ARK: l'Isola Preistorica

di Roberto Turati
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una piccola, enorme scoperta ***
Capitolo 2: *** Helena Walker ***
Capitolo 3: *** La verità svelata ***
Capitolo 4: *** Un segreto scoperto ***
Capitolo 5: *** La decisione fatidica ***
Capitolo 6: *** Partenza e arrivo ***
Capitolo 7: *** L'obelisco verde ***
Capitolo 8: *** Primi Contatti ***
Capitolo 9: *** Un segno del destino ***
Capitolo 10: *** Prime scoperte, nuove svolte (storia vecchia) ***
Capitolo 11: *** Ricongiungimento (storia vecchia) ***
Capitolo 12: *** La storia dei fratelli Ydorb (storia vecchia) ***
Capitolo 13: *** Verso le Rocce Nere (storia vecchia) ***
Capitolo 14: *** L'URE - Repubbliche Unite della Terra (storia vecchia) ***
Capitolo 15: *** Finalmente dalle Rocce Nere (storia vecchia) ***
Capitolo 16: *** La verità sul 2150 (storia vecchia) ***
Capitolo 17: *** Odranreb (storia vecchia) ***
Capitolo 18: *** La spettacolare morte di Acceber (storia vecchia) ***
Capitolo 19: *** Machu Picchu (storia vecchia) ***
Capitolo 20: *** Droga legale (storia vecchia) ***
Capitolo 21: *** Furto senza scasso e sequestro di persona (storia vecchia) ***
Capitolo 22: *** Chi è Mike Yagoobian? (storia vecchia) ***
Capitolo 23: *** Un dodo per la scienza (storia vecchia) ***
Capitolo 24: *** La nascita di una nuova specie (storia vecchia) ***
Capitolo 25: *** Le mantidi a Nosti (storia vecchia) ***
Capitolo 26: *** Il re dei mostri (storia vecchia) ***
Capitolo 27: *** Il cospiratore (storia vecchia) ***
Capitolo 28: *** Il villaggio sul mare e la valanga (storia vecchia) ***
Capitolo 29: *** Fare i conti coi propri demoni (storia vecchia) ***
Capitolo 30: *** Un servizio memorabile (storia vecchia) ***
Capitolo 31: *** Amici di vecchia data (storia vecchia) ***
Capitolo 32: *** L'isola del fuoco (storia vecchia) ***
Capitolo 33: *** L'eruzione (storia vecchia) ***



Capitolo 1
*** Una piccola, enorme scoperta ***


 

ARK: L’ISOLA PREISTORICA

Le onde dell'oceano si infrangevano sul bagnasciuga della città di Sidney, al Sud della terra dei canguri. Il sole pomeridiano riscaldava intensamente l'aria, resa piacevolmente mite dalla combinazione tra i raggi solari e la brezza oceanica. Era piena estate: le spiagge pubbliche erano intasate di turisti, che si contendevano ogni singolo centimetro quadrato libero per posare l'asciugamano sulla sabbia, piantare l'ombrellone e restare sdraiati fino al tramonto solo per un'abbronzatura che, nei giorni più caldi, rischiava di diventare una scottatura violacea. Subito dietro la spiaggia, gli ombrelloni e i chioschi delle bibite, cominciava immediatamente la giungla urbana. La scena era quella tipica delle grandi città: le auto sfrecciavano per tutte le corsie della carreggiata senza sosta, mentre ammassi di pedoni brulicavano lungo i marciapiedi come formiche. Ogni tanto, qualche bicicletta infrangeva la continuità di questo schema. Su una di queste pedalava una ragazza bionda, con la coda di cavallo e gli occhi verdi. I lineamenti delicati le davano un'aria dolce e raffinata, ma priva di superbia. Il suo nome era Laura Hamilton.

Mentre pedalava, Laura ascoltava la versione strumentale di una canzone dei Queen con le cuffiette, nonostante il codice della strada imponesse chiaramente di prestare orecchio solo ai suoni circostanti. Anche la sua mente era altrove, sebbene lei badasse più o meno attentamente a quello che faceva. Laura, insieme ai suoi tre amici d'infanzia Sam Fox, Chloe Webster e Jack Thunder, si era laureata un anno prima con il massimo dei voti. Ognuno si era diplomato secondo la sua vocazione: Chloe era una patita delle lingue, Jack aveva il potenziale per essere il matematico perfetto, mentre Sam era interessato alla meccanica. Laura, invece, amava qualcosa a cui sempre meno persone si interessavano: la paleontologia. Purtroppo, proprio perché tale settore era in declino, per lei era difficilissimo trovare qualche posto, anche solo per un periodo di prova, adatto ai freschi di studio. E quei pochi che aveva trovato cercando su Internet erano o dall'altra parte del mondo, o già falliti da mesi. Invece, un paio di giorni prima, era venuta a sapere di un centro per le ricerche paleontologiche che si occupava sia di studi in laboratorio, che di ricerche sul campo. Ed era proprio lì, a Sidney. Per la precisione, avevano sede all'interno del complesso di un museo di scienze naturali nel centro di Sidney.

Dopo averlo scoperto, Laura si era messa in contatto coi dirigenti di quel centro, i quali le avevano dato appuntamento per il pomeriggio del 3 gennaio 2019. Ed era proprio in quella direzione che stava pedalando, in preda all'ansia. Si era accertata di avere con sé ogni singolo dettaglio del suo curriculum, in cui erano indicati gli indirizzi di studio che aveva frequentato nella sua vita. Sperava con tutta se stessa che fossero colpiti dai grandi risultati coi quali era uscita dall'università e che non scartassero l'idea di assumerla per un qualsiasi motivo passato loro per la mente. Finalmente, dopo aver attraversato praticamente mezza città, raggiunse il museo in questione. Scese al volo dalla bici, la lasciò nell'apposito parcheggio legandola con la catena di sicurezza e si tolse le cuffie. Controllò rapidamente la borsa e prese le schede del curriculum per verificare per l'ultima volta che ci fosse tutto. Quindi sospirò, entrò nel museo, mettendosi a cercare l'area destinata al centro di paleontologia. Non fu difficile: sopra una porta c'era una targa riportante il nome del centro. Laura entrò e andò al bancone della segretaria.

«Buongiorno! Lei è...» le chiese la donna.

«Laura Hamilton. Ho un appuntamento qui alle quindici»

«Un momento, cerco il suo nome nella lista degli appuntamenti. Hamilton... Hamilton...»

Laura osservò la segretaria. Era la tipica addetta alle scartoffie burocratiche: giovane, snella, scattante, con gli occhiali e lo chignon a cipolla.

«Sì, eccola. Prego, si sieda: il capo la riceverà tra un istante»

«Grazie»

Dunque Laura si sedette a ridosso della parete e cominciò l'attesa insieme agli altri aspiranti paleontologi, giunti lì con il suo stesso scopo. A Laura sembrarono ore, quando in realtà ci volle solo una trentina di minuti prima del suo turno. Finalmente, verso le tre del pomeriggio, il capo uscì dal suo ufficio, accompagnando fuori l'ultimo che aveva provato ad ottenere il posto. Toccava a lei.

Eric Knight era un quarantenne di statura media, coi capelli neri leggermente spettinati e i baffoni alla Freddie Mercury. Il suo ufficio era personalizzato esattamente come Laura  pensava: mensole con sopra piccole teche contenenti impronte fossili a forma di conchiglie impresse nella pietra, uno scheletro umano da esposizione in un angolo vicino alla finestra e  un bonsai di abete rosso sulla scrivania. Com'era ovvio, su di essa c'erano anche delle pile non troppo ingombranti di documenti, che sembravano quasi parte dell'arredamento. In questo  ambiente, Laura si sentì decisamente più rilassata e disinvolta, mentre il signor Knight sfogliava con attenzione la sua cartella. A volte sorrideva, altre volte inarcava le sopracciglia per poi  tornare a sorridere. Sembrava un tipo amichevole, attento al lato umano delle persone che lavoravano per lui. Alla fine, posò il curriculum sulla scrivania e, sempre sorridendo, le rivolse la  parola:

«Dunque, vedo che ti sei interessata a questo campo per tutto il periodo della tua formazione professionale. Sei appassionata sul serio, non è così?»

«Sì, davvero tanto - Rispose Laura, con una punta d'imbarazzo - Fin da piccola, leggevo tantissimi libri sugli esseri viventi del passato. Tutte le persone che conoscevo dicevano che era una  cosa da maschi, ma non mi è mai importato»

«E hai fatto bene: ci sono passato anch'io, eppure adesso sono qui» rispose il signor Knight.

“Però, mi piace questo tipo!” pensò la ragazza.

Allora, sempre più calma e sicura di sé, continuò il racconto:

«Quando le scuole hanno iniziato a specializzarsi, ho scelto tutti i corsi che parlavano di paleontologia. Adesso mi sento pronta per iniziare a lavorarci sul serio. Se vuole assumermi, lo faccia: non la deluderò»

Knight la osservò pensieroso per due minuti poi sorrise un'ultima volta e le disse:

«Molto bene. Un nostro ricercatore andrà in pensione fra alcuni mesi. Quando sarà andato via, il posto sarà tuo. Abbiamo un accordo?»

«Sì, certo! La ringrazio, signor Knight!»

«Di nulla, signorina Hamilton!»

Quando Laura uscì dal museo, il suo cellulare vibrò.

“Puntuali come un orologio svizzero!” pensò.

Guardò e trovò degli SMS da parte di sua madre, Chloe e Jack:

MAMMA
Ciao, tesoro! Com'è andato il colloquio? Ti hanno preso, vero? In ogni caso, sei comunque una bravissima ragazza, continua a seguire il tuo sogno! Ciao!

CHLOE
Ehilà! Fammi indovinare: ti hanno buttata fuori a pedate, giusto? No, scherzo. Come ti è andata? Se non ti vogliono, perseguitali fino alla morte ;)

JACK
Ciao, Laura! Hai finito? Spero che ti sia andata bene! Scusami, ma ora devo risolvere un problema informatico. Ci vediamo dopo!

Non c'era traccia di Sam, ma era perché, a quell'ora, non era ancora uscito dall'officina dove stava lavorando per un periodo di prova: avrebbe terminato alle sei. Laura comunicò la bella notizia a tutti quanti, poi tornò alla bicicletta e partì. Ma non stava dirigendosi all'appartamento affittato insieme ai suoi tre amici, da quando era indipendente dai genitori. Stava andando in biblioteca: avrebbe preso un bel libro, magari proprio sulla paleontologia o solo di narrativa per festeggiare con se stessa, magari un classico. Quel posto era sempre stato il suo punto di riferimento, in qualunque circostanza.

La biblioteca non era molto lontana dalla sua abitazione: avrebbe impiegato circa dieci minuti per rincasare, dopo aver preso un libro. La prima cosa che fece e che non dimenticava mai di fare quando entrava, fu salutare Jeremy, il bibliotecario, noto anche tra le persone che visitavano spesso quel luogo, come Uomo Arancione, per via dei suoi capelli e del suo pizzetto color mandarino. E in quel momento, guarda caso, stava mangiando un'arancia.

«Come va, Jeremy?» lo salutò Laura.

«Tutto tranquillo, come al solito. Hai già fatto il colloquio di lavoro?»

«Sì, è andato... d'accordo: come e quando l'hai saputo?»

«Le notizie girano. L'ho saputo da tua madre, da tuo padre, dai tuoi amici, da tutti i tuoi vicini... tutto questo negli ultimi due giorni»

«Ma certo» rispose Laura, sorridendo.

«Sai già cosa prendere?»

«No. Ma oggi ho voglia di leggere qualcosa di insolito. Proverò a cercare in quell'angolo polveroso dove tieni libri ignorati e dimenticati. Ti va bene?»

«Perché dovrei dirti se mi va bene? Siamo in una biblioteca: la scelta è libera. Basta che lo si riporti dopo un mese»

«Giusto. Ora vado».

Quindi si avventurò fra gli scaffali, fino a giungere a destinazione.

“Eccovi qua! Chi sarà degno di me, oggi?” pensò allegramente Laura, mentre cominciava a controllare i libri.

Jeremy sistemava lì qualunque volume che la gente non toccava da almeno due anni. Ma presto uno di quelli sarebbe stato riaperto da una ragazza dalla fantasia e dalla curiosità molto spiccate. In quel momento, lei stava cercando qualcosa sulla paleontologia. Quelli erano in gran parte grandi classici. Poi trovò una versione leggera de L'Evoluzione delle Specie, uno dei suoi libri preferiti. Sorrise e lo prese, ma solo per fare una sfogliata sbrigativa. Mentre lo rimetteva a posto, si accorse che, proprio accanto ad esso, c'era un secondo volume, il cui titolo attirò subito la sua attenzione. Intrigata, Laura posò quello che aveva in mano su un tavolino e prese l'altro. La copertina era molto scura, in cuoio. In alto c'era la firma di Charles Darwin.

“Però, questa mi è nuova” pensò la ragazza.

Il titolo, poi! Diceva:

GUIDA ZOOLOGICA ALLE STRAORDINARIE CREATURE DELL’ISOLA DI ARK

ALLA SCOPERTA DEGLI ANIMALI DEL PASSATO CHE VIVONO TUTTORA

Laura era davvero confusa: cos'era l'isola di ARK? Che significava "creature del passato che vivono tuttora?". Tutto ciò sembrava privo di senso. Ma Darwin non era il tipo che farneticava: era una persona che esponeva minuziosamente ogni argomento che si dovesse spiegare, senza tralasciare niente. Allora perché inventarsi le cose? Lo avrebbe capito meglio quella sera, leggendo il libro sotto le coperte. Quindi tornò da Jeremy, che aveva finito la sua arancia.

«Ma tu guarda! Hai preso proprio quello! Me lo ricordo»

«Davvero? Perché?»

«Me l'ha consegnato una signora, tre anni fa. Mi ha detto che parla di qualcosa a cui è impossibile credere. Alla fine nessuno ha mai voluto leggerlo, quindi l’ho messo nel dimenticatoio. Ma ora l'hai trovato tu, ora sta a te vedere cosa intendeva quella donna. Buona lettura!»

«Grazie. Arrivederci, Jeremy!»

Quando Laura uscì, osservò bene il dorso del libro prima di metterlo nella borsa. Quindi inforcò la bici e partì.

 

Laura giunse al condominio dove c'era l'appartamento suo e dei suoi amici. Mise la bici a posto, andò al portone e suonò il citofono. Una decina di secondi dopo, le aprirono senza dire niente.  

“Strano, di solito c'è Chloe che chiede chi è, prima di aprire” pensò la ragazza, iniziando a sospettare qualcosa.

Salì le scale fino al quinto piano, raggiunse la porta giusta e prese le chiavi dalla borsa. Aprì, entrò e si richiuse la porta alle spalle.


«Ragazzi, sono io!» chiamò, senza ricevere risposta.

«Ehi! Perché non rispondete? Chloe? Jack? – iniziò a girare per le stanze, ma non trovò nessuno – Non è divertente! Fatevi vedere subito, oppure...»

«Sorpresa!»

Qualcuno, alle sue spalle, le afferrò i fianchi, la sollevò di peso con una forza incredibile e le fece fare una giravolta.

«Cosa? Chi...»

Quando fu rimessa a terra, si girò e vide la robusta e muscolosa sagoma di Sam.

«Sam? Perché sei qui? Dovresti essere in officina»

«Ho ottenuto un permesso speciale esclusivo solo per oggi. Piuttosto, perché non dai un'occhiata in cucina?»

Laura, senza fare domande, ma lanciandogli uno sguardo sospettoso, eseguì. Intanto lanciò un'ultimo sguardo a Sam Fox: era un ragazzo ben piantato e dalla muscolatura definita, coi capelli rossi e ricci: dimostrava molto più di ventidue anni; era proprio tagliato per fare il meccanico. Laura entrò in cucina e trovò all'improvviso Chloe e Jack, che avevano dei ridicoli cappelli conici da festa di compleanno in testa. Chloe Webster aveva i capelli neri, il naso ricurvo e gli occhi marroni, dallo sguardo seducente per natura. Jack, invece, era biondo e sembrava l'esatto opposto i Sam: esile, timido e riflessivo.

«Hier ist unsere neue Paläontologin!» esclamò Chloe, mentre correva ad abbracciarla.

«D'accordo, cos'era?» chiese Laura, ridendo.

«Era tedesco - rispose l'amica - significava "ecco la nostra nuova paleontologa". Ci potevi arrivare!»

«Grazie lo stesso!»

«Ehi, ehi! Non le fate vedere la torta?» Ammiccò Sam, entrando a sua volta in cucina.

«Pure quella? Suvvia ragazzi, è solo un posto di lavoro!»

«“Solo”? Dici questa parola dopo tutta la fatica che hai fatto per ottenerlo?» chiese Chloe.

«Già, hai ragione: è il caso di festeggiare!»

Finalmente era scesa la notte. Tutti quanti dormivano, tranne Laura, che ora indossava il suo nuovo, buffo pigiama verde con un tirannosauro rosa da cartone animato e la scritta “Adorawwbile”: i suoi amici l’avevano in serbo come sorpresa oltre alla torta, un regalo a tema per festeggiare il suo nuovo posto di lavoro. Erano degli amici dolcissimi; comunque, Laura prese il libro, che non aveva mostrato a nessuno, si sdraiò sul suo letto e sfogliò le prime pagine. All'inizio, c'era una prefazione scritta con la precisa e ordinata grafia di Darwin:

In questa mia opera voglio parlarvi di fantastiche creature che tutti noi credevamo morte molto tempo prima che il diluvio universale devastasse la Terra.

Laura sorrise: aveva sempre trovato buffo che studiosi della categoria di Darwin credessero nel diluvio universale, nonostante le scoperte della loro epoca dimostrassero il contrario.

Durante il mio viaggio a bordo della Beagle, mi imbattei in una strana isola. Non era mai stata segnata su nessuna mappa, e attorno ad essa l'aria tremolava, come se ci fosse un velo di umidità calda. Volli approdarci da solo. Scoprii ben presto che l'isola era popolata da ogni genere di creatura antidiluviana, oltre che da una civiltà antichissima approdata lì seimila anni fa.

La curiosità di Laura divenne perplessità: qual era la vera intenzione del libro? Dopo quella prefazione avrebbe trovato un trattato scientifico o una falsa documentazione autobiografica? Forse il titolo l'aveva ingannata, sulle prime: si sarebbe aspettata quantomeno un'enciclopedia, ma ciò che aveva tra le mani pareva più un'opera di fantasia. Era un volume che si prendeva sul serio o, con un'ironia sottile, usava la scusa dell'enciclopedia per raccontare un'avventura immaginaria dal tono scientifico, sulla falsariga di Jules Verne? Presumendo che sarebbe diventato più chiaro in seguito, Laura fece spallucce e continuò a leggere la premessa.

Diedi all'isola, chiamata Pulà nella lingua dei suoi abitanti, il nome di ARK, poiché aveva funto da arca di Noè agli animali antidiluviani. Gli indigeni vennero battezzati Arkiani. Scoprii con immensa meraviglia che, in qualsiasi lingua mi rivolgessi a loro, essi comprendevano e rispondevano senza difficoltà. Ipotizzo che la loro lingua natia, indecifrabile alle orecchie di qualsiasi persona non residente su ARK, abbia un'origine ed un'etimologia connessa e in comune con tutte le altre lingue che, millenni dopo, si svilupparono nelle regioni del mondo. Si tratta di una lingua fonetica, che alterna piuttosto regolarmente le consonanti e le vocali, cosa che la rende piuttosto facile da pronunciare per certi locutori e difficili per altri. Studiando il loro vocabolario, ho trovato parole imparentate con lingue fra le più antiche ed esotiche, dal sanscrito all’indoeuropeo all’azteco. E, in qualche modo, grazie ad essa agli Arkiani non occorre studiare per imitare e capire tutti gli altri idiomi. Vi metto qui una frase in arkiano:

“Mi chiamo Charles” si traduce in “Ic ecavluc Charles”.


Laura sorrise ancora: l'autore, che ormai dubitava fortemente essere davvero Darwin, pareva essersi pure preso la briga di inventare un'intera lingua artificiale, magari per aumentare la verosimiglianza della sua opera.

“Questo piacerà sicuramente a Chloe. Se da qualche parte c'è scritto come si crea questo linguaggio, glielo farò vedere” pensò.

Un altro dettaglio incredibile è che, su ARK, ci sono tutti gli ambienti climatici presenti nel mondo, come se il Creatore avesse gettato una parte di essi in un luogo comune, senza un ordine o un motivo precisi. Affascinato, decisi di studiare e riportare sulla carta i comportamenti delle creature nel loro ambiente, nonché il modo in cui gli Arkiani li impiegavano una volta addomesticati. Esattamente: su ARK, grazie ad un procedimento ideato dagli indigeni stessi, si possono addomesticare quasi tutte le creature: tutto ha inizio quando si lancia del cibo verso l'animale che si ha preso di mira. Questo fa in modo che la creatura venga incuriosita dalla generosità dell'umano e, se non c'è nessun'aggressione reciproca, la bestia smette di considerarlo una minaccia e la sua progressiva fiducia si riconosce quando si lascia toccare e accarezzare. Altri tipi di collaborazione, come aiutare l'animale a cacciare o a difendersi, non possono che aumentare l'efficacia del procedimento. Se tutto viene svolto come si deve, l'animale comincia a fare altrettanto e può anche dare dei piccoli regali in segno di ringraziamento. Anche ogni suo simile che si trova nei dintorni smette di mostrare segni di aggressività, a meno che non ci sia alcun “tradimento”. Quando ognuno dei due decide di prendersi definitivamente cura dell'altro, l'animale è ufficialmente addomesticato e fedele al padrone.

"Questa è una trovata simpatica. Se solo convincere la gatta dei miei a non odiarmi fosse così facile…" pensò Laura, con un sorrisetto.

Purtroppo, quando decisi di ripartire, scoprii che la cortina d'aria si era trasformata in un muro indistruttibile. Fortunatamente, trovai il modo di andarmene ma, pensando alle possibili conseguenze, mi rendo conto che non posso rivelarvi né come fui in grado di abbandonare l’isola, né l’epocale scoperta che feci scavando nel passato di quella terra eternamente fertile di sorprese: una scoperta in grado di rivoluzionare per sempre il nostro mondo e che, per questo, devo tenere segreta, per la protezione non solo di quel luogo meraviglioso, ma anche di tutti noi.

Il resto del libro era una raccolta di tutte le specie di questa presunta "isola preistorica". Laura diventava più confusa ad ogni pagina che sfogliava: le creature di ARK erano, in effetti, numerose specie preistoriche da vari periodi, dal Paleozoico al Cenozoico. Molte cose, però, non quadravano: tanto per cominciare, se fosse stato davvero un libro dell'epoca di Darwin, diversi animali non avrebbero dovuto essere noti alla comunità scientifica perché, semplicemente, nessuno aveva ancora rinvenuto i loro fossili. La cosa più evidente, però, era che gli animali illustrati in quel libro erano pieni di errori anatomici. A metà libro, quasi quasi le dispiacque di essersi già laureata: avrebbe potuto scrivere un'intera tesi in cui usava quel libro come modello per sensibilizzare la gente sul reale aspetto delle creature estinte e sul metodo migliore per fare una ricostruzione: ci aveva lavorato per anni. Uno degli errori che le fece scappare da ridere più degli altri furono gli arti anteriori del raptor: erano tenuti come le zampe di una mantide, quando invece quel portamento li avrebbe spezzati: in realtà le braccia erano tenute più parallele ai fianchi e coi palmi rivolti verso l'interno. Come se non bastasse, i nomi scientifici erano inventati di sana pianta: i generi erano corretti, ma le specie erano del tutto arbitrari. Per esempio, il tirannosauro di ARK si chiamava Tyrannosaurus dominum e non rex, oltre a non avere le piume. 

Quando fu vicina alla fine del libro, le opinioni di Laura su quel volume erano contrastanti. Da un lato voleva proprio sapere chi fosse il simpaticone che si era nascosto dietro il nome di Charles Darwin per camuffare una fantasia ben congegnata per un'enciclopedia, così da cantargliene quattro dopo tutte le blasfemie paleontologiche che aveva disegnato e descritto in quel libro. Dall'altro, doveva ammettere di essersi divertita: quel pomeriggio aveva deciso di prendere un libro perché voleva festeggiare il nuovo posto di lavoro con una lettura che la intrattenesse, cosa che quel "trattato" aveva fatto alla perfezione. Se lo prendeva come un sogno ad occhi aperti che l'autore aveva messo per iscritto mettendoci l'impegno di intavolarlo come uno studio inventato, ma credibile, era proprio un lavoro coi fiocchi. In ogni caso, alla fine giunse in fondo al libro e quello che vi trovò la confuse di nuovo. C'erano due pagine strappate, precedute da una nota scritta da qualcun altro.

