Quando il sole si innamorò di un fiore

di CHAOSevangeline
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I ***
Capitolo 2: *** Atto II ***



Capitolo 1
*** Atto I ***


Piccola nota iniziale: diversamente dal mio solito questa minilong composta da due atti non è una AU.
Vuole raccontare in modo leggero come ho immaginato l'inizio della storia fra Apollo e Giacinto al tempo del mito. Non ci sono dunque richiami alla mia storia "A Giacinto", nella quale però ho definito i caratteri dei personaggi secondo una mia interpretazione.
Per chi vorrà leggere vi aspetto nelle note finali!
Edit: la storia è stata inizialmente postata nella sezione Epico. Essendo però basata sul mito e non trattandosi di una AU, ho pensato che questa fosse infine la sezione più adatta.
Buona lettura ~




Quando il sole si innamorò di un fiore
E di come Apollo si impegnò davvero, rendendola una tragedia greca



Atto I



Dei e amore, due parole che nella stessa frase non dovrebbero coesistere. Mai.
Due parole tanto legate quanto antitetiche.
Pochi sono i possibili esiti: morte e drammi, sangue e lacrime. Perché in fondo gli dei ameranno forse per capriccio, ma amano con la stessa intensità dei loro poteri: quella che può devastare il mondo. O incenerire un rivale sul posto, ad esempio.
Tutto dipende da quanto amore c’è in ballo e da quanto sadico è il dio in questione. Magari anche se al mattino s’è svegliato con il piede giusto: in questo caso potrebbe preferire un lavoretto rapido e pulito come un fulmine, una palla di fuoco, una freccia ben assestata per passare poi ad altre mansioni – quali è meglio non chiederlo per evitare d’insinuargli l’antipatico pungolo che suona nell’orecchio come un «ma davvero hai qualcosa da fare?» Questo, ecco, potrebbe essere ancor più rischioso di contendersi lo spasimante con un olimpico, di essere il rivale da incenerire.
Dei e amore nella stessa frase non s’accompagnano, anche, perché quand’è un umano ad essere coinvolto negli affari divini il suo destino quasi sempre è segnato: la gelosia di un dio lo ferirà, l’ira di un altro immortale lo renderà vittima di questioni che poco hanno a che fare con lui; antiche rivalità torneranno a galla, o ne nasceranno di nuove su misura per l’occasione.
C’è da chiedersi se siano gli dei ad essere masochisti nel non fermarsi, nel non spegnere il fuoco della passione, o gli umani troppo impavidi nell’accettare i loro sentimenti. Per i primi forse l’impressione è che tutto dipenda da loro e loro soltanto, che sia coinvolto solo il corpo e non il cuore, che la mente possa scacciare il proprio amato a comando dai pensieri. Per alcuni, forse, funziona perché la loro è solo bramosia, sete di conquista: l’amore di un mortale è solo l’ennesimo trofeo di un’impresa vinta, il suo corpo una terra conquistata e il suo cuore l’offerta più inestimabile che una divinità possa ricevere. Morto un amante se ne può scegliere un altro, è più importante punire chi l’ha sottratto per orgoglio che non il cuore ferito che spesso nemmeno è tale. Non c’è nemmeno da piangere, per alcuni.
Ma c’era anche chi avrebbe percorso il cammino dei mortali, se solo avesse potuto. Dei per cui l’amore non era un gioco, che si sarebbero offerti a propria volta accettando l’innamorato come unico tempio a cui fare ritorno.
Per questo Apollo odiava innamorarsi.
L’aveva scoperto di recente.
Parlava di innamorarsi davvero, lui, di sentire il cuore scoppiare nel petto. E gli era capitato rare volte, di essere mosso davvero dall’amore. Il sentimento, non l’Amore in persona, perché quel diavoletto che trovava più brutto di Phobos e Deimos messi insieme lo zampino nel suo cuore ce l’aveva già messo e anche piuttosto spesso.
Con i fluenti capelli d’oro abbandonati al vento, mentre tirava con l’arco, magari Apollo si accorgeva di un giovane, donna o uomo che fosse, e percepiva quella scomoda sensazione: quella che lo faceva sentire vulnerabile perché non si sarebbe fermata dinnanzi a nulla. Diventava la sua indiscussa padrona, quell’emozione, e più di ogni altra l’avrebbe reso a tutti gli effetti un dio: egoista e avido. Fin quando non avesse ottenuto ciò che voleva, Apollo avrebbe attraversato una serie di fasi capaci di amplificare o mettere in crisi il suo ego ben più vasto dell’intero creato – unità di misura scelta da lui stesso, a riprova di cotanta vastità.
Smetteva di essere padrone di se stesso.
Ecco perché odiava innamorarsi. Non tanto per gli effetti – credeva di essere troppo nel giusto per reputarsi una brutta persona –, ma per quella sensazione: perché se il proprio amore non fosse stato corrisposto, poco avrebbe potuto fare. E anche perché comunque non sarebbe andata a finire bene.
Un tempo non era tanto complicato. L’amore, lui, il mondo. Un tempo Apollo non aveva paura, o forse era solo troppo sconsiderato e incosciente per accorgersene.
E insieme era stato caparbio, insistente, lusinghevole. Accettava un no come risposta ma poi tornava alla carica solo per dimostrare che lui un buon partito poteva esserlo davvero. Se il suo cuore batteva per qualcuno voleva essere certo che prima che l’amato lo rifiutasse una volta e per sempre, lo sapesse. E se ancora avesse voluto rifiutarlo, allora Apollo si sarebbe ritirato lasciando che anche per giorni il sole s’eclissasse. Fino ad allora era solo riuscito a minacciare di farlo accadere perché Artemide l’aveva tirato per un orecchio prima che ci riuscisse, ma l’intenzione c’era.
Antipatico e sfiancante, forse, Apollo aveva compiuto i propri errori.
Ma l’amore come voleva darlo Apollo non era un male. L’amore di Apollo era un bagno di sole che non scottava, un abbraccio caldo. Dava alle persone di cui era innamorato più di quanto non avesse mai offerto a nessun’altro. Diventava altruista, quasi. Perdeva la dignità, questo di sicuro, perché smetteva presto di desiderare il «guardami come ti guardo io». In principio Apollo voleva che i propri amanti lo vedessero come facevano tutti: dio della musica e delle arti, della medicina e indiscusso signore della luce. Ciò implicava venerarlo e all’inizio ad Apollo piaceva, che i propri amanti si prostrassero, che lo idolatrassero quasi fosse superiore a Zeus stesso. Voleva essere l’unico dio della loro religione.
Poi aveva capito. Aveva capito cosa gli era sufficiente e, al contempo, cos’era tutto: essere visto.
Non voleva essere visto come un dio: voleva essere Apollo. Apollo e basta. Un… essere superiore, creatura, persona che talvolta avrebbe desiderato essere umana perché le cose andassero meglio. Avrebbe avuto una modesta casa in campagna, delle mucche e… no, i presupposti erano terribili e una simile vita sarebbe stata squallida: essere bello e incredibilmente bravo a suonare la lira non avrebbe posto rimedio a una condizione tanto orrenda. Ma forse, solo forse, con l’amore della sua vita accanto avrebbe vissuto il resto dei propri giorni in pace e felice anche così, puzzando di sudore per aver lavorato la terra tutto il giorno. Il suo innamorato sarebbe stato il suo dio e viceversa.
Si sarebbe curato di stipulare un contratto che, casomai le cose fossero andate male, lo facesse tornare in possesso dei propri poteri tutti per ardere vivo qualsivoglia disturbatore compiendo così la propria vendetta. Non sarebbe stato migliore di come lo rendeva la natura impostagli alla nascita, di divinità, ma se avesse perso uno scopo chi poteva biasimarlo?
Apollo non amava innamorarsi perché poi diventava così. Così violento – più del solito –, così drammatico – anche questo, più del solito.
Apollo aveva desiderato di dare amore così, in modo tanto intenso e passionale, una sola volta. Ma non aveva potuto farlo.
Le altre volte, quando aveva sbagliato – non che lo giustificasse –, non era amore. Nemmeno quando era stato solo generoso si era trattato di amore romantico: non gli costava nulla esserlo.
Dopo la sua prima disastrosa storia d’amore che storia non era stata, Apollo s’era ripromesso di non innamorarsi mai più: lei si era tramutata in albero prima che lui potesse anche solo sfoderare lo smagliante sorriso provato in riva a un lago – rimanendo modesto: mica voleva finirci annegato! – per convincerla a baciarlo.
Era un’edizione limitata, quel sorriso, ideato su misura per lei in modo da essere bellissimo ai suoi occhi. No, anzi, sfavillante. Ma niente.
Questo contava per Apollo, allora: che lo vedesse, che le sembrasse bellissimo. Che lo volesse quanto lui desiderava lei.
Invece gli erano rimaste solo corone d’alloro e brutti ricordi.
La gente le portava in suo onore, quelle corone d’alloro, ma per i motivi sbagliati; s’era inventato un nuovo modello di velo funebre e nessuno lo sapeva. Gli uomini ne adagiavano a bizzeffe sui suoi altari e ogni volta gridava dentro di sé, contorcendosi perché gli ricordavano la ninfa che era diventata un albero quando lui voleva solo chiederle di uscire.
Però non poteva radere al suolo i propri templi per dare alle persone un messaggio sì chiaro, ma un poco esagerato.
Dio della luce e della sfortuna in amore. Ecco cos’era.
Il timore di Apollo era che fosse lui, il problema. Che sarebbe stato lui la rovina dei propri amanti.
Perché era un dio. Perché era lui.
Perché era Apollo.
E forse non era destinato, più che ad amare, ad essere amato.


