I Prigionieri della Torre di Londra

di lmpaoli94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitré ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatré ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


 - Ho paura! - piagnucolò Akito. 
La giornata era piuttosto fredda: rabbrividii e tirai su fino al mento la cerniera del mio giubbetto. 
- Akito, l’idea è stata tua - ricordai a mio fratello. - Non sono stata io a insistere per visitare la Torre del Terrore. 
Akito alzò gli occhi scuri per guardare la sommità della torre mentre una forte folata di vento scompigliò i suoi capelli bruni. 
- Ho una strana sensazione, Sana. Un brutto presentimento. 
Lo guardai con una smorfia di disgusto.
- Sei proprio una lagna, Akito. Tu hai brutti presentimenti anche quando vai al cinema! 
- Solo se si va a vedere un film dell’orrore - borbottò lui, corrucciato. 
- Akito, ormai hai dieci anni - lo rimproverai. - Sarebbe ora che la smettessi di avere paura della tua stessa ombra, non credi? Insomma, questo non è che un vecchio castello con una torre. Centinaia di turisti vengono qui ogni giorno. 
- Ma qui una volta torturavano la gente - replicò Akito, impallidendo al pensiero. - Rinchiudevano i prigionieri nella torre e li lasciavano morire di fame… 
- Sì… secoli fa - lo interruppi, spazientita. - Adesso non torturano più nessuno, Akito. Si limitano a vendere cartoline. 
Entrambi alzammo lo sguardo al tetro castello di pietra grigia scurita dal tempo.
Le due torri laterali svettavano alte e sottili, come due braccia rigide protese verso il cielo.
Basse nuvole temporalesche si erano addensate sopra le torri scure.
I vecchi alberi ritorti nel cortile fremevano al vento.
Non sembrava davvero primavera.
L’aria era fredda e umida. Sentii una goccia di pioggia sulla fronte. Poi un’altra sulla guancia. 
“Una classica giornata londinese” pensai. “Un giorno perfetto per visitare la famosa Torre del Terrore.”  Quello era il nostro primo giorno in Inghilterra, e Akito ed io stavamo facendo i turisti in giro per Londra.
I nostri genitori dovevano partecipare a una conferenza presso il nostro albergo, così ci avevano affidati a un gruppo organizzato.
 Avevamo visitato il British Museum, eravamo stati da Harrod’s, i famosi grandi magazzini, avevamo visto Westminster e Trafalgar Square.
Per pranzo ci eravamo fermati a mangiare salsicce e purè in un caratteristico pub inglese, poi avevamo fatto un bel giro a bordo di un autobus rosso a due piani. 
Londra era proprio come me la immaginavo. Grande e animata. Strade strette fiancheggiate da negozi e negozietti, gremite di quegli antiquati taxi neri dalle linee bombate.
I marciapiedi brulicavano di gente di ogni razza.
 Naturalmente, quel fifone di mio fratello era parecchio nervoso all’idea di girare da soli per una città straniera, ma io ero più grande di lui di due anni, e molto meno imbranata, e così sono riuscita a tenerlo abbastanza calmo.
È stata una vera sorpresa quando Akito è saltato fuori a chiedere di andare a vedere la Torre del Terrore. Quasi non credevo alle mie orecchie. 
La nostra guida, Mr Rei Sagami, un uomo giovane con la faccia pallida e gli occhiali da sole, aveva riunito il gruppo sul marciapiede per farci decidere come concludere il giro turistico.
Eravamo all’incirca una dozzina, tutti anziani, tranne Akito ed io, gli unici ragazzi.
Mr Rei Sagami ci disse che potevamo scegliere fra visitare un altro museo o la Torre. 
- La Torre! La Torre! - supplicò Akito. - Devo assolutamente vedere la Torre del Terrore! 
Rimontammo tutti sull’autobus per una lunga corsa fino ai margini della città.
Il negozio lasciarono il posto a file di casette di mattoni rossi.
Poi passammo davanti a case ancora più vecchie, seminascoste da alberi contorti e muretti ricoperti d’edera.
Quando l’autobus si fermò, scendemmo e ci avviammo lungo una stretta strada di mattoni levigati dai secoli.
La strada terminava davanti a un alto muro di pietra.
Mi fermai a osservare la sagoma scura della Torre del Terrore, svettante oltre il muro. 
Akito mi tirò per una manica. - Andiamo, Sana, sbrigati. Stiamo restando indietro! 
- Ci aspetteranno - rassicurai mio fratello. - Sta’ tranquillo, Akito. Non ci perderemo. 
Raggiungemmo con una corsetta il resto del gruppo.
Mr Rei Sagami, avvolto nel suo lungo soprabito nero, fece strada attraverso l’ingresso, poi si fermò e ci indicò un ammasso di pietre grigie nell’ampio cortile erboso. 
- Quello era il muro originale del castello - spiegò. - E’ stato costruito dai Romani intorno all’anno 400. Londra era una città romana, allora.  Soltanto una piccola parte del muro era ancora eretta. Il resto era ormai ridotto a un cumulo di macerie. Che impressione, pensare che era lì da più di millecinquecento anni!  Seguimmo Mr Rei Sagami lungo il sentiero che portava al castello e alle sue torri. 
- Quando i Romani l’abbandonarono - ci disse la guida - la fortezza venne trasformata in una prigione, e fra le sue mura si consumarono atroci torture e crudeltà per molti anni. 
Tirai fuori la mia macchina fotografica tascabile e feci una foto alle rovine del muro romano. Poi mi volsi e scattai qualche inquadratura del castello.
Il cielo si era oscurato ancora di più. Speravo che le fotografie sarebbero riuscite, con quella poca luce. 
- Questa fu la prima prigione per debitori di Londra - spiegò Mr Rei Sagami, facendoci strada.
- Chi era troppo povero per saldare i propri conti veniva messo in galera. Il che significava precludere ogni possibilità di pagare i debiti, e quindi si restava in prigione tutta la vita. 
Passammo davanti a una piccola guardiola. Era più o meno delle dimensioni di una cabina telefonica, fatta di pietra bianca, col tetto spiovente. Pensavo che fosse vuota, ma con mia grande sorpresa ne sbucò fuori una guardia in uniforme grigia, con un fucile appoggiato rigidamente su una spalla.
Mi volsi a guardare lo scuro muro di cinta intorno ai terreni del castello. 
- Guarda, Akito - mormorai. - Non si vede niente della città al di là del muro. Sembra davvero di essere tornati indietro nel tempo. 
Mio fratello rabbrividì, non so se per le mie parole o per il vento pungente che soffiava nel vecchio cortile.
Il castello gettava un’ombra cupa sul sentiero.
 Mr Rei Sagami ci guidò a una stretta entrata laterale, poi si fermò e si volse verso il gruppo di turisti. Appena lo vidi in faccia, fui colpita dalla sua espressione tesa e addolorata. 
- Sono davvero desolato di dovervi dare questa brutta notizia - disse in tono grave, spostando lentamente lo sguardo dall’uno all’altro del gruppo. 
- Che brutta notizia? - bisbigliò Akito, allarmato, facendosi più vicino a me. 
- Sarete tutti imprigionati nella torre nord - annunciò con severità Mr Rei Sagami. - Lì verrete torturati finché non confesserete il vero motivo per cui avete scelto di venire qui.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Furono in molti, del nostro gruppo, a sussultare violentemente.
Akito si lasciò sfuggire un grido strozzato.
Mr Rei Sagami cominciò a ridacchiare sommessamente, poi un sorriso si allargò sulla sua faccia rubizza. 
- Piaciuto lo scherzetto? Funziona sempre! - disse con allegria. - Devo divertirmi un po’ anch’io, no? 
Ci mettemmo tutti a ridere. Tutti, eccetto Akito.
Lui sembrava ancora scosso. 
- Quel tizio dev’essere matto! - mi sibilò all’orecchio.
Io invece trovavo che Mr Rei Sagami fosse un’ottima guida. Era simpatico, disponibile e sembrava sapere proprio tutto su Londra.
 L’unico problema era che a volte avevo difficoltà a capirlo, con il suo forte accento inglese. 
- Come potete vedere, il castello è composto da diverse costruzioni - riprese a dire Mr Rei Sagami, tornando serio. - Quell’edificio lungo e basso laggiù era la caserma dei soldati. 
Guardai attraverso il prato nella direzione in cui ci stava indicando.
Fotografai la caserma, poi mi girai per fare una foto anche alla guardia in uniforme grigia ferma sull’attenti davanti alla guardiola.
Sentii delle esclamazioni soffocate alle mie spalle.
Voltandomi, vidi un omone incappucciato sbucare dall’entrata e arrivare di soppiatto dietro a Mr Rei Sagami.
Indossava una tunica verde di foggia antica… e brandiva un’ascia da guerra.
Un boia! Lo vidi levare la sua arma mortale sopra la testa di Mr Rei Sagami, pronto a vibrare il colpo. 
- C’è qualcuno che ha bisogno di un rapido taglio di capelli? - domandò con disinvoltura Mr Rei Sagami, senza voltarsi. - Il barbiere del castello è a vostra disposizione! 
Ci mettemmo tutti a ridere.
L’uomo in costume da carnefice fece un breve inchino, poi scomparve di nuovo all’interno del castello. 
- Divertente - commentò Akito, ma notai che mi stava appiccicato. 
- Per prima cosa visiteremo la camera della tortura - annunciò Mr Rei Sagami. - Vi prego di restare uniti.  Prese una bandierina rossa appesa a una lunga asta e la sollevò sopra la testa. 
- Terrò questa bene in alto, in modo che sia ben visibile. È facile perdersi, là dentro: ci sono centinaia di stanze e passaggi segreti. 
- Uau! Che bello! - esclamai. 
Akito mi guardò con aria dubbiosa. 
- Sei sicuro di sentirtela di entrare nella stanza della tortura? - mi preoccupai. - Non avrai troppa paura? 
- Chi? Io? - Akito tentò di fare lo spavaldo, ma gli tremava la voce.  
- Potrete vedere strumenti di tortura alquanto inusuali - continuò Rei Sagami. - I carcerieri avevano una gran varietà di sistemi per infliggere dolore ai loro poveri prigionieri. Spero che a nessuno di voi venga la tentazione di sperimentarli una volta tornato a casa. 
Qualcuno rise.
Io non stavo più nella pelle per la voglia di entrare. 
- Ripeto, restate uniti - ci raccomandò ancora Mr Rei Sagami mentre il gruppo cominciava a entrare nel castello, varcando uno alla volta l’angusto ingresso. - L’ultimo gruppo di turisti che ho accompagnato qui si è perso e non se n’è saputo più nulla. Molti di loro staranno ancora vagando per quelle stanze buie. Il mio capo mi ha fatto una sfuriata tremenda, quando sono tornato in ufficio. 
Feci una risatina e scrollai la testa.
Un altro dei suoi scherzetti di repertorio.
Doveva averla raccontata un migliaio di volte, quella storiella. 
Mentre gli altri entravano, mi soffermai a guardare la torre.
Era di pietra massiccia, senza finestre, eccetto una, minuscola e quadrata, vicino alla sommità.
Pensare che secoli fa delle gente, gente vera, era stata imprigionata là dentro! 
All’improvviso mi ritrovai a domandarmi se per caso il castello non fosse infestato da fantasmi.
Scrutai la faccia di mio fratello.
Aveva un’espressione seria.
Mi chiesi se anche a lui stessero passando per la testa i miei stessi inquietanti pensieri. 
Ci avviammo verso l’entrata buia. 
- Voltati, Akito - gli dissi.
Feci un passo indietro e tirai fuori la macchina fotografica dalla tasca del mio giubbetto. 
- Entriamo, dài - mi fece fretta Akito. - Gli altri stanno andando avanti. 
- Un attimo solo - insistei. - Prima voglio farti una foto all’ingresso del castello. 
Sollevai la macchina fotografica e guardai attraverso il mirino.
Akito fece una faccia un po’ da idiota.
Premetti il tasto dell’otturatore. Click. 
Non potevo immaginare che quella era l’ultima foto che avrei mai fatto a Eddie.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Mr Rei Sagami ci precedette giù per una stretta scala.
Arrivammo in un’ampia stanza illuminata a malapena.
Dovetti aspettare qualche secondo perché i miei occhi si abituassero alla semioscurità.
Feci un respiro profondo: l’aria sapeva di chiuso, di vecchio e di polvere. E faceva stranamente caldo, là dentro.
Aprii la cerniera del giubbetto e tirai fuori i miei lunghi capelli castani dal colletto.
Vidi diversi scaffali contro le pareti, ma nella penombra non riuscii a distinguere gli oggetti che vi erano esposti.
Mr Rei Sagami ci guidò a una grossa struttura in legno al centro della stanza.
Il gruppo si strinse attorno a lui.
- Questo è il cavalletto - proclamò, indicandolo con la sua bandierina rossa.
- E’ proprio vero! - sussurrai ad Akito. Avevo visto strumenti di tortura simili nei film e nei fumetti, ma non avevo mai pensato che esistessero realmente.
- Il prigioniero veniva fatto sdraiare qui - continuò Mr Rei Sagami. - Gli si legavano braccia e gambe con le cinghie. Quando si girava quella grossa ruota, le funi tiravano gli arti, con effetti che vi lascio immaginare. Più si girava la ruota, più le ruote tiravano. Talvolta i prigionieri venivano tesi al punto che le ossa si staccavano dalle loro sedi. -
Mr Rei Sagami si interruppe, fece una risatina, poi saltò fuori con un’altra delle sue spiritosaggini: - Ecco quel che si dice una lunga prigionia!
Alcuni del gruppo risero, ma Akito ed io ci scambiammo un’occhiata austera.
Osservando il lungo marchingegno di legno con le sue funi e cinghie, mi immaginai qualcuno disteso su quel tavolaccio di legno, il cigolio della ruota che girava, e le corde che tiravano sempre di più.
Quando alzai lo sguardo, una figura scura dall’altra parte del cavalletto attirò la mia attenzione. Era un uomo grande e grosso, avvolto in un lungo mantello nero, col volto quasi completamente nascosto dall’ombra di un cappello a tesa larga.
I suoi occhi brillavano sinistramente.
Era una mia impressione, o mi stava fissando? Diedi di gomito ad Akito.
- Vedi quel tizio laggiù? - gli dissi sottovoce. - Quello vestito di nero. È del nostro gruppo?
Akito scosse la testa.
- Non l’ho mai visto - rispose. - Che strano tipo! Perché ci guarda in quel modo?
L’uomo in nero si calcò di più il cappello sulla fronte, e i suoi occhi scomparvero sotto la larga tesa. Il suo mantello nero volteggiò mentre si ritraeva nell’ombra.
Mr Rei Sagami intanto continuava a parlare del cavalletto.
Ad un certo punto domandò se ci fosse qualche volontario per provarlo, e tutti si misero a ridere.
Dovevo assolutamente fare una foto a quell’aggeggio, decisi. I miei amici sarebbero rimasti a bocca aperta. Mi misi una mano in tasca per prendere l’apparecchio.
- Ehi… ma… - borbottai, sorpresa.
Cercai nell’altra tasca del giubbetto, poi nelle tasche dei jeans.
- Dov’è finita?!
La macchina fotografica non c’era più.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


- Akito… la mia macchina fotografica! - esclamai. - Non hai idea di… 
Alzai lo sguardo su mio fratello e mi interruppi vedendo il sogghigno malizioso sulla sua faccia.
Mi tese una mano, mostrandomi la mia macchina con un sorriso soddisfatto. 
- Il Borseggiatore Folle ha colpito ancora! - dichiarò. 
- Me l’hai presa dalla tasca…? - sbottai, incredula e inviperita. 
Gli diedi uno spintone che lo mandò a sbattere contro il cavalletto.
Mio fratello si mise a ridere. Lui si considera il più grande borseggiatore del mondo.
È il suo hobby. Sul serio. Si esercita in continuazione. 
- Le mani più veloci della Terra! - si vantò, agitandomi la macchina fotografica davanti al naso. 
- Sei insopportabile - sibilai, strappandogliela di mano.  Non so che cosa ci trovi di tanto divertente a essere un buon ladro, ma devo ammettere che è davvero abile. Mi aveva sfilato di tasca la macchina fotografica senza che mi accorgessi di niente!  
Stavo per dirgli di non provarcisi più, ma in quel momento Mr Rei Sagami invitò tutti a seguirlo nella stanza successiva.
Mentre Akito e io ci affrettavamo a raggiungere il gruppo, lanciai un’occhiata indietro e scorsi l’uomo col mantello nero.
Ci stava venendo dietro, ancora con la faccia nascosta sotto la tesa del cappello.
Sentii una fitta di paura nel petto. Ci stava tenendo d’occhio? Perché?
No, era assurdo. Con ogni probabilità era soltanto un altro turista che stava visitando la Torre del Terrore. Ma allora, perché avevo l’inquietante sensazione che stesse seguendo me e mio fratello? 
Mentre Akito e io guardavamo gli arnesi di tortura esposti nella stanza successiva, continuai a lanciare occhiate dietro le spalle per sbirciare lo strano uomo. Se ne stava in disparte, dove l’ombra era più fitta; il suo mantello nero si confondeva con l’oscurità.
Non sembrava affatto interessato agli oggetti in mostra: teneva lo sguardo fisso davanti a sé… dritto su di noi! 
- Guarda questi affari! - esclamò Akito, spingendomi verso una mensola. - Che cosa saranno? 
- Schiacciapollici - disse una voce dietro di noi.
Mr Rei Sagami era arrivato alle nostre spalle senza che ce ne accorgessimo.
Prese uno di quegli aggeggi e lo rigirò fra le dita. Era una specie di rozzo anello di ferro. Se lo infilò sul pollice, poi alzò la mano in modo che potessimo vederlo bene.
- Sembra piuttosto innocuo - spiegò - ma c’è un piccolo particolare. Vedete questa vite sul lato? Se ora la girassi, si affonderebbe nel mio pollice. E più si gira… 
- Uh! - esclamai, facendo una smorfia. 
- Tremendo - annuì Mr Rei Sagami, rimettendo il perfido aggeggio al suo posto. - Questa stanza è piena di cosette del genere. 
- Non riesco a credere che della gente venisse veramente torturata con questa roba - mormorò Akito. 
Gli tremava la voce, ed era impallidito. Decisamente non aveva il gusto del brivido 
- Vorrei averne un paio da usare su di te! - infierii. 
È un tale fifone! A volte proprio non riesco a trattenermi dal fargli prendere qualche bello spavento. Così allungai una mano oltre la corda di protezione e presi un paio di manette di ferro fissate al muro tramite una catena. Erano più pesanti di quanto immaginassi. E lungo tutto il bordo interno c’era una fila di punte acuminate. 
- Mettile giù! - bisbigliò Akito, agitato.   Me ne feci scivolare una intorno al polso.
- Guarda, Akito - gli dissi. -
Quando la chiudi, le punte ti affondano nel polso…  Emisi un grido strozzato quando il pesante cerchio di ferro si chiuse con uno scatto. 
- Oh, Dio! - gemetti, tirando freneticamente le manette. - Akito, aiutami! Non riesco a toglierle! Fa’ qualcosa, ti prego! Mi sta tagliando!