Caro lettore o cara lettrice,
Nell'assurdo caso in cui tu abbia letto il contenuto di questo libro, mi sembra giusto confidarti cosa c'è dietro quest'enciclopedia. Se tutto questo ti sembra una pagliacciata, ti capisco benissimo: hai il diritto a non crederci e a sentirti preso/a in giro. Io voglio solo lasciare una traccia di me in questo volume, perché mi sembra giusto nei confronti di chi è stato nella mia situazione e ha avuto meno fortuna di me.

Mi chiamo Helena Walker, sono una biologa australiana e, nel 2008, ho avuto la sfortuna di naufragare nel posto di cui questo libro parla: ARK, l'isola preistorica. E nel lungo periodo in cui ci sono stata, ho fatto quello per cui vivo: ho studiato le meravigliose creature del posto, la loro ecologia, i loro adattamenti e così via. Qualunque biologo avrebbe fatto lo stesso al mio posto, no? Ho fatto la conoscenza di varie persone su ARK, nativi o naufraghi come me: alcuni sono diventati miei amici, altri non erano poi così ospitali, anche se erano "in buona fede". Non speravo di trovare un modo per tornare a casa, ma alla fine ne ho scoperto uno. E così, dopo una problematica ricerca sulle stranezze dell'isola e dopo aver rischiato la vita troppe volte, sono riuscita ad andarmene in compagnia di altri tre naufraghi. 

Quando ho trovato questo libro sull'isola, considerando chi l'aveva scritto, non credevo ai miei occhi. Ma non nego che è stato di grande aiuto nei miei studi biologici: fare ricerche con una traccia è sempre comodo. Ma ora, nel 2016, sono tornata nella mia città, Sidney, e qui non posso farmene più nulla. Ho ragionato molto su come dovessi "trattare" il periodo della mia vita trascorso su ARK, prima e dopo il mio ritorno. Avrei dovuto sperare che questo libro fosse una prova sufficiente e mostrarlo al mondo? O rassegnarmi all'idea che ciò che ho visto è troppo surreale e fare finta di niente? La risposta è ovvia: non ne valeva la pena.

Non so se questa enciclopedia sarà mai letta da qualcuno, una volta che l'avrò portato "al sicuro", ma una cosa è certa: che tu creda che questo libro sia serio o una farsa, ARK è un posto straordinario. Nonostante tutto, credo che ne avrò sempre dei bellissimi ricordi.

Helena Walker

Con la testimonianza dei due amici che ho conosciuto su ARK:

Sir Edmund Rockwell

Mei-Yin Li

E del nostro compagno di naufragio:

Gaius Marcellus Nerva


E così terminò la lettura di quel bizzarro volume. Laura si sentiva disorientata, quasi a disagio. Ormai si era convinta di aver inquadrato quell'enciclopedia fittizia, ma quella nota lasciata da tale Helena Walker le aveva fatto tornare il dubbio. Che roba era? Faceva parte della finzione? Helena Walker era la vera autrice del libro e aveva scritto quella pagina per citarsi, così che il lettore potesse risalire a lei senza far crollare l'atmosfera del racconto inventato ma verosimile? Oppure, magari, in fondo, c'era una remota e minuscola possibilità che quell'isola fosse reale? Ma la ragazza scacciò il pensiero non appena le sfiorò la mente: non doveva cascarci, era ridicolo. Doveva ammettere che era molto stanca e che stava rimanendo sveglia troppo a lungo: non era facile pensare con fredda razionalità. Così, dopo uno sbadiglio, ripose il libro sul comodino accanto al letto, spense la torcia del cellulare e si sdraiò per dormire.
“Forse lo faccio vedere ai ragazzi, domani. Sì, perché no” si disse, prima di lasciarsi andare al sonno.

ANGOLO AUTORE

Ringrazio dal profondo dell'anima la mia stimata mentore Maya Patch per la fanart di Laura che legge l'enciclopedia e i ritratti di lei e degli altri personaggi che ha realizzato o realizzerà per me! Sei sempre la migliore :D Andate pure a leggere la sua FF di ARK, se siete curiosi di scoprire l'universo canonico del gioco! E ti ringrazio anche per aver creato con Photoshop i nuovi divisori di paragrafi per le mie storie!

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Capitolo 2
*** Helena Walker ***


La mattina dopo, Laura si svegliò più rintronata che mai: doveva essere rimasta sveglia per leggere molto più di quanto non le sembrasse. Chloe si era svegliata poco prima di lei, ma le concesse di andare in bagno per prima, perché la bionda era sempre stata più rapida. Mentre si lavava la faccia e si vestiva, Laura provò a riflettere ancora su alcuni dei dettagli più strani dell’enciclopedia, cercando di indovinare quale fosse la verità dietro la sua scrittura, ma si arrese presto: sarebbe stato molto facile parlarne con gli altri, anche solo per farci due risate sopra. Una volta che ebbe finito di sistemarsi, tornò nella stanza delle ragazze e, mentre Chloe le dava il cambio in bagno, prese il libro dal cassetto del suo comodino e si diresse verso la cucina tenendolo sottobraccio.

Trovò Jack in piedi davanti alla macchinetta del caffè, intento a fissare con un’espressione da zombi la tazza che si riempiva lentamente. Lo salutò, il che lo fece come “riscuotere” dal dormiveglia quando le rispose, prese un pacchetto di biscotti, anche se non aveva davvero appetito (era più che altro un gesto meccanico) e si sedette al tavolo, poggiando il libro davanti a sé. Jack, quando si voltò bevendo il primo piccolo sorso di caffè bollente, si accorse subito del volume e le rivolse uno sguardo incuriosito:

«Cos’è quel libro?» domandò.

Laura fece spallucce, mentre masticava un biscotto quasi senza pensarci. Gli rispose dopo aver mandato giù il boccone:

«L’ho preso ieri in biblioteca, avevo voglia di festeggiare il nuovo lavoro con me stessa così. Il fatto è che mi è sembrato talmente… particolare che mi è venuta voglia di farvelo vedere»

«Ah, sì? Uhm… - Jack si avvicinò per leggere il titolo – Charles Darwin, eh? È proprio da te»

«Sì, lo ammetto. Ma credo che sia solo un prestanome. Adesso vedrete»

Poco dopo, anche Chloe entrò in cucina e notò all’istante il libro sul tavolo. Lanciò uno sguardo interrogativo a Laura, che fece per risponderle, ma fu interrotta quando la porta dell’appartamento si aprì all’improvviso: Sam era appena rientrato dalla corsa che faceva tutte le mattine all’alba per tenersi in forma, visto che dopo aver trovato lavoro in officina aveva preferito non iscriversi a numerosi sport come faceva all’università. Il rosso, con gli abiti inzuppati di sudore, gli occhiali da sole e le cuffie alle orecchie, mise piede in cucina praticamente a passo di carica mentre cercava di respirare regolarmente. Quando vide i tre amici radunati lì in silenzio con delle espressioni confuse, si fermò con aria disorientata e si tolse gli occhiali, rivelando di essere interdetto quanto loro.

«Ehi, c’è qualcosa che non va? È morto qualcuno mentre correvo?» scherzò, per farsi rispondere.

«La paleontologa ci ha fatto trovare questo sul tavolo, di punto in bianco» spiegò Chloe, indicando il libro.

«Oh?»


All’improvviso, Sam fece guizzare il braccio e afferrò il libro, cogliendo Laura alla sprovvista e facendola sobbalzare. Prima che la bionda potesse protestare, Sam aprì il volume in un punto casuale e sfogliò un paio di pagine, con uno sguardo divertito:

«I disegni di questi dinosauri mi ricordano quei libri da cui eri ossessionata quando eravamo piccoli! Vi ricordate, ragazzi?»

«Ah, è vero! – sorrise Chloe – Le volte in cui uscivamo tutti insieme, che voi due giocavate a calcio, io facevo il tifo e Laura leggeva in disparte. Ti ricordi ancora quanto avevi paura del pallone, Jack?»

«Fin troppo bene, dovevi per forza farmici ripensare?» sbuffò Jack, imbarazzato.

Laura arrossì per un attimo, poi si decise ad imporsi e, gentilmente ma con fermezza, si riprese il libro dalle mani di Sam stando attenta a non danneggiarlo, tirando un sospiro di sollievo quando vide che non si era strappata nemmeno una pagina, nonostante Sam fosse praticamente un demolitore di libri da che aveva memoria.

«Sì, forse ci somigliano un po’, ma credetemi: neanch’io ho mai letto qualcosa di così… non so neanche se dire “strano”, in tutta onestà. Vi andrebbe di sentire due parole su questo libro, dopo che Sam si sarà fatto una doccia?» propose.

«Ce lo chiedi pure? Hai giocato alla misteriosa fino ad adesso, come faccio a non voler sapere di più? Basta che non ci metti troppo: alle dieci devo andare a insegnare greco» replicò Chloe, incrociando le braccia.

«D’accordo, allora cerco di lavarmi in fretta. Hai incuriosito anche me!» esclamò Sam, prima di andare in bagno.

Più o meno cinque minuti dopo, il rosso tornò dalla stanza dei ragazzi coi vestiti puliti, quindi presero tutti posto al tavolo, con gli occhi puntati su Laura. La ragazza si spostò la coda di cavallo dietro il collo, prima di aprire il libro e iniziare a spiegare il contenuto dell’enciclopedia e perché le sembrava così enigmatico. Lesse ad alta voce la prefazione di Darwin e Jack, che ascoltava con attenzione quasi devota, commentò:

«Be’, ha senz’altro del particolare, ma credo che ti sia già risposta da sola: un autore ha immaginato di essere Darwin e ha aggiunto un pezzo al suo viaggio intorno al mondo. Non c’è forse il diario del viaggio sulla Beagle?»

«Lo so, l’ho letto – rispose Laura – è come un romanzo storico, ma a diario, solo che il resto è un’enciclopedia che si prende parecchio sul serio come se fosse vera. Il punto è questo: non può essere vera, ci sono troppi errori!»

«Errori in un libro sui dinosauri? Sai che novità» ridacchiò Sam.

Laura resisté alla tentazione di levare gli occhi al cielo e proseguì:

«È vero, Sam, la paleontologia rasenta la speculazione, ma qui è diverso. Vi faccio un esempio, uno a caso»

Sfogliò varie pagine, cercando di scegliere una creatura piuttosto di nicchia, e quando ne trovò una adatta girò il libro sul tavolo per permettere ai suoi amici di leggerlo.

«Cosa vedete qui?» chiese.

«Ehm… un mostriciattolo schifoso coi peli?» scherzò Sam.

«Pegomastace» lesse Jack ad alta voce.

«Vuol dire “mascella forte”, a proposito» precisò Chloe, non resistendo alla tentazione di tradurre.

«Ah! Fateci caso: più sono brutti, più epici sono i nomi» ironizzò il rosso.

«Esatto. E, come potete vedere, questa pagina ne parla come se lo scrittore ne avesse tenuto d’occhio uno vivo per settimane, se non mesi. Sapete qual è la cosa divertente? Darwin è vissuto nell’Ottocento, mentre il pegomastace è stato scoperto nel 1966 e il nome è stato scelto nel 2012. Un po’ in anticipo, non trovate?»

«Certo, perché non è in anticipo, è stato scritto oggi! È da quando hai iniziato il discorso che è scontato» fu il commento di Chloe.

«Non hai visto il nome dell’autore da qualche parte? – le chiese Jack – Voglio dire, ha usato Darwin come pseudonimo per fare l’enciclopedia immaginaria, ma di solito lasciano un indizio su chi sono o, comunque, la gente lo sa»

«Appunto, non hai letto qual è la Casa editrice, la stampa e tutte quelle cose scritte in piccolo a cui nessuno si interessa quando legge un libro?» domandò Sam.

Laura fece spallucce, serrando le labbra:

«No: nessuna sede, indicazione o data di stampa; è un libro fantasma. Prima, mentre mi vestivo, ho provato a cercare il titolo su Internet, ma non esiste. Sul serio, a momenti credeva che stessi facendo una ricerca su Noè. La cosa più vicina al nome di un autore che ho trovato è questa»

A quel punto, andò in fondo all’enciclopedia, dove c’erano le pagine strappate. Mostrò agli amici il messaggio di Helena Walker, oltre alle firme degli altri tre individui sconosciuti. Jack allargò le braccia:

«Be’, i casi sono due: o questa è l’autrice e ha finto di essere la protagonista della sua stessa invenzione, o è un personaggio con una lettera finta che lo scrittore ha aggiunto per dare più atmosfera al libro. Qualunque sia la verità, dobbiamo riconoscergli che ha una gran bella fantasia»

«Quello è sicuro: ha reinventato uno ad uno i nomi scientifici, come per ammettere che i suoi dinosauri non erano accurati! Per esempio, il barionice si chiama Baryonix aquafulgur anziché walkeri»

«Sul serio? “Folgore dell’acqua”?» ridacchiò Chloe.

«Aspetta, questa facciata di trama che il libro vuole mettere in piedi non ha senso… a che serve confondere il lettore parlando di una “scoperta sensazionale segretissima da non dire mai”, se poi non ci torna più? A questo punto, descrivi i dinosauri e basta. Lo stesso vale per la lettera alla fine: questa Helena parla come se volesse farsi compatire, ma a chi legge cosa dovrebbe importare?» borbottò Sam, tamburellando le unghie sul tavolo.

«Me lo sono chiesta anch’io – sospirò Laura – Vedete, è per questo che non riesco a pensare del tutto che sia finto: si capisce che lo scrittore sa di star fingendo, eppure è pieno di questi dettagli che mi danno l’idea che forse, in fondo… è frustrante, ragazzi, ve lo confesso. Be’, resta comunque un libro carino da leggere nel tempo libero. Comunque, ho finito: grazie per avermi ascoltata, ora potete pensare ai vostri impegni»

«Ed ecco che la parte interessante della giornata è finita – sbuffò Jack – Voglio vedere quante volte verranno da me solo per farmi sistemare il cestino di una fotocopiatrice, oggi»

I due ragazzi fecero per alzarsi ma Chloe, che aveva rimuginato in silenzio fino a quel momento, chiese di colpo:

«E se lo chiedessi direttamente a lei?»

Laura, che si era distratta rileggendo ancora una volta quell’ultima pagina, alzò la testa di scatto:

«Come hai detto?»

Chloe si strinse nelle spalle e indicò il libro, come se avesse fatto la proposta più ovvia del mondo:

«Perché non lo chiedi a questa Helena Walker? Meglio una risposta brutta che non averla mai, non trovi?»

Sam si strofinò il collo, con aria intrigata:

«In effetti è vero: siamo stati qui a farci mille domande e poi bastava chiedere a chi ha pensato questa roba»

Laura, interdetta e anche un po’ imbarazzata, rimase inebetita per vari secondi, non sapendo proprio come prendere il suggerimento dell’amica. Quando anche Jack ammise che non era una cattiva idea, si decise ad aprire bocca:

«Sul serio? Pensate che sia così facile?»

«Be’, sì» annuì Chloe.

Jack rifletté, tenendosi il mento fra il pollice e l’indice:

«A pensarci bene, ha senso. Mettiamo che Helena Walker sia l’autrice del libro e non un personaggio; in tal caso, è quasi certo che usi qualche social. Non ho mai sentito parlare di uno scrittore che non sia attivo su almeno una piattaforma, oggi. Vuoi che la cerchi io? Ci metto un secondo» si offrì, sorridendo.

«Te l’avrei chiesto comunque» ammise Laura, con un sorrisetto.

«Questa faccenda sta prendendo una piega che non mi aspettavo. Comunque, io vado in officina» disse Sam, prima di salutare e andarsene veloce come il vento.

«Io invece inizio a preparare i materiali per il corso. Fatemi sapere, voi due!» Chloe si congedò a sua volta.

In pochi secondi, Laura e Jack rimasero soli nella cucina a fissarsi, indecisi su cosa fare esattamente. Alla fine, lui era stato così concentrato sul partecipare alla discussione che gli si era raffreddato il caffè. Quando se ne accorse, sospirò e lo ripose sul piano della cucina, prima di chiedere a Laura cosa preferisse:

«Ti faccio la ricerca adesso o dopo?»

La bionda ci pensò un po’ su, ma alla fine rispose:

«Sai una cosa? È stata Chloe a tirare fuori l’idea, quindi perché non cerchiamo questa Helena Walker insieme, quando voi tre avete finito di lavorare? Io darò una lavata al pavimento, non ho altro da fare»

«Va bene, come vuoi» sorrise Jack, prima di andare a prepararsi per uscire.

Laura rimase in cucina a riflettere in silenzio finché i suoi tre amici non se ne furono andati, lasciandola da sola. Alla fine, rendendosi conto di avere le stesse domande di prima, se non ancora di più, sospirò e ricominciò a leggere alcune pagine del libro di Darwin, riprendendo l’innocente giochetto di scovare tutte le inesattezze paleontologiche. Se davvero c’erano delle risposte, le avrebbero scoperte insieme quella sera.

Il resto della giornata trascorse normalmente: come aveva annunciato, Laura lavò i pavimenti e dopo, siccome finì prima del previsto, anche i vetri delle finestre. Una volta terminate le pulizie, non ebbe un’idea migliore di continuare a leggere l’enciclopedia, però ad una panchina sul lungomare, giusto per stare all’aperto: quel libro sembrava non stancarla mai, i suoi dettagli misteriosi che sembravano reali e inventati al contempo avevano un fascino morboso. Ogni tanto, Laura interrompeva la lettura e, tenendo l’enciclopedia sulle gambe, provava a sognare ad occhi aperti sul suo futuro lavoro: cercò di immaginarsi smarrita fra gli scaffali di un archivio di reperti, impegnata a riordinare i fossili etichettati, oppure sul fondo di una buca ad un sito di scavo con dei colleghi per dissotterrare una matrice di pietra con l’impronta di un fossile, il giorno in cui ormai sarebbe stata abbronzata come Sam a causa dei giorni trascorsi a scavare sotto il sole. In tutto questo, non poteva fare a meno di tenere un sorriso compiaciuto per aver davvero realizzato il sogno di una vita.

Nel tardo pomeriggio, rientrò all’appartamento poco prima che i suoi amici, ciascuno al suo orario, tornassero dal lavoro. Non ci fu niente di insolito, prima e durante la cena, anche se mentre mangiavano ebbero una breve ma vivace discussione su quale film guardare insieme quella sera, una cosa che facevano praticamente da sempre, da quando convivevano. Ma, non appena Laura e Chloe ebbero lavato le stoviglie e i ragazzi ebbero sparecchiato, Jack tornò sull’argomento che tutti aspettavano in silenzio, puntuale:

«Allora, vogliamo scoprire se questa Helena Walker esiste o no?» esortò.

«Sì» annuì Laura, iniziando a sentirsi tesa.

«Su, leviamoci questo pensiero» incoraggiò Chloe.

I quattro si radunarono nella stanza dei due ragazzi, dove Jack iniziò a fare ricerche su quel nome dal suo portatile, stando seduto sul letto. Nel frattempo, quasi con ossessione, Laura rilesse ancora e ancora la nota alla fine del volume, fissando anche le due pagine stracciate chiedendosi cosa potessero mai contenere. Erano andate perdute per sbaglio o erano state strappate apposta? Non sapeva spiegarsi come avesse fatto a chiederselo, visto che la risposta non poteva essere che la seconda. Dopo vari minuti, Jack non aveva ancora trovato niente che sembrasse collegato al libro di “Darwin”, così Sam disse, con una punta di imbarazzo:

«Non per fare il guastafeste, ma non credete che stiamo prendendo questo “mistero” troppo sul serio? Eddai, alla fine è solo un libro!»

Chloe, che stava appoggiata al muro con le mani dietro la schiena, gli rivolse un’occhiataccia simile a quella che una madre lancia ad un bimbo che dice una cosa sconveniente:

«Chi ti ha detto che lo stiamo prendendo sul serio? È solo una curiosità…è praticamente il motivo per cui la gente fa ricerche su Google»

«No, Sam ha ragione – ammise Laura – Jack, se non trovi davvero niente, lascia pure perdere: alla fine, non è poi così importante se scopro cosa c’è dietro questo libro»

Il biondo, in quel momento, staccò lo sguardo dal portatile e le rivolse un sorriso complice e soddisfatto:

«Non ti preoccupare, non è questo il caso: mi sa che ho trovato la donna che stiamo cercando!» esclamò.

«Cosa? Ci sei riuscito sul serio?» chiese Sam, fissandolo con incredulità.

Tutti e tre si accalcarono all’istante accanto a Jack per osservare lo schermo, mettendolo a disagio e facendolo arrossire un po’, e lessero quello che aveva trovato: un profilo Facebook che portava, difatti, il nome di Helena Walker. L’immagine di profilo era una suggestiva foto che mostrava una donna girata di spalle, con degli abiti da deserto e i capelli corti e castani, che osservava con le mani sui fianchi il sole che sorgeva su un immenso deserto dalla sabbia rossa. Sullo sfondo, anche se lo si poteva distinguere a malapena a causa delle ombre, si intravedeva un gruppetto di canguri.

«Più Australia di così, si muore» scherzò Sam.

«I dati pubblici nel suo profilo sembrano corrispondere tutti – affermò Jack – Helena Walker, australiana, residente a Sidney, biologa; è quello che dice in quella nota, o sbaglio, Laura?»

«È proprio così» annuì la bionda, emozionata all’improvviso.

«Diamo un’occhiata ai suoi post, potrebbero dirci qualcosa sul libro!» suggerì Chloe, con tono vivace.

Jack non se lo fece ripetere due volte e passò subito a scorrere i vari post della biologa, andando fino al primo per poi esaminarli in fretta in ordine cronologico, in cerca di informazioni utili a quello che stavano cercando. I ragazzi notarono subito che Helena non era molto loquace su Internet: tra le sue pubblicazioni su Facebook c’era sempre un intervallo che oscillava tra le due settimane e i tre mesi. Erano quasi sempre incentrati sulle ricerche su una particolare specie animale, sui preparativi e i momenti più emozionanti di una spedizione a cui la donna partecipava in luoghi lontani ed esotici e, in rari casi, piccole condivisioni della sua opinione su certe questioni biologiche ancora aperte. Laura non poté trattenere una lieve risata quando lesse un post in cui Helena si diceva convinta che nelle gobbe dei dromedari ci fosse acqua.

«Aspetta, i dromedari non avevano grasso o roba simile nella gobba?» chiese Sam, confuso.

«Sì, infatti questa è un’idiozia – annuì Laura – Fammi vedere. Oh, ma certo»

«Cosa?» domandò Jack, curioso.

«Ha scritto questo post nel 2007. Invece la verità definitiva sulle gobbe dei camelidi fu stabilita nel 2009. Be’, allora le posso concedere il beneficio del dubbio. Comunque, non c’è neanche un accenno all’enciclopedia?»

«Per ora, no» scosse la testa il biondo.

«Non so, a me non sembra tanto una scrittrice: fa solo la biologa! E sbaglia pure le teorie, a quanto pare» commentò Sam.

Chloe ridacchiò e gli rivolse un sorriso sarcastico:

«Sam, amore della mamma, forse non l’hai notato perché hai passato la vita su una pista di atletica e a riparare motori, ma questa è l’era di Internet: chiunque abbia una tastiera e nessuna vergogna potrebbe improvvisarsi scrittore e iniziare a dire la sua in televisione come se fosse un dio» scherzò.

«Uhm… in effetti è vero. Scusa, mammina» riconobbe il rosso, stando alla battuta.

«Eh, fidati: mi è toccato tradurre certe schifezze che non sembravano neppure scritte da una persona» sospirò la mora.

