina sarcastica. «Voglio almeno sperare che tu non abbia
una ragazza,
perché altrimenti saresti proprio pessimo.»
Gran bella mossa, Cate! Si disse,
congratulandosi silenziosamente
con se stessa per la nonchalance con cui si era accertata
dell’esistenza di
un’eventuale fidanzata. Non che la cosa le interessasse,
naturalmente: la sua
era solo una curiosità scientifica, nel caso nel futuro ci
fossero stati
sviluppi interessanti.
«No,
nessuna ragazza» la
rassicurò lui, con un sorriso che le fece temere che la sua
mossa non fosse
stata tanto abile, dopotutto.
Senza
lasciare che l’imbarazzo si
impossessasse di lei, Caterina scrollò le spalle.
«Debbo quindi dedurre che le fatine
dell’addio al nubilato ti abbiano
mandato in bianco e che tu ti sia gettato sulla prima sfigata che ti
è capitata
a tiro? Oppure hai molestato tutte le ragazze del locale?»
Lui
scosse mestamente il capo.
«Ma no… è solo che, ubriaco
com’ero, al primo sguardo mi hai ricordato una
persona che conoscevo. Poi ho capito che non eri lei, ma…
boh, non lo so,
cos’ho pensato. Probabilmente non ho pensato affatto.
Però non volevo farti del
male. Non te l’avrei mai fatto.»
La
ragazza si irrigidì,
ricordando per un istante la paura che l’aveva colta, prima
che Hasim
accorresse in suo aiuto. «Voglio sperarlo»
commentò, più bruscamente di quanto
avrebbe voluto.
Quando
comprese che non avrebbe
aggiunto dell’altro, Michael annuì e poi si
alzò in piedi. «Va bene. È tutto
qui, volevo solamente scusarmi per come mi sono comportato.»
Pareva
onestamente dispiaciuto
per il suo comportamento e Caterina si sentì un
po’ meno intransigente nei suoi
confronti. «Va bene» sospirò,
rivolgendogli poi un mezzo sorriso.
Ricambiando
il sorriso, il
ragazzo si chinò per raccogliere la tracolla che la giovane
aveva posato a
terra e poi inclinò il capo per leggere meglio il titolo
della dispensa che vi
faceva capolino. «Bello!» esclamò, con
un entusiasmo nuovo. «Studi marketing?»
Lei
gli rivolse uno sguardo
annoiato. «Studio lingue straniere. Marketing è
l’ultimo esame che mi manca.
Ah, e mi fa schifo.»
Michael
le rivolse un sorriso
smagliante. «Io sto facendo un master in marketing»
la informò amabilmente.
Ecco, perfetto, pensò la
ragazza, chiedendosi se avesse appena
fatto una gaffe. «Cioè, forse mi fa schifo
perché non ci capisco niente» disse,
sentendo il bisogno di correre ai ripari. «Non ho
praticamente mai seguito il
corso e la dispensa che mi hanno dato è troppo
schematica…»
«È
fatta male?» indagò Michael,
estraendola dalla borsa e sfogliandola rapidamente. Caterina
osservò il suo
viso contrarsi in un’espressione concentrata, poi il giovane
richiuse il
fascicoletto con uno schiocco e sospirò. «In
effetti, ‘sta cosa qui va bene per
ripassare, ma non per studiare partendo da zero. Se vuoi posso
consigliarti un
paio di libri, ma probabilmente sarebbero troppo avanzati, considerato
quello
che mi pare essere il livello del corso che avresti dovuto frequentare.
Oppure,
se preferisci, posso prestarti la mia, di dispensa, con i miei
appunti.»
Caterina
lo guardò sorpresa. «La
tua dispensa?» ripeté, per essere certa di aver
capito bene.
L’uomo
annuì. «Sì: quella del
corso base, ovviamente. Ha ormai qualche anno, ma credo che vada bene
comunque.
A te serve solo conoscere le basi, dopotutto. Se vuoi, te la porto qui
in
università.»
La
giovane esitò. Era tentata di
accettare. Era molto tentata di
accettare. Se, da un lato, non voleva dare troppa corda a Michael
– dopotutto,
il suo comportamento al Dream non
le
era piaciuto per niente – dall’altro lato lei aveva
un disperato bisogno di
appunti decenti, se voleva sperare di non essere bocciata per
l’ennesima volta.
E poi, se proprio ce ne fosse bisogno, potrei
sempre chiedergli di
darmi lezioni private… soffocando quel pensiero
sul nascere, la ragazza
annuì. «Saresti gentile, grazie.»
Michael
si schernì. «È il minimo
che possa fare, visto come mi sono comportato. Vedo quali sono i miei
impegni
per i prossimi giorni e poi ti faccio sapere quando possiamo trovarci:
mi dai
il tuo numero di cellulare?»
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Capitolo 5 *** 4. La Zingara ***
Quasi cent’anni
prima
È
autunno e il sole placido
riscalda le ampie foglie delle viti, ravvivandone i riflessi scarlatti.
Il sole
splende a lungo, su quel lato della valle, ed è per questo
che qualcuno,
parecchio tempo fa, ha deciso di piantarci un piccolo vigneto.
L’uva cresce
bene, lì, anche se il terreno è impervio e il
pendio così ripido che, se appena
ti scappa un piede, scivoli e rotoli verso valle per parecchi metri.
Agnese
slitta da un terrazzamento
all’altro, allungandosi tra la polvere e l’erba e
strisciando per raggiungere i
grappoli più bassi, quelli che crescono quasi a contatto con
il terreno e che,
qualche volta, prendono anche un po’ il sapore ferruginoso
della terra. È un
compito che spetta a lei, quello, perché è la
più piccola e minuta tra tutte le
persone che si sono date appuntamento per vendemmiare: gli adulti
farebbero
troppa fatica, se dovessero cogliere quei grappoli così
nascosti.
Stringendo
tra le manine una
cascata di grossi acini succosi, di un viola così scuro da
sembrare quasi nero,
la bambina rotola su un fianco e poi si mette seduta, allungando
davanti a sé
le gambe e agitando un pochino i piedi. È un lavoro scomodo,
quello che le
hanno assegnato. Le fa venire uno strano formicolio ai polpacci e alle
piante
dei piedi, quasi che un’infinità di formiche
avessero preso a correre avanti e
indietro sulle sue gambe.
Anche
Giovanni e Alberto corrono
avanti e indietro. Agnese guarda con disapprovazione i suoi due
fratelli
maggiori, intenti a rincorrersi tra i filari: si sono stancati di
lavorare e
ora giocano alla guerra, lanciandosi l’un l’atro
manciate di acini marci.
Quando uno dei ragazzini sfiora una delle grosse gerle colme
d’uva, rischiando
di rovesciarla, la bambina trattiene il fiato. «Issä mochìllä»
abbaia la mamma, adesso finitela.
Alberto è più grande e
schizza via, ma Giovanni non è abbastanza rapido e la mamma
lo affetta per la
collottola, sollevando una mano e minacciando di tirargli uno
scappellotto.
Agnese abbassa il viso verso le ginocchia e ridacchia. Se fossero stati
soli,
gliel’avrebbe tirato per davvero, lo scappellotto, ma qui ci
sono tutte le
amiche della mamma e lei non ha voglia di arrabbiarsi. Giovanni
è stato
fortunato.
La bambina è giunta alla fine di un
filare e si prepara a passare a quello successivo, qualche metro
più in basso,
quando le donne che lavorano con lei alla vigna salutano qualcuno.
Alzandosi
sulla punta degli scarponcini consunti, che sono passati da Alberto a
Giovanni
e infine a lei, Agnese scorge una testolina adornata da due brillanti
trecce
scure. Subito sorride. È Margherita, quella.
Schermandosi gli occhi con una mano
sporca di terra, la bambina osserva l’amica guardarsi in giro
e poi
arrampicarsi rapidamente su per il pendio, affrettandosi a
raggiungerla.
Margherita non deve lavorare alla vigna e il suo vestitino azzurro, il
suo
maglioncino color panna e le calze immacolate sembrano quasi
risplendere, se
confrontate agli abiti macchiati e un po’ rovinati indossati
da Agnese.
Con
le guance pallide leggermente
arrossate dalla salita, Margherita si lascia cadere a terra accanto
all'amica,
ripiegando compostamente le gambe cosicché la sottana non
salga troppo.
"La Zingara vuole vederci" le dice, con un ansito nella voce che
è
solo in parte dovuto allo sforzo fisico.
Agnese
aggrotta la fronte.
«Adesso?» chiede, anche se, in realtà,
conosce già la risposta.
La
bambina bruna annuisce. «Andiamo?»
Agnese
esita solo un istante,
prima di alzarsi in piedi. Il lavoro alla vigna è tutt'altro
che finito, ma sa
benissimo che, se è Margherita a chiamarla, la mamma non
avrà nulla di ridire:
la sua amica ha un cognome importante, uno di quei cognomi che parlano
di
ricchezza antica e di nobiltà mai del tutto dimenticata e la
mamma è contenta
di sapere che loro due sono tanto legate.
Cionondimeno,
le apparenze sono
importanti. «Posso andare a giocare,
màm?» chiede, tirando fuori la vocina
più
dolce che le riesce. La mamma posa a terra la gerla che si era appena
caricata
sulle spalle e, nel farlo, si sgranchisce un poco la schiena affaticata
dal
peso eccessivo. Si passa una mano sulla fronte, dove i sottili capelli
castani
rimangono appiccicati a causa del sudore, poi guarda le persone che
ancora si
affaccendano attorno alle viti. «Va bene, vai pure»
concede. «Torna in tempo
per iniziare a preparare la cena, che io faccio tardi.»
Mentre
si allontanano dai campi e
si dirigono di buon passo verso la casa della Zingara, le due bambine
chiacchierano e fantasticano. Chissà che cosa
vorrà, questa volta. Chissà quali
meraviglie mostrerà loro.
In
realtà, non sono mica tanto
sicure che sia veramente una zingara: le comari del paese la chiamano
semplicemente "La Francesa" o, se vogliono essere più
formali, la
Signora Mursciù (pronunciato proprio così,
perché tanto nessuno lo sa, come si
legge o come si scrive, il suo cognome). A loro pare tanto una zingara,
però,
perché ha la pelle morbida e scura come il caramello, gli
occhi di brace e
capelli talmente neri da sembrare quasi blu. Non lo sanno, se
è giovane o
vecchia, perché a sei anni tutti gli adulti sembrano
vecchissimi, ma la trovano
straordinariamente bella nei suoi abiti colorati. Ad Agnese piacciono
tanto i
suoi gioielli; Margherita, invece, è attratta da quel suo
profumo che non sa
definire.
È
una donna strana, la Zingara,
perché se ne sta quasi sempre in casa. Deve sentirsi molto
sola, perché suo
marito, il Signor Mursciù, è sempre via per
lavoro - in Svizzera, dicono.
Agnese ha di lui un'immagine estremamente vaga: un uomo grande e
grosso, ma con
un braccio soltanto. La Zingara gliel'ha raccontato, che fine ha fatto,
quel
braccio mancante: se l'è mangiato un cane gigante contro cui
il Signor Mursciù
ha combattuto tanto tempo fa, prima ancora che Agnese nascesse. A volte
la
bambina pensa che deve fare un male terribile, farsi mangiare un
braccio da un
cane.
Dal
momento che è sempre tanto
sola, la Zingara invita spesso le signore a casa sua a bere il
tè. E fin qui
non ci sarebbe niente di strano. Quello che la mamma trova un po'
strano - e
che il papà troverebbe molto
strano,
se lo sapesse - è che alla Signora Mursciù sembra
piacere anche la compagnia di
Agnese e Margherita. Di fronte a quell'amicizia tanto singolare - ma
che, in
fin dei conti, non fa male a nessuno - la gente del paese scuote la
testa e si
dice che forse alla Francesa piace avere attorno le bambine
perché sono
ragazzine curiose e spigliate. Lei non ha figli e forse il loro
chiacchiericcio
rallegra le sue giornate.
La
realtà, ovviamente, è ben
diversa.
Arrivate
in paese, le due bambine
si arrampicano su per il viottolo acciottolato che conduce alla casa
che il
Signor Mursciù ha preso in affitto quando è
arrivato in Italia. È una casa
bella, forse una delle più belle del paese. Ha la facciata
intonacata di fresco
e attorno alle finestre c'è un bordino azzurro che,
chissà perché, fa sembrare
tutto più grande e più luminoso.
L'elegante
portone di legno di
noce è chiuso, ma ormai le bambine sanno che non hanno
bisogno di annunciarsi e
di attendere che qualcuno venga ad accoglierle. Margherita, che
è più alta
della compagna di una buona spanna, afferra la maniglia e spinge.
Eccole, le
scale che conoscono tanto bene: di un verde grigiastro che le fa sempre
pensare
al freddo, illuminate dalla luce che filtra dalle finestrelle linde.
C'è sempre
un odore di sapone e di pulito, su quelle scale, anche se le bambine
non hanno
mai visto alcuna domestica intenta a pulirle - e dubitano che sia la
Zingara
stessa, a farlo.
La
curiosità mette loro le ali ai
piedi e le ragazzine volano su fino all'ultimo piano, dove sanno che
troveranno
la Signora Mursciù. C'è un'altra porta,
lì in cima, da parte alla ringhiera
bassa, che se uno non sta attento e si sporge rischia di cadere di
sotto. Agnese
apre anche quella e poi chiama: «Siamo arrivate!»
«Di
qui» risponde una voce con un
delizioso accento straniero.
“Di qui” significa nel salotto
dove la padrona di caso accoglie gli
ospiti e le ragazzine non si fanno pregare. Quando le vede comparire
nella
stanza illuminata dalla luce morbida delle abat-jour rosse e arancioni,
la
Zingara sorride. «Hai fatto in fretta» dice,
rivolta a Margherita, e Agnese
lancia all’amica uno sguardo sospettoso. Mentre la bimba
bruna sembra
risplendere davanti al complimento fattole dalla donna, la piccola
bionda si
chiede quando si siano viste, quelle due, e quanto spesso si incontrino
senza
che lei lo sappia.
La
Zingara è seduta sul divano di
velluto giallo che sta in fondo alla stanza e con una mano fa segno
alle bambine
di avvicinarsi. Margherita si siede a terra con le gambe incrociate,
Agnese
esita un istante, poi sceglie la poltroncina ricoperta di stoffa rossa,
quella
con le gambe che sembrano serpenti. Ha fatto fatica, oggi, e adesso ha
voglia
di stare un po' comoda.
Allungando
una mano verso il
tavolino basso posto accanto il divano, la Signora Mursciù
sorride di nuovo. «Volete
del tè?» chiede, sollevando
un’ingombrante teiera smaltata di rosso. Agnese
annuisce subito, ancora prima di Margherita, entusiasta: le piace
tanto, il tè
della Zingara. Probabilmente perché ci mette talmente tanto
zucchero che il
gusto amarognolo delle foglie lasciate in infusione è a
malapena riconoscibile.
Muovendosi con la stessa eleganza dei gatti, la donna versa il
tè nelle tazze
che aveva preparato prima del loro arrivo, certa, evidentemente, che le
ragazzine non avrebbero rifiutato la sua offerta. Agnese osserva come
ipnotizzata il liquido ambrato e limpido cadere dal beccuccio della
teiera e
finire nella tazza, perdendosi oltre i suoi confini e sollevando una
nuvola di
vapore evanescente.
Quando
la Zingara finisce di
preparare il tè, Margherita si muove in silenzio e, senza
dire una parola,
passa una tazza ad Agnese, prendendo poi l’altra per
sé. La Zingara è tornata ad
adagiarsi contro lo schienale del divano e i suoi occhi scuri e caldi
seguono
pigramente i movimenti della bambina, ma Agnese, che la sta studiando
di
soppiatto, crede di vedere un’ombra di impazienza muoversi in
quei pozzi neri.
Improvvisamente le capita una cosa strana, una cosa che, forse, non le
era mai
successa, in passato: si sente a disagio.
Per una frazione di secondo, sente che vorrebbe scappare via, ma
percepisce
altrettanto chiaramente che farlo sarebbe maleducato. Quindi, resta e
non dice
niente.
«Sapete,
vi ho chiesto di venire
perché volevo che voi provaste questo
tè» diche la Zingara, mentre le bambine
accostano le tazze alle labbra. «È nuovo, me
l’ha mandato mio marito da Ginevra.
Il mese prossimo, lui sarà di ritorno: se vi piace, gli
chiederò di portarmene
una buona scorta.»
Ad
Agnese sembra un po’ strano,
che la Signora Mursciù le abbia fatte venire fin
lì solo per assaggiare un po’
di tè, ma, in fin dei conti, la Francesa a volte
è un po’ strana e quindi non è
il caso di sorprendersi. La bambina si rigira il liquido sulla lingua,
cercando
di trovare qualcosa di intelligente da dire. A lei sembra una tisana
come tutte
le altre. Forse un po’ più aspra. Forse
c’è un sentore di miele, sullo sfondo.
Forse c’è qualcosa che le ricorda i mandarini che,
qualche volta, mangia a
Natale.
La
Zingara le osserva
attentamente e lei si sente in dovere di compiacerla.
«È buono» le dice,
rivolgendole un piccolo sorriso.
«È
troppo aspro» dice, nello
stesso istante, Margherita. «Sa un po’ di
paglia.»
Di
fronte a due reazioni così
diverse, la Zingara scoppia a ridere, un suono profondo, che ha il
sapore della
terra e del fuoco. «Quindi cosa devo fare?» chiede,
con un sorriso che le fa
risplendere gli occhi come se fossero diamanti neri. «Devo
farmene portare un
po’ o credete che non ne valga la pena?»
Le
bambine si guardano un po'
imbarazzate e non sanno cosa rispondere. La donna però agita
una mano come per
dire che la cosa non è così importante e poi si
fa seria. «In verità», dice,
«vi ho chiesto di venire a trovarmi anche per un altro
motivo.»
Mentre
la Zingara pronuncia
quelle parole, Agnese sente un rumore ventre dalla stanza con la porta
bianca -
quella che non è mai stata invitata a superare - e si rende
conto che in casa
c'è anche qualcun altro. Per un qualche motivo che non sa
spiegarsi, la cosa le
provoca un dolorino inquieto all'altezza dello stomaco. Con la coda
dell'occhio, sbircia Margherita e nota che anche l'amica sembra un po'
allarmata, gli occhioni azzurri spalancati e guardinghi.
«Ho
ricevuto la visita di un
amico», continua la Signora Mursciù,
«che mi ha portato delle notizie
preoccupanti. Ecco, vorrei presentarvelo.»
Come
se stesse aspettando di
venire nominato per lasciare il suo nascondiglio e raggiungerle nella
stanza
dei divani, un uomo fa il suo ingresso nel salotto. È
estremamente alto,
imponente, e la sua pelle è nera come quella dei personaggi
che Agnese vede
sulle pagine del Corriere dei Piccoli
che a volte le regala lo zio Luigi, o come quella dei bambini africani
sulla
copertina di certi suoi quaderni di scuola. La bimba pensa che faccia
impressione e, senza nemmeno accorgersene, si accartoccia un pochino
sulla
poltrona, stringendo tra le mani la tazza ancora fumante.
Margherita
raccoglie le gambe
sotto di sé in una postura da vera signorina e lancia allo
sconosciuto
un'occhiata che ha quasi il sapore della sfida, ma quello si limita a
risponderle con un sorriso gentile. Poi si siede sul divano da parte
alla
Zingara che, accanto al suo corpo massiccio, sembra quasi una bambina.
«Non
avete motivo di temerlo»
dice la donna, accorgendosi del turbamento delle ragazzine.
«Come vi dicevo, è
un amico.»
Agnese
lo guarda di sottecchi e
pensa che, comunque, lei non ha voglia di dargli confidenza. Si sente
timida,
un sentimento che non le è famigliare: l'hanno definita
sfacciata, maleducata, selvatica,
ma mai timida.
La
Zingara e l'uomo nero si
scambiano uno sguardo da persone adulte e poi la Francesa riprende a
parlare.
«Vi ricordate di quella volta in cui vi ho raccontato del
motivo per cui mio
marito e io abbiamo dovuto lasciare la Francia?»
Le
bambine annuiscono. Se lo
ricordano bene, perché era una storia molto triste e
ingiusta: i Signori
Mursciù vivevano da molto tempo in un paese bellissimo,
perso tra il mare e i
campi di lavanda (che, aveva spiegato la Zingara, era un fiore molto
profumato), avevano una casa di pietre bianche e molti amici con cui
ridere e
festeggiare nelle sere d’estate. Un giorno, però,
erano arrivati degli uomini
malvagi, gelosi della felicità e delle ricchezze che i
Signori Mursciù avevano
raccolto nel corso della loro vita. Siccome all’epoca il
Signor Mursciù aveva
già perso il suo braccio destro, non era stato in grado di
lottare contro di
loro e per salvarsi lui e la moglie avevano dovuto scappare lontano, in
un
posto talmente sperduto che quegli uomini cattivi non avevano
più saputo dove
cercarli. Nella fuga, però, avevano dovuto abbandonare gran
parte dei loro
beni, e tutti i loro amici. Poi era arrivata la guerra, che aveva
confuso e
spezzato e spazzato via le cose. La Zingara aveva spiegato che era
soltanto
grazie alla posizione del marito, che conosceva tanta gente importante,
che lei
poteva continuare a vivere lì senza avere noie di alcun
tipo. Agnese non aveva
capito bene a cosa si stesse riferendo, ma quelle parole le avevano
comunque
messo addosso una gran tristezza.
La
donna resta in silenzio per
qualche attimo, come se stesse cercando le parole più giuste
per spiegare
quello che ha in testa. «Non ne siamo certi, ma è
possibile che uno degli
uomini che mi hanno costretta a scappare dal mio paese sia arrivato da
queste
parti.»
Seduta
sul tappeto, Margherita
trasalisce. «Ti hanno trovata?» chiede, nella voce
una preoccupazione che
stupisce Agnese.
«Non
l’hanno trovata» dice l’uomo
dalla pelle scura. Non c’è traccia di accento
straniero, nelle sue parole, come
se l’italiano fosse la lingua che ha parlato sin da bambino,
come se l’accento
altalenante delle valli gli fosse del tutto naturale.
«Però è possibile che
siano arrivati fino a qui, in un modo o nell’altro. Ed
è per questo che vi
chiediamo di stare attente.»
«A
cosa dobbiamo stare attente?»
chiede ancora Margherita, rubando le parole di bocca ad Agnese.
La
Zingara sospira. «Voglio che
veniate a dirmelo, se degli uomini che non conoscete cercano di
avvicinarvi e
di parlarvi. Questo è un paese piccolo, sono certa che
conoscete tutte le
persone che vi abitano: se dovesse capitarvi di vedere dei forestieri
di cui
non avete mai sentito parlare, fate attenzione e venite subito da
me.»
Agnese
vorrebbe dire che la sua è
una richiesta un po’ bizzarra, perché è
vero che il loro è un paesino piccolo
piccolo, ma è altrettanto vero che è proprio
sulla via per la Svizzera, che è
solo là, oltre alla curva della valle. Ne gira tanta, di
gente strana, da
quelle parti. Soldati, finanzieri, guardie di frontiera che non sono
sempre le
stesse. Prima che la bambina possa esternare le sue
perplessità, la Signora
Mursciù si sporge un po’ verso di lei e verso
Margherita. «Avete ancora quella
boccetta che vi ho dato lo scorso anno?»
Margherita
prende subito tra le
dita la catenina che porta al collo, quella a cui è appeso
un medaglione
dorato. È uno di quei medaglioni a cerniera e Agnese sa che,
lì dentro,
dovrebbe esserci la foto della sorellina dell’amica, morta
prima ancora di
raggiungere l’anno di vita. All’interno del piccolo
scrigno, però, non c’è
nessuna foto sbiadita, ma solo una minuscola fiala di cristallo che
contiene
poche gocce di liquido scarlatto. Margherita la mostra brevemente sul
palmo
aperto, poi la richiude nel piccolo scrigno d’oro.
Nel
vederla, la Zingara annuisce
soddisfatta. «E tu?» chiede, rivolta ad Agnese.
La
bambina bionda china il capo,
mentre le guance le bruciano un poco per la vergogna. «Io ce
l’ho a casa»
confessa. «Non me la porto mica dietro: io non ce
l’ho, un medaglione come
quello, e ho paura di perderla o di romperla.»
Lo
straniero dalla pelle nera
lascia il divano e si accuccia davanti a lei, portando i suoi luminosi
occhi
scuri allo stesso livello di quelli verdi e freddi della bimba.
«È importante
che tu l’abbia sempre con te, Agnese» spiega, con
voce paziente. La piccola fa
appena in tempo a stupirsi del fatto che sappia il suo nome, che
l’uomo pesca
dalla tasca del panciotto un fazzoletto di quella che sembra seta
cruda. Con gesti
rapidi e precisi, piega e ripiega il tessuto grigio-argento e, in un
men che
non si dica, tra le mani tiene un medaglione in tutto e per tutto
simile a
quello di Margherita, colore a parte. «Ecco» dice,
porgendolo alla piccola
bionda. «Non ho un cordoncino da darti, ma quello puoi
procurartelo da sola. Un
normale pezzo di corda andrà benissimo: questo non
è il tipo di ciondolo che si
stacca e si perde facilmente.»
Agnese
lo prende, trattiene il
fiato, lo soppesa tra le mani. Non la stupisce tanto il fatto che
l’uomo abbia
preso un lembo di stoffa e l’abbia tramutato in metallo,
quanto piuttosto che
abbia deciso di farle un dono tanto prezioso.
«Grazie» le scappa detto.
Margherita,
che ha seguito
affascinata l’intero processo, guarda la Zingara.
«Ma c’è qualcuno che potrebbe
volerci fare del male?» chiede, aggrottando le sopracciglia
scure.
La
donna scuote la testa. «È improbabile,
ma crediamo che sia meglio essere prudenti.»
Nell’udire
quelle parole, Agnese
storce appena un po’ la bocca. Lei si fida, della Zingara, ed
è abbastanza
convinta che, se lei dice che non c’è nulla da
temere, allora è proprio così. La
bambina stringe nel palmo il medaglione che le è appena
stato donato, poi lo
lascia scivolare nella tasca che la mamma le ha cucito
all’interno del
vestitino. Però, per essere sicura che davvero non ci siano
pericoli, andrà a trovare
la Bestia che vive nel Böch
dal Seerp. Sa un sacco di cose,
lei, anche più di quante
non ne
sappia la Zingara, e di certo sarà capace di scacciare tutte
le sue
preoccupazioni. L’importante è portarle qualcosa
di buono in cambio, così che
si senta più generosa e abbia più voglia di
chiacchierare un po’ con lei.
Mentre
è assorta in quei
pensieri, Agnese si rende conto che l’uomo dalla pelle scura
– che nel
frattempo è tornato a sedersi accanto alla Signora
Mursciù – la sta fissando da
un po’ troppo tempo. La bambina si sottrae al suo sguardo, si
nasconde dietro
la tazza rossa e, con un paio di sorsate decise, la svuota del suo
contenuto. L’ultimo
sorso è amaro e polveroso e la bambina si trova a
sputacchiare un po’ di foglie
tritate che le sono rimaste appiccicate alla lingua.
«Avete
finito il tè?» chiede
allora la Zingara. Quando le bambine annuiscono – alla fine,
anche Margherita
ha bevuto ciò che le era stato offerto – la donna
ritira le tazze. Prende per
prima quella di Margherita, la fa ruotare, l’inclina, ci
guarda dentro e poi
sorride. Poi fa lo stesso con quella di Agnese. Un giro, due giri, una
leggera
inclinazione e un colpetto laterale. Alla fine, osserva il fondo anche
della
seconda tazza.
Solo
che, quando lo fa, non
sorride affatto.
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Capitolo 6 *** 5. Broken Flag ***
Oggi
Weaving
tho the eyes are pale,
what
will rend will also mend.
The
sifting cloth is binding,
and
the dream she weaves will never end.
For
we're marching toward Algiers.
La
voce di Alessandra era densa,
pastosa, riempiva il locale con le sue note graffiate e un
po’ roche. Le veniva
bene, cantare Patty Smith. Stringendo distrattamente tra le mani un
bicchiere
di birra scadente, Caterina osservava la sua amica muoversi
morbidamente sul
palco.