Quell’afoso pomeriggio estivo lo vedeva a Sparta.
Cosa ce l’avesse portato era un mistero.
Bugia.
Apollo sapeva perché era lì. Lo sapeva perché in quell’afoso pomeriggio lui era a Sparta e nel bel mezzo della fase quattro.
E la fase quattro non era una buona fase.
Anche perché era del tutto nuova.
Il primo passo, per Apollo, era rendersi conto di che cosa gli stesse succedendo. Guardava qualcuno un po’ di più, pensava di avvicinarlo. Se non era esattamente per un disinteressato «ehi ciao, Dioniso dà un baccanale tra qualche giorno, che ne dici di fare un salto per creare l’atmosfera e appartarci?» c’era già qualcosa da temere.
Apollo nella fase uno si rendeva conto che poteva esserci dell’interesse e, quando ancora poteva definirsi un baldo giovane – perché adesso preferiva l’appellativo di uomo vissuto –, passava alla fase due senza troppi problemi: «se mi piace perché no?» In parte sostenuto dal suddetto ego cosmico, in parte dal fatto che a differenza di un contadinotto qualunque lui poteva vantare il considerevole vantaggio di essere conosciuto da chiunque, si buttava: non vedeva perché sottrarsi. Non c’era il «mi piace ma non sa nemmeno che esisto», per lui.
Di solito si fermava qui, alla fase due. Se mi piaci ci provo e se va bene d’accordo, è un’avventura, ti mando Ermes con il buongiorno domani mattina. Se non ti piaccio invece mi ritiro a tenere il broncio.
Apollo tentava di essere meglio di suo padre, che si era rivelato un esempio che non voleva seguire. Non si imponeva come lui o sarebbe stato crudele di una crudeltà che non voleva gli appartenesse.
La fase tre, ecco, subentrava quando Apollo si era davvero preso una cotta. Era rara, fino ad allora verificatasi una sola volta e a causa di Eros, che non era riuscito a tenersi le frecce nella faretra. La fase tre cominciava quando il suo osservare l’umanità dall’Olimpo insieme alla gemella Artemide diveniva osservare un’unica persona, che poi diventava la persona.
Quella che voleva riempire d’amore, di luce, di calore. Quella per cui avrebbe ideato un sorriso migliore di quello che aveva creato già una volta in passato.
E gli stava accadendo allora.
E non riusciva a fermarsi.
Non parlava d’altro. Ad Artemide almeno, perché in quella gabbia di rancorosi, invidiosi e più egocentrici di lui non si sarebbe fidato nemmeno a dire quale città della Grecia avrebbe scelto come villeggiatura per un’ipotetica vacanza.
Perciò toccava alla gemella sopportare. I sospiri, i sorrisi inebetiti e i racconti su quella persona.
La persona, allora, era un fanciullo spartano. Un principe.
Giacinto.
Tre sillabe che Apollo si era dimostrato capace di ripetere allo sfinimento. E lo sfinimento è tanto, se si considera che quest’innamoramento in particolare l’aveva investito come si diceva che Ercole avesse investito un negozio di ceramiche[1] prima di diventare l’eroe che tutti conosciamo. Era una leggenda che si tramandava per ridere fra gli dei e di cui le fonti erano sconosciute persino a Zeus in persona, ma i sentimenti di Apollo non erano altrettanto impalpabili.
Apollo aveva visto Giacinto per la prima volta mentre stava con i fratelli nel cortile del suo palazzo. Gli occhi del dio volevano arrivare più lontano, ma avevano indugiato su Sparta come non gli accadeva mai di fare. Doveva essere destino.
Aveva visto quei ricci, quel sorriso che sbocciava dalle labbra carnose ed era rimasto imbambolato per dei minuti.
Artemide gli aveva schioccato le dita davanti e lui non s’era mosso perché la sua mente già immaginava di fargli aria per godersi la sua vista sensuale ma pura mentre riposava, d’imboccarlo d’uva e anche di sposarlo di fronte a tutta Sparta. E se qualcuno avesse avuto a che ridire li avrebbe investiti con il suo carro fiammeggiante. Stupidi umani.
Però ecco, poi Artemide l’aveva svegliato con un grazioso ceffone pensando il fratello si fosse rotto o che Zeus l’avesse fulminato e solo allora Apollo si era ripreso. Più o meno, perché la guancia che pulsava per la più che giusta preoccupazione incarnata della sorella nemmeno l’aveva sentita.
La schicchera di Artemide l’aveva fatto voltare in un’altra direzione. Apollo aveva sistemato le dita sulla propria guancia ed era tornato a guardare il palazzo di Giacinto, chiedendosi se lui l’avrebbe voluto.
E poi aveva iniziato.
A pensare a lui, a parlare di lui. Non faceva altro. Giorno e notte, anche quando avrebbe dovuto curarsi dei propri affari e lasciare che Artemide si occupasse dei suoi. La seguiva come un cagnolino e parlava, parlava.
«Giacinto è bravo!»
«Giacinto è bello!»
Giacinto sta facendo venire un esaurimento nervoso ad Artemide –, pensava la sorella, ma non lo diceva.
Per questo da qualche giorno le notti erano più lunghe: Apollo si dimenticava di lavorare, al mattino.
E quando non era con Artemide, Apollo era a Sparta.
Nascosto nell’ombra, insolitamente con il proprio aspetto, nel tentativo di far brillare un po’ meno la propria pelle ambrata di sole per sembrare il più possibile umano. Sembrava quasi visitare Sparta per comprendere se gli sarebbe piaciuto, ipoteticamente, vivere lì. In quella casetta con le mucche da pascolare e tante altre cose scomode che avrebbe dovuto accettare vivendo da umano, ma che immaginava sempre più spesso. Però Giacinto era un principe, quindi forse avrebbero avuto una bella vita… no, no il suo obiettivo non era diventare il re di qualcuno. Non perché ci fosse qualcosa di male, non perché volesse brillare più di Giacinto, ma perché non voleva essere una sanguisuga: mica voleva farsi mantenere a bei vestiti e lire d’oro. Già ce l’aveva una lira d’oro, poi.
A sua discolpa, dunque, non era andato a Sparta per vedere Giacinto. Quella volta. E nemmeno le altre. Non tutte almeno, anche perché Giacinto poteva pure sapere che esisteva un dio di nome Apollo, ma non del suo interesse nei propri confronti. E ad Apollo piaceva Giacinto perché non era presuntuoso: non avrebbe mai immaginato di essere amato da un dio.
Però a Sparta Apollo pensava meglio, gli era vicino, perciò perché non concedersi del sollievo?
Peccato fosse in piena fase quattro, quella nuova. Cioè in panico. Il peso della corona d’alloro sulla testa gli ricordava le sfortune passate facendogli pendere il capo verso terra.
Artemide lo aveva gentilmente invitato – scoccando una freccia che si era piantata in mezzo ai suoi piedi – ad andarsene a frignare da un’altra parte. Perché anche questo aveva iniziato a fare Apollo: oltre a lamentarsi e a puntare i piedi come un bimbo capriccioso per il desiderio di qualcosa che lui stesso si stava negando, aveva iniziato a piagnucolare. A mettersi in discussione. Aveva addirittura chiesto ad Artemide se fosse brutto quanto o più di Efesto. E siccome Artemide voleva essere una brava sorella maggiore e desiderava il bene di Apollo forse più di lui, aveva scelto la terapia d’urto: fosse mai che a Sparta parlasse con quel Giacinto, gli strappasse qualche parola dolce o un bacio e si placasse rendendosi conto che tutte le sue preoccupazioni erano prive di fondamento. Speranza utopica e anche irrealistica: Artemide sapeva che l’amore tra dei e umani generava giuste preoccupazioni, sapeva che quelle trovate dal fratello, in parte, potevano essere buone scuse – per un altezzoso come lui – per negarsi anche solo di provare ad avvicinare il principe spartano. Ma Apollo non poteva smettere di vivere per paura e non solo perché sarebbe stata la cacciatrice degli dei a doverlo sopportare: Artemide non lo aveva mai visto con gli occhi lucidi al solo pensiero di essersi innamorato. Non l’aveva mai visto rannicchiato nel cuore della notte per timore di essere ferito ancora.
Che fosse spaventato all’idea di far del male a quel nuovo ragazzo di cui si era invaghito solo per la propria natura?
Sparta doveva essere la sua panacea, quel giorno.
Ma una volta lì Apollo aveva compreso che era una giornata no; la sua pelle si era spenta come non mai senza che nemmeno si stesse impegnando nel renderla tanto sbiadita. Un paesano avrebbe potuto scambiarlo per un blocco di marmo e nemmeno in onore degli dei: quelli erano colorati di tinte sgargianti.
No, sconsolato e abbandonato sulla panca com’era Apollo, bianco gesso, sarebbe parso dello stesso materiale della sua seduta o addirittura un abitante malaticcio a cui non avvicinarsi.
Artemide gli aveva chiesto con gentilezza di andarsene a pensare a Giacinto da un’altra parte, non vietato di invocare Ermes per chiedergli di raggiungere la gemella e trascinarla da lui perché aveva bisogno di un abbraccio. A ben pensarci forse avrebbe dovuto chiederlo proprio a Ermes quell’abbraccio: era molto più probabile che l’ottenesse; Artemide magari l’avrebbe colpito con l’arco o l’intera faretra.
Non con una freccia, l’avrebbe proprio percosso. Sulla testa, di solito era lì che lo colpiva perché «tanto non c’è niente da danneggiare». E forse era ciò che gli serviva per riprendersi: una doccia ghiacciata un poco violenta, ma magari efficace.
Artemide diceva che era stato investito da quell’innamoramento come quel famoso negozio di ceramiche, quello che aveva erroneamente falciato Ercole. Fin lì ad Apollo poteva stare bene. Ma se come quel negozio fosse andato in pezzi? Non voleva. Non poteva sopportarlo.
Apollo voleva amare Giacinto ed essere possibilmente ricambiato, vivere felice per gli anni che al ragazzo erano concessi e poi fare in modo che vivesse in eterno, in qualche modo. Magari avrebbe chiesto una grazia a suo padre.
«Signore, vi sentite bene?»