Jack continuò a scorrere gli annunci di Helena Walker, finché lui e Laura non notarono un dettaglio sospetto: la distanza di tempo tra gli ultimi due post del profilo. Il penultimo risaliva al 2008, il più recente al 2016. Mentre Chloe, trascinata dai ricordi, condivideva altri dettagli sulle sue traduzioni universitarie con Sam, i due si scambiarono un’occhiata perplessa e, spontaneamente, guardarono insieme la nota in fondo all’enciclopedia di Darwin: Helena sarebbe naufragata su ARK nel 2008 e ne sarebbe uscita nel 2016. Stesso stacco di otto anni. Laura e Jack scattarono subito sull’attenti e lessero il contenuto dei due post: in quello del 2008, Helena Walker annunciava la sua partenza per una spedizione nel Pacifico per studiare dal vivo le megattere. Nell’altro, la biologa aveva scritto dei messaggi piuttosto criptici:

29 agosto 2016

Sono viva e sono tornata. Senza dubbio cambiata per sempre. Non credevo di tornare, ma eccomi qua. Non so come gestire questo ritorno, ma lo capirò. C’è solo una cosa che voglio dire: mentre ero via, sono stata il Galileo della biologia e i miei colleghi sarebbero la Chiesa, se raccontassi la mia storia. Ecco tutto. Spero di non esservi mancata troppo.


Laura richiamò l’attenzione di Sam e Chloe:

«Ehi, voi due, guardate qua: abbiamo un’informazione “azzeccata”, diciamo»

Essi lessero con attenzione i due post, ma sulle prime non capirono a cosa si stesse riferendo la bionda. Laura, levando gli occhi al cielo, fece rileggere loro l’ultima pagina del libro e fece notare ad entrambi la faccenda degli otto anni di distanza che apparivano sia nell’enciclopedia, sia nel profilo di Facebook. Riflettendoci bene, tutti e quattro furono alquanto interdetti: non poteva essere una coincidenza che, dopo il 2008, Helena fosse sparita dal suo profilo (e, molto probabilmente, dalla circolazione) e che fosse tornata otto anni dopo; proprio come diceva in quella pagina.

«Interessante. Forse questo libro è davvero un’autobiografia, in un certo senso» disse Chloe.

«Cosa intendi?» domandò Laura.

La mora scrollò le spalle:

«Quello che mi immagino è che questa Helena abbia avuto un brutto incidente quando è andata nel Pacifico a seguire balene e che abbia passato un lungo periodo orribile in mezzo all’oceano come in Vita di Pi, riuscendo a sopravvivere per miracolo. Quando è tornata a casa, è stata tranquilla e in silenzio per un bel pezzo perché era ancora segnata. Magari, in tutto questo, le è venuta l’ispirazione che le ha fatto scrivere questo libro per… non lo so, magari sfogare l’angoscia con l’immaginazione? È una biologa, nulla le impedisce di saperne qualcosa anche sulla preistoria»

Tutti la fissarono sgomenti per vari istanti, quando finì di esporre la sua ipotesi. Sam ridacchiò e le chiese da quando era diventata così tragica e fantasiosa e Chloe rispose semplicemente che aveva detto ad alta voce la prima idea che le era venuta in mente. Laura, nel frattempo, cominciava a sentirsi come sospesa nel vuoto: ormai aveva un desiderio così forte di venire a capo di quel curioso mistero, eppure le domande aumentavano ad ogni secondo che passava; finché non sentì Jack tirare un forte sospiro nervoso. Un po’ preoccupata, la bionda stava per chiedergli cosa ci fosse che non andava, quando l’amico propose:

«Sono d’accordo con quello che Chloe ha detto stamattina: dovremmo contattarla»

Gli altri lo guardarono con interesse e Chloe annuì con un sorriso compiaciuto, contenta che la sua proposta fosse supportata. Laura esitò per alcuni secondi, prima di rispondere:

«Come sappiamo che, scrivendole, risponderà? È pur sempre rimasta inattiva per tre anni: dopo quel post del 2016, il suo profilo è tornato morto. Magari qualunque cosa le sia successa l’ha segnata facendole passare la voglia di esporsi»

«Tu dici? Ha pur sempre scritto questo libro» le ricordò Sam.

Laura scosse la testa:

«Per caso è in circolazione? No, c’è solo questa copia e l’ha abbandonata in quella biblioteca. Almeno, mi sembra ovvio che ci sia solo questa qui»

«No, Laura, non intendevo scriverle – la corresse Jack – Intendevo capire dove si trova, così potrai andare a parlarle faccia a faccia. Insomma, abita nella nostra stessa città, perché non approfittarne? Non ci vedo niente di male e per te potrebbe essere interessante confrontarti con una ricercatrice che ha una visione così… ehm… speciale sugli animali estinti»

A Laura si scaldò il cuore per un attimo, sentendo quell’idea così altruista dall’amico, ma la tenerezza fu subito sostituita dalla sorpresa, quando si rese conto che Jack diceva sul serio. Sam sbarrò gli occhi:

«Com’è che proprio tu suggerisci una cosa simile? Sei ancora più timido di Laura! Senza offesa per tutti e due, eh. Però…»

«A me sembra una bella idea. Se le parli di persona, potrai avere la risposta a tutte le domande che hai su questo libro. Una piccola e innocente scoperta che potrai raccontare ai tuoi colleghi quando inizierai a fare la paleontologa» incoraggiò Chloe, allegra.

Sam, dopo aver guardato con perplessità sia Chloe, sia Jack, chiese loro:

«Posso sapere come mai state prendendo così tanto a cuore questa cosa? All’improvviso sembra che stiamo risolvendo un giallo»

La mora gli lanciò un’occhiataccia:

«Perché, tu non cercheresti di aiutare un’amica a risolvere una questione che le interessa?»

«Ma certo! Mi sembra solo strano» ribatté il meccanico.

Laura si schiarì la voce per attirare l’attenzione di tutti, quindi domandò:

«Ragazzi, grazie per l’attenzione, ma per voi è un problema se andiamo a parlare con Helena Walker tutti insieme? So che riguarda solo me e che ho iniziato io tutto questo discorso, ma mi conoscete: mi sentirei meno in imbarazzo se ci foste anche voi, non sono mai stata esuberante come te o sicura come te – ammise indicando Chloe e Sam – Almeno, se venite con me, sarò meno impacciata. Sempre se la troviamo, sia chiaro»

Tutti e tre i suoi amici si scambiarono un’occhiata comprensiva, poi annuirono e Chloe rispose, a nome di tutti:

«Se proprio vuoi che ti accompagnamo, lo faremo volentieri. In fondo, basta sempre aspettare un momento in cui siamo liberi tutti e quattro»

«Vi ringrazio» disse Laura, tirando un sospiro di sollievo.

A quel punto, stava per chiedere a Jack se conosceva qualche modo per capire, o anche solo dedurre a grandi linee, in quale punto esatto di Sidney abitasse Helena Walker. Ma, prima che aprisse bocca, Jack la guardò con fierezza e affermò di aver scoperto l’indirizzo della biologa. Laura rimase interdetta, non credendo che fosse stato così rapido e facile; dopo aver balbettato senza trovare le parole per alcuni secondi, riuscì a domandargli come c’era riuscito. Sam, con una smorfia ironica, disse che Jack doveva senz’altro conoscere qualche trucco da pirata informatico incallito all’insaputa di tutti che nascondeva dietro le sue apparenze innocue, abile com’era ai computer. Ma il biondo, dopo una risata divertita, spiegò che in realtà gli era bastato dare un’occhiata ai profili che seguivano quello di Helena Walker mentre gli altri discutevano.

«Cos’hai trovato?» chiese Chloe, curiosa.

Jack selezionò un profilo dalla lista degli amici di Helena e si soffermò sulla foto di una commemorazione, in cui c’erano fiori e lumini disposti davanti ad una palazzina. Allora spiegò:

«Davo per scontato che chiunque la seguisse fosse collegato a lei e alla sua professione, che fossero suoi amici anche nella vita reale o no. Helena Walker, a quanto pare, non si è vista né sentita dal 2008 al 2016 e, be’, a un certo punto la gente dà per morto chi scompare così a lungo. Devono aver fatto qualcosa in sua memoria, si fanno spesso delle veglie o dei tributi come quello in questa foto. Così ho dato un’occhiata a cosa dicevano i post tra il 2008 e il 2016 e ho trovato quello che cerchiamo: qui è riportato il nome della via per la commemorazione»

Nella didascalia dell’immagine, infatti, veniva citato l’indirizzo dove si trovava l’abitazione di Helena Walker, con un invito a passare e lasciare dei fiori o una dedica, se possibile.

«È stato facile» commentò Chloe.

«Be’, scusa se ho sospettato della tua buona condotta, Jack. E bravo il nostro nerd di fiducia!» esclamò Sam, battendogli una pacca sulla spalla.

«Ahi!» gemé il biondo, massaggiandosela.

«È fatta: abbiamo capito che Helena Walker è una persona reale e pure dove abita. Ora non ci resta che farle visita, giusto?» azzardò Laura, così stupita di avere una tale occasione da stentare a crederci.

«Sì» rispose Jack.

«In questo caso, aspettiamo un giorno in cui siamo tutti liberi e ci facciamo dare un passaggio da lei» propose la bionda.

«Allora ci conviene farlo domenica: nessuno di noi lavora alla fine della settimana» suggerì Sam.

«Direi che è fatta, allora! – esclamò Chloe – Sei contenta, Laura? Scoprirai la vera storia dietro questo libro!»

«Ma certo. Grazie ancora per avermi ascoltata, ragazzi. E per il tuo aiuto a rintracciarla, Jack» sorrise Laura.

«Oh! Figurati» farfugliò lui, arrossendo un po’.

A questo punto, Jack spense il portatile e i ragazzi si prepararono ad andare a dormire: quella ricerca insieme era durata più di quanto immaginassero. Laura non chiuse quasi occhio, quella notte: era troppo emozionata per la nuova piega che la faccenda aveva preso e non riusciva neppure a spiegarsi perché fosse elettrizzata, visto che, riflettendoci bene, era tutto scaturito da una curiosità praticamente frivola. Ma chissà, forse discuterne con Helena Walker avrebbe portato alla luce qualche sorpresa. Sarebbe stata a vedere.

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Capitolo 3
*** La verità svelata ***


Il giorno “fatidico” arrivò persino più in fretta di quanto Laura credesse. I ragazzi decisero di mettersi alla ricerca di Helena Walker quel pomeriggio: in fondo, non avevano alcuna fretta, né urgenza. Approfittarono del mattino per dei “preparativi”, come segnarsi l’indirizzo citato nel post della commemorazione della biologa e ricercare in anticipo quale percorso dell’autobus avrebbero dovuto seguire per raggiungerlo. Inoltre, Laura chiese a Chloe di suggerirle alcune dritte di eloquenza per sapere già cosa chiedere o rispondere se la conversazione avesse preso certe direzioni: la bionda chiedeva sempre questo favore all’amica prima degli eventi importanti, sapendo bene quanto fosse carismatica. L’aveva aiutata molto anche prima del colloquio di lavoro, infatti.

Decisero di partire all’avventura più o meno a metà del pomeriggio, dopo che Laura ebbe riesaminato ancora con attenzione i punti più “strani” della premessa di Darwin per ricordare di chiedere quegli specifici dettagli ad Helena una volta che avrebbe affrontato l’argomento assieme a lei. In pratica, stava pianificando un’intervista improvvisata. Chloe si raccomandava con lei di non lasciarsi prendere dall’agitazione, perché non c’era niente di cui vergognarsi, ma per lei era difficile non sentirsi in imbarazzo: stava pur sempre per irrompere nella vita di una donna che non conosceva e che non aveva la minima idea che qualcuno avesse trovato un libro di cui aveva cercato di liberarsi. Sam, in un goffo tentativo di farla sentire meglio, le confidò di starsi sentendo ancora più a disagio di lei perché non c’entrava niente, il che la fece sentire solo peggio e gli costò l’ennesima occhiata di rimprovero di Chloe. Jack, invece, non si esprimeva e Laura immaginò che volesse evitare di dire qualcosa di inappropriato.

Trascorsero la maggior parte del tragitto in autobus in silenzio e, ad ogni fermata, la tensione di Laura cresceva. Alla fine, arrivarono alla tappa a cui dovevano scendere e proseguirono a piedi seguendo le indicazioni, finché non riconobbero l’edificio inquadrato nella foto del post. Non aveva niente al di fuori dell’ordinario, non che la ragazza si aspettasse qualcosa di particolare. Per un attimo, però, si chiese se fosse possibile che Helena avesse cambiato casa dopo essere tornata nel 2016; al pensiero, sudò freddo, temendo che avessero appena fatto quel tragitto invano. Ma poté tirare un sospiro di sollievo quando, avvicinandosi al citofono e controllando i nomi, trovarono anche lei. Laura alzò la mano verso il tasto con fare titubante; prima di premerlo, si voltò verso i suoi amici alla ricerca di un incoraggiamento e loro tre la esortarono annuendo con un sorriso. E così, dopo aver tirato un forte sospiro per smorzare la tensione, Laura suonò il citofono. Ci fu silenzio (a parte i rumori della città alle loro spalle) per così tanti secondi che la bionda fu tentata di suonare una seconda volta, ma poi sentirono all’improvviso la voce di una donna:

«Chi è?»

Era una voce dolce e, per un motivo che a Laura sfuggiva, piuttosto rassicurante: soltanto udire quella breve e semplice domanda la fece sentire incredibilmente a suo agio, molta dell’agitazione scomparve. Così, senza indugiare oltre, Laura domandò:

«Lei è Helena Walker, giusto?»

«Certo. Chi parla?»

«Mi scusi tanto per il disturbo, signorina Walker, vorrei chiederle un paio di chiarimenti su un libro che ho trovato in biblioteca, di cui non ho mai sentito parlare. È firmato Charles Darwin, ma non è autentico e in fondo c’è una nota col suo nome, così ho pensato…»

«Un momento, lei chi è?»

Laura trasalì, rendendosi conto solo in quel momento di essersi precipitata subito sul motivo della visita senza presentarsi. Sforzandosi di non rimanere interdetta e sudando freddo, si sbrigò a rispondere:

«Oh, mi scusi! Mi chiamo Laura Hamilton, sono… ehm… sto per diventare una paleontologa. Ecco, ho trovato lavoro da poco e, per festeggiare, ho deciso di prendere un libro. Mi è capitato quello di cui le ho appena parlato tra le mani. Ho fatto alcune ricerche su di lei e ho deciso di farle alcune domande. Sempre se non le dispiace!»

Laura ebbe l’impressione che la donna si stesse agitando, o addirittura spaventando: non fu in grado di darle una risposta per molti secondi e la sua voce sembrava colma d’ansia. Alla fine, la biologa diventò leggermente scontrosa:
«Non ho mai scritto un libro, deve aver frainteso. Arrivederci»

«Cosa? Ma quella nota…»

«Esatto, quella nota è mia, non il libro. E non voglio averci a che fare. Se ne vada, per favore»

«Ma perché?»

«Non ha motivo di intromettersi: per me è tutta acqua passata, per fortuna»

Laura non aveva alcuna intenzione di permetterle di riattaccare, dopo tutto l’impegno che lei e i suoi amici ci avevano messo per rintracciarla, così passò subito alla prima domanda che le venne in mente per convincerla a non liquidarla:

«Allora chi è l’autore?»

«Mi sembra chiaro: Charles Darwin»

«Impossibile, è un apocrifo»

«No»

«E lei come lo sa?» insisté Laura, col cuore a mille.

Alle sue spalle, senti Chloe che la incoraggiava sussurrando di continuare in quel modo, di non smettere di replicare subito per spingerla a continuare a parlare. Helena Walker esitò per un istante, ma non riattaccò. Anzi, come la ragazza sperava, abboccò e continuò a rispondere:

«Io… scusi, ma a lei cosa interessa? Perché vuole saperlo?»

«Allora ne sa qualcosa, non è così?»

«E per quale motivo dovrei dirglielo?»

Laura valutò se fosse il caso di essere onesta o se dovesse deviare la discussione a sua volta, ma per istinto decise che dire la verità fosse la scelta migliore:

«Perché, in tutta onestà, sono molto interessata al contenuto di questa enciclopedia, specialmente ad alcuni particolari menzionati nella premessa e nella sua nota. Io voglio sapere. Se quest’opera è autentica, come mi ha appena detto, com’è possibile che Darwin conoscesse così tante specie preistoriche in anticipo rispetto ai suoi tempi? Perché tutte quelle creature sono così diverse da ciò che è stato ricostruito coi fossili? E ho molte altre domande. Non voglio nient’altro: risposte»

Ci fu silenzio, il che fece riemergere l’imbarazzo di Laura. Tuttavia, la biologa non riattaccò. Ad un certo punto, la ragazza iniziò a pentirsi del suo breve momento di ardore, ma alla fine ricevé la risposta in cui ormai non sperava più:

«E va bene. Salga pure»

Ci fu uno scatto e la porta della palazzina si aprì. Laura stava per ringraziare, ma alla fine la donna riattaccò sul serio. Con il cuore che le martellava ancora nel petto, Laura si girò e i suoi amici le fecero i complimenti, così ringraziò loro, in mancanza d’altro. La ragazza dovette sforzarsi per non fare un salto di gioia, tanto era emozionata per aver ottenuto quello che voleva. Mentre entravano, si ricordò di non aver menzionato il fatto di aver portato tre amici con sé, ma non si preoccupò molto: era la cosa meno difficile da spiegare, a quel punto.

I ragazzi, controllando i nomi sui campanelli, salirono fino al terzo piano, dove finalmente videro il nome della biologa. Laura, ancora emozionata, suonò e rimase in attesa. Poco dopo, sentirono la chiave che girava nel lucchetto e la porta si socchiuse: finalmente, Laura vide Helena Walker di persona. Era una donna che, se aveva più di trent’anni, li portava molto bene. Era alta una spanna più di Laura, quasi quanto Sam, il che stupì un po’ la bionda, perché non se l’aspettava. Aveva dei corti capelli castano scuro, gli occhi dello stesso colore e un volto lievemente allungato. Stava indossando dei semplici abiti casalinghi.

«Non mi aveva detto di avere compagnia» disse Helena, con tono diffidente, notando i tre amici della ragazza.

«Lo so, mi scusi tanto, ma mentre le parlavo dal citofono non ho avuto modo di farle presente. Loro sono i miei migliori amici: ho semplicemente chiesto loro di accompagnarmi perché sono timida, in situazioni come questa. Se vuole, possono aspettare di fuori»

«Per noi non sarebbe un problema» rassicurò Jack.

Helena esitò per alcuni istanti, serrando le labbra, ma alla fine scosse la testa:

«No, figuratevi: ormai siete venuti fin qui. Entrate»

«La ringrazio»

I ragazzi entrarono, ritrovandosi in un piccolo salotto con un tavolino e delle sedie, che Helena offrì loro. Laura prese posto ad una di esse e ne approfittò per dare un’occhiata al locale: c’erano alcune mensole su cui erano poggiati vari souvenir da luoghi esotici e fotografie, molto probabilmente delle spedizioni di Helena. Riconobbe una delle immagini: era la stessa del suo profilo di Facebook, ma incorniciata. Su altri ripiani, vicini alla finestra, c’era una collezione di ossi di animali vari, piccoli trofei come spine d’istrice e zanne di leone. In un cestone in un angolo, Laura intravide una raccolta di enciclopedie di biologia. Infine, esposti in una credenza al posto di stoviglie antiquate, c’erano dei saggi che riportavano le date degli anni in cui Helena doveva essere stata all’università e che riportavano la sua firma. Assieme ad essi, c’erano delle raccolte di fogli scritti a mano e arricchiti da bozzetti. In quel momento, Helena si sedette davanti a loro, all’altro capo del tavolino, ed esordì, con una nota di imbarazzo nella voce:

«E così, ha scoperto il libro che credevo di essermi lasciata alle spalle tre anni fa»

«Un momento – la interruppe Laura – Potrebbe darmi del tu, per favore?»

Helena rimase a occhi aperti per una frazione di secondo, prima di annuire e sorridere:

«Oh, va bene! Hai detto che ti chiami Laura, giusto?»

«Sì. Loro sono Sam, Chloe e Jack»

«Piacere» salutarono loro.

«D’accordo, in questo caso sei libera di chiamarmi Helena e darmi del tu» la rassicurò la biologa.

In quell’ultima risposta, Laura non percepì l’agitazione della donna per un attimo, trovandovi invece la stessa voce rassicurante e quasi materna che aveva sentito all’inizio della loro discussione al citofono. La ragazza pensò che, se quello era il tono con cui Helena parlava normalmente, doveva essere una persona deliziosa: se l’avesse conosciuta, probabilmente l’avrebbe adorata.

«Grazie, Helena – rispose Laura – Dicevamo: Jeremy… volevo dire, il bibliotecario, mi ha fatto un riferimento a te: gli dicesti che il libro parla di qualcosa a cui è impossibile credere»

«È vero. Tu ci ha creduto, quando l’hai letto?»

«Be’, no»

«Infatti. Per questo mi stupisce che abbiate persino fatto ricerche per trovarmi, solo per parlarmene. Che tipo di risposte ti aspetti da me, esattamente?»

Era andata dritta al punto ancora prima del previsto, il che mise Laura leggermente a disagio. La ragazza, però, non si scompose e ne approfittò per porle la domanda fatidica:

«So che sembra ridicolo da chiedere, ma considerando i vari “indizi” sparsi per il libro e quel poco che abbiamo potuto supporre su di te… è tutto vero? ARK esiste?»

A quel punto, Helena arrossì. Sembrava che cercasse di trattenersi dal rispondere. Il suo disagio era tale che iniziò a guardare da un’altra parte e a torcersi le mani, che teneva poggiate sulle ginocchia. Alla fine, dopo un sospiro nervoso, rivolse a Laura uno sguardo incerto e, apparentemente sforzandosi per dirglielo, le rispose:

«Sì»
Laura sentì una risatina sarcastica accanto a sé:

«Certo, come no» commentò Sam.

La bionda sentì anche un leggerissimo tonfo: Chloe doveva avergli rifilato un velocissimo colpetto di rimprovero sul braccio, come suo solito. Laura ebbe la tentazione di fulminarlo con lo sguardo per aver detto qualcosa di così umiliante per Helena, ma d’un tratto Jack provò ad incoraggiarla:

«Se è proprio così, potresti dirci di più su quell’isola? Magari dei dettagli in più rispetto al libro. Qualunque cosa, davvero»

Helena parve meno imbarazzata, forse si stava sentendo rassicurata per non essere stata mandata a quel paese. Allora si ricompose e domandò, ancora insicura:

«Cosa avete scoperto su di me, per la precisione?»

«Abbiamo dato un’occhiata al tuo profilo di Facebook. A quanto pare ti è successo qualcosa nel 2008 e sei tornata a casa solo otto anni dopo» rispose Laura.

La biologa annuì:

«Già… be’, mentre studiavo le megattere nel Pacifico, sono finita in una burrasca e sono quasi annegata. Alla fine di quell’incubo, mi sono svegliata su una spiaggia bianca, con giganteschi scogli ad arco e disseminata di cristalli azzurri. Vi giuro, per un pezzo ho creduto con tutta me stessa di essere nell’aldilà. Ci ho messo del tempo ad ambientarmi, ma ho scoperto presto tutto ciò di strano che quel posto ospitava. Creature preistoriche, ambienti climatici diversi letteralmente accostati l’uno all’altro, indigeni dalla pelle olivastra che capivano tutte le lingue e, infine, quella maledetta barriera invisibile al largo delle coste»

«La cortina d’aria tremante di cui parla Darwin?» chiese Laura.

Helena annuì:

«Esatto. Non potevo andarmene da lì: ero bloccata su ARK per sempre»

«Aspetta, allora come hai fatto ad approdare, se c’è un muro invisibile?» chiese Sam, confuso.

La donna fece spallucce:

«Che ne so? A quanto pare si può entrare, ma non uscire. Sull’isola ci sono più naufraghi di quanto credete. Prima di andare avanti, voglio mettere in chiaro una cosa: non sono rimasta su ARK per otto anni. Avevo perso la cognizione del tempo, ma vi garantisco che non sono stata lì così tanto»

«In che senso? Fino a prova contraria, sei tornata a casa tre anni fa» rimarcò Chloe.

Helena allargò le braccia:

«Non ve lo so spiegare, mi dispiace. Posso dirvi solo ciò che ho visto coi miei occhi. E ho visto naufraghi che venivano da altre epoche storiche, alcune molto lontane dalla mia. E, quando io e le tre persone con cui ho abbandonato l’isola siamo stati trovati e soccorsi, ho scoperto che era il 2016 di punto in bianco»

«Quindi l’isola manipola il tempo?» chiese Jack quasi ridacchiando, incredulo.

«Forse. Chi può dirlo? Fatto sta che i miei tre compagni di naufragio sono degli esempi dei naufraghi da altri tempi di cui ho appena parlato»

«Le tre firme in fondo alla tua nota. Chi sono?» si ricordò Laura.