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Un gemito strozzato gorgogliò nella gola di Akito mentre fissava inorridito il mio polso imprigionato, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il mento tremante. 
- Aiutami! - lo scongiurai, agitando freneticamente il braccio, dando strattoni alla catena. - Non stare lì impalato! Toglimi questo coso! 
Akito si fece bianco come un fantasma. Non riuscii a fare la faccia seria un istante di più.
Scoppiai a ridere, e mi sfilai le manette dal polso. 
- Ci sei cascato! - lo derisi. - Hai avuto quel che meritavi per avermi rubato la macchina fotografica. Adesso siamo pari! 
- Io… io… - farfugliò Akito.
Adesso era rosso come un peperone. I suoi occhi scuri erano colmi di rimprovero.
- Mi hai fatto prendere uno spavento tremendo! Non farlo più, Sana. Sul serio.  
Gli feci una linguaccia.
Mi rendo conto che come sorella maggiore avrei dovuto mostrarmi più matura, ma non sempre mio fratello riesce a tirare fuori il meglio di me. 
- Seguitemi, prego! - la voce di Mr Rei Sagami echeggiò fra i muri di pietra.
Akito e io ci avvicinammo mentre il gruppo si radunava intorno alla guida. 
- Adesso saliremo sulla torre nord - annunciò Mr Rei Sagami. - Come vedrete, le scale sono piuttosto strette e ripide, quindi dovremo salire in fila indiana. Fate attenzione a dove mettete i piedi. 
Ci precedette attraverso una stretta porticina, così bassa che per passare dovette chinare la sua testa pelata.
Akito e io eravamo gli ultimi della fila.
La scalinata di pietra si inerpicava nella torre, tortuosa come una cavatappi. Non c’era un corrimano, e mentre salivo dovetti tenermi appoggiata contro il muro per non perdere l’equilibrio.
Più si saliva, più l’aria si faceva calda. Gli antichi gradini di pietra erano levigati, con i bordi smussati. Chissà quanti piedi dovevano averli calpestati.
Pensai a prigionieri che venivano fatti marciare su per quelle scale. Dovevano tremargli le gambe per la paura. 
Davanti a me, Akito saliva lentamente, con diffidenza.
- Non è che ci si veda molto, quassù - si lamentò, girandosi a guardarmi. - Muoviti, Sana. Non restare troppo indietro. 
Le maniche del mio giubbetto strusciavano contro le pareti di pietra annerita. Sono magrolina, ma quella scala era così stretta che continuavo a sbattere da una parte all’altra. Mi sembrava che stessimo salendo da ore quando finalmente giungemmo su un pianerottolo. Proprio davanti a noi c’era una cella oscura protetta da sbarre di metallo. 
- Questa è la cella in cui venivano tenuti i prigionieri politici - ci disse Mr Rei Sagami. -  I nemici del re erano incarcerati qui. Come potete vedere, non era il posto più confortevole del mondo. 
Avvicinandomi di più, vidi che la cella conteneva soltanto una piccola panca di pietra e un tavolino di legno.  - Cosa accadeva a quei prigionieri? - domandò alla guida una donna dai capelli bianchi. - Restavano in questa cella per molti anni? 
- No - rispose Mr Rei Sagami, massaggiandosi il mento. - In genere venivano decapitati in tempi abbastanza brevi. 
Sentii un brivido sulla nuca. Mi accostai alle sbarre e sbirciai dentro. Vere persone erano state incarcerate in quella cella angusta, pensai. Vere persone si era aggrappate a quelle sbarre, guardando fuori.
Si erano sedute a quel tavolinetto. Avevano camminato avanti e indietro in quel poco spazio, aspettando di essere mandate al patibolo.
Deglutendo a fatica, lanciai un’occhiata a mio fratello. Sembrava spaventato e inorridito quanto me. 
- Ma non siamo ancora in cima alla Torre? - ci fece notare Mr Rei Sagami. - Vogliamo riprendere la salita? 
I gradini di pietra della scala a chiocciola si facevano sempre più ripidi mentre ci avvicinavamo alla sommità della Torre. Mi arrampicai con cautela appresso a mio fratello, tenendomi al muro con una mano. E mentre salivo l’ultimo tratto, mi assalì la stranissima sensazione di essere già stata lì. Di aver già seguito quella scala tortuosa. Di essere già stata in cima a quell’antica torre in passato. 
Naturalmente, questo era impossibile.
Era la prima volta che Akito ed io andavamo in Inghilterra in vita nostra. 
La strana sensazione mia accompagnò mentre il gruppo si stipava nella minuscola stanza che si apriva alla fine delle scale. Avevo visto quella torre in un film? Ne avevo visto qualche foto su un giornale? Perché mi sembrava così familiare? 
Scossi energicamente la testa, come cercando di scacciare i miei strani, inquietanti pensieri. Poi andai a mettermi di fianco a mio fratello e mi guardai attorno.
Una finestrella rotonda alta sopra le nostre teste lasciava filtrare una tetra luce grigiastra. Le pareti curve erano spoglie, segnate da fenditure e macchie scure. Il soffitto era basso, tanto che Mr Rei Sagami ed alcuni degli altri adulti dovevano tenere la testa china. 
- Forse potete avvertire la tristezza che aleggia in questa stanza - disse a bassa voce Mr Rei Sagami. 
Ci stringemmo tutti intorno a lui per sentire meglio quello che aveva da raccontarci. Akito alzò lo sguardo alla finestrella, con un’espressione compunta sulla faccia.  -
Qui furono tenuti prigionieri due giovanissimi principi - continuò Mr Rei Sagami in tono solenne. - Era l’inizio del quindicesimo secolo. Il principe Akahito e la principessa Rossana di York vennero segregati in questa piccola cella in cima alla torre. -
Disegnò un cerchio in aria con la sua bandierina rossa. Noi ne seguimmo il movimento con gli occhi, girando lo sguardo per la tetra, fredda stanzetta.
- Provate a immaginare. Due bambini, strappati alla loro casa. Rinchiusi al freddo, nello squallore di questa cella in cima a una torre.  La voce di Mr Rei Sagami era appena più di un sussurro.
All’improvviso mi venne freddo. Richiusi la lampo del giubbetto.
Akito teneva le mani affondate nelle tasche dei jeans. I suoi occhi erano sbarrati per la paura mentre lasciava vagare lo sguardo nella penombra della stanza. 
- Il principe e la principessa non rimasero qui a lungo - proseguì Mr Rei Sagami, abbassando la bandierina. - Durante la notte, mentre loro dormivano, il carnefice di corte e i suoi uomini salirono di soppiatto in cima alla torre, con l’ordine di soffocarli nel sonno. Dovevano eliminare i due giovani principi per impedire che salissero al trono. 
Mr Rei Sagami chiuse gli occhi e chinò la testa. Il silenzio della stanza sembrò farsi più pesante. Nessuno si mosse. Nessuno parlava. L’unico suono era il fruscio del vento attraverso la minuscola finestrella sopra le nostre teste.
Chiusi anch’io gli occhi e cercai di figurarmi la scena.
Due ragazzi come me ed Akito, soli e impauriti, stavano cercando di dormire in quella fredda cella di pietra. A un tratto si apriva la porta. Strani uomini entravano senza far rumore, senza una parola, e senza alcuna esitazione uccidevano il principe e la principessa. 
“E’ successo proprio in questa stanza” pensai. “Proprio dove sono io adesso.”  Riaprii gli occhi.
Akito mi stava guardando con aria turbata. 
- E’ veramente terribile - mormorò. 
- Sì - concordai. 
Mr Rei Sagami riprese a parlare, ma proprio in quel momento la macchina fotografica mi sfuggì di mano e cadde rumorosamente sul pavimento di pietra.
Mi chinai a raccoglierla. 
- Oh, no! - esclamai. - Akito, guarda… si è rotto l’obiettivo! 
- Ssshhh! - protestò mio fratello, spazientito. - Non mi fai sentire niente. 
- Ma la mia macchina…! - insistei, indispettita.
Scrollai con forza l’apparecchio. Non so perché lo feci. Non è che potesse servire ad aggiustare l’obiettivo. 
- Mi hai fatto perdere la fine della storia! - mi accusò Akito - Hai sentito che cosa stava dicendo? 
Feci segno di no con la testa.
- Mi dispiace - mi scusai. - Non stavo ascoltando. 
Ci avvicinammo a un basso lettuccio contro la parete. Accanto ad esso c’era uno sgabello a tre gambe. Era tutto il mobilio della stanza. Il principe e la principessa si erano seduti lì, pensai. Forse salivano sul letto per cercare di guardar fuori dalla finestra. Chissà che cosa si dicevano.
Si domandavano che ne sarebbe stato di loro? Parlavano delle cose divertenti che avrebbero fatto quando li avrebbero liberati e sarebbero tornati a casa? Era tutto così triste, così orribilmente triste. 
Posai una mano sul giaciglio. Era duro. Dei segni neri sul muro attirarono la mia attenzione. Sembrava che sulla pietra ci fosse scritto qualcosa. Forse il principe e la principessa avevano lasciato un messaggio? Mi sporsi sul lettuccio per guardare da vicino. No. Non era un messaggio. Soltanto crepe. 
- Sue, andiamo - mi fece fretta Akito tirandomi per una manica. 
- Va bene… va bene, arrivo - replicai, un po’ infastidita. 
Passai ancora una volta la mano sul lettuccio.
Il pagliericcio era duro e bitorzoluto. Chissà come doveva essere scomodo.
Alzai lo sguardo alla finestrella. La luce grigia si era scurita. Sembrava che fosse scesa la notte, là fuori. All’improvviso ebbi l’impressione che le pareti di pietra si stessero stringendo intorno a me.
Mi sentivo come se fossi chiusa in uno sgabuzzino buio, freddo, spaventoso. Mi sembrava che i muri mi stessero schiacciando, soffocandomi.  Era così che si sentivano il principe e la principessa? Stavo provando la stessa paura che avevano provato loro oltre cinque secoli prima? 
Con un pesante sospiro, mi staccai dal lettuccio e mi volsi verso mio fratello. 
- Andiamo via di qui - dissi con voce tremante. - Questa stanza è troppo impressionante, troppo triste.  Ci avviammo verso le scale, ma ci fermammo di colpo. 
- Ehi…! - gridammo entrambi, sorpresi.
Mr Rei Sagami e il resto del gruppo erano scomparsi.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


- Dove sono andati? - gridò Akito con voce stridula. - Sana… ci hanno lasciati qui! 
- Si saranno avviati giù per le scale - gli dissi. - Meglio che ci sbrighiamo a raggiungerli. 
Diedi a mio fratello una leggera spintarella d’incoraggiamento, ma lui indugiò. 
- Va’ avanti tu - borbottò. 
- Non avrai paura, vero? - lo stuzzicai. - Pensa, Akito, siamo soli nella Torre del Terrore! 
Non so perché mi diverta tanto punzecchiare mio fratello. Lo sapevo bene che aveva paura. Ne avevo un po’ anch’io, in effetti. Ma non potevo fare a meno di metterlo ancora più in crisi.
Come ho già detto, Akito non sempre tira fuori il mio lato migliore. 
Mi affacciai all’imbocco delle scale, sbirciando nell’oscurità. Sembravano ancora più ripide e buie di prima.  - Come mai non li abbiamo sentiti andare via? - domandò mio fratello. - E perché se ne sono andati così, da un momento all’altro? 
- Si è fatto tardi - gli dissi. - Immagino che Mr Rei Sagami avesse fretta di rimettere tutti sull’autobus e riportarli ai loro alberghi. La Torre chiude alle cinque, credo. 
Diedi un’occhiata al mio orologio. Erano già le cinque e venti! 
- Sbrighiamoci - piagnucolò Akito. - Non voglio restare chiuso dentro. Questo posto mi fa venire la pelle d’oca. 
- Anche a me - confessai. 
Cominciai a scendere cautamente i gradini, sbirciando nel buio. Le suole di gomma delle mie scarpe da ginnastica scivolavano sulla pietra liscia. Di nuovo, mi tenni con una mano al muro per non perdere l’equilibrio. 
- Ma dove sono andati gli altri? - domandò nervosamente Akito, alle mie spalle. - Perché non si sentono i loro passi giù per le scale? 
Via via che scendevamo, l’aria si faceva più fredda. Una pallida luce giallastra rischiarava il pianerottolo sotto di noi. La mia mano incontrò qualcosa di morbido e appiccicoso. Ragnatele. Che schifo! 
Potevo sentire dietro di me il respiro affannoso di Akito. 
- L’autobus ci aspetterà - lo rassicurai. - Sta’ calmo. Mr Rei Sagami non se andrà senza di noi. 
- C’è qualcuno laggiù? - gridò Akito. - Qualcuno mi sente? 
La sua voce acuta echeggiò nello stretto pozzo delle scale. Nessuna risposta. 
- Dove sono i guardiani? - domandò Akito, sempre più irrequieto. 
- Akito… ti prego, non agitarti - gli dissi. - E’ tardi. Probabilmente i guardiani stanno chiudendo. Mr Rei Sagami ci starà aspettando di sotto, vedrai. 
Raggiungemmo il pianerottolo illuminato.
La piccola cella che avevamo visto si apriva nella parete. 
- Non fermarti - mi scongiurò Akito, col fiato corto. - Continua a scendere, Sana. Dobbiamo fare presto. 
Gli misi una mano sulla spalla per calmarlo. 
- Akito, andrà tutto bene - gli dissi nel mio tono più rassicurante. - Siamo quasi arrivati. 
- Sana, ma… - protestò Akito. - Guarda! 
Stava indicando freneticamente qualcosa. Vidi immediatamente che cosa lo preoccupava. C’erano due scale che scendevano: una a sinistra della cella, e una a destra. 
- Strano - borbottai, spostando lo sguardo dall’una all’altra. - Non ricordo che ci fosse un’altra scala. 
- Qu… quale sarà quella giusta? - balbettò Akito. 
Esitai un istante, cercando di raccapezzarmi.
- Non sono sicura…  Sbirciai giù per quella sulla destra, ma non riuscii a vedere molto lontano: il mio sguardo si fermò alla prima svolta. 
- Allora? Quale delle due? - mi incalzò mio fratello. 
- Non credo che abbia molta importanza - tagliai corto. - Vanno in giù tutt’e due, no? 
Gli feci segno di seguirmi.
- Andiamo. Mi sembra che siamo saliti di qui. 
Scesi il primo gradino. Poi mi fermai. Si sentiva un suono di passi. Passi pesanti. Su per le scale.
Akito mi afferrò una mano.  
- Chi sarà? - bisbigliò, spaventato. 
- Probabilmente Mr Rei Sagami - gli dissi. - Sarà venuto a cercarci. 
Akito tirò un lungo sospiro di sollievo. 
- Mr Rei Sagami… è lei? - chiamai. 
Silenzio. Eccetto per i passi che continuavano ad avvicinarsi. 
- Mr Rei Sagami? - tentai di nuovo con una vocetta sottile. 
Quando la figura scura apparve sulle scale sotto di me, vidi subito che non era la nostra guida. Quasi cacciai un urlo riconoscendo il grosso uomo col mantello nero. La sua faccia era ancora nascosta nell’ombra, ma i suoi occhi ardevano come tizzoni mentre fissava me e Akito da sotto la larga tesa del cappello. 
Feci un passo indietro, risalendo sul piccolo pianerottolo. 
- E’… è di qui l’uscita? - balbettai. 
L’uomo non rispose. Non si mosse. I suoi occhi di brace sembravano perforare i miei. Mi sforzai di vedere la sua faccia, ma la teneva celata nell’ombra del cappello calcato sulla fronte.  Feci un respiro profondo e tentai ancora. 
- Abbiamo perso di vista il nostro gruppo - dissi. - Ci staranno aspettando di sotto. È di qui che si esce? 
Di nuovo nessuna risposta.
Continuava a fissarci minacciosamente. Era così grosso che bloccava completamente le scale. 
- Signore… - ripresi, sempre più incerta. - Mio fratello e io… 
L’uomo alzò una mano. Una mano enorme, coperta da un guanto nero. Puntò l’indice verso di noi. 
- Voi adesso verrete con me - grugnì.  
Lo fissai senza capire. 
- Avanti, venite con me - ripeté. - Non voglio farvi del male. Ma se tentate di scappare, non avrò altra scelta.

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


Akito, dietro di me, emise un suono a metà tra un grido e un singhiozzo.
Guardai a bocca aperta l’uomo avvicinarsi. Poi compresi. 
- Lei è un guardiano, vero? - domandai.
Lui non rispose.
- Mi ha fatto prendere uno spavento! - dissi con una risatina stridula. - Sa, con quel costume e tutto il resto…  Lei lavora qui… giusto? 
L’uomo continuò ad avanzare, tenendo le mani guantate di nero davanti a sé, muovendo le dita. 
- Mi dispiace di aver fatto così tardi - aggiunsi. - Immagino che lei abbia fretta di chiudere e andare a casa. Ma come le ho detto, ci siamo persi… 
Salì un altro gradino. I suoi occhi lampeggiavano cupamente. 
- Voi sapere perché sono qui - ringhiò. 
- No, non lo so. Io… 
Le parole mi si troncarono in gola quando mi afferrò per una spalla. 
- Ehi! La lasci andare! - insorse mio fratello. 
Ma l’uomo col mantello agguantò anche Akito.
Le sue dita guantate affondarono nella mia spalla, strappandomi un grido di dolore.
Ci sbattè entrambi contro il freddo muro di pietra.
Per la prima volta scorsi la sua faccia, una faccia dura, cattiva. Un naso lungo e affilato, labbra sottili atteggiate a una smorfia rabbiosa. E gli occhi, gelidi e insieme brucianti. 
- Ci lasci andare! - intimò coraggiosamente Akito. 
- Dobbiamo raggiungere il nostro gruppo! - strillai. - Dobbiamo andarcene. Lei non può trattenerci qui!  L’uomo ignorò le nostre proteste. 
- Non muovetevi - ordinò a voce bassa, ringhiosa. - Restate dove siete. Non provate a scappare. 
- Senta, signore… se abbiamo fatto qualcosa di sbagliato… 
La voce mi si spense in gola. Lo vidi frugare fra le pieghe del suo mantello e tirarne fuori qualcosa. Sulle prime mi sembrarono tre palle di gomma. Tre palle di gomma bianca.
Poi, sentendo il rumore che facevano l’una contro l’altra, mi resi conto che erano invece tre sassi, lisci e bianchi. 
“Che sta succedendo?” mi chiesi, frastornata. “E’ un pazzo? Un pazzo furioso?” 
- Senta, signore - cominciò Akito. - Adesso dobbiamo andare… 
- Non muovetevi! - tuonò l’uomo, spingendosi irosamente il mantello dietro le spalle. - State fermi, e chiudete la bocca. È il mio ultimo avvertimento! 
Akito ed io ci scambiammo un’occhiata piena di terrore.
Restando con la schiena appoggiata contro il muro, cercai di spostarmi un poco alla volta, impercettibilmente, verso l’altra scala. 
Borbottando tra sé, l’uomo si concentrò sui tre sassi bianchi. Li impilò con cura sul palmo della sua mano, poi imprecò fra i denti quando uno gli cadde a terra, rotolando sul liscio pavimento di pietra. 
“Questa è la nostra occasione!” mi dissi. 
- Corri! - gridai, spingendo Akito verso l’altra scala.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