Quello dell’incarnato di Apollo fu un riflesso atavico: da pelle abbronzata ma smunta per le pene dell’amore ad ambra luminosa. Inconsciamente seppe d’avere un motivo per essere felice e i suoi pori sprizzarono sole all’unisono. Il ragazzo che l’aveva avvicinato, perché era un ragazzo, avrebbe potuto rimanerne abbagliato.
Apollo alzò il capo, gli occhi azzurro cielo guizzanti e sorpresi. Forse terrorizzati.
Mai si era fatto vedere in quel modo da un umano: furioso di certo, sbigottito forse. Ma mai, mai sgomento.
Giacinto era di fronte a lui, nel proprio chitone bianco che lasciava scoperte le spalle. I ricci d’ebano intorno al viso e gli occhi verdi a scrutarlo.
Era con quella stoffa che vestivano i principi? Inaccettabile. Apollo avrebbe voluto donargli rotoli e rotoli dei più pregiati broccati per vederglieli indossare, su quella pelle lattea che gridava quanto poco spesso gli fosse concesso uscire. Da quando l’aveva notato Apollo era stato attento; sapeva che quelle belle spalle candide si sarebbero tinte di rosso per un’insolazione, per questo si era curato che il ragazzo ricevesse tutta la luce di cui aveva bisogno, ma senza che questa lo ferisse in alcun modo.
Quanto Ermes fosse insolitamente lento e se Artemide sarebbe giunta per una faretrata in testa o per un abbraccio, divennero questioni di poco conto con l’arrivo del ragazzo.
Apollo vide il principe sgranare gli occhi.
«Febo Apollo!» esclamò il giovane, facendo un passo indietro. «Signore, è un onore!»
Il suo ginocchio raspò contro il terreno e Apollo si sentì in colpa.
Ricordò quando ad Artemide aveva detto che più che essere venerato da Giacinto avrebbe preferito essere lui stesso a venerarlo, deliziarlo con le proprie canzoni, con poesie; insegnargli i trucchi dell’atletica in cui già era bravo, ma che faceva temere ad Apollo si spezzasse come un giunco. Artemide si era trattenuta dal mimare un conato di vomito un poco per tutta quella dolcezza, un poco perché lei i gusti di Apollo non voleva conoscerli. Il fratello l’aveva vista e fulminata, ma poi la ragazza aveva sorriso sotto i baffi perché era bello vedere Apollo tanto attento a qualcuno che non fosse lui stesso. O lei. O pochi altri dei che stavano sulla punta delle dita di una mano.
Apollo realizzò che per una volta non gli piaceva troppo l’idea di essere riconosciuto; non voleva che una folla si radunasse loro intorno, che lo costringesse a mostrarsi solenne, severo e grave come tutte le cose imperiture e divine. Le persone si inchinavano dinnanzi a lui non per un timore reverenziale dettato dalle sue gesta: le persone si prostravano per il terrore dovuto alla paura d’avergli fatto un torto e, da un lato, come biasimarli? Apollo si faceva vedere più in quel di Atene che non in prossimità di Sparta. Era più facile credere che qualcosa non andasse, che sperare in una sua grazia.
Avere una schiera di persone che volevano il dio Apollo in tutta la sua magnificenza, però, l’avrebbe costretto a comportarsi da Apollo. Distaccato, freddo. Non voleva che Giacinto lo vedesse così.
Non che le sue efferatezze non facessero parte di lui solo perché non voleva fosse così; era ancora un po’ troppo crudele e un po’ troppo narcisista, tanto da odiare definirsi tale servendosi di una parola che derivava sempre dal nome dell’idiota che si era annegato specchiandosi. Apollo aveva compiuto i propri sbagli e i propri crimini, sempre che così potessero essere definiti se azioni di un dio. Probabilmente non sarebbe stato in grado di promettere di non agire in tal modo nella maniera più assoluta, di non macchiarsi più le mani di sangue.
Ma, ecco, il dio della luce avrebbe preferito che Giacinto conoscesse l’Apollo che scrutava l’orizzonte dal Parnaso[2] e vedeva ben oltre l’occhio umano, beandosi della sua bellezza mentre si lamentava con Artemide del timore d’essere troppo bruttino per la propria cotta. Avrebbe voluto che Giacinto se ne stesse con lui sull’erba di quella montagna a chiacchierare, non che lo immaginasse come un crudele seminatore di morte.
Sarebbe stato disposto a seguire il consiglio di Dioniso di contare fino a dieci per mantenere il controllo e non uccidere più nessuno per impressionare Giacinto, anche se Dioniso adottava quella tecnica solo perché voleva gustarsi una morte degli avversari più lenta e dolorosa. Era più sadico di lui.
Si sarebbe potuto dire che per Giacinto, Apollo avrebbe voluto essere migliore. Umano. E accettare le regole del mondo terreno.
Quel che venne dopo fu troppo buffo per i pensieri solenni del dio.
«Shhht!» proruppe Apollo, chinandosi a propria volta di fronte a Giacinto che ancora stava in ginocchio. «Non serve, alzati in piedi.»
«Ma voi siete…»
Certo Apollo avrebbe voluto toccare Giacinto per la prima volta in modo un poco più romantico e non premendogli una mano sulle labbra come faceva con quel chiacchierone di Ermes quando stava per rivelare un pettegolezzo senza rendersi conto che era l’unico a conoscerlo e che dunque si trattava di una confidenza fatta a lui e lui soltanto.
Gli occhi verdi di Giacinto si spalancarono.
Oh dei, pensava forse volesse ucciderlo?
Perché questo pensava la gente di solito, no?
Apollo ritrasse la mano.
«Non ti voglio fare del male», esalò. «Solo… sono qui in incognito.»
Giacinto gli parve meno rigido, anche se potendo osservare la totalità del suo viso e le sue labbra schiuse, Apollo si rese conto che la sua era solo sorpresa e non paura.
«Oh», fece solo Giacinto.
In incognito, ma con il proprio aspetto?
Era sospetto.
Giacinto s’alzò in piedi; non era abituato a essere riverente, ma in lui non c’era nemmeno altezzosità.
Si era creata una bizzarra situazione per cui Apollo era ancora su un ginocchio e Giacinto invece in piedi di fronte a lui. Era minuto e Apollo gli raggiungeva il petto con il viso pur rimanendo a terra.
Bene, ora lo stava venerando proprio come voleva.
«Non l’avevo pensato: dopotutto non punite chi non lo merita e io non credo d’avervi fatto alcun torto.» Gli regalo un sorriso, puro e smagliante. Poi esitò. «Non l’ho fatto, vero?»
Apollo avrebbe avuto vita difficile anche solo con quelle parole cariche di tutta l’innocenza propria di Giacinto.
Ma quel sorriso. Dei, quel sorriso gli trapassò il cuore da parte a parte. Avvertì un tuffo tanto imponente, una vertigine così vorticosa da credere di avere una voragine nel petto. Che cos’erano le frecce di Eros in confronto? Una carezza.
No, meglio non pensare a lui. Per scaramanzia.
Apollo fece per alzarsi.
Ma Giacinto l’aveva reso debole e aveva le ginocchia sciolte come burro al sole. Forse perché effettivamente Giacinto era così bello che dallo stesso cratere rimasto al centro del suo petto stava iniziando a divampare una fiamma. Metaforicamente, o l’intera Sparta sarebbe stata liquefatta per la stessa sorte delle giunture delle sue ginocchia.
Certo era che Giacinto non si aspettava di incontrare Apollo proprio quel giorno, in quella via defilata di Sparta dove nemmeno lui avrebbe dovuto essere. Non si sarebbe aspettato di incontrarlo mai nella vita. E certo non si sarebbe aspettato di vedere una divinità barcollante che si portava una mano alla testa con aria teatrale, come aveva visto fare a qualche nobildonna della sua corte che per avere tutte le attenzioni per sé fingeva uno svenimento.
Fu istintivo per Giacinto avvicinarsi, sorreggerlo per quel che poteva fare, minuto com’era. Si infilò sotto il suo braccio e gli portò una mano sul petto e l’altra sul fianco.
Apollo il capogiro l’aveva sentito davvero, uno svenimento no. Però pensò che per avere le attenzioni di Giacinto l’avrebbe finto anche a costo di buttarsi a terra. Sull’Olimpo per prenderlo in giro gli avevano dato un nuovo epiteto e il suo nome dunque suonava come «Apollo il drammatico». Non era mica lui il più drammatico! Ma almeno che se lo sentisse ripetere da una vita per qualcosa.
Le dita del principe indugiavano sui suoi muscoli involontariamente – o forse no – e Apollo dovette trattenere un sorriso soddisfatto mentre la sua mente immaginava di ridere in faccia a Eros che lo rendeva anche solo inguardabile dai propri passati amori.
«Vi sentite bene?» chiese allarmato Giacinto.
Apollo annuì.
Era il fiero dio del sole, della medicina, della musica e di mille altre cose troppo interessanti per sembrare una mezza calzetta. Anche se forse a Giacinto avrebbe fatto piacere scoprire che quella reazione era per lui e saperlo così più umano. E anche se ad Apollo non sarebbe dispiaciuto continuare a rimanere in quel modo con lui.
Però non poteva spaventarlo, stavolta per davvero, dicendogli tutta la verità; perché si fosse sentito tanto debole. Dunque raffazzonò una scusa.
Sciocca, proprio come Artemide si riferiva a lui nove volte su dieci.
«… Sai, il caldo.»
Giacinto aggrottò le sopracciglia.
«Il caldo?»
Apollo, dio della luce. Quello che sarebbe stato probabile sorprendere intento ad abbronzarsi sulle rive di Delfi senza un solo filo di stoffa a coprirlo né un accenno di bruciatura dopo ore di esposizione.
Giacinto era innocente a tratti, ma era sveglio; non di certo qualcuno che Artemide avrebbe chiamato idiota come faceva con il fratello gemello. Nemmeno Apollo se lo meritava sempre e comunque, ma lei amava riferirglisi così perché tanto, qualcosa per guadagnarsi quel soprannome, presto o tardi lo avrebbe fatto.
Ad Apollo bastò gettare negli occhi di Giacinto un’occhiata per capire che non l’aveva ingannato, ma le cose volsero ugualmente a suo favore.
«Venite, c’è un giardino non molto lontano. Staremo al fresco e non correremo il rischio che qualcuno vi veda.»
Apollo seguì Giacinto, sempre reggendosi a lui.
La possibilità che Apollo barcollasse ancora era una scusa che stavano usando entrambi per rimanere più vicini.
 