«Ve ne parlerò tra un attimo. All’inizio mi sono rassegnata al mio destino, così ho fatto buon viso a cattivo gioco e ho continuato a fare il mio lavoro su ARK. Ho passato ogni singolo giorno sull’isola a cercare di capire fino in fondo la natura e la vita delle creature, sia quelle selvatiche, sia le loro controparti domate dagli Arkiani. Era incredibile quanto fossero docili e obbedienti, in cattività. E lo era ancora di più il fatto che così tante specie da continenti e periodi geologici differenti convivessero in perfetta armonia ecologica. Ero sempre più convinta che qualcosa controllasse l’isola o la regolasse, come uno zoo; ma purtroppo non ho mai scoperto una volta per tutte cose fosse»

«Molto interessante!» esclamò Laura, che iniziava a sentirsi coinvolta.

«Invece cosa puoi dirci dei suoi tre compagni? Se è vero che vengono da altre epoche, sono molto curiosa di sapere di loro» ammise Chloe, intrigata.

Helena fece un mezzo sorriso, prima di continuare a raccontare:

«Giusto. Da dove posso cominciare? Edmund è la persona che, più di tutte, mi è stata di aiuto e di supporto mentre studiavo ARK. Sir Edmund Rockwell, “galante gentiluomo, eccelso studente e farmacista straordinario”, come direbbe lui – aggiunse, con un sorriso – È un medico ed esploratore dalla Londra vittoriana: ha trovato ARK per caso in una spedizione per le isole dell’Oceania. Quando io sono naufragata, Edmund era già lo straniero più popolare fra i nativi: aveva aperto una farmacia e sperimentava con la flora locale per creare nuove medicine e intrugli che rafforzavano il fisico in vari modi»

«Un droghiere di fama, insomma» scherzò Sam.

Helena annuì:

«Sì, esattamente. Andavo spesso a trovarlo e discutevamo sulle nostre scoperte. Non avete idea di quanto mi abbia fatto bene avere un confidente come lui: ho sempre avuto bisogno di condividere le mie teorie con qualcuno e lui era l’amico perfetto. Quasi un maestro, in alcune occasioni. Certo, senza che me ne accorgessi c’è stato un malinteso e Edmund mi ha vista di cattivo occhio per molto tempo, prima che ci chiarissimo, ma tutto sommato non è una cattiva persona: è abbastanza egocentrico e a volte si sopravaluta, ma non conosco nessuno che dia valore alla scoperta quanto lui»

«Che tipo di malinteso?» chiese Jack.

«È complicato da raccontare, meglio se ci ritorno dopo. Poi c’è Mei-Yin, che si era fatta una reputazione su ARK come “la Regina delle Bestie nella giungla”. Viveva da sola ed era una domatrice abilissima: il suo contingente di creature faceva invidia persino ai cacciatori nativi. Mei è una guerriera dall’antica Cina. Non ho mai capito l’anno esatto, ma lei ha citato la rivolta dei Turbanti Gialli… una delle rarissime volte in cui l’ho convinta a parlare di sé senza dover fare i conti col suo sguardo. Da quel che ho capito, mentre difendeva il suo villaggio da un’imboscata dei rivoltosi fu fatta prigioniera e percorse una lunghissima strada per essere venduta come schiava. Fu imbarcata per l’Oceania, ma ebbe la mia stessa sfortuna: ci fu una tempesta. È rimasta in mare per mesi, prima di approdare su ARK. È diventata una mercenaria e ha aiutato gli indigeni nella guerra contro la Nuova Legione»

«Aspetta, cosa? Letteralmente una legione, come quelle dei Romani?» chiese Chloe, perplessa.

«Proprio così. E qui arrivo all’ultimo del gruppo, quello che ha fatto più casini di tutti: Gaius Marcellus Nerva. Vi dirò: tutti, me compresa, hanno creduto a lungo che fosse il “cattivo” della situazione, ma col tempo ci siamo resi conto che, nella sua testa, era convinto di star facendo del bene, in modo molto relativo. Era un centurione ai tempi di Traiano. Mi ha raccontato che la sua legione originaria fu incaricata di esplorare i territori più ignoti dell’Oriente, oltre l’Indo e le zone raggiunte da Alessandro Magno. Non oso immaginare per quanto abbiano marciato, fatto sta che sono arrivati al Pacifico ridotti all’osso»

«Un’intera legione romana ha marciato dall’Italia al Pacifico?!» esclamò Sam, incredulo.

«Pazzesco, ma vero: lui ne è la prova vivente. Arrivati all’oceano, costruirono una nave con l’aiuto della gente del posto e partirono; a quel punto, Gaius rimase da solo e naufragò su ARK. Una volta ambientatosi, ha deciso che gli Arkiani erano dei barbari da “salvare” dall’ignoranza e da civilizzare, così ha radunato un vero e proprio esercito chiamato “Nuova Legione” e ha iniziato a conquistare i villaggi delle tribù dell’isola, una alla volta. La prima volta che l’ho incontrato, mi ha fatta prigioniera dopo una battaglia contro le bestie di Mei. Era convinto con tutto se stesso di essere stato mandato lì da… Giove? Giano? Non me lo ricordo mai. Comunque, secondo lui, era destino: pensava che fosse giusto romanizzare gli Arkiani, anche con la forza»

«E alla fine come si è risolta la faccenda?» chiese Laura.

Helena si strinse nelle spalle:

«Quando ero la sua prigioniera, la sua era la tribù dominante di ARK, ma poi c’è stata una serie di eventi che hanno rovesciato le sorti da un momento all’altro. In quel periodo, io ed Edmund stavamo indagando su dei misteriosi manufatti che credevamo connessi alla barriera invisibile, come alla fine abbiamo dimostrato. A un certo punto, Gaius ne ha sentito parlare e ha preso Edmund con sé per saperne di più mentre i manufatti venivano radunati tutti a tre obelischi presenti sull’isola, perché si era convinto che fossero un’arma divina o una cosa del genere»

«Potresti dirci di più di questi manufatti e obelischi? Se sono collegati alla barriera, allora è così che sei tornata a casa, vero?» la interruppe Laura.

«Esatto, ma ve lo spiegherò meglio tra un attimo. L’ultimo artefatto, uno strano cristallo multicolore, doveva essere posizionato nelle rovine sull’Apoteosi, le isole volanti a Est di ARK. Gaius e i suoi legionari ci sono andati, ma purtroppo per loro era la tana di un gorilla di una ventina di metri che si comporta come una specie di “re” di ARK. I nativi lo chiamavano Kong»

Prima che la biologa potesse continuare, i ragazzi sbarrarono gli occhi e Sam scoppiò a ridere come un pazzo, battendo sonoramente le mani:

«Ahahahahaha! Questa è la goccia che fa traboccare il vaso! Geniale! Lo sai, per un attimo mi hai ingannato per davvero» ammise.

«Scusami?» domandò Helena, perplessa.

«Davvero, con tutti quei dettagli sulla barriera, gli indigeni, l’isola e quei racconti emozionanti dei tuoi amici… mi è sembrato davvero che stessi dicendo la verità. Ma con questa cazzata hai confermato una volta per tutte che ARK è una fesseria galattica»

«Già, ci ero cascata in pieno anch’io – aggiunse Chloe – Anche se mi sembrava assurdo fin dall’inizio che gli abitanti di questa “isola preistorica” sapessero tutte le lingue. In ogni caso, complimenti per la creatività: il tuo libro è fatto benissimo»

«King Kong? Questa non me l’aspettavo – sorrise Jack – Se posso permettermi, è un po’ troppo spinto come dettaglio: toglie originalità al racconto. Accetti critiche costruttive, vero?»

«Non ci credo, ci hai messo pure King Kong! Per caso ci avresti detto che, in tutto ciò, c’era pure Godzilla?» la provocò Sam.

Helena, per tutta risposta, lo guardò con un'espressione imbarazzata e sconsolata, senza ribattere.

«Perché mi guardi così? Non c'è niente di male, basta solo ammettere che in realtà è tutta una storia inventata. Mio Dio, King Kong! Isole volanti!» continuò a ridere Sam.

Laura, dal canto suo, era talmente delusa che non sapeva nemmeno cosa pensare. Oltretutto, era in imbarazzo con se stessa: avrebbe dovuto rassegnarsi dal primo istante alla certezza che quel libro fosse esattamente ciò che sembrava: una simpatica pseudo-enciclopedia dai toni verosimili che trattava le creature preistoriche da una prospettiva originale col pretesto di un falso documento storico. Invece no, lei si era aggrappata all’infima speranza che ci fosse del vero dietro quel libro, aveva coinvolto i suoi amici in un’evitabile ricerca per trovare una biologa con un incidente in mare alle spalle e con troppa immaginazione, la quale trovava la sua ingenuità così divertente che aveva continuato ad assecondare le illusioni che si era fatta, prima di sbatterle in faccia la verità. Si vergognava così tanto: aveva fatto una figuraccia tremenda, aveva perso tempo e l’aveva fatto perdere anche ai suoi amici, oltre ad averli trascinati nella sua stessa situazione imbarazzante. Avrebbe voluto sotterrarsi.

«Adesso non mi credi neanche tu, vero, Laura?» sospirò Helena, con tono comprensivo.

Quella voce materna e confortante, in quel momento, la fece stare peggio: si sentiva ancora più raggirata. La bionda non poté che annuire, fissandola con uno sguardo in bilico tra lo sconfortato e l’oltraggiato. Dopo averla guardata in silenzio, Laura scosse la testa. Sam batté le mani sulle ginocchia e fece segno di volersene andare:

«Be’, è stato un piacere conoscerti, Helena, ma ora leviamo il disturbo. Grazie per averci divertiti! Andiamo, ragazzi. Laura, non ti deprimere, potrai consolarti quando inizierai la tua nuova carriera»

«Sì, hai ragione. Grazie per la chiacchierata, Helena» sospirò la bionda, alzandosi.

I quattro ragazzi fecero per voltarsi verso l’uscita; tuttavia, la donna richiamò la loro attenzione di colpo, con un’esclamazione determinata:

«Fermi!»

Loro si girarono, perplessi.

«C’è dell’altro?» osò chiedere Laura, con l’ultimo barlume di speranza rimasto in lei.

«Sì. Avrei preferito evitare di mostrarvelo, ma ormai mi sono sbilanciata a confidarvi la mia storia. Sedetevi, per favore. Fidatevi di me»

Laura indugiò, quindi guardò i suoi amici in cerca di un parere. Dai loro sguardi, capì che stavano aspettando di vedere cosa avrebbe deciso lei. Così, accettando di avere fede nonostante l’imbarazzo, assecondò Helena e riprese posto, imitata dagli altri. Helena li ringraziò con un sorriso riconoscente, quindi lasciò il salotto e svoltò un angolo, probabilmente diretta ad una stanza da letto. La sentirono spostare alcune cianfrusaglie, prima che tornasse. Quando riapparve, la biologa aveva con sé tre oggetti che lasciarono Laura attonita: una lunghissima penna primaria di un uccello che non riconobbe, un seme talmente strano da sembrare una piantina aliena e il cranio di un piccolo primate. La bionda aveva visto il disegno di un teschio identico leggendo l’enciclopedia di Darwin: apparteneva a un mesopiteco, una scimmia del vecchio mondo vissuta nel Pliocene. Pur avendo già una mezza idea sulla provenienza di quegli oggetti, Laura decise di non lasciare nulla al caso e, con un’ingenuità stavolta finta, domandò:

«Cosa sono?»

Helena li ripose sul tavolino e li osservò come degli oggetti preziosi, mentre rispondeva:

«Per me sono ricordi, voi li potete vedere come delle prove»

La biologa prese la penna e la lisciò, con un sorriso colmo di nostalgia mal celata:

«Quando io ed Edmund siamo diventati confidenti su ARK, lui mi ha regalato un argentavis con cui potessi spostarmi facilmente da un capo all’altro dell’isola. Era una femmina e aveva già un nome quando è diventata mia: Atena. Edmund, invece, aveva un maschio di nome Archimede. Oh, Atena… la guardavo sempre volare in giro per conto suo, ogni mattina, mentre io mi godevo l’alba da un posto sopraelevato. Era tutto bellissimo. La cosa che mi dispiace più di tutte è che non ho potuto dirle addio come si deve»

«Cos’è successo?» chiese Laura, che era ricascata nel coinvolgimento senza notarlo.

«Quando la Nuova Legione mi ha fatta prigioniera, l’ho persa di vista nel caos della situazione. Non l’ho più rivista da allora, anche se io e gli altri ci siamo concessi alcune settimane per riprenderci da tutto quanto, prima di lasciare ARK»

«E quel seme strano?» chiese Jack.

«Questo è il seme di una pianta X. Per farvela breve, come avete capito dal libro, ARK è un posto del tutto fuori dal normale e alcune cose sembrano anche prive di logica. Comunque, la convivenza con specie da epoche diverse non ha influenzato solo l’evoluzione della fauna, ma anche quella della flora. La pianta X è un vegetale endemico di ARK che scaglia semi nocivi se si sente minacciata. Viene spesso usata come difesa alle case o nei centri abitati: è praticamente una torretta automatica»

«Sul serio hai appena paragonato una pianta ad una torretta?» scherzò Sam.

«Ti garantisco che una pianta-torretta è la stranezza più insignificante, sapendo di che mondo fa parte» replicò Helena.

«E quello è un cranio di mesopiteco» concluse Laura, anticipando Helena.

«Esatto, viene dalla clinica di Rockwell. Aveva cercato di portare con sé anche un ultimo campione di una delle sue ricette, il “tonico scervellatore”, ma per fortuna l’ho convinto che non era decisamente il caso»

Le emozioni di Laura tornarono ad essere contrastanti: adesso era sia soddisfatta per aver constatato che Helena non si stava prendendo gioco di lei, sia incredula per aver appena ricevuto la conferma che…

«ARK esiste davvero» affermò, a bassa voce.

«Ve l’ho detto. Adesso l’ho dimostrato» rispose la donna.

Ci fu un silenzio imbarazzante, dopo. Fu Chloe a far ripartire la conversazione, con una domanda di curiosità:

«Dalla tua storia, mi sembra di capire che i tuoi tre compagni siano venuti qui a Sidney con te, dopo l’isola. Ti posso chiedere dove sono adesso? Che ne è stato di voi quattro dopo il vostro ritorno? Voglio dire, se loro tre vengono dal passato, dev’essere stata dura»

Helena sorrise e annuì:

«Hai proprio ragione, è stato complicato aiutarli a iniziare una nuova vita nel 2016. Però, tutto sommato, siamo riusciti a trovare delle soluzioni che hanno soddisfatto tutti»

«Vivono assieme a te?» domandò Jack.

«Sì, abitano qui da quando siamo tornati da ARK. Il mio appartamento era facile da adattare a dei coinquilini, perché non approfittarne? In ogni caso, se volete sapere cosa fanno attualmente, ve lo dirò. Edmund ha avuto meno difficoltà di tutti a prendere una decisione: lavorava già come medico e un misto fra un farmacista e un chimico, è molto perspicace e impara in fretta, quindi tutto ciò che gli serviva era rimettersi in pari con la medicina contemporanea. Sta ancora frequentando un corso universitario di medicina: quando avrà imparato il necessario, ritornerà a fare il medico»

«E invece, per quanto riguarda la guerriera cinese e il centurione? La vedo dura, per loro» ammise Chloe.

Helena ridacchiò:

«Allora, tanto per cominciare, ho iscritto entrambi ad un corso di inglese, perché era fondamentale. Entrambi avevano già iniziato a masticare qualche parola: per parlare con Mei, usavo le basi di mandarino che ho studiato all’università e, quando siamo diventate amiche, le ho insegnato alcune frasi. Nerva, invece, aveva chiesto a Rockwell di istruirlo sulla “lingua dei Britanni”, come la chiama lui. Ovviamente, però, non bastava affatto per vivere qui. Appena Mei e Gaius hanno imparato a cavarsela bene con la lingua, abbiamo pensato alle loro carriere»

«Capirai: sono cresciuti tutti e due con la spada in mano e sventrando la gente, che lavoro potrebbero mai fare in questa società?» chiese Sam, divertito.

«A dire la verità, non è stato poi così difficile trovare qualcosa che fosse alla loro portata. Mei era la Regina delle Bestie, non avete idea di quanto sia abile con gli animali pericolosi. Adesso è un’accalappiatrice: con tutte le segnalazioni di serpenti, ragni letali e varani che ci sono a Sidney, ha trovato pane per i suoi denti. In quanto a Gaius, be’, lui viene da una civiltà che voleva portare ordine e disciplina con la forza, così ho avuto una piccola illuminazione: l’ho convinto a diventare un buttafuori. Alla fine lo è diventato davvero, l’hanno assunto in un negozio di vestiti in un centro commerciale. Non se ne lamenta»

«Meglio di quanto pensassi» commentò Chloe, con tono sincero.

«Ma adesso dove sono, scusa?» domandò Jack.

Helena fece spallucce:

«Hanno da fare, tutto qui. Io sono in vacanza, in questi giorni»

«E tu, Helena? Cos’hai fatto dopo ARK?» le chiese Laura.

A quel punto, l’espressione della biologa si incupì. Laura si pentì subito di quella domanda: doveva aver toccato un nervo scoperto. Stava per scusarsi, quando la biologa sospirò con tristezza e rispose:

«Vi sembrerà un paradosso, ma sono quella che ha faticato più di tutti a ricominciare. Innanzitutto, è stato un grosso disagio sia per me, sia per chi mi conosce e vuole bene il ritrovo dopo otto anni. Mi credevano morta, giustamente. A parte quello, però, non me la sono più sentita di fare ricerche sugli animali osservandoli nei loro ecosistemi coi miei occhi. Diciamo che qualcosa in me si è bloccato, dopo la mia esperienza sull’isola. Non me la sono più sentita di andare in spedizione, però non potevo certo mollare la biologia, così ho trovato il giusto compromesso: ho ottenuto una cattedra in un liceo come insegnante di scienze naturali»

«Chissà perché, ma tu mi sembravi proprio una che sta bene nei panni di una professoressa» ridacchiò Sam.

«Già, non sei il primo che me lo dice» sorrise Helena.

Dopodiché, nessuno disse più nulla. Allora Laura non poté fare altro che ripensare a tutto ciò che era stato detto fino a quel momento ed elaborare le scoperte, ora che aveva ricevuto la conferma che era la verità. Si rese conto presto che, di tutti i dettagli incredibili che il libro ed Helena avevano spiegato sull’isola preistorica, ce n’era uno che la intrigava sopra ogni cosa: la teoria di Helena per la quale c’era un fattore ignoto che, stando alle evidenze, teneva sotto controllo l’ecosistema arkiano per mantenerlo in equilibrio, nonostante al suo interno ci fossero ambienti climatici del tutto diversi e creature che non avrebbero mai dovuto convivere, costrette a condividere il territorio. In natura, normalmente, una funzione simile non era lontanamente concepibile: il contesto più simile erano gli zoo e non era un caso che Helena avesse paragonato ARK ad uno di essi. Questo fattore avrebbe potuto essere di tutto. E se fosse stato addirittura un essere vivente? E se, in qualche modo, fosse collegato anche alla barriera invisibile che manipolava il tempo? Forse l’isola si autogestiva, come un complesso alveare gestito da una regina. Alla fine, tutte queste domande la incoraggiarono a cercare di fare chiarezza su quel grande punto oscuro della faccenda, così la ragazza riprese con le domande:

«Helena, esattamente come avete fatto ad andarvene? Hai detto che la barriera impedisce a chiunque di uscire da ARK. Prima hai menzionato dei manufatti che vi sembravano connessi alla barriera. Era vero?»

La biologa annuì:

«Esatto, erano tutti nascosti nelle caverne dell’isola. Su ARK ci sono tre obelischi di ossidiana dalle punte di cristallo: uno verde, uno blu e uno rosso. Ai loro piedi ci sono degli incavi con le forme dei manufatti e, alla fine, è saltato fuori che inserirli tutti faceva scomparire la barriera. Dopo la guerra contro la Nuova Legione, i capi delle tribù arkiane parlavano di nascondere i manufatti in luoghi sicuri, immagino che l’abbiano fatto dopo la nostra partenza»

«Be’, almeno fuggire da lì è difficile ma non impossibile: è già qualcosa» affermò Jack.

«E così, alla fine non sei riuscita a capire cosa ci fosse dietro l’ecosistema di ARK?» proseguì Laura.

«Purtroppo no. Ormai tutti gli indizi me lo confermavano, mancava solo la fonte di tutto. All’inizio ho pensato che il rapporto bilanciato fra prede e predatori e la docilità delle creature domate dipendesse dal re dell’isola, ovvero Kong»

Fu interrotta da una risatina di Sam, che ricevette una gomitata di rimprovero da Chloe.

«Scusami, è che non ce la faccio proprio a prendere questa parte di King Kong sul serio» ridacchiò il rosso.

La donna gli rivolse uno sguardo lievemente frustrato, prima di proseguire:

«Secondo i racconti degli Arkiani, il temperamento delle creature e l’equilibrio naturale di ARK si stravolgono e si riformano in base a quale creatura diventa il re, quindi grazie a Kong c’è pace ed equilibrio perfetto. Sembrava una risposta, ma mi sono resa conto che da un animale non può dipendere anche il tasso di fertilità di alcune specie in funzione di altre o la velocità di rigenerazione degli ambienti danneggiati. C’è qualcosa di più grosso, dietro. E te lo confesso: ho il forte sospetto di esserci andata molto vicina»

Gli occhi di Laura si illuminarono:

«Allora sai cos’è?»

Ed ecco, però, che la passione e la frenesia con cui Helena stava condividendo le sue ipotesi con la tipica gioia di chi è finalmente libero di svelare un segreto scemarono; cedettero il posto ad uno sguardo amareggiato, quasi pentito, e ad una voce che esprimeva delusione e senso di sconfitta:

«No. Mi dispiace, ma no. Non ho mai trovato la grande verità che inseguivo da mesi. Ma è stata una mia scelta»

«In che senso?» insisté Laura, delusa.

«Avevo trovato una nuova pista, gli ultimi giorni prima di salpare con gli altri. Avevo tutte le buone ragioni per essere certa che mi avrebbe condotta esattamente a quello che cercavo, ma ho deciso di lasciare perdere. Ho provato con tutta me stessa a portare le mie ricerche fino in fondo, a compiere il mio dovere di scienziata, ma non ne ho avuto la forza. Non me la sentivo. La via d’uscita, il mio biglietto di ritorno a casa, era finalmente a portata di mano: era il caso di rischiare di perdere un’occasione del genere, solo per scoprire come mai un’isola è fatta in un certo modo? Alla fine non ho voluto rischiare»

«E per questo ti senti in colpa? Per me, hai fatto la cosa giusta» provò a confortarla Jack.

«Anch’io detesto lasciare dei conti in sospeso, ma avrei fatto la stessa cosa» aggiunse Chloe.

«Mi sono sempre sforzata di ricordarmi che ho fatto bene, eppure il pensiero di aver rinunciato alla scoperta decisiva mi tormenta da tre anni. E non ho mai fatto sapere agli altri di questa mia ricerca mancata: Edmund non me lo perdonerebbe, perché ci teneva quanto me, anche se per motivi diversi. Comunque, lo sconforto per la mia scelta è il motivo per cui ho cercato di pensare il meno possibile ad ARK: ecco perché ho lasciato il libro in biblioteca. La penna di Atena era l’unico ricordo dell’isola che osassi riprendere in mano ogni tanto, ma per il resto facevo di tutto per voltare pagina, finché non siete arrivati voi»

«Mi dispiace, noi siamo venuti a parlare con te solo perché volevo fare chiarezza su un libro bizzarro. Non pensavo che avrei riaperto una tua vecchia ferita» sospirò Laura, mogia.

«Scherzi? Nessun problema! Anzi, mi si scalda il cuore, al pensiero che qualcuno abbia del genuino interesse per la mia avventura, anche se tutto quello che avevate era un nome in un’enciclopedia assurda. È stato bello raccontare la mia storia a delle persone: è come se una parte di me si fosse liberata di un peso. Vi ringrazio, dico sul serio. Basta che non lo diciate in giro, ovviamente»

«Ci fa piacere saperlo! E puoi stare tranquilla, non avremmo parlato a nessuno di questo incontro in ogni caso» sorrise Jack.

«Quindi abbiamo finito? Il caso è chiuso?» chiese Sam, fissando Laura.

«Sì, sembra di sì» annuì Laura, anche se non era per nulla convinta.

Helena, allora, si batté le mani sulle ginocchia e si alzò.