Questa ragazza è assolutamente
camaleontica, pensò, sollevando
appena un angolo della bocca in un sorriso sarcastico. Nella vita di
tutti i
giorni, Alessandra era estremamente curata, amava le camicie ben
stirate, il
trucco poco appariscente ed era solita domare i suoi selvaggi ricci
scuri
stringendoli in uno chignon dal quale non sfuggiva una singola ciocca.
Eppure,
quando si arrampicava – anche solo metaforicamente
– su un palco e vestiva i panni
della cantante rock, subiva una trasformazione piuttosto sconcertante.
Gli abiti
neri dall’aria vissuta, che con ogni probabilità
conservava in una sezione dell’armadio
a loro appositamente dedicata, prendevano il posto di quelli
più leggeri e
variopinti che portava durante il giorno, il suo trucco si faceva
più pesante e
drammatico e i suoi capelli venivano lasciati liberi di muoversi
liberamente.
Sono abbastanza certa che si alleni di nascosto,
giudicò Caterina,
notando come Alessandra si gettava dietro le spalle la cascata di
riccioli con
un gesto armonioso della testa, facendoli atterrare elegantemente sulla
propria
schiena.
Le
luci del Dream, come sempre viola e
come sempre pulsanti, disegnavano delle
ombre strane sui quattro ragazzi ammassati sul palchetto che i gestori
del
locale avevano allestito per loro. Il volto di Alessandra sembrava
esotico, le
labbra gonfie e scure, mentre Samuele, che suonava il basso e che in
passato aveva
tentato qualche sfortunato approccio con Caterina, sembrava quasi bello.
«Bravi,
bravi» commentò la
ragazza sulle note finali di Broken Flag.
Matteo, appollaiato su uno sgabello di fianco a lei,
manifestò il proprio
entusiasmo in maniera più vigorosa, battendo
entusiasticamente le mani e
urlando il nome della propria fidanzata nel tentativo di sovrastare il
brusio
che riempiva il locale e le prime note della canzone successiva.
Discretamente,
Caterina mosse un
paio di passetti laterali verso sinistra, mettendo qualche decina di
centimetri
in più tra se stessa e l’individuo urlante che, in
ogni caso, non aveva occhi che
per Alessandra. Lanciando un’occhiata veloce verso il palco
per assicurarsi che
l’attenzione dell’amica fosse diretta altrove, la
giovane pescò il proprio
cellulare dalla borsa e fece scorrere lo sguardo sullo schermo
desolatamente
vuoto.
Michael
non le aveva scritto. Era
passata più di una settimana dal loro incontro fortuito
nella biblioteca dell’università
e, nonostante le promesse, il ragazzo non si era fatto più
vivo. Ma si sa che le promesse lasciano un
po’ il
tempo che trovano, si consolò Caterina. Anch’io
mi ero ripromessa di non mettere mai più piede in questo
postaccio, eppure,
eccomi qui.
Non
è che ci fosse rimasta male
per il fatto che Michael le avesse estorto il numero di cellulare e che
poi avesse
pensato bene di non usarlo. La questione era molto più
prosaica: lei ci aveva
creduto, quando lui le aveva detto che le avrebbe prestato la sua
dispensa di
marketing. Quell’aiuto inaspettato le aveva infuso nuove
speranze circa il superamento
dell’odiato esame, e adesso… adesso
sono
di nuovo al punto di partenza. Porca vacca. Se almeno non mi avesse
detto
niente, non mi sarei illusa inutilmente. ‘Sto cretino.
Senza
riuscire a reprimere un sospiro
afflitto, la giovane si appoggiò al bancone bianco e lucido
che occupava il
centro del locale, evitando per un soffio di abbattere con una gomitata
un
calice vuoto che qualcuno aveva abbandonato lì e che i
camerieri non avevano
ancora fatto in tempo a ritirare.
«Tutto
bene, Cate?»
Matteo
stava prendendo un po’ più
di confidenza, notò la ragazza. Si erano visti in un altro
paio di occasioni,
dalla sera in cui Alessandra l’aveva portata al Dream per la prima volta, e quello che
sulle prime le era sembrato
un ragazzo silenzioso e non troppo sveglio stava dando prova di una
vivacità
insospettabile. Parlava tanto, esattamente come Alessandra, e a volte
Caterina
si chiedeva come potessero andare d’accordo due persone che
facevano fatica a
restare in silenzio per più di cinque minuti di fila.
«Sì,
è tutto a posto» abbozzò.
«È
solo che questo posto non mi piace un gran ché.»
Matteo
sorrise. Aveva un bel
sorriso, allegro e sincero come quello di un bambino. Si abbinava
stranamente
bene con il suo marcato accento emiliano. «Questo
l’avevo capito già l’ultima
volta che siamo stati qui. Magari possiamo chiedere ad Alessandra di
trovare un’altra
location per i suoi concerti?»
Caterina
si strinse nelle spalle.
«Immagino che si possa fare, ma questo posto le garantisce
sicuramente più
visibilità rispetto alle bettole che frequentiamo di solito.
Temo che l’Ale si
sia un po’ stancata di suonare per quattro metallari che si
improvvisano
critici musicali e per marmocchi quindicenni che pensano solo a
riempirsi di
birra fino a rotolare…»
Matteo
sogghignò. «A me sono
simpatici, i metallari criticoni.»
La
giovane fece per rispondere,
ma venne distratta da una vibrazione proveniente dalla sua borsa. Colta
come da
un presentimento, Caterina afferrò di nuovo il cellulare e
constatò che,
proprio come aveva creduto, sul display compariva una notifica di
WhatsApp. Aprendo
l’applicazione, vide che il messaggio le era stato inviato da
un numero che non
conosceva. Se l’immagine del profilo non le era di alcun
aiuto per capire chi
fosse il mittente – vi era ritratto semplicemente un panorama
lacustre – il testo
la faceva ben sperare: “Possiamo
vederci lunedì
mattina?” recitava infatti il messaggio riportato
nel riquadro bianco.
“Chi sei?”
digitò rapidamente, prima di infilare il cellulare nella
tasca posteriore dei jeans. Sapeva di poter ragionevolmente sperare che
fosse
stato Michael, a scriverle, ma voleva evitare di fare figuracce. Però, diciamocelo: non è che
mi capiti proprio
tutti i giorni, di ricevere richieste di appuntamento da numeri
sconosciuti.
Un
minuto più tardi, il telefono
vibrò nuovamente. “Ah,
ti sei già
dimenticata di me? Credevo che ci tenessi, a mettere le mani sulla mia
dispensa…”
Caterina
si concesse un sorriso. “Se tu mi
avessi lasciato il tuo numero, non
avrei avuto questi dubbi.” Una volta che ebbe
inviato il messaggio, si
morse nervosamente il labbro inferiore, rileggendo ciò che
aveva appena
scritto. Sembra che stia flirtando? Si
chiese, con una certa apprensione. Non
voglio flirtare! Non voglio che pensi che lo sto facendo!
Nel
tentativo di correggere il
tiro – ovviamente Michael
aveva già
letto il messaggio, rendendo inutile ogni tentativo di farlo sparire
– la ragazza
scrisse ancora. “Comunque
lunedì va bene.
Facciamo alle nove in Piazza Vecchia, che poi ho un appuntamento con
un’amica? Quanto
ti devo, per la dispensa?”
Ecco, buttala sui soldi, si
complimentò con se stessa.
Dal
momento che la risposta di
Michael tardava ad arrivare, Caterina si sistemò nuovamente
il cellulare in tasca
e, appropriatasi di uno sgabello, tornò a osservare
l’esibizione di Alessandra e
del suo gruppo. Abbandonata Patty Smith, la ragazza era passata ai
Metallica,
cimentandosi nell’ennesima cover di Nothing
Else Matters.
Tutte cose allegre, questa sera,
pensò la giovane, trovandosi
improvvisamente a desiderare qualcosa di meno malinconico. Malgrado
facesse del
proprio meglio per concentrarsi sull’esibizione
dell’amica, la sua mano correva
a intervalli regolari alla tasca dei jeans, estraendo il cellulare quel
tanto
che bastava per lanciare un’occhiata allo schermo, nel caso
la vibrazione dei
bassi le avesse fatto perdere quella che segnalava l’arrivo
di un nuovo
messaggio.
Incrociando
le braccia davanti al
petto, Matteo si voltò per osservarla meglio.
«Stai aspettando un messaggio
importante?» le chiese, con un sorriso che era solo un
po’ malizioso.
Malgrado
la domanda del ragazzo
non fosse altro che una provocazione innocente, Caterina si
sentì comunque
arrossire e fu grata alle luci viola che mascheravano
l’improvviso colorito che
sicuramente le aveva macchiato le guance pallide. «Ma no, sto
solo aspettando
che un tizio mi faccia sapere se va bene che ci incontriamo
lunedì mattina.»
Matteo
inarcò comicamente le
sopracciglia scure. «Appuntamento galante?»
La
giovane sbuffò. «Come no. Deve
vendermi una dispensa. È l’ennesimo tentativo che
faccio per superare quel
cazzo di esame di marketing.»
Dopo
qualche minuto, il cellulare
prese a vibrare e Caterina vide che non si trattava di un messaggio.
«Scusa, mi
sta chiamando» disse balzando in piedi e guardandosi
rapidamente attorno.
Anziché risponderle via WhatsApp, Michael aveva avuto la
brillante idea di telefonarle,
senza sapere che, tra chiacchiericcio e musica alta, lei non sarebbe
stata in
grado di sentire una parola.
Portandosi
il telefono all’orecchio
e avviandosi a grandi passi verso la porta d’ingresso, la
ragazza provò comunque
a rispondere. «Pronto?» chiese, cercando di
avvicinare quanto più possibile l’oggetto
al proprio orecchio. «Pronto, mi senti?»
La
giovane udì delle parole vaghe
e assolutamente indistinguibili giungere dall’apparecchio e
sbuffò, frustrata.
«Un attimo!» urlò, cercando di
sovrastare il frastuono. «Aspetta che esco, che
non sento niente!»
Schivando
la maggior parte degli
avventori accalcati davanti all’ingresso e spintonandone
qualcuno, Caterina riuscì
a guadagnare l’uscita. «Eccomi»
esalò, quando si fu allontanata a sufficienza.
«Scusami, ero all’interno del Dream
e
non sentivo un accidente.»
Dall’altra
parte della cornetta
le giunse la risata di Michael, calda e avvolgente, e lo stomaco le si
contrasse in un brivido deliziato. Oh,
per l’amor di Dio! Si rimproverò la
giovane, obbligandosi a ignorare quelle
reazioni istintive che la facevano sentire un’adolescente in
piena crisi
ormonale.
«Scusa,
non avevo proprio pensato
che tu potessi avere degli impegni per il sabato sera»
spiegò il ragazzo, con l’eco
della risata ancora nella voce.
Caterina
sedette sullo stesso
muretto su cui si era seduta due settimane prima e aggrottò
la fronte,
chiedendosi come dovesse interpretare l’affermazione
dell’uomo. «Perché? Ti do
l’idea di una che il sabato sera se ne sta in casa a fare la
calza?» chiese, un
po’ piccata.
«No,
no» si affrettò a rispondere
lui. «È solo che… è solo che
non ci avevo pensato, ecco. Se ci avessi pensato,
non ti avrei chiamata.»
La
ragazza sorrise, placata dalla
spiegazione di Michael. «In effetti, sarebbe stato meglio se
mi avessi scritto.
Sono qui perché c’è una mia amica che
sta suonando con il suo gruppo e… be’, se
si accorge che non sono più sotto al palco ad applaudirla,
mi toglie di sicuro il
saluto per due o tre settimane.»
«Non
sia mai!» ridacchiò l’uomo.
«Allora
ti lascio subito rientrare.»
«Perché
mi hai chiamata?» lo
interrogò lei, chiedendosi perché non si fosse
limitato a confermarle l’appuntamento
via messaggio.
Michael
esitò per qualche istante
e, in quel silenzio, Caterina udì un vago rumore di
sottofondo, fruscii e forse
passi. Si chiese se l’uomo fosse solo, ma poi si disse che
non aveva il minimo
diritto di interessarsi degli affari suoi. «Non sono un
grande amante dei
messaggi» ammise, poi. «Preferisco di gran lunga
telefonare: quando ci si
parla, ci si capisce subito meglio e si risparmia anche un sacco di
tempo.»
«Mh»
annuì Caterina, senza
prendersi il disturbo di spiegare che lei era sempre un po’ a
disagio, quando
parlava al telefono. «Allora ti va bene se ci incontriamo
lunedì mattina alle
nove?» chiese, riportando la conversazione sul suo binario
iniziale.
«Va
bene» confermò Michael, prima
di aggiungere: «Senti, ma a che ora ti devi incontrare con la
tua amica?»
«Verso
le nove e mezza… non ho un
orario preciso, dobbiamo solo trovarci per studiare insieme»
rispose la giovane.
«Perché? Preferisci fare un po’
più tardi?»
Il
ragazzo esitò ancora qualche
secondo. «Più che altro, volevo chiederti se ti
andrebbe di fare colazione
insieme.»
«Ah…»
Caterina
si mordicchiò le labbra.
Non faceva mica colazione alle nove, lei: mangiava almeno
un’ora e mezza prima,
prima di uscire di casa e correre in stazione per prendere al volo il
treno che
l’avrebbe portata a Bergamo. Inoltre, non era del tutto
sicura che fosse una
buona idea dare tanta confidenza a Michael: l’ultima volta
che l’aveva incontrato,
si era dimostrato gentile, educato e disponibile, ma non riusciva a
togliersi
dalla mente il loro primo incontro, quello in cui lui era ubriaco e
l’aveva
cercata in modo insistente, spaventandola anche un po’.
Ma
aveva davvero una buona scusa
per rifiutare? Non voleva rischiare di offenderlo e, soprattutto, non
voleva
lasciarsi condizionare dalle proprie paranoie. Le aveva chiesto di fare
colazione nella piazza più affollata di Città
Alta, non di partire per un
week-end insieme.
«Va
bene» concesse, allora. «Però
facciamo una cosa veloce, perché Halima –
l’amica con cui mi devo incontrare –
non è esattamente famosa per la sua pazienza e per il suo
carattere accomodante.»
«Perché
la cosa non mi stupisce?»
chiese Michael, ridendo.
Caterina
sgranò gli occhi,
oltraggiata. «Cosa vuoi dire?» chiese, senza
riuscire a trattenere a sua volta
una risatina. «Che cosa staresti insinuando?»
«Ci
vediamo lunedì, Cate» rise
ancora Michael, prima di riagganciare senza nemmeno darle il tempo di
ribattere.
“Cate”,
pensò la ragazza. L’aveva chiamata
“Cate”, esattamente come
facevano i suoi amici e i suoi genitori. Per qualche motivo, quel
particolare
la fece sorridere. Alzandosi in piedi e dirigendosi lentamente verso
l’ingresso
del Dream, la giovane
soppesò pensosamente
il cellulare. Aveva fatto bene ad accettare l’invito
dell’uomo.
Ma sì, si disse, colpendo
l’aria con una mano come per scacciare
fisicamente i dubbi che ancora affollavano la sua mente. Alla
fine, è solo un gesto di cortesia: non mi ha nemmeno detto
se e
quanto vuole essere pagato. Magari me la presta soltanto, quella
dispensa, e in
cambio non vuole un centesimo.
Sentendosi
stranamente leggera e
di buon umore, Caterina raggiunse la porta d’ingresso e nel
farlo passo di fronte
a Hasim, il buttafuori, che le rivolse un cenno di saluto e un sorriso.
«Ciao»
fece lei, ricambiando il
suo sorriso.
Lui
la squadrò con i suoi occhi
scuri e poi spinse il proprio sguardo più in là,
oltre le spalle della ragazza
e verso la porta che lei aveva appena varcato, come se stesse cercando
qualcuno. «Te ne vai ancora in giro da sola?» le
chiese, con solo una punta di
rimprovero nella voce.
Lei
aggrottò la fronte, stupita
da quel commento, e poi si avvicinò un po’ di
più all’uomo, spostandosi con lui
verso un punto in cui la folla era meno fitta e dove avrebbero potuto
parlare
senza dover necessariamente urlare. «Come?» chiese,
invitandolo ad elaborare
quanto aveva appena detto.
Lui
inclinò il capo verso destra,
come se volesse inquadrarla meglio, e quel movimento attirò
l’attenzione della
ragazza sul suo collo possente. Il colletto della camicia nera della
divisa,
appena di qualche tonalità più scura della pelle
dell’uomo, era in parte
sollevato, e la giovane dovette reprimere l’impulso di
allungare una mano e
sistemarglielo.
Dopo
qualche istante, Hasim
sorrise ancora, ma a Caterina parve un sorriso un po’ meno
sincero del primo. «L’ultima
volta che sei andata a fare un giro
nel parcheggio da sola, hai rischiato di metterti nei guai per colpa di
quell’idiota
che aveva bevuto troppo. Non è un posto sicuro, quello: non
ci sono luci e ci
gira gente strana.»
Sentendosi
come una bambina ripresa
dal padre – o dal fratello maggiore – Caterina
chinò il capo, un po’ a disagio.
Accorgendosi del turbamento della giovane, l’uomo le
sfiorò una spalla con una
mano. «So che sei abituata al tuo paesino piccolo, dove tutti
sono amici di
tutti» la stuzzicò. «Però
devi capire che il mondo vero
funziona un po’ diversamente.»
«Il
mio paese ha quasi quindicimila
abitanti ed è sicuramente più grande di quello da
dove vieni tu» ribatté lei
con un mezzo sorriso, reclinando il capo all’indietro per
incontrare gli occhi
dell’uomo.
Hasim
si mostrò sorpreso.
«Intendi Dalmine?»
La
ragazza scoppiò a ridere. «Sì,
proprio quello.» Per qualche strano motivo, l’uomo
sembrava sempre restio a
parlare delle proprie origini e della strada che l’aveva
portato in Italia, in
un paesotto sospeso tra la Brianza e la provincia bergamasca, e
Caterina
sentiva di non essere abbastanza in confidenza con lui per provare a
insistere
un po’ di più. Del resto, la vicenda la
incuriosiva, ma non era certo in cima ai
suoi pensieri.
Lentamente,
l’ombra del sorriso
si spense sul volto dell’uomo e lui tornò a
guardarla più seriamente. Sentendo che
era tempo di lasciarlo libero di tornare a dedicarsi al lavoro per cui
era pagato,
la giovane si strinse nelle spalle. «No, comunque non hai
motivo di
preoccuparti: questa volta non sono andata a farmi una passeggiata nel
parcheggio. Ero semplicemente al telefono con…» Con l’idiota di cui sopra,
concluse mentalmente, prima di decidere
che, forse, non era il caso di rivelare a Hasim che si era mantenuta in
contatto con il tizio del parcheggio. «… con un
tipo che mi deve vendere un
libro per l’università. Sono dovuta uscire
perché, con il casino che c’è qui
dentro, non riuscivo a sentire nemmeno una parola.»
Hasim
la guardò con gli occhi
leggermente socchiusi. «Hm-hm» fece, senza
distogliere lo sguardo.
Inconsciamente,
Caterina arretrò
di un passo. Cosa voleva dire “hm-hm”?
Se non fosse stato impossibile, avrebbe giurato che l’uomo
avesse annusato la
mezza bugia che gli aveva appena rifilato. Sentendosi tutto
d’un tratto
desiderosa di concludere in fretta quella conversazione, la ragazza
allungò
platealmente il collo verso il palchetto sul quale Alessandra stava
ancora cantando.
«Va beh, adesso vado, che non vorrei che l’Ale si
accorgesse che sono uscita e
ci rimanesse male.»
L’uomo
parve sul punto di dire
qualcosa, ma poi fece un cenno d’assenso con il capo.
«Va bene», concesse, «vai
pure. Ci vediamo in giro.»
Caterina
sorrise e gli rivolse un
vago cenno di saluto con una mano. Si era allontanata solo di qualche
passo, quando
la voce del buttafuori la raggiunse di nuovo. «… e
stai attenta.»
La
ragazza sgranò gli occhi e,
rallentando il passo, si voltò per guardarlo al di sopra
della propria spalla
sinistra. Hasim, però, si era già disinteressato
a lei ed era occupato a
parlare con un paio di ragazzi apparentemente appena entrati.
Cosa voleva dire con quel “stai
attenta”? Si chiese spaesata. Se il
contesto fosse stato diverso, avrebbe potuto interpretare quelle parole
come un
avvertimento, una minaccia. Ma conosco
Hasim, è una brava persona, ragionò,
cercando di allontanare quel pensiero
assurdo. Ma lo conosceva davvero? Cosa sapeva di lui? Prima che venisse
in suo
soccorso due settimane prima, non sapeva praticamente nulla a proposito
di quell’uomo,
che era per lei solo uno dei tanti amici di Alessandra con il quale
aveva
scambiato solo qualche parola casuale.
E se non era una minaccia, allora era una
raccomandazione. Ma che tipo
di raccomandazione? Un qualcosa con il quale l’uomo le
chiedeva di non fare sciocchezze
in generale, oppure Hasim la stava
mettendo in guardia contro qualcuno? Contro
Michael, per esempio? Le suggerì il suo inconscio.
Oh, che idiozia! Perché mai
avrebbe dovuto sospettare che lei e il
ragazzo si fossero ancora incontrati e avessero in programma di
incontrarsi di
nuovo in futuro? Perché gli sarebbe dovuto interessare, in
ogni caso? Di malavoglia,
Caterina dovette riconoscere che, se si stava facendo tante paranoie su
una
frase che Hasim aveva verosimilmente buttato lì senza
neppure pensarci, era
perché, con ogni probabilità, era lei la prima a
non essere del tutto convinta
dell’affidabilità di Michael e delle sue buone
intenzioni.
Immersa
in quei pensieri, la
ragazza tornò nel punto in cui aveva lasciato Matteo, ma,
riappropriandosi
della birra ormai calda, ignorò lo sguardo interrogativo che
il ragazzo le
stava rivolgendo. Portandosi il bicchiere alla bocca, la giovane
cercò di
concentrarsi sulla voce di Alessandra, ma tutto quello che riusciva a
sentire
erano le parole di Hasim, che si ripetevano nella sua mente come in
un’eco
infinita.
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Capitolo 7 *** 6. La Scatola dei Tesori ***
Negli Anni Novanta
Caterina
si appoggia al tavolo
con gli avambracci e osserva in religioso silenzio Margherita che versa
nei
vasetti di vetro la densa marmellata di sambuco. Quasi quasi trattiene
anche il
fiato. Non perché lo trovi uno spettacolo entusiasmante, ma
perché la
vecchietta ha la mano che trema e le serve tutta la concentrazione
possibile
per evitare che il fluido viscoso finisca sul tavolo,
impiastricciandolo tutto.
Ha
un caratteraccio, Margherita.
La sua bocca non è mai veramente ferma, mastica e borbotta e
ansima e, se
Caterina e gli altri bambini non filano dritti, da quelle labbra escono
anche delle
sgridate con i fiocchi. La maggior parte dei ragazzini che
d’estate affollano
San Giorgio ha paura di lei, alcuni di loro la considerano addirittura
una strega, ma Caterina sa che,
sotto sotto,
non è così cattiva come sembra. La conosce bene,
lei, perché sono vicine di
casa e spesso la mamma la spedisce lì quando, di pomeriggio,
è troppo occupata
per vigilare sulla figlia mentre questa svolge per la prima volta nella
sua
vita i compiti delle vacanze.
Era
una maestra, una volta,
Margherita: è stata la maestra anche della mamma. Caterina
pensa che è per
questo che è un po’ severa: anche se non lavora
più da tantissimi anni, il
mestiere dell’insegnante dev’esserle rimasto
appiccicato addosso. La bambina se
la immagina quasi: se la vede lì, davanti alla lavagna nera,
mentre righe
ordinate di ragazzini con il grembiule la fissano attenti.
Probabilmente aveva
già la sottana nera che indossa anche adesso. È
quasi certa che avesse sempre a
portata di mano una bacchetta per picchiare le mani degli alunni
più
indisciplinati (come lo zio Carlo, che saltava fuori dalla finestra e
faceva
disegni osceni sulla lavagna).
Solo,
non riesce proprio a immaginarsela giovane: probabilmente è
sempre stata così,
una donna vecchia, alta, massiccia, con penetranti occhi azzurri e
capelli
bianchissimi raccolti in un’esile crocchia spettinata.
«Va’
a prendere le etichette
adesive.»
L’ordine
di Margherita la fa
trasalire e Caterina si accorge di essersi persa nei propri pensieri.
Ubbidiente, raggiunge la credenza, si arrampica sullo sgabello e
afferra la
busta contenente i foglietti pretagliati che serviranno per etichettare
i
vasetti di marmellata. Mentre è in piedi sullo sgabello di
legno, la bambina
guarda per un istante fuori dalla finestra e respira qualche boccata di
aria che
sa di sole e di ortiche. È il profumo della
libertà ed è in netto contrasto con
l’odore che si respira all’interno della casa di
Margherita. La mamma dice che
c’è puzza di chiuso, lì dentro, e che
la vecchietta dovrebbe chiedere a
qualcuno di darle una mano con le faccende domestiche, ma la bimba non
è del
tutto d’accordo. Quella che sente lei non è
davvero puzza, ma qualcosa che sa
di vecchiaia, solitudine e di brutti
pensieri: è un odore che, sulle prime, le fa sempre venire
voglia di girare sui
sandaletti di gomma e scappare via.
Tuttavia,
anche questa volta fa
un respiro profondo e poi balza a terra, facendo emettere alla suola
dei
sandali blu un lamento stridulo. «Vieni qui», le
ingiunge Margherita, «e scrivi
sopra ogni etichetta “sambuco”.
Bello
chiaro, mi raccomando, che poi non riesco a leggere.»
Caterina
torna alla sua
postazione accanto al tavolo e poi occhieggia in direzione del
portapenne che vi
è posato nel mezzo, a mo’ di centrotavola.
«Posso usare la penna viola?»
chiede, fremendo dalla voglia di allungare la mano e di afferrare
quella
particolare penna che la vecchietta le impedisce di usare per compilare
il
libro dei compiti delle vacanze.
«Usa
poi quella che ti pare»
borbotta Margherita. «L’importante è che
scrivi bene.»
Annuendo
solennemente, la bambina
si sistema su una delle scomode sedie di paglia e impugna la penna,
sforzandosi
di tenere le dita così come vuole la donna che la osserva
con occhio critico. Lentamente,
inizia a vergare le lettere con la concentrazione che solo chi ha
imparato a
scrivere da meno di un anno può avere e, dopo dieci minuti,
posa la penna sul
tavolo, soddisfatta. «Ecco fatto!» proclama fiera,
reclinando leggermente il
capo per ammirare meglio il proprio lavoro. «Vanno bene,
così?»
Margherita
si porta alle spalle
della bambina e poi legge, con un filo di voce: «Sanbuco». Per un istante
osserva le palline che la piccola ha
disegnato sul margine di ogni etichetta – rappresentazione,
nelle sue
intenzioni, dei frutti che hanno dato origine alla marmellata
– e poi annuisce.
«Vanno benissimo» la rassicura, con un mezzo
sorriso smarrito.
Caterina
incrocia le braccia
davanti a sé e alza il visino lentigginoso verso quello di
Margherita, segnato
dalle rughe. «Adesso posso guardare i cartoni?»
Eccolo,
uno dei vantaggi di passare
qualche pomeriggio a casa della vecchietta: anche se è
pignola quando si tratta
di fare i compiti, le lascia una certa libertà su tutto il
resto. La cosa più
importante è che le permette di guardare quei cartoni
animati giapponesi che a
Caterina piacciono tanto e che la mamma definisce
“stupidate”, facendola
sentire terribilmente in colpa ogni volta che accende la vecchia
televisione
nascosta nell’armadio per seguire le avventure dei suoi eroi
preferiti. Anche
Margherita sbuffa e scrolla il capo davanti alle avventure di quegli
strani
eroi variopinti, ma almeno non commenta.
«Prima
fai merenda, che è ancora
presto, per i cartoni» la frena però la
vecchietta. «Mettiti sul divano, che ti
ho preparato il frullato.»