[1] Senza Hercules forse avrei impiegato di più per capire che la mitologia mi interessava, quindi ho pensato di fargli un piccolo tributo. Per quanto poco accurato sia in termini mitologici, mi sembrava un’idea simpatica.
[2] Monte che torreggiava su Delfi. Una delle dimore delle Muse e su cui si dicesse che anche Apollo passasse volentieri il proprio tempo.



Questa è la prima storia che ho scritto dopo la sessione estiva, dunque revisionarla per poterla finalmente pubblicare ha quel sapore di libertà che ho provato potendo aprire Word per qualcosa che non fossero gli appunti da studiare.
Prima di tutto: grazie a chiunque sia giunto fino a qui!
Volevo davvero tornare nella sezione scrivendo di Apollo e di Giacinto, perché non me li tolgo dalla testa in nessun modo e ho scritto su di loro più di quanto non si veda su EFP.
L'appena concluso è il primo di due atti sulla nascita di questa storia, molto meno allegra di quanto non abbia tentato di farla sembrare. Ma insomma, bisogna prendere le cose con leggerezza e spero davvero di avervi strappato un sorriso.
La storia è già finita, devo solo revisionare la seconda parte, ma vorrei aspettare di avere qualche parere prima di pubblicare perciò fatemi sapere cosa ne pensate!
Nell'attesa del secondo atto, se vi andasse di leggere qualcosa in più su Apollo e Giacinto vi lascio il link alla mia Modern!AU che riprende il mito classico, ma in versione appunto più moderna.
Come dicevo nelle note introduttive è grazie a questa storia che mi sono tanto legata a loro e l'interpretazione di Apollo e Giacinto qui, così come quella di Artemide, riprende alla fine la caratterizzazione adottata per quella mini-long.
Un piccolo appunto: quando parlo di Apollo ai tempi del mito non intendo affatto farlo passare per un santo. Salvo alcuni miti dalle molteplici versioni che lo vedono assumere un ruolo di vittima o di carnefice, è stata una divinità molto crudele. Come ho detto però è una mia interpretazione e non posso non sperare che abbia tentato di rimettersi in carreggiata, o che non sia stato tanto pessimo.
Una piccola dedica a Rika. Si subisce sempre i miei scleri su di loro, si esalta con me e mi ha dato una ragione per sentirli più vivi di quanto non credessi di poterli rendere. Grazie <3
Che dire? Ci sentiamo con il prossimo atto!
Alla prossima ~