«Bene, sembra che abbiate intenzione di andare. È stato bello conoscervi, ragazzi! Statemi bene. E buona fortuna per la tua futura carriera, Laura: la paleontologia è un mondo meraviglioso, una mia cara amica te lo potrebbe confermare, se fosse qui!»

«Non ne dubito. Grazie di tutto, Helena» rispose Laura.

I ragazzi si alzarono a loro volta, aspettarono che la padrona di casa aprisse la porta e fecero per uscire, pronti a tornare alla loro vita di tutti i giorni; finché Chloe non si fermò con fare titubante, confondendo tutti. La mora si voltò di nuovo verso Helena e, stupendo i suoi amici, le chiese con una punta di imbarazzo se le sarebbe dispiaciuto presentare loro i suoi tre compagni di naufragio in futuro e mantenersi in contatto con loro, visto che ormai si era aperta con una certa fiducia nei loro confronti. Jack e Laura arrossirono, mentre Sam la fissò e la apostrofò con tono spiritoso:

«Chloe, non pensi di chiedere troppo? Va bene essere espansivi e fare nuove amicizie, ma l’abbiamo pur sempre appena conosciuta! Ci abbiamo scambiato due chiacchiere, ci siamo divertiti, ma è tutto qui: non sei d’accordo anche tu, Helena? La scusi, è solo che Chloe è fatta così: si affeziona in fretta» scherzò.

«Maledetto, non pensare di vendicarti delle mie prediche facendo il paparino!» reagì lei, per tutta risposta.

«Per favore, non rendiamoci ridicoli! Le abbiamo già fatto perdere abbastanza tempo» li esortò Jack, mentre Laura annuiva concorde con lui.

Helena indugiò un po’, ma alla fine ammise che non era una cattiva idea. Affermò che aveva già presentato i suoi compagni a conoscenti vecchi e nuovi in passato e che non se n’era mai pentita, oltre ad aggiungere che non le sarebbe dispiaciuto affatto discutere più nel dettaglio sui vari aspetti di ARK con Laura in altre occasioni, se la ragazza ci teneva davvero: per lei sarebbe stato come insegnare biologia ai suoi studenti, ma su un campo “segreto” e con una nuova conoscente incontrata per caso.

«Dici davvero, Helena? Se stai accettando solo per farle un piacere, non disturbarti! Dico sul serio! Anzi, perché non le hai ancora chiesto scusa, Chloe?» domandò alla mora.

Chloe fece spallucce, affatto imbarazzata:

«Perché dovrei scusarmi? A me sembra d’accordo» ammiccò.

«Sono sincera! Gradirei davvero rivedervi: siete simpatici, sapete? Ne parlerò con gli altri appena ne avrò modo: se saranno tutti d’accordo, ci penseremo su»

«Ottimo! Cosa facciamo, ci scambiamo i numeri? Ci teniamo aggiornati col tuo profilo di Facebook?»

«Preferisco il numero» rispose la donna.

Laura, per l’ennesima volta, non poteva crederci: Helena le piaceva di più ogni secondo che passava. Provava un’onesta ammirazione per lei: era simpatica, disponibile, rassicurante, aperta al dialogo e amichevole; aveva la sensazione di non potersi stancare mai a conversarvi assieme. Così, dopo che loro quattro ed Helena si furono scambiati i numeri di telefono, si salutarono con la promessa di risentirsi. Mentre i ragazzi uscivano e si incamminavano per strada, Sam ammise di non sapere cosa pensare di quella giornata. Chloe gli diede solo una gentile pacca sulla spalla e gli fece notare che, a conti fatti, era andata alla grande: Laura aveva finalmente capito la verità dietro l’enciclopedia di Darwin e lei, forse, avrebbe avuto a che fare con una nativa dell’antica Cina e un vero soldato romano, grazie ai quali le sue competenze linguistiche avrebbero fatto un salto di qualità.

«Sì, tutto molto bello, il fatto è che questa ARK resta pur sempre nient’altro che un argomento di cui non si può fare effettivamente qualcosa e non è detto che i compari di Helena Walker vorranno saperne di noi. È stato come discutere su un film: bello, ma inutile. Senza offesa, Laura»

«Nessuna offesa, Sam» sospirò la bionda.

«Sei contenta?» le domandò Jack, con un sorriso amichevole.

«Ma certo! Non dovrei? Ho scoperto persino più di quanto sperassi!» rispose lei.

I ragazzi attraversarono la strada e disussero sul loro incontro con la biologa per tutto il tragitto fino alla prima fermata dell’autobus; continuarono anche stando seduti sulla panchina, in attesa che ne arrivasse uno della linea giusta. Fu mentre si concentravano sulle storie degli amici di Helena che Sam ammutolì, osservando l’altro lato della strada con uno sguardo sospettoso, e indicò agli altri le vicinanze della palazzina di Helena. A qualche passo dall’entrata dell’edificio, c’era un uomo che sembrava fissare proprio loro. Spiccava in mezzo ai passanti, perché era bizzarro: era vestito tutto di nero e, da quel poco che riuscivano a distinguere a quella distanza, sembrava trasandato e sporco. Il dettaglio più curioso era che indossava una bombetta.

«Perché quel tizio inquietante ci sta guardando?» chiese Jack.

«Inquietante? A me sembra solo cretino» commentò Sam.

Laura si sforzò di osservarlo meglio: l’uomo con la bombetta era alto ed esile, aveva il volto allungato con un mento pronunciato, pochi capelli e un paio di lunghi e folti baffi; stava buffamente ingobbito e si torceva le mani. Sembrava ridacchiare con un’espressione da matto tutto il tempo. Per giunta, sembrava che stesse parlando da solo.

«A me non sembra molto a posto» confidò Chloe.

In quel momento, però, l’uomo con la bombetta smise di fissarli e iniziò ad allontanarsi, con una bizzarra andatura circospetta. A quel punto, Laura si rilassò, accorgendosi solo allora di essere stata messa un po’ a disagio dalla sua vista. In un tentativo di ricomporsi, diede credito a Sam:

«Sono d’accordo, è solo fuori di testa. Non credo che ci guardasse per un motivo»

«Trovo anch’io: era proprio bizzarro» annuì Jack, tenendosi il pollice e l’indice sul mento.

In ogni caso, a Laura venne spontaneo mettere il libro nella sua borsa, dopo averlo tenuto sottobraccio: era come se non le sembrasse più sicuro tenerlo in mostra. Pensò comunque che fosse solo una sensazione passeggera e provò a scordarselo, quando salirono sul bus per tornare a casa. Adesso non dovevano fare altro che riprendere le rispettive quotidianità e aspettare di ricevere notizie da Helena.

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Capitolo 4
*** Un segreto scoperto ***


Una volta rimasta da sola, Helena non poté fare a meno di camminare nervosamente in giro per l’appartamento strofinandosi il collo con una mano, pensando a quell’improvvisa svolta nella sua vita quotidiana. Per tre anni aveva cercato di ricordare il periodo trascorso su ARK il meno possibile, eccezion fatta per le sporadiche volte in cui l’argomento veniva tirato fuori di nuovo in una conversazione, quasi sempre da Rockwell: Edmund non aveva mai smesso di discutere sulle cose che aveva o avrebbe appreso su ARK, Helena poteva percepire una nostalgia quasi morbosa in lui. In quegli anni, la biologa si era sforzata soprattutto di non pensare alla scoperta a cui aveva rinunciato. Aveva funzionato per tutto quel tempo: si era liberata del libro di Darwin come prima cosa dopo essere tornata alla normalità, posava lo sguardo sui cimeli dall’isola preistorica più di rado che poteva e cercava di parlarne poco, specialmente con l’aiuto di Mei-Yin, che guardava solo al presente e si era lasciata alle spalle l’intera faccenda con una facilità sorprendente; o meglio, quello era ciò che Mei faceva apparire in superficie, non si riusciva mai a scrutare dentro di lei fino in fondo. Anche Gaius si concentrava per di più sulla sua nuova vita, nonostante portasse ancora il fardello di coscienza dei problemi che aveva causato su ARK.

Non dovette aspettare molto prima che la sua riflessione venisse interrotta: dopo un po’ di tempo, arrivò Mei-Yin. La guerriera entrò col suo inconfondibile portamento: appariva sempre pronta a difendersi da qualcosa, anche se sapeva che non c’erano pericoli. Però Mei era fatta così: la prudenza e la diffidenza non l’avrebbero mai abbandonata del tutto, i suoi occhi penetranti e feroci osservavano sempre ogni cosa, pronti a cogliere il minimo dettaglio che potesse rappresentare un problema. Quando le due si salutarono, l’aria assente e il tono di Helena tradirono la sua preoccupazione e la Cinese se ne accorse subito: invece di andare nella stanza da letto delle donne per cambiarsi, le rivolse uno sguardo sospettoso e le domandò cosa non andava. Helena indugiò per un secondo, poi iniziò ad abbozzare una spiegazione, sentendosi sempre più irrequieta:

«Come? Be’, non so se è il caso di dire che qualcosa non va, ma oggi c’è stata una novità che non avrei mai previsto. Ecco, forse un po’ me la sono cercata, ma…»

Mei incrociò le braccia e la fissò con uno sguardo sospettoso:

«Helena, non girarci intorno. Cos’è successo?»

La biologa sospirò e venne al punto:

«Una ragazza e tre suoi amici hanno scoperto quel libro che trovai su ARK prima che ce ne andassimo e sono risaliti fino a me: sono stati qui fino a poco fa»

«Cosa? Che volevano?» chiese Mei, in allerta.

«Mi hanno chiesto molte cose su ARK, ovviamente. E alla fine l’ho fatto davvero»

Mei sollevò un sopracciglio:

«Cosa intendi?»

«Prima ho confessato che è tutto vero, poi li ho convinti a credermi. Mi hanno chiesto di restare in contatto, di incontrare anche te e gli altri: ho raccontato tutto»

Mei non rispose, si limitò a fissare Helena con uno sguardo indecifrabile che fece sentire la biologa a profondo disagio. Dopo alcuni istanti di silenzio, guardò da un’altra parte e tentò di incalzare l’amica per scoprire che ne pensava: Mei era la sua confidente migliore, persino più di Rockwell. Parlare con lei dei suoi pensieri e dubbi la aiutava sempre a capire qual era la cosa giusta da fare.

«Mei? Perché sei così impassibile?»

«Cosa vuoi che ti dica? Se questi ragazzini hanno davvero intenzione di rifarsi vivi, non posso giudicarli prima di vederli di persona»

Helena si sentì in dovere di correggerla:

«No, non sono ragazzini, avranno almeno tre anni in più dei miei studenti»

«Poco importa»

«Comunque, non hai niente da dire? Insomma, ho appena rivelato quello che abbiamo passato tre anni fa a degli sconosciuti, ho sbagliato? Pensi che avrei dovuto lasciargli credere che fosse tutta una finzione o…»

«Non mi interessa, Helena» replicò Mei, secca.

Una parte di Helena si aspettava una reazione simile, conoscendo Mei e sapendo quanto fosse sempre decisa a voltare pagina, ma rimase comunque disorientata da quel distacco, di facciata o effettivo che fosse. Cercò di strapparle un parere:

«No, non puoi fare finta di niente. Ho appena rivelato l’esistenza di ARK a qualcuno! Non pensi che potrebbero esserci delle conseguenze, presto o tardi?»

Mei fece spallucce:

«Ne dubito: anche se li hai convinti, non possono fare nulla per dimostrarlo. E se ti stai pentendo di aver detto tutto, sono certa che troverai un modo per evitare che si sparga la voce. Tutto qui?»

Helena provò una punta di imbarazzo:

«Davvero non ti importa di cos’è successo? Per la prima volta in assoluto, ho detto la verità su…»

Mei alzò gli occhi al cielo:

«ARK appartiene al passato e non ci tornerò mai. Non ho alcun motivo di preoccuparmene. Quel che è stato è stato, ora voglio solo pensare a vivere come ho fatto finora. Ne abbiamo già parlato, sai cosa penso: dovresti lasciar andare tutto anche tu. E anche convincere Edmund a smettere di blaterare sulle piante e sugli obelischi: è troppo fissato»

A quel punto, la Cinese andò in camera da letto senza lasciare ad Helena il tempo di rispondere. La biologa dovette rassegnarsi al fatto che l’amica non si sarebbe sbilanciata sull’argomento, determinata com’era a guardare solo avanti. Così nessuna delle due aggiunse più altro, finché non arrivò anche Rockwell. Una volta varcata la soglia e chiusa la porta, il vecchio chimico inglese prese subito a sfogliare con attenzione il grosso volume di medicina che aveva deciso di comprare quel giorno: Edmund voleva terminare il corso di medicina il più in fretta possibile, tanto guardava dall’alto in basso l’ambiente accademico che stava frequentando e la gente da cui prendeva lezioni, per questo prendeva libri di medicina aggiuntivi ogni volta che ne aveva l’occasione. Era così assorbito nella lettura che non si curò di salutare e iniziò subito a dirigersi nella sua stanza. Helena scosse la testa con un abbozzo di sorriso e richiamò l’attenzione del medico:

«Edmund, ci sono novità, dobbiamo parlare»

Rockwell sollevò gli occhi dal libro solo per un fugace istante e le rispose con voce quasi infastidita:

«Potrei chiederti di rimandare qualunque tipo di discussione a più tardi, Helena? Non voglio interruzioni mentre studio»

«Questa volta non posso aspettare: qualcuno ha scoperto di noi e di ARK»

A questo punto, esattamente come Helena si aspettava, Rockwell scattò subito sull’attenti, chiuse il libro e si voltò a guardarla con uno sguardo intrigato, sistemandosi gli occhiali.

«Scusami?» domandò, quasi emozionato.

«Quattro ragazzi sulla ventina hanno trovato il libro che ho nascosto in biblioteca tre anni fa e sono stati qui, ci ho parlato»

Rockwell iniziò a strofinarsi la barba, come faceva sempre quando trovava qualcosa su cui riflettere:

«Questo è tanto interessante quanto inaspettato. Che cosa hai detto loro, esattamente? Hanno fatto qualche domanda nello specifico?»

«Ho detto tutto, Edmund. All’inizio ero indecisa se dire la verità o meno, ma poi ho scelto di provare che ARK e tutto ciò che la riguarda è vero»

«Ci sarebbe mancato altro! Perché non me l’hai detto prima?! Questa è un’occasione senza precedenti, ora che sono arrivate delle persone con cui posso divulgare seriamente le mie conoscenze su quell’isola! Be’, non so quanto sarà effettivamente serio discutere su argomenti così importanti e complessi con quattro giovani che sono venuti a saperlo per caso, ma è pur sempre un inizio»

Helena frenò il suo entusiasmo, prima che Rockwell si fomentasse troppo:

«Piano, Edmund, prima abbiamo bisogno di ragionare sulla situazione»

«Che motivo ne abbiamo? È ora di uscire da questo guscio di omertà in cui sono stato costretto a nascondermi per tre anni! E se tu dai valore alla scoperta almeno quanto me, dovresti essere d’accordo. Hai mantenuto un contatto con questi visitatori inattesi, mi auguro»

«Sì, l’hanno voluto loro. Ho deciso di discuterne con voi, prima di far sapere qualcosa a quei ragazzi»

Edmund sorrise, emozionato:

«Hai la mia approvazione, questo è più che sufficiente! Oh, questo è solo l’inizio: col tempo, escogiteremo un modo per raccogliere prove più inconfutabili, dimostreremo alla società l’esistenza di quel luogo rivoluzionario! Non dovrò più nascondere tutta questa conoscenza straordinaria per il timore di essere ridicolizzato!»

Helena dovette resistere alla tentazione di sbattersi un palmo sulla faccia: come temeva, Edmund si era aggrappato al più minuscolo appiglio per convincersi che la rivoluzione scientifica che sognava di realizzare da tre anni fosse a portata di mano e adesso sarebbe stata un’impresa riportarlo coi piedi per terra. Per fortuna, però, Mei tornò dalla stanza e si inserì di nuovo nella discussione; la Cinese interruppe Rockwell con la sua schiettezza spietata:

«Raccontare quello che sai su quell’isola maledetta a dei ragazzi non ti porterà da nessuna parte. Se credi che possano fare da testimoni, sarebbe la loro parola contro quello che tutti credono»

Rockwell lanciò un’occhiata stizzita a Mei, mentre Helena tirò un sospiro di sollievo e le rivolse uno sguardo di ringraziamento mentre il vecchio medico non la vedeva. Prima che Edmund ricominciasse a fantasticare, prese la parola:

«Edmund, capisco il tuo entusiasmo, però dobbiamo pensare ad una cosa per volta: tanto per cominciare, potremmo provare a conoscere meglio questi ragazzi, lasciare che si facciano un’idea più chiara di noi e di ARK, poi vedremo fino a che punto dovremmo spingerci con la confidenza. Ma ricorda che non dobbiamo mai andare oltre un certo punto: quell’isola nasconde un grande potenziale, è vero, ma abbiamo chiuso con tutto. Raccontare la nostra storia a degli estranei è già fin troppo, per quanto mi riguarda»

«Esatto» affermò Mei, severa.

Rockwell fissò la biologa con uno sguardo incerto per alcuni secondi, prima di stringere gli occhi e rispondere, con malcelato risentimento:

«Vedo che ti ostini ancora ad ostacolare il progresso. Ma un giorno condurrò la civiltà umana verso una nuova era, con o senza il tuo appoggio»

«Gliel’hai già detto molte volte, suona sempre più vacuo» gli disse Mei.

Dall’espressione che Rockwell fece, Helena capì che stava per rinfacciarle per l’ennesima volta che la guerriera non aveva voce in capitolo perché era troppo arretrata e ignorante per capire quanto i segreti di ARK fossero preziosi e si allarmò: non finiva mai bene, le sporadiche volte che Rockwell si spingeva così oltre per lo sdegno. Stava per mettersi in mezzo per calmare entrambi, quando la porta si aprì e furono raggiunti anche da Nerva. Il centurione, di ritorno dal suo turno di lavoro, si affrettò ad allentare la cravatta e a sbottonare la giacca della sua uniforme da addetto alla sicurezza, apparendo subito più disteso e sereno, pur senza abbandonare il suo portamento intimidatorio. Non aveva mai smesso del tutto di comportarsi come un comandante, era nella sua natura: sempre sicuro di sé, a testa alta e dallo sguardo fiero, deciso nel parlare e nell’agire, ma mai arrogante e sempre rispettoso di chi aveva davanti. Quando vide Helena e gli altri lì riuniti e con delle espressioni turbate, rivolse loro un’occhiata interrogativa:

«Che succede?» domandò.

Mei lo informò su quello che Helena aveva già detto a lei e a Rockwell in pochissime parole e Gaius apparve subito alquanto sorpreso. Rifletté un po’, prima di chiedere alla biologa:

«Cosa hai intenzione di fare, adesso?»

Lo domandò con tono pacato e interessato. Nerva era un militare, quindi era pratico: veniva sempre dritto al punto, anche se non era freddo quanto Mei. Quasi rassicurata dal modo in cui quella domanda le fu posta, Helena raccolse le idee e affermò:

«Quando se ne sono andati, ho detto che avrei chiesto il vostro parere su un eventuale incontro futuro fra tutti noi, in modo che voi possiate incontrarli e farvi un’idea più chiara di loro e viceversa. Se siete d’accordo…»

Rockwell la interruppe di colpo:

«Come ho già stabilito e non mi stancherò mai di ribadire, ritengo che questo incontro coi nostri nuovi contatti venuti a sapere di ARK non è solo una buona idea, ma è anche necessario. E non sarà un eventuale voto di maggioranza contrario alla mia opinione a fermarmi dall’iniziare a diffondere le mie scoperte su quell’isola»

Helena indugiò per un paio di istanti, disorientata dall’irruenza quasi capricciosa del medico inglese, dopodiché riprese il filo e concluse:

«Sì, ecco, Edmund ha appena detto cosa ne pensa. Voi due cosa ne dite? Mei?»

Helena guardò l’amica, in attesa della sua risposta finale. Sapendo la posizione della guerriera sulla questione di ARK, era pronta a ricevere un rifiuto e, quindi, a placare le proteste di Edmund. Mei la fissò con uno sguardo indecifrabile per vari attimi, tanto che Helena ebbe la tentazione di passare la parola a Nerva, ma poi la Cinese tirò un profondo sospiro a occhi chiusi e rispose:

«Tutto questo non mi piace per niente. Hai confessato i nostri segreti a dei perfetti sconosciuti, non sai cosa potrebbero fare con ciò che hanno scoperto e ora vuoi incontrarli per parlarne ancora di più: non ne può uscire niente di buono»
Rockwell le rivolse un sorrisetto provocatorio e la punzecchiò con tono di scherno:

«Sono perplesso, Mei. Questo ragionamento mi dà l’impressione che temi che si venga a sapere di ARK. Per quale motivo, mi domando? A te non importa nulla di ARK, o sbaglio? L’hai sempre lasciato intendere quasi con fierezza, in questi tre anni»

Mei vacillò per un fugace istante, punta sul vivo, ora che Rockwell aveva fatto notare un controsenso. Tuttavia, si ricompose subito e ribatté, stizzita:

«È così: mi sono lasciata alle spalle quell’isola. Per questo non voglio che se ne parli: interrompere la stabilità che ho finalmente trovato solo per discutere su qualche domanda lasciata senza risposta? Mi sembra solo una perdita di tempo. E c’è il rischio che col tempo diventi qualcosa di più che un argomento»

Rockwell si aggiustò gli occhiali, irritato:

«Quelle che tu sminuisci come “domande senza risposta” sono delle ricerche che avrebbero rivoluzionato tutto il mondo, se solo avessi avuto modo di portarle a termine! E sicuramente Helena può dire lo stesso, riguardo ai suoi studi biologici sull’ecosistema arkiano. Ma non mi aspetto che tu capisca: il tuo unico interesse è avere la certezza di sopravvivere, non sapresti guardare oltre nemmeno se ci provassi»

Mei fu subito pronta a replicare, con calma gelida:

«Tu, invece, ti ostini così tanto a guardare indietro che a malapena vivi per davvero. E comunque sei ipocrita»

«Cosa hai detto?!» sobbalzò Edmund.

«Puoi smettere di nasconderlo, abbiamo capito tutti che il tuo desiderio è vantarti di aver svelato quei misteri, non aiutare la gente. È sempre stato chiaro da come ne parli: Helena è davvero dispiaciuta per non sapere tutto, tu sei furioso perché non puoi prenderti un merito senza prove»

Helena andò nel panico: non aveva mai visto Mei e Rockwell entrare in conflitto così feroce, adesso Edmund aveva innescato la bomba più devastante di tutte: la pagina di ARK non era mai stata voltata e ora era più palese che mai. Non aveva idea di cosa dire per calmarli, ma sapeva che la discussione stava per degenerare, quando d’un tratto Nerva esclamò:

«Adesso datevi una calmata! Tutti e due!»

Calò il silenzio e gli altri guardarono il Romano, sbigottiti. Helena era sollevata che Gaius avesse troncato il litigio, ma sapeva che la situazione era ancora molto delicata. Il centurione proseguì, con voce autoritaria e ferma:

«Vi state affrettando troppo. Non abbiamo ancora visto qual è davvero la situazione. Io propongo di osservare meglio questi giovani e capire cosa intendono fare con la conoscenza su ARK, prima di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato»

«Non hai per nulla torto, Gaius» annuì Helena.

Rockwell scosse la testa:

«Non c’è nulla da decidere: come uomo di scienza, io ho il dovere di venire a capo delle faccende irrisolte, dedurre in che modo le scoperte possono tornare utili alla civiltà e condividerle con essa. Helena, non dovresti neppur domandarti se è il caso di incontrare di nuovo quei ragazzi! Non lasciare che l’indifferenza forzata di Mei ti fermi»

La Cinese rispose subito:

«Così facendo, però, ho vissuto serenamente senza tormentarmi su qualcosa che non posso spiegarmi»

«Basta! – tuonò ancora Nerva – Io dico che la scelta migliore è conoscere meglio quei ragazzi e adattarci. E anche se non posso ordinarvelo come se foste miei legionari, penso che sia giusto lasciare la decisione finale a Helena, colei che si è già fatta un’idea di loro. Dunque, Helena?»