Caterina
freme d’impazienza, ma
fa comunque come le è stato chiesto: del resto,
all’orologio non si comanda e
lei ha iniziato a capire che il tempo passa più velocemente,
quando ci si
distrae un po’. Mentre aspetta che Margherita le porti il
bicchiere con il
frullato, la bambina osserva la foto sbiadita posta di fianco al
televisore
spento. Ogni volta che se la trova davanti, non può fare a
meno di studiarla
per qualche minuto. Non sa cosa l’affascini tanto della
persona ritratta: forse
è il fatto che non c’è più,
oppure è perché ha lo stesso nome della mamma.
Quella è “l’Altra Elena”,
così definita per distinguerla dalla madre di
Caterina, che si chiama anche lei Elena ed è anche lei
bionda, esattamente come
la ragazza ritratta.
È
quasi una creatura mitologica, l’Altra
Elena. La bambina sa poco di lei; le hanno solo detto che era una
ragazza che
Margherita conosceva quando era più giovane e che
è morta in un incidente
stradale. Anche la mamma la conosceva e Caterina ha notato che, quando
parla di
lei, fa sempre una faccia strana: una volta le ha raccontato che era
una
persona che aveva tanti problemi.
Quasi
senza rendersene conto, la
bambina si alza e raggiunge il mobile della televisione. Allunga la
manina
verso la foto racchiusa nella cornice di metallo lavorato e segue con
la punta
delle dita i tratti del viso della giovane, il naso diritto, le labbra
curvate
in un sorriso un po’ triste, i boccoli chiari che le ricadono
sulla fronte.
Quando sente i passi pesanti di Margherita giungere dalla cucina, si
affretta a
tornare verso il divano. Sa che la vecchietta non vuole che tocchi
quella foto.
Forse ha paura che la faccia cadere e rompa il vetro che la protegge.
«Ecco
qui» annuncia la donna con
la sua voce raspante. Caterina si siede più compostamente e
la guarda
avvicinarsi strascicando i piedi avvolti nelle pantofole morbide: il
suo passo
è incerto e tremulo, ma dal bicchiere che regge tra le mani
non esce una sola
goccia. La bambina si dice che è perché il
frullato di pesca e banana che fa
Margherita è talmente denso che è difficile che
trabocchi: a volte pensa che le
converrebbe mangiarlo con un cucchiaino, piuttosto che cercare di
versarselo in
bocca come farebbe con qualsiasi altra bevanda.
Nonostante
quella non sia
esattamente la sua merenda preferita, la piccola ringrazia e si porta
alle
labbra il fluido dolce e viscoso. Solitamente, una volta che le ha
portato lo
spuntino, Margherita inizia a occuparsi di qualche piccola faccenda
domestica:
sguscia i fagioli, passa la scopa sotto il tavolo, attacca qualche
bottone.
Oggi, però, fa una cosa del tutto diversa: oggi apre
l’ultima anta del mobile
che si trova accanto alla porta del bagno, quella in basso a sinistra.
Quella
che è sempre chiusa a chiave. Ancora prima di vedere quello
che sta facendo,
Caterina sa che la donna sta prendendo la Scatola dei Tesori.
«Che
cosa fai?» chiede comunque,
dimenticandosi di colpo dei cartoni animati che inizieranno di
lì a poco.
Con
un gemito di dolore, la donna
raddrizza la schiena e si dirige verso il divano tenendo tra le mani
una
vecchia scatola di latta che in origine aveva contenuto dei
cioccolatini “Quality Street”.
Il tempo ne ha sbiadito
i colori e in alcuni punti la ruggine ha intaccato il metallo, ma la
bambina
riconosce il caratteristico motivo bianco e fucsia. Prendendo posto
accanto a
Caterina, Margherita solleva con qualche difficoltà il
coperchio metallico.
«Oggi lucido l’argenteria» spiega,
posando la scatola tra sé e la ragazzina.
«Voglio recuperare un po’ di catenine e di anelli
che ho lasciato qui dentro,
prima che diventino più neri del carbone.»
Caterina
annuisce, ma non è
interessata ai vecchi gioielli, lei. No: ciò che la attira
veramente sono tutti
gli altri oggetti strani e misteriosi che si trovano
all’interno di quella
scatola.
Accorgendosi
dell’attenzione
quasi maniacale della bimba, Margherita sospira. «Lo sai che
non devi toccare
niente, vero? Con quelle manacce che ti ritrovi mi rompi di sicuro
qualcosa!»
Caterina
fa del proprio meglio per
assumere un’espressione contrita. Glielo dice ogni volta, ma
poi,
immancabilmente, la lascia frugare quasi a proprio piacimento. Posando
il
frullato sul tavolino, la bambina punta un dito in direzione di una
pallina
gialla e rossa. Potrebbe sembrare una di quelle che si appendono
all’albero di
Natale, se non fosse che non ha nessun gancio che possa ancorarla ai
rami
dell’abete. È divisa in due metà
perfette di plastica semitrasparente e al suo
interno è possibile scorgere un minuscolo campanello dorato.
«Che cos’è,
quella?» chiede. La sua è una domanda superflua,
perché quella pallina l’ha già
vista diverse volte e Margherita le ha già spiegato la
provenienza di quello e
di altri oggetti che si trovano all’interno della scatola, ma
non fa niente:
non è la risposta a essere importante, quanto piuttosto il
racconto stesso.
È
come quando la zia Simona,
sorella della mamma, la convince a mangiare la cena più
velocemente recitandole
alcune fiabe di sua invenzione. Caterina lo sa benissimo, che alla fine
del racconto
l’anatroccolo ritroverà la mamma e il gigante
regalerà il suo tesoro
all’orfanella che l’ha curato, ma il modo in cui la
zia interpreta il racconto
la diverte sempre.
Margherita
alza gli occhi al
cielo e poi afferra la pallina con le dita rese nodose
dall’artrite. «Lo sai
benissimo, che cos’è. È una storia che
ti ho raccontato un sacco di volte.»
Caterina
le rivolge un sorriso
smagliante. «Me la racconti un’altra
volta?» supplica, consapevole che, in
realtà, alla vecchietta non dispiace raccontarle delle
vicende che la fanno
ripensare a quando era più giovane.
Scuotendo
il capo, la donna
solleva la pallina e la porta all’altezza degli occhi della
bambina. «Questa»,
dice, «viene da un circo che girava da queste parti
all’epoca in cui la tua mamma
aveva circa la tua età. C’era un orso, in quel
circo: era un animale strano,
perché, di solito, gli orsi hanno il pelo
marrone…»
«…
a meno che non siano orsi
bianchi!» la informa Caterina, che guarda spesso Super Quark ed
è quindi
informatissima su tutto ciò che riguarda il mondo animale.
Margherita
le rivolge un’occhiata
severa e la bimba si morde la lingua, sapendo che non avrebbe dovuto
interromperla. «Beh, quello non era un orso bianco»
sbotta la vecchietta.
«Quello era un normale orso bruno, solo che il suo pelo era
biondo come i
capelli di un bambino. Era una delle attrazioni principali del circo e
durante
il suo numero faceva un giro di pista camminando sulle zampe posteriori
e
tenendo questa pallina in equilibrio sul naso.»
Interrompendosi brevemente, la
donna agita la mano facendo tintinnare il sonaglio
all’interno della sferetta
di plastica. «Tra gli spettatori girava la storia che questa
cosa portasse
fortuna. Era una storia messa in giro dalle persone del giro non so
più per
quale motivo: dicevano che tenesse alla larga gli spiriti
maligni.»
«Ma
funziona davvero?» chiede
Caterina, affascinata da quella storia come la prima volta che
l’aveva sentita.
Margherita
si stringe nelle
spalle. «E chi lo sa. Da quando me l’hanno
regalata, non ho incontrato nemmeno
uno spirito maligno, quindi può darsi che funzioni
veramente.»
La
bambina annuisce: la risposta
le pare soddisfacente. Distogliendo l’attenzione dalla
pallina rossa e gialla,
allunga una mano e con la punta delle dita pesca la statuetta di un
cavallino. È
una bestiola tozza, dai lineamenti grossolani scolpiti frettolosamente
nel
legno chiaro. Un tempo doveva essere ricoperto da una pittura bianca,
perché, a
tratti, il colore affiora ancora sulla groppa insellata, sul ventre
protetto
dalle zampe, sulla gola. «Questo da dove viene?»
chiede, sollevando il
cavallino nella parodia di un salto esagerato e facendolo poi atterrare
morbidamente sullo schienale del divano. Mentre attende la risposta di
Margherita, fa oscillare la statuetta, mimando quello che immagina
essere un
galoppo.
La
vecchietta fa come per toccare
a sua volta il cavallino, ma poi raccoglie le mani in grembo. Caterina
sbircia
la sua faccia e, per un attimo, i suoi occhi le sembrano tristi.
«Quello è il
regalo che una mia amica mi ha portato tanto tempo fa»
spiega. «Viene dalla Francia,
da un posto che si chiama Saintes-Maries-de-la-Mer.»
Il
nome non le è famigliare,
anche se lei in Francia ci va tutti gli anni, in vacanza al mare con la
mamma e
con il papà. «Che posto è?»
chiede. «Un posto da gente ricca?»
Non sa perché, ma le sembra il nome di un posto
chic, uno di quei posti pieni di
villoni
e di macchine di lusso.
«Non
lo so» risponde Margherita.
«Non ci sono mai stata, ma non credo. È un posto
pieno di paludi e di campi di
lavanda. Lo sai che cos’è, vero, la
lavanda?»
La
bambina annuisce. «Certo, che
lo so!» conferma con un certo orgoglio. «Ce
l’abbiamo anche noi, nella casa in
città. La mamma la tiene in giardino.»
Mentre
chiacchierano, Margherita
toglie sistematicamente gli oggetti dalla scatola di latta e li sistema
in due
pile accanto a sé: da una parte i gioielli che intende
lucidare, dall’altra tutto
il resto. Ben presto, il fondo metallico viene alla luce e, con esso,
una
coppia di oggetti che fanno brillare di interesse gli occhi della
bambina. «Posso
vedere le chiavi?» chiede Caterina, quasi trattenendo il
fiato.
La
vecchietta le rivolge uno
sguardo severo. «Va bene, ma stai attenta a non farle cadere:
non sono
giocattoli, queste.»
Con
estrema cura, Margherita
consegna alla bimba una coppia di chiavi antiche. Non misurano
più di cinque
centimetri l’una, ma le mani di Caterina sono piccole e, per
precauzione, la bambina
se le appoggia immediatamente sulle gambe nude, lasciate scoperte dai
pantaloncini sdruciti. Mentre ne percorre le curve con la punta
dell’indice, pensa
che le piacciono tanto, quelle due chiavi. Forse perché sono
troppo strane per
poter veramente aprire qualche serratura. Sono perfettamente identiche
nella
forma – sembrano la versione rimpicciolita di una di quelle
chiavi pesanti che
servono per aprire e chiudere le porte delle stalle – ma la
prima è fatta di una
pietra così nera che pare inghiottire ogni singolo bagliore
o riflesso, mentre
la seconda, di un arancione intenso, sembrerebbe quasi di plastica
trasparente,
se non fosse per le mille scintille iridescenti che risplendono al suo
interno.
Sono unite da un nastrino di velluto rosso un po’
spelacchiato, il nodo che lo
chiude talmente stretto che, ormai, se qualcuno volesse dividere le due
chiavi,
sarebbe costretto a tagliare il legaccio.
«Ma
lo sai, a che cosa servono?»
chiede la bimba, dopo qualche minuto di contemplazione silenziosa.
Margherita
ha finito di pescare i
gioielli dalla scatola dei cioccolatini e adesso vi sta risistemando
dentro
tutto quello che ne ha estratto, la pallina e il cavallino e tutti gli
altri
oggetti che Caterina non ha fatto in tempo a esaminare da vicino.
Osserva con
occhio critico una catenina che il tempo ha annerito e annodato e poi
sposta lo
sguardo sulla bambina. «Ad aprire delle porte»
risponde.
Caterina
aggrotta la fronte. Quella
risposta tanto scontata le sembra sbagliata: lo sa bene, che le chiavi
servono
in generale ad aprire le porte, ma quelle? Quelle sembrano
più ciondoli o
soprammobili. Sembrano tanto fragili e la bambina è quasi
sicura che si
spezzerebbero, se venissero veramente inserite in una serratura.
«Quali porte?»
insiste, allora.
Margherita
le rivolge uno dei
suoi rari sorrisi. «Non me lo ricordo», dice,
«o forse non l’ho mai saputo. Però
le chiavi le tengo lo stesso: se un giorno dovessi trovarmi davanti a
una porta
chiusa, potrei provare ad aprirla con una di queste. O magari potresti
farlo tu
quando, tra qualche anno, io sarò morta.»
«Non
morirai tra qualche anno» la
contraddice la bambina a mezza voce. Non riesce a metterci troppa
convinzione,
in quelle parole, perché Margherita è davvero vecchia e non potrà vivere in
eterno.
«Eh,
car Signur!» sospira la
donna. «Da vecchi si muore, nini.
Meglio da vecchi che da giovani.»
Caterina
la guarda senza sapere
cosa dire. Non le interessa parlare della morte: sente che è
un argomento che
non la riguarda, qualcosa di lontano e confuso. Parlarne la mette a
disagio: Margherita
se ne accorge e cambia rapidamente argomento. «Se fai la
brava e fai bene i
compiti, te ne lascio in eredità una.»
La
bambina sgrana gli occhi. «Una
delle chiavi?»
La
vecchietta annuisce. «Sì. Quale
preferiresti?»
La
piccola esita. Vorrebbe dire
che è indifferente, che le piacciono entrambe, ma poi pensa
che quella
arancione ha un colore più bello e che brilla come se avesse
il fuoco dentro. Fa
per rispondere che vuole quella, ma, mentre le osserva ancora una volta
entrambe,
il suo sguardo cade sulla chiave più a sinistra, quella
nera. La pietra liscia è
più scura della notte e altrettanto impenetrabile. La
bambina fissa quel nero e
vi si perde dentro: per un istante infinito, le pare di fissare
un’acqua cupa e
profonda, quieta e antica. La vede oscillare, arricciarsi in
increspature
infinitesimali, e vede l’ombra che vi striscia sotto, che si
contrae e guizza,
una forma che ha in sé mille forme diverse.
«Voglio
questa» dice, e la sua
mano si chiude con decisione sulla chiave nera. Non appena le sue dita
sporche
di inchiostro viola si sono serrate sulla pietra fredda,
però, la mano ruvida
di Margherita vi cala sopra e, con gentile fermezza, le schiude.
Vedendosi
sottrarre il proprio
bottino, la bambina le lancia uno sguardo tradito, ma la vecchietta le
rivolge
un sorriso che, questa volta, sa un po’ di presa in giro.
«Ho detto che te la
do quando sarò sottoterra e quando avrai imparato a fare i
compiti senza
sbirciare sulla pagina delle soluzioni.»
Caterina
è tentata di farsi
venire gli occhi lucidi di lacrime e di sporgere un po’ il
labbro inferiore
nell’imitazione di un pianto incipiente, ma poi si trattiene.
Non è più una
bambina piccola e, comunque, con Margherita quelle sceneggiate non
funzionano.
«Ok» si arrende, lasciandosi ricadere contro lo
schienale del divano. La donna
la guarda come se volesse dire ancora qualcosa, ma la bambina pensa
che, se non
può avere subito quella chiave che l’affascina
tanto, allora tanto vale
cambiare argomento. Decisa a chiudere la questione, afferra il
telecomando e lo
punta verso il televisore. «Allora adesso posso guardare i
cartoni?»
Margherita
sembra colta di
sorpresa dal brusco cambio di rotta della conversazione, ma poi scrolla
la
testa e sospira. «Va bene, va bene, guardali: io vado a
cercare l’Argentil.» Così
dicendo, la vecchietta raccoglie la manciata di gioielli
d’argento che si è
depositata in grembo e, alzandosi dal divano con un gemito di fatica,
si dirige
un po’ barcollante verso il tavolo ancora ingombro di vasetti
di marmellata.
Accoccolata
sul divano, Caterina
si perde nel suo cartone animato e, almeno per il momento, si dimentica
di
tutto il resto.
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Capitolo 8 *** 7. La chiave d'ambra ***
Quasi cent’anni prima
Sta
salendo la nebbia. Margherita
spinge indietro la tendina e guarda la densa foschia bianca strisciare
lungo il
fianco ripido della montagna. Fa sempre così, quando piove
d’autunno: l’umidità
si condensa giù dove la valle è più
ampia e poi si compatta, unendosi fino a
formare una sorta di serpentone evanescente. È allora che
viene raccolta dal
vento del sud, che la sospinge verso la Svizzera e verso le rampe che
conducono
all’altopiano engadinese, ricco di laghi e di pascoli
rigogliosi. Lungo il suo
cammino, la striscia di nebbia incrocia inevitabilmente San Giorgio e
lì si
ferma per un bel po', perché le montagne si stringono
attorno al paese e
formano una barriera che il vento e la foschia faticano a superare.
La
casa della Zingara si trova in
una posizione sopraelevata rispetto a quelle che la circondano e questo
fa sì
che dalla sua finestra si goda di un'ottima vista sul lato destro della
valle.
Con un sospiro che appanna il vetro di fronte al suo viso, Margherita
osserva
la massa fumosa riempire il solco scavato dal fiume, avvolgere gli
alberi, le
rocce e le abitazioni grigiastre. Peccato. Ottobre è ormai
iniziato e bastano
un paio di giorni di pioggia per uccidere definitivamente l'estate e
sprofondare la terra in un autunno freddo e umido. Le sarebbe piaciuto
approfittare ancora un po' del sole tiepido di un settembre che
è stato
insolitamente mite.
Dopo
aver lanciato un'ultima
occhiata ai tetti ricoperti da solide lastre di granito rese lucide
dalla
sottile pioviggine, la bambina si allontana dalla finestra e si siede
sulla
poltroncina rossa che la Zingara di solito riserva a lei o ad Agnese.
Sistemandosi meglio la sottana attorno alle ginocchia, Margherita si
passa le
mani sulle braccia. Fa freddo, lì dentro.
L'umidità le morde le ossa, ma non
può fare nulla per scacciarla, perché il brutto
tempo è arrivato all'improvviso
e la Signora Mursciù non ha ancora chiesto a nessuno di
portarle su un po' di
legna per il camino.
Dopo
averla invitata in casa sua,
la Zingara è sparita dietro la porta bianca e non ne
è più riemersa. La sente
muoversi in quella che immagina essere la cucina, ma non ha il coraggio
di
andare a vedere che cosa sta facendo: i suoi genitori le hanno
insegnato le
buone maniere e sa che non è educato muoversi in casa degli
altri come se si fosse
nella propria abitazione. Però inizia ad annoiarsi. Le
piacerebbe che ci fosse
anche Agnese, lì con lei: in due, potrebbero scacciare
l’imbarazzo dell’attesa
chiacchierando un po’. La Francesa però non ha
invitato la ragazzina bionda, e
forse è per questo che Margherita si sente quegli strani
brividi nelle ossa.
Non
è la prima volta che la
Signora Mursciù decide di vederla senza chiamare anche la
loro comune amica e
la bambina prova dei sentimenti contrastanti in proposito. Se, da un
lato, quel
rapporto preferenziale con la Zingara la fa sentire speciale,
quasi importante, dall’altro Margherita non riesce a
scacciare i sensi di colpa che l’assalgono ogni volta che
Agnese non è lì con
loro. Se ci pensa, le sembra quasi di tradire l’amica, di
infrangere un patto
che nessuna delle due ha mai menzionato ad alta voce, ma che entrambe
sentono
di avere stretto con il cuore.
Che
poi, chissà perché la
Francesa a volte decide di non invitare Agnese? Margherita non riesce
proprio a
vederne il motivo. Talvolta pensa che sia tutto un trucco, quello della
Zingara: chi glielo assicura che la donna non veda di nascosto anche
l’altra
ragazzina? Forse la sta solo illudendo di essere speciale. Forse
riserva lo
stesso identico trattamento sia a lei che ad Agnese. L’idea
le accende già una
scintilla di gelosia nello stomaco.
Prima
che possa approfondire
ulteriormente quei pensieri, Margherita viene distratta
dall’arrivo della
padrona di casa. Di nuovo, come nell’occasione della sua
ultima visita, la donna
non è sola, ma è accompagnata dal suo amico dalla
pelle scura, quello che ha
preso un fazzoletto e l’ha trasformato in un medaglione.
Quando la vede, l’uomo
sorride mettendo in mostra due file di denti bianchi e perfetti, ma la
bambina
lo ignora: la sua attenzione è tutta concentrata
sull’altro uomo, quello
che sta un po’ indietro, alle spalle della
Zingara. L’ha visto una sola volta, ma non ha alcun dubbio
circa la sua
identità: è il Signor Mursciù.
E
Margherita non lo riconosce
solo perché non ha il braccio destro – quello che
un cane gigante gli ha
strappato via, lasciando solo l’aria a riempire la manica
della camicia – ma
anche e soprattutto per quel certo nonsoché che si porta
addosso. Il Signor
Mursciù brilla, esattamente come brilla la Zingara.
La
bambina si trova a fissarlo a
bocca aperta. Anche se è più basso del gigante
dalla pelle scura, anche se ha
le spalle più strette e non è altrettanto
imponente, Margherita trova che la
sua presenza assorba tutta l’aria della stanza. Ha la stessa
pelle ambrata
della moglie, ma il volto non è liscio come quello di lei:
no, è coperto da uno
strato di barba ispida e bruna che gli nasconde le guance, la gola e si
unisce
alla peluria che si intravede sul petto, lì dove la camicia
non è chiusa fino
all’ultimo bottone. Anche le nocche della mano sinistra sono
coperte da peli
scuri, e i suoi capelli sono scarmigliati, selvaggi, troppo lunghi per
essere i
capelli di un uomo.
Per
un attimo, la ragazzina pensa
che quello non è un cristiano come tutti gli altri, ma il Gigiatt, la creatura selvatica e solo
vagamente umana che, secondo il
maestro Silvano, vive nei boschi della Val Masino, al di là
delle montagne a
sud. Ma è soltanto un pensiero passeggero,
perché, nonostante l’aspetto
trasandato, il Signor Mursciù sembra risplendere di una luce
impalpabile: i
suoi occhi non sono gli occhi di una bestia o di un Omm
Selvadégh, ma sono pieni del bagliore di
un’alba senza tempo.
Margherita
non è sicura di cosa sia
quell’uomo, ma si sente
intimidita, più piccola della sua età. Lo
straniero dalla pelle nera le sembra
quasi rassicurante, adesso.
Senza
prendersi il disturbo di
fare le presentazioni, la Zingara la indica con un cenno del capo.
«Voilà la petite»
dice, e Margherita le
punta addosso gli occhi chiari, presa alla sprovvista da quella lingua
strana.
«Qu’en penses-tu? Elle te
plaît?»
Il
Signor Mursciù non dice
niente, ma fa segno di sì con il capo. Poi rivolge alla
bambina un sorriso
gentile a cui lei risponde con uno sguardo duro come il granito. Non
c’è niente
da sorridere. Scommette che l’italiano lo sa parlare
benissimo, quindi il fatto
che la Francesa si sia rivolta a lui in un’altra lingua non
le piace affatto.
Ha la sensazione che quei due – quei tre
– stiano tramando qualcosa alle sue spalle e la cosa le fa
ribollire lo stomaco
dalla rabbia.
«Che
cosa hai detto?» chiede
allora, rivolta alla Zingara.
«Nulla»
la tranquillizza la
donna. «Gli ho solo spiegato che sei una mia amica.»
Margherita
aggrotta la fronte,
sentendosi tradita da una bugia così palese. «Non
è vero» protesta. «Gli hai
chiesto qualcosa. L’ho sentito bene, che gli hai fatto una
domanda.»
La
Signora Mursciù sembra quasi
imbarazzata, ma l’uomo dalla pelle scura scoppia a ridere.
«È una bambina
intelligente» commenta, guardando la Zingara. La cosa sembra
divertirlo, ma almeno
ha parlato in italiano e Margherita lo trova subito un po’
più simpatico di
prima.
Lo
sguardo della Francesa si fa
più dolce. «Lo so» commenta in un soffio.
Il
Signor Mursciù borbotta ancora
qualcosa e la Zingara sospira un “oui”
che anche Margherita sa che vuole dire “sì”,
poi si avvicina al marito, gli posa le mani sulle spalle e lo bacia. La
bambina
sente il disgusto vibrarle nella gola e subito si volta a fissare il
camino
spento, perché a lei quella cosa
lì
fa schifo e comunque si vergogna da morire ad assistere a quelle
faccende da
grandi.
Lo
straniero dalla pelle nera
ridacchia ancora – forse trova divertente la reazione della
ragazzina – e poi
si avvicina alla coppia. «Dobbiamo andare» dice,
posando una mano sulla spalla
del Signor Mursciù. Anche se sembra dispiaciuto, lui si
allontana dalla moglie.
«Fais attention à toi,
chérie» le
sussurra, e Margherita si chiede se quello sia un addio. Di certo
è un
arrivederci che guarda lontano, ragiona la bambina, perché
il lavoro tiene il
Signor Mursciù via da casa per molto tempo e forse
passeranno parecchi mesi,
prima che la Zingara lo possa riabbracciare. È una sorte
comune a molte donne
del paese, quella: che sia per il lavoro, per la guerra o per il
desiderio di
cercare fortuna oltreoceano, gli uomini iniziano a scarseggiare,
lì da quelle
parti.
«A
presto, Margherita» la saluta
l’amico della Francesa, prima di dirigersi nuovamente verso
la porta bianca
dalla quale è comparso poco prima. Quando vede che il Signor
Mursciù lo segue,
la bambina aggrotta la fronte, confusa. Non avevano forse detto che
dovevano
andare? E allora perché non hanno preso le scale che
conducono al portone giù
al piano terra? È quella, l’uscita. Pochi istanti
più tardi, sente dei passi
sopra la propria testa e capisce che dev’esserci una seconda
rampa di scale:
invece che scendere, questa sale. E dove va? Si chiede Margherita.
Sopra di
loro ci sono soltanto il solaio e il tetto.
La
bambina lancia un’occhiata
curiosa alla Zingara. «Ma dove vanno?» chiede.
«Via»
sospira la donna, gli occhi
scuri un po’ meno luminosi del solito.
«Perché
non escono dalla porta?»
si informa Margherita, che è abituata alle stranezze, ma che
non riesce
comunque a capire perché i due uomini non abbiano preso la
via più comoda.
Per
tutta risposta, la Signora
Mursciù scrolla le spalle e cambia argomento.
«Parliamo del motivo per cui ti
ho fatta venire qui» dice, rianimandosi e pescando una
sottile chiave di ottone
dalla tasca dell’abito rosso che indossa quel giorno. Sotto
lo sguardo attento
della ragazzina, raggiunge l’antica cassettiera di mogano
posta accanto
all’ingresso e fa scattare la serratura del cassetto
inferiore. Con i gesti
rapidi e precisi di chi sa cosa sta cercando, vi fruga dentro per
qualche
istante, prende qualcosa e poi lo richiude.
Quando
la donna si siede di
fronte a lei, accomodandosi sul divano, Margherita fa del proprio
meglio per
mantenere un contegno educato e non cedere alla curiosità
che le imporrebbe di
sbirciare ciò che la Zingara ha in mano. Senza farsi
pregare, la Signora
Mursciù si posa sulle ginocchia un fagottino di cotone
azzurro. La stoffa,
ripiegata a mo’ di pacchetto, custodisce qualcosa di piccolo
e, per un attimo,
la bambina si chiede se si tratti di un gioiello, o magari di
un’altra fialetta
come quella che la donna aveva dato a lei e ad Agnese tempo prima.
Quando
la Zingara scioglie il
legaccio che tiene uniti i lembi del fazzoletto chiaro,
però, la bimba vede che
l’oggetto che la donna ha preso dal cassetto non è
altro che una seconda
chiave. «Voglio che questa la tieni tu» dice la
Francesca, porgendogliela.
Margherita
l’afferra con
circospezione. Nessuno le ha mai affidato una chiave, prima
d’ora. Quella che
tiene tra le mani in quel momento è piccola, apparentemente
delicata: più che
una porta, sembra adatta per aprire l’anta di un armadio. La
bambina lo solleva
per osservarla meglio: è fatta di un materiale trasparente e
la luce la
attraversa da parte a parte, riempiendola di innumerevoli riflessi
infuocati.
Margherita
ne saggia la
consistenza con un’unghia, poi si rivolge alla Zingara.
«Di cos’è fatta?» le
chiede.