- Fermi dove siete! - urlò l’uomo, raccogliendo il sasso.
Aveva una voce tonante che rimbombava tra le pareti di pietra.
- Vi ho avvertiti! Non potete sfuggirmi! 
Mio fratello aveva gli occhi fuori dalle orbite. Ma per fortuna ebbe i riflessi pronti: al mio “via” scattò come una molla. 
- Fermatevi! - sbraitò l’uomo.
L’eco della sua voce ci seguì mentre ci lanciavamo a rotta di collo giù per la ripida spirale delle scale, reggendoci con le mani al muro di pietra. Giù, sempre più giù. La discesa vorticosa mi faceva girare la testa. Ma mi sforzai di dominare lo stordimento e aguzzai gli occhi nella luce fioca. 
“Non devo cadere!” mi ripetevo, imponendomi di non cedere al terrore che cresceva dentro di me. 
La macchina fotografica scivolò fuori dalla tasca del mio giubbetto e ruzzolò rumorosamente sulla scale. Non mi fermai a raccoglierla. Tanto era rotta, comunque. 
- Corri! Corri! - spronai Akito. - Ci siamo quasi! 
Almeno, lo speravo. La discesa mi sembrava decisamente troppo lunga. Le nostre scarpe da ginnastica battevano sonoramente contro i gradini di pietra. Ma i passi pesanti dell’uomo dietro di noi erano molto più rumorosi. I suoi urli rabbiosi risuonavano nella stretta torre. Le pareti di pietra ci rimandavano la sua voce furibonda da ogni direzione: sembrava che fossimo inseguiti da cento uomini terrificanti, invece che da uno.
Chi era? Perché ce l’aveva con noi? Perché era così arrabbiato?  Quelle domande mi rimbalzarono nella mente mentre continuavo a correre a precipizio giù per la scala scoscesa.
Non c’era tempo per cercare risposte, adesso.
La grande porta grigia si parò davanti a noi all’improvviso, prima che potessimo fermarci.
Akito ed io ci andammo a sbattere dritti contro. 
- L’uscita! Ce l’abbiamo fatta… finalmente! - farfugliai.
 Potevo sentire il rimbombo dei passi dell’uomo sulle scale dietro di noi, sempre più vicino.  “Giusto in tempo!” pensai. “Salvi per un pelo!” 
Akito diede una spinta alla porta. Un’altra più forte. Si girò verso di me col mento tremante. Sembrava sul punto di mettersi a piangere. 
- E’ chiusa! Siamo chiusi dentro! 
- No! - gridai. - Spingi!
Spingemmo entrambi, con tutte le nostre forza. Niente da fare. La porta non si smosse. Eravamo in trappola.
L’uomo ormai di aveva quasi raggiunti. Era tanto vicino che potevamo sentire le sue imprecazioni a mezza voce.
Ma perché ce l’aveva con noi? Che intenzioni aveva? 
- Proviamo ancora - dissi, con la voce strozzata dall’angoscia. 
Riprendemmo a spingere, con la forza della disperazione. La porta scricchiolò. Sembrava che stesse per cedere. 
- Fermi dove siete! - ordinò l’uomo, perentorio.
Ma io e Akito assestammo un altro spintone alla porta, che stavolta si schiuse, stridendo contro il pavimento di pietra.
Akito trattenne il fiato e sgusciò per primo attraverso la stretta apertura.
Mi infilai dietro di lui, poi richiudemmo la porta alle nostre spalle, ansimanti per lo sforzo e la paura.
Notai un grosso chiavistello sul bordo della porta. Lo tirai con forza, facendo scorrere la sbarra di ferro fino in fondo.
Adesso l’uomo col mantello era chiuso dentro.
Che sollievo!  - Siamo salvi! - esultai. 
Ma appena mi girai, vidi che non eravamo all’aperto. Ci trovavamo in una enorme stanza buia. E non eravamo soli.
Una voce crudele, la voce sogghignante di un uomo, mi disse che i nostri guai non erano finiti.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Una perfida risata echeggiò davanti a noi, facendoci sussultare. 
- Siete entrati nella prigione del re - dichiarò la voce dell’uomo. - Abbandonate ogni speranza! 
- Chi è? - domandai con voce spezzata.
La sola risposta fu un’altra risata maligna. 
Un raggio di pallida luce verdastra filtrava dal basso soffitto, rompendo l’oscurità.
Stretta contro Akito, scrutai nel sinistro chiarore, cercando disperatamente una via di fuga. 
- Là! Guarda! - bisbigliò Akito, indicando qualcosa dall’altra parte della stanza.
Contro la parete c’era una cella chiusa da sbarre. Ci avvicinammo di qualche passo. Poi facemmo entrambi un balzo indietro. Qualcosa sporgeva fra le sbarre. Una mano scheletrica protesa verso di noi. 
- No! - gemetti, inorridita. 
Il suono di violenti colpi contro la porta ci fece fare un altro salto. 
- Non potete scappare! 
Oltre la porta, la voce tonante dell’uomo col mantello sovrastava il frastuono dei colpi.
Akito mi strinse convulsamente una mano. Il chiavistello avrebbe tenuto? Davanti a noi, spuntavano altre due mani ossute. 
- Non è possibile! - esalò mio fratello. - Non esistono più prigioni come questa! 
- Un’altra porta - mormorai, atterrita. - Dobbiamo trovare un’altra porta. 
I miei occhi frugarono freneticamente nelle tenebre. In un angolo lontano, scorsi una sottile lama di luce. Cominciai a correre in quella direzione, ma inciampai in qualcosa. Qualcosa incatenato al pavimento. Era un corpo. Il corpo di un uomo giaceva a terra, e io gli atterrai pesantemente sul petto. Le catene sferragliarono, impigliate intorno ai miei piedi. Picchiai duramente i gomiti e le ginocchia sul pavimento di pietra. Il dolore mi attraversò tutto il corpo come una scossa elettrica. L’uomo rimase inerte sotto di me. Sembrava morto. Balzai in piedi come una molla, sebbene fossi tutta indolenzita. Poi lo guardai meglio, e mi accorsi che era un fantoccio. Nient’altro che un fantoccio, incatenato al pavimento. 
- Akito… non è vero niente! - gridai. 
- Che?  Mio fratello mi fissò attonito e stralunato. 
- Non è vero! Non è vero niente! - ripetei. - Guarda! Le mani dei prigionieri non si muovono! È tutto finto, Akito! 
Akito fece per replicare, ma la risata crudele lo interruppe. 
- Siete entrati nella prigione del re. Abbandonate ogni speranza! - disse di nuovo la voce, e giù un’altra risata diabolica. 
Era soltanto un nastro. Nient’altro che una registrazione. Non c’era nessuno là dentro con noi. Nessun carceriere. Tirai un lungo sospiro. Il mio cuore batteva ancora come un tamburo, ma mi sentivo già un po’ meglio, sapendo che non eravamo davvero intrappolati nelle segrete della Torre. 
- E’ tutto a posto - assicurai ad Akito. 
In quel momento la porta si aprì con uno schianto, e l’uomo che ci inseguiva irruppe nella stanza, col mantello nero svolazzante e una luce vittoriosa negli occhi scuri.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


Akito e io restammo come paralizzati. Anche l’uomo si bloccò. L’unico suono nella stanza era il suo respiro rauco e affannato. Ci fissammo a vicenda nella luce fioca, immobili come i fantocci nelle celle.
 - Non potete scappare - disse di nuovo con voce aspra, piantandosi le mani guantate sui fianchi. - Lo sapete che non lascerete il castello. 
Le sue parole mi fecero correre un brivido gelido lungo la schiena. 
- Ci lasci andare! -  lo supplicò Akito con un filo di voce. 
- Che cosa vuole da noi? - chiesi. - Perché ci sta dando la caccia? 
- Conoscete già la risposta - replicò seccamente l’uomo.
Fece un passo verso di noi.
- Allora… siete pronti a venire con me, adesso? 
Non gli risposi. Invece, mi accostai di più ad Akito e bisbigliai:  - Tieniti pronto. 
Akito continuò a guardare dritto davanti a sé, senza far cenno di avere inteso. Non ero neanche sicura che mi avesse sentito. 
- Lo sapete che non avete scelta - disse l’uomo a voce bassa.
Infilò le mani tra le pieghe del suo mantello, e tirò fuori di nuovo i misteriosi sassi bianchi. Ancora una volta, scorsi per un istante i suoi occhi scuri, vidi il ghigno malvagio sulle sue labbra. 
- Lei… lei deve aver fatto un errore! - balbettò Akito. 
L’uomo scosse la testa. L’ombra dell’ampia tesa del suo cappello danzò sul pavimento.
- Nessun errore. Non tentate di nuovo di scapparmi. Lo sapete che dovete venire con me. 
Akito e io non avemmo bisogno di scambiarci alcun segnale.
Senza dirci una parola, senza nemmeno un’occhiata, scattammo tutt’e due nello stesso istante. L’uomo gridò e ci corse appresso. La stanza sembrava infinita. Doveva occupare l’intero sotterraneo del castello. Oltre il raggio di luce, la penombra si perdeva in fitte tenebre. La paura era come una pesante zavorra. Mi sentivo le gambe di piombo.  “Sto correndo al rallentatore” pensai, sforzandomi di accelerare il passo. “Sembriamo due tartarughe. Ci prenderà. Ci prenderà in due secondi.” 
Poi sentii l’uomo lanciare un urlo. Gettai un’occhiata indietro. Aveva inciampato nello stesso fantoccio che aveva fatto cadere anche me. Questo ci avrebbe fatto guadagnare un po’ di vantaggio.
Mentre l’uomo si rialzava, i miei occhi ispezionarono rapidamente i muro in fondo alla stanza, cercando una porta, una scala o qualunque altra apertura. 
- Come facciamo a uscire da qui? - gemette Akito. - Siamo in trappola, Sana! 
- No! - gridai. 
Scorsi un tavolo da lavoro contro il muro. Era ingombro di arnesi. Cercai qualcosa da usare come arma, ma non vidi niente che facesse al caso nostro. Invece, trovai una torcia elettrica. La afferrai e armeggiai freneticamente per accenderla. Chissà se funzionava?  Sì. Un fascio di luce bianca saettò sul pavimento. Puntai la torcia verso la parete in fondo. 
- Akito… guarda là! - esclamai in un soffio.
C’era una bassa apertura nella parete. Forse una galleria o un canale di qualche genere che portava all’esterno? Un passaggio attraverso il quale scappare?   Un attimo dopo ci stavamo infilando a testa bassa nell’antro buio. Puntai la torcia in avanti, rivolta verso il basso. Dovevamo correre con la schiena curva: la volta della galleria non era abbastanza alta per stare eretti.   Il primo tratto della galleria era diritto; poi faceva una svolta a destra, scendendo in lieve pendenza. L’aria era fredda e umida. Potevo sentire un gocciolio d’acqua nelle vicinanze. 
- Dev’essere una vecchia fognatura - dissi ad Akito. - Questo significa che dovrebbe portarci all’aperto, da qualche parte. 
- Speriamo - commentò Akito, senza fiato. 
Correndo più che potevamo, seguimmo la curvatura del cunicolo. La torcia sobbalzava nella mia mano, illuminando un momento il soffitto, un momento il pavimento umido. La luce rivelò larghe sbarre metalliche attaccate al soffitto della galleria, come pioli di una scala. Akito e io dovemmo tenerci ancora più bassi per non sbatterci la testa contro. I nostri piedi sciaguattavano in pozzanghere di acqua sporca.  Akito ed io sussultammo sentendo il suono di passi dietro di noi. Passi pesanti, echeggianti nella bassa galleria. Sempre più forti. Sempre più vicini. Lanciai un’occhiata indietro, ma l’uomo col mantello era nascosto dalla curva del cunicolo. I suoi passi rimbombavano a un ritmo rapido e costante. Non doveva essere lontano.  “E’ qui. Adesso ci prende” mi dissi, presa dal panico.
Quella galleria sembrava non finire mai.
Akito e io non ce l’avremmo fatta a correre ancora a lungo. Ci avrebbe catturati in quel cunicolo freddo e buio. E poi? Cosa ci avrebbe fatto? Che cosa voleva da noi? Perché aveva detto che lo sapevamo? Come potevamo saperlo?  Incespicai, e per poco non caddi lunga distesa in avanti. Riuscii a riprendere l’equilibrio, ma la torcia urtò contro la parete e mi saltò via di mano, rotolando sul pavimento melmoso davanti a me. Si fermò puntata all’indietro. Il fascio di luce illuminava la galleria alle nostre spalle. E alla luce della torcia vidi l’uomo col mantello correre a testa bassa verso di noi. Un lamento inorridito mi sfuggì dalle labbra. Mi chinai a raccogliere la torcia, ma mi sfuggì dalla mano tremante.  Era giusto il tempo di cui l’uomo aveva bisogno. Agguantò Akito con tutt’e due le mani e lo avvolse nel suo mantello nero, intrappolandolo.
Poi allungò le braccia per catturare anche me. 
- Ve l’avevo detto - ringhiò fra i denti. - Non potevate scappare.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


Schivai la presa dell’uomo e afferrai saldamente la torcia. Avevo intenzione di usarla come arma, in qualche modo. Magari colpendolo alla testa, o puntandogliela negli occhi per abbagliarlo. Ma non ne ebbi il tempo. Rimasi paralizzata dall’orrore quando il fascio di luce guizzò lungo il tunnel… e vidi i ratti. Centinaia di grossi topi di fogna grigi.  Alla luce fluttuante della torcia i loro occhi brillavano rossi come il fuoco. Avanzavano lungo il pavimento della galleria, sbattendo le loro mascelle fameliche, digrignando i denti acuminati, venendo verso di noi. I loro squittii striduli echeggiarono nella vecchia fognatura. Un suono raccapricciante, da far gelare il sangue. I loro corpi scarni e spelacchiati strusciavano contro il pavimento, le loro code striminzite si muovevano come serpenti.  Li vide anche l’uomo col mantello, e fece un balzo indietro. Akito ne approfittò per sgusciare via di sotto il mantello, e restò impietrito alla vista della marea di ratti. 
- Salta, Akito! - gridai. - Salta! 
Akito non si mosse. Fissava a bocca aperta l’orda di famelici topi di fogna che ci stava per assalire, come ipnotizzato. 
- Salta! Salta! - strillai. - Presto!
Lasciai cadere a terra la torcia, alzai le mani e spiccai un balzo, afferrando una delle sbarre di metallo infisse nel soffitto della galleria, e tirai su le ginocchia, sollevandomi il più possibile da terra. Akito mi imitò appena in tempo. Sotto di noi passò una fiumana di topi, dalla quale si levava un puzzo così fetido che mi sentii soffocare. Non potevo vedere i ratti nell’oscurità, ma li sentivo. Potevo sentire le loro strida, le loro unghie ticchettare sulla pietra, le loro code fendere l’aria. E soprattutto, li sentivo saltare contro le mie scarpe, graffiarmi le caviglie con i loro artigli taglienti, cercando di arrampicarmisi sulle gambe. E continuavano ad arrivarne altri.  Girando la testa, vidi l’uomo col mantello battere precipitosamente in ritirata. Correva a grandi balzi, con le braccia tese in avanti, come per afferrare la salvezza, e il mantello svolazzante dietro le spalle. Il suo largo cappello nero gli volò via dalla testa e cadde a terra. Una dozzina di ratti gli si avventò sopra, facendolo a brandelli.  L’uomo correva sempre più forte, incalzato dai ratti. Quelli più vicini gli si aggrappavano al mantello con le unghie, sbattendo i denti e squittendo eccitati. In un attimo scomparve oltre la curva della galleria, con la torma dei topi alle calcagna. L’eco dei passi dell’uomo e il tumulto dei ratti si fusero in un rombo cupo che risuonò in tutta la lunga fognatura come il ruggito di una mostruosa creatura.  Avevo i crampi alle braccia a forza di tenermi aggrappata, ma non lasciai andare il piolo di metallo finché non fui del tutto certa che non ci fossero più ratti. Il rombo si spense in lontananza. Sentii il respiro affannoso di Akito. Lasciò andare la sbarra e saltò a terra. Mi lasciai cadere giù anch’io, poi aspettai che il mio cuore smettesse di martellare e il sangue di pulsarmi nelle tempie. 
- Uff! - sbuffò Akito. - C’è mancato poco! 
Il mento gli tremava. La sua faccia era grigia come le pareti della galleria. Rabbrividii. Sapevo già che avrei rivisto mille volte nei miei sogni la miriade di minuscoli occhi rossi, sentito il ticchettio degli artigli e il sibilo delle code spelacchiate. 
- Andiamocene da questa fogna schifosa! - esclamai. -  Mr Rei Sagami ci starà cercando dappertutto. 
Akito raccolse la torcia e me la porse.
- Non vedo l’ora di saltare sul nostro autobus e andare via da questa orribile torre - brontolò. - Mi sembra impossibile che siamo stati inseguiti da un pazzo attraverso una fogna. Non riesco a crederci! 
- Eppure è successo - replicai, scuotendo la testa. 
A un tratto mi venne in mente un altro motivo per cui dovevamo sbrigarci a tornare in albergo. 
- A quest’ora il meeting sarà finito da un pezzo - dissi. - La mamma e il papà saranno in pensiero per noi. 
- Mai quanto lo sono io - commentò Akito.
Puntai la torcia verso terra davanti a noi e ci mettemmo in marcia. La galleria curvava a sinistra, in salita. 
- Finirà pure, questa galleria - borbottai. - Da qualche parte dovrà pur sbucare.
Un rumore più avanti mi fece rizzare i capelli. Ancora topi? Akito e io ci fermammo ad ascoltare. 
- Ehi…! - esclamai, eccitata. - Ma questo… questo è vento! 
Ne ero sicura. Quello che sentivamo era il sibilo del vento fra le pareti di pietra. Questo significava che la galleria era quasi finita. E che la fognatura sbucava all’esterno! 
- Andiamo! - gridai, speranzosa. 
Ci mettemmo a correre, col fascio di luce sobbalzante davanti a noi. Il tunnel fece un’altra svolta. Poi, all’improvviso, ci trovammo davanti un muro. Vidi una scaletta di metallo che saliva in verticale fino a un’apertura rotonda nel soffitto della galleria. Attraverso il buco vidi il cielo notturno. Akito e io lanciammo un urlo di gioia. Mio fratello si arrampicò su per la scala, e io lo seguii. Era una notte fredda e umida, ma non importava: l’aria era così fresca e pulita… sapeva così di buono! Finalmente eravamo all’aperto. Fuori dalla fogna. Fuori dalla Torre del Terrore. E in salvo da quello spaventoso uomo col mantello nero.  Girai rapidamente attorno lo sguardo, cercando di capire dove fossimo. La sagoma nera della Torre del Terrore si stagliava contro il cielo blu cupo. Tutte le luci erano spente. La piccola guardiola era buia e vuota. Non c’era anima viva in vista. Vidi il basso muro che separava la Torre dal resto del mondo. Poi individuai il sentiero che portava all’uscita e al parcheggio.  Lo scalpiccio dei nostri piedi sulle levigate lastre di pietra ruppe il silenzio della notte mentre correvamo verso il parcheggio. Una pallida mezza luna spuntò da dietro brandelli di nuvole, gettando un’incerta luce argentea sugli alberi fruscianti al vento e sul lungo muro di pietra.  Senza fermarmi, lanciai un’occhiata indietro verso il vecchio castello. Le torri svettanti rilucevano misteriosamente, come se qualcuno avesse puntato su di esse un debole riflettore. Sembrava tutto così irreale… Eppure, secoli prima persone reali camminavano su quel sentiero, pensai. E persone reali erano morte in quella torre.  Con un brivido, girai la testa e continuai a correre, finchè Akito e io fummo oltre il cancello aperto, lasciandoci dietro le spalle il castello. Adesso eravamo tornati ai tempi moderni, pensai. Adesso potevamo davvero dirci in salvo. Ma la nostra felicità durò poco. Il parcheggio era deserto. Il pullman se n’era andato. Akito e io ci girammo a guardare da una parte e dall’altra della strada. Niente in nessuna direzione. 
- Ci hanno piantati qui - mormorò Akito, avvilito. - Come faremo a tornare all’albergo? 
Feci per rispondere, ma mi bloccai quando vidi la figura avvicinarsi. Un uomo alto, col capelli bianchi veniva verso di noi a passi zoppicanti e tuttavia rapidi, facendoci cenni e chiamando:  - Ehi, voi! Ehi, voi! 
- Oh, no! - esalai con un filo di voce, sentendomi gelare per la paura.  E adesso, che altro sarebbe successo?