Tutti gli sguardi furono puntati sulla biologa. Rockwell la fissava, irrequieto e speranzoso che lo assecondasse, mentre dall’espressione che Mei fece a quel punto, Helena ebbe la sensazione che la sua amica si fosse arresa al fatto che ARK fosse ancora più presente che mai nelle loro vite, un ricordo impossibile da cancellare o da ignorare per sempre. E così, dopo un’ultima riflessione, Helena sospirò a fondo e dichiarò:

«Forse confidarci su ARK non sarà poi così grave, se ne parliamo con le persone giuste. Vi presenterò a quei ragazzi»

Rockwell sorrise, soddisfatto, e le disse che aveva preso la decisione giusta. Mei non pareva affatto convinta, ma non ribatté: alla fine, aveva deciso di rispettare la scelta della sua amica. Nerva, invece, si limitò a chinare la testa in segno di assenso, serio e tranquillo. E così, il dado era tratto. Helena non aveva idea se alla fine avrebbe dovuto pentirsene, ma pronunciare quella sentenza la fece sentire determinata. Non credeva affatto di riuscire mai a rivelare a Rockwell, Mei e Gaius il piccolo segreto della scoperta a cui aveva rinunciato, ma sperava quantomeno che aprirsi di più su ARK li aiutasse tutti a stare meglio. Era il momento di avvisare Laura e i suoi tre amici.

Era sera e i ragazzi stavano cenando. La bionda, però, non stava ascoltando la conversazione che i suoi amici stavano avendo tra loro: mangiava distrattamente e con lo sguardo perso, assorta a ripensare all’incontro con Helena Walker. Quando stavano per finire, però, Chloe ricevé una notifica sul cellulare. Laura si fece attenta fin da subito, aggrappandosi anche alla minima possibilità che si trattasse di chi sperava; dovette frenare l’entusiasmo quando Chloe controllò, le rivolse un caldo sorriso e le disse che era Helena.

«Cosa dice?» chiese Laura, agitata.

«Buone notizie: a quanto pare, i suoi compagni sono stati d’accordo con l’idea. Mi ha chiesto di farle sapere che giorno e a che ora siamo liberi per un incontro sul lungomare» rispose Chloe.

«Però, ha fatto presto – commentò Sam – Ehi, Laura, hai finalmente trovato qualcuno che prende queste cose sul serio come te!» scherzò.

Jack si strofinò il collo, pensoso:

«Se dobbiamo essere tutti presenti, suggerisco di aspettare fino a domenica prossima: almeno così stiamo certi di non avere impegni. E ho la netta sensazione che mi toccherà fare gli straordinari, la settimana prossima»

«Per me va bene: non corro rischi con gli orari dei corsi» annuì Chloe.

«Ci sto anch’io – aggiunse Sam – Ce la fai a resistere per una settimana prima di poter chiedere di più su dinosauri non estinti e muri invisibili, vero?» chiese a Laura, con un sorrisetto ironico.

Laura gli lanciò una rapida occhiata lievemente indispettita, mentre Chloe gli tirò un furtivo calcio sotto il tavolo, e rispose che non c’era alcun problema: l’importante era che aveva questa possibilità, visto che ormai il suo interesse era alle stelle. Ora non dovevano fare altro che rispondere a Helena e aspettare.

L’incontro fu fissato la domenica successiva a Bondi Beach, alle sei del pomeriggio. Proprio come tutte le volte che era costretta ad aspettare per giorni qualcosa di cui non vedeva l’ora, Laura avvertì il peso di ogni singola ora di quegli interminabili sette giorni, mentre la curiosità e l’entusiasmo dentro di lei si facevano sempre più ardenti ogni minuto che passava. Fece del suo meglio per distrarsi come poteva: rilesse ancora innumerevoli volte le descrizioni delle specie arkiane sull’enciclopedia, fece qualche altra ricerca sul suo futuro posto di lavoro e si mise in contatto coi suoi futuri colleghi per iniziare a prenderci confideza e farsi una prima idea di come sarebbe stato, non perse occasione di assillare i suoi amici sulle informazioni condivise da Helena per rifletterci sopra; non fu esattamente d’aiuto per distrarsi dal pensiero di ARK, che ormai la tormentava, ma almeno riuscì ad arrivare al termine della settimana.

E, finalmente, il momento arrivò. I quattro ragazzi erano seduti ad un chiosco delle bibite sulla spiaggia e Laura, agitando sommessamente le gambe per la frenesia, attendeva con gli altri osservando l’oceano al tramonto. Erano venuti con mezz’ora di anticipo a sua insistente richiesta, perché voleva andare sul sicuro. Sam non faceva che borbottare dicendole che stava prendendo tutto quanto fin troppo sul serio e Jack interveniva sempre ad improvvisare giustificazioni per difendere Laura: la bionda era tentata di sorridere intenerita ogni volta, ma si limitava a ringraziarlo sottovoce, facendogli mormorare un “prego” imbarazzato. Chloe aveva scritto ad Helena indicandole il punto esatto in cui la stavano aspettando, le mandò anche una foto per andare sul sicuro; quando si accorgeva che Laura iniziava a sembrare troppo tesa, la rassicurava e le dava i suoi tipici consigli su come gestire la timidezza in un dialogo “importante”.

Poco dopo l’ora stabilita, Laura sentì la voce rassicurante e materna di Helena che la salutava. Subito, i ragazzi si voltarono nella direzione da cui era venuta e la rividero, accompagnata dai suoi tre compagni di naufragio su ARK. Laura squadrò attentamente ciascuno di loro: Sir Edmund Rockwell, con una folta barba bianca e i capelli non poi così curati, pronto a sistemarsi gli occhiali appena gli scivolavano lungo il naso, faceva pensare al classico studioso attempato: gentile e sempre calmo, che passava le giornate ingobbito sui libri e che era pieno di aneddoti da raccontare; eppure, dal suo sguardo, la ragazza percepiva che l’ardore della gioventù era più vivo che mai in quel vecchio ricercatore.

Mei-Yin Li, la Regina delle Bestie, la fece subito sentire intimidita, come se la ragazza non fosse già abbastanza agitata per tutta quella situazione. La guerriera dall’antica Cina aveva dei lunghi capelli neri e lisci che le ricadevano lungo la schiena ed era minuta, persino un po’ più di Chloe; nonostante ciò, si vedeva chiaramente che aveva un fisico slanciato e atletico, come si sarebbe aspettata dalla combattente e dalla formidabile cacciatrice di cui Helena aveva raccontato. Ma tutta l’attenzione ricadeva subito su quello sguardo: Laura non ne aveva mai visto uno così, era come se le penetrasse l’anima per spiare dentro di lei e capire quello che le passava per la mente. Quegli occhi sospettosi e a tratti minacciosi le fecero persino scorrere un brivido lungo la spina dorsale.

Infine Gaius Marcellus Nerva, il centurione della Nuova Legione, fu quello che la sorprese più di tutti: per via di quello che Helena aveva detto sul suo conto, Laura era partita prevenuta con l’immaginazione, aveva preso ad aspettarsi un uomo che facesse trasparire cattiveria e superbia; invece il Romano le diede l’impressione di essere l’esatto opposto. Era imponente e muscoloso e teneva un portamento abbastanza autoritario, eppure la bionda riuscì solo ad avere un’ottima impressione su di lui. La sua espressione seria, ma pacata la metteva a suo agio e la ragazza se lo immaginò come una di quelle persone sempre disposte ad ascoltare e a dare il loro appoggio morale. Inoltre, la sua barba curata e il taglio dei suoi capelli castani gli davano un certo fascino, un valore aggiunto al suo fisico notevole. Ma ora Laura aveva giudicato le apparenze quanto bastava: era ora di conoscerli davvero. Quindi sfondò il muro dell’imbarazzo con tutto il suo coraggio ed esordì:

«È un vero piacere conoscervi! Io sono Laura, e questi sono Jack, Chloe e Sam»

Dopo i saluti, Helena propose di passeggiare lungo la spiaggia e i ragazzi furono d’accordo. Una volta che presero a camminare, la biologa tentò di avviare la discussione:

«Allora, ci sono delle domande in particolare che vorreste farci? Oppure, posso spiegarvi meglio alcune parti che la settimana scorsa ho solo accennato»

Laura iniziò a pensare alle cose che le premeva di più capire meglio, ma Sam fu più rapido di lei a prendere la parola: si schiarì la voce e, con un’espressione un po’ beffarda, si rivolse a Nerva:

«Sì, io avrei una domanda su di te: quindi sei un Romano originale? Uscito direttamente dall’impero prima del Medioevo?»

Gaius inarcò un sopracciglio, perplesso:

«Esatto. Ne dubiti, ragazzo? Eppure il mio nome mi sembra inequivocabile»

Il rosso fece spallucce:

«Sai com’è, la prudenza non è mai troppa. Senza offesa, per quanto mi riguarda potreste essere tutti e tre degli attori professionisti»

Chloe gli pizzicò il braccio, con uno sguardo di rimprovero:

«Sam! Che stai dicendo? È la prima volta che li vedi e li provochi, dopo tutto quello che abbiamo già visto?»

«Effettivamente, trovo che questa domanda rasenta l’offesa» commentò Rockwell, irritato.

Mentre Laura arrossiva dalla vergogna, Sam alzò le braccia con fare innocente e si difese:

«Che c’è? Sono solo curioso! Non puoi dire proprio niente per convincermi?»

Nerva sembrò indeciso e Sam cominciò ad abbozzare una smorfia soddisfatta. Laura era pronta ad intervenire, dicendo che non era necessario e che purtroppo Sam era fatto così, quando Mei-Yin fece una proposta:

«Forse puoi dirgli qualcosa nella tua lingua, visto che a quanto pare la conoscono in pochi in questa epoca»

Gli occhi di Chloe si illuminarono:

«Oddio, è vero! Tu sei un madrelingua latino! Oh, questo è un sogno che si avvera! Forza, di’ qualcosa a Sam in latino, io tradurrò per lui! Finalmente i corsi delle lingue classiche mi serviranno davvero a qualcosa»

Nerva, sorridendo per l’entusiasmo della mora, annuì e disse a Sam, con tono severo:

«Rusticitas tua vere molesta. Tempore meo pueri multum verecundiores erant»

Sam guardò Chloe, disorientato:

«D’accordo, che diamine ha appena detto?»

La mora ridacchiò, incrociando le braccia, e tradusse:

«Ti ha sbattuto in faccia che la tua sgarbatezza è davvero irritante e che, ai suoi tempi, i ragazzi erano molto più rispettosi. Sai una cosa? Ti sta proprio bene!»

Sam, imbarazzato, guardò Nerva interdetto.

«È vero?» gli chiese.

«Sic est» annuì il centurione.

Il rosso si tolse gli occhiali da sole e si grattò il collo, imbarazzato:

«Va bene, direi che è abbastanza convincente. Ti chiedo scusa. E così hai davvero attraversato l’intera Asia e poi anche il Pacifico? Dall’Italia?!»

Il centurione fece un triste sospiro e continuò:

«Sì, e onorerò sempre le anime dei legionari persi durante quel terribile viaggio. Soprattutto i miei dieci fedeli amici della prima decuria che ho guidato all’inizio della mia carriera: mi sono sempre stati accanto, dal mio comando in Dacia a quella missione in Oriente. L’oceano li reclamò prima che approdassi su quell’isola e, purtroppo, lo scudo su cui avevo inciso tutti i loro nomi in loro memoria è rimasto su ARK»

«Oh… dev’essere dura, amico» mormorò Sam.

Dopo un breve silenzio, Chloe richiamò l’attenzione della guerriera cinese:

«Dunque, su ARK ti facevi chiamare la Regina delle Bestie, eh?»

Mei non rispose subito; dapprima non fece che lanciarle un’occhiata sospettosa, poi distolse lo sguardo: pareva incerta. Chloe le domandò se qualcosa non andava, perplessa, al che Helena incoraggiò l’amica:

«Suvvia, Mei, lasciati andare! Questi ragazzi non potrebbero mai avere cattive intenzioni, lo puoi vedere bene»

A quel punto, la Cinese tirò un sospiro rassegnato e, tornando a fissare Chloe, le disse:

«Non ho scelto quel titolo, me l’ha dato un pescatore della tribù degli Squali Dipinti venuto per assoldarmi. Ho soltanto deciso di accettarlo, ma sì: ero la Regina delle Bestie»

«Squali Dipinti? Questi sì che sanno scegliersi i nomi» disse Sam, facendo apposta a tenere un’espressione fin troppo ammirata per scherzare.

Chloe, mantenendo la sua vivacità, continuò più interessata che mai:

«Helena ci ha detto che eri la padrona di un branco di bestie degno di invidia. Avevi un esercito personale di dinosauri, vero? E li domavi tutti tu, con quel metodo strano che c’è scritto in quel libro?»

Allora Mei-Yin si arrotolò una manica e scoprì il braccio destro, mettendo in mostra le impressionanti cicatrici di due grossi morsi.

«Questi sono i segni lasciati da Wuzhui, il mio primo raptor e il mio compagno più fedele sull’isola. Nessuna delle mie bestie è mai stata nobile e coraggiosa quanto lui. Se non mi avesse salvata dalla Nuova Legione, sarei morta con lui»

Laura si accorse che Nerva aveva stretto le labbra, quando Mei aveva menzionato l’ultima parte: era chiaro che si sentisse responsabile per qualunque cosa fosse successa, visto che era stato il generale della Nuova Legione. Per pochi attimi, una sfumatura di tristezza e persino di nostalgia riempì la voce della guerriera, che però tornò subito calma e gelida come sempre. Poi, come ulteriore prova delle sue gesta, scoprì gli altri arti e l’addome per mostrare tutte le sue vecchie ferite da battaglia, alcune inferte da artigli e zanne e altre da armi bianche. Chloe ascoltò e osservò, affascinata, per poi affermare:

«Certo che sei davvero tosta! Immaginavo già che fossi forte, ma così tanto? Ce ne vuole!»

Quei complimenti sembrarono davvero disorientare Mei: rimase davvero interdetta e confusa. Laura suppose che la donna asiatica non fosse per niente abituata a ricevere lusinghe di qualunque sorta. Era buffo vedere il minaccioso e suggestivo sguardo della Regina delle Bestie farsi perplesso. Alla fine, Mei si ricompose e disse:

«Grazie, immagino. Facevo solo il necessario per sopravvivere. Nulla di diverso dalla vita nel mio villaggio»

«Oh, giusto! Potrei chiederti una cosa sulla rivolta dei Turbanti Gialli?» chiese Chloe, speranzosa.

A quel punto, però, la disponibilità di Mei sembrò esaurirsi:

«No, vorrei evitare di parlare della mia vita in Cina. Non ne me faccio niente» rispose, distaccata.

Chloe, seppure un po’ delusa, annuì con aria comprensiva:

«Capisco, non pensavo che ti desse fastidio. Comunque, ho anche una domanda più generale: è proprio vero che gli Arkiani capiscono tutte le lingue?»

Helena annuì:

«Certo, e le parlano senza difficoltà. Non sono una linguista, ma credo che nella loro lingua madre ci debba essere qualcosa che li aiuta a capire al volo tutte le altre»

«Per me era sempre strano quando mi capivano e rispondevano come se venissero dalla mia stessa terra, non avevano nemmeno accenti. Mi sembrava quasi una magia, come tutto il resto di quell’isola maledetta» aggiunse Mei.

«Oh, quanto li invidio! Sai, ti conviene non sentire il mio mandarino: ho ancora qualche problema coi toni, ma ci sto lavorando. Dammi giusto un anno e potremmo conversare in cinese! Che ne pensi?»

«Perché dovrei darti il mio parere su questo? È una tua scelta» le rispose.

«In effetti hai ragione» ammise Chloe.

A quel punto, Rockwell si schiarì la voce per attirare l’attenzione su di sé e, con un sarcasmo velato, chiese:

«Perdonatemi se sono indiscreto, ma nessuno ha intenzione di chiedere un po’ di saggezza al sottoscritto, vale a dire colui che ha fatto le scoperte più utili e importanti sulle affascinanti bizzarrie di ARK? Certo, Helena ne ha effettuate a sua volta nel suo campo, tuttavia gradirei cogliere questa occasione per illuminarvi su ciò che compete a me»

Detto questo, il medico inglese rimase in attesa di ricevere una risposta con aria impaziente, finché Jack non si fece avanti e gli chiese, con un timido sorriso:

«Ecco, forse io potrei avere una domanda per lei, dottore: Helena ci ha detto che su ARK ha inventato delle medicine strane con le piante del posto, potrei sapere di più su questo? Sono curioso»

Il volto di Rockwell si colmò di soddisfazione e il chimico ridacchiò, gongolante:

«Mi fa molto piacere che Helena abbia precisato questo essenziale dettaglio della mia vita sull’isola, e me ne fa ancora di più che tu abbia voluto chiedermi di approfondire! Dunque, da dove posso cominciare? Oh, ma certo! Una delle mie ricette più intriganti: il Tonico Scervellatore»

Jack sollevò un sopracciglio:

«Scervellatore? Una sorta di integratore per la concentrazione o…»

«No, certo che no! Cancella completamente la memoria del consumatore»

Tutti e quattro i ragazzi si scambiarono un’occhiata attonita e Jack replicò:

«Ma credevo che lei producesse medicine! Cos’ha di medicinale una sostanza che fa dimenticare tutto?»

Edmund levò gli occhi al cielo:

«La tua ingenuità mi lascia senza parole. Metti che un paziente abbia subito un trauma che ha alterato in modo grave e degenerativo la sua psiche, al punto che ormai non ha più alcuna possibilità di condurre una vita che sia compatibile con la società. Non trovi che per lui sarebbe un’occasione, dimenticare tutto ciò che l’ha ridotto alla psicosi e ridefinirsi con le sue scelte?»

Jack sembrò ricredersi:

«Be’, se la mettiamo così, in effetti… è davvero estremo, ma meglio di niente. Altri farmaci?»

Rockwell rimuginò strofinandosi la barba:

«Dunque, per la maggior parte avevano lo scopo di incrementare certe prestazioni del corpo umano: il Curry Fritto aiuta a resistere al freddo, la Zuppa di Lazzaro incrementa la capacità polmonare, permettendo apnee notevolmente più lunghe. La Tartara Battagliera conferisce un vigore e una resistenza che farebbero invidia ad un soldato spartano. Sono solo piccoli esempi dei miracoli farmaceutici che ho scoperto studiando la flora di ARK e chissà quanti altri ancora avrei potuto realizzarne, se fossi rimasto»

«Che dire, sembrano veramente utili!» esclamò Jack.

«Per quanto mi riguarda, hai portato il doping al livello successivo, dottore» scherzò Sam.

«Suppongo che il tuo sia un modo ironico di farmi un complimento, quindi ti ringrazio» rispose il chimico.

Ormai erano tutti entrati nel vivo della conversazione, ogni imbarazzo o disagio iniziale era stato superato e sostituito dall’interesse per le storie di quei quattro naufraghi da altri tempi. Fu grazie a ciò che Laura si sentì pronta a rivolgersi ad Helena per farle la domanda che l’aveva tormentata di più nel corso di quella settimana:

«Helena, ho ripensato molto ai dettagli che ci hai raccontato sulle creature dell’isola, vorrei provare a capire meglio un paio di cose»

«Ma certo, chiedi pure» le sorrise la biologa.

«Allora, secondo te gli equilibri innaturali nell’ecosistema di ARK e il fatto che ci sia una creatura che fa da “re” per la fauna, questo King Kong nella vita reale, sono collegati e dovuti alla tua teoria? Sai, quella per cui c’è qualcosa che controlla la natura arkiana, come se fosse uno zoo»

Helena annuì:

«Tutti gli indizi che ho raccolto me lo fanno pensare. Il numero delle prede è identico al numero dei predatori, le creature si lasciano domare con facilità e sono ancora più semplici da addestrare, le specie da certi periodi geologici hanno saputo adattarsi a quelle da altre epoche senza che ci fossero sconvolgimenti nella catena alimentare. E, per giunta, la base da cui parte il loro comportamento nei confronti delle altre creature e degli umani è influenzata da un singolo animale che li tiene a bada. Non ho visto coi miei occhi degli scenari diversi da quello che ricordo, ma ho sentito molte testimonianze dirette. Non è difficile capire che tutto questo non potrebbe mai innescarsi in maniera spontanea: dietro dev’esserci per forza un fattore che gestisce o controlla tutto»

«E l’aspetto degli animali? Pensi di sapere perché sono così diversi da quello che i fossili suggeriscono?»

La donna fece spallucce:

«Credo che, semplicemente, vivere su ARK per moltissime generazioni abbia fatto in modo che la selezione naturale promuovesse dei nuovi tratti che sono apparsi col tempo. Tratti che non sarebbero stati necessari nei loro territori d’origine, ma che hanno reso possibile la sopravvivenza sull’isola. Nel libro hai letto la pagina del morellatopo?»

«Oh, sì! In tutta onestà, quello mi ha confusa. Insomma, non è nemmeno un animale preistorico dall’aspetto sbagliato, non esiste e basta!»

«Non esiste al di fuori di ARK. Ne ho osservati molti da vicino: la mia ipotesi è che siano dei ceratopsidi che, per convergenza evolutiva, hanno sviluppato delle caratteristiche del morelladonte, fino a diventare una nuova specie a parte»

«Uhm… immagino che quadri. Comunque, tornando a noi, cosa potrebbe mai essere ciò che controlla l’isola?»

La biologa serrò le labbra:

«Mi spiace, ma non saprei proprio dirti. Sapendo cosa c’è su ARK, potrebbe essere qualunque cosa. In senso letterale»

A quel punto, Rockwell si intromise nel discorso con irruenza:

«Stando ai dati che ho raccolto nella mia personale ricerca, per quanto incompleti possano rischiare di essere, trovo che un possibile punto di partenza siano i tre obelischi dell’isola. E anche i manufatti, per estensione»

«Giusto, trovo anch’io che potrebbe essere una possibile risposta. Ma non è per nulla detto» aggiunse Helena.

«Oh… potreste dirmi di più? Intendo, oltre al fatto che avete aperto la barriera dell’isola grazie a quelli» chiese Laura.

Il vecchio studioso cominciò a spiegare:

«Tralasciando il fatto che sono delle strutture complesse, segno che chiunque abitasse sull’isola in passato avesse una conoscenza che va oltre la nostra immaginazione, le loro punte e l’interno dei manufatti che vanno messi ai loro piedi sono composti da un materiale specifico: lo stesso minerale dei cristalli di cui l’intera ARK è cosparsa. E non può essere un caso che quel bizzarro materiale sia così diffuso»

«È vero, i cristalli! Helena, tu ci hai detto che ne hai visti molti, quando sei naufragata su ARK. Quindi sono proprio dappertutto, su quell’isola?» domandò la bionda.

«Sì, se ne trovano dovunque guardi. Alcuni sono piccoli, altri sono giganteschi, ma sono ovunque. E hanno pure colori diversi, a seconda del bioma in cui ti trovi»

Rockwell annuì e continuò:

«E, qualunque siano le anormalità di quei cristalli, non si limitano a generare un campo di energia che distorce il tempo al suo interno. Non sono mai riuscito a distinguere la loro effettiva composizione chimica, ma esaminarli mi dava una strana sensazione. Non sembravano semplici minerali cristallini, parevano qualcosa di organico, qualcosa di vivo»

«Minerali organici? Come l'ambra?» chiese Chloe.

«L'ambra è resina fossile - la corresse Edmund - Ma credo che abbia afferrato il concetto. Tuttavia, le proprietà chimiche dei cristalli di ARK non hanno niente in comune coi materiali organici»

Queste riflessioni fecero ricordare a Laura il particolare confessato da Helena e la ragazza fu subito curiosa di sapere se, magari, la faccenda degli obelischi e dei manufatti era collegata ad esso in qualche modo. E così, senza riflettere, domandò:

«Ha a che fare con quella scoperta che hai lasciato perdere, prima di andare via da ARK?»

D’un tratto, Helena diventò pallida e si irrigidì, come terrorizzata. Mentre Mei-Yin e Nerva si scambiavano una furtiva occhiata perplessa, Rockwell fissò la bionda e la biologa con uno sguardo interrogativo e inquisitorio:

«Di cosa stai parlando, se permetti?»

Laura, con assoluta noncuranza, specificò:

«Ci hai detto che ad un certo punto hai trovato una nuova pista che secondo te avrebbe potuto condurti alla conferma della tua teoria, ma poi hai preferito tornare a casa per non rischiare di perdere l’occasione. Credi che gli obelischi abbiano a che fare con quello?»