La
donna le sorride. «È ambra» le
spiega. «È come la resina che trovi sugli abeti,
ma è molto più vecchia.»
Perplessa,
la bambina la stringe
un po’ più forte tra indice e pollice. La resina
che cola dagli abeti e dal
pruno che cresce davanti a casa sua è morbida, malleabile e
appiccicosa, mentre
quella di cui è fatta quella chiave è dura come
il vetro. Però non vuole
apparire sciocca, così cambia domanda. «Di
cos’è?» indaga.
«Vuoi
sapere che cosa apre?» si
accerta la Zingara, sporgendosi un pochino verso di lei. La ragazzina
annuisce,
abbassando lo sguardo sulla chiave, e la Signora Mursciù
allunga una mano fino
a coprire quella di Margherita, pelle color caramello, dalle ombre
dorate,
contro pelle d’alabastro, segnata da vene azzurrine.
«Questa chiave», annuncia,
con il tono basso con cui è solita raccontarle le storie
più bizzarre e
grandiose, «apre una porta molto antica. Non è un
posto adatto ai bambini,
quindi, almeno per adesso, non posso portarti a vederla, né
posso rivelarti
dove si trovi. Tra qualche anno, però, prometto che ti
condurrò lì e ti
racconterò tutto quello che c’è da
sapere a proposito di quella porta e di
quello che ci si trova al di là di essa.»
Quella
risposta, naturalmente,
non fa che stuzzicare ulteriormente la curiosità di
Margherita, che ora sente
di avere l’assoluta necessità di sapere qualcosa
di più a proposito della porta
che solo la chiave che ha tra le mani può aprire. Sente di
volerla toccare,
vuole impugnarne la maniglia, abbassarla e passare oltre
l’uscio.
Per
qualche secondo, la sfiora la
tentazione di insistere e provare a convincere la Zingara a portarla in
quel
posto misterioso, se non altro per dare una sbirciatina. Desiste
subito, però:
sa benissimo che quando la Signora Mursciù dice di no a una
cosa, non c’è verso
di farle cambiare idea. «Ma che tipo di porta
è?» chiede invece. «Serve per
entrare in una casa? O forse in un palazzo?» O
magari in un castello,
pensa la bambina con un fremito di eccitazione. Lei non l’ha
mai visto, un
castello vero, perché da quelle parti non ce
n’è nemmeno uno. Quelli che i
valligiani chiamano con deferenza castèi
non sono altro che palazzotti
di modeste dimensioni, mezzi diroccati e con solo qualche sparuta
torretta.
La
Francesa esita per un istante.
«No, direi che è… direi che
è piuttosto la porta di una recinzione che separa questa
nostra terra dalla terra di altre persone. Come un cancello che
delimita i
confini di un giardino o di un orto che non ci appartiene»
Margherita
annuisce in silenzio
per qualche istante con lo sguardo perso nel vuoto. La sua mente le
propone l’immagine
di un fazzoletto di terreno ombroso e verdeggiante, ricco di alberi
strani e di
fiori dal profumo vibrante. Le pare di vedere il terriccio scuro e
fertile, il
muschio spesso che cresce sui tronchi, il gioco sinuoso dei raggi
obliqui del
sole che si intrecciano con i rami. Forse ci sono dei pavoni che
zampettano tra
le felci, le sembra di scorgerne i riflessi bluastri delle code
magnifiche, e
tra le foglie più alte saltellano i merli indiani.
Può quasi annusare il
profumo del proibito e si chiede se quel cancello assomigli almeno un
po’ a
quelli che, in qualche occasione, lei e Agnese hanno scalato e
scavalcato per
introdursi in un campo non loro e rubare qualche mela o una manciata di
ciliegie.
«Prometti
di averne cura?»
La
voce della Zingara la distrae
dalle sue fantasticherie e Margherita annuisce senza nemmeno pensarci.
Guarda
la chiave per un secondo soltanto e poi cerca gli occhi neri della
Signora
Mursciù. «Va bene», promette,
«ma perché l’hai data a me?
Perché non puoi
tenerla tu?»
La
Francesa sorride e alla
bambina il suo sguardo sembra più dolce del solito.
«L’affido a te perché io
dovrò andare via per qualche tempo. Se qualcuno dovesse
averne bisogno in mia
assenza, potrà rivolgersi a te.»
Quella
notizia è inaspettata e
Margherita aggrotta la fronte, turbata. «Devi andare
via?» ripete, per
accertarsi di avere capito bene. «Perché? Dove
devi andare?» Nelle orecchie le
risuona all’improvviso ciò che la donna aveva
detto una delle ultime volte che
lei e Agnese le avevano fatto visita, quando aveva confessato che le
persone che
l’avevano costretta a fuggire dalla sua casa erano sulle sue
tracce. Che l’avessero
infine trovata, obbligandola a lasciare anche San Giorgio della Valle?
Intuendo
forse le sue preoccupazioni,
la Zingara posa una mano sul ginocchio della ragazzina. «Non
temere, non è
nulla di allarmante» la rassicura. «Tra poco
avrò una bambina e voglio che
nasca tra la mia gente. Non posso tornare in Francia, ma ho degli amici
in
Svizzera, vicino a Ginevra: andrò lì.»
Margherita
è sbalordita. Lo sguardo
le cade sulla pancia della donna, che le pare piatta come sempre: non
le sembra
proprio che ci sia una bambina, lì dentro. «Come
fai a sapere che sarà proprio
una femmina?» è la domanda migliore che le riesce
di fare.
La
Francesa si sfiora appena il
ventre con la punta delle dita. «L’ho
sognata» rivela. «Sarà una bambina,
sarà
piccola e bruna, con occhi buoni e capelli selvaggi. Si
chiamerà Flora e vedrà il
mare.»
Le
parole della donna sono talmente
sicure che a Margherita sembra quasi di vedersela davanti, quella
bambina che
ancora non esiste: se la immagina come una versione infantile della
Zingara,
piccola e minuta e con gli occhi neri.
«Passerà
qualche anno, prima che
potremo rivederci» continua la Signora Mursciù.
«Cambieranno tante cose, in
questi anni: la guerra finirà e tu crescerai, avrai altri
interessi e
conoscerai altre persone. Non dimenticarti mai di me, però,
e non dimenticarti
mai di questa chiave. Sii una buona custode e non cederla a nessuno che
non
abbia il diritto di averla.»
Una
fitta di apprensione attraversa
lo stomaco della piccola. «Ma come faccio a sapere se
qualcuno ha il diritto di
averla oppure no? Prima mi hai detto che qualcuno potrebbe averne
bisogno: come
faccio io a capire se chi me la chiede ne ha davvero bisogno o se,
invece, me
la vuole rubare e basta?»
La
Zingara le sorride di nuovo.
«Lo capirai da sola.»
Quella
risposta non piace alla
bambina, le sembra terribilmente insoddisfacente. «Ma
come?» insiste. «Spiegami
un po’ meglio come fare! Non voglio sbagliare!»
La
mano della donna sale ad accarezzarle
la guancia rotonda e morbida. «Non ti sbaglierai, Margherita.
Tu hai un dono
raro, anche se ancora non lo sai. Scoprirai anche questo, negli anni a
venire.»
La
bambina si stringe la chiave al
petto, sentendosi preda di una strana tristezza. Vorrebbe sapere molto
di più,
ma percepisce con estrema chiarezza che la Zingara non ha intenzione di
dirle
altro. Sembra quasi che la stia salutando, in effetti: è
come se le stesse
lasciando un ultimo dono, un’eredità che
dovrà gestire da sola per molto tempo.
Animata
da una flebile scintilla
di speranza, Margherita da voce al pensiero che le ha appena
attraversato la
testa. «E Agnese?» chiede.
«C’è una chiave anche per lei?»
Non
appena la sente fare il nome
di Agnese, la Signora Mursciù si rabbuia. «No. Per
lei non ho niente.»
La
bambina non riesce a dare un
nome all’ombra che ha scorto nel tono della Zingara, ma
avverte con chiarezza l’aria
della stanza farsi pesante e stringersi attorno a lei nello stesso modo
in cui
la nebbia, là fuori, si stringe attorno alle case di San
Giorgio.
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Capitolo 9 *** 8. La chiave nera ***
Quasi cent’anni
prima
Ha appena smesso di
piovere e l'aria è pregna di un'umidità densa e
persistente. A fine
ottobre, il sole non riesce più a scavalcare le creste delle
montagne e l'intero lato nord della valle è immerso in
un'ombra
perenne. Fa freddo, nel cuore del bosco, un freddo che penetra nelle
ossa e toglie la sensibilità alle dita delle mani e dei
piedi, ma
Agnese non vi bada.
Accoccolata su un masso
ricoperto di muschio smeraldino, la bambina non presta alcuna
attenzione alla macchia scura e bagnata che le si sta formando sul
retro dell'abito di lana, così come non si preoccupa di
liberare gli
scarponcini dallo strato di fango e di foglie morte che vi si
è
depositato sopra.
È interamente
concentrata sulla sottile chiave nera che tiene nel palmo della mano:
la gira e la rigira, osservandone la superficie perfettamente
uniforme, senza riflessi, senza scintillii, senza ombre, purissima
nella sua totale assenza di colore.
Non era stato facile
mostrarsi delusa quando, due settimane prima, Margherita le aveva
dato appuntamento in gran segreto alla fine della giornata scolastica
e le aveva mostrato il dono che aveva ricevuto dalla Zingara. Quando
aveva visto la piccola chiave arancione comparire dalla tasca del
grembiulino dell'amica, Agnese aveva sgranato gli occhi per la
sorpresa, ma aveva tenuto la bocca ben chiusa, simulando un silenzio
mortificato. La bambina mora era arrossita, mentre gliela mostrava
quasi di soppiatto. «Non so se faccio bene a
dirtelo», aveva
confessato tenendo lo sguardo basso, «però mi
sembra giusto così.»
In silenzio, Agnese aveva
lasciato che Margherita le raccontasse come la Zingara l'avesse
invitata a casa sua, l'avesse (forse) presentata a suo marito e le
avesse infine affidato quella chiave fatta di resina secca, facendole
promettere di custodirla con cura fino al suo ritorno.
«Perché,
sai, presto avrà una bambina e dovrà andare via
per un po'.»
«Non è giusto che a te
abbia dato quella chiave e me, invece, non abbia dato niente»
le
aveva fatto notare Agnese con un tono controllato, quasi da persona
adulta.
Margherita I'aveva
guardata con aria dispiaciuta. «Lo so» aveva
sospirato con una
vocina sottile sottile. «Non so perché abbia
deciso di fare così.»
Agnese aveva finto di
rifletterci per qualche istante, poi aveva scrollato le spalle.
«Va
be', non fa niente. È solo una chiave: non me ne faccio
niente, di
una chiave che non posso nemmeno usare.»
La ragazzina mora l'aveva
fissata per qualche secondo ancora, poi si era infilata in tasca la
chiave ambrata e aveva abbozzato un sorriso impacciato.
«Magari uno
di questi giorni chiamerà anche te e ti regalerà
qualcos'altro»
aveva suggerito, con l'aria di una che ci credeva davvero.
Agnese aveva reclinato
graziosamente il capo. «Magari sì» aveva
concordato con voce
leggera. L'aveva detto sorridendo, ma dietro la piega amichevole
delle sue labbra si nascondeva un'espressione di scherno. Margherita
pensava forse di poterla prendere in giro? Lo sapeva benissimo, che
la Zingara non l'avrebbe mai chiamata. Era esattamente come aveva
sempre sospettato: lei e Margherita si incontravano di nascosto, alle
sue spalle, escludendola da quella che le sembrava sempre
più
un'amicizia a due nella quale non c'era posto per lei.
Ma, proprio come aveva
appena detto alla bambina bruna, non faceva niente. Che si
incontrassero pure per bere il tè, la Zingara e Margherita,
che si
facessero promesse e si scambiassero regalini: lei aveva un'altra
amica, ben più speciale della Signora Mursciù, e
non aveva niente
da invidiare a nessuno.
E, caso strano, la sua
amica aveva giustappunto regalato anche a lei una chiave, qualche
giorno prima, ed era ancora più bella di quella che la
Zingara aveva
dato a Margherita.
Per ringraziarla di quel
dono, da allora Agnese va a trovarla ancora più spesso di
prima: è
per questo che oggi, appena la pioggia è cessata,
è corsa nel bosco
senza dire niente a nessuno e ha raggiunto il Böcc
dal Seerp.
Lei la stava aspettando:
non ha dovuto attirarla verso la superficie con piccoli doni
vegetali. Quando è comparsa dalla boscaglia, era
già lì che la
fissava con i suoi grandi occhi neri senza iride né pupilla.
Quegli
occhi non l'hanno lasciata neanche un istante, e anche adesso ce li
ha ancora addosso, mentre quella le spiega per l'ennesima volta
perché deve tenere nascosta la chiave, senza mai mostrarla a
nessuno, nemmeno a Margherita o alla Zingara.
Non parla con parole
umane, perché la sua lingua è biforcuta e la sua
bocca piena di
zanne affilate, ma i suoi pensieri sono suoni e onde di colore che
dalla sua mente arrivano direttamente a quella della bambina. Dietro
alle sue palpebre, essi si condensano in immagini, idee e sensazioni.
Agnese vede bestie fantastiche, draghi come quelli combattuti da quel
San Giorgio che da il nome al suo paese, cavalli più bianchi
della
neve, galli con la coda da serpente, leoni con la testa
d’aquila e
creature, piccole o immense, che nemmeno sa descrivere. Vede donne
vestite di ferro e di piume che reggono tra le mani picche affilate e
uomini immensi con corna ritorte e zoccoli di capra.
Sono solo lampi fugaci
che la bimba riesce a malapena ad afferrare, poi arriva
un’immagine
più chiara, più netta, che quella
le scaraventa in testa
come per imprimerla per bene nella sua memoria. La bambina vede una
porticina da niente, legno marcio incastrato sotto a un arco di
roccia come se fosse la porta di un crotto* poco
frequentato,
e davanti a essa scorge schiere di guerrieri splendenti dai visi di
ferro e di vetro. Non sa cosa siano, non sa cosa vogliano, ma avverte
che desidererebbero oltrepassare quella porta striminzita.
Dall’altra
parte, in un mondo più caldo e famigliare di quello che ha
visitato
sino a pochi istanti prima, Agnese vede delle fanciulle dalla pelle
bruna e dagli abiti sgargianti. Non fanno nulla, ma se ne stanno
immobili, con le schiene dritte come fusi, con gli occhi fissi sulla
porta e le mani tese verso di essa. Risplendono di una luce interna,
potente come se al posto del cuore avessero una palla di fuoco
pallido. La bimba pensa che hanno un qualcosa di famigliare, ma
così,
su due piedi, non riesce a definire meglio quella vaga sensazione.
Lei
la scuote con il pensiero e Agnese sente crescere in sé
qualcosa di
strano. È paura, ma anche rancore, invidia, rabbia e un
impeto di
ribellione che non aveva mai provato, prima di allora. È
un’ombra
amara che le riempie l’anima, lava bruciante; è
anche
soddisfazione e trionfo e non c’è nulla di
contraddittorio in
tutti quei sentimenti contrastanti. Agnese si spaventa e lo stomaco
le si contrae in preda alla nausea: perché sta provando
quelle cose?
Si chiede. Poi, all’improvviso, capisce che non sono emozione
sue,
comprende che lei le sta di nuovo mostrando
qualcosa. Sono
uomini, quelli che improvvisamente vede con gli occhi della mente,
uomini mortali (perché le altre creature che ha visto non
erano
affatto mortali, oh, no) come quelli che conosce anche lei. Solo che
non sono esattamente uguali a quelli che incrocia tutti i giorni per
le stradine di San Giorgio: c'è qualcosa di diverso in loro,
una
tendenza all'infinito che avverte, ma non sa spiegare, il desiderio
di innalzarsi al di sopra al mondo e al di sopra al tempo che lo
regola, l'esigenza di sfidare la natura e di vincerla.
«Chi sono?» chiede
Agnese, sentendosi turbata da quegli strani uomini. Non capisce
perché la creatura che vive nel lago le stia mostrando
quelle cose e
il fatto di non capire le causa un dolorino preoccupato all'altezza
dello stomaco.
Quella,
però, sembra non essere in grado di fornire delle
spiegazioni più
approfondite. Davanti alla domanda della ragazzina, si limita a
mostrarle di nuovo le stesse immagini che le ha mostrato pochi attimi
prima, come se si aspettasse che queste fossero sufficienti a fare
comprendere ad Agnese il messaggio che sta cercando di trasmetterle.
Solo che lei non riesce proprio ad afferrarlo, quel messaggio: con un
fremito di frustrazione, pensa che forse quella
non è abituata a trattare con i bambini. Del resto, da
quelle parti
non ne devono passare proprio tanti, e Agnese pensa che, prima che
lei capitasse lì per caso, doveva essere passato molto,
molto tempo
dall'ultima volta che qualcuno si era fermato a chiacchierare con la
creatura del lago.
E
allora cerca di spiegarsi meglio. «Mi dispiace,
ma proprio
non capisco che cosa mi vuoi dire» confessa, con il tono di
voce più
educato che le riesce di tirar fuori. «Non è che
potresti provare a
dire qualche parolina? Oppure potresti scrivere: se vuoi, la prossima
volta ti porto il mio pennino e un quaderno che non uso più.
Non ho
l'inchiostro, ma magari possiamo usare il fango?»
La sua mente è invasa da
una risposta negativa e, forse, anche da una punta di divertimento.
Agnese fissa la creatura che ha davanti agli occhi e si chiede se
è
davvero impossibile, per lei, parlare. Non per la prima volta, guarda
le zanne che le fuoriescono dalla mandibola e si chiede a cosa le
servano dei denti così affilati, se mangia solo ortiche e
borragine.
D'accordo, forse quella non è una bocca fatta per parlare la
lingua
degli uomini, ma che dire delle sue mani? Sono belle ed eleganti,
anche se del colore della pelle dei serpenti, e sono anche ornate da
bracciali di legno e liane. Forse potrebbe veramente scrivere.
È
chiaro che capisce l'italiano, quindi Agnese pensa che ci siano anche
buone possibilità che lo sappia riprodurre per iscritto.
Forse
dovrebbe dirle che non deve preoccuparsi di fare errori di
ortografia, perché ne fa tanti anche lei e quindi non si
formalizzerebbe di certo su un'acca mancata o su una doppia di
troppo.
Prima che possa farle
quella proposta, però, lei
le riversa in testa un'altra serie di immagini e di sensazioni:
chiave, segreto, nascondere, protezione. Agnese serra istintivamente
il piccolo pugno grassoccio attorno alla chiave. «Sì,
la
tengo nascosta» sospira. «Ho capito, non
c'è bisogno che tu me lo
ripeta un'altra volta.»
Nascondere,
nascondere.
Ripete la creatura.
Silenzio, segreto. E
poi: non come Margherita. Perché
lei
lo sa, che
Margherita ha tradito la promessa che aveva fatto alla Zingara e ha
mostrato la chiave ad Agnese. La bambina bionda non deve fare lo
stesso errore: quello è un segreto che si deve portare nella
tomba.
A meno che... Agnese
non sa nemmeno come fa a decifrarlo, quel pensiero, ma avverte che la
creatura le ha appena detto che esiste una condizione in grado di
spezzare il suo voto di segretezza.
«A
meno che... cosa?»
chiede,
perché sente che c'è qualcosa che è
rimasto in sospeso, capisce
che quella ha omesso
una parte fondamentale dell'informazione che ha cercato di
trasmetterle.
Poi. Futuro. Vedrai.
Non
vuole dire niente. Agnese non vuole indizi vaghi, ma istruzioni
sicure. «No» protesta. «Me lo devi dire
adesso, che cosa devo
fare, perché altrimenti rischio di sbagliare qualcosa e poi
tu ti
arrabbi.»
La
creatura del lago non le dà però la soddisfazione
di una risposta e
con un guizzo elegante si ripiega su se stessa, mostrando alla
bambina la schiena nuda e poi sprofondando nelle acque scure del Böcc
dal Seerp con
un guizzo della
sua lunga coda da serpe.
Vedrai,
è la parola che riecheggia nella mente di Agnese mentre
sulla
superficie della pozza d'acqua rimangono solo dei cerchi concentrici
che si fanno sempre meno pronunciati. Vedrai.
Lei
è sparita, lasciando dietro di sé solo un'umida
giornata autunnale.
Un po' infastidita dal modo in cui si è conclusa la
conversazione,
la bambina sbuffa rumorosamente e il fiato le si condensa davanti al
naso in una nuvoletta effimera. Inizia a fare freddo, il che
significa che è proprio ora di tornare a casa, prima che la
mamma si
indisponga per la sua assenza non giustificata.
Prima
di alzarsi in piedi, la ragazzina si rigira un altro po' la chiave
nella mano destra, mentre la sinistra corre a tastare la forma appena
accennata del medaglione donatole dallo strano amico della Zingara.
Lo porta sempre con sé, nascosto sotto il vestito e il
grembiulino.
Seduta davanti al Böcc dal Seerp, la
bambina si chiede se non sia forse il caso di disfarsene: ora che
quella le ha detto che
la chiave non la deve mostrare nemmeno alla Signora Mursciù,
Agnese
si chiede se la Zingara e l'uomo dalla pelle scura siano davvero suoi
amici come ha sempre pensato. E se, invece di proteggerla, la
spiasse? Però poi
pensa che da quando lo porta non le è successo nulla di male
– non
ha mai preso un brutto voto a scuola e la mamma non le ha tirato
nemmeno uno scapaccione – quindi almeno un po' deve
funzionare.
Rassettandosi
la sottana e facendo del proprio meglio per liberarla dalle foglie
secche, dal fango e dagli aloni verdognoli lasciati dal muschio, la
bambina prende una solenne decisione: terrà con
sé il medaglione,
ma terrà anche fede alla promessa che ha fatto alla creatura
del
lago. Nessuno saprà mai della chiave e dell'essere che
gliene ha
fatto dono. Mai. Quello sarà un segreto che la
accompagnerà per
tutto il resto della sua vita.
*
I “crotti” sono degli
anfratti naturali che si formano
all'interno di frane antichissime. Tra un masso e l'altro scorre
costantemente una corrente d'aria fredda (circa otto gradi)
proveniente dal centro della frana: in alcune zone della Lombardia
(la nostra storia si svolge in provincia di Sondrio) si sono ricavate
delle specie di cantine che sfruttano questa sorta di frigorifero
naturale per far stagionare vino, formaggi e salumi. Spesso
è
presente anche una sala o un tavolino esterno dove è
possibile
pasteggiare.
***
Capitolo breve, che,
in teoria, avrebbe dovuto essere la seconda metà di quello
precedente (postato secoli or sono). Però sarebbe venuto
troppo
lungo, quindi l'ho diviso.
|
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Capitolo 10 *** 9. Colazione in Città Alta ***
Oggi
Anche
se non erano ancora suonate le nove, la Piazza Vecchia era tutt'altro
che deserta. Tra coloro che ne calpestavano la pavimentazione di
mattoncini rossastri ancor prima che questa venisse illuminata dai
raggi del sole erano riconoscibili due particolari categorie umane: i
turisti e gli studenti sotto esame. I primi, incoraggiati da quella
che prometteva di essere una splendida giornata di maggio,
camminavano con piccoli passi incerti, con la guida stretta sotto il
braccio e il naso all'aria per ammirare gli archi del Palazzo della
Ragione e l'imponente Campanone. I secondi, invece, si muovevano in
gruppetti compatti, discorrendo con apparente disinvoltura degli
argomenti che avrebbero dovuto affrontare in sede di esame. Bastava
osservarli con un po' più di attenzione, però,
per scorgere la
tensione che irrigidiva i loro lineamenti e rendeva meccanici i loro
gesti.
Rannicchiata
sui gradini bianchi della biblioteca Angelo Mai, Caterina li
osservava con un misto di compassione e noia e, di tanto in tanto,
lanciava un'occhiata in direzione degli eleganti archi candidi che la
sovrastavano, accertandosi che nessuno dei piccioni che infestavano
la piazza avesse deciso di posarsi proprio sopra alla sua testa.
Da
che parte sarebbe arrivato Michael? Quando avevano deciso di
incontrarsi in Piazza Vecchia, non avevano concordato un luogo
preciso e ora la ragazza si sentiva percorsa da un sottile brivido di
inquietudine. È presto, si disse,
guardando rapidamente le
lancette dell'orologio che portava al polso sinistro. Non amava
arrivare in ritardo ed era dunque partita di buon'ora, prendendo un
treno che l'aveva fatta approdare alla stazione di Bergamo con
più
di settanta minuti di anticipo sull'orario stabilito per l'incontro.
Per evitare di sudare eccessivamente e di arrivare all'appuntamento
con un aspetto poco presentabile, aveva rinunciato ad arrampicarsi
fino alla Città Alta a piedi e aveva invece preso un
autobus: il
risultato di tanta premura era stata un'attesa snervante seduta sui
freddi gradini di pietra della biblioteca.
Però
sarebbe buona educazione non presentarsi all'ultimo minuto,
ragionò di nuovo la ragazza, sporgendosi per avere una
visuale
migliore della strada che costeggiava la piazza. La verità
era che
si sentiva nervosa. Il che è una grandissima
idiozia,
riconobbe, tormentando con due dita la leggera stoffa gialla del
vestito che indossava. Più i minuti passavano e
più cresceva in lei
il sospetto che Michael non si sarebbe presentato o che, se anche
fosse venuto, si sarebbe limitato a lasciarle la dispensa di
marketing, senza però accompagnarla a fare colazione.
Sarebbe
meglio così, no? Sbottò la parte della
sua mente che aborriva
il contatto umano e preferiva ritirarsi entro i confini noti e
rassicuranti della propria solitudine distaccata, dove tutto era
perfettamente controllabile e prevedibile. Se il ragazzo si fosse
limitato a consegnarle il materiale che le aveva promesso e poi si
fosse dileguato, le sarebbe stato risparmiato l'imbarazzo di una
conversazione piena di silenzi e frasi fatte davanti a un
caffè
troppo amaro. Del resto, lei nemmeno lo conosceva, Michael:
perché
le aveva chiesto di fare colazione insieme? Che cosa mai avevano da
dirsi?
Ma
è proprio questa, la cosa interessante! La
redarguì quella
parte del suo inconscio che invece ricordava perfettamente gli occhi
blu del ragazzo, le sue spalle larghe e i suoi capelli spettinati e
tremava d'emozione all'idea di rivederlo.
Con
lo sguardo perso nel vuoto, Caterina si permise di pensare per
qualche secondo a uno scenario in cui lei e Michael non erano
semplici conoscenti: a quell'invito inaspettato ne sarebbero seguiti
altri e poi, forse... Una ragazza con un'ingombrante borsa a tracolla
le transitò davanti a passo spedito e la giovane si
riscosse. Niente
idiozie adolescenziali!
Si
impose, scuotendo la testa come per liberarla da quei pensieri. Erano
finiti i tempi in cui si prendeva cotte ridicole – e quasi
mai
ricambiate – per qualsiasi umano di sesso maschile che le
sembrasse
anche solo vagamente gradevole alla vista. Malgrado fosse single da
più di due anni, non sentiva il bisogno di trovarsi un
ragazzo o
qualcuno con cui passare le serate: lei stava bene come stava. Era
una donna adulta e indipendente e non si sarebbe resa ridicola
davanti a un tizio belloccio, ma comunque potenzialmente poco
raccomandabile, fissandolo con gli occhi persi e un filo di bava alla
bocca.
Non
dimenticarti come ti ha trattata nel parcheggio del Dream!
Si impose. Forse poi si è pentito e
si è sempre mostrato
gentile e disponibile, ma quella sera era palesemente ubriaco marcio:
vogliamo davvero frequentare un personaggio del genere, Cate?
No,
naturalmente era troppo assennata per lasciarsi coinvolgere da
un'avventura simile. Avrebbe magari sperimentato un po', al massimo
avrebbe scambiato con lui due chiacchiere informali, ma poi l'avrebbe
ringraziato per l'aiuto che le aveva fornito e l'avrebbe gentilmente
espulso dalla propria vita. Era questo, quello che faceva con le
persone che non si inserivano alla perfezione nella sua comfort
zone. Era l'atteggiamento che le aveva permesso di arrivare
ai
venticinque anni senza grandi sobbalzi emotivi e di certo non
l'avrebbe abbandonato tanto facilmente.