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Capitolo 2
*** Atto II ***


Atto II
 

 
Nel giardino in cui Giacinto l’aveva condotto c’era una fontana.
Sdraiarsi su una delle panche per farsi abbeverare dal giovane principe non sarebbe stata un’idea malvagia, ma Apollo riconobbe quanto poco adatta fosse a un primo incontro.
Il dio era chino sul bacino d’acqua artificiale, intento a sciacquarsi il viso; Giacinto invece stava seduto sul bordo, le mani salde su di esso, e osservava Apollo solo con la coda dell’occhio, cortese; per quanto il dio fosse bello non voleva rischiare di disturbarlo apparendogli invadente. Eppure proprio non riusciva a fare a meno di scrutarlo, tentando di cogliere, se gli era concesso e non peccava di presuntuosità, ciò che stava oltre l’apparenza. Perché era vero ciò che si diceva di Apollo: era ben più nebuloso della luminosa chiarezza che incarnava.
Loxias, lo chiamavano. L’oscuro. Il dio delle profezie imperscrutabili.
Tutto quel mistero però non spaventava Giacinto e lo rendeva anzi curioso. Assai curioso. Avrebbe dovuto stare in guardia, sapere che quello poteva essere uno dei molti inizi della tragica storia tra un dio e un umano. Ma il principe proprio non riusciva ad essere spaventato, non riusciva nemmeno a pensare di doverlo essere, a convincersi di dover provare quel sentimento. Non mentre era vicino ad Apollo. Si sentiva sereno.
«Se mi è concesso chiederlo, cosa vi ha portato a Sparta?»
Su questo il dio aveva visto giusto: Giacinto non era sciocco. Avrebbe dovuto soppesare le proprie parole, perché la sua mente splendeva come un diamante e in qualità di principe doveva aver ricevuto un’educazione di retorica che avrebbe potuto metterlo in difficoltà più di quanto non lo fosse quando parlava con Ermes. Non perché Giacinto brillasse più del messaggero degli dei – agli occhi di Apollo sì, in realtà –, ma perché Apollo, di Ermes, non era innamorato: non avrebbe rischiato di non saper controllare le proprie parole in preda ai sentimenti.
Era anche per questo che le mani unite a coppa stavano continuando a sciacquare il suo viso: doveva mantenersi lucido.
Apollo sollevò la mano in un cenno.
«Non servono questi convenevoli», lo rassicurò con un sorriso. «Parlami come parleresti a un amico.»
Intanto aveva preso tempo.
Giacinto lo guardò.
«Vuoi essere mio amico?»
Lo chiese per scoprire se quelle fossero le reali intenzioni del dio, ma la sua domanda suonò anche come una richiesta, quella di diventare davvero amici. All’epoca ancora non esisteva un termine per definire il rischio che Apollo stava correndo, sarebbero stati necessari millenni perché qualcuno s’inventasse di definire la zona amici. La paura che provò Apollo fu tuttavia la stessa: quella di essere solo un amico.
Come poteva spiegargli di essere lì per lui senza suonare inquietante? Come poteva spiegargli tutto ciò che gli passava per la testa e prima di tutto comprendere se fosse il caso di farlo, essendo Giacinto ancora uno sconosciuto?
Più gli stava vicino e più si dimenticava delle preoccupazioni con cui aveva tediato Artemide per giorni, perché appena una manciata di giorni era trascorsa da quando aveva iniziato a farlo. Accanto a Giacinto era distratto dal fuoco naso dentro di sé, lo stesso sentito divampare quando aveva incontrato Giacinto e lui gli aveva sorriso gli aveva sorriso; Apollo tentava invano di spegnerlo con l’acqua di quella fontana, ma falliva nell’intento perché non c’era acqua terrena o divina in grado di placare quell’ardore.
Apollo decise che, avendo scelto di essere una persona migliore, avrebbe dovuto comprendere cosa pensasse Giacinto di lui prima di compiere qualsiasi altra mossa. Avrebbe dovuto scavare oltre l’innocenza che lo rendeva sicuro della sua sincerità quando lo trattava con gentilezza: doveva capire cosa provava e finché doveva fare questo nulla era o sarebbe stato deciso.
Dunque era il momento. Il momento di scoprire se il suo cuore sarebbe andato in frantumi come quel famoso negozio di vasi o se sarebbe rimasto integro, dandogli la possibilità di continuare a crucciarsi per timore degli esiti di quell’innamoramento.
Decise di essere seducente, di essere sé stesso quando non era agitato.
Alzò il capo dall’acqua, gettando un ultimo sguardo nei propri occhi riflessi per darsi coraggio prima di voltarsi verso Giacinto. Fili d’oro umidi gli incorniciavano il viso, le dita che scorrevano fra le ciocche per scostarle dagli occhi. Gli sorrise: un sorriso che nulla aveva a che vedere con quello puro di Giacinto, un sorriso che pareva voler essere letale quanto le frecce scoccate insieme alla sorella con il proprio arco d’oro.
Seducilo –, sembrava dirsi. – Avanti Apollo, che lo sai fare. Credi in te stesso.
«E se ti dicessi che sono venuto a Sparta per te?»
Fosse stato una divinità dell’amore avrebbe sentito il cuore di Giacinto perdere un battito, ma Apollo poteva solo sperarlo. O sperare di capire in cosa sperare, perché nemmeno sapeva più cosa fosse meglio per sé, per Giacinto. Anzi, per Giacinto lo sapeva: avrebbe dovuto lasciarlo in pace.
Il trucco era fingere. Fingere una sicurezza che allora era anche inutile, dopo essere quasi crollato come un pezzo di stoffa bagnata di fronte agli occhi del principe. Mantenne quell’espressione sicura e scrutò il volto di Giacinto.
Perché, perché non riusciva a vedere nulla? Perché non riusciva a capire?
Era così che si sentivano i mortali quand’erano innamorati? Non capivano più nulla? O non lo capivano mai?
Era il maledetto dio delle profezie e non riusciva a prevedere niente. Forse stava davvero diventando sciocco come aveva presagito Artemide milioni di volte. Ma se l’aveva presagito la sorella forse gliel’aveva rubato lei il potere! No, stava diventando anche paranoico.
Le gote di Giacinto si tinsero, più per una speranza lusinghiera appena avverata che per l’imbarazzo di una sorpresa sgradita.
Ancora una volta, non pareva sconvolto.
«Sei qui per rapirmi?»
Quella domanda fu inaspettata.
Apollo non stava bevendo più, ma non serviva un liquido per soffocarsi: poteva farlo anche con l’aria.
Tossì.
«Cosa?! No!»
La candida domanda di Giacinto era dettata da una legittima curiosità. E anche dal voler prendere in giro Apollo perché era buffo vederlo imbarazzarsi.
Si trattenne dal ridere per non essere insolente.
«Tuo padre. Ha rapito un ragazzo, una volta», proseguì Giacinto.
Oh. La questione Ganimede. Troppe persone gli chiedevano di quella storia.
«Mio padre… ha dei modi di fare tutti suoi», tentò di dissimulare. «E poi si era trasformato in un’aquila per riuscirci. Non mi sembra di essere un animale, adesso.»
Giacinto rimase in silenzio. Forse Apollo era riuscito a scamparla, ad arginare quei dubbi più che sensati per Giacinto, ma scomodi per lui.
«Però so che anche tu ti sei trasformato in una tartaruga[1] per…»
Apollo andò in panico perché le proprie vecchie e poco ortodosse conquiste erano un discorso che avrebbe preferito non affrontare con nessuno: se ne vergognava. Figurarsi parlarne con Giacinto.
Portò ambo le mani sulle sue spalle, una per ciascuna.
Era serio, ma serio di risolutezza e non di rabbia.
Giacinto si era fatto più piccolo sotto il peso delle sue mani, ma solo per un’istante: le dita di Apollo non stringevano, le mani non lo schiacciavano. Era più delicato di qualsiasi tutore avesse mai avuto. Apollo aveva avvertito una fitta al solo pensiero d’averlo spaventato, ma quando sentì i suoi muscoli stendersi quasi si rilassò anche lui.
Questo gli piaceva di Giacinto: non aveva paura di lui. Gli teneva testa, diceva la verità. Era coraggioso.
«Sono venuto a Sparta perché ti avevo notato», iniziò. «E volevo conoscerti. In modo autentico, senza profetizzare niente. Non è così che funziona e andare a Delfi a far avere un’epifania su di me al mio stesso oracolo sarebbe stato stupido», borbottò. «Certo non avevo considerato quanto tu sapessi di me e che avrebbe reso il tutto così imbarazzante.»
Il giovane principe ascoltò quell’accorata spiegazione in silenzio, le labbra schiuse, senza distogliere gli occhi da quelli di Apollo un solo istante. Sembrava volersi giustificare, il dio.
Per la prima volta da quando si erano incontrati Giacinto pensò bene a ciò che stava per fare, perché Apollo doveva capire.
«Perché imbarazzante? Ci sono dei che hanno fatto cose più imbarazzanti di te», gli fece notare. «Ti direi che possiamo prenderli in giro se fosse da me e se non rischiassi di essere fulminato.»
Apollo rise e Giacinto capì che stava andando nella direzione giusta. Le sue dita si poggiarono sul dorso della mano di Apollo. Fresche e morbide sulla pelle calda del dio che pensò di aver appena ricevuto la più grande delle grazie.
«So quello che la gente dice di te. Loro non ti conoscono e nemmeno io», cominciò pacato. «Ma mi piacerebbe farlo. Sei stato gentile con me.»
Giacinto aveva appena detto nel modo meno sminuente possibile che non aveva paura. E se anche gli avesse detto che non era spaventoso e non gli incuteva timore, Apollo sarebbe stato ugualmente felice. Perché Giacinto non era fuggito.
Trattava Apollo come una persona ed era il primo a farlo, il primo a togliergli il peso di essere un dio dalle spalle. Il primo a farlo essere Apollo e non il crudele, l’uccisore.
Apollo si chiese se non avesse piantata fra le scapole una delle subdole frecce di Eros e si chiese anche quale magia fosse in grado di compiere Giacinto per spazzare via ogni sua pena: anche il pensiero della maledizione di Eros, che era il suo più grande timore, in quel giardino scomparve.
 