Solo allora Laura si accorse dell’espressione angosciata di Helena e si fermò, iniziando a confondersi. Poco dopo, notò inoltre che i suoi amici stavano cercando invano di intimarle di zittirsi con sguardi e piccoli gesti, ma ormai era troppo tardi. Disorientata, Laura ragionò meglio e trasalì sconvolta, quando si ricordò che Helena aveva aggiunto che non aveva mai avuto il coraggio di rivelare quella parte della storia ai suoi compagni. La bionda sbarrò gli occhi e si coprì la bocca, in preda alla vergogna. Edmund diventò a dir poco furioso e si voltò verso Helena, stringendo i pugni e facendosi fremere la barba:

«Helena, esigo una spiegazione. Subito» sibilò.

La biologa chiuse gli occhi, sospirò e chinò il capo, in preda al panico. Laura si voltò da un’altra parte, troppo imbarazzata per guardarla. Quando Rockwell la incalzò con un tono molto meno calmo, Helena si arrese e si liberò dal peso:
«È vero, c’è una cosa che non vi ho mai raccontato. L’ho scoperta da sola, nei miei ultimi giorni di esplorazione libera»

«Dimmi di che si tratta!» insisté Rockwell, sempre meno contenuto.

Helena si sforzò di restare calma e, con tono malinconico e rassegnato, iniziò a raccontare:

«Sulla cima del Monte Brace, il vulcano, hai presente l’albero al centro del cratere?»

Rockwell, ormai, fremeva:

«Certo che ce l’ho presente! Lo si vedeva da ogni angolo di ARK! Vieni al punto!»

«Intorno a quella pianta ci sono degli incavi con le sagome di tutti i manufatti, identici a quelli nei piedistalli dei tre obelischi. Sicuramente portarli lassù innesca qualcosa di diverso, altrimenti non avrebbe senso creare delle “serrature” a parte negli obelischi. È solo che non ho voluto approfondire. Cerca di capirmi…»

Il medico inglese, di colpo, non si trattenne più e tuonò:

«No! Non devo capirti, tu devi scusarti e sperare che ti perdoni! Come hai potuto?! Per settimane mi sono scervellato alla ricerca del pezzo mancante del quadro, cercando di capire cosa mi stava sfuggendo per capire a fondo i segreti di ARK, e tu mi tieni all’oscuro dopo aver scoperto quello che cercavo?! Tre anni fa, credevo che meritassi solo il mio disprezzo per aver cercato di soffiarmi il merito delle scoperte più importanti della storia della scienza, ma questo… questo! Hai trovato la via per la risposta finale e le hai voltato le spalle! Mi hai negato la possibilità di venirne a capo e rivoluzionare finalmente il mondo! Non ti vergogni, Helena?!»

«Adesso smettila, prima che cominci a dare spettacolo» si intromise Mei, guardandosi in giro.

Il medico la fulminò con lo sguardo:

«Non mi interrompere! E fammi la cortesia di stare fuori da questioni che non capisci»

«Sei tu che non capisci che Helena ha avuto molto più buonsenso di te» replicò la Cinese.

«Quello che ha fatto non è stato buonsenso, è stato tradire la ricerca della verità, la vocazione dello scienziato!»

«Basta!» esclamò all’improvviso Nerva, sovrastando il tono concitato di Edmund.

La voce ferma e autoritaria del centurione fu sufficiente per zittire il chimico, o comunque a dargli modo di fare una pausa e ricomporsi, tornando alla sua solita facciata cordiale e posata. Tuttavia, non smise di fissare la biologa con uno sguardo pieno di rabbia, quasi di odio. Helena rimase in silenzio per una manciata di secondi, con un’espressione malinconica, prima di pronunciarsi di nuovo:

«Non è una scelta che ho fatto a cuor leggero. Ma trovo che sia stata giusta: fuori da ARK avevo una vita, degli amici, ricordi… mi mancavano più di quanto volessi scoprire la verità. Quindi no, non mi vergogno»

Rockwell fece per replicare, alzando un dito, ma questa volta si trattenne. Alla fine ci rinunciò, scuotendo il capo e iniziando a camminare avanti e indietro, immerso nei suoi pensieri e borbottando nervosamente. Fu allora che Laura ebbe il coraggio di rivolgere la parola ad Helena:

«Scusami, Helena, davvero: ero talmente presa a pensare a tutti quei dettagli, a cercare di unire i puntini. Mi è sfuggito dalla mente che avevi detto di non averlo mai raccontato a nessuno. Non volevo fare questo casino. So che adesso ce l’avrai con me a vita, però…»

Helena la interruppe e la rassicurò:

«Non sono arrabbiata con te, tranquilla»

«Davvero?» chiese la bionda, non molto convinta.

«Certo che no!»

Questa volta, quell’inconfondibile sorriso confortante che la biologa fece bastò a persuadere la ragazza che la donna stava dicendo la verità, quindi Laura si concesse di tirare un sospiro di sollievo. Quando guardò i suoi amici, vide che anche loro apparivano sollevati: la situazione non era precipitata troppo. Ma ecco che, di punto in bianco, Rockwell smise di rimuginare e li guardò tutti con sguardo determinato, prima di fare un annuncio:

«Tornerò su ARK»

Tutti gli altri, sia i suoi tre compagni di naufragio che i quattro ragazzi, lo fissarono sorpresi e increduli di ciò che il vecchio Inglese aveva appena detto.

Furtivo come una faina, l’uomo con la bombetta osservava i ragazzi e i reduci di ARK da lontano, seminascosto dietro una piccola rimessa delle barche, ascoltando con attenzione ogni loro parola: l’intera conversazione, da cima a fondo, era stata registrata dalla sua inseparabile socia: la sua fedele DOR-15. Più i due ignari gruppi si scambiavano delle preziose informazioni riservate sull’isola preistorica, più la soddisfazione dell’uomo con la bombetta cresceva: si lisciava i baffi e si lasciava sfuggire smorfie maliziose che mettevano in mostra i suoi orribili denti gialli e storti. Quando, alla fine, Sir Edmund Rockwell dichiarò che voleva tornare su ARK, l’uomo capì di aver ottenuto molto più di quanto sperasse.

«Ci siamo quasi, Doris: abbiamo una pista!» sibilò a denti stretti, euforico.

Sentì un ronzio e avvertì una vibrazione sulla sua testa quasi calva, segno che la sua “amica” aveva estratto il visore e si era messa a guardare i loro bersagli con lui. Una voce femminile meccanica e monotona provenne dal suo copricapo:

«Le probabilità sono troppo basse per stabilirlo: Edmund Rockwell ha espresso una decisione avventata per via del suo attuale stato emotivo e del suo carattere e nessuno degli altri soggetti è in una posizione che lo appoggia. Posso affermare con totale certezza che abbiamo ancora bisogno di raccogliere dati»

L’uomo si morse le labbra, frustrato:

«Sei sicura?»

«Sì. Se riusciamo a procurarci abbastanza informazioni da scoprire la posizione geografica di ARK, potremo smettere di dipendere da loro e passare immediatamente alla fase successiva del piano»

«Già, le maledette coordinate. Ci metteremo le mani sopra, quant’è vero che mi chiamo Mike Yagoobian! A proposito, sei davvero certa che quei quattro le tengano nascoste da qualche parte?»

«È molto probabile. La copia dell’enciclopedia in possesso di Helena Walker è identica a quella in tuo possesso. Ciò significa che deve contenere anche la pagina finale da cui l’autore ha cancellato le coordinate di ARK nel nostro caso. Quando ho scansionato il libro nelle mani del soggetto Laura Hamilton, ho scoperto che l’ultima pagina è strappata. Seguendo la logica, Helena Walker dev’esserci talmente affezionata che l’ha custodita, prima di separarsi dal volume»

Mike rimase interdetto e a occhi sbarrati per vari secondi, mentre si sforzava di seguire il ragionamento del suo cappello meccanico:

«Sei sempre così macchinosa…» commentò.

«C’è un’accezione ironica nella tua affermazione?» domandò DOR-15.

«Ehm… no. Guarda, se ne stanno andando!» esclamò Mike.

Ormai la registrazione era spenta e Doris non poteva più permettersi di riattivarla, o la sua batteria si sarebbe scaricata, ma dalle circostanze compresero che i due gruppi si stavano congedando con aria un po’ tesa e si stavano allontanando in due direzioni opposte. L’incontro doveva essere finito: quell’ultima parte “accesa” della discussione a causa della gaffe di Hamilton e la confessione di Walker dovevano aver compromesso tutto. L’uomo con la bombetta rifletté: non doveva perderli di vista neanche un giorno. Ormai, grazie all’intromissione dei quattro ventenni, i sopravvissuti ad ARK avevano mostrato più “attività” sull’argomento in poche ore che in tutti i mesi in cui li aveva spiati origliando i loro discorsi, sperando di cogliere anche il minimo dettaglio utile. Stavano per giungere ad una svolta importante, se lo sentiva.

«L’osservazione continua. Ti consiglio di concentrarti su Walker e i suoi compagni: la loro reazione a ciò che è accaduto oggi potrebbe fornirci altre informazioni utili» spiegò DOR-15.

«Ottima idea» sorrise Mike.

Prima di andarsene a sua volta, l’uomo con la bombetta frugò nelle tasche interne dei suoi trasandati abiti neri e tirò fuori un mini-raccoglitore con la copertina di My Little Pony smarrito che aveva raccolto per strada, su cui aveva scritto i passaggi del suo brillante piano in mancanza d’altro. Tirò una riga sulla prima fase e contemplò le altre:

Tenere d’occhio i quattro svitati
Trovare le coordinate
Andare sull’isola
Prendere il tesoro di Darwin
Diventare ricco


«Ah, quanto mi piacciono le liste! Ehehehehe» ghignò Mike, fiero di sé.

A quel punto, si decise a tornare sulle tracce dei suoi bersagli: l’operazione che gli avrebbe cambiato la vita per sempre non si sarebbe svolta da sola, in fondo.


ANGOLO AUTORE

Se avete riconosciuto l'uomo con la bombetta... ebbene sì, sono proprio Michael "Grufolo" Yaggobian e DOR-15 direttamente da I Robinson: una famiglia spaziale della Pixar, dal lontano 2007... credo che lo conoscano due persone in croce, ma a me questo "cattivo" è rimasto così impresso che ho deciso di creare una sua versione alternativa e dalle origini reinventate da zero, nel mio AU di ARK!

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Capitolo 5
*** La decisione fatidica ***


Era passato un giorno dall’incontro sulla spiaggia ed era quasi notte: le prime stelle erano già spuntate nel cielo, ma all’orizzonte c’era ancora un alone azzurro. I palazzi di Sidney erano illuminati, così come le strade. L’uomo con la bombetta era appostato sul tetto della palazzina di fronte a quella dove abitavano Helena e gli altri naufraghi da ARK, come tutte le sere da quando aveva iniziato a tenerli d’occhio di nascosto. Era sdraiato sul bordo del tetto, usando la sua mantella nera come una coperta, così da essere meno visibile al buio. Con un binocolo, osservava assieme a Doris l’appartamento dei quattro sopravvissuti attraverso le finestre e una radiolina posizionata accanto a lui trasmetteva tutti i loro discorsi, registrati da un microfono che Doris aveva nascosto nella casa qualche settimana prima. Durante lo spionaggio, teneva a portata di mano un pacchetto di noccioline e una bottiglietta d’acqua. A Mike non piaceva per niente stare sdraiato e immobile per così tante ore ogni sera: ormai aveva i gomiti e i ginocchi sbucciati e infiammati tutto il tempo, i muscoli gli si intorpidivano e già non aveva proprio un fisico da atleta; ma si consolava pensando che ne sarebbe valsa la pena. Forse. Prima o poi.

Confidava che presto o tardi dalle conversazioni di Helena, Rockwell e gli altri due sarebbero usciti dettagli che lo aiutassero a capire come raggiungere ARK ma, allo stesso tempo, viveva nella paranoia e nel terrore di essersi già perso informazioni preziosissime per colpa di quella maledettissima radiolina: era un modello degli anni Settanta che aveva rimesso in funzione come meglio poteva con l’aiuto del proprietario di un negozio di antiquariato. Adesso funzionava, ma aveva pur sempre cinquant’anni: c’era il rischio costante che, di punto in bianco, impazzisse in vari modi e non era sempre detto che tornasse a funzionare subito. Persino in quel momento, in cui i suoi quattro bersagli non si stavano dicendo nulla di particolare, Mike era teso come una corda di violino per paura che la radiolina lo abbandonasse. Aveva già provato a chiedere a DOR-15 se aveva una radio fra i suoi dispositivi, ma la bombetta aveva risposto che, se così fosse stato, avrebbero già avuto molte meno difficoltà in passato. Mike giurò che la prima cosa che avrebbe fatto, una volta trovata l’isola, sarebbe stato frantumare quella radiolina a randellate per vendicarsi di tutta l’ansia che gli aveva dato. Oppure l’avrebbe fatta distruggere da un dinosauro, giusto per stare in tema.

«Mike, attenzione: sembra che Edmund Rockwell stia facendo uno studio insolito nella sua stanza» disse Doris all’improvviso.

L’uomo con la bombetta fu riportato di colpo nel mondo reale dopo quella piccola distrazione ed ebbe un piccolo sobbalzo per lo spavento. Ebbe la tentazione di protestare con Doris, ma ci rinunciò: l’operazione aveva la priorità. Così puntò il binocolo sulla finestra della camera da letto dei due uomini e ingrandì la visuale. Il vecchio narcisista che non stava mai zitto stava studiando quella che sembrava una cartina, con sguardo molto assorto. La radiolina emise un forte ronzio da interferenza, ma Mike la ignorò: era concentratissimo. Si sforzò di provare a distinguere i disegni, ma alla fine si arrese e grugnì, frustrato:

«Dannazione, Doris! Renditi utile! Hai un super-occhio digitale, usalo! Leggi cosa sta guardando Babbo Natale per me!»

«Eseguo» rispose Doris.

La bombetta meccanica ronzò per alcuni secondi, prima di affermare:

«Sta esaminando una carta nautica dell’oceano Pacifico»

«Ah, sì? Uhm…»

Mike guardò meglio e si accorse che, difatti, Rockwell stava armeggiando con un compasso e un righello. E il suo sguardo saettava di continuo dalla mappa a un foglio di carta ingiallito e dai bordi consumati. C’erano delle scritte, ma Rockwell le copriva in parte, bloccando la visuale di Mike. Tuttavia, sebbene lui stesso ammettesse di non essere tra i più svegli del mondo, riuscì a fare due più due: se Rockwell stava studiando una cartina per tracciare una rotta usando una scritta, non poteva trattarsi che di una cosa.

«Doris, sono loro! Le coordinate dell’isola preistorica!» esclamò, quasi estasiato, abbassando il binocolo.

«È l’ipotesi più plausibile, le probabilità che siano le coordinate sfiorano il cento percento» confermò DOR-15.

Allora, sia l’uomo che la bombetta iniziarono a sforzarsi di distinguere la scritta su quel foglio che avevano cercato come il santo Graal, ma era inutile: quando Rockwell non la copriva a metà col gomito o con una mano, la sua ombra proiettata dalla lampada sulla scrivania oscurava la pagina. Mike ringhiò, sempre più frustrato. C’era così vicino, ma era ancora così lontano dall’obiettivo; d’un tratto, la porta della stanza si aprì e Helena Walker entrò, mettendosi a braccia incrociate accanto al chimico inglese e guardandolo con un’espressione a cavallo tra il rimprovero e la preoccupazione. Rockwell la ignorò, chiaramente facendo apposta per provocarla. Mike si lisciò i baffi con una mano, intrigato:

«Forse sta per cominciare un bello spettacolo frizzante» mormorò, sogghignando.

Lanciò una rapida occhiata apprensiva alla radiolina: era il momento della verità. Tornò subito a spiare i due, giusto in tempo per vedere Helena rivolgere la parola a Rockwell. Quando la donna aprì bocca, la radiolina emise un ronzio graffiante per qualche minuto, ma poi iniziò a trasmettere quello che la biologa stava dicendo. C’era una lieve interferenza, ma le parole si distinguevano. Mike tirò un sospiro di sollievo e tese le orecchie, supplicando mentalmente quei due di rivelargli qualcosa, qualsiasi cosa. La donna avviò la discussione:

«Sono entrata in camera mia e ho notato che la pagina strappata dal libro è sparita. Chissà perché, ho capito subito dove cercarla» insinuò Helena, con un sospiro sconsolato.

«Il tuo spirito di osservazione è più acuto che mai» la punzecchiò Rockwell, senza sollevare lo sguardo dalla mappa.

Helena scosse la testa:

«Edmund, per favore, basta. La devi smettere con questa fissazione! Mei ha ragione: sei così ossessionato da ARK che a malapena vivi! Passi tre quarti della giornata a studiare medicina e l’ultimo quarto a rivangare le scoperte sull’isola: non ti fa bene»

Rockwell si aggiustò gli occhiali, irritato:

«Non ti permettere di fare una ramanzina a me su cosa fa bene o male, Helena. È come se un calzolaio avesse la pretesa di insegnare a un pescatore come si gettano le reti»

«Non si tratta di questo. Ora sei furioso con me, lo so molto bene. Per inciso, non sono contenta di aver tenuto un segreto come quello per tre anni: anche se non mi credi, capisco quanto fosse importante per te»

«E nonostante questo, hai lasciato che perdessimo l’occasione di approfondire sull’indizio che hai scoperto sul Monte Brace. Mei-Yin può rinfacciarmi di essere un ipocrita e un egoista quanto vuole, ma guardiamo in faccia alla realtà, Helena: abbiamo tutti pensato al nostro tornaconto personale, in questa storia, non trovi?»

Helena distolse lo sguardo, serrando le labbra:

«Be’, non…»

«Tu hai lasciato perdere tutto quello che stavamo… no, che stavo per scoprire su ARK, perché volevi a tutti i costi tornare in questa città. Mei non vedeva l’ora di abbandonarsi all’illusione di una normalità che riesce a prevedere e in cui sentirsi al sicuro. Il signor Nerva, a quel punto, sperava di sfuggire all’ira degli Arkiani. Non siete diversi da me, quindi non hai alcun diritto di giudicare la mia decisione di finire quello che ho lasciato in sospeso»

«Quello che dici non ha senso: noi tre volevamo una vita normale e tranquilla, è un diritto di tutti. Tu, invece, sogni di cambiare il mondo e ribadire che è merito tuo!»

«Uhm… potrebbe essere come dici, ma sarebbe comunque vantaggioso per tutti: io avrò il riconoscimento che merito e la civiltà conoscerà una nuova era. Grazie a me»

«Ma a parte questo, dove sta scritto che laggiù c’è per forza qualcosa di straordinario?»

«Fino a prova contraria, sta scritto nel libro che hai molto ingenuamente lasciato in un luogo pubblico»

Helena rimase interdetta e balbettò per un attimo, rendendosi conto di aver regalato a Rockwell un punto a suo favore. Fissò il pavimento per alcuni secondi, incapace di trovare una risposta. Il farmacista se ne accorse e, finalmente, alzò il capo per guardarla negli occhi, malizioso:

«E ti dirò di più, Helena: se ci rifletti bene, non avevi alcun motivo di portarmi qui con te. Non ti sarei servito a niente. Allora perché non mi hai rivelato quello che avevi visto e non te ne sei andata da sola, o con Mei-Yin? Tu saresti andata per la tua strada e io per la mia, qualunque cosa mi sarebbe successa non sarebbe stata un tuo problema. Allora perché hai preferito negarmi ciò che mi spettava di diritto?»

Helena lo fissò, sconvolta:

«Sei serio?» gli chiese.

«Non mi risulta di aver usato un tono ironico o che lo sembrasse» la stuzzicò Edmund.

Helena allargò le braccia, come se stesse dicendo un’ovvietà:

«Edmund, sei un mio amico! Come avrei mai potuto lasciarti su ARK? La barriera era aperta, era un’occasione per tutti e quattro, perché non coglierla insieme? E poi non mi hai detto di voler rimanere!»

Rockwell strinse gli occhi e le puntò il compasso contro, come un indice accusatore:

«Certo che no! Non sospettavo minimamente che ci fosse dell’altro, perché tu mi hai subdolamente nascosto tutto! Per quanto ne sapevo, la pista dei manufatti si era conclusa in un vicolo cieco, dopo aver trovato quel cristallo senza uno scopo apparente sull’Apoteosi!»

«Sì, in effetti…»

Rockwell non le permise di continuare:

«Ho accettato di seguirti fin qui perché ero convinto di non avere più dove cercare, anche se sapevo che la soluzione era da qualche parte sotto il mio naso. E difatti… quando penso che ci è voluta la sbadataggine di una giovane ragazza, tre anni dopo, per farmelo scoprire! Al pensiero che avrei trascorso il resto della mia vita nell’ignoranza, se fosse dipeso da te…»

Mike rabbrividì per il genuino rancore e ribrezzo che il vecchio superbo aveva trasmesso in quelle parole. Era irritante, ma allo stesso tempo era inquietante. Quel rinfacciamento aveva quasi angosciato lui, non osava immaginare come si stesse sentendo la biologa. Helena, infatti, sembrò sconvolta dopo quell'accusa di Rockwell. Fissò il vuoto per dei lunghi istanti, con un'espressione indecifrabile. Mike restò col fiato sospeso, in attesa di scoprire cosa sarebbe successo dopo. Rockwell guardò Helena con sufficienza per alcuni istanti, in attesa di una risposta. Quando vide che lei rimaneva inerte, si aggiustò di nuovo gli occhiali con fare sprezzante e tornò a studiare la cartina, come se nulla fosse. Ma ecco che, un certo punto, Helena sembrò riprendersi e si voltò verso il vecchio inglese e le sue mani si strinsero in pugni. Mike vide indignazione nei suoi occhi, ma intravide anche un velo di umidità: la donna sembrava trattenersi dal piangere. L'uomo con la bombetta suppose che fossero lacrime di rabbia o di frustrazione e non la biasimava: quel chimico era un vero infame. Helena socchiuse le labbra: stava per rispondere. Mike era sopraffatto dalla sospensione, come se stesse guardando un dramma in cui non si sa mai come andrà a finire; poi la radio emise un forte ronzio che lo fece urlare dallo spavento. Il suo cuore sembrava sul punto di scoppiare.

«No! No, no no no no! Traditrice! Non puoi farmi questo! Non adesso!» sbraitò.

«Sembra un problema di rilevamento del segnale» constatò Doris.

Mettendosi seduto a gambe incrociate e tenendo la radiolina poggiata sulle sue cosce, Mike iniziò a darle dei colpetti ripetuti sui lati o a inclinare l'antenna in varie direzioni. Niente da fare: l'unico risultato erano ronzii più flebili o più intensi. Tutto quanto stava per andare a rotoli. Ecco, però, che iniziò a risentire delle voci... si stava risintonizzando. Ritrovando la speranza, Mike insisté a colpire la radiolina e a riorientare l'antenna, finché il segnale non divenne stabile e trasmise:

«Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi...»

«Ma che diavolo... argh! Fai bene a pregare, rottame! Sto per spedirti all’inferno delle radio!» sbraitò Mike.

Sferrò altri due pugni furibondi, facendo ronzare la radiolina:

«E mostraci... il frutto... o clemente...»

«Funziona! Funziona!»

Piegò l'antenna quasi ad arco e il canale cambiò. Ci furono delle interferenze, poi Mike iniziò a distinguere delle parole.

«Coraggio! Coraggio!»

Finalmente, il ronzio sparì:

«Di Tamatoa già conosci bene il nome, ma ero semplice una volta... ho trovato poi la fama ed ecco come: io sono il più bello, baby!»

«Ehi, che bella voce suadente! Un momento, a che sto pensando? Rimettiti in sesto, stupida scatola!»

Il pugno che sferrò dopo fu così violento che l'impatto gli risalì lungo i nervi del braccio fino al gomito, facendolo piagnucolare con una voce lagnosa. Ma, finalmente, la spuntò: la radiolina emise un fastidiosissimo fischio, per poi tornare a trasmettere le voci dei sopravvissuti. Giusto in tempo per sentire Rockwell che diceva:

«Ormai ho tutto quello che mi serve: ho triangolato la posizione di ARK e tracciato la rotta, non mi resta che andarci»

Mike sobbalzò, pervaso dall’adrenalina: quella dichiarazione era il segno che stava per cambiare tutto. Se c’era un momento per aprire bene le orecchie, era adesso. Rimettendo la radiolina a terra in fretta e furia, si rimise in posizione e si portò il binocolo agli occhi. Si allarmò un po’ quando vide che i due erano usciti dalla stanza, ma si calmò subito: poteva ancora sentirli. Cercò di non andare in paranoia ripetendosi che forse non si era perso un granché, a parte una risposta a tono di Helena, e attese di scoprire cosa sarebbe successo ora.