Sempre
ammesso che Michael abbia la decenza di presentarsi: sono le nove e
cinque e lui ancora non si vede. Non si è nemmeno degnato di
mandarmi un messaggio per avvisarmi.
Per
ingannare il tempo, Caterina aprì Facebook
e diede
un'occhiata alle ultime notizie pubblicate da amici e parenti. Aveva
appena letto le prime righe di una filippica che una sua conoscente
aveva dedicato a Trenord e ai suoi perenni ritardi,
quando
avvertì una presenza davanti a sé.
«Disturbo?»
Sollevando
rapidamente lo sguardo dallo smartphone, la ragazza incontrò
gli
occhi chiari di Michael. «Oh, ciao» lo accolse con
un mezzo
sorriso, sperando che l'irritazione provata pochi istanti prima non
trapelasse dalla sua espressione. «No, figurati, stavo
solo... be',
ti stavo aspettando.»
Il
ragazzo la guardò con aria leggermente dispiaciuta.
«Sono in
ritardo, vero?» le chiese, estraendo il cellulare dalla tasca
dei
jeans e lanciando un'occhiata allo schermo. «Scusami, ho
fatto un
pezzo di strada a piedi e non mi sono accorto di quanto fosse tardi.
Sei qui da molto?»
Alzandosi
in piedi per trovarsi alla sua altezza – non era abituata a
guardare le persone da sotto in su e quella prospettiva le piaceva
poco – Caterina scosse il capo. «No, sono arrivata
giusto cinque
minuti fa» mentì. Diciamo
pure quaranta
minuti fa, si
corresse
mentalmente, ma poi riconobbe che non era corretto incolpare Michael
per il tempo che aveva perso. Non gliel'aveva certo chiesto lui, di
arrivare tanto presto.
«Oh,
meno male!» annuì sollevato il giovane, prima di
posare a terra la
tracolla di cuoio che portava in equilibrio su una spalla. Chinandosi
appena, pescò un voluminoso plico di fogli rilegati con una
grossa
spirale di plastica rossa. «Be',
allora:
ecco qui la dispensa che ti avevo promesso. Dacci un'occhiata con
calma e fammi sapere se ti sembra che sia abbastanza approfondita. Se
hai bisogno che ti spieghi qualche punto, non farti problemi a
domandare.»
Caterina
lo guardò, un po' in imbarazzo. «Ma no, non vorrei
approfittarne...» mormorò, prendendo la dispensa
dalle mani del
ragazzo.
Michael
scoppiò a ridere. «Ma che approfittarne! Non
prometto di essere
disponibile ventiquattr'ore al giorno, ma se non capisci qualcosa,
fammi un colpo di telefono o scrivimi su Whatsapp: non per
tirarmela, ma 'ste cose sono delle scemate, per me. So praticamente a
memoria tutto quello che c'è scritto lì
dentro.»
La
ragazza annuì riconoscente. «Ah, be', se le cose
stanno così,
allora potrei anche farci un pensierino.» E magari l'avrebbe
fatto
davvero, chissà: il tempo per preparare l'esame era poco e
ogni
aiuto era più che gradito.
Tra
di loro calò il silenzio e Caterina sostenne lo sguardo del
giovane
per qualche secondo, poi chinò il capo e mise mano alla
borsetta,
stringendosi nel contempo la dispensa al petto. «Quanto ti
devo?»
chiese, estraendo il malconcio portafoglio Eastpack
di cui non smetteva mai di vergognarsi, ma che era troppo pigra per
sostituire.
Michael
la guardò con gli occhi sgranati, poi scosse con vigore il
capo,
posando una mano su quella di lei e spingendola a rimettere via il
portafoglio. «Ma che, scherzi? Ho detto che te la presto, non
che te
la vendo!»
Caterina
storse le labbra, poco convinta. Non che le dispiacesse risparmiare
qualche euro, ma non voleva avere l'impressione di essere in debito
con lui. «Eh, ho capito, ma comunque...»
Il
ragazzo scosse di nuovo il capo, categorico. «Non voglio
nemmeno
sentirne parlare. Devo ricordarti com'è nata questa storia?
Devo
farmi perdonare per l'atteggiamento da stronzo che ho avuto quella
sera al Dream:
è davvero il minimo che posso fare. Ah, per tua
informazione:
continuo comunque a sentirmi in colpa.»
Davanti
a quella spiegazione, la giovane si strinse nelle spalle. «E
va
bene» si arrese. «Prometto che non ci
farò nemmeno una piega. E
starò attenta a non mangiarci sopra, ok?»
«Perfetto»
annuì Michael. «Magari evita anche bevande
corrosive o dal colore
scuro, quando la stai leggendo.»
Caterina
arricciò il naso, fingendosi offesa dalla sua precisazione.
«Farò
del mio meglio» lo rassicurò.
Lui
la guardò sorridendo, poi si voltò verso la
strada che si estendeva
alla sua sinistra, sempre più affollata di turisti e di
studenti.
«Sei ancora dell'idea di fare colazione insieme?»
indagò. «Perché
io non mangio niente da ieri sera e tra poco mi ritroverò
con una
voragine al posto dello stomaco.»
Consultando
di soppiatto il telefono, Caterina constatò che il ronzio
che aveva
avvertito poco prima era un messaggio inviatole da Halima. A
che ora pensi di arrivare?
Le aveva scritto la sua amica.
Ti
raggiungo tra una mezz'oretta,
digitò velocemente, prima di tornare a rivolgersi a Michael.
«Sì,
va bene» concesse. «Un caffè lo bevo
volentieri anch'io.»
***
Alla
fine non aveva affatto preso un caffè, ma uno schiumoso
cappuccino
spolverato di cacao e un poderoso cornetto alla crema. Sulle prime
era stata tentata di ordinare una più sobria brioche alla
marmellata
– o magari liscia – ma vedendo che Michael non si
era fatto
alcuna remora a farsi portare un krapfen, aveva subito corretto il
tiro.
La
mezz'ora che aveva preannunciato ad Halima era ampiamente trascorsa
e, all'ennesimo posticipo, la loro chat di WhatsApp
era stata avvolta da un silenzio che non preannunciava nulla di
buono. Penserà
che le abbia tirato un bidone,
pensò Caterina con una punta di apprensione. Sarà
offesa a morte!
La
verità era che quella colazione con Michael si stava
rivelando assai
più gradevole del previsto e lei non aveva alcuna fretta di
andarsene.
Notando
lo sguardo cupo che aveva appena lanciato allo schermo del cellulare,
il ragazzo si sporse verso di lei, posando i gomiti sul tavolino di
legno rovinato e un po' appiccicoso, «Adesso
ti lascio andare, altrimenti la tua amica mi ammazza.»
«Ma
no» lo tranquillizzò Caterina.
«C'è tempo.»
Il
ragazzo la fissò reclinando un poco il capo su una spalla.
«Sei
sicura?» insistette. «Non avevate mica un
appuntamento?»
La
giovane avvertì un lieve rossore solleticarle le guance.
«Sì, è
vero, ma non si tratta di nulla di troppo importante» ammise.
«Dobbiamo solo trovarci per studiare insieme. Anzi, per la
precisione, non studiamo nemmeno insieme nel vero
senso della
parola. A casa tendiamo a distrarci, quindi preferiamo trovarci
qui... però può benissimo iniziare senza di me,
dal momento che ci
occupiamo di cose diverse.»
«Niente
esame di marketing, per lei?» indagò Michael.
Caterina
storse le labbra, trovandole leggermente appiccicose per la colazione
appena consumata. «La
mia amica
l'ha già passato
l'anno scorso. L'ha fatto da frequentate, il che gliel'ha reso
decisamente più facile da superare.» Tirando un
colpetto con il
ginocchio alla tracolla contenente la dispensa del giovane, la
ragazza sorrise. «Comunque oggi non ho alcuna intenzione di
dedicarmi a quella roba lì: oggi intendo almeno imbastire il
secondo
capitolo della tesi. Conto di laurearmi a marzo e il tempo non
è poi
così tanto...»
Michael
si lasciò sfuggire un sibilo divertito. «Punti di
vista: a me nove
o dieci mesi non sembrano poi così pochi.»
Lei
si strinse nelle spalle. «Dipende da un sacco di fattori.
Innanzitutto, io ho come relatrice la Boschi, che è brava e
buona,
ma è anche una rompicoglioni di proporzioni epiche
– e scusa il
francesismo» borbottò. «Ho perso il
conto di quante volte mi ha
fatto riscrivere porzioni del primo capitolo, e si trattava solo di
roba teorica, dove non c'era proprio niente da inventarsi. Tremo al
pensiero di quello che potrebbe dirmi a proposito dei capitoli
successivi!»
Il
ragazzo le lanciò uno sguardo incuriosito.
«Boschi, hai detto? Mai
sentita nominare. Cosa insegna?»
«Filologia
germanica» scandì Caterina.
Michael
corrugò la fronte. «Eh?»
«E
pure linguistica germanica»
precisò lei. «È tipo lo studio
della storia delle lingue germaniche, del modo in cui si sono
differenziate da quelle romanze e come si sono evolute
dall'indoeuropeo e... be', roba del genere. Io, però, ho
deciso di
presentare una traduzione.»
«Una
traduzione dal tedesco?»
Caterina
scosse la testa. «Non esattamente. Traduco un testo da una
variante
del tedesco antico: la cosa divertente è che è
una specie di
formula magica.» Notando l'espressione scettica del giovane,
la
ragazza si sporse verso di lui, aggrottando la fronte con aria
minacciosa. «Oh, non fare quella faccia! Non studiamo
filastrocche e
non facciamo nemmeno riti satanici: in realtà, è
una cosa
estremamente affascinante. È una specie di misto tra un
incantesimo,
una preghiera e una ricetta medica. È interessante notare
come tutte
queste cose sono state praticamente la stessa cosa, fino a un certo
punto della nostra storia. E poi è una cosa che ti fa
riflettere su
come certi elementi siano ancora vivi nella nostra
società.»
«Ti
riferisci ai creduloni che si fanno fregare da cure miracolose e da
santoni improvvisati?» chiese Michael, cercando di indovinare
dove
volesse andare a parare.
La
ragazza si strinse nelle spalle. «Più che altro,
pensavo a certi
piccoli rituali a cui mi capitava di assistere quand'ero bambina.
Sai, certi “trucchetti” che si usavano nei campi e
che non
avevano nessun fondamento scientifico, ma a cui non si voleva
comunque rinunciare. O anche certe filastrocche che mia zia mi
cantava per far passare il dolore di una caduta sull'asfalto, o certe
credenze legate alle corna delle capre e a ipotetici vermi che le
facevano ammalare... ormai sappiamo perfettamente come funziona il
mondo, ma certe superstizioni sono dure a morire.»
Michael
la guardò in silenzio per qualche istante. «Non ci
avevo mai
pensato» disse, poi. «Sei cresciuta in
campagna?»
«Io
ho sempre vissuto in Brianza», spiegò la ragazza,
«ma la famiglia
di mia madre è originaria della provincia di Sondrio.
Vengono da un
paesino microscopico sul confine con la Svizzera. Da bambina ho
passato tutte le mie estati lì e tante cose mi sono rimaste
impresse.»
Appena
ebbe pronunciato quelle parole, Caterina si interruppe, lo sguardo
perso nel vuoto e un dettaglio stonato improvvisamente al centro dei
suoi pensieri.
«Che
c'è?» le chiese Michael, notando la sua
espressione che si era
fatta d'un tratto grave.
La
giovane scosse lentamente il capo, cercando di dar forma alle proprie
riflessioni. «Stavo pensando che, in effetti, è
strano: le mie
estati a San Giorgio sono state tutte magnifiche. Mi divertivo sempre
un mondo, non vedevo l'ora di lasciare Merate per andare in montagna
e a settembre mi veniva il mal di pancia al solo pensiero di tornare
in pianura. Però... come dire: è come se facessi
fatica a
focalizzarmi sui singoli episodi di quel periodo.»
«Forse
perché le tue estati si assomigliavano un po'
tutte?» suggerì
Michael. «Non so come sia questo posto in cui passavi le
vacanze, ma
dubito che ci siano mai stati grandi eventi mondani che possano
esserti rimasti particolarmente impressi...»
Caterina,
però, scosse il capo con decisione. «No, non
è quello» mormorò.
«Non riesco a spiegarmi bene. Ovviamente ho dei ricordi di
alcuni
eventi particolari: mi ricordo certi miei compleanni, mi ricordo di
una volta che sono caduta nel fiume e di un'altra volta che mi sono
conficcata un chiodo in una gamba. Mi ricordo il gattino che mi hanno
regalato e le serate passate a saltare i cumuli di fieno con gli
altri bambini, però... ci sono anche tanti vuoti.»
Il
giovane corrugò la fronte. «Non credo di
capire.»
La
ragazza sospirò e si mordicchiò le labbra in
preda alla
frustrazione. «Hai presente quando hai l'impressione di avere
una
parola sulla punta della lingua, ma non riesci a pronunciarla? Oppure
quella sensazione di non riuscire a ricordare un nome o un termine
che dovresti conoscere benissimo, ma che non riesci proprio a farti
venire in mente?» Quando Michael annuì, gli
rivolse un sorrisetto
tirato. «Ecco, sento più o meno la stessa cosa: ho
come
l'impressione che ci siano delle cose che non riesco più a
ricordare, ma che sono ancora presenti nel mio subconscio. Sono
lì,
galleggiano da qualche parte nella mia testa, ma non riesco ad
afferrarle.»
Michael
abbassò lo sguardo, un'ombra di imbarazzo nei suoi occhi.
«Forse
non dovrei permettermi di chiedertelo, ma... soffri di disturbi della
memoria? O forse... ecco, di ansia o depressione?»
Caterina
si lasciò sfuggire una risatina secca, stupita da quella
domanda
tanto diretta e personale. «Io... no, certo che no. Ok, in
questo
periodo sono un po' sotto stress, ma la mia memoria è nella
norma,
credo. E poi questi “vuoti”, se vogliamo chiamarli
così, ce li
ho solo se provo a ripensare a quelle estati.»
Il
ragazzo cercò il suo sguardo. «Ricordi tutto
quello che hai fatto
alle elementari e alle medie?»
Caterina
esitò. «Be'... no, ovviamente no. Ricordo solo i
momenti salienti.»
«E
sapresti elencarmi tutti i regali che hai ricevuto a Natale negli
ultimi cinque anni?»
«Non
ricordo nemmeno quelli che ho ricevuto l'anno scorso»
sbuffò lei.
«Ma
cosa diavolo centra?»
Michael
si strinse nelle spalle. «Era solo per dire che, secondo me,
non
dovresti focalizzarti troppo su questa cosa. Non puoi pretendere di
ricordarti ogni singola cosa che facevi quando eri bambina. Ora che
mi ci fai pensare, pure io ho rimosso un sacco di cose: cose
terribilmente noiose, suppongo.»
Lei
lo guardò poco convinta. «Mah... forse hai ragione
tu» bofonchiò.
In realtà, però, non lo credeva affatto. Non era
la prima volta che
notava quegli strani buchi nei suoi ricordi di bambina, ma li aveva
sempre archiviati come qualcosa di poco importante. Eppure quel
giorno quell'anomalia si era piazzata con prepotenza al centro dei
suoi pensieri. Chissà perché, poi,
si chiese la ragazza,
senza riuscire a capire che cosa le avesse provocato quella piccola
ossessione. Forse sono davvero un po' troppo stressata.
Notando
la sua perplessità, Michael si sporse verso di lei.
«Se però la
cosa ti disturba, se vuoi possiamo parlarne un po', la prossima volta
che ci vediamo. Magari chiacchierando riesci a ricordarti qualche
dettaglio che credevi di avere dimenticato.»
«Oh...
perché no?» annuì la giovane. In
verità, però, era bastato che
Michael accennasse alla possibilità di incontrarsi di nuovo
in
futuro perché ogni pensiero rivolto al passato evaporasse
dalla sua
mente. Il ragazzo voleva rivederla, e tanto bastava per riempirle lo
stomaco di bollicine di felicità. E al diavolo
tutte le mie buone
intenzioni di non avere reazioni da adolescente in preda all'ormone,
sospirò mentalmente Caterina, senza riuscire però
a essere
veramente in collera con se stessa.
«Del
resto, non hai mica detto che abiti a Merate?» la
interrogò lui.
«Esatto»
confermò la ragazza.
«Ma
lo sai che io abito a Cernusco?»
«Ma
va là!» scoppiò a ridere lei, non
credendo affatto che Michael
abitasse nel paese accanto a quello in cui viveva lei. Si conoscevano
praticamente tutti, da quelle parti, e di certo si sarebbe accorta se
uno come il ragazzo avesse frequentato gli stessi luoghi che era
solita frequentare anche lei.
Michael
si spinse contro lo schienale della sedia, incrociando le braccia
davanti al petto con aria offesa. «Non mi credi?»
«Nemmeno
un po'!»
«Guarda
un po' qui!» la sfidò lui, estraendo la propria
carta d'identità
dal portafoglio e facendola slittare sul tavolo e approdare davanti
alle mani giunte della ragazza.
Mettendo
mano al documento, Caterina vide che il ragazzo non aveva mentito e
che risultava effettivamente residente a Cernusco Lombardone.
«Michael Pellegrino» lesse. «Sei nato a
Torino?»
«Eh,
già!» confermò lui.
La
ragazza lo guardò incuriosita. «E come ci
è arrivato al ridente
paesino di Cernusco Lombardone, uno che è nato a
Torino?»
Michael
le rivolse un sorriso sarcastico. «Oh, è facile. I
miei hanno
divorziato quando avevo quindici anni e mio padre ha pensato bene di
sparire dalla circolazione e di crearsi una nuova vita a Biella. Mia
madre si è stancata di essere sempre sola e un bel giorno ha
preso
me e mio fratello, ci ha caricati in macchina e ha raggiunto sua
sorella che, guarda caso, aveva sposato proprio un tizio di
Cernusco.»
Caterina
lo guardò dispiaciuta. «Non dev'essere stato
facile cambiare vita
in piena adolescenza.»
Lui
scosse appena il capo. «Sono sopravvissuto» la
tranquillizzò. «Per
assurdo, il trasloco è pesato di più a mio
fratello, che aveva già
diciannove anni e che, infatti, è tornato quasi subito a
Torino. Io,
invece, qui ci sto bene. Mi piace: è un posto
tranquillo.»
«Di
certo è tranquillo» concordò lei.
Sentendo di essere giunta alla
fine di quella conversazione, Caterina lasciò scivolare
nuovamente
lo sguardo sullo schermo del cellulare e rabbrividì nel
rendersi
conto che erano già passate le dieci e mezza.
Michael
ridacchiò. «Dai, adesso ti lascio veramente
andare» decise,
spingendo indietro la sedia e alzandosi in piedi per dare maggiore
forza alla propria affermazione. «Non voglio causarti
problemi.»
La
ragazza lo guardò un po' dispiaciuta, ma si impose di non
protestare
e di mantenere la propria dignità. Magari lui ha
da fare e io gli
sto facendo perdere tempo: meglio non dargli l'impressione di essere
troppo appiccicosa.
«Va
bene» disse, allora. «Ci sentiamo prossimamente:
visto che ti sei
offerto, mi farò viva, se avrò problemi a capire
quello che c'è
scritto sulla tua dispensa.»
«D'accordo»
concordò lui. Poi esitò brevemente, prima di
fermarsi a pochi passi
dalla cassa. «Sei venuta in macchina?»
indagò.
«No,
in treno» lo corresse lei.
«Se
vuoi, ti do poi un passaggio, quando devi tornare a casa. So che gli
orari del treno fanno schifo» si offrì il ragazzo.
Lo disse con
voce un poco incerta, come se si aspettasse un rifiuto da parte della
giovane.
«Ah...»
Caterina lo fissò per qualche istante, incerta su come
interpretare
quell'offerta. «Mi farebbe comodo, ma io adesso devo
raggiungere
Halima. Mi ci vorranno un paio d'ore, almeno: tu nel frattempo cosa
fai?»
Michael
le rivolse un sorriso smagliante, apertamente rinfrancato dalla sua
risposta. «Innanzitutto vado a pranzo con te – e
anche con la tua
amica, se te la vuoi portare. E poi ho comunque un paio di faccende
da sbrigare: non sono venuto fino a Bergamo solo per portarti la
dispensa.»
Davanti
alla sfacciataggine del giovane, Caterina non poté che
scoppiare a
ridere.
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Capitolo 11 *** 10. Solo un amico ***
Oggi
«Oddio,
un'altra canzone di 'sto tizio?»
Erano
ormai tre settimane che Michael e Caterina facevano insieme la strada
da
Bergamo alle rispettive abitazioni e ancora Caterina non si era
abituata alla
musica che il ragazzo sparava a tutto volume all'interno dell'abitacolo
della
sua Golf.
«Miyavi
non si tocca!» la rimbeccò lui. «
È un classico!»
«Un
classico? È imbarazzante, dai!» si
lamentò la ragazza, guardando con astio
l'autoradio.
Michael
le scoccò un'occhiata di sufficienza con la coda
dell'occhio. «Senza offesa,
eh, ma non ho nessuna intenzione di farmi dare lezioni di musica da una
che
ascolta i... come diavolo si chiamavano quei mentecatti che mi hai
fatto
sentire l'altro giorno?»
«Suppongo
tu ti stia riferendo ai Nanowar» ribatté lei con
sussiego. «Ho solo un paio di
canzoni salvate, e comunque sono un ottimo gruppo satirico. E non
ascolto mica
solo loro: i miei gusti sono estremamente variegati. Il problema
è che le mie
orecchie si ribellano al suono di certe cinesate.»
«Al
di
là del fatto che Miyavi è giapponese
e non cinese, francamente i
tuoi gusti musicali non mi sembrano poi così variegati: mi
risulta che spazi
dall'industrial metal al folk
metal, con certe coraggiose puntate
fino all'epic metal» la
provocò il giovane. «Un po' monotono, non
trovi?»
«E
il
raggaeton? Quello dove lo lasciamo?»
«Ah,
giusto» sospirò Michael. «Non
dimentichiamoci del raggaeton. Devi essere un po'
bipolare, bella mia.»
Davanti
a quell'affermazione, la ragazza si limitò a scuotere la
testa e a sorridere
divertita, guardando fuori dal finestrino. Le scuole erano ormai finite
e buona
parte delle famiglie con bambini piccoli avevano lasciato la
città, fuggendo
verso il mare lontano per sfruttare appieno le lunghe giornate di
giugno. Chi,
come Caterina, si apprestava a rinunciare alla vacanza al mare per il
secondo
anno consecutivo, poteva se non altro consolarsi nel trovare le strade
molto
meno trafficate del solito.
Dieci
minuti più tardi, Michael imboccò la via
secondaria che conduceva al gruppo di villette
a schiera in cui la giovane viveva con i propri genitori. Fermandosi di
fronte
al vecchio cancello un po' scrostato, il ragazzo spense il motore e si
voltò
verso Caterina. «Allora ci sentiamo domenica sera?»
le chiese. «Così mi dici
che giorni pensi di essere a Bergamo e vediamo se riusciamo a
organizzare di
fare la strada insieme almeno qualche volta.»
La
ragazza annuì. «Va bene, però ti pago
la benzina: non mi va di andare sempre a
scrocco.» Sapeva che, in attesa di terminare il master
che stava seguendo,
Michael stava cercando di trovare un impiego o uno stage retribuito.
Sosteneva
tutti i colloqui a cui riusciva ad avere accesso, ma fino a quel
momento la
fortuna non era stata dalla sua parte e il ragazzo non navigava certo
nell'oro.
Lui
sventolò una mano in aria. «Va be', poi vediamo.
Tanto io a Bergamo ci devo
andare comunque.»
Non
era la prima volta che affrontavano quell'argomento e, considerato che
era
quasi ora di cena, Caterina non insistette. «Va bene, va
bene» tagliò corto,
spalancando lo sportello e ruotando sul sedile per posare i piedi a
terra. «Ti
faccio sapere qualcosa entro domenica sera, ok?» Davanti al
cenno di assenso
del giovane, la ragazza sbloccò la cintura di sicurezza e
fece per scendere
dalla Golf, quando un ripensamento improvviso la
fece voltare nuovamente
verso Michael. «Senti, ma hai qualcosa da fare, questa
sera?» gli chiese
d'impulso. «Se ti va, puoi venire con me al Dream:
c'è di nuovo una mia
amica che ci suona con il suo gruppo e io non ho molta voglia di
andarci da
sola...»
Michael
la guardò per qualche secondo in silenzio, poi scosse la
testa. «Mi spiace, ma
questa sera ho già degli impegni» disse,
telegrafico.
Caterina
si costrinse a sorridere, mascherando così la delusione.
«Oh... come non detto,
allora: restiamo per settimana prossima!» La sua voce suonava
forse un po' più
acuta del solito, ma la giovane giudicò di essere riuscita a
mantenere un tono
ragionevolmente normale.
L'uomo
parve sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi cambiò idea e
distolse
rapidamente lo sguardo, spostando gli occhi sul pannello elettronico
posto
dietro il volante, dove l'orologio digitale segnava le 18:45.
«Perfetto» si
limitò a dire.
La
ragazza ebbe l'impressione che Michael avesse tutto d'un tratto fretta
di
andarsene. L'improvvisa freddezza del giovane e il suo atteggiamento
quasi
sfuggente le lasciarono in bocca un retrogusto amaro,
ma si impose di far finta di nulla. Con un
ultimo cenno di saluto, girò sui tacchi e chiuse la portiera
con un tonfo
secco, avvertendo subito dopo il rombo del motore che veniva rimesso in
moto e
il lieve stridio degli pneumatici sull'asfalto.
Mentre
frugava all'interno della tracolla alla ricerca delle chiavi di casa,
Caterina
si mordicchiò pensosamente le labbra. Be', non
è stato carino, si disse,
un po' delusa dal modo in cui Michael aveva reagito alla sua proposta. Ha
tutti i diritti di avere già dei programmi per la serata, ci
mancherebbe, però
avrebbe potuto essere un po' meno sintetico, nel rifiutare.
Per
quanto si sforzasse di non dare troppo peso alla cosa, aveva la netta
sensazione che Michael avesse volutamente evitato di fornirle ulteriori
spiegazioni circa quello che aveva intenzione di fare, quella sera. Mi
ha
semplicemente detto che aveva “altri impegni”,
senza specificare quali fossero...
praticamente è come se mi avesse detto di farmi i fatti miei
e di non essere
troppo appiccicosa!
Superato
con qualche difficoltà il vecchio cancello dalla serratura
difettosa, la
ragazza raggiunse la porta d'ingresso e aprì anche quella,
venendo immediatamente
investita dal profumo invitante delle patate al forno che sua madre
aveva
deciso di cucinare per cena. «Ciao!»
urlò, annunciando il proprio ritorno.
Dalla
cucina, situata al di là della sala da pranzo che si apriva
alla sinistra della
ragazza, giunse la voce della signora Elena. «Venti minuti ed
è pronto» la
informò, a mo' di saluto. «Stasera c'è
la
riunione di condominio e questa volta ci spedisco il papà:
si mangia presto!»
Con
un pensiero di compassione rivolto al povero genitore, Caterina
calciò le
scarpe da ginnastica in direzione della scarpiera e, a piedi nudi,
risalì la
scala di granito che conduceva al piano superiore e, quindi, alla sua
camera da
letto. Liberandosi di jeans e maglietta per indossare un vestitino
scolorito e
un po' sformato, ma comunque leggero e meravigliosamente comodo, la
ragazza si
avvicinò alla finestra, osservando distrattamente il piccolo
giardino che sua
madre coltivava con tanta cura.
Va
be', si consolò, tornando a pensare alla fuga di
Michael, affari suoi: è
lui quello che ha fatto la figura del maleducato, non certo io. E,
comunque,
magari non è sceso nei particolari perché deve
fare qualcosa di imbarazzante e
non gli andava di parlarmene...
Subito
dopo, però, un'ombra scura attraversò la sua
mente. O magari deve vedersi
con qualcuna e ha pensato bene di non dirmelo. Il semplice
pensiero fu
sufficiente per farle contrarre sgradevolmente lo stomaco. Inspirando a
fondo,
Caterina cercò di allentare la morsa amara della gelosia. Ma
tanto, a me,
cosa me ne frega? Può uscire con chi gli pare, non mi deve
certo delle
spiegazioni.