 
«Quindi ti ha detto che vorrebbe rivederti.»
«Sì.»
«E tu mi stai chiedendo se secondo me gli piaci.»
«Potresti anche suonare meno sarcastica.»
«Potrei farlo se non stessi chiedendo a una delle dee vergini se piaci a un ragazzo quando palesemente è così.»
Apollo e Artemide non sapevano avere uno scambio che non fosse acido. Quando Artemide non sfoderava gli artigli, Apollo la costringeva a farlo rendendosi insopportabile. Quei siparietti erano anche buffi da osservare e sarebbero stati divertenti da interpretare, se solo entrambi i gemelli – Apollo per primo – non fossero stati esasperati dalla situazione.
Il dio del sole le gettò uno sguardo in tralice, poi fissò i propri piedi.
Era tornato da Sparta dopo aver ricevuto notizia da Ermes che Artemide lo attendeva al solito posto: il Parnaso, sempre lui. Nemmeno le inveì contro per non averlo raggiunto dato quanto bene era andata la propria uscita e anzi, appena era giunto aveva strillato come un’adolescente raccontandole l’accaduto. Si era esageratamente rallegrato del fatto che Giacinto gli avesse toccato una mano e l’aveva agitata a mezz’aria di fronte al naso della sorella rischiando per poco di schiaffeggiarla.
«Oh lode a nostro padre Zeus, mi ha toccato!»
E aveva proteso la mano verso il cielo, reggendosi il braccio con l’altra quasi fosse una reliquia.
«Aveva paura che lo rapissi ma mi ha toccato!»
E saltellava intorno alla sorella come un’idiota, seminando le frecce della propria faretra come briciole dietro di sé fino a quando non ebbe disegnato un cerchio intorno ad Artemide.
«È così bello, a un certo punto stavo per cadere per terra!»
La dinamica di questa scena fu forse la più sconnessa e confuse Artemide.
«Ed ero tipo “è strano se non ti conosco e tu conosci me, però so che sei bravo in atletica!” e lui ha detto “oh, davvero lo pensi? Però potrei imparare tantissimo da te!” E io ero tipo oh miei dei è fantastico! Abbiamo un sacco di cose in comune!»
Apollo si arrestò. Un ginocchio sollevato per un altro passo, statuario, quasi Medusa in persona fosse apparsa e l’avesse pietrificato sul posto.
Si era spento e Artemide si chiese se non fosse necessaria un’immediata trasfusione d’icore.
«Credo di amarlo.»
Artemide avrebbe voluto salire sulla cima del Parnaso e inveire contro Zeus, chiedergli perché. Giacché lo stavano invocando, che lo facessero una volta in più e per qualcosa di utile. Anche se gli affari d’amore non competevano il padre degli dei, Artemide gli avrebbe domandato perché avesse permesso che l’amore facesse sempre del male a suo fratello.
Ma questo sarebbe servito solo a lei, per avere un capro espiatorio. Capì che era il momento di essere una brava gemella e mettere ordine nella zucca confusa di Apollo, che sapeva essere ordinata solo in prossimità di Giacinto il quale, sfortunatamente, al momento non era lì.
«D’accordo. Va bene, respira», iniziò, prendendo la mano del fratello per timore di qualsiasi sua reazione. «È una cosa non indifferente ma non farti venire una crisi isterica.»
«Come faccio a non farmi venire una crisi isterica?!»
Artemide gli stritolò la mano e Apollo tornò composto.
«Cos’è che ti preoccupa davvero?» domandò. «A parte qualche paranoia sull’essere brutto, che non è la vera questione.»
Lei lo sapeva, sapeva cosa c’era, ma era Apollo a doverlo riconoscere.
«Non so, che mi tocchi intrecciare un bracciale di giacinti magari.»
Una sarcastica allusione all’alloro. Era grave.
Artemide avrebbe riso, perché era una di quelle battute pungenti che l’avrebbe divertita se fosse uscita dalle labbra di Apollo per prendere in giro qualcun altro. Ma allora gli spezzò il cuore.
«Non è detto che vada male.»
«Non è detto nemmeno che vada bene», ribatté lui. «Sono un dio. E se gli accadesse qualcosa? Non lo sopporterei.»
Dea della luna e della caccia, Artemide aveva fatto i propri danni e fatto infuriare divinità che sarebbe stato meglio non inimicarsi. Salvo questo, era assennata e astuta: sapeva a cosa andava incontro. Il suo essere impulsiva spesso tradiva le proprie previsioni e rischiava di demolire un buon piano per una risposta che la infastidiva. Ma adesso si stava dedicando ad Apollo e poteva essere avveduta quanto voleva.
«Ehi, quanti umani sono ascesi all’Olimpo? Quanti sono divenuti immortali? E poi l’ultima volta le cose sono andate male per colpa di Eros», fece notare ad Apollo. «Evita di dirgli quanto sei più bravo a tirare con l’arco, così magari ti sarà favorevole.»
Silenzio.
Apollo schizzò in piedi.
Oh-ho.
Aveva proprio gli occhi di quando stava per incenerire un mortale. O di quando aveva tentato di planare sull’Olimpo con il proprio carro perché era pieno del vino di Dioniso e qualcuno, forse Atena, lo aveva infastidito e dunque voleva investirla.
Era meglio che non provasse a farlo con Eros, però: oltre ad essere imp­­­­­­ossibile anche solo l’idea di sbarazzarsene in via definitiva, Zeus avrebbe rinchiuso Apollo insieme ai Titani pur di non sentire Afrodite frignare. O forse Ares l’avrebbe squartato. Di solito era Apollo a riservare questo trattamento agli altri, non il contrario: Artemide sospettava non avrebbe sopportato nemmeno un taglietto.
«È vero, è stata tutta colpa di Eros!»
Per la verità Eros non era responsabile di tutte le relazioni fallimentari degli olimpi, né di tutte loro sfortune, ma ad Apollo faceva comodo pensarlo e la questione si applicava in modo diverso.
Eros era responsabile degli innamoramenti a volte e, nel caso di Apollo, anche del fatto che si fosse preso sbandate per donne che non lo volevano nemmeno vedere. E che avevano preso decisioni drastiche pur di non avere a che fare con lui.
Apollo ne portava una in testa.
«… Apollo», lo richiamò Artemide. «Apollo, parlaci e basta.»
Avrebbe dovuto accompagnarlo, fermarlo. Invece lo guardò.
Apollo annuì e se ne andò dalla collina dove la sorella stava affilando la punta delle proprie frecce prima che arrivasse.
Il dio del sole si curava di pochi dei così come faceva Artemide. Non era sicura del piano del fratello, ma almeno le sembrava più motivato di quanto non lo avesse visto nei giorni appena trascorsi.
 