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


- Ehi, voi due! - chiamò ancora l’uomo, caracollando verso di noi.
Era sprofondato in un enorme soprabito grigio lungo fin quasi alle caviglie che gli cascava addosso come un sacco vuoto: doveva essere molto magro. Una matassa di capelli bianchi spuntava da sotto un berrettino, anch’esso grigio.  Akito e io ci stringemmo l’uno all’altra guardandolo arrancare attraverso il parcheggio vuoto. Si fermò davanti a noi e aspettò di aver ripreso fiato. I suoi occhietti minuscoli brillarono alla luce della luna mentre squadrava prima Akito, poi me. 
- Siete i due ragazzi che stava cercando l’autista di quel pullman? - domandò con voce stridula.
Aveva un accento diverso da quello di Mr Starkes. Penso che fosse scozzese. 
Akito e io annuimmo. 
- Be’, io sono il guardiano notturno - ci informò l’uomo. - Qui resto soltanto io, dopo la chiusura. 
- Ma… dov’è il nostro pullman? - domandò Akito, spaesato. 
- E’ partito - rispose l’uomo, come se fosse ovvio. - Vi hanno cercati dappertutto, ma poi non hanno potuto più aspettarvi. Che cosa è successo? - Vi siete persi là dentro? - chiese, indicando la Torre. 
- Un uomo ci è corso dietro - replicò Akito, concitato. - Diceva che dovevamo andare con lui. Hai cercato di catturarci, ma siamo scappati… 
- Che uomo? - lo interruppe il guardiano notturno, sbirciandoci sospettosamente. 
- L’uomo col mantello nero e il cappello - spiegai. - CI ha bloccati sulle scale… 
- Non c’è nessuno nella Torre - ribatté il guardiano, scuotendo la testa. - Ve l’ho detto: qui ci sono solo io, dopo la chiusura. 
- C’era, le dico! - esclamai con foga. - E voleva farci del male! Ci ha inseguiti fin nella fognatura, e poi i ratti…  - Nella fognatura? Si può sapere che ci facevate voi due, laggiù? - strepitò l’uomo. - Ci sono regole precise su dove i turisti sono ammessi. Se i visitatori non rispettano il regolamento, noi non ci assumiamo nessuna responsabilità di quello che può accadere! - Poi si calmò e fece un lungo sospiro. - E adesso, venite fuori con questa ridicola storiella su un uomo col mantello nero - aggiunse, scrollando la testa con aria di disapprovazione. - Roba da matti. Davvero roba da matti. 
Akito e io ci scambiammo un’occhiata. Inutile insistere. Era chiaro che non saremmo riusciti a convincerlo che era la verità. 
- Come facciamo a tornare al nostro albergo? - domandò Akito. - I nostri genitori saranno preoccupati.  Diedi un’occhiata alla strada. Non c’erano automobili né autobus in vista.
- Qui all’angolo c’è una cabina telefonica - disse il guardiano, sistemandosi il berretto in testa. - Potrei chiamarvi un taxi. Avete denaro con voi? 
Infilai una mano nella tasca dei jeans e tirai un sospiro di sollievo sentendo le pesanti monete che il papà mi aveva dato prima che io e Akito lasciassimo l’albergo per la nostra gita turistica. Per fortuna non le avevo perse. 
- Sì, ne abbiamo - risposi.  - Vi costerà almeno quindici o venti sterline, da qui - avvertì l’uomo. 
- Non c’è problema - assicurai. - Se i soldi non dovessero bastare, una volta all’albergo penseranno i nostri genitori a pagare la corsa. 
L’uomo annuì, poi osservò Akito. 
- Mi sembri piuttosto sottosopra, ragazzo - commentò. - Hai avuto paura, su nella torre?  Mio fratello deglutì a fatica.
- Voglio tornare all’albergo - mormorò.  Il guardiano annuì ancora. Poi, affondando le mani nelle tasche del suo enorme soprabito, ci accompagnò alla cabina telefonica.
 
 
Il taxi nero arrivò una decina di minuti più tardi. Il tassista era un giovane uomo con lunghi capelli biondi e ondulati. 
- Dove dovete andare? - chiese, sporgendosi verso il finestrino del passeggero. 
- Al Barclay Hotel - risposi. 
Akito e io salimmo sul sedile posteriore. Il taxi era caldo e confortevole. Che piacere poter stare finalmente seduti!  Mentre ci allontanavamo dalla Torre del Terrore non mi girai a guardarla nemmeno un istante. Non volevo più rivedere quel vecchio castello in vita mia.  L’automobile filava per le strade buie. Il tassametro ticchettava gradevolmente. Il tassista canticchiava a mezza voce. Chiusi gli occhi e appoggiai la testa contro il sedile di pelle, cercando di rilassarmi. Ma per quanto mi sforzassi di non pensare all’uomo spaventoso che ci aveva inseguiti nella Torre, non riuscivo a scacciarlo dalla mia mente.  Presto fummo di nuovo in mezzo al traffico e alle luci di Londra. Passammo davanti a teatri e ristoranti affollati, poi il taxi si fermò dolcemente di fronte al Barclay Hotel. Il tassista aprì il vetro divisorio dietro il suo sedile e si girò verso di me. 
- Sono quindici sterline e sessanta pence. 
Akito doveva essersi assopito. Si guardò attorno un po’ trasognato, sbattendo le palpebre, sorpreso di vedere che eravamo giunti a destinazione.  Tirai fuori di tasca le grosse, pesanti monete e le porsi al tassista. 
- Non so esattamente quanto valgano queste - confessai. - Può prendere lei la somma giusta? 
L’uomo guardò le monete nella mia mano, poi alzò gli occhi alla mia faccia. 
- Che roba è? - domandò freddamente. 
- Monete - risposi, non sapendo che altro dire. - Non sono abbastanza? 
Il tassista mi guardò con durezza.
- Avete del denaro vero, o intendete pagarmi con soldi giocattolo? 
- Io… non capisco - balbettai.
La mia mano cominciò a tremare, e quasi lasciai cadere le monete. 
- Nemmeno io - ribatté seccamente il tassista. - Ma so con certezza che questi non sono soldi veri. Qui usiamo sterline inglesi, signorina. 
Lo fissai attonita attraverso la finestrella nel divisorio. Sembrava davvero arrabbiato. 
- Allora, volete decidervi a pagarmi in sterline inglesi, o devo passare qui tutta la notte? - disse, spazientito. - Io voglio il mio denaro, e subito!

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


Ritrassi la mano e me la avvicinai alla faccia. Non ci si vedeva granché, la dietro. Le monete erano grosse e tonde. A giudicare dal peso dovevano essere d’oro o d’argento. Era troppo buio per leggere quel che c’era scritto sopra. 
- Perché i miei genitori mi avrebbero dato soldi finti? - chiesi al tassista. 
L’uomo si strinse nelle spalle.
- Che cosa vuoi che ne sappia? Io non conosco i tuoi genitori. 
- Be’, le daranno loro le sue quindici sterline - gli assicurai, ricacciandomi le monete in tasca. 
- Quindici sterline e sessanta - precisò il tassista, guardandomi in cagnesco. - Più la mancia. Dove sono i vostri genitori? In albergo? 
- Sì - confermai. - Avevano una conferenza, ma adesso saranno in camera. Andiamo su a dirgli che scendano a pagarla. 
- In soldi veri, se non vi dispiace - bofonchiò il tassista. - Se non sono qui entro cinque minuti verrò a cercarvi. 
- Arriveranno subito - gli promisi.
Aprii lo sportello e sgusciai fuori dal taxi.
Akito mi seguì, scuotendo la testa. 
- E’ pazzesco - borbottò. - Oggi proprio non ce ne va bene una. 
Un portiere in livrea rossa ci aprì la porta dell’albergo, e io e mio fratello entrammo in fretta nell’immenso atrio illuminato da grossi lampadari di cristallo, dirigendoci agli ascensori. C’era movimento nell’atrio, e notai che quasi tutte le altre persone andavano nella direzione opposta alla nostra. Probabilmente stavano andando a cena, pensai. Il mio stomaco si mise a brontolare, e solo allora mi accorsi di avere una fame da lupi. Akito e io passammo davanti al bancone della reception. Camminavamo così in fretta che quasi ci scontrammo con un fattorino che spingeva un carrello carico di valigie. A destra, potevo sentire il rumore di stoviglie nel ristorante dell’albergo. Un profumino di pane fresco mi solleticò le narici. Le porte dell’ascensore si aprirono silenziosamente, lasciando uscire una donna impellicciata coi capelli rossi. Dietro di lei trotterellava un minuscolo cagnolino bianco che sembrava di peluche. Akito rimase impigliato con un piede al guinzaglio, e dovetti liberarlo in fretta e furia per non farci scappare l’ascensore.  Entrammo nella cabina appena in tempo. Mentre le porte si chiudevano, premetti il pulsante del sesto piano. 
- Che cosa aveva che non andava quel denaro? - mi domandò Akito. 
Mi strinsi nelle spalle.
- Non lo so. Il papà si sarà sbagliato… 
Le porte scorrevoli si aprirono al sesto piano. Uscimmo dall’ascensore e ci avviammo a passo svelto per il lungo corridoio rivestito di moquette. Schivai un vassoio del servizio in camera lasciato sul pavimento. Qualcuno aveva avanzato un mezzo sandwich e qualche frutto. Il mio stomaco brontolò di nuovo, facendomi presente che era vuoto. 
- Eccoci arrivati - sospirò Akito.
Corse alla porta della camera 626 e bussò.
- Ehi, mamma! Papà! Siamo noi!  - Aprite! - chiamai, impaziente. 
Akito bussò ancora, un po’ più forte.
- Ehi…! 
Entrambi accostammo un orecchio alla porta e restammo un attimo in ascolto. Silenzio. Né rumore di passi, né voci. 
- Ehi… ci siete? - chiamò Akito, bussando di nuovo. - Aprite! Siamo noi! 
Si girò a guardarmi perplesso.
- Non possono essere ancora a quel meeting - borbottò. 
Mi portai le mani alla bocca a far da megafono e ritentai:  - Mamma! Papà! Ci siete? 
Nessuna risposta.
Akito incurvò le spalle e sospirò. Sembrava il ritratto dell’infelicità.
- E adesso che facciamo? - mormorò, avvilito. 
- Avete qualche problema? - domandò una voce di donna. 
Mi volsi e vidi una cameriera avvicinarsi spingendo un carrello carico di asciugamani. Indossava una divisa grigia, e portava una cuffietta bianca sui corti capelli scuri. Si fermò accanto a me e Akito. 
- I nostri genitori non sono ancora tornati da una conferenza, e io e mio fratello siamo chiusi fuori - le spiegai.
La donna ci osservò per un momento, poi lasciò il suo carrello e prese un grosso mazzo di chiavi attaccato a una catenella. 
- Non dovrei farlo - disse, cercando la chiave giusta - ma suppongo che non ci sia niente di male a farvi entrare. 
Infilò una chiave nella serratura, la girò e aprì la porta. Akito e io la ringraziammo calorosamente, dicendole che ci aveva salvato la vita. Lei sorrise e proseguì lungo il corridoio, spingendo il suo carrello. Dentro era buio. Entrai e accesi la luce. 
- Non ci sono proprio - dovetti arrendermi all’evidenza. 
- Probabilmente ci hanno lasciato un messaggio - disse Akito. - Forse sono dovuti uscire con qualcuno del meeting. O forse ci stanno aspettando giù al ristorante.  La nostra camera era in realtà una suite composta di un soggiorno e due stanze da letto. Andai di là, accendendo le luci al mio passaggio. Prima guardai nella camera mia e di Akito. Sulla scrivania nell’angolo c’erano un blocchetto per appunti e una penna, ma il primo foglio era bianco. Nessun messaggio della mamma e del papà nemmeno sul comodino tra i due letti.  - Strano - borbottò Akito. 
Uscii dalla nostra camera ed entrai in quella dei nostri genitori. Accesi la luce e girai lo sguardo attorno. La camera era stata riordinata. Il letto era fatto di fresco, senza una grinza. Non c’era alcun messaggio per noi da nessuna parte. Sul tavolino da toilette non c’era niente. Nessun indumento gettato su una sedia. Niente scarpe sul pavimento. Nessuna valigetta, né cartellette portadocumenti. Nessun segno che qualcuno fosse mai stato in quella stanza.   Mi girai e vidi Akito avvicinarsi all’armadio e aprire l’anta scorrevole. 
- Sana… guarda! - gridò. - Non ci sono più i vestiti! 
Era vero. Gli abiti erano spariti. Tutti, sia i nostri che quelli della mamma e del papà. L’angoscia mi attanagliò lo stomaco e mi intorpidì tutto il corpo. 
- Ma che diavolo sta succedendo qui? - gridai con voce strozzata

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


- Non possono essersene andati! - esclamai.
Mi avvicinai all’armadio per controllare di persona. Non so che cosa mi aspettassi di vedere. Anche da dove stavo era evidente che l’armadio era completamente vuoto. 
- Siamo sicuri che questa sia la camera giusta? - chiese mio fratello.
Aprì un cassetto. Vuoto. 
- Certo che è la camera giusta - replicai, spazientita. 
Akito aprì tutti i cassetti uno per uno. Erano tutti vuoti. Ispezionammo tutta la stanza. Nessuna traccia della mamma e del papà. 
- Meglio andare giù alla reception - decisi, dopo un attimo di riflessione. - Ci faremo indicare la sala della conferenza e andremo a cercarli lì. 
- Mi sembra impossibile che siano ancora al meeting - mormorò Akito, dubbioso, scuotendo la testa.
- E poi, perché mai avrebbero fatto le valigie e se le sarebbero portate appresso? 
- Sono sicura che c’è una buona spiegazione - dissi. - Vieni, andiamo di sotto. 
Ripercorremmo il lungo corridoio e riprendemmo l’ascensore. Tornati nell’atrio, trovammo una piccola folla intorno al bancone della reception. Una donna grassa in giacca e pantaloni verdi stava protestando animatamente a proposito della sua camera. 
- Mi è stata promessa una camera con vista sul fiume - sbraitò in faccia all’impiegato paonazzo dietro al bancone - e pretendo una camera con vista sul fiume! 
- Ma, signora - replicò timidamente il poveretto - il nostro albergo non è situato sul fiume. Non abbiamo nessuna camera con vista sul fiume. 
- Io voglio la vista sul fiume! - insisté la donna, sventolandogli irosamente davanti un foglio. - E’ scritto qui, nero su bianco! 
La discussione andò avanti per qualche minuto. Io la seguii distrattamente: ero troppo occupata a pensare alla mamma e al papà. Che fine avevano fatto? Perché non ci avevano lasciato almeno un messaggio?  Una decina di minuti dopo Akito e io riuscimmo finalmente a guadagnare il bancone. L’impiegato ripose alcune carte in una cartelletta, poi si rivolse a noi con un sorriso automatico: 
- In cosa posso esservi utile? 
- Stiamo cercando di rintracciare i nostri genitori - dissi, appoggiando i gomiti al bancone. - Dovrebbero essere al meeting. Sa dirmi dove si svolge? 
L’uomo mi fissò per un lungo momento con sguardo vacuo, come se non capisse. 
- Quale meeting? - domandò alla fine. 
Mi concentrai, ma non riuscii a ricordare di che cosa si trattasse. 
- E’ un grande meeting… - risposi, incerta. - Quello per cui è arrivata gente da tutto il mondo… 
- Hmmm… - fece l’uomo, imbronciando la bocca, pensieroso. 
- Un meeting molto importante - mi fece eco Akito. 
L’impiegato aggrottò la fronte e si grattò un orecchio. - C’è un piccolo problema - obiettò. - Qui in albergo non si tiene nessun meeting, questa settimana.
Lo guardai attonita, con la bocca spalancata. Feci per dire qualcosa, ma non riuscii a spiccicare parola. 
- Nessun meeting? - chiese debolmente Akito. 
- Nessun meeting - confermò l’uomo, scuotendo la testa.
Una giovane donna lo chiamò dall’ufficio. L’impiegato ci fece segno di attenderlo un momento e andò a vedere che cosa volesse. 
- Ma siamo nell’albergo giusto? - bisbigliò Akito.
Aveva un colorito terreo, e i lineamenti tirati. 
- La pianti di fare domande idiote? - scattai. - Perché continui a chiedere “siamo nella camera giusta, siamo nell’albergo giusto”? Mi credi proprio così deficiente? 
- Il fatto è che qui non quadra niente - borbottò mio fratello. 
Feci per replicare, ma in quel momento l’impiegato tornò al bancone. 
- Dunque… qual è il numero della vostra camera? - domandò, grattandosi di nuovo un orecchio. 
- Seicentoventisei - risposi. 
Le sue dita si mossero rapide sulla tastiera del computer. Guardò lo schermo verde, strizzando un po’ gli occhi. 
- Spiacente - disse - ma la stanza risulta libera. 
- Cosa? - gridai. 
L’impiegato mi guardò dritto negli occhi.
- La stanza 626 attualmente non è occupata da nessuno - ripeté. 
- Ma ci siamo noi! - gridò mio fratello. 
L’uomo atteggiò le labbra a un sorriso e alzò le mani come per dire “cerchiamo di non perdere la calma”. 
- Non preoccupatevi, troveremo i vostri genitori - ci assicurò, tenendosi incollato in faccia il suo sorriso forzato.
Digitò ancora qualcosa sulla tastiera del computer.
- Per prima cosa, qual è il vostro cognome? 
Aprii la bocca, ma il mio cervello non fornì nessuna risposta. Guardai Akito, in cerca di aiuto, ma sembrava in difficoltà quanto me. Aveva la fronte corrugata per la concentrazione, ma fece anche lui scena muta. 
- Come vi chiamate, ragazzi? - domandò ancora l’impiegato. - Se i vostri genitori sono nell’albergo, sono certo di poterli rintracciare. Ma ho bisogno di conoscere il vostro cognome. 
Lo fissai inebetita. Uno strano formicolio partì dalla mia nuca e si estese a tutto il corpo. All’improvviso mi mancava il respiro. Mi sentivo come se il mio cuore avesse cessato di battere. Il mio cognome. Il mio cognome… Perché non riuscivo a ricordarlo?  Cominciai a tremare, e sentii le lacrime salirmi agli occhi. Ero veramente sconvolta. “Il mio nome è Sana” dissi a me stessa. “Sana… Sana…”  Sana cosa? Tremante, con le lacrime che mi rotolavano lungo le guance, afferrai Akito per le spalle. 
- Akito… qual è il nostro cognome? 
- Io… non lo so! - singhiozzò. 
- Oh, Akito! - gemetti, abbracciandolo forte. - Cosa ci sta succedendo?