Razionalmente
sapeva che era così: tra lei e Michael non c'era proprio
nulla, se non, forse,
un'amicizia ancora un po' traballante. Nessuno dei due aveva espresso
interesse
nei confronti dell'altro, se si escludevano un paio di episodi in cui
Michael
aveva scherzosamente flirtato con lei. E lei, dal canto suo, lo trovava
indubbiamente carino e anche divertente, ma si era ripromessa di non
lasciarsi
sfuggire le cose di mano e di mantenere le giuste distanze tra se
stessa e il
giovane.
Eppure...
eppure, se solo si azzardava a pensare a una donna sconosciuta che
rideva alle
battute del ragazzo, che si avvicinava a lui, gli toccava i capelli
scuri e
lucenti e si lasciava stringere dalle sue braccia forti, sentiva
un'ondata di
nausea sollevarsi dallo stomaco e mozzarle il fiato, serrandole la gola
in una
morsa di rabbia corrosiva.
«Bah!»
esclamò, disgustata dalle proprie reazioni. Al
diavolo Michael: non aveva
certo intenzione di lasciarsi rovinare l'estate – o anche
solo la serata – da
lui. In fin dei conti, l'incontro con il giovane era stato
provvidenziale, dal
momento che due giorni prima aveva finalmente superato l'esame di
marketing:
con un diciannove che trasudava compassione, ma l'aveva comunque
passato e
doveva ammettere che, senza l'aiuto del ragazzo, non ce l'avrebbe
fatta. È
brutto da dire, ma adesso non mi serve più: se inizia ad
avere atteggiamenti
strani, ognuno va per la sua strada e tanti saluti.
Caterina
annuì decisa, soddisfatta della propria decisione, e
recuperò un elastico dal
comodino, legandosi i capelli ramati in una coda alta. E non
sentì per niente
la fitta acuta che le trapassò il petto da parte a parte.
***
Quando
quella sera arrivò al Dream, Alessandra
era già seduta a un tavolino un
po' in disparte e la stava aspettando in compagnia di Francesca, una
ragazza
mora che Caterina conosceva dai tempi del liceo, e una biondina amica
di
Alessandra di cui non riusciva a ricordare il nome.
Quando
la vide avvicinarsi a loro, Francesca si alzò in piedi e le
si fece incontro
per accoglierla. «Cate!» esclamò,
gettandole le braccia al collo e stordendola
con il suo intenso profumo agrumato. «Sarà almeno
un anno che non ci vediamo!
Come va?»
«Non
male» borbottò Caterina. «Ho finalmente
passato l'ultimo esame che mi mancava.
Adesso devo solo scrivere la tesi e poi ho finito, se Dio
vuole.»
Francesca
ridacchiò, guardandola con i suoi splendidi occhi verdi
pesantemente truccati.
A vederla, non si sarebbe mai detto che fosse infermiera in un reparto
di
pediatria, ma, a dispetto del look appariscente che amava sfoggiare,
era una
ragazza estremamente dolce. «Cavolo, è un vero
peccato che tu non sia venuta a
cena: avremmo potuto chiacchierare un po' prima che iniziasse il
concerto... senza
contare che qui fanno dei panini spettacolari!»
Caterina
si strinse nelle spalle. «Lo so. Però pranzo con
un panino praticamente tutti i
giorni: per cena preferisco mangiare qualcosa di un po' più
consistente.» Così
dicendo, la giovane si avvicinò al tavolo alla ricerca di un
posto in cui
sedersi e subito la ragazza bionda si addossò al muro,
liberando un po' di
spazio sulla panchina di plastica bianca ricoperta da un sottile
cuscino viola.
«Voi
due vi siete già conosciute, vero?» chiese
Alessandra, facendo danzare lo
sguardo tra le sue due amiche.
Caterina
annuì un po' incerta. «Sì, ci siamo
viste un paio di volte... Silvia, giusto?»
«Sara»
la corresse la ragazza bionda, sistemandosi gli occhiali che le erano
scivolati
lungo il naso.
«Ah.
Giusto. Sara.» Caterina le rivolse uno sguardo dispiaciuto.
Non aveva una buona
memoria per i nomi, soprattutto se appartenevano a persone verso le
quali non
nutriva un grande interesse.
Alessandra
si schiarì la voce, disperdendo rapidamente la vaga
sensazione di imbarazzo che
era calata attorno al tavolo. «Suppongo che tu non sia
riuscita a convincere
Halima a venire con noi, eh?» chiese, guardandosi attorno.
Caterina
le rivolse un sorriso sarcastico. «Ovviamente no»
confermò. «Non ho nemmeno
insistito più di tanto, a dire il vero: sai che a lei queste
cose non
piacciono.»
«Già»
sbuffò Alessandra, con espressione cupa. «Non si
fa mai viva. L'ultima volta
che l'ho vista era ancora inverno.»
Caterina
le lanciò uno sguardo scettico. «Be', non si
può dire che sia proprio tutta
colpa di Halima: se tu ti degnassi di mettere piede in
università, una volta
ogni tanto, ti potrebbe perfino capitare di incrociarla.»
Alessandra
sbuffò alzando gli occhi al cielo e Sara nascose un sorriso
dietro le mani.
«Ahi, ahi, tasto dolente» ridacchiò.
«Fai
proprio schifo» dichiarò serafica Francesca,
alludendo al fatto ben noto che
Alessandra si era iscritta alla laurea specialistica, ma non aveva
sostenuto
nemmeno la metà degli esami del primo anno, preferendo
dedicarsi ad attività
ben diverse dallo studio.
«Oh,
e che palle!» sbottò la ragazza riccia,
incrociando le braccia davanti al petto
generoso. «In questo periodo ho avuto un sacco da fare e mi
sono accorta che
una laurea in turismo non è fondamentale
per quello che voglio fare da
grande, ma non stressatemi: finirò questa pallosissima
università. Con i miei
tempi, ma la finirò.»
Caterina
la soppesò con lo sguardo e non credette a una sola parola
pronunciata
dall'amica, ma evitò di esternare le proprie
perplessità. «Ok, ok»
sospirò, cambiando
argomento. «Piuttosto, Matteo non c'è?»
chiese, non vedendo da nessuna parte il
fidanzato di Alessandra.
Quella
scosse il capo con aria rammaricata. «No: è andato
un paio di giorni al mare
con i suoi, nella loro casa in Liguria. Mi aveva chiesto di andare con
lui, ma
ho gentilmente rifiutato: non siamo ancora abbastanza intimi da
sentirmi in
dovere di trascorrere una vacanza con i suoceri.»
Il
tono con cui aveva pronunciato quell'ultima parola era talmente
orripilato che
le altre tre ragazze scoppiarono a ridere, poi Alessandra
puntò gli occhi scuri
in quelli di Caterina. «A proposito»,
scandì lentamente, «mi aspettavo che
portassi il tuo bello. Come mai non c'è?»
Le
guance pallide della ragazza si fecero subito scarlatte. «E
chi sarebbe “il mio
bello”?» chiese Caterina, sgranando gli occhi
nell'espressione più innocente
che le riuscisse.
Sara
incrociò educatamente le mani in grembo, mentre Francesca si
sporgeva verso di
lei con gli occhi accesi dall'interesse. «Hai un nuovo
ragazzo?»
Lanciando
ad Alessandra uno sguardo carico d'accusa, Caterina scosse con forza il
capo. «Proprio
per niente!» negò, prima di rivolgersi alla
ragazza riccia: «Se ti stai riferendo a Michael, credo di
averti detto almeno
un miliardo di volte che siamo solo amici, e forse nemmeno quello. Non
è il mio
ragazzo, non siamo mai usciti insieme nel senso che intendi tu,
né mai lo
faremo!»
Alessandra
sgranò gli occhioni da cerbiatta, esibendo un'aria offesa
che di genuino aveva
ben poco. «Oh, come ci scaldiamo facilmente!» la
punzecchiò. «Sicura che non ci
sia sotto niente?»
«Sicurissima»
confermò Caterina. Qualcosa nella sua voce doveva
però avere tradito una punta
di incertezza, perché le altre ragazze si scambiarono uno
sguardo in tralice.
«Almeno
è carino?» si informò educatamente
Francesca.
«Molto»
risposa pronta Alessandra, impedendo a Caterina di parlare per prima.
La
ragazza mora si rivolse direttamente alla giovane riccia. «Tu
l'hai visto? Ci
hai parlato? Di solito la Cate se li tiene ben nascosti, i suoi
uomini.»
«Ho
visto la sua foto su WhatsApp» sorrise Alessandra.
Rassegnata,
Caterina indovinò la richiesta di Francesca ancor prima che
la ragazza la
esprimesse ad alta voce. «Fa un po' vedere!» le
ordinò, allungando una mano
imperiosa in direzione della borsa della giovane dai capelli rossi.
«Giù
le zampe!» la rimbeccò, pur impugnando il proprio smartphone
e
sbloccandone lo schermo. «Lo tengo io, che ho ricordi poco
piacevoli
dell'ultima volta che ti ho lasciato tenere in mano un mio
cellulare.»
Francesca
ridacchiò, ricordando l'episodio in cui aveva lasciato
partire una chiamata in
direzione del ragazzo per cui Caterina aveva una cotta pazzesca, poi si
sporse
per vedere meglio la fotografia che la ragazza le stava mostrando.
«Porca
vacca, ma è un figo della Madonna!»
esclamò con aria scioccata. «Sara,
guarda!»
aggiunse poi, afferrando a due mani il polso di Caterina e obbligandola
a
orientare lo schermo del telefono in direzione della ragazza bionda.
«Sì,
è decisamente carino» osservò quella,
assai più
pacata di Francesca.
Con
uno strattone deciso, Caterina riprese possesso del proprio arto e
osservò a
sua volta l'immagine che riempiva il display. Alla vista del sorriso
rilassato
di Michael, qualcosa di morbido e caldo le si smosse all'altezza dello
stomaco.
«Sì, va be'» borbottò vaga,
senza però riuscire a sopprimere il sorriso
trasognato che per una frazione di secondo le piegò le
labbra.
«Un
figo della Madonna che però non ci ha degnate della sua
divina presenza»
puntualizzò Alessandra, senza lasciarsi distrarre.
«Come mai non è venuto?
Gliel'hai chiesto, almeno?»
Caterina
sbuffò e lasciò ricadere il cellulare in borsa.
«Sì, certo che gliel'ho
chiesto. Però aveva da fare e non è potuto
venire.»
La
ragazza riccia inarcò un sopracciglio curato. «E
cosa doveva fare di tanto
importante? Se la ragazza con cui ti vedi ti chiede un appuntamento, tu
scatti
sull'attenti, non le dai buca.»
Caterina
le puntò addosso uno sguardo esasperato. «Ti ho
già detto che non non ci
“vediamo”, facciamo solo la strada insieme per
ottimizzare i tempi. E non
volevo un appuntamento, gli ho semplicemente chiesto se questa sera
sarebbe
venuto al Dream, visto che sembra venirci spesso.
E, per finire, non so
cosa dovesse fare: non gliel'ho chiesto e lui non me l'ha
detto.»
«Ahi,
ahi» commentò di nuovo Sara con aria lugubre e
Caterina la trovò immediatamente
meno simpatica di quanto l'avesse trovata un istante prima.
«Speriamo
che non avesse un appuntamento galante!» rincarò
la dose Francesca, prima di
rivolgerle un sorriso furbo e tuffarsi in ciò che restava
del suo margarita.
Caterina
fece scorrere lo sguardo sulle sue amiche e fu seriamente tentata di
piantarle
in asso e tornarsene in macchina.
***
Un'ora
e mezza più tardi, Alessandra era nel pieno della sua
esibizione. Davanti al
palchetto su cui suonavano lei e il suo gruppo si era radunata una
discreta
folla e Caterina e le sue amiche dovevano starsene ben dritte sui loro
sedili,
se volevano sperare di vedere qualcosa.
«Non
so, vogliamo provare a spostarci un po' più
avanti?» chiese Francesca, scrutando
con aria critica il poco spazio disponibile davanti a loro.
Caterina
scrollò il capo. «Non
credo che cambierebbe qualcosa.
Non so come mai ci sia così tanta gente, oggi: è
sempre un posto affollato, ma
mai a questi livelli.»
«Magari piacciono»
azzardò Sara. «Se suonano spesso qui,
magari si sono guadagnati qualche fan.»
Caterina stava per replicare che
sperava proprio che fosse
così, quando un'ombra scura offuscò la luce del
faretto più vicino. Alzando lo
sguardo, la ragazza si trovò a fissare gli occhi neri di
Hasim. Porca vacca!
Pensò con il cuore che batteva a mille e uno strano tremore
nelle dita. Non
l'aveva sentito avvicinarsi e c'era qualcosa nella sua espressione che
le
causava uno spiacevole dolorino all'altezza dello stomaco.
«Oh...
ciao» lo salutò, chiedendosi se la sua voce
fosse davvero così incerta come suonava alla sue orecchie.
L'uomo
le rivolse un sorriso gentile che fece scomparire qualsiasi cosa
Caterina
avesse letto nei suoi lineamenti fino a qualche istante prima.
«Ti ho
spaventata?» le chiese.
La
giovane arrossì, rendendosi conto che il buttafuori aveva
interpretato
correttamente il suo turbamento. «No, no» si
affrettò però a rassicurarlo.
«È
solo che non ti ho sentito arrivare e non mi aspettavo nemmeno di
trovarti qui:
le ultime volte che sono venuta a sentire Alessandra non ti ho
visto.»
«Si
vede che non ero di turno» replicò semplicemente
l'uomo. «A volte faccio degli
orari un po' strani.»
Caterina
si limitò a chinare il capo in un cenno d'assenso e poi lo
fissò in silenzio,
chiedendosi quale fosse il motivo che l'aveva spinto a raggiungerla al
tavolo e
temendo in cuor suo di conoscere già la risposta. Non
essere paranoica! Si
esortò, senza però riuscire a evitare che i palmi
delle mani le si imperlassero
di un sudore nervoso.
Dopo
una manciata di secondi che alla giovane parvero infiniti, Hasim
parlò di
nuovo. «Hai un minuto?» le chiese, puntandole
addosso quei suoi occhi così
seri. «Avrei bisogno di parlarti un attimo in
privato.»
Caterina
sentì il sangue defluirle dal volto, mentre il mondo si
faceva per un attimo
distante e ovattato. Perché voleva parlarle in privato?
Francesca,
che aveva seguito tutto lo scambio con estrema attenzione, si
rabbuiò. «Ma vi
conoscete?» chiese con voce brusca, prima di puntare i suoi
occhi verdi e
affilati in quelli dell'uomo. «Perché vuoi
portarla via? Non vedi che sta
seguendo il concerto? Se devi dirle qualcosa, puoi dirglielo
qui!»
Pur
intuendo che la ragazza voleva semplicemente metterla al riparo da
eventuali brutte
esperienze, il tono con cui Francesca si era rivolta a Hasim fece
arrossire di
vergogna Caterina. Per nulla turbato dalle parole della giovane,
però, l'uomo
si limitò ad annuire. «Sì, ci
conosciamo» la informò, prima di rivolgere la
propria attenzione alla ragazza dai capelli rossi.
«Caterina?»
Lei
esitò. Avrebbe potuto rifiutarsi di seguirlo. Avrebbe potuto
dire che Francesca
aveva ragione, che lei era venuta lì per sostenere
Alessandra e che, se proprio
avesse voluto parlarle, avrebbe potuto farlo dopo, quando l'esibizione
della
sua amica sarebbe finita. O magari addirittura un altro giorno, tanto
che
fretta c'era? C'era però qualcosa, nella
profondità del suo animo, in quel
punto recondito che spesso arrivava a sfiorare, ma mai ad afferrare del
tutto,
che le ordinava di alzarsi e di seguire il buttafuori ovunque lui
avesse voluto
portarla. Era una voce che le chiedeva di fidarsi, di non avere paura,
di
ascoltarlo. Ma a chi appartenevano quelle parole?
Combattuta,
Caterina tamburellò brevemente con le dita sul tavolo, poi
si rassegnò ad
alzarsi. «Va bene» concesse in un sussurro.
«Però facciamo in fretta: non
voglio che Alessandra si accorga che sono sparita.»
Con
un cenno d'assenso e senza dire una parola, Hasim le fece segno di
seguirlo
attraverso il locale e la scortò sino alla porta d'ingresso.
Anziché uscire nel
parcheggio, però, fece scattare la serratura di una
porticina bianca e quasi
invisibile che si apriva nella parete e conduceva a una sorta di
minuscolo
spogliatoio. Non c'era praticamente nulla, lì, fatta
eccezione per una singola
sedia e un paio di carrelli porta abiti dai quali pendevano poche paia
di
pantaloni e qualche maglietta, forse i vestiti che i membri dello staff
indossavano prima di infilarsi nelle loro divise. Era un locale
piccolissimo e
Hasim sembrava riempirlo tutto con la sua presenza.
«Cosa
volevi dirmi?» chiese in fretta Caterina, resistendo a stento
alla tentazione
di portarsi una mano alla gola e allentare la semplice stringa di
caucciù che
la cingeva. Anche il modesto ciondolo che portava appeso a quella
corda, una
piccola chiave nera che aveva sin dall'infanzia, le pareva adesso
troppo
pesante: era come se Hasim avesse assorbito tutto l'ossigeno
disponibile e ora
lei si sentiva debole, boccheggiante.
L'uomo
si appoggiò alla parete più vicina e per un
istante sembrò quasi a disagio. «So
che probabilmente dovrei farmi i fatti miei, ma Alessandra mi ha detto
che stai
vedendo un ragazzo.»
Sebbene
avesse già intuito che l'uomo sarebbe andato a parare
proprio lì, quella domanda
così personale la lasciò
comunque senza
parole. Senza curarsi di specificare per l'ennesima volta nel giro di
poche ore
che lei non si stava vedendo proprio con nessuno, Caterina si
sforzò di
assumere un'espressione fredda e adulta. «E...?»
Hasim
increspò la fronte, ma gli angoli della sua bocca si
piegarono
impercettibilmente verso l'alto, come se trovasse divertente il
cipiglio della
ragazza. Poi si fece di nuovo serio. «Mi ha detto che
è lo stesso tipo del
parcheggio. Da quanto tempo lo stai vedendo?»
Caterina
fu sul punto di giustificarsi, ma di punto in bianco qualcosa
scattò nella sua
testa. La ragazza raddrizzò la schiena e si rese conto di
non essere poi tanto
più bassa dell'uomo che le stava davanti e quella
consapevolezza le diede una
nuova forza. «Da un po'» ammise con voce sicura.
«Ma a te cosa importa, scusa?
In effetti, non sono davvero affari tuoi.»
Hasim
incrociò le braccia e a Caterina parve ancora più
grosso del solito. «Non sono
affari miei, ma tu mi sembri una brava ragazza. Sono invece piuttosto
certo che
quello lì non sia affatto una brava
persona, quindi non mi piace saperti
in giro con lui. Se finissi nei guai, mi sentirei in colpa.»
Quella
risposta la mise in allarme, ma la giovane si rifiutò di
lasciarsi intimidire.
«Come fai a dire che non è una brava
persona?» lo interrogò. «Lo
conosci?»
Quando l'uomo rimase in silenzio per un istante di troppo, la ragazza
ripartì
all'attacco. «No, perché anche l'ultima volta che
ci siamo incontrati ho avuto
l'impressione che tu mi stessi mettendo in guardia nei suoi confronti:
questa
cosa è ridicola. O sai qualcosa di concreto sul suo conto,
oppure ti devo
chiedere di lasciarmi stare. Michael è soltanto un amico,
una persona gentile
che mi ha aiutato in una situazione difficile: non mi sono dimenticata
del modo
in cui si è comportato quella sera nel parcheggio, ma non mi sento di
condannarlo solo per questo.
Può capitare a tutti di sbagliare.»
«E
cosa avrebbe fatto, per aiutarti?» indagò Hasim.
Lei
si strinse nelle spalle. «Ha
scoperto per caso che ero
nei guai con un esame di marketing e si è offerto di
aiutarmi: mi ha prestato i
suoi appunti e grazie a lui sono riuscita a passarlo.»
L'uomo
si lasciò sfuggire un fischio stizzito. «Che
figlio di puttana!» ringhiò.
«Come,
scusa?» sibilò Caterina, scandalizzata.
Hasim
scosse con foga il capo, come se stesse cercando le parole migliori per
spiegarsi. «Ascoltami, Caterina: quell'uomo è
furbo. Non è quello che credi tu.
Devi smetterla di frequentarlo. Giragli al largo e, se lui continua a
cercarti,
vieni subito da me.»
La
giovane lo guardò con gli occhi sgranati, senza riuscire a
credere alle proprie
orecchie. «Ma tu sei pazzo» mormorò. Poi
riprese, più forte: «Se credi di
riuscire a farmi paura con queste mezze frasi, ti sbagli di grosso. Se
sai qualcosa
su di lui, se sai che è un criminale o un pazzo drogato,
dimmelo e basta. Se
invece non puoi fare altro che illazioni sul suo conto, allora non ho
altro da
dirti. Sappi, però, che tra voi due
quello più pericoloso in questo momento mi
sembri tu.»
Hasim
parve accusare il colpo e si premette per un istante una mano sugli
occhi, come
per calmarsi e riordinare le idee. «Va bene»,
sospirò poi, «va bene. Mi sono
lasciato prendere la mano, scusami. Non avrei dovuto.»
Caterina si strinse le
braccia attorno al busto e aspettò che continuasse.
«Purtroppo, non posso
ancora accusare di nulla il tuo amico. Però io li conosco,
quelli come lui: ne
ho visti tanti, di... sbandati del suo genere. Portano solo guai,
Caterina.
Tanti, tanti guai. È per questo che ti chiedo di stare
attenta a quello che
fai.»
La
ragazza soppesò per qualche secondo le sue parole, poi
sciolse il nodo delle
braccia e assunse una posa più rilassata.
«D'accordo» disse, dopo qualche altro
istante di silenzio. «Starò in guardia e al primo
segnale che mi faccia pensare
che ci sia qualcosa che non va lo allontanerò da me. Ma se
dovessi scoprire
che... che è un maniaco, che so io, o che ha in casa una
scorta di cocaina,
allora avvertirò la polizia. Non te. Spero che tu
capisca.»
Hasim
la guardò con un'espressione strana, quasi malinconica, ma
poi annuì. «Capisco»
mormorò.
Seguendo
la traiettoria dei suoi occhi neri, Caterina ebbe l'impressione che
questi
fossero puntanti sui suoi seni, ma poi si rese conto che l'uomo stava
osservando il pendente a forma di chiave che portava appeso al collo.
Per
qualche ragione, quella consapevolezza la fece sussultare e la ragazza
si
affrettò a far scivolare il ciondolo all'interno della
scollatura del vestito
che indossava e che la copriva fino alle clavicole. Hasim
incontrò subito i
suoi occhi, ma lei si affrettò a dargli le spalle.
«Se non c'è altro, io me ne
vado» annunciò.
Senza
lasciargli il tempo di replicare, la ragazza raggiunse la porta e la
varcò
quasi correndo, dirigendosi a grandi passi verso il tavolo a cui aveva
lasciato
Sara e Francesca. Quanto tempo è passato? Si
chiese, scoprendosi
incapace di calcolare quanto a lungo l'avesse tenuta impegnata la
conversazione
surreale che aveva appena avuto con Hasim.
Gli
occhi allarmati di Francesca le fecero capire che dovevano essere
passati ben
più di una manciata di minuti. «Cate, è
tutto a posto?» le chiese la giovane,
con tono allarmato.
Caterina
annuì e tornò a sedersi accanto a Sara,
gettandosi dietro alle spalle i lunghi
capelli ramati e respirando profondamente nel tentativo di scacciare
quella
sensazione pesante e appiccicosa che il confronto con il buttafuori le
aveva
lasciato addosso. «È tutto a posto»
confermò, senza riuscire a nascondere la
sfumatura tagliente che le deformò la voce.
«Quando finisce di cantare, però,
devo dire due paroline ad Alessandra: la deve smettere di andarsene in
giro a
raccontare i fatti miei al primo che passa!»
Le
altre due ragazze le lanciarono un'occhiata confusa e lei si
sentì in dovere di
spiegare. «Ha raccontato a quel tipo che è venuto
a cercarmi che sto
frequentando Michael e, a quanto pare, a Hasim questa cosa non piace.
Deve aver
avuto da ridire con lui, in passato, o qualcosa del genere: sta di
fatto che mi
sono beccata una mezza scenata.»
Francesca
parve sconvolta. «Ma stai scherzando?»
sbottò. «Ma non esiste proprio! Vai a
dirlo al... vai a dirlo al padrone di questo posto! Quello
lì non deve
permettersi di fare queste cose!»
Caterina
sventolò una mano come per allontanare un pensiero
sgradevole. «Ma no, non ce n'è
bisogno» esalò, sentendosi già stanca.
«Hasim non è cattivo e penso che sia
seriamente preoccupato per me: il fatto è che non ne ha
motivo, perché Michael
è sempre stato gentile e, comunque, io so badare a me
stessa. Però vorrei che
l'Ale si desse una regolata e badasse un po' di più ai fatti
suoi.»
Francesca
e Sara borbottarono il proprio assenso, ma Caterina fu distratta dal
ronzio del
cellulare. Controllando le notifiche, non riuscì a reprimere
un sorriso
sarcastico. Ah! Lupus in fabula, pensò,
stupendosi della coincidenza.
Michael le aveva appena scritto e la ragazza represse un brivido al
pensiero di
quello che sarebbe potuto accadere se, invece di darle buca, il ragazzo
avesse
accettato di accompagnarla al Dream. Ci
mancava solo di assistere a
una scazzottata, pensò, senza osare nemmeno
immaginare come sarebbe emerso
Michael da uno scontro diretto con il ben più imponente
Hasim.
Meno
male che non è venuto, a 'sto punto,
ragionò la giovane. E poi, se mi ha
scritto a quest'ora, significa che non era in compagnia di una tipa!
Con
una punta di trepidazione, Caterina scorse rapidamente il corposo
messaggio che
il ragazzo le aveva inviato. “Sei ancora al Dream?
Scusa se non sono venuto,
oggi, ma avevo la testa altrove. Visto però che si
è tutto risolto per il
meglio (poi ti spiego), che ne dici di una gita fuori porta, domani?
Con un
paio di amici abbiamo
organizzato una
grigliata sul lago in zona Lecco... ti va di venire? Non devi prendere
la
macchina, guido io.”
La
ragazza sfiorò più volte lo schermo, indecisa su
cosa rispondere. Fino a poche
ore prima non avrebbe avuto dubbi, ma adesso? Doveva prendere sul serio
gli
avvertimenti di Hasim? Il volto sorridente di Michael la fissava da un
angolino
dello schermo e la giovane provò un impeto di ribellione.
“Sicuro,
ci vengo volentieri! Che cosa devo portare?”
Senza
darsi la possibilità di ripensarci, Caterina
inviò il messaggio e provò
immediatamente un gran senso di sollievo e di ritrovata
normalità.
E
'fanculo anche a Hasim, pensò, rivolgendo un
invisibile dito medio all'uomo
che, ne era certa, la stava ancora tenendo d'occhio da lontano.
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Capitolo 12 *** 11. Un pomeriggio al lago ***
Oggi
Caterina
allungò i piedi nudi sull'erba tenera e mosse le dita,
avvertendo sotto di esse
la consistenza calda e asciutta del terreno intiepidito dal sole di
giugno. Dal
lago spirava una brezza leggera, troppo debole per infastidire le
persone
distese a prendere il sole, ma comunque sufficiente per mitigare la
calura
estiva.
La
ragazza sospirò felice, osservando un gruppetto di
adolescenti intenti a
disputare una partita di beach volley sulla
spiaggetta sabbiosa
immediatamente antistante al lago. Con un sorriso, ricordò
quando anche lei
aveva pensato di poter intraprendere una carriera nel campo della
pallavolo,
prima di rendersi conto di essere troppo scoordinata per praticare uno
sport
del genere.
«Non
si sta male, vero?» le chiese Michael, sollevando gli
occhiali da sole scuri
che gli celavano gli occhi.