 
«Eros!»
Apollo tuonò il suo nome ancor prima di raggiungere il tempio nel quale il giovane dio amava rifugiarsi.
Gli sembrava assurdo doversi rapportare con quello che a conti fatti sembrava ancora un bambinetto.
Rispetto a quando l’aveva messo nei guai con la ninfa di cui si era innamorato lo vedeva più adolescente che bambino, ma tant’era: sempre un ragazzino che girava mezzo nudo con arco e frecce taglia bebè e dei ricciolini biondi che gli avrebbe volentieri strappato dalla testa a morsi.
Cuccia, Apollo. – se lo disse da solo.
Il volto paffuto del ragazzino fece capolino da dietro l’altare. Cosa stesse tramando lì dietro, quali frecce stesse progettando per la fucina di Efesto, in modo da rendere più letali quelli che per lui erano solo dispetti, Apollo non lo sapeva. Sperava che il fabbro degli dei non gliele realizzasse, quelle armi: tanto che aveva da perdere? Afrodite già lo tradiva e in più Eros era un figliastro, non aveva ragione di aiutarlo. Apollo si dimenticava sempre di esserlo anche lui, un figliastro, ma credeva di poter vedere applicate regole diverse su di sé.
L’importante, comunque, era che Eros fosse uscito dal proprio nascondiglio, in modo da non dover sradicare l’intero tempio per stanarlo. Certo una disinfezione dell’ambiente sarebbe stata in ogni caso necessaria con la sua presenza lì, ma quel tempio non era mica suo.
«Si urla in casa degli altri?» lo salutò il ragazzino, balzando sull’altare su cui si sedette a gambe incrociate.
Afrodite era bella e, oggettivamente, anche Eros lo era. Insomma, lei e Ares si erano impegnati. Agli occhi di Apollo però sembrava la creatura più tremenda al mondo: le due file di denti perlacee gli sembravano più che altro gli spuntoni di un’antica trappola mortale e i vispi occhi castani una pozza di sabbie mobili capace di uccidere.
Insomma, non il volto che avrebbe sperato di avere come prima visione al mattino. Né in nessun altro momento della giornata. Né mai.
Invece era tecnicamente ziastro di quell’obbrobrio maleducato e antipatico.
«Ti avrei urlato contro anche fossimo stati altrove», gli fece notare.
Dopo quello scambio equivalente a «buongiorno» e «come stai?» Apollo pensò fosse il caso di palesare il perché della propria visita.
«Devo chiederti una cosa.»
Il ragazzino parve incuriosito. Si alzò in piedi sull’altare e finse di camminare a mezz’aria, anche se tutto il lavoro lo stavano facendo le sue alette piumate.
Ad Apollo ricordava sempre una gallina.
«Che cosa?»
«Io e te. Siamo a posto, giusto?» gli chiese. «Ce l’hai con me per qualcosa?»
Che colpo all’orgoglio: chiedere a un bimbo se avessero questioni in sospeso. Proprio lui, il fiero Apollo.
Eros alzò un sopracciglio.
«Sei entrato nel tempio di mia madre urlandomi contro», gli fece notare. «E sembri sul punto di chiedermi un favore…»
Un sorriso inquietantemente ampio prese forma sul suo viso. Aveva mangiato lamponi, forse bevuto vino e i denti erano un po’ arrossati, ma Apollo immaginò che quello sarebbe stato l’effetto quando avrebbe banchettato con i brandelli del suo cuore. E che fossero rossi perché già quel giorno doveva averlo fatto con i resti di quello di qualcun altro.
Maledetta gallina volante e cannibale.
«Se sono arrabbiato dipende», proseguì Eros. «Che cosa vuoi?»
Due persone sapevano di Giacinto: Artemide ed Ermes. E sarebbe stato bene rimanesse così. Per chiedere a Eros di lasciarlo in pace avrebbe dovuto parlargli di lui.
Apollo s’innervosì, proprio come tutte le volte che scopriva di star respirando la stessa aria di Eros.
«Se la metti così me ne vado.»
«Davvero? A quel punto sì che sarò arrabbiato. Dovrò scoprire cosa volevi da solo e chissà cosa potrei fare allora…»
Brutto ragazzino alato figlio di una dea poco casta e fedele.
Apollo tenne quell’insulto per sé. Scelse di rischiare, perché avere un amico chiacchierone aveva i propri vantaggi: Ermes gli portava sempre delle chicche dai salottini privati degli altri dei. Non l’avrebbe toccato, ma avrebbe tenuto Eros per… quelle alette da pennuto che si ritrovava. In via del tutto metaforica.
«C’è un ragazzo…»
«Oh, chi è?»
«Non te lo dico chi è.»
«Mi sto innervosendo, Apollo…»
Palesemente non era così, ma Apollo lo accontentò alzando gli occhi al cielo.
«Si chiama Giacinto.»
«Voglio i dettagli.»
«È un bel giovane di Sparta.»
«Più bello della mamma?»
Apollo lo fissò. Era ovvio lo pensasse, ma nessuno poteva osare dire che qualcuno fosse più bello di Afrodite. Accadeva che, come aveva detto Dioniso una volta, «le prendeva male». E si era beccato un gancio solo per quell’affermazione. Il vino aveva fatto da antidolorifico.
«Anche le fidanzatine che ti trovi tu ti sembrano più belle di tua madre, brutta spia.»
Eros si zittì e mise il broncio. Un punto per Apollo.
Magra consolazione: stava arrivando la parte che lo faceva sentire male.
«Sono venuto qui per chiederti se potessi gentilmente… non so… scordarti che esisto e lasciarmi vivere questa storia in pace, senza colpire me con una delle tue frecce che mi fanno uscire di testa per qualcuno e lui con una di quelle capaci di farmi sembrare un mostro repellente agli occhi della persona che mi piace…»
Eros sbatté le lunghe ciglia bionde.
«Tu sembri sempre un mostro repellente», ribatté annoiato.
La sua smorfia di tedio era sale sull’orgoglio squarciato di Apollo.
Se Apollo sorrideva poteva compiere disastri. Circolava la leggenda che avesse raso al suolo un villaggio in una di queste occasioni, e non esattamente perché fosse esageratamente bello e avesse folgorato tutto e tutti: aveva sorriso mentre provocava una catastrofe naturale, per vendetta. Era stato cattivello, insomma.
Quando si faceva torvo, quando tutta la luce scompariva dai suoi occhi, però, allora era davvero furioso.
«Va bene, ora basta.»
La luce che entrava dalla porta del tempio svanì. Sembrava il sole si fosse non solo eclissato, ma anzi completamente svanito, quasi fino ad allora fosse stata una mera fantasia degli umani.
Apollo aveva il potere di spegnerlo e di privare il mondo di una certezza inoppugnabile non solo per i mortali, ma anche per gli stessi dei. Giorno e notte avrebbero perso di significato, ogni cosa sarebbe stata buia.
Eros capì di aver esagerato ancor prima che la mano di Apollo lo afferrasse per la cintola e l’attirasse a sé. I suoi occhi erano quelli di un lupo rabbioso.
«So cosa ti fa paura, Eros», sibilò a un palmo dal suo viso. «Credi che Atena sia l’unica davvero brava a minacciarti[2]
Fu Eros a pensare che con quei denti Apollo avrebbe anche potuto stracciare la sua carne e divorarlo.
Le labbra di Apollo si accostarono all’orecchio di Eros. Scelse le parole con accuratezza, trovò quelle giuste per instillargli il terrore nelle viscere. I foni ricordavano il suono di un coltello nella carne, talvolta uno scricchiolio sinistro di ossa. Si ispirò alle torture promesse dalla sorellastra Atena prontamente origliata da Ermes in un momento di noia e le peggiorò: scelse di essere quel dio crudele che era sempre stato solo un’altra volta, ma ora per il bene di Giacinto, perché potessero esistere le volte in cui sarebbe stato migliore e perché il ragazzo non fosse vittima del capriccio di qualche dio annoiato. Nessuno doveva scegliere al suo posto.
Per una volta Eros ebbe paura di Apollo. Per davvero.
Quando lo sentì tremare, Apollo lo lasciò libero.
«Va bene, d’accordo!» si lamentò il piccolo dio.
Fuori tornò a splendere il sole e Apollo sorrise. Raggiante come l’astro appena risorto, ma anche sinistro e minaccioso.
«Allora siamo d’accordo: niente frecce su di me o su Giacinto.»
Avrebbe potuto usare quelle minacce per persuadere Eros a colpire Giacinto con una delle sue armi proprio mentre Apollo gli stava dinnanzi e ottenere così un vantaggio, ma non era così che voleva farlo innamorare di sé.
Eros tornò a sedersi sull’altare, il cuore ancora palpitante, ma bisognoso di prendersi una piccola rivincita.
«D’accordo. Niente frecce su Giacinto, principe di Sparta. Capelli ricci e occhi verdi, giusto? Bravo in atletica», annuì. «Quello che hai incontrato stamattina, no?»
Stava giocando con il fuoco e lo sapeva.
Apollo vacillò.
«Sapevi già chi era…?» chiese con un filo di voce.
Avrebbe potuto fargli qualcosa in qualsiasi momento, se avesse voluto.
Eros sorrise, angelico.
«Mamma non mi farebbe stare nei suoi templi se non mi accorgessi di queste cose», gli fece notare. «Le mie frecce possono far impazzire d’amore le persone. Prima che ti innervosissi senza motivo eri venuto qui a chiedermi un favore. Penso tu sia già pazzo. Di lui. E io non potrei peggiorare la tua situazione.»
Apollo si sarebbe potuto infuriare di nuovo per essere stato ingiustamente accusato di aver perso le staffe senza ragione, ma era troppo felice di aver terrorizzato Eros e di avere finalmente delle certezze per poterlo aggredire allora. Si voltò e se ne andò senza neanche salutare, ma solo esultando con un «maledetto ragazzino volante!»
Tagliava corto alle volte ed era meglio così.
Eros svolazzò verso la porta, affacciandosi con appena metà del viso per guardare Apollo andarsene.
Si era spaventato davvero.
«E poi le mie frecce di piombo non fanno effetto su chi è già innamorato.»
Ma questa piccola nota su Giacinto, Eros la sussurrò quando Apollo fu troppo lontano per sentirla.
Quel che fra gli dei venne raccontato di quel giorno, forse da Ermes o da Eros stesso per amor di un amore tanto poetico, fu di quell’eclissi.
L’amore di Apollo per Giacinto era tanto potente da oscurare il sole e quello di Giacinto per lui avrebbe reso Apollo migliore.
Ma questa è un’altra storia.