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


- Dobbiamo stare calmi - dissi a mio fratello, cercando di dominare il panico. - Se facciamo un bel respiro e ci rilassiamo, sono sicura che la memoria smetterà di farci brutti scherzi.
Akito annuì poco convinto, con lo sguardo fisso davanti a sé e i denti stretti nello sforzo di non piangere.  Stavamo entrando nel ristorante dell’albergo. L’impiegato della reception ci aveva suggerito di andare a mangiare qualcosa. Nel frattempo, lui avrebbe cercato di rintracciare i nostri genitori. Akito e io avevamo accettato di buon grado la proposta: stavamo entrambi morendo di fame, tra le altre cose. Andammo a sederci a un tavolino in fondo alla sala. Girai lo sguardo per il grande, elegante locale. Scintillanti lampadari di cristallo riversavano una luce calda sulla raffinata clientela, facendo brillare i gioielli delle signore. Su una balconata sovrastante il salone, un quartetto d’archi suonava musica classica. Akito tamburellò nervosamente le dita sulla tovaglia candida. Io continuavo a prendere in mano le pesanti posate d’argento, girandole e rigirandole. Le persone sedute agli altri tavoli sembravano tutte liete e spensierate. Al tavolo accanto al nostro tre bambini, tutti in tiro, stavano cantando una canzone in francese ai loro sorridenti genitori.  Akito si protese verso di me attraverso il tavolo. 
- Come faremo a pagare? - bisbigliò. - I soldi che abbiamo non servono a niente. 
- Possiamo far mettere la cena sul conto della nostra stanza - replicai. Poi, con un sospiro, aggiunsi: - Appena avremo appurato qual è. 
Akito annuì e torno ad allungarsi sulla sua sedia dall’alto schienale. Dopo un attimo un cameriere in smoking nero si avvicinò al nostro tavolo e ci sorrise affabilmente. 
- Benvenuti al Barca - ci disse. - Che cosa posso servirvi? 
- Possiamo vedere il menu, per favore? - domandai. 
- Non c’è il menu, per il momento - rispose, sempre sorridendo. - Stiamo ancora servendo il tè.  - Soltanto tè! - gemette Akito. - Niente da mangiare? 
Il cameriere rise sommessamente.
- Il nostro tè comprende tartine, biscotti, focaccine e pasticceria assortita - precisò. 
- Bene - dissi. - Tè per due, allora. 
Il cameriere ci rivolse un breve inchino e si allontanò. 
- Almeno metteremo qualcosa sotto i denti - mormorai. 
Akito non sembrò avermi sentito. Continuava a lanciare occhiate verso la porta del ristorante. Immagino che sperasse di veder entrare la mamma e il papà. 
- Perché non riusciamo né tu né io a ricordare il nostro cognome? - domandò con aria mesta. 
- Non lo so - confessai. - Sono molto confusa. 
Ogni volta che ci pensavo mi prendeva un senso di vertigine. Era soltanto la fame, mi dicevo. Una volta messo qualcosa nello stomaco la mia mente sarebbe tornata lucida, ne ero sicura.  Il cameriere ci portò un vassoio di piccoli sandwich tagliati a triangolini. Ne riconobbi alcuni con insalata di uova e tonno, ma non riuscii a identificare il resto comunque, Akito e io non ci preoccupammo di cosa ci fosse sulle tartine: le prendemmo d’assalto non appena il cameriere ebbe posato il vassoio sul tavolo.  Bevemmo due tazze di tè. Poi arrivò il vassoio successivo, con brioches e focaccine dolci. Le spalmammo di burro e marmellata di fragole e divorammo avidamente anche quelle. 
- Forse se descriviamo la mamma e il papà all’impiegato della reception potrà aiutarci a trovarli - bofonchiò Akito a bocca piena, arraffando l’ultima brioche prima che potessi prenderla io. 
- Giusto! Buona idea - dissi. Poi sussultai.
Di nuovo quel senso di vertigine.
- Akito - dissi con un filo di voce - non riesco a ricordare che aspetto hanno la mamma e il papà! 
Akito mi guardò smarrito, e la brioche gli cadde di mano.
- Nemmeno io - mormorò, abbassando la testa. - Questo è pazzesco, Sana! 
- Shhh! - lo zittii, chiudendo gli occhi. - Concentriamoci. Cancelliamo ogni altro pensiero, e cerchiamo di immaginarceli. 
- Io… non ci riesco! - balbettò Akito. Potevo sentire il panico nella sua voce acuta.
- Qualcosa non va, Sana. C’è qualcosa che non va in noi due! 
Deglutii a fatica e riaprii gli occhi. Non riuscivo a richiamare alla mente alcuna immagine dei nostri genitori. Mi concentrai su mia madre. Era bionda? Rossa? Bruna? Era alta? Bassa? Magra? Grassa? Non me lo ricordavo. 
- Dove viviamo? - chiese Akito, sempre più sgomento. - Abitiamo in una casa, un appartamento… o dove? Non me lo ricordo, Sana… Non mi ricordo più nemmeno quello! 
La sua voce si ruppe. Era sul punto di scoppiare a piangere. Il panico mi serrò la gola. Facevo fatica a respirare. Fissai Akito con gli occhi sbarrati, incapace di dire una parola. E cosa avrei potuto dire, del resto? La mia mente turbinava come un tornado. 
- Abbiamo perso la memoria - riuscii infine ad esalare. - O almeno, parte della nostra memoria. 
- Com’è possibile? - domandò Akito con voce tremante. - Come può essere successo, a tutti e due insieme?  Intrecciai le mani in grembo, stringendole forte. Erano fredde come ghiaccio. 
- Se non altro, non abbiamo dimenticato proprio tutto - dissi, cercando di non farmi prendere completamente dalla disperazione.
- Sappiamo ancora come ci chiamiamo. È già qualcosa… 
- CI ricordiamo i nostri nomi di battesimo - precisò Akito - ma non il cognome. E che cos’altro ricordiamo?  - Il numero della nostra stanza - risposi. - Seicentoventisei. 
- Ma alla reception non risulta che ci sia nessuno in quella stanza! - obiettò mio fratello. 
- E poi ricordiamo il motivo per cui ci troviamo a Londra - continuai. - Siamo qui perché la mamma e il papà dovevano partecipare a quell’importante conferenza internazionale… 
- Ma non c’è nessuna conferenza in questo albergo! - esclamò Akito, interrompendomi. - I nostri ricordi sono sbagliati, Sana. Ne abbiamo pochi, e sono pure sbagliati!  Insistei a pensare alle cose che ricordavamo. Avevo la sensazione che, se fossi riuscita a elencare quello che ricordavamo, non saremmo stati così sconvolti per quello che non ricordavamo. Era un’idea assurda, me ne rendevo conto. Ma non sapevo che altro fare. 
- Ricordo il giro turistico di oggi - cominciai a dire. - Ricordo tutti i posti che abbiamo visitato qui a Londra. Ricordo Mr Rei Sagami. Ricordo… 
- E che mi dici di ieri? - mi interruppe di nuovo Akito. - Che cosa abbiamo fatto ieri, Sana? 
Feci per rispondere, ma il respiro mi si mozzò in gola per lo spavento. Non ricordavo niente del giorno prima! E nemmeno del giorno prima ancora. Non ricordavo assolutamente niente degli ultimi giorni! 
- Oh, Akito! - mormorai, angosciata, mettendomi le mani sulle guance. - E’ veramente terribile… 
Akito non sembrò avermi sentito. I suoi occhi erano puntati verso l’ingresso del ristorante. Seguii il suo sguardo… e vidi l’uomo snello e biondo entrare nella sala. L’autista del taxi. Ci eravamo completamente scordati di lui

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici ***


Scattai in piedi. Il tovagliolo mi cadde dalle ginocchia e mi finì su una scarpa. Lo scalciai via e afferrai Akito per un braccio. 
- Vieni… andiamocene da qui. 
Akito mi guardò incerto, poi guardò di nuovo il tassista. L’uomo si era fermato appena oltre l’entrata. I suoi occhi perlustravano la sala, controllando ogni tavolo. 
- Presto - bisbigliai. - Non ci ha ancora visti. 
- Forse sarebbe meglio spiegargli tutto - disse Akito, esitante. 
- E cosa gli spieghiamo? - replicai. - Che non possiamo pagarlo perché abbiamo perso la memoria e non sappiamo più chi sono i nostri genitori? Io dubito molto che ci crederebbe… e tu? 
Akito aggrottò la fronte.
- Okay - assentì. - Come facciamo a svignarcela senza farci notare? 
L’uscita era bloccata dal tassista, ma avevo notato una porta di vetro in fondo al locale, proprio vicino al nostro tavolo. Sulla porta c’era una leggera tendina bianca, e una targhetta con la scritta: 
VIETATO ENTRARE. 
Non badai al divieto. Akito e io non avevamo scelta: dovevamo assolutamente uscire di lì, e in fretta!  Abbassai la maniglia e tirai. Akito e io sgusciammo di soppiatto dall’altra parte, poi richiudemmo la porta alle nostre spalle. 
- Non credo che ci abbia visti - bisbigliai.
- E’ andata bene… spero. 
Ci avviammo per un lungo corridoio oscuro. Immaginai che quella in cui ci trovavamo fosse un’area utilizzata dal personale dell’albergo. Sul pavimento non c’erano moquette o tappeti. Le pareti erano sporche, macchiate, nemmeno verniciate. Svoltato un angolo, feci cenno ad Akito di fermarsi e tesi le orecchie per sentire se giungesse rumore di passi. Volevo essere sicura che il tassista non ci avesse visti sgattaiolare via e ci fosse venuto dietro. Non sentii nulla, eccetto i tonfi del mio cuore. 
- Che giornata orribile! - sospirai.
Ma non sapevo che la giornata sarebbe diventata ancora più orribile.  L’uomo col mantello si materializzò all’improvviso davanti a noi. 
- Credevate davvero che non vi avrei seguiti? - ruggì. - Credevate davvero di potermi sfuggire?

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette ***


L’uomo col mantello uscì dalle tenebre e venne verso di noi a passo deciso. Mentre si avvicinava, vidi i suoi occhi scuri e freddi, la sua bocca distorta da una smorfia minacciosa. Tese la mano aperta ad Akito, col palmo rivolto in su.
- Ridammele - disse, perentorio.
Mio fratello sgranò gli occhi, cadendo dalle nuvole.
- Eh? Che cosa?
- Ridammele immediatamente! - urlò l’uomo. - Chi cerchi di prendere in giro?
L’espressione di Akito cambiò lentamente. Mi lanciò un’occhiata, poi guardò di nuovo l’uomo col mantello. - Se gliele rendo, ci lascerà andare?
Ero totalmente confusa. Che cosa aveva da ridare Akito? Di che stavano parlando? L’uomo col mantello fece una breve, rauca risata che suonò più o meno come un colpo di tosse.
- Osi mercanteggiare con me?
- Akito… ma di che cavolo sta parlando? - gridai.
Mio fratello non mi prestò attenzione. Continuò a fissare la faccia dell’uomo nella penombra.
- Gliele rendo, a patto che poi ci lasci andare - ribadì.
- Avanti, dammele - ringhiò l’uomo, protendendosi minaccioso verso di lui.
Akito sospirò e infilò una mano nella tasca dei pantaloni. Con mio grande stupore, lo vidi tirar fuori le tre pietre bianche e levigate. Mio fratello mano-lesta aveva colpito ancora.
- Akito… quando le hai prese? - domandai, allibita.
- Nella fogna - mi rispose. - Quando mi ha catturato.
- Ma perché? Akito si strinse nelle spalle.
- Non lo so. Sembrava fossero importanti per lui, così ho pensato…
- Sono importanti! - tuonò l’uomo col mantello, strappandogli le pietre di mano.
- Adesso ci lascerà andare? - domandò mio fratello.
- Sì. Adesso andremo tutti - replicò l’uomo, concentrandosi sulle tre pietre.
- Non è quello che ho detto io! - protestò Akito.
- Ci lascia andare o no?
L’uomo lo ignorò. Impilò le pietre una sopra l’altra sul palmo della mano, poi pronunciò delle strane parole in una lingua a me sconosciuta. Un istante dopo apparve una strana luminescenza. Le pareti cominciarono a torcersi e curvarsi, come se fossero fatte di gomma. Il pavimento prese a ondeggiare e sussultare. Una luce bianca, abbagliante e pulsante, inondò il corridoio. Sentii un dolore acuto, come se avessi ricevuto un duro colpo allo stomaco. Non potevo più respirare. Poi fui inghiottita dall’oscurità.

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto ***


Una tremula luce arancione ruppe l’oscurità. Aprii gli occhi, sbattei più volte le palpebre e feci un respiro profondo. L’uomo col mantello era sparito. 
- Akito… stai bene? - domandai con voce malferma. 
- Credo di sì… - farfugliò mio fratello. 
Sbirciai il lungo corridoio che si estendeva davanti a noi, sorpresa di vederlo illuminato da fiammelle guizzanti. Su entrambi i lati si susseguivano porte chiuse, e accanto a ogni porta c’era un sostegno di ferro con infilato un cero acceso. 
- Sana, come siamo finiti qui? - domandò sottovoce Akito. - Dov’è l’uomo col mantello? 
- Non lo so - risposi. - Sono confusa quanto te. 
Ci incamminammo nella tenue luce danzante delle candele. 
- Questa dev’essere la parte vecchia dell’albergo - tirai a indovinare. - Vorranno che abbia un’atmosfera antica. 
Passammo davanti a una porta dopo l’altra. Il lungo, stretto corridoio era silenzioso, eccetto per il suono dei nostri passi sul pavimento di legno. Le porte erano tutte chiuse, e da nessuna di esse trapelava una lama di luce. Oltre a noi non c’era nessuno in vista, niente che indicasse la presenza di anima viva. La luce baluginante delle candele, le porte buie, il misterioso silenzio… era tutto così inquietante! Brividi freddi mi correvano per tutto il corpo. Continuammo a camminare nel tenue chiarore rossastro. 
- Io… io credo che faremmo meglio a tornare di sopra - balbettò Akito mentre svoltavamo un angolo. - Forse la mamma e il papà sono rientrati e ci stanno aspettando in camera… 
- Può darsi - risposi, dubbiosa. 
Ci inoltrammo in un altro corridoio silenzioso, immerso nel bagliore sinistra delle candele. 
- Dovrà pur esserci un ascensore, da qualche parte - borbottai.
Ma passammo davanti soltanto a porte chiuse.  Girando un altro angolo, quasi ci scontrammo con un gruppo di persone. Mi sfuggì un piccolo grido per lo spavento e la sorpresa. Non mi aspettavo di trovare qualcun altro in quei lunghi corridoi deserti. E poi, era gente ben strana.  Osservai le sconcertanti figure passare oltre silenziose come ombre, senza prestare alcuna attenzione a me e Akito. Indossavano vesti lunghe fino ai piedi, e le loro facce erano celate nell’ombra di grandi cappucci. Non riuscivo a capire se fossero uomini o donne. 
- Scusate… potete dirci dov’è l’ascensore? - provò a domandare Akito, ma nessuno gli rispose, né  lo degnò di un’occhiata. 
- Signori… - insisté Akito, seguendoli. - Per favore, avete visto l’ascensore? 
Finalmente, uno degli strani individui si girò verso di lui. Gli altri proseguirono silenziosi per la loro strada in un lieve frusciare delle lunghe vesti. Mi avvicinai a mio fratello e alla figura ferma davanti a lui. Riuscii a scorgete la faccia sotto il cappuccio. Era un vecchio, con sopracciglia bianche e cespugliose. L’uomo sbirciò Akito, poi me. I suoi occhi erano scuri e umidi. La sua espressione era dolente. 
- Sento il male attorno a voi - bisbigliò con voce agghiacciante. 
- Cosa? - gridai.
- Mio fratello e io… 
- Non lasciate l’abbazia - ci avvertì il vecchio. - Sento il male attorno a voi. La vostra ora è vicina. Molto vicina.

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove ***


- Che abbazia? - chiesi. - E perché dice cose del genere? 
Il vecchio non rispose. La luce delle candele brillava nei suoi occhi umidi. Inchinò solennemente la testa sotto il pesante cappuccio, poi si volse e si avviò in silenzio dietro agli altri, con l’orlo della sua lunga veste che strusciava contro il pavimento. 
- Che cosa intendeva dire? - domandò Akito quando l’uomo incappucciato fu scomparso dietro un angolo. - Perché ha cercato di spaventarci? 
Scrollai la testa, perplessa.
- Doveva essere uno scherzo - supposi. - Probabilmente stavano andando a una festa in maschera, o qualcosa del genere. 
Mio fratello aggrottò la fronte, pensieroso. 
- Avevano un’aria così tetra, Sana… - obiettò. - Non mi sembravano dell’umore di chi sta andando a una festa. 
Sospirai. Akito non aveva torto. 
- Troviamo l’ascensore e saliamo a cercare la mamma e il papà - dissi. - Non mi piace questa vecchia parte dell’albergo. È troppo buia e strana per i miei gusti. 
- Ehi, guarda che sono io il pauroso - mi fece presente Akito, seguendomi lungo il corridoio. - Tu dovresti essere quella coraggiosa, se non sbaglio. 
Percorremmo lunghi, sinistri corridoi, sentendoci sempre più smarriti, senza trovare un ascensore, una rampa di scale o alcuna via d’uscita. 
- Dovremo andare avanti a camminare in eterno? - si lamentò Akito. - Deve pur esserci un modo per uscire di qui… o no?
- Torniamo indietro - suggerii. - Ormai il tassista se ne sarà andato. Torniamo da dove siamo venuti e usciamo dal ristorante. 
Akito si scostò i capelli dalla fronte, ravviandoli indietro.
- Buona idea - borbottò. 
Facemmo dietrofront e tornammo sui nostri passi. Non correvamo il rischio di perderci: bastava seguire i corridoi, svoltando a sinistra invece che a destra. Camminammo in fretta, senza parlare. Durante la lunga marcia, cercai di ricordare il nostro cognome. Cercai di ricordare la mamma e il papà. Cercai di raffigurarmi le loro facce. Avrei tanto voluto ricordarmi almeno qualcosa di loro.  Perdere la memoria è davvero terrificante. Molto più che essere inseguiti da qualcuno. È peggio, perché il problema è dentro di te, nella tua stessa mente. Non puoi sfuggirgli. Non puoi nasconderti. E non puoi risolverlo. Ci si sente così tremendamente impotenti…  La mia sola speranza era che la mamma e il papà ci stessero aspettando in camera. E che potessero spiegare a me e Akito che cosa fosse successo alla nostra memoria. 
- Oh, no! - esclamò Akito, riscuotendomi bruscamente dai miei pensieri.
Avevamo raggiunto la fine dell’ultimo corridoio. Il ristorante dell’albergo avrebbe dovuto essere dall’altra parte della porta di vetro con la tendina bianca. Solo che non c’era nessuna porta. Akito e io avevamo di fronte un muro.