La
ragazza scosse i capelli all'indietro, sentendosi decisamente
rilassata. «No,
non si sta affatto male» concordò. Certo, non era
il mare, ma il lago le
parlava comunque di estate, vacanze e intere giornate passate a oziare:
era un
piacevole diversivo dalla temperatura sempre più rovente che
abbracciava la
pianura, stringendola in una morsa umida e opaca che si appiccicava
alla pelle.
Seguendo
con gli occhi una piccola barca a vela che sfrecciava al largo
stagliandosi
bianca contro le enormi placche di roccia nera che emergevano ripide
dall'altra
sponda del lago, Caterina spinse lo sguardo più a nord, fino
al promontorio di
Bellagio, lì dove il Lario si divideva in due rami distinti,
e poi ancora più
in là, verso le prime montagne dell’Alto Lago,
rese azzurrine e sfumate dalla
lieve foschia sospesa a mezz'aria. Quando i suoi occhi sfiorarono quei
rilievi
fatti di speroni rocciosi, boschi di abeti e pascoli verdeggianti,
qualcosa in
lei si contrasse e la ragazza si sentì improvvisamente
annegare in un'ondata di
nostalgia. Non erano quelli, i monti tra i quali era cresciuta, ma
sapeva che
San Giorgio della Valle, il paese natale di sua madre, si trovava in
quella
direzione. Non ci tornava da troppo tempo, ma i giorni che vi aveva
vissuto da
bambina erano ancora ben impressi nel suo cuore.
«Tutto
a posto?» le chiese Michael, accorgendosi forse del velo di
tristezza che era
scivolato sul suo volto.
Caterina
si riscosse e annuì. «Sì,
certo» disse, rivolgendogli un piccolo sorriso.
«Stavo solo pensando che è da un sacco di tempo
che non vado più nel paese in
cui è nata mia madre» spiegò, indicando
con un cenno del capo il ramo del lago
che puntava verso nord. «Un po' mi manca, quel
posto.»
Il
ragazzo la studiò con gli occhi socchiusi, poi si mosse
sulla coperta di pile
su cui era seduto, avvicinandosi un po' di più a lei.
«È lo stesso paesino di
cui mi parlavi quel giorno che abbiamo fatto colazione insieme in
Città Alta?
Quello di cui hai dei ricordi un po' confusi?»
Lei
inclinò la testa di lato. «Il paese me lo ricordo
perfettamente: ho solo
qualche vuoto di memoria qui e là. Fatico a ricordare le
azioni, non i luoghi.»
Il
giovane la guardò come se si aspettasse che elaborasse
ulteriormente il suo
pensiero, ma Caterina lasciò cadere il discorso e si
allungò fino ad afferrare
una bottiglia d'acqua mezza vuota. Non aveva voglia di discutere di
quell’argomento. Non lì, con gli amici di Michael
a pochi metri di distanza:
erano persone strane e Caterina gradiva poco la loro presenza.
Le
due ragazze, una francese di nome Manon e una giovane milanese che si
faceva
chiamare Coco, ma che rispondeva in realtà al nome di
Carlotta, avevano passato
tutto il tempo a digitare furiosamente sui loro cellulari e Caterina
aveva
avuto la netta impressione che non fossero minimamente interessate a
fare
amicizia.
Dei
tre ragazzi, invece, l’unico che si fosse dimostrato
interessato a lei era
Lorenzo, un giovane bruno e con le spalle larghe, che le aveva
illustrato con
somma dovizia di particolari le meraviglie della barca a vela,
offrendosi
addirittura di portarla a fare un giro, se avesse voluto. Gli altri
due,
Giorgio e Mirco, l’avevano a malapena degnata di
un’occhiata e di una stretta
di mano frettolosa.
Non
che Caterina se ne dispiacesse, comunque. Le erano bastati cinque
minuti per
capire che gli amici di Michael appartenevano al genere di persone che
aveva
sempre cercato di evitare, i ricchi figli di papà
eternamente convinti di
essere un gradino al di sopra della volgare plebaglia. Schifosissimi
fighetti, pensò la giovane, lanciando
un’occhiata disgustata alle due
ragazze chine sullo smartphone. Manon, la francese bruna, indicava
qualcosa con
un’unghia laccata di rosso, mentre la bionda Carlotta annuiva
piano, le labbra
piegate in un sorrisino di scherno.
Caterina
non riuscì a reprimere un brivido di repulsione.
«Hai
freddo?» chiese Michael, che si era accorto del tremore che
le aveva scosso le
spalle.
La
ragazza fece un segno di diniego, evitando però di spiegare
quale fosse la
reale causa di quel brivido. «No, ma credo che
andrò a fare due passi: inizio a
essere stanca di stare seduta.»
Così
dicendo, la ragazza si alzò e infilò i piedi
scalzi nei sandali di cuoio,
chinandosi poi per allacciare il cinturino usurato
dall’utilizzo. Semisdraiato
sulla coperta scozzese, il giovane la guardò dal basso in
alto e poi si mise a
sedere. «Hai ragione, farei pure io due passi»
fece, stiracchiandosi. «Ti
accompagno… se non ti dispiace, ovviamente.»
Caterina,
che aveva segretamente sperato che Michael le facesse
un’offerta del genere –
se non altro per non gironzolare da sola – sorrise.
«Ma figurati: vieni pure!»
Quando
il ragazzo balzò in piedi rivolgendole un sorriso radioso,
l’istinto spinse la
giovane a lanciare un’occhiata veloce in direzione di
Carlotta e Manon: se la
ragazza bionda era completamente assorbita dal piccolo schermo che
aveva
davanti agli occhi, la francese aveva abbandonato il cellulare e ora
stava
seguendo i movimenti di Michael. Nei suoi occhi verdi, Caterina
credette di
scorgere un’ombra gelosa e la cosa la mise immediatamente di
buonumore.
«Andiamo
da questa parte?» propose Michael, indicando con una mano il
sentierino curato
che correva serpeggiando tra salici e ontani. «Se non ricordo
male, a una
decina di minuti da qui c’è un punto panoramico
che guarda verso nord: è un
posto carino.»
Allettata
dalla prospettiva di camminare tra le ombre danzanti che i rami dei
salici
proiettavano a terra, la ragazza annuì. Quando ebbero
percorso poche decine di
metri, però, Caterina divenne consapevole dello sguardo di
Michael, puntato su
di lei. Scostandosi i capelli dagli occhi, gli rivolse uno sguardo
cauto. «Sì?»
Lui
sorrise di nuovo, ma sul suo volto alla giovane parve di intravedere un
moto di
incertezza. «Sei silenziosa, oggi»
esordì Michael, dopo qualche istante. «Non
mi hai detto cosa ne pensi dei miei amici.»
Caterina
volse lo sguardo al lago che brillava alla sua sinistra, solo in parte
oscurato
dagli alberi. «Be’, non mi pareva carino fare
commenti su di loro… non in loro
presenza, almeno.»
«Ah.»
Michael la guardò con fare eloquente. «Quindi
suppongo che non ti abbiano fatto
una gran bella impressione, eh?»
La
ragazza avvampò. «No, be’…
Lorenzo sembra simpatico» si affrettò a precisare,
con la lingua che inciampava un po’ nelle parole. Quando il
giovane non
commentò, ma sorrise ironico, Caterina sospirò
platealmente e allargò le
braccia in segno di resa. «Non sono la gente che frequento di
solito, ok? I
due… Mirco e Giorgio, se non sbaglio, non mi hanno nemmeno
guardata in faccia,
quando mi hanno stretto la mano, e comunque mi hanno ignorata per tutto
il
tempo. E le due ragazze non hanno praticamente alzato gli occhi dal
cellulare.
Non mi sembrano esattamente la quintessenza della simpatia,
ecco.»
Michael
parve sul punto di ribattere, ma poi scrollò le spalle.
«Non posso darti tutti
i torti, in effetti. Ma non sono cattivi, sai? È solo che
siamo un gruppo molto
unito e per un nuovo arrivato può essere difficile entrarne
a far parte.»
Caterina
fu sul punto di dire che lei non aveva proprio nessuna intenzione di
entrare a
far parte della cricca degli amici di Michael – a lei
interessava lui,
non gli individui che lo circondavano – ma si morse la lingua
prima che le
parole potessero lasciare la sua bocca. Non essere asociale,
si
rimproverò mentalmente. «Diciamo che la
prima accoglienza è stata piuttosto
freddina» disse, invece. «Magari la prossima volta
che mi vedranno si
scalderanno un po’ e smetteranno di fingere che io sia del
tutto inesistente?»
Gli
occhi del giovane parvero brillare. «Oh, questo vuol dire che
ci sarà una
prossima volta? L’esperienza odierna non ti ha fatto venire
voglia di fuggire a
gambe levate?»
Quelle
parole solleticarono qualcosa nella sua mente e Caterina si chiese se
quello
fosse il momento giusto per affrontare una questione che
l’aveva angustiata per
tutta la giornata. «No, direi di no» disse,
cercando di capire quale fosse il
modo migliore per introdurre l’argomento. «Anche
se, in effetti, ci sarebbe un
po’ di gente che sarebbe ben felice, se lo facessi.»
Sul
volto del giovane passò un’espressione che la
ragazza non seppe interpretare.
«Per esempio?» indagò Michael.
Caterina
si strinse appena nelle spalle. «Manon. Quando ha visto che
siamo andati via
insieme, aveva l’aria tutt’altro che
soddisfatta.» Non appena ebbe pronunciato
quelle parole, la ragazza arrossì, temendo che Michael vi
leggesse qualcosa di
più di quello che lei aveva voluto intendere. E se
adesso pensasse che ho
accettato di rimanere da sola con lui perché speravo che
succedesse qualcosa?
Si chiese, mentre l’imbarazzo le stringeva la gola. Magari
pensa che io
voglia entrare in competizione con Manon o qualcosa del
genere…
Mordicchiandosi
nervosamente le labbra, la ragazza cercò di allontanare quei
pensieri.
Dopotutto, lei e Michael erano rimasti da soli innumerevoli volte,
nelle ultime
settimane, e mai l’aveva sfiorata il pensiero che il giovane
potesse credere
che lei avesse un doppio fine. Anche se, in
realtà, un fondo di verità
potrebbe anche esserci, in quel pensiero.
Con
la coda dell’occhio, Caterina studiò la reazione
di Michael. Quando questo
scoppiò a ridere, però, si voltò verso
di lui e lo guardò confusa. «Beh?»
chiese, senza capire il perché di quella risata improvvisa.
«Sono
più che sicuro che Manon sia più interessata a
te, che a me» sghignazzò. «In
ogni caso, però, c’è un’altra
deliziosa francesina che l’aspetta trepidante
dalle parti di Grenoble e non mi risulta che sia attualmente in cerca
di
un’avventura estiva.»
Caterina
rimase in silenzio per qualche istante, sorpresa dalla risposta del
giovane. Che
strano, pensò. Da come lo guardava, non
avrei mai detto che fosse
lesbica. Comunque si vede che non sono proprio il suo tipo,
perché mi ha
schifata alla grande.
«Ah»,
abbozzò, dopo qualche istante, «allora
avrò interpretato male la situazione.»
«Direi
proprio di sì!» annuì Michael con
vigore. Poi il suo sguardo si fece di nuovo
acuto. «C’è qualcun altro che vorrebbe
opporsi alla nostra fruttuosa e
promettente amicizia?»
La
ragazza esitò, distratta anche dal tono vagamente insinuante
con cui il giovane
aveva pronunciato la parola “promettente”.
«Ah… Hasim» esalò, poi,
provando un
inspiegabile senso di vergogna nel pronunciare il nome del buttafuori
al
cospetto di Michael.
Il
ragazzo corrugò la fronte. «Chi?»
chiese, gli occhi socchiusi come se si stesse
sforzando di ricollegare quel nome a un volto.
«Hasim»
ripeté Caterina in un sospiro. «Il buttafuori del Dream.
Quello che hai
incontrato la sera in cui… ehm, la sera in cui ci siamo
conosciuti.»
Michael
smise improvvisamente di camminare e sul suo volto passò un
lampo di
comprensione. «Oh… quel tizio»
mormorò, in un tono che alla ragazza parve quasi
irritato. «L’hai visto ancora?»
Sentendosi
improvvisamente sotto accusa, Caterina incrociò le braccia
davanti al petto e
si piantò davanti a Michael, le gambe leggermente divaricate
come per
guadagnare maggiore stabilità. «Be’,
ovviamente sì: per quanto poco mi piaccia,
ultimamente al Dream ci vado spesso, visto che ci
suona la mia migliore
amica. Hasim lavora lì, quindi mi è capitato di
incontrarlo in un paio di
occasioni.»
Michael
sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso ironico.
«Va bene», concesse,
«ma perché dici che quel tipo ha qualcosa contro
il fatto che noi due ci
frequentiamo?»
La
giovane
fu tentata di mentire, di dire che Hasim non l’aveva mai
interrogata in
proposito e che si trattava solamente di sue supposizioni, ma poi
decise che
era giunto il momento di andare in fondo a quella faccenda. Anche a
distanza di
parecchie ore, le parole che l’uomo le aveva rivolto la sera
prima risuonavano
sinistramente nella sua testa e Caterina sentiva che esse avevano
creato una
microscopica crepa nella fiducia che aveva deciso di concedere a
Michael. E
questa cosa non va bene, decise, risoluta. Prima
sgombriamo il campo da
dubbi ed equivoci e meglio è!
Sospirando,
la ragazza si passò una mano tra i capelli. «Ieri
sera, mentre ero al Dream
con un paio di amiche, mi ha chiesto di potermi parlare in
privato» confessò.
«Per farla breve, Alessandra, la ragazza che suona al locale
e che lui conosce
bene, gli ha detto che ci stiamo frequentando, per così
dire. E Hasim… ecco, mi
ha detto che non dovrei farlo. Non so perché, ma sembra
convinto che tu non sia
esattamente una persona affidabile: non ricordo le testuali parole, ma
mi ha
praticamente fatto capire che, secondo lui, saresti un poco di
buono.»
«Ma
si può essere così bastardi?»
sibilò Michael.
Quando
si rese conto che il giovane non sembrava intenzionato ad aggiungere
altro,
Caterina gli si avvicinò di qualche passo, arrivando a
sfiorargli il torace con
le braccia. «Ma io non ho capito una cosa: vi
conoscete?»
Il
volto del ragazzo si contrasse in una smorfia di frustrazione.
«No!» gemette.
«Non l’avevo mai visto prima di quella sera al
parcheggio e, grazie a Dio, non
l’ho più rivisto nemmeno in seguito.»
«E
allora perché ce l’ha tanto con te?»
insistette la giovane, pur essendo
consapevole che difficilmente Michael avrebbe avuto una risposta a quel
quesito.
Il
ragazzo si strinse infatti nelle spalle. «E che cazzo ne so?
Si vede che ha
deciso di avercela con me per un qualche motivo!»
«Forse…»,
azzardò lei, «forse non gli hai fatto una gran
bella impressione quella sera
nel parcheggio. Se davvero non ti conosce, magari pensa che tu sia uno
sbandato
o uno che passa le giornate a bere. Non vedo davvero
nessun’altra spiegazione.»
Michael
sbuffò. «Sì, va be’,
è uno che lavora in un locale notturno: hai idea di quanta
gente ubriaca incontra, quello, in una settimana? Non so
perché abbia deciso di
ricordarsi proprio di me.» Il giovane tacque tutto
d’un tratto, poi sgranò gli
occhi. «A meno che… lo conoscevi già,
la sera che ci siamo incontrati?»
Caterina
scrollò le spalle. «Solo di vista: ci avevo giusto
parlato un paio di volte. Me
l’ha presentato Alessandra tempo fa.»
Sul
volto di Michael comparve un sorriso tagliente. «Secondo me,
quello si è preso
una cotta per te.»
L’idea
le parve talmente ridicola che Caterina non riuscì a
trattenere una risatina.
«Eh? Non credo proprio!»
«E
io
invece ne sono praticamente convinto!» ribatté il
giovane, appassionandosi
all’idea. «È una spiegazione perfetta,
se ci pensi: è venuto a salvarti quando
eravamo nel parcheggio, perfetta reincarnazione dell’indomito
cavaliere che
trae d’impiccio la donzella in
difficoltà…»
«…
stava semplicemente facendo il suo lavoro» lo contraddisse
lei.
Il
ragazzo non l’ascoltò nemmeno.
«Probabilmente pensava di aver fatto colpo e di
certo non si aspettava che noi due ci incontrassimo ancora. Poi ha
scoperto che
abbiamo continuato a vederci e…» Michael si
interruppe, come se il flusso dei
suoi pensieri l’avesse condotto in un luogo inaspettato.
«Suppongo», riprese,
parlando più lentamente, «che abbia equivocato
la natura del nostro
rapporto e si sia fatto chissà quali film mentali. Credendo
di doversi disfare
di un fidanzato indesiderato, avrà ben pensato di fare un
po’ di insinuazioni
sul mio conto. Così, giusto per spaventarti un po’
e spingerti ad allontanarti
da me.»
Caterina
boccheggiò per qualche istante. «Ma io gli ho
spiegato come stanno le cose» si
difese, cercando di formulare le parole con una lingua che si era fatta
d’un
tratto secca. «Gli ho detto che mi hai aiutata a passare un
esame…»
«E
lui ti ha creduto?» la interrogò Michael,
inarcando le sopracciglia.
«Non
so» replicò lei. «Suppongo di
sì, però. Non ha insistito per sapere se tra di
noi ci fosse… ecco, qualcosa.»
Nel pronunciare quelle parole, la ragazza
sentì il ben noto rossore farsi nuovamente strada sulle sue
guance. Odiava
arrossire in quel modo: la faceva sentire una ragazzina alle prime
armi. La sua
pelle terribilmente pallida, però, si comportava come una
cartina al tornasole
e traduceva in sfumature di colore tutte le sue emozioni. E
adesso Michael
capirà perfettamente che l’idea di noi due insieme
mi fa un certo effetto!
Pensò la giovane, lanciando un’occhiata di
soppiatto al ragazzo.
In
effetti, Michael la fissava come se stesse analizzando il rossore che
le
macchiava il viso e faceva scolorire le lentiggini che le coprivano
guance e
zigomi. Le sue labbra si piegarono in un sorriso appena accennato.
«Forse,
allora», riprese dopo qualche secondo, «si
preoccupa di quello che potrebbe
accadere in futuro: magari vuole disfarsi di un possibile
rivale.»
Caterina
ebbe l’impressione di trovarsi su un terreno ripido e
scivoloso. La discesa
conduceva in un luogo in cui desiderava fortemente arrivare, eppure
quel primo
passo, lo slancio verso il vuoto a cui non sarebbe poi più
stato possibile
porre rimedio, la spaventava. In imbarazzo, cercò una
risposta che dirottasse
la conversazione dalla direzione che Michael aveva voluto darle.
«In ogni
caso», disse, con voce un po’ strozzata,
«è un bene che tu non sia venuto, ieri
sera. Non avevo nessuna voglia di assistere a uno scontro
diretto!»
Il
ragazzo sobbalzò, improvvisamente distratto. «Oh,
già! Che cretino: non ti ho
più detto perché ieri ho deciso di non
venire!»
Con
un’esalazione che era per metà di sollievo e per
metà di delusione, Caterina
sorrise. «In effetti me le devi, delle spiegazioni: ieri mi
hai praticamente
sbattuta fuori dalla macchina…» disse, cercando di
imprimere alla propria voce
un tono e un’intonazione normali.
Lui
le rivolse uno sguardo dispiaciuto. «Scusami»
gemette, giungendo le mani
davanti al viso in un cenno di preghiera. «È che
sono superstizioso e non mi
andava di sbottonarmi troppo. “Non dire gatto
se non ce l’hai nel
sacco”… cose del genere, sai.»
Incuriosita,
Caterina inclinò il capo verso una spalla. «Cosa
vorrebbe dire?»
Michael
sorrise e si lisciò la maglietta con aria di sussiego.
«Ebbene, ieri sera ho
preferito restare in casa perché stavo aspettando una
telefonata importante.»
«Ovvero?»
gli resse il gioco lei, che già credeva di aver capire dove
sarebbe andato a
parare.
«Ho
ottenuto uno stage di sei mesi alla Brembo!»
annunciò con orgoglio il ragazzo.
«I dettagli non sono ancora definiti, ma dovrei riuscire a
occuparmi proprio di
marketing, il che sarebbe semplicemente perfetto. Non è un
lavoro vero, è
chiaro, ed è solo per sei mesi, ma è
un’azienda talmente importante che anche
un semplice stage fa curriculum.»
«Oh,
bene!» sorrise Caterina, sinceramente felice per il successo
del giovane. «Da
qualche parte bisogna pur iniziare, giusto? E poi, finito lo stage,
potrebbero
sempre tenerti, no?»
Il
ragazzo si strinse nelle spalle. «Non so se in questo periodo
stiano assumendo,
ma uno può sempre sperarci. Per adesso, però, mi
va bene così.»
Così
dicendo, Michael riprese a camminare lentamente, dirigendosi verso il
punto
panoramico che aveva menzionato poco prima. Caterina lo
seguì, senza riuscire però
a scacciare l’impressione che ci fosse qualcosa in sospeso,
tra di loro. Il
silenzio intervallato dal frusciare delle foglie e dalle grida dei
bagnanti era
denso d’attesa, e la ragazza sentì montare dentro
di sé il bisogno fisico di
dire qualcosa.
«Te
la sei presa?» la precedette però Michael.
Lei
lo guardò, senza capire a cosa si stesse riferendo.
«Eh?»
«Ieri
pomeriggio, quando ti ho detto che non potevo accompagnarti al Dream:
te
la sei presa per il fatto che ti ho scaricata senza spiegarti quello
che stava
succedendo?»
Certo
che sì! Pensò Caterina. Tuttavia,
ingoiò quella risposta: non aveva il
coraggio di parlargli della gelosia che l’aveva colta quando
se l’era
immaginato in compagnia di un’altra donna. «Ammetto
di esserci rimasta un po’
male» confessò invece. «Ho pensato di
aver fatto qualcosa di male, magari di
essere risultata troppo invadente…»
Michael
si voltò verso di lei e i suoi occhi parvero accendersi di
una luce calda,
quasi in contrasto con il blu profondo delle sue iridi. «Non
risulteresti mai
molesta, tu» le disse, e Caterina seppe che era assolutamente
sincero.
Sentendosi
quasi timida, abbassò gli occhi, combattuta tra il desiderio
di ristabilire la
distanza tra sé stessa e il ragazzo e il bisogno di
avvicinarsi ulteriormente a
lui. Sospesa in quella sorta di limbo, Caterina non mosse un muscolo
fino a
quando non sentì le dita di Michael sfiorarle il viso. Il
giovane le percorse
la guancia in una carezza leggera, scivolando dalla curva dello zigomo
fino
alla rotondità del mento, e la ragazza sentì
qualcosa cedere all’altezza delle
ginocchia e un calore liquido raccogliersi al centro del petto.
Quasi
per caso, Caterina alzò lo sguardo e inciampò in
quello di Michael. C’era
qualcosa nel suo volto, nell’essenza stessa del suo essere,
che la attirava con
una forza ineluttabile, e la giovane ebbe l’impressione che
la gola le si
facesse più stretta per l’emozione.
«Dici?»
chiese in un sussurro involontario.
Michael
non replicò, ma mosse il capo in un piccolissimo cenno
d’assenso. Quasi come se
la voce della ragazza l’avesse spinto ad agire, il giovane
fece scorrere un
braccio attorno alla vita di lei e l’attirò
dolcemente a sé. Caterina quasi
incespicò e si sbilanciò in avanti. Le sue mani
volarono istintivamente sul
petto di Michael e lì rimasero, stregate dal tepore solido
che riuscivano ad
avvertire attraverso il sottile strato di cotono azzurro della
maglietta.
Alla
fine, siamo davvero alti uguali, notò in maniera
del tutto estemporanea la
ragazza, ricordando il dubbio che l’aveva assalita quando il
giovane le si era
parato davanti nel parcheggio.
Ma
le
circostanze ora erano mutate e, senza che lei se ne accorgesse, Michael
si era
fatto più vicino. Caterina fece appena in tempo a
risucchiare un mezzo respiro
tremulo che le labbra del giovane si posarono sulle sue, morbide e
calde. Per
uno o due secondi, tutti i pensieri parvero evaporare dalla testa della
ragazza, che rimase sospesa in uno stato di deliziata sorpresa. Poi si
rese
conto di quello che stava accadendo e un gemito leggero si
levò dalla sua gola.
Istintivamente, Caterina socchiuse la bocca e i denti di Michael si
strinsero
delicatamente sul suo labbro, facendola rabbrividire.
Proprio
mentre le dita della ragazza affondavano nella stoffa della maglietta
del
giovane, quello si allontanò dalle sue labbra e retrocedette
di mezzo passo. C’era
un’ombra di incertezza, nei suoi occhi, e Caterina
provò un profondo moto d’affetto
nei suoi confronti.
Non
era mai stata una persona che amava fare il primo passo, ma, giunti a
quel punto,
non vedeva il senso di prolungare oltre l’attesa e di
prestare orecchio ai
dubbi che la stringevano con tentacoli sottili e taglienti.
Michael
socchiuse la bocca, forse avrebbe voluto dire qualcosa, ma le mani
della
ragazza si strinsero sulle sue spalle e la giovane lo attirò
a sé, baciandolo
di nuovo. Lo sentì sorridere contro le sue labbra e poi il
braccio che ancora
le circondava la vita si fece più forte, mentre
l’altra mano di lui saliva tra
i suoi capelli, arrivando poi a posarsi sulla sua nuca. Quando il
ragazzo approfondì
il bacio, Caterina si sentì leggera e al tempo stesso
incredibilmente pesante:
si spinse verso di lui, unendo il petto con quello del giovane, come se
solo
quel contatto caldo fosse in grado di tenerla ancorata alla
realtà.
La
mano
di Michael si strinse sulla sua vita, quasi possessiva, e, per tutta
risposta,
Caterina gli morse le labbra, facendolo sussultare per la sorpresa.
Michael si
staccò da lei e rimase per qualche istante con la fronte
appoggiata a quella
della giovane, gli occhi scintillanti e sulle labbra un sorriso che gli
illuminava
il volto.
Anche
Caterina sorrise, sentendosi stordita e incredibilmente fortunata a
essere lì,
con un ragazzo così bello che, per qualche oscura ragione,
ricambiava il suo
interesse. Michael le accarezzò di nuovo il viso e
strofinò il naso contro
quello di lei, strappandole una risatina.
«Allora»,
sussurrò il ragazzo, con voce leggermente roca,
«hai visto che Hasim
faceva bene a preoccuparsi?»
Ancora
sconvolta da quel bacio tanto desiderato quanto insperato, Caterina
riuscì solo
a scuotere il capo con aria di finto rimprovero.
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Capitolo 13 *** 12. Incontri ***
Quasi
cent’anni prima
Con
le maniche rimboccate fino ai gomiti, Margherita immerge
nell’acqua fredda del
lavatoio un paio di pesanti pantaloni neri che appartengono a suo
padre. Si
sforza di non alzare lo sguardo dall’acqua che, da
trasparente che era, ha
ormai assunto una lattiginosa sfumatura azzurrina a causa di tutta la
schiuma
di sapone che vi è disciolta. Agnese, intenta a lavare i
panni sul lato opposto
del lavatoio, le ha chiesto di non guardare a destra e lei, per
accontentare la
sua imprevedibile amica, non guarda.
«Eccolo!»
sussurra ad un tratto la ragazza bionda, con la voce che trema
dall’emozione.
«È lui!»
A
sedici anni, Agnese ha iniziato a interessarsi ai ragazzi. E non a un
ragazzo
solo, ma a ogni giovane uomo che si fermi a studiarla un po’
più a lungo di
quanto non sia strettamente necessario. Reprimendo un sorriso
accondiscendente,
Margherita interrompe i movimenti metodici con cui sta insaponando una
gamba
dei pantaloni. «Posso guardare, adesso?» chiede.
«Ma
sì, ma sì» annuisce freneticamente la
sua amica.
Fingendo
indifferenza, la ragazza bruna volta il capo e scruta la strada che, da
qualche
anno a quella parte, ha preso a riempirsi di automobili, motorini e
agili
biciclette. Ed è proprio lì, in sella a una
bicicletta nuova fiammante, ma con
un piede a terra, che vede l’uomo che ha catturato
l’interesse di Agnese:
l’Aldo Pépp, miracolosamente
tornato in patria quando ormai tutti lo
davano per morto.