 
[1] Si tratta della vicenda di Apollo e Driope. Per avvicinare quest’ultima, che era una ninfa, Apollo si trasformò in tartaruga.
[2] Ne “Dialoghi degli dei” di Luciano di Samosata, Eros confessa di non aver mai colpito due divinità con le proprie frecce: Atena e Artemide. Nel caso di Atena, ciò è avvenuto perché lo ha minacciato di terribili conseguenze se solo ci avesse provato. In compenso dice che si è divertito tantissimo a bersagliare Apollo.



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Mi sono fatta un po' attendere con questa seconda e ultima parte, ma alla fine sono arrivata.
La stavo correggendo questa sera e onde evitare di passarci altri giorni e giorni sopra ho deciso di postarla.
Si conclude dunque questo piccolo viaggio che potrebbe essere considerato come una sorta di backstage delle peripezie di un Apollo un tantino preoccupato di innamorarsi ed è deciso a far andare bene le cose.
Spero veramente la storia vi sia piaciuta e che vi vada di lasciarmi un parere nelle recensioni!
Continuerò a scrivere di mitologia. Non solo di Apollo e di Giacinto, ma anche di altri personaggi e in senso più ampio.
Come ho fatto all'inizio della storia, vi consiglio la lettura della mia modern!AU "A Giacinto", che racconta - seppur ovviamente in un contesto odierno, ovviamente - il mito di Giacinto. Cronologicamente parlando non lo è, ma a livello teorico è un seguito di questa storia perché le vicende del mito vengono ricalcate.
Se volete rimanere aggiornati sulle mie pubblicazioni vi lascio il link alla mia pagina FB, dove parlo di scrittura e sclero sui miei progetti in lavorazione e futuri.
Ringrazio ancora chiunque abbia letto fin qui.
Alla prossima!

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