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Capitolo 20
*** Capitolo venti ***


- No! -
Akito si mise a urlare, battendo furiosamente i pugni contro la parete.
- Fateci uscire! Fateci uscire di qui! 
Lo tirai indietro prendendolo per un braccio, prima che si facesse male. 
- Non è il corridoio giusto - gli dissi. - Dobbiamo aver girato dalla parte sbagliata, a un certo punto. 
- No! - insisté lui. - E’ il corridoio giusto! Ne sono sicuro! 
- E allora dov’è il ristorante? - ribattei. -  Non credo proprio che abbiano murato la porta mentre noi giravamo per i corridoi!  
Akito mi fissò col mento tremante, gli occhi scuri sbarrati per la paura.
- Non potremmo uscire dall’albergo e rientrare dall’ingresso principale? - domandò debolmente. 
- Potremmo - replicai, pensierosa. - Se solo trovassimo una porta di servizio. Ma finora…
Mi interruppi sentendo delle voci. Mi girai, e solo allora mi accorsi dello stretto corridoio sulla nostra destra. Le voci sembravano arrivare di lì. Voci e risate. 
- Il ristorante dev’essere laggiù - dissi ad Akito. - Visto? Dovevamo soltanto fare un’altra svolta. Saremo fuori di qui tra pochi secondi. 
La faccia di mio fratello si rischiarò leggermente. Le voci e le risate si facevano più forti via via che ci inoltravamo nello stretto corridoio. In fondo, una luce gialla brillava nel riquadro di una porta aperta. Arrivati alla porta, entrambi ci bloccammo con un sussulto di sorpresa. Quello non era lo stesso ristorante in cui avevamo preso il tè.  Afferrai Akito per un braccio e guardai scioccata l’enorme stanza che si apriva davanti a noi. Le fiamme sfolgoranti in due grandi camini erano la sola illuminazione. Persone in strani costumi sedevano su basse panche intorno a lunghi tavoli di legno. Un intero cervo, o un alce, girava su uno spiego, arrostendo su un fuoco al centro della stanza. I tavoli erano carichi di cibarie… carni, cavoli e patate, frutta e altri cibi che non riconobbi. Non vidi alcun piatto o vassoio. Il cibo era semplicemente sparpagliato sui lunghi tavoli. I commensali allungavano le mani e prendevano quel che volevano. Banchettavano chiassosamente, parlando a voce alta, ridendo e cantando, tracannando vino da coppe di metallo, sbattendole sul piano del tavolo e scambiandosi allegramente brindisi. 
- Stanno mangiando con le mani! - si scandalizzò Akito.
E infatti aveva ragione. Non c’erano posate sui tavoli.  Due galline schiamazzanti correvano di qua e di là sbattendo le ali, inseguite da un grosso cane marrone. Una donna addentava di gusto un grosso pezzo di carne, ignorando i due bambini che aveva in grembo. 
- E’ una festa in maschera - bisbigliai ad Akito. - Dev’essere qui che stavano andando quegli strani tipi incappucciati. 
Osservai incuriosita i costumi variopinti della chiassosa combriccola. Lunghe vesti, ampie casacche blu e verdi, gilet di pelle indossati sopra calzamaglie nere. Molti, uomini e donne, portavano sulle spalle pellicce di animali, nonostante il caldo sprigionato dai focolari accesi. In un angolo, un uomo sembrava avere indosso una intera pelle d’orso. Stava accanto a una gigantesca botte di legno, spillando un denso liquido bruno in coppe di metallo. Due bambini vestiti di stracci si rincorrevano intorno a uno dei lunghi tavoli. Un altro bambino, in calzamaglia verde, correva dietro a una delle galline. 
- Che razza di festa! -  mormorò Akito. - Ma chi è questa gente?  
Scrollai le spalle.
- Non ne ho idea. Non riesco a capire quello che dicono. E tu? 
Akito scosse la testa.
- Parlano con un accento strano. E poi, con tutta questa confusione… 
- Ma forse qualcuno qui può dirci come fare a uscire - suggerii. 
- Proviamo - annuì Akito.  Entrai per prima nella stanza.
Benchè avanzassi lentamente, timidamente, quasi inciampai in un cane da caccia addormentato sul pavimento. Akito mi seguì mentre mi avvicinavo a uno degli uomini impegnati a girare lo spiedo. Indossava soltanto un paio di brache di tela grezza che gli arrivavano al ginocchio. Aveva la fronte e il torso lucidi di sudore. 
- Mi scusi, signore - lo apostrofai.
L’uomo alzò lo sguardo e strabuzzò gli occhi per la sorpresa. 
- Mi scusi - ripetei - saprebbe indicarci la strada per uscire dall’albergo? 
L’uomo mi fissò a bocca aperta, senza parole, come se non avesse mai visto una ragazza di dodici anni in jeans e maglietta prima d’allora.  Due ragazzine, entrambe con un vestito grigiastro lungo fino a terra, si avvicinarono ad Akito e a me, fissandoci con la stessa espressione sconvolta dell’uomo. Avevano lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle e tutti aggrovigliati: sembrava che non li avessero mai spazzolati in vita loro! Ci indicarono e si misero a ridacchiare.  All’improvviso mi resi conto che la comitiva si era fatta silenziosa, come se qualcuno avesse tolto il volume. Il mio cuore cominciò a battere furiosamente. Il forte odore del cervo che arrostiva sul fuoco mi riempiva le narici. Mi sentivo mancare l’aria. Mi girai e vidi che tutti gli sguardi erano puntati su me e su mio fratello. Tutti ci stavano fissando a bocca aperta, sbigottiti. 
- Ecco… io… mi dispiace di aver interrotto la festa - balbettai con un tremante filo di voce. 
All’improvviso tutti si alzarono bruscamente in piedi, facendo cadere cibarie dal tavolo. Una delle lunghe panche di legno si rovesciò rumorosamente a terra. Altri bambini ci additarono ridacchiando. Perfino le galline sembrarono smettere di chiocciare e razzolare attorno. E poi, un enorme uomo dalla faccia rubizza, con una lunga veste bianca, alzò una mano e puntò l’indice verso di noi. 
- Sono loro! - tuonò. - Sono loro!

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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno ***


- Ma come… Ci conoscono?! - bisbigliò Akito, meravigliato. 
Restammo impalati a fissarli mentre quelli ci fissavano a loro volta. Tutti sembravano impietriti. L’uomo vicino a noi aveva smesso di girare il cervo allo spiedo. L’unico suono nel grande salone era il crepitio delle fiamme nei due focolari gemelli.   L’uomo con la lunga veste bianca abbassò lentamente la mano. La sua faccia, che era già paonazza, si scurì fino a diventare di un cupo rosso scarlatto mentre ci guardava incredulo. 
- Volevamo soltanto chiedere da che parte si esce - dissi.
La mia voce suonò flebile e stridula. Nessuno si mosse. Nessuno rispose.
Feci un profondo respiro e ritentai:  - Qualcuno può aiutarci? 
Silenzio.  “Chi sono queste persone?” mi domandai. “Che cos’hanno da guardarci a quel modo? Perché non ci rispondono?”  Ad un certo punto cominciarono tutti a muoversi verso di noi. Alcuni di essi bisbigliavano eccitati, parlottando fra loro e gesticolando animatamente. Akito e io facemmo un passo indietro. 
- Akito… meglio che ce la battiamo! - dissi in un soffio.
Non riuscivo a sentire che cosa stessero dicendo, ma non mi piaceva affatto l’espressione delle loro facce. E mi piaceva ancora meno il modo in cui si stavano spostando lungo la parete, come per portarsi alle nostre spalle… Avevano tutta l’aria di volerci accerchiare. 
- Akito… corri! - strillai. 
Grida irose si levarono quando Akito e io ci girammo di scatto e ci lanciammo verso la porta aperta. I cani abbaiarono. Dei bambini si misero a piangere. Ci fiondammo nel corridoio scuro, correndo a gambe levate. Potevo ancora sentire il calore del fuoco sulla faccia, l’aroma pungente del cervo nelle narici.  Le loro grida eccitate e rabbiose ci seguirono per tutto il lungo corridoio. Ansimando, gettai un’occhiata alle nostre spalle, aspettandomi di vedere che ci inseguivano. Ma il corridoio era vuoto. Girammo un angolo e continuammo a correre. Le fiamme delle candele guizzavano sinistramente ai nostri lati. Le assi di legno del pavimento scricchiolavano sotto le nostre scarpe. La luce fioca e traballante. Le voci lontane dietro di noi. L’interminabile tunnel del corridoio. Tutto l’insieme mi faceva sentire come se stessi correndo in un sogno.  Svoltammo un altro angolo e continuammo a correre. Vedevo la luce delle candele tutta sfocata. Mi sembrava di fluttuare in una nube arancione. Sarebbero mai finiti quei lunghi corridoi deserti?  Akito e io gridammo di gioia quando davanti a noi apparve una porta. Una porta che non avevamo mai visto prima.  “Deve dare sull’esterno!” mi dissi, speranzosa. 
Ci precipitammo verso di essa. Senza rallentare, mi avventai contro il pannello di legno con le mani tese in avanti. La porta si spalancò di schianto, e ci ritrovammo all’aperto. Fuori, finalmente! Eravamo riusciti a scappare dal labirinto buio dei corridoi dell’albergo. Mi ci volle qualche secondo per abituarmi all’improvvisa luce abbagliante. Sbattei più volte le palpebre e guardai su e giù per la strada. Poi, a un tratto, mi resi conto che qualcosa non quadrava. 
- Oh, no! - gridai, stringendo un braccio a mio fratello. - No! Akito… cos’è successo?

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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue ***


- E’… è giorno! - balbettò mio fratello.
Ma la vivida luce del sole non era la sola cosa scioccante. Tutto era cambiato.  Mi sembrava che stessi guardando un film, e la scena fosse cambiata. E all’improvviso era il giorno dopo, o la settimana dopo, e mi trovavo in un posto completamente diverso. Sapevo che erano passati appena pochi secondi da quando io e Akito ci eravamo scaraventati fuori dall’albergo. Ma in quel poco tempo, tutto era mutato.  Ci stringemmo l’una all’altro e guardammo prima in una direzione e poi nell’altra. Non si vedevano automobili, né autobus. La strada era svanita, rimpiazzata da un sentiero sterrato e dissestato. Anche gli alti edifici erano scomparsi. Al loro posto sorgevano piccole casupole bianche col tetto piatto e basse baracche di legno senza porte né finestre.  Accanto alla casa più vicina c’era un alto covone di paglia. Le galline razzolavano chiocciando in mezzo alla strada, o becchettavano nell’aia delle casupole. Una mucca sporse il muso da dietro il mucchio di paglia. 
- Cosa sta succedendo? - domandò Akito. - Dove siamo finiti? 
- E’ come se fossimo tornati indietro nel tempo - mormorai. - Akito… guarda la gente. 
Due uomini passarono portando file di sottili pesci argentei. Avevano folte barbe e lunghi capelli arruffati, e indossavano ampi grembiuloni grigi che arrivavano a sfiorare terra. Due donne in lunghi vestiti marroni erano in ginocchio, intente a strappare da terra delle radici commestibili con le mani nude. Un uomo che conduceva per le redini un cavallo macilento, tanto magro che si vedevano le ossa della sua cassa toracica, si fermò a dire loro qualcosa. 
- Somigliano a quella gente nell’albergo - osservai.
Pensando all’albergo, mi venne istintivo voltarmi a guardarlo. 
- Oh, no! - esclamai.  Presi Akito per un braccio e feci girare anche lui. L’albergo era scomparso. Al suo posto c’era una lunga, bassa costruzione di pietra scura. Sembrava una specie di locanda, o un ritrovo di qualche tipo. 
- Non ci capisco più niente - piagnucolò Akito.
 Alla luce del sole appariva molto pallido. Si grattò la testa, completamente disorientato.
- Sana, dobbiamo tornare all’albergo. Io… mi sento piuttosto scombussolato. 
- A chi lo dici - sospirai. 
Feci qualche passo lungo la strada. Doveva aver piovuto di recente. La terra era soffice e fangosa. Sentii delle mucche muggire poco distante. Quello era il centro di Londra! mi dissi. Come potevo sentire delle mucche nel pieno centro di Londra? Dov’erano tutti i palazzi? Dov’erano le automobili e gli autobus a due piani?  Udii qualcuno fischiettare. Un ragazzo biondo e cencioso sbucò da dietro la lunga costruzione, con una fascina di legna tra le braccia. Doveva avere più o meno la mia età. Le mie scarpe affondarono nel fango mentre attraversavo in fretta la strada per raggiungerlo. 
- Ehi! - lo chiamai. - Aspetta! 
Il ragazzo mi sbirciò da sopra la fascina di legna. I suoi occhi azzurri si dilatarono per la sorpresa. I suoi capelli arruffati, lunghi fino alle spalle, svolazzavano nel vento. 
- Buona giornata a voi - disse.
Il suo accento era così strano che stentavo a capirlo. 
- Buona giornata - ricambiai, incerta. 
- Venite da lontano? - domandò il ragazzo, mettendosi la fascina su una spalla. 
- Sì, siamo turisti - risposi. - Ma io e mio fratello ci siamo persi. Non riusciamo più a trovare il nostro hotel. 
Il ragazzo socchiuse gli occhi, guardandomi interrogativamente. 
- Il nostro hotel - ripetei. - Il Barclay. Sai dirci dov’è? 
- Barclay? Hotel? 
- Sì… 
Attesi una risposta, ma lui si limitò a fissarmi da sotto le sopracciglia aggrottate.
- Non conosco queste parole straniere - dichiarò infine. 
- Hotel! - quasi gridai, spazientita. - Sai, un posto dove stanno i turisti… i viaggiatori, capisci? 
- Ah… sì, ho capito - disse finalmente. - Molti forestieri stanno all’abbazia. 
Mi indicò la bassa, lunga costruzione dietro di noi. A quanto pareva, non aveva capito affatto.
-  No. Io intendo dire… - cercai di spiegarmi meglio, ma lui non me ne diede il tempo. 
- Devo andare a portare la legna a casa - disse. 
Mi rivolse un cenno di saluto col capo, tirò giù la fascina dalla spalla e se ne andò per la sua strada. 
- Akito, quel ragazzo… - dissi, allibita. - Non sa che cosa sia un hotel. Ma ti pare possibile…? -
Mi girai.
- Akito? 

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitré ***


- Akito? Akito? - chiamai, con voce sempre più alta e spaventata.
Dov’era andato?
- Ehi, Akito! - gridai. 
Le due donne smisero di raccogliere radici e alzarono gli occhi a guardarmi. 
- Avete visto dov’è andato mio fratello? - chiesi loro. 
Scossero la testa e tornarono al lavoro. 
- Oh…! 
Feci un balzo di lato, appena in tempo per schivare un carro trainato da un bue sbuffante. Il conducente, un uomo grasso a torso nudo, con la pelle flaccida scurita dal sole, sferzava la povera bestia con le corde che fungevano da redini, incitandola ad andare ancora più veloce.  Mentre il carro passava oltre, le sue ruote di legno affondavano nel fango, lasciando profondi solchi nella strada. Delle galline si tolsero di mezzo, schiamazzando. Le due donne non alzarono nemmeno lo sguardo.  Mi avvicinai all’entrata dell’abbazia.
- Akito? Sei qui? 
Aprii la porta e sbirciai dentro. Il lungo corridoio illuminato dalle candele si estendeva davanti a me. In fondo, vidi un gruppo di uomini incappucciati. Eravamo appena venuti fuori di lì, mi dissi, richiudendo la porta. Akito non poteva essere tornato dentro. Ma allora, dov’era finito? Come poteva avermi piantata in asso? Come poteva essere scomparso così, da un momento all’altro?  Gridai il suo nome ancora qualche volta. Poi la gola mi si strinse. La mia bocca era asciutta come segatura. 
- Akito? - chiamai debolmente.
Le gambe cominciarono a tremarmi mentre andavo verso la casa più vicina.
“Niente paura, Sana” mi dissi, cercando di farmi coraggio. “Lo troverai. Non farti prendere dal panico.”  Troppo tardi. Il panico mi aveva già presa. Akito non se ne sarebbe mai andato in giro a esplorare quello strano luogo senza di me. Era troppo spaventato. Ma allora dov’era?  Sbirciai nella porta aperta della casupola. Da dentro arrivava un odore acre. Nella penombra, vidi un rozzo tavolo e due sgabelli di legno. Non c’era nessuno. Girai dietro la casa. Un pascolo verde di estendeva su una collina in leggera pendenza. Quattro mucche erano ferme, con la testa china, intente a brucare l’erba fresca.  Mi portai le mani alla bocca a far da megafono e chiamai mio fratello. Mi rispose soltanto il muggito sordo di una mucca. Con un sospiro angosciato, mi girai e tornai sulla strada. Avrei cercato casa per casa, decisi. Akito non poteva essere andato molto lontano.  Avevo fatto appena qualche passo verso la casupola vicina quando un’ombra mi si parò davanti. Trasalendo, alzai gli occhi… e fissai ammutolita la figura scura che mi sbarrava la strada. Il suo mantello nero fluttuava al vento. Aveva un nuovo cappello nero a tesa larga, sotto il quale spiccava il pallore mortale della sua faccia

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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro ***