Al
termine della guerra, l’Aldo si trovava in Albania ed era
stato quindi
rimpatriato a bordo di una nave che era sventuratamente naufragata nel
cuore
del Mediterraneo. Le voci che correvano per il paese raccontavano che
il
ragazzo, che non sapeva nuotare, aveva creduto di morire e si era
rassegnato ad
andare a fondo insieme al bastimento. Per sua fortuna, quel giorno si
era
trovato accanto una sorta di angelo custode: un suo commilitone, tale
Raffaele
da Otranto, l’aveva convinto ad affidarsi a lui. Che
l’Aldo si tuffasse, aveva
detto, ci avrebbe poi pensato lui a tenerlo a galla. E così
aveva fatto.
Una
volta che si era trovato nuovamente con i piedi saldamente piantati
sulla terra
ferma, l’Aldo aveva insistito per recarsi personalmente in
Puglia e per
incontrare la famiglia del ragazzo che gli aveva salvato la vita,
così da far
comprendere ai suoi genitori che razza di figlio eroico avessero.
Sfortunatamente, l’Aldo non aveva mai pensato di far avere
notizie di sé ai
propri, di genitori. Questi, una volta appreso che la nave su cui
viaggiava il
figlio era colata a picco, l’avevano dato per morto: del
resto, l’Aldo e
l’acqua non erano mai andati particolarmente
d’accordo, e se il giovanotto non
aveva mandato nemmeno una lettera, significava che si trovava ormai sul
fondo
del mare. Si era dunque celebrato un funerale a cui aveva presenziato
pure il
sindaco e durante il quale una bara tristemente vuota era stata
interrata nel
cimitero del paese tra la commozione generale.
Nel
frattempo, l’Aldo se l’era presa comoda. Si
vociferava che le bellezze della
Puglia l’avessero stregato, o forse a stregarlo era stata
solo una certa
Annina, una contadina che il ragazzo menzionava con una certa
frequenza.
Ciononostante, dopo un paio di mesi aveva sentito la nostalgia di casa
e così,
senza particolare fretta e senza sospettare che i suoi cari avessero
già
celebrato il suo funerale, s’era avviato verso nord. In una
sera di maggio,
aveva fatto un’ultima tappa sul lago per rifocillarsi a forza
di polenta e
agoni ed era stato lì, in quella Varenna arroccata sul
fianco della montagna,
che l’aveva trovato la signora Pina Rogantini. La Pina, che
era scesa in
pianura per far visita a una figlia che lì s’era
sposata, se l’era trovato
davanti sul lungo lago, l’aveva riconosciuto e per poco non
aveva avuto un
infarto, credendo di essersi imbattuta in un fantasma.
Rassicurata
la comare e appreso quanto era accaduto, l’Aldo era ritornato
in valle in pompa
magna: per i primi tempi, era stato una sorta di eroe di paese e non
poteva
mettere il naso fuori di casa senza che qualche suo compaesano si
fiondasse su
di lui e gli chiedesse di raccontargli i dettagli del suo viaggio di
ritorno
dall’Albania. Il giovanotto era stato addirittura
intervistato da un
giornaletto locale, ma poi la sua notorietà era andata
scemando.
Ora,
al principio dell’estate, l’Aldo è
tornato a essere un ragazzo come tanti, ma
la sua presenza continua a destare un certo interesse in una
determinata
categoria di persone: le ragazze nubili.
Non
me lo ricordavo così, pensa Margherita, spiandolo
da dietro la colonna che
sorregge il tetto del lavatoio. Prima di partire per la guerra,
l’Aldo era
stato un ragazzetto mingherlino e con un viso tormentato
dall’acne, mentre
adesso, a qualche anno di distanza, è un giovane uomo alto e
robusto, con le
spalle larghe, la mascella squadrata e un lucente ciuffo di capelli
biondi.
La
ragazza lo osserva con lo stesso distaccato interesse con cui osserva i
dipinti
in chiesa. A differenza di Agnese, che si è fatta tutta
rossa e si sta già
rassettando gli abiti, sistemandosi la camicetta così che
questa metta in
risalto il seno, lei non prova che una blanda ammirazione nei confronti
del
ragazzotto. Non è il tipo d’uomo che le interessa.
In tutta onestà, non ha
ancora capito quale sia il tipo di uomo che le interessa. Forse non le
dispiace
il fratello maggiore di Agnese, Alberto, che con la sua pelle
abbronzata e i
suoi tratti mediterranei le fa venire in mente pensieri esotici. Peccato
che
sia già sposato, si dice. E peccato che il
fratello mediano, Giovanni,
detto Schvann di Zecch a causa della sua
professione di pastore di
capre, non gli assomigli più di tanto, né nei
colori né nella propensione
all’igiene personale.
All’oscuro
dei pensieri che stanno passando per la testa dell'amica, Agnese si
sporge un
po’ al di sopra della vasca del lavatoio e fissa apertamente
l’Aldo, sperando
forse di attirare la sua attenzione con la mera forza del pensiero. E,
caso
curioso, la tattica pare funzionare. Sentendosi osservato, il ragazzo
si volta
verso di loro. Per un istante, i suoi occhi indugiano sulla figura
sottile Margherita:
sono solo pochi secondi, ma tanto basta perché lei
irrigidisca la schiena e
pieghi le labbra in una smorfia sdegnosa, un’espressione
volta a scoraggiare
qualsiasi approccio.
Non
lo vede, ma sa che l’Aldo adesso sta sorridendo e, forse, sta
scuotendo la
testa. Sa cosa pensano di lei, i ragazzotti del paese. Dicono che
è bella, ma
altezzosa. La Signora, la chiamano: un titolo
derisorio, assegnatole
solo per canzonarla. Margherita però non se la prende e,
anzi, se ne fa un
vanto: che la considerino pure una che non è buona per
essere corteggiata e
sposata, a lei sta solo bene. Non vuole fastidi e non desidera avere
attenzioni
non richieste.
Davanti
al suo atteggiamento ostile, Agnese le rivolge una lunga occhiata di
rimprovero
che però si dissolve come neve al sole nel momento in cui
l'Aldo smonta dalla
bicicletta e, afferrandola per il manubrio, si avvicina a loro, gli
occhi fissi
sulla ragazza bionda.
«Buongiorno,
Agnese» le dice con voce suadente e un sorriso che mette in
mostra due file di
denti sorprendentemente dritti.
«Buondì,
Aldo» replica lei, gli occhi bassi come per modestia o
timidezza.
Dall'altra
parte del lavatoio, Margherita non riesce a nascondere un'espressione
scettica.
Anche se l'età ha attenuato l'esuberanza infantile di
Agnese, sa bene che la
ragazza è tutt'altro che timida o modesta: l'atteggiamento
pudico che sta
esibendo è in realtà civetteria, e Margherita si
chiede se l'Aldo se ne renda
conto o no.
«Pensavo
di venire a trovare tuo fratello Giovanni, un giorno di
questi» riprende il
ragazzo, senza staccare gli occhi dai riccioli biondi di Agnese.
«È da tanto
che non lo vedo. Vivete ancora tutti e due con la mamma,
vero?»
Agnese
annuisce. «Sì. Mio fratello però lo
trovi solo di sera, perché di giorno sta
dietro alle capre.»
L'Aldo
sorride. «Allora vorrà dire che verrò
dopo cena» dice, con una strana luce
negli occhi chiari. «Adesso che andiamo verso la bella
stagione, si possono
anche fare delle belle passeggiate prima che faccia notte.»
Nell'udire
quelle parole, la ragazza gli rivolge un sorriso che rivela la sua vera
personalità. «Mi pare una bellissima
idea» approva, incontrando lo sguardo di
lui.
Il
giovanotto annuisce. «Allora
è deciso: ci
vediamo una sera di queste. Buona giornata, Agnese.» Il
ragazzo fa come per
sollevare un cappello che non ha in un cenno di saluto, poi monta
nuovamente
sulla bicicletta e rivolge un cenno del capo a Margherita. «Signora»
le
dice, in un tono deferente che sa tanto di sarcasmo.
Quando
si è allontanato a sufficienza, Agnese lancia un gridolino e
fa un saltello sul
posto, stringendosi al petto il pezzo di sapone viscido e scivoloso che
ancora
ha tra le mani. «È tanto bello, vero?»
chiede, cercando l'approvazione di
Margherita.
La
ragazza mora si stringe nelle spalle. «Immagino di
sì»
replica con scarso entusiasmo. Per essere bello, l'Aldo
è bello, ma
Margherita lo trova anche tanto banale, nonostante quel suo rientro in
patria
così avventuroso.
Sulle
ali dell'entusiasmo, Agnese ignora la scarsa partecipazione dimostrata
dall'amica, la testa senza dubbio piena di sogni e fantasticherie
romantiche.
Per i successivi dieci minuti, le due lavano i panni in silenzio,
ognuna
immersa nei propri pensieri. Margherita è intenta a
risciacquare un paio di
spesse calze di lana, quando si accorge che Agnese si è
immobilizzata e guarda
la strada con il sapone ancora stretto nella mano destra.
Sarà
tornato l'Aldo? Si chiede la ragazza bruna con una punta di
irritazione, ma
quando alza il capo e segue lo sguardo dell'amica, si rende conto che
l'attenzione di Agnese non è stata attirata dal ragazzo di
cui è invaghita. Lì
dove prima c'era il giovanotto in sella alla bicicletta, è
ora parcheggiata una
Fiat rossa fiammante.
Non
se ne vedono spesso di automobili così, lì da
quelle parti, e lo stomaco della
ragazza si contrae in una morsa improvvisa. C'è qualcosa che
la pungola
all'altezza dello sterno, un vago presentimento che le stringe la gola,
ma,
sulle prime, Margherita non riesce a dare un nome a quelle ombre.
Guarda invece
Agnese e vede che la sua fronte liscia è increspata da tre
piccole rughe di
concentrazione.
Prima
che le due ragazze riescano a scambiarsi una sola parola,
però, uno degli
sportelli dell'automobile si apre e dal veicolo scende quella che alla
giovane
bruna pare la personificazione di un ricordo. È la
Zingara, riconosce
Margherita, e per un istante il mondo pare perdere la propria nitidezza.
Sono
passati molti anni dall'ultima volta che l'ha vista. Durante uno dei
loro
ultimi incontri, la donna le ha donato la piccola chiave d'ambra che la
fanciulla porta sempre appesa sopra al seno, e poi è svanita
nel nulla. È
scappata lontano per dare alla luce la sua bambina, ricorda
la ragazza, ma
i conti non tornano. Perché la Zingara non è
sola, ma porta al collo una
figuretta scura e ricciuta, un bebè che non può
avere più di un anno. La
bambina indossa un vestitino di pizzo bianco e rosa che l'identifica
come
appartenente al sesso femminile, ma Margherita pensa che quella non
può essere
la creatura che stava per nascere quand'era lei stessa una bimba,
perché è
troppo piccola. Dovrebbe avere nove o dieci anni, mentre
questa ancora non
cammina. Con un brivido d'apprensione, la ragazza si chiede
se qualcosa sia
andato storto: è stata forse una tragedia a tenere lontana
quella donna che un
tempo l'era stata amica?
Gli
occhi della Signora Mursciù – che, a conti fatti,
deve chiamarsi Madame
Mourchou, come direbbe la sua insegnante di francese
– incontrano quelli
delle due ragazze, e solo in quell'istante Margherita si rende conto
che non
sembra invecchiata d'un giorno.
Ma
ha
l’aria triste. Tanto, tanto triste, e questo nonostante la
bambina che si
stringe al petto. Margherita vorrebbe dire qualcosa, ma ogni parola che
le
nasce nella mente pare morirle in gola. Anche Agnese sembra essere
diventata
improvvisamente muta, solo che il suo volto mostra ancora l'espressione
contratta e confusa di poco prima. Nei suoi occhi verdi brilla uno
sguardo
quasi ostile e la ragazza bruna si rende conto che l'amica non sembra
felice di
rivedere la Zingara. È tesa, guardinga, e Margherita si
chiede il perché. Non
le mancavano le loro chiacchierate, quel brivido di fantastico che ora
non si
sa più spiegare, ma che a sei anni le sembrava
così normale?
Chissà
poi se quelle cose che ricordo sono successe davvero? Con Agnese non ne
parliamo da anni, ormai, e adesso non so più dire se la
magia fosse vera, o se
ci fosse un trucco e una spiegazione dietro a ogni cosa apparentemente
priva di
senso.
Non
avrebbe dovuto lasciarsi scivolare tra le dita ciò che aveva
vissuto da
bambina, ma con l'arrivo della guerra il loro mondo era cambiato:
avevano
dovuto crescere in fretta e non c'era più stato tempo per le
fantasticherie. E
adesso, forse, è tardi.
La
Zingara si passa la bambina da un braccio all'altro e poi si avvicina
alle due
ragazze. «Margherita»
le dice, con la stessa voce morbida che la fanciulla serba ancora nei
propri
ricordi. «Mi dispiace essere stata via così
tanto.» C'è una nota tremula dietro
a quelle parole, ma la donna sembra voler fare il possibile per
mantenere un
tono saldo, senza cedimenti.
Anche se tutta la sua attenzione
è concentrata sulla Francesa,
con la coda dell'occhio la ragazza bruna nota che Agnese si
è irrigidita. Deve
averlo notato anche la Signora Mourchou, perché distoglie
gli occhi neri da
quelli azzurri di Margherita e si rivolge alla giovane bionda.
«E Agnese!» esclama,
rivolgendole un sorriso amichevole. «Come
stai?»
«Non c'è male,
grazie» replica Agnese, gelida, e Margherita
comprende che l'amica non ha mai veramente accettato la
disparità di
trattamento che la Zingara ha riservato loro.
La bimba che la donna regge tra le
braccia sgambetta
impaziente e la madre si china per posarla sulla striscia d'erba
selvatica che
cresce accanto al lavatoio. La piccola vi atterra con gioia e subito
afferra un
ciuffetto di parietaria, osservando affascinata le foglie che le
rimangono
appiccicate alle dita grassocce.
La Signora Mursciù la
osserva per qualche istante con gli
occhi pieni di tenerezza, poi si avvicina al lavatoio e sfiora con i
polpastrelli il legno ruvido delle assi che corrono
tutt’attorno alla vasca più
bassa. C’è imbarazzo, nel silenzio che per qualche
istante regna tra loro, e
Margherita si schiarisce la voce. «Come si chiama?»
chiede, indicando la bambina che razzola
ai loro piedi.
La donna si china appena per
spettinare i riccioli scuri della sua creatura. «Flora. Il
suo nome è Flora.»
Lo pronuncia alla francese, florà, in
quella che sembra quasi una
capriola lessicale.
Ed è la tua unica figlia? Vorrebbe chiedere Margherita.
Che ne è stato dell’altra, quella che
stava per nascere quando sei scappata
via prima della guerra? «È una bella
bambina» dice invece, non osando porre
quella domanda.
È solo uno scambio di
cortesia
che non porta a niente se non ad altro silenzio e la ragazza bruna
inizia a
sentirsi a disagio. Se ci fosse chiunque altro, davanti a lei,
l’avrebbe già
invitato ad andarsene e a lasciarle lavorare in pace, ma con la Signora
Mursciù
– Madame Mourchou!
– non può essere sgarbata.
C’è
però Agnese, che sembra non farsi remore ad affrontare la
questione di petto. «Perché
è qui?» chiede, lasciando che la
camicia che aveva in mano cada sull’asse con uno sciàf
che sembra un
colpo di frusta. Per un istante, Margherita crede che l’amica
si stia rivolgendo
a lei, poi si sente stupida comprendendo che la giovane ha invece usato
il lei
di cortesia che da bambine ignoravano.
Negli
occhi della Zingara passa un lampo smarrito, poi la donna china il capo
e il
suo volto sembra piegarsi in una maschera di dolore. «Mio
marito è morto» dice in un sussurro spezzato.
Agnese la guarda senza mutare espressione,
perché lei non l’ha mai conosciuto, il Signor
Mursciù, ma Margherita si sente
vacillare. Non sa nemmeno lei perché le sembri tanto
importante la morte di un
uomo con il quale non ha scambiato che poche parole scompagnate: il
dolore che
prova le pare quasi ingiusto, perché negli anni passati ne
sono morte tante, di
persone (compreso il papà di Agnese), e non capisce
perché quella morte debba
essere diversa. Però lo è. Perché il
marito della Francesa era grande, scuro e
imponente e, ai suoi occhi di bambina, non di questo mondo; e il fatto
che sia
morto la lascia come spaesata: se uno come lui
può morire, chi mai può
dirsi al sicuro?
«Mi dispiace» mormora, ma
è una frase
quasi senza senso, pronunciata da una voce che non le sembra nemmeno la
sua.
«Quindi adesso ha intenzione di restare
qui?» chiede ancora Agnese, attirandosi l’occhiata
perplessa di Margherita. Se
prima, mentre civettava con l’Aldo, il suo atteggiamento era
simile a quello di
una tortorella in amore, adesso c’è un che di volpesco
nella piega
sottile dei suoi occhi verde pallido.
La Zingara fa il gesto di asciugarsi una
lacrima che forse c’è e forse no, poi scuote il
capo. «No, non posso» dice.
«Devo andare via. Devo portare al sicuro la mia
bambina.»
Margherita si chiede se loro
l’avessero trovata, quelle persone di cui serba soltanto una
memoria
indistinta, quegli individui senza volto che l’avevano
costretta a scappare
dalla Francia e a lasciarsi alle spalle tutte le cose belle che aveva
costruito
in quel paese al di là delle Alpi. E poi si chiede anche
perché sia venuta a
cercarle al lavatoio.
«Dove…
andrà?» chiede, per un attimo
indecisa tra il vecchio tu e il nuovo e
più cortese lei. Se da un
lato sente che non c’è bisogno di tante
formalità tra loro due, dall’altro non
vuole offendere Agnese, che invece sembra intenzionata a mantenere le
distanze.
Gli occhi della Zingara sembrano farsi
ancora più scuri. «Via, lontano»
sospira, con la voce che trema ancora un po’.
«Non posso rivelarvi il luogo, è meglio che voi
non sappiate. Sono passata solo
per dirvi addio e per accertarmi che sia tutto a posto.»
La donna non aggiunge altro, ma Margherita
capisce benissimo a cosa si sta riferendo. Solleva una mano quasi
inconsciamente e posa le dita all’altezza del proprio sterno.
I suoi
polpastrelli sfiorano la sagoma famigliare della chiave
d’ambra e tanto basta
perché la Francesa le rivolga un piccolo sorriso di
gratitudine. Quasi non si vede,
ma la ragazza si sente riempire d’orgoglio. Sì,
è stata brava: per dieci anni
ha conservato quel piccolo oggetto apparentemente privo di valore. Non
ne ha
mai fatto parola con nessuno (se non con Agnese, tanti anni prima) e
non l’ha
mai mostrato a nessuno. Non ha capito perché sia tanto
importante, perché la
Zingara gliel’abbia affidato e si sia tanto raccomandata, e
cionondimeno l’ha
conservato come il più prezioso dei tesori.
Ha
la
sensazione di avere addosso lo sguardo di Agnese, ma quando alza gli
occhi vede
che l’amica sta fissando la Zingara, una mano sul fianco e
l’altra sull’asse
per lavare i panni. La conosce bene, l’espressione disegnata
sul volto della
ragazza: sta pensando che la Francesa si sia trattenuta fin troppo a
lungo e
che adesso possa anche andarsene.
Perché
la odio tanto? Si chiede Margherita, infastidita. È
davvero per la
storia della chiave, oppure c’è
dell’altro?
Come
in cerca di risposte, la giovane lascia che il suo sguardo corra verso
l’automobile dalla quale è scesa la donna e
sussulta. C’è qualcun altro, lì, un
conducente che fino a quel momento aveva ignorato. L’uomo
incrocia i suoi occhi
e Margherita sente il cuore accelerare i battiti.
Quasi
fosse stato richiamato dall’occhiata della ragazza,
l’uomo apre la portiera e
scende dalla Fiat rossa, avvicinandosi a loro a
grandi passi. Margherita
lo riconosce subito, anche perché non è che ne
abbia visti molti, di uomini
come lui: è l’amico della Zingara, quello dalla
pelle scura che tanti anni
prima aveva preso un fazzoletto grigio e l’aveva trasformato
in un medaglione.
Lei è cresciuta, ma per qualche motivo le sembra ancora
più imponente di quanto
non le sembrasse da bambina: si scopre a fissarlo a bocca aperta e a
notare che
nemmeno lui, al pari della Signora Mursciù, sembra
invecchiato. Solo i suoi
abiti sono cambiati e sembrano essersi fatti un po’ meno
eleganti di quelli che
ricordava.
Quando
raggiunge il lavatoio, la Zingara allunga una mano e gli stringe
brevemente un
braccio. “Vi ricordate di lui, vero?” chiede,
rivolta alle due ragazze.
Quelle
annuiscono in silenzio e sul volto dell’uomo compare un
sorriso gentile. “State
bene?” chiede. Si rivolge a entrambe, ma per qualche motivo
il suo sguardo
sembra indugiare su Margherita.
Vuole
sapere anche lui se la chiave è al sicuro, pensa
la ragazza, portandosi
nuovamente una mano allo sterno e premendo il palmo contro
l’oggetto che porta
appeso al collo. I loro occhi si incontrano ancora e quelli di lui
sembrano
farsi più caldi, quasi nascondessero un sorriso che solo lei
può vedere. La
giovane china il capo, mentre sulle sue gote compare un rossore che
spera che
nessuno noti. Le piace, quello sguardo.
L’uomo
cinge con un braccio le spalle della Zingara e la attira contro il suo
fianco.
Margherita si ritrova in mano il sapone senza nemmeno rendersi conto di
averlo
afferrato, mentre una sensazione mai provata prima le morde lo stomaco
e la
costringe a fissare l’acqua lattiginosa. Non le piace che
tocchi così la
Francesa. Non le piace che la Francesa si lasci toccare
così da lui. C’è
qualcosa tra di loro? L’idea non l’ha mai sfiorata
prima, perché lei era troppo
piccola per badare a quelle cose e perché comunque
l’aveva vista insieme a suo
marito, ma adesso… adesso…
“Vi
ha spiegato che lei e Flora dovranno andare via, giusto?”
chiede l’uomo,
spostando i suoi occhi caldi sulla donna al suo fianco.
“Sì,
ce l’ha detto.” È Agnese a rispondere e
Margherita non riesce a rammaricarsi
del tono distaccato con cui la sua amica ha parlato.
L’uomo
fa un piccolo cenno d’assenso. “Io le
accompagnerò nella loro nuova casa”,
dice, “ma poi tornerò qui, così che, se
avrete bisogno di me, io potrò
aiutarvi.”
“Non
darai un po’ troppo nell’occhio?” chiede
ancora la ragazza bionda. Ha usato
il ‘lei’ per rivolgersi alla Zingara, ma a lui
dà del ‘tu’, nota
Margherita. La cosa la disturba un po’, anche se non sa
spiegarsi il perché.
L’uomo
sorride, ma il suo sorriso sembra un po’ tirato, come se non
fosse del tutto
sincero. Forse Agnese non gli è molto simpatica.
“Ho imparato da tempo a non
dare troppo nell’occhio” ribatte. “Non
devi preoccuparti per me.”
Margherita
lo guarda di sottecchi e non riesce a soffocare la domanda che le si
affaccia
sulla punta della lingua. “Come la dobbiamo
chiamare?”
L’uomo
si volta appena verso di lei. “Il mio nome è
Hasim” dice. “Puoi chiamarmi
così.”
“Hasim”
ripete la giovane bruna. È un nome strano, che
però le sembra tanto semplice da
pronunciare.
Uno
sciabordio improvviso la costringe a riscuotersi dai suoi pensieri.
Agnese sta
ritirando i panni che aveva drappeggiato sul lungo bastone di legno
lasciato in
ammollo nella vasca superiore del lavatoio. Senza nemmeno strizzarli,
li getta
nel catino, fradici e pesanti per l’acqua che li inzuppa.
Margherita la guarda
con gli occhi sgranati. “Cosa stai facendo?”
La
ragazza bionda le punta addosso quei suoi occhi che adesso sembrano di
pietra
verde. “Si sta facendo tardi. Dovremmo tornare a casa. O, se
non altro, io devo
farlo: c’è il pranzo da preparare.” Una
stoccatina, quest’ultima, fatta apposta
per ricordare a Margherita che i suoi compiti a casa non si esauriscono
con
l’occasionale puntata al lavatoio.
“Scusate”
sussurra la Zingara, liberandosi dalla stretta dell’uomo e
piegandosi per
prendere in braccio la bambina che adesso le sta strattonando la gonna.
“Vi
stiamo facendo far tardi?”
No,
vorrebbe dire Margherita, ma l’espressione che passa sul
volto della sua amica
le fa morire le parole in gola. Agnese non sembra solo infastidita,
ora, sembra
quasi… preoccupata? È una
reazione strana, che non sa spiegarsi e che la
fa sentire come in sospeso tra due lealtà: deve stare dalla
parte di Agnese o
da quella della Signora Mursciù? Una volta non
c’era differenza, pensa
con rammarico. Una volta stavano tutte e due dalla stessa
parte.
La
ragazza non dice nulla, ma i due adulti sembrano capire. La Francesa
annuisce
con espressione grave e poi posa una mano sul braccio di Agnese. Sul
suo volto
passa un’ombra di tristezza e per una frazione di secondo
Margherita pensa che
la donna stia per dire qualcosa di importante. Ma è solo un
attimo e le labbra
della Zingara, che per un istante si erano schiuse, tornano a serrarsi.
“Buona
fortuna, piccola mia” mormora, prima di girare attorno al
lavatoio e
raggiungere Margherita.
La
giovane bruna abbassa il capo. C’è qualcosa che le
stringe la gola impedendole
di respirare e di parlare liberamente, di pronunciare quelle parole che
nemmeno
lei conosce, ma che sente che dovrebbe davvero dire perché,
se non lo fa ora,
non ci sarà una seconda occasione. La donna la abbraccia e,
quando la stringe a
sé, Margherita respira il suo profumo buono, che la fa
tornare con la mente a
quand’era bambina. Quella vera, di bambina, stacca una manina
dal collo della
madre e la porta sul capo della ragazza, accarezzandola quasi con
indulgenza.
Sorpresa
da quel contatto, Margherita reclina il capo all’indietro e
incontra gli occhi
di Flora, seri e profondi. Con due dita sfiora la guancia vellutata
della bimba.
«Buona fortuna» le dice
con la voce
che trema un po’.
«Anche a te, Margherita»
risponde la
Zingara, stringendole brevemente un braccio. «Fai attenzione
e, se avrai
bisogno di aiuto, fidati di Hasim.»
La ragazza annuisce, ma una punta di
irritazione le punge lo stomaco. Perché dovrei
aver bisogno di aiuto? Vorrebbe
chiederle. A che cosa devo fare attenzione? Si
rende conto che la donna
non ha mai risposto a quelle domande. Anni prima, quando le aveva
affidato la
chiave, le aveva detto che a tempo debito tutto si sarebbe chiarito, ma
sono
ormai passati dieci anni e non si è chiarito proprio niente.
Però capisce che
non è quello il momento giusto per insistere: la Signora
Mursciù ha fretta di
andare via, adesso, e poi c’è Agnese. Che,
chissà perché, non deve sapere
niente.
La giovane sposta lo sguardo sull’uomo e
gli rivolge un piccolo sorriso. Bene, vorrà dire che
chiederà spiegazioni a
lui, quando tornerà in paese. Quella prospettiva la riempie
il petto di un
calorino curioso.
«Addio, bambine» fa ancora la
Zingara,
allontanandosi di qualche passo. «No… ragazze.
Margherita, Agnese.»
La giovane bionda annuisce seccamente e con
la mano le rivolge un cenno di saluto, prima di sollevare il pesante
catino che
dovrà riportare a casa. Ha il capo chino e i riccioli chiari
le schermano il
volto, impedendo a Margherita di scorgere la sua espressione.
«Addio, Signora…» la
ragazza bruna esita. «Madame…»
«Nalowen» pronuncia lentamente
la Zingara.
«Mi chiamo così.»
«Addio, Nalowen» ripete
Margherita con una
stretta al cuore.
PS.
La vicenda di Aldo non me la sono inventata: ricalca, almeno a grandi
linee,
quella vissuta da un vecchietto del mio paese.
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