Helena era quasi sul punto di mettersi le mani nei capelli: ormai era fin troppo evidente che niente di quello che diceva sarebbe servito a far ragionare Rockwell. Il risentimento immaturo che nutriva per lei era troppo amaro e la sua determinazione a tornare su ARK era troppo ardente. Non c’era proprio verso di fargli capire quanto assurda fosse l’idea, ma il fatto che avesse usato le coordinate per tracciare una rotta dimostrava che faceva veramente sul serio. E, se c’era una cosa che aveva imparato dagli aneddoti di Rockwell sulla sua gioventù, per quanto esagerati e distorti fossero, era che Edmund sapeva esattamente come orientarsi e usare le mappe: non c’erano dubbi che avesse individuato correttamente ARK. Le sole cose che separavano il chimico dall’isola preistorica adesso erano il Pacifico e un ultimo, disperato tentativo da parte sua di fargli cambiare idea. Così, proprio mentre Rockwell indossava al volo una giacchetta senza maniche appesa all’attaccapanni per uscire, la biologa scattò verso la scodella di ceramica dove teneva tutte le chiavi, afferrò quella della porta e la strinse, allontanandosi dall’ingresso. Edmund la fulminò con lo sguardo:

«Mi auguro che questo sia uno scherzo puerile, Helena» sibilò.

«No, Edmund. Sono più seria che mai» affermò lei, mantenendo la calma.

«Che sta succedendo qui?» intervenne la voce di Mei.

Helena si voltò e vide che la guerriera era uscita dalla camera delle donne, col suo solito sguardo circospetto. Era in canottiera e pantaloncini e a piedi nudi: si stava preparando ad andare a letto. La Regina delle Bestie si fermò sulla soglia del salotto e incrociò le braccia, facendo saettare lo sguardo da Helena a Edmund. Quando vide Rockwell con la giacca e una mappa in mano e la biologa con le chiavi di casa, la sua espressione passò con rapidità dal sorpreso al preoccupato, per poi tornare guardinga come sempre. Guardandola, Helena ebbe come l’impressione di poter vedere la tensione nei muscoli delle sue braccia e gambe snelle, ma toniche.

«State litigando su quell’isola, vero?» domandò Mei, sarcastica.

«Ci puoi scommettere: tutto questo è ridicolo!» si lamentò Rockwell.

In quel momento, la porta del bagno si aprì e Gaius, tornato dal lavoro poco prima e che aveva fatto la doccia, ne uscì in accappatoio e sandali. Coi capelli e la barba ancora umidi e smossi, il Romano si accostò a Mei e guardò la scena, stupito e confuso.

«Vi sentivo discutere anche col rumore dell’acqua, cos’è questo trambusto?» domandò, quasi con ingenuità.

«Edmund ha deciso che vuole tornare su ARK a tutti i costi, ora che sa cosa e dove cercare» spiegò Helena.

Mei fece spallucce, chiudendo gli occhi:

«Be’, che vada. Non vedo dove sta il problema per noi»

Rockwell fece una sommessa risata sarcastica:

«Questa è una delle rare volte in cui approvo l’opinione di Mei. Perché non le dai retta, Helena? Pendi sempre dalle sue labbra»

Helena ignorò quella provocazione e scosse la testa, mettendosi le mani sui fianchi. Nerva si grattò il collo con lo sguardo chino, per nascondere la sua espressione un po’ imbarazzata:

«Ad insulam redire? Questa è follia» commentò.

Helena colse la palla al balzo e annuì. A quel punto, cercò di improvvisare una nuova argomentazione, usando il punto debole che conosceva molto bene di Rockwell: l’orgoglio.

«Esatto! Edmund, questa idea è del tutto fuori di testa! Da quando tu prendi una decisione avventata? Su ARK eri sempre un passo davanti a tutti, lo dicevi tu stesso! Ed eri sempre tu a dire che un posto come quello richiede la massima organizzazione. Non puoi uscire da qui su due piedi e attraversare mezzo oceano, non sai neanche come fare!»

Rockwell incrociò le braccia, con un sorrisetto:

«Certo che lo so: pagherò dei pescatori per scortarmi alle coordinate che gli detterò. Non sai quanti sempliciotti sarebbero disposti a compiere le dodici fatiche di Ercole, per un pugno di monete in più?»

Helena alzò gli occhi al cielo, sbuffando:

«Fammi il piacere, Edmund! Anche se ci riuscissi davvero, dopo ti toccherebbe comunque vedertela con ARK. Solo perché ti è andata di lusso la prima volta, non è detto che sarai fortunato la seconda. Sappiamo tutti che quel posto ha sempre brutte sorprese dietro l’angolo»

Mei annuì:

«Assolutamente. Io avevo un branco di bestie ammirato da tutti, Nerva aveva un intero esercito, e siamo riusciti entrambi a perdere tutto da un giorno all’altro»

Gaius, a sostegno delle parole della Regina delle Bestie, aggiunse:

«Stai facendo un salto nel buio per inseguire qualcosa che non conosci, al di fuori delle pagine di un libro. Al tuo posto, non rischierei così tanto per una promessa così effimera»

A quel punto, calò il silenzio. Helena rivolse uno sguardo supplichevole a Rockwell, sperando che i loro sforzi congiunti bastassero a farlo ragionare. Il chimico inglese faceva serpeggiare il suo sguardo sprezzante da lei agli altri in continuazione, con fare pensoso. La donna aveva la netta sensazione che stesse cercando un’altra scusa per rigirare la frittata: Rockwell era il manipolatore più abile che conoscesse. Lo sapeva perché non l’avrebbe mai sospettato, se Mei non gliel’avesse fatto capire nel corso di quei tre anni. Alla fine, l’espressione del farmacista sembrò distendersi. Edmund si mise le mani dietro la schiena e chinò lo sguardo, serrando le labbra:

«Sapete qual è un dettaglio che mi rattrista, anche se poco?» chiese.

«Non mi interessa» ribatté subito Mei, quasi con aggressività.

Edmund la ignorò e proseguì:

«Rifletteteci: avete tutti un valido motivo per tornare su ARK. Non è così, Helena?»

La biologa capì al volo dove stesse andando a parare e si sentì impotente: sapeva di non potergli dare torto in alcun modo. Rockwell sferrò il suo attacco:

«Vuoi scoprire il segreto di ARK almeno quanto me, tu stessa lo ammetti. Certo, sei spinta dalla pura curiosità scientifica, anziché da un sogno nobile come il mio, ma ciò non toglie che questo desiderio ci accomuna. In fondo, sei pentita di non aver osato, tre anni fa. La tua coscienza aspetta solo un’occasione per farti tornare là, non nasconderlo!»

Helena si sentì combattuta per una manciata di secondi, prima di riuscire a rispondere:

«Sono ancora convinta di aver fatto la mossa più intelligente. Ma non posso darti torto, Edmund: vorrei ancora sapere perché l’ecosistema di ARK è così anomalo»

Rockwell le sorrise compiaciuto, prima di volgere lo sguardo al Romano:

«In quanto a te, Gaius, non sei indifferente a quello che hai fatto agli Arkiani, vero? Il tuo onore è ancora macchiato col sangue che hai versato in nome di Marte, o sbaglio?»

Il centurione chiuse gli occhi e serrò le labbra. Ma poi incrociò le braccia e scosse la testa:

«È vero, mi vergogno ancora per aver dichiarato guerra a un popolo e averlo quasi ridotto in schiavitù. Avere il loro perdono sarebbe il più grande sollievo della mia vita, ma so distinguere i sogni dalla realtà. E nella realtà, il più grande servizio che potessi rendere ai nativi dell’isola era andarmene e non farmi più vedere»

Infine, il chimico passò a Mei, ma rimase interdetto. La guerriera, vedendo la sua esitazione, affermò:

«Esatto, io non ho motivi per tornare in quell’inferno. Tutto quello che ho ottenuto è stata un’altra guerra in cui ho dovuto combattere, anche se non c’entrava niente con me. Non ho avuto altro che dubbi e sofferenza, come quando vivevo in Cina. Qui ho tutto ciò di cui ho bisogno e non vi rinuncerò mai»

Edmund rimase impassibile per un po’, ma poi le rivolse un sorrisetto malizioso:

«Ne prendo atto, ma non lo faresti neanche per sdebitarti con la tua migliore e unica amica?»

«Cosa?» chiesero Helena e Mei, la prima sorpresa, l’altra indignata.

Rockwell annuì:

«Non dimenticare che non avresti mai ottenuto tutto questo senza Helena, le devi questa nuova vita a cui sei tanto attaccata: ti ha dato la sua amicizia, una via d’uscita da ARK e infine ti ha insegnato come vivere in questa società che è secoli più avanzata della tua. E il tetto sotto il quale dormi è il suo, questo vale per tutti noi. So che faresti qualsiasi cosa per sdebitarti con lei, anche tornare sull’isola che odi a morte»

Helena non poteva rimanere zitta dopo un’insinuazione così subdola, quindi intervenne subito in difesa della sua amica:

«Edmund! Come ti viene in mente? Mei non mi deve niente! L’ho aiutata perché era giusto!»

Rockwell fece spallucce:

«Anche tu non mi dovevi niente per i consigli, i favori e l’appoggio intellettuale che ti ho offerto, eppure mi hai fatto questo torto. Ma Mei è molto più onorevole di te, non è vero?»

«Per l’ultima volta, non ti ho fatto nessun torto! Né per la mia ricerca sui manufatti, né per aver nascosto l’ultimo indizio! Falla finita!» esclamò Helena.

Rockwell si limitò ad alzare le mani. Mei lo fissò col suo sguardo fulminante, stringendo i pugni. Alla fine, dopo un breve silenzio, fece dei passi avanti, superò Helena e si parò davanti a Edmund, guardandolo dritto negli occhi:

«Non potresti avere più ragione. Sono debitrice a Helena e farei qualunque cosa mi chieda. Anche tornare su ARK, anche se non vorrei mai. Ma trascuri un particolare»

«Ovvero?» chiese lui, con tono di sfida.

«Helena non mi chiederà mai di tornare laggiù, perché al contrario di te non è così pazza da lasciarsi tutto alle spalle per un’ossessione»

Il silenzio calò un’altra volta. Helena non sapeva proprio cosa dire o pensare: quell’ultimo scontro verbale tra Edmund e Mei l’aveva lasciata senza parole. E la sconvolgeva ancora di più il fatto di essere diventata l’oggetto della discussione più subdola che avesse mai ascoltato. A quel punto, Mei-Yin si voltò verso di lei e, fredda come il ghiaccio, la esortò con un tono quasi minaccioso:

«Dagli quella chiave, Helena. Se vuole andare a morire sull’isola, non sta a te fermarlo: ha fatto la sua scelta. E se per te sarà ancora un amico dopo le cose che ha detto, sei davvero la persona migliore che abbia mai conosciuto»

Detto questo, Mei-Yin si fece da parte e si accostò al tavolino nel salotto, incrociando le braccia e osservando la biologa, in attesa di scoprire cosa avrebbe deciso. Helena era ancora combattuta e guardò la chiave della porta nel suo palmo, come se avesse la risposta ai suoi dubbi. Rockwell le porse la mano, impaziente:

«Coraggio, Helena, ascoltala. Non devi preoccuparti per me: so benissimo quello che voglio e che faccio. Non sarà certo il luogo più inospitale del mondo a ostacolare la mia ricerca! Non mi ha fermato neanche prima»

Ma la poveretta non era ancora sicura. Non aveva il coraggio di lasciare che Edmund facesse una pazzia simile come se niente fosse. In un ultimo, disperato tentativo di avere una mano, si voltò verso Gaius, ma il centurione scosse la testa:

«Io ho detto cosa ne penso e sono contrario alla sua idea quanto te. Ma se è davvero questa la sua volontà, dovresti rispettarla. Sarà il fato a decidere cosa succederà a Rockwell» affermò, solenne.

Mei lo fulminò con lo sguardo:

«Il destino non esiste, sono stanca di ripeterlo»

Helena fece un respiro profondo e si arrese. Fece per consegnare la chiave a Rockwell; ma, appena prima che il chimico la prendesse, il cellulare della biologa, che era appoggiato al tavolino, vibrò e si illuminò. Helena lo guardò d’istinto e intravide un nome che non si aspettava: Chloe Webster.

«Cosa?» mormorò.

Rockwell inclinò la testa e le rivolse uno sguardo interrogativo. Helena prese il telefono e lesse il messaggio che aveva appena ricevuto. Non credeva ai suoi occhi.

«Oddio… i ragazzi vogliono andare su ARK» dichiarò, sconvolta.

«Come, scusa?» domandò Rockwell, incredulo.

«Ci chiedono il nostro aiuto» aggiunse la biologa.

Mei sbuffò, coprendosi il volto con una mano:

«Finirà mai?» si chiese, sconsolata.

Nerva incrociò le braccia e la guardò con un sorriso soddisfatto:

«Se fossi in te, mi ricrederei sul destino. Questo non può essere un caso. Tuttavia, questo ci crea un dilemma: cosa dobbiamo fare ora, Helena?»

La donna sbarrò gli occhi:

«Perché mi fai questa domanda? Non c’è nessun dilemma! È assurdo!» esclamò.

«Assurdo, o un’occasione imperdibile per rendere tutto questo ufficiale?» sogghignò Rockwell.

Mei gli puntò contro un indice accusatore:

«No! Non ci provare! Se tiri in mezzo anche quattro ragazzini che non c’entrano niente con questa storia, hai proprio toccato il fondo»

Il farmacista britannico la ignorò e insisté:

«Coraggio, Helena, smetti di soffocare il tuo spirito da scienziata! Tu in realtà vuoi fare questo viaggio, lo sai! Continua a mentire a te stessa e un giorno te ne pentirai. E forse sarà troppo tardi. Questi giovani ti hanno offerto un’occasione imperdibile! Non vuoi risolvere la nostra faccenda in sospeso?»

Helena non rispose, si limitò a fissarlo. Adesso, mille pensieri contrastanti le frullavano in testa e una scintilla scattò dentro di lei. La ricercatrice la riconobbe subito: era la brama di sapere. E la scintilla diventò presto una fiamma che non ardeva dentro di lei da tre anni. E si rese conto solo in quel momento che le era mancata da morire. Così, con tutti gli sguardi puntati su di lei, Helena digitò la sua risposta ai ragazzi. Non si tornava più indietro.

«Hai ragione. Va bene allora: torneremo su ARK»

La radiolina trasmise la dichiarazione finale di Helena Walker con una chiarezza straordinaria: nessun disturbo di segnale e nessun ronzio. Non c’erano dubbi. Mike era così felice che gli sembrò quasi che fosse un sogno. Sentì di sfuggita Mei-Yin che sbraitava qualcosa, ma ormai l’uomo con la bombetta non ascoltava più: spense la radio, si levò la mantella di dosso e, incurante della copertura, iniziò a fare letteralmente i salti di gioia in giro per il tetto e a esultare a pieni polmoni:

«Sì! Sì! Sìììììììììììììììììììì! È fatta, Doris! È fatta! Chi devo ringraziare? Fa niente, grazie! Grazie infinite! Evviva! Isola preistorica, Mike Yagoobian sta arrivando! Tutti i nostri sforzi sono stati ripagati!»

«Reputo che il tuo festeggiamento sia prematuro, Mike – protestò DOR-15 – Non abbiamo ancora acquisito le coordinate di ARK»

«E chi se ne frega? Non ci servono più!» rise lui.

«Per quale motivo?»

«Ma come? Non ci arrivi? Saranno loro a portarci là! Perché rischiare di farci scoprire rubando un vecchio foglio di carta straccia, quando possiamo seguirli di nascosto fino all’isola e rubargli il tesoro da sotto il naso?»

«Sembra una strategia potenzialmente efficace»

«Certo che è efficace, l’ho pensata io! Muhuhuhuhahahahaha! Be’, Doris, meritiamo di festeggiare! Usiamo un po’ dei risparmi per farci un panino?»

«Se questo contribuirà a rafforzare le tue condizioni psicofisiche, aumentando le probabilità di riuscita del piano, sentiti libero di procedere» rispose Doris.

«Evvai! Era da due anni che non addentavo un Big Mac

Detto ciò, l’uomo con la bombetta raccolse tutta la sua attrezzatura e corse giù dal tetto, scendendo le scale all’esterno canticchiando.

QUALCHE MINUTO PRIMA…

Chloe era sospettosa per Laura, quel giorno: dopo l’incontro coi quattro sopravvissuti della sera prima, l’amica le era sembrata ancora più pensosa del solito. Persino più di quanto lo fosse stata in quel periodo, da quando aveva scoperto l’enciclopedia di Darwin. Al mattino l’aveva vista molto distratta, prima che andasse a dare le sue lezioni di francese; al suo ritorno a casa, l’aveva trovata esattamente come l’aveva lasciata. Chloe sapeva molto bene che, quando Laura faceva così, nella sua testa vorticava qualcosa che avrebbe buttato fuori molto presto. Infatti non si stupì quando, dopo la cena, Laura sospirò con aria tesa, guardò lei e gli altri con un certo imbarazzo e chiese a tutti se potevano venire nella camera delle ragazze, annunciando che aveva qualcosa da chiedere. Chloe aveva già una vaga idea di cosa potesse trattarsi, ma sapeva che dirlo subito l’avrebbe messa così a disagio da farle venire un blocco per l’imbarazzo. Così decise di assecondarla e le chiese, con finta sorpresa:

«Cosa c’è? Si tratta di qualcosa di importante?»

Laura rimuginò a labbra serrate, prima di dondolare la testa e rispondere:

«In un certo senso. Riguarda noi e il nostro… ehm… futuro immediato» ammise.

Sam fischiò, sarcastico:

«Però, sembra serio. Te ne vai per la tua strada?» scherzò.

«Cosa?!» sobbalzò Jack, allarmato.

Chloe non poté fare a meno di fare una piccola risata affettuosa, vedendo come il biondo si era preoccupato subito a sentire quella possibilità. Lui e Laura erano sempre tenerissimi, per lei.

«Eh? No, certo che no! Non ho mai pensato di andarmene!» esclamò Laura, disorientata.

«Oh, scusa, ho capito male» farfugliò Jack, imbarazzato.

«Vabbe’. Seguitemi» si limitò a dire Laura.

Chloe e gli altri si alzarono e seguirono la bionda nella stanza da letto delle ragazze. Laura e Chloe si sederono sui rispettivi letti, Jack si accomodò sulla sedia della scrivania e Sam appoggiò la schiena al muro. Quando si furono sistemati tutti, la paleontologa fece un altro sospiro teso e iniziò a parlare con tono indeciso:

«Ecco, dopo quello che abbiamo fatto ieri alla spiaggia, ho pensato parecchio. Dopo quel litigio fra Helena e Rockwell, mi è venuta una certa idea che non sono più riuscita a scacciare. Vi potrà sembrare stupida, però ho riflettuto bene su tutti i pro e i contro e…»

Chloe notò subito che la stava prendendo più alla larga possibile: significava che si trattava di qualcosa che la metteva davvero in imbarazzo, soprattutto a parlarne con loro. E iniziò a preoccuparsi, quando Laura si decise a sputare il rospo e il suo sospetto diventò realtà:

«Ve la faccio breve: e se andassimo su ARK? Rockwell l’ha detto per primo, magari possiamo approfittarne!»

Chloe e i due ragazzi la fissarono, attoniti e incapaci di trovare le parole. Dapprima la mora ebbe l’impulso di scoppiare a ridere, ma poi si rese conto della serietà con cui l’amica aveva fatto quella proposta e si sentì solo costernata. Laura aveva già fatto suggerimenti bizzarri in passato, ma non era mai arrivata a un tale livello di assurdità. Chloe era stupefatta, così tanto che fu una di quelle rarissime occasioni in cui non aveva una risposta pronta. Non sapeva davvero come reagire, se sminuire la domanda come una sciocchezza o se discuterne sul serio. Fu Sam a rompere il silenzio:

«Ma che, davvero?» domandò.

«Be’, immagino di sì» rispose Laura, con un sorriso timido.

«Cosa? Ma perché?» chiese Jack, a occhi sgranati.

La bionda allargò le braccia:

«Be’, ragazzi, cosa volete che vi dica? Vivo per la paleontologia, ora so che esiste davvero un’isola preistorica con gli animali che studio da tutta la vita e ho pure qualcuno che potrebbe guidarmi! Come potrei sprecare un’occasione simile?»

«Va bene, ma anche facendo finta che abbia senso… e non ha senso, per inciso, perché mai vorresti tirare in mezzo anche noi? Sei tu quella che studia i fossili» contestò Sam.

«Ehm… perché ci sono dei dinosauri veri?» ribatté Laura, ridacchiando.

Il rosso le lanciò un’occhiataccia di monito:

«Se ti metti a canticchiare la musica di Jurassic Park, ti obbligo a correre con me ogni mattina» scherzò.

Jack sorrise e si lasciò sfuggire una lieve risata, prima di ricomporsi e rivolgersi a Laura, con tono solidale:

«Scherzi a parte, Laura, perché vorresti anche noi?»

Laura arrossì un po’ e si strinse nelle spalle:

«Insomma, sarebbe l’avventura più incredibile di tutta la nostra vita, che gusto ci sarebbe senza di voi? Tutti i nostri viaggi sono sempre stati belli come li ricordo perché eravamo tutti insieme! A maggior ragione, vorrei esplorare ARK coi miei migliori amici»

A Chloe si scaldò il cuore, sentendo quella dolce affermazione. Le vennero subito in mente le loro “avventure” estive: ogni anno, durante le vacanze, i ragazzi organizzavano un itinerario in una meta esotica o storica e visitavano luoghi affascinanti o facevano percorsi nella natura. Tutte le volte, la scelta e la preparazione del viaggio era quasi divertente quanto la vacanza in sé per loro. A ognuna delle loro “avventure”, le loro differenze spiccavano più che mai, ma in fondo era proprio quello a renderli un gruppo così affiatato: si supportavano a vicenda e, per certi versi, si completavano. Chloe capiva benissimo le speranze e i sogni di Laura, ma adesso era il momento di riportarla alla realtà. Dopo aver pensato rapidamente a un modo per farla ragionare senza rovinarle troppo il momento, Chloe si alzò e andò a sedersi accanto all’amica, guardandola con un’espressione affettuosa:

«Laura, apprezziamo davvero tanto il pensiero. E immagino quanto l’idea di vedere dei fossili viventi ti possa elettrizzare, però devi anche renderti conto di tutti i problemi del caso»

«Sì, be’…» mormorò Laura, imbarazzata.

Chloe proseguì:

«Non sono un’esperta, ma caspita, i dinosauri non sembrano esattamente teneri e docili. E teniamo anche a mente che andare via da ARK è un casino, a sentire tutta la storia di Helena. Quanto pensi che sarebbe facile restare interi anche solo per un giorno?»

Laura alzò gli occhi al cielo:

«Suvvia, non sono mica dei mostri squamosi che non pensano ad altro che a uccidere! È Hollywood che vi ha ficcato questo luogo comune in testa»

Sam ridacchiò:

«Se è per questo, neanche i pinguini sono mostri squamosi assassini, però quella volta in Nuova Zelanda c’è stato quello incazzato con la vita che ha inseguito Jack per mezza spiaggia per beccarlo»

Chloe gli lanciò un’occhiataccia: non era decisamente il miglior esempio. Il rosso alzò le mani, come gesto di scuse.

«Comunque, ciò non toglie che c’è tutta una serie di problemi da risolvere» fece presente Jack.

La bionda alzò un indice e gli ricordò:

«Be’, loro quattro ce l’hanno fatta e si capisce che hanno parecchia esperienza. Potremmo seguire tutti i loro consigli o lasciare che ci aiutino!»

Chloe scosse la testa:

«Appunto, Laura, dovrebbero aiutarci. Non credi che sarebbe d’impiccio per loro? Dovrebbero pensare a quella sorta di caccia al tesoro per cui Helena e l’Inglese hanno battibeccato e a tenerci al sicuro allo stesso tempo. Se poi ci succede qualcosa, di chi è la colpa?»

Laura non seppe rispondere: si morse il labbro inferiore e chinò lo sguardo. Chloe comprese che quella tesi stava funzionando, quindi insisté su quella:

«Tra l’altro, soltanto Rockwell sembrava intenzionato a tornare là. Be’, forse anche Helena, sotto sotto, ma non così tanto. E la Regina delle Bestie e il centurione di certo non sono interessati. Chi ti dice che andranno sul serio su ARK? Magari hanno già fatto cambiare idea al dottore e non ci stanno pensando più. Vedrai, anche a te passerà, col tempo»