Indietreggiai barcollando, portandomi le mani alle guance e fissandola inorridita, in silenzio. 
- Ve l’avevo detto che era ora di andare - sibilò l’uomo col mantello, venendo verso di me. 
- D… dov’è Akito? - riuscii a stento a farfugliare. - Sa dov’è Akito? 
Un sorrisetto sottile attraversò la sua faccia terrea.
- Akito? - ridacchiò.
Per qualche ragione, la mia domanda sembrava divertirlo.
- Non preoccuparti di Akito - aggiunse con un ghigno. 
Fece un altro passo avanti. La sua ombra mi raggiunse di nuovo. Il sangue mi si gelò nelle vene. Mi guardai attorno, in cerca di aiuto. Le due donne erano scomparse nelle loro case. Non c’era più nessuno in vista. La strada era deserta, eccetto per qualche gallina e una cane da caccia addormentato su un fianco davanti al covone di paglia. 
- Io… non capisco - balbettai. - Chi è lei? Perché ci perseguita? Chi siamo noi? 
Le mie concitate domande servirono soltanto a farlo sghignazzare sommessamente.  
- Mi conosci benissimo - affermò in un soffio. 
- No! - protestai con veemenza. - Io non la conosco! Che cosa sta succedendo? 
- Le tue domande non possono ritardare oltre il tuo destino - replicò. 
Scrutai la sua faccia, in cerca di risposte, ma lui abbassò la tesa del suo cappello nero, nascondendomi gli occhi. 
- Lei ha sbagliato persona! - gridai. - Mi ha scambiata per qualcun’altra! Io non la conosco! Non so cosa possa volere da me! 
Il sorriso sardonico scomparve dalla sua faccia. Scosse la testa. 
- Adesso basta - disse con fermezza. - Vieni con me. 
- No! - strillai. - Non prima che mi abbia detto chi è lei! Non prima che mi abbia detto dov’è mio fratello!  Spingendo indietro il pesante mantello, l’uomo fece un altro passo verso di me. I suoi stivali affondarono nel fango sotto il suo peso. 
- Io non vado da nessuna parte! - urlai.
Avevo ancora le mani premute sulle guance. Le ginocchia mi tremavano talmente che credevo avrebbero ceduto da un momento all’altro. Girai un rapido sguardo attorno, preparandomi a tagliare la corda. Speravo solo che le gambe non mi tradissero. 
-  Non provarti a scappare - mi ammonì l’uomo, come se mi avesse letto nel pensiero. 
- Ma… ma… - balbettai. 
- Tu adesso verrai con me - affermò. - Mi hai già fatto perdere troppo tempo.
 Con uno scatto repentino, alzò le mani guantate e mi afferrò per le spalle. Non ebbi il tempo di sottrarmi alla sua presa, o di cercare di divincolarmi. Il terreno cominciò a tremare. Sentii un brontolio sordo, come un tuono distante. Un cigolio. Uno schiocco.  Un altro carro trainato da un bue sbucò a tutta velocità da dietro l’angolo. Vidi il conducente frustare la bestia ansimante con una grossa corda. Il carro arrivava così veloce, dritto verso di noi, che l’uomo col mantello dovette lasciare la presa e fare un salto indietro per non essere travolto. Vidi il suo cappello nero volargli via dalla testa. Lo vidi mettere un piede in fallo, nel profondo solco pieno di fango al margine della strada. Lo vidi agitare le braccia, cercando di riprendere l’equilibrio.  Colsi al volo l’occasione. Mi girai con una piroetta e me la diedi a gambe, correndo di fianco al bue, tenendo la schiena curva in modo che il corpo dell’animale mi nascondesse completamente, impedendo all’uomo col mantello di vedere da che parte andavo. Poi svoltai bruscamente e mi infilai fra due casupole.  Continuando a correre, lanciai uno sguardo indietro e scorsi l’uomo chinarsi a raccogliere il cappello. La sua testa calva e lucida come un uovo brillava alla luce del sole. Avevo il fiato corto, mi faceva male il petto e sentivo il sangue pulsarmi nelle tempie, ma continuai a correre dietro alla fila di case. Il pascolo verde si estendeva alla mia sinistra. Nessun posto dove potessi nascondermi, da quella parte. Le casupole si facevano sempre più ravvicinate fra di loro. Sentii dei bambini piangere. Una donna stava arrostendo delle salsicce rosso-sangue su un fuoco. Vedendomi passare mi gridò qualcosa, ma non le badai. Due scarni cani da caccia neri mi corsero appresso, abbaiando e cercando di addentarmi le gambe. 
- Sciò! - li scacciai. - Sciò! Andate via, bestiacce! 
Guardando indietro, vidi l’alta figura scura correre agilmente sull’erba, col mantello svolazzante dietro le spalle. Non ero riuscita a seminarlo, e non ci avrebbe messo molto a raggiungermi. Dovevo trovare al più presto un posto dove nascondermi.  Sgattaiolai fra due piccole baracche di legno e quasi mi scontrai con una grossa donna dai capelli rossi con in braccio un bambino avvolto in una coperta grigia. Sorpresa, la donna si strinse il bambino al petto. 
- Deve nascondermi! - esclamai, ansimante. 
- Vattene via da qui! - gridò la donna. Sembrava più spaventata che ostile. 
- La prego! - implorai. - Quell’uomo mi sta inseguendo! 
Indicai freneticamente indietro. Attraverso lo stresso spazio fra le due baracche potemmo entrambe vedere l’uomo col mantello nero correre verso di noi. 
- La supplico, non lasci che mi prenda! - la scongiurai. - Mi nasconda! Faccia qualcosa! 
La donna distolse gli occhi dall’uomo col mantello e mi guardò. 
- Non posso - disse, scrollando le larghe spalle.

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Capitolo 25
*** Capitolo venticinque ***


Emisi un lungo gemito, sconfitta. Sapevo che non ce l’avrei fatta a correre ancora. L’uomo col mantello mi avrebbe catturata in un attimo. La donna si strinse più forte il bambino al petto e si girò di nuovo a guardare l’uomo correre verso di noi. 
- Io… posso pagarla! - buttai là senza riflettere, in un ultimo, disperato tentativo di convincerla ad aiutarmi. Poi, all’improvviso, mi vennero in mente le monete che avevo in tasca. Quelle che il tassista aveva rifiutato. Chissà se la donna le avrebbe accettate? Infilai una mando in tasca e le tirai fuori, mostrandole alla donna.  - Ecco! - gridai. - Le prenda! Le prenda tutte! Ma la prego… mi nasconda! 
Gliele cacciai a forza nella mano libera. La donna alzò la mano per esaminarle, poi strabuzzò gli occhi e le fissò a bocca aperta.  “Non le vorrà nemmeno lei” mi dissi, ormai scoraggiata. “Me le tirerà dietro come il tassista.”  Ma mi sbagliavo.  
- Sovrane d’oro! - esclamò invece in un sussurro. - Sovrane d’oro… ricordo di averne vista una, da bambina… 
- Affare fatto, allora? - le feci fretta. - Accetta di nascondermi? 
Intascò il denaro, poi mi spinse oltre la porta aperta della sua misera casupola. Dentro c’era odore di pesce. Vidi tre giacigli sul pavimento accanto a un focolare spento. 
- Presto… nella cesta della legna - mi esortò la donna. - E’ vuota. 
Con un’altra spinta, mi mandò verso una grande cesta di paglia col coperchio. Col cuore che mi batteva forte, sollevai il coperchio e mi infilai dentro. Il coperchio si abbassò rapidamente su di me, sprofondandomi nell’oscurità.  Accucciata in fondo alla cesta, con le mani e le ginocchia sulla paglia ruvida, mi sforzai di smettere di ansimare, di far rallentare i battiti del mio cuore. La donna aveva accettato con gioia le mie monete, riflettei. Non pensava che fossero buone soltanto per giocare, come il tassista. Dovevano essere monete antiche…  Poi, un brivido gelido corse lungo il mio corpo tremante. A un tratto mi era chiaro perché tutto sembrasse così diverso… così all’antica. Eravamo veramente tornati indietro nel tempo! Quella era sì Londra, ma la Londra di centinaia di anni prima. L’uomo col mantello ci aveva trasportati in un’altra epoca con quelle pietre bianche, intuii. Ci aveva confusi con qualcun altro, era evidente. Era per questo che ci dava la caccia.  Ma come fare a chiarire l’equivoco? E come rifare a ritroso il salto nel tempo, tornando all’epoca a cui appartenevo?  Scacciai quelle domande dalla mia mente e tesi le orecchie. Dall’esterno della casupola mi giunsero delle voci. Riconobbi quella della donna, poi quella profonda, tonante dell’uomo col mantello nero. 
- E’ proprio qui, signore - stava dicendo la donna. 
Sentii dei passi. E poi le voci divennero più forti. Sempre più vicine. Adesso i due stavano proprio accanto alla cesta in cui ero nascosta. 
- Dov’è? - chiese l’uomo col mantello in tono perentorio. 
- Qui dentro, signore - rispose in tono mellifluo la donna. - Ve l’ho impacchettata per bene, pronta da portar via.

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Capitolo 26
*** Capitolo ventisei ***


Il cuore mi balzò in gola. Nell’oscurità della cesta, improvvisamente fui travolta dalla collera. La donna aveva preso il mio denaro, e poi mi aveva tradita. Come aveva potuto farmi questo?  Il mio corpo si irrigidì per la rabbia e la paura, ero ancora carponi, avevo le membra intorpidite e mi sentivo sul punto di crollare, accasciandomi, sul fondo della cesta. Feci un respiro profondo e mi rigirai per cercare di sollevare il coperchio di paglia, ma, con mio disappunto, non si mosse. Era chiuso con una serratura? O era l’uomo che lo teneva giù? Aveva poca importanza, ormai. Ero in trappola. Impotente. In balia dell’uomo col mantello.   A un tratto la cesta si sollevò da un lato, sbattendomi contro il lato opposto. Potevo sentirla strisciare contro il pavimento mentre veniva trascinata fuori dalla baracca. 
- Ehi! - gridai - Fatemi uscire! 
Ma la mia voce fu attutita dalle pareti di paglia. Mi dibattei nella cesta, cercando di renderne più difficile il trasposto, senza molto successo. La cesta sobbalzò, poi riprese a scivolare. 
- Ehi, tu… ragazzina! - mi giunse la voce bisbigliante della donna.
Alzai la testa. Aveva sollevato un poco un angolo del coperchio.
- Mi dispiace - sussurrò. - Spero che potrai perdonarmi. Ma non potevo certo mettermi contro il Grande Giustiziere di Corte. 
- Cosa? - gridai. - Come ha detto? -
La cesta strisciò più in fretta. Sobbalzò violentemente. Sobbalzò di nuovo.
- Cos’ha detto? - chiesi di nuovo, istericamente.
Silenzio. Il bordo del coperchio si era riabbassato.  Un momento dopo sentii dei nitriti di cavalli. Fui sballottata da una parte e dall’altra mentre la cesta veniva sollevata. Poco dopo la cesta cominciò a sussultare e scuotersi, e mi giunse lo scalpitio rapido e regolare di zoccoli di cavallo. Dovevano avermi caricata su un carro.  Il Grande Giustiziere di Corte? Era questo che aveva detto la donna? L’uomo tenebroso col mantello e il cappello nero… era lui il Grande Giustiziere di Corte?  Dentro la mia piccola, buia prigione, cominciai a tremare come una foglia, senza potermi trattenere, finchè tutto il mio corpo fu scosso da brividi gelidi.  Il Grande Giustiziere di Corte. Quelle parole mi echeggiavano nella mente come una terrificante cantilena.  Il Grande Giustiziere di Corte. E poi mi domandai: “Ma che cosa può volere da me?”

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Capitolo 27
*** Capitolo ventisette ***


Il carro si fermò con un sussulto, fece una breve sosta, poi ripartì. A forza di essere sballottata nella cesta avevo perso la cognizione del tempo.
“Dove mi sta portando?” mi domandai. “Cos’ha intenzione di fare? E perché proprio io?
Un’altra brusca fermata mi fece sbattere la testa sulla parte anteriore del cesto. Rabbrividii. Il mio intero corpo era madido di sudore gelato. Nel chiuso della cesta ristagnava un odore acre. Cominciai a boccheggiare per il bisogno di un po’ d’aria fresca. Lanciai un grido quando all’improvviso si sollevò il coperchio. La luce del sole mi ferì gli occhi.
- Tiratela fuori! - sentii la voce tonante del Grande Giustiziere.
Forti braccia mi afferrarono rudemente, tirandomi fuori di peso dalla cesta di paglia. Mentre i miei occhi si abituavano alla luce, vidi che ero stata presa da due soldati in uniforme grigia. Mi misero giù, in piedi, ma le ginocchia mi cedettero e mi accasciai a terra.
- Tiratela su - ordinò il Grande Giustiziere di Corte.
Alzai gli occhi a guardarlo. La sua alta figura si stagliava scura nella luce del sole. La sua faccia era di nuovo nascosta nell’ombra del cappello. I soldati si chinarono per rialzarmi. Stare rattrappita in quella piccola cesta per tutto quel tempo mi aveva intorpidito le gambe, e mi doleva la schiena per tutti gli sballottamenti che avevo subito.
- Lasciatemi andare! - mi ribellai. - Perché state facendo questo?
Il Grande Giustiziere non rispose. I soldati mi sorressero finchè non riuscii a stare in piedi da sola.
- Avete fatto un terribile errore! - dissi, con la voce tremante per la rabbia e la paura. - Non ho idea di cosa ci faccio qui o di come ci sono finita, ma vi assicuro che non sono chi credete voi!
Di nuovo, il Grande Giustiziere non mi rispose. Fece un cenno con una mano, e le guardie mi presero per le braccia, obbligandomi a voltarmi dall’altra parte. Girando le spalle al sole e al Grande Giustiziere, mi trovai di fronte il tenebroso castello. Vidi il muro di cinta, il cortile, le due sottili torri svettanti verso il cielo. La Torre del Terrore! L’uomo col mantello, il Grande Giustiziere, mi aveva portata alla Torre del Terrore. Era lì che Akito e io lo avevamo visto per la prima volta. Era lì che il Grande Giustiziere aveva cominciato a perseguitarci. Ma allora eravamo nel ventesimo secolo. Nell’epoca alla quale appartenevo. Centinaia di anni avanti nel futuro. In qualche modo, Akito e io eravamo stati trasportati indietro nel tempo, in un lontanissimo passato. E adesso, Akito era scomparso. E io stavo per essere portata nella Torre del Terrore. Il Grande Giustiziere aprì la strada. I soldati mi strinsero saldamente le braccia e lo seguirono, trascinandomi attraverso il cortile, verso l’entrata del castello. Il cortile era affollato di gente cupa e silenziosa, vestita di stracci e tuniche logore e sporche. Molti tenevano gli occhi puntati su di me. alcuni stavano accovacciati come corvi, lo sguardo perso nel vuoto, la faccia inespressiva, come se la loro mente fosse altrove. Altri erano seduti per terra e piangevano con la testa fra le mani, o fissavano il cielo. Un vecchio a torso nudo era seduto sotto un albero, grattandosi freneticamente la matassa unticcia di capelli bianchi con entrambe le mani. Un giovane uomo premeva uno straccio sudicio su un profondo taglio in un piede incrostato di sporcizia. Bambini piangevano e strillavano. Uomini e donne erano buttati per terra, gemendo e borbottando fra sé. Era davvero uno spettacolo penoso. Dovevano essere tutti prigionieri, immaginai. Ricordavo infatti che la nostra guida turistica, Mr Rei Sagami, ci aveva spiegato che il castello era stato prima una fortezza, poi una prigione. Scossi mestamente la testa. Come avrei voluto essere ancora con il gruppo di turisti, nel futuro, nella mia epoca…! Non ebbi molto tempo per pensare a quella povera gente ammassata come bestie nel cortile. I soldati mi trascinarono nell’oscurità del castello e su per le tortuose scale di pietra. Salendo, l’aria si faceva sempre più fredda e umida. mi sentivo gelare.
- Lasciatemi andare! - strillai. - Vi prego! Lasciatemi andare!
Cercai di divincolarmi, ma i soldati mi sbatterono contro il muro di pietra. Gridando istericamente, tentati ancora di liberarmi dalla loro presa, ma erano troppo forti. Tutti i miei tentativi di opporre resistenza furono vani. Mi trascinarono implacabilmente su per l’angusta scalinata a spirale, curva dopo curva. Passando davanti alla cella sullo stretto pianerottolo, vidi che era zeppa di prigionieri. Stavano accalcati contro le sbarre, in silenzio, le facce gialle e inespressive. Molti di loro non alzarono nemmeno lo sguardo al mio passaggio. Continuammo a salire i ripidi, scivolosi gradini, fino alla porta di legno in cima alla torre.
- No! Vi prego! - supplicai. - E’ uno sbaglio! È tutto uno sbaglio!
Ma i soldati, incuranti delle mie proteste, fecero scorrere il pesante catenaccio di ferro e aprirono la porta. Poi, con un violento spintone, mi scaraventarono dentro la cella. Finii lunga distesa sul pavimento di pietra, picchiando duramente i gomiti e le ginocchia. Sentii la porta sbattere dietro di me, poi il rumore metallico del catenaccio. Mi avevano chiusa dentro. Ero rinchiusa nella minuscola cella in cima alla Torre del Terrore. - Sana! - sentii una voce familiare chiamare il mio nome.
Mi tirai su sulle ginocchia e alzai lo sguardo, stupita.
- Akito! - gridai, felice di vederlo, anche se non nella migliore delle situazioni. - Akito… come sei finito qui? Mio fratello era seduto per terra, con la schiena contro il muro. Mi venne vicino a quattro zampe e mi aiutò ad alzarmi.
- Stai bene? - mi domandò, in tono alquanto preoccupato. Annuii.
- E tu? -
Credo di sì - mi rispose.
Aveva un lungo sbaffo di sporco su una guancia. I suoi capelli scuri erano arruffati, incollati alla fronte sudata. I suoi occhi erano rossi, cerchiati e pieni di paura.
- L’uomo col mantello mi ha preso giù in città, in mezzo alla strada - mi raccontò. - Sai, quando tu sei andata a parlare con quel ragazzo…
Annuii di nuovo.
- Già. Mi sono girata, e tu non c’eri più.
- Ho cercato di avvertirti - mi spiegò Akito - ma mi ha mezzo una mano sulla bocca per impedirmi di gridare. Poi mi ha consegnato ai suoi soldati e mi hanno trascinato dietro a una casa.
- Akito… - mormorai, sforzandomi di trattenere le lacrime.
- Tutto questo è… è mostruoso! - Uno dei soldati mi ha caricato sul suo cavallo - continuò Akito. - Ho cercato di divincolarmi, ma non ci sono riuscito. Mi ha portato al castello e rinchiuso qui nella torre.
- L’uomo col mantello… è il Grande Giustiziere di Corte - gli rivelai, esitante. - Ho sentito una donna chiamarlo così.
A quelle parole, Akito ebbe un sussulto. I suoi occhi scuri si fissarono nei miei.
- Grande Giustiziere hai detto?
- Esatto - annuii cupamente.
- Ma che vuole da noi? - domandò mio fratello con voce stridula. - Perché ci perseguita? Perché ci ha rinchiusi in questa orribile torre?
Dalla mia gola sfuggì un singhiozzo soffocato.
- Io… non lo so - balbettai.
Feci per aggiungere qualcos’altro, ma mi interruppi di colpo sentendo dei rumori fuori della porta. Akito e io ci abbracciammo stretti, fermi al centro della stanza. Sentii il catenaccio scorrere. La porta si schiuse lentamente. Stava entrando qualcuno.

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Capitolo 28
*** Capitolo ventotto ***


Un uomo entrò nella cella. Aveva lunghi capelli bianchi che gli ricadevano scompostamente dietro le spalle, e una corta barba bianca e appuntita. Indossava un’ampia tunica viola lunga fino ai piedi. I suoi occhi, dello stesso colore della tunica, scrutarono prima Akito, poi si soffermarono su di me. 
- Siete tornati - disse solennemente.
La sua voce era bassa e morbida. I suoi occhi viola improvvisamente si velarono di tristezza. 
- Chi è lei? - lo affrontai. - Perché siamo chiusi qua dentro? 
- Ci faccia uscire! - intimò Akito con voce stridula. - Ci faccia uscire immediatamente di qui! 
L’uomo dai capelli bianchi scosse la testa, desolato, ma non rispose. L’orlo della sua lunga tunica viola strusciò sul pavimento mentre veniva verso di noi. Le grida e i lamenti dei prigionieri nel cortile sottostante arrivavano fino a noi attraverso la minuscola finestrella sopra le nostre teste, insieme alla luce grigiastra della sera. 
- Voi non vi ricordate di me - mormorò l’uomo. 
- Certo che no! - esclamò Akito. - Come potremmo? Noi non c’entriamo niente in tutta questa storia! 
- Adesso non vi ricordate di me - ripeté l’uomo, massaggiandosi la barba appuntita con una mano - ma tra poco tutto vi sarà chiaro. 
Sembrava gentile. Perfino buono. Niente a che vedere con il Grande Giustiziere. Ma quando i suoi strani occhi viola si fissarono nei miei, avvertii un brivido di paura. Qualcosa mi diceva che quell’uomo era molto potente. Pericoloso. 
- La prego, ci faccia uscire di qui! - supplicò Akito.  L’uomo sospirò.
- Vorrei che fosse in mio potere liberarti, Heric - gli disse piano.
Poi si rivolse a me: - E vorrei che fosse in mio potere liberare te, Rossana. 
- Un momento - obiettai, alzando una mano. - Alt. Aspetti un attimo. Il mio nome è Sana, non Rossana. 
Il vecchio affondò le mani nelle tasche della sua ampia tunica.
- Forse dovrei presentarmi - disse. - Il mio nome è Morgred. Sono il Mago di Corte. 
- Intende dire che fa giochi di prestigio? - chiese di getto Akito. 
- Giochi…? - il vecchio sembrò confuso dalla domanda. 
- E’ lei che ha ordinato di rinchiuderci qui? - gli domandai. - Perché ci ha portati indietro nel tempo? Perché ha fatto tutto questo? 
- Non è una storia facile da raccontare, Rossana - replicò Morgred. - Tu e Heric dovete credere… 
- La smetta di chiamarmi Rossana! - gridai, interrompendolo. 
- Io non sono Heric! - protestò mio fratello. - Io sono Akito! Tutti mi hanno sempre chiamato Akito! 
Il vecchio tirò fuori le mani dalle tasche e ne posò una sulla spalla di Akito e l’altra sulla mia. 
- So che quello che sto per dirvi vi sorprenderà molto - annunciò. - Ma voi non siete Akito e Sana. E non vivete nel ventesimo secolo. 
- Eh? - sbottai. - Ma che cosa sta dicendo? È impazzito? 
- In realtà voi siete Heric e Rossana - continuò Morgred. - Siete il principe e la principessa di York. E siete stati imprigionati in questa torre per ordine di vostro zio, il re.

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Capitolo 29
*** Capitolo ventinove ***


- Eh… no! Lei si sbaglia! - insorse Akito. - Si sbaglia di grosso! Noi sappiamo benissimo chi siamo!  All’improvviso sentii un gran freddo.
Le parole di Morgred mi echeggiavano nella mente: << Voi non siete Akito e Sana… Voi in realtà siete Heric e Rossana. >> 
Feci un passo indietro, sottraendomi alla sua mano, e studiai la sua faccia. Stava scherzando? O forse era pazzo? I suoi occhi rivelavano soltanto tristezza e compassione. La sua espressione era solenne. Non aveva affatto l’aria di scherzare. Né sembrava matto. 
- Non mi aspetto che mi crediate - disse Morgred, rimettendosi le mani nelle tasche. Ma vi sto dicendo la verità. Vi ho fatto un incantesimo. Ho cercato di salvarvi. 
- Salvarci? - ripetei. - Intende dire… farci scappare dalla torre? 
Morgred annuì: - Ho tentato di farvi sfuggire al vostro destino. 
A quelle parole, mi risuonò nella mente la voce di Mr Rei Sagami. Ricordai la storia che aveva raccontato. Ricordai il destino del principe Heric e della principessa Rossana di York. Il re aveva dato ordine di ucciderli, soffocandoli con un cuscino. 
- Ma noi non siamo loro! - sbottai. - Lei si sta confondendo. Forse Akito e io gli assomigliamo… magari gli assomigliamo anche molto. Ma non siamo il principe e la principessa. Noi siamo due normalissimi ragazzi del ventesimo secolo! 
- Ho gettato su di voi un incantesimo - spiegò. - Ho cancellato la vostra memoria. Voi eravate rinchiusi in questa torre, e io volevo farvi scappare. Prima vi ho messi al sicuro, nell’abbazia. Poi vi ho proiettati nel futuro, più lontano che ho potuto. 
- Non è vero! - insisté Akito, mettendosi a strillare. - Non è vero! Io sono Akito, non Heric! Il mio nome è Akito! 
Morgred sospirò.
- Soltanto Akito? - replicò in tono paziente. - Dimmi, Akito… qual è il tuo nome per esteso? 
- Io… io… - balbettò mio fratello. 
“Akito e io non conosciamo il nostro cognome” ammisi fra me e me, disorientata. “E non sappiamo dove abitiamo.” 
- Quando vi ho mandati nel futuro - spiegò Morgred - vi ho dato nuovi ricordi, per aiutarvi a sopravvivere in un tempo diverso dal vostro. Ma i ricordi erano incompleti. 
- Ecco perché non riuscivano a ricordare i nostri genitori! - esclamai, guardando Akito. - A proposito… - aggiunsi, rivolgendomi a Morgred. - I nostri genitori…? 
- I vostri genitori, il re e la regina, sono morti - ci informò il Mago. - Voi siete di diritto gli eredi al trono. Ma vostro zio si è autoproclamato re, e vi ha fatti rinchiudere nella torre per levarvi di mezzo. 
- Ci… ci farà uccidere! - balbettai. 
Morgred annuì gravemente, chiudendo gli occhi.
- Ho paura di sì. I suoi uomini arriveranno presto. E non ho modo di fermarlo, ora.

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Capitolo 30
*** Capitolo trenta ***


- Non posso crederci -  mormorò Akito. - Proprio non posso. Tutta questa storia è assurda. 
Ma potevo vedere la profonda tristezza negli occhi di Morgred, e sentirla nella sua voce bassa e rassegnata. Il Mago stava dicendo la verità. Una verità terribile. Mio fratello e io non eravamo Akito e Sana, ragazzi del ventesimo secolo. Vivevamo in quell’epoca buia e pericolosa. Eravamo Heric e Rossana di York. 
- Ho cercato di mandarvi il più lontano possibile da questa torre - riprese a spiegare Morgred. - Vi ho spediti nel futuro per permettervi di iniziare una nuova vita, senza tornare mai più indietro… senza mai più tornare in questo castello ad affrontare la vostra condanna. 
- Ma allora perché siamo di nuovo qui? - domandai.
- Cos’è successo, Morgred? 
- Il Grande Giustiziere di Corte mi stava spiando - spiegò il Mago, abbassando la voce a un sussurro. - Doveva aver capito che volevo aiutarvi a scappare. E così… 
Si interruppe e inclinò la testa verso la porta. Cos’era stato quel rumore? C’era qualcuno là fuori? Tutti e tre restammo in ascolto per qualche istante. Tutto era silenzioso, adesso. Morgred continuò la sua storia in un bisbiglio. 
- Quando ho fatto l’incantesimo che vi ha proiettati nel futuro, il Grande Giustiziere doveva essere nascosto lì vicino. Avevo usato tre pietre bianche e una formula magica. Più avanti, mi ha rubato le pietre e ha ripetuto lui stesso l’incantesimo. Si è proiettato nel futuro per riportarvi indietro. E come entrambi sapete, vi ha catturati e imprigionati di nuovo. 
Morgred fece un passo avanti. Alzò una mano e ma la mise sulla fronte. All’inizio la mano era fresca. Poi diventò sempre più calda, fino a bruciare talmente che dovetti ritrarmi. In quel preciso momento mi tornò la memoria. Di colpo, tornai a essere Rossana di York. La mia vera identità. Ricordavo i miei genitori, il re e la regina. E mi tornarono alla mente tutti i ricordi della mia vista nel castello reale.  Mio fratello guardò Morgred, furibondo.
- Che cos’ha fatto a mia sorella? - gridò, arretrando finchè andò a sbattere contro il muro di pietra. 
Il Mago posò la mano anche sulla sua fronte, e vidi l’espressione di mio fratello cambiare nel momento in cui gli tornò la memoria e si rese conto di essere realmente il principe di York. 
- Morgred… - mormorò Heric, guardando la faccia familiare del vecchio, buon Mago di Corte, come se la vedesse solo ora.
- Ma come hai fatto? Come sei riuscito a far viaggiare nel tempo me e Rossana? Puoi ripetere l’incantesimo? 
- Sì! - gli feci eco con entusiasmo. - Puoi farlo di nuovo? Puoi mandarci di nuovo nel futuro, prima che arrivino gli uomini del re? 
Ma Morgred scosse tristemente la testa. - Mi dispiace tanto, ma non posso - mormorò. - Non ho più le tre pietre magiche. Come vi ho detto, mi sono state rubate dal Grande Giustiziere. 
Un sorriso apparve sulla faccia di mio fratello. Infilò una mano in tasca.
- Eccole qui! - annunciò trionfante, strizzandomi l’occhio. - Gliele ho soffiate quando mi ha catturato, giù in città. -
Porse le pietre a Morgred.
- La mano più svelta di tutta la Britannia! - si vantò, soddisfatto.
Ma Morgred non sorrise. 
- E’ un incantesimo semplice, in realtà - disse il Mago. Sollevò le tre pietre, ed esse cominciarono a brillare nella sua mano. - Si mettono le pietre una sull’altra. Si aspetta che emettano una intensa luce bianca. Poi bisogna pronunciare le parole “Movarum, Lovaris, Movarus”. E infine si decide l’anno in cui si vuole essere mandati. 
- Tutto qui? - domandò Heric, fissando le pietre lisce e lucenti sul palmo della mano di Morgred. 
Il Mago annuì.
- Tutto qui, principe Heric. 
- Be’, fallo, allora! - lo incitai. - Fa’ presto, Morgred… ti prego! 
La sua espressione si fece ancora più addolorata.
- Non posso - rispose, con voce incrinata dall’emozione.
Rimise le tre pietre nella tasca della tunica, poi fece un lungo, infelice sospiro.
- Voi non immaginate quanto sarei felice di farlo, bambini miei - mormorò. - Ma se vi aiutassi di nuovo a scappare, il re mi torturerebbe fino alla morte. E allora non potrei più usare la mia magia per aiutare tutta la gente di Britannia. -
Le lacrime scivolarono sulle sue guance grinzose. Guardò addolorato me e mio fratello.
- Io… spero soltanto che vi sia piaciuto il vostro breve soggiorno nel futuro - aggiunse in un soffio. 
Mi sentii rabbrividire.
- Tu… davvero non puoi aiutarci? - domandai con un filo di voce. 
- No. Non posso - replicò, abbassando gli occhi a terra. 
- Nemmeno se te lo ordinassimo? - chiese . 
- Nemmeno se me lo ordinaste - rispose Morgred.
Piangendo, abbracciò a lungo Heric. Poi si girò e abbracciò anche me. 
- Addio - bisbigliò. - Vi prego, perdonatemi. Non posso farci niente. 
- Quanto ci resta da vivere? - domandai con voce flebile. 
- Forse qualche ora - rispose Morgred, evitando il mio sguardo.
Poi ci volse le spalle, senza più la forza di guardarci.  Nella piccola cella scese un pesante silenzio. La luce grigia filtrava dalla finestrella sopra le nostre teste. L’aria si fece all’improvviso fredda e umida. Non riuscivo a smettere di tremare.  
Con mia sorpresa, Heric a un tratto si illuminò in faccia. - Rossana, guarda! - mi bisbigliò all’orecchio, eccitato. - La porta. Morgred ha lasciato la porta aperta, entrando. 
Guardai verso la porta. Heric aveva ragione. La pesante porta di legno era socchiusa. Avevamo ancora una possibilità, mi dissi, col cuore che mi batteva forte. Avevamo ancora una piccola speranza. 
- Heric… corri! - gridai.

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Capitolo 31
*** Capitolo trentuno ***


Scattai verso la porta, ma mi bloccai a metà del primo passo, con una gamba a mezz’aria. Anche Heric era impietrito in posizione di partenza, con le gambe piegate e le braccia tese una in avanti e una indietro. Mi sforzai di muovermi, ma senza successo. Era come se il mio corpo si fosse trasformato in una statua. Mi ci volle qualche secondo per capire che Morgred aveva gettato un incantesimo su di noi. Immobile e rigida in mezzo alla piccola cella, guardai il Mago andare verso la porta. Prima di uscire, si volse a guardarci sconfortato. 
- Mi dispiace tantissimo - disse con voce colma di rincrescimento. - Ma non posso più fare niente per voi. Vi prego, cercate di capire. Ho fatto del mio meglio. Ma adesso sono impotente. Del tutto impotente. 
Le lacrime gli rigavano le guance e bagnavano la sua barba bianca. Ci lanciò uno sguardo addolorato, poi la porta sbatté alle sue spalle. Appena la porta fu sbarrata col catenaccio dall’esterno, l’incantesimo si spezzò, e Heric ed io potemmo muoverci di nuovo. Mi afflosciai a terra. A un tratto mi sentivo terribilmente debole, del tutto esausta. 
- E adesso che cosa facciamo? - domandai ad Heric, sconsolata. Poi sospirai. - Povero Morgred. Ha fatto del suo meglio per aiutarci. Lo avrebbe fatto ancora, se appena avesse potuto. Se solo… 
Smisi di parlare sentendo dei passi pesanti per le scale di pietra fuori dalla cella. Per un istante pensai che Morgred stesse tornando indietro. Ma poi mi giunsero delle voci. Voci di uomini. Sempre più vicine. E tra esse, riconobbi quella del Grande Giustiziere di Corte. Col cuore in gola, balzai in piedi e guardai Heric. 
- Stanno arrivando! - bisbigliai, terrorizzata.

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Capitolo 32
*** Capitolo trentadue ***


Con mio grande stupore, l’espressione di Heric rimase calma. Alzò una mano. Aveva qualcosa nascosto nel pugno chiuso. Quando aprì la mano, riconobbi le tre pietre bianche e lucide. Le pietre magiche di Morgred. - Heric… di nuovo? - sgranai gli occhi, stupefatta.
Un sorriso gli incurvò le labbra. I suoi occhi scuri brillavano di eccitazione.
- Le ho riprese dalla tasca di Morgred quando mi ha abbracciato - spiegò.
- Ti ricordi la formula magica? - gli domandai ansiosamente.
Il suo sorriso vacillò.
- Io… credo di sì.
I passi sui gradini di pietra si fermarono appena oltre la porta. Il Grande Giustiziere e i suoi uomini sarebbero entrati tra un istante. - Heric… fa’ presto, ti prego! - lo incitai, angosciata.
Mio fratello cercò freneticamente di mettere le tre pietre una sopra l’altra, ma quella in cima continuava a scivolare giù. Sentii scorrere il catenaccio. Sentii la pesante porta di legno schiudersi cigolando. Finalmente, Heric riuscì a impilare le tre pietre in una piccola torre. La porta si aprì un po’ di più.
Heric sollevò la mano, tenendo le tre pietre lucenti in equilibrio sul palmo, e pronunciò la formula magica: - Movarum, Lovaris, Movarus!
Dalle pietre risplendenti si sprigionò un intenso bagliore bianco. La luce svanì rapidamente. Mi guardai attorno.
- Oh, Heric! - quasi scoppiai a piangere per il disappunto. - Non ha funzionato! Siamo ancora nella torre! Heric era troppo stordito per parlare. E comunque, non ne ebbe il tempo.

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Capitolo 33
*** Capitolo trentatré ***


La porta si spalancò del tutto, e davanti ai nostri occhi esterrefatti apparve un gruppo di turisti. La guida era una giovane donna, in minigonna, calzamaglia nera, e due T-shirt sovrapposte, una gialla e una rossa.  Sorrisi ad Heric. Ero così felice che ero convinta che quel sorriso mi sarebbe rimasto stampato in faccia per sempre. 
- Ce l’hai fatta, Heric! - esultai. - Ce l’hai fatta! L’incantesimo ha funzionato! 
- Chiamami Akito - replicò lui, ridendo giulivo. - D’ora in poi chiamami Akito, okay, Sana?  
L’incantesimo aveva funzionato alla perfezione. Eravamo di nuovo nel ventesimo secolo. Eravamo di nuovo nella Torre del Terrore, ma come turisti! 
- In questa minuscola cella furono imprigionati il principe Heric e la principessa Rossana di York - annunciò la guida. - Erano stati condannati a morte, ma la sentenza non venne mai eseguita. 
- Non sono morti qua dentro? - le domandai. - Che cosa è successo? 
La giovane donna si strinse nelle spalle, masticando una chewing-gum. 
- E chi lo sa? - rispose. - La notte in cui avrebbero dovuto essere uccisi, il principe e la principessa scomparvero, come fossero svaniti nel nulla. È un mistero che non verrà mai risolto. 
Membri del gruppo parlottarono fra loro, osservando la piccola stanza. 
- Guardate questi solidi muri di pietra - continuò la guida, cianciando la chewinggum. - Guardate la finestrella con le sbarre, lassù. Come siano riusciti a scappare, nessuno lo saprà mai. 
- Credo che noi conosciamo la soluzione del mistero - disse una voce alle nostre spalle. 
Akito e io ci voltammo. Morgred ci sorrise e strizzò un occhio. Vidi che indossava un giubbetto sportivo viola e calzoni grigio scuro.
- Grazie per avermi portato con voi - disse con gioia. 
- Dovevamo portarti, Morgred - replicò Akito. - Abbiamo bisogno di un parente. 
Morgred si mise un dito sulla bocca.
- Shhh! Non chiamatemi così. Adesso sono Mr Morgan, okay? 
- Okay - approvai. - E immagino che io sia Sana Morgan. E questo - diedi una pacca sulla spalla a mio fratello - è Akito Morgan. 
Il gruppo di turisti cominciò a uscire dalla cella in cima alla torre. Prima di avviarci anche noi, Akito tirò fuori dalla tasca dei jeans le tre pietre bianche e le fece saltare nel palmo della mano.
- Se non ti avessi rubato questi sassolini - disse a Mr Morgan - adesso quella guida racconterebbe una storia molto diversa. 
- Già. Molto, molto diversa. 
- Dài, andiamocene da qui - li esortai. - Non voglio più mettere piede in questa torre in vita mia. 
- Sì, andiamo… Sto morendo di fame! - esclamò Akito. 
Adesso che mi ci faceva pensare, mi accorsi di avere una fame tremenda anch’io.  
- Devo far apparire qualcosa da mangiare? - si offrì Mr Morgan. 
Akito e io ci scambiammo un’occhiata e scuotemmo vigorosamente la testa.
- Credo proprio di averne abbastanza di incantesimi - dissi. - Perché non andiamo a festeggiare il nostro arrivo nel ventesimo secolo con un bel piatto di hamburger e patatine al Burger Palace?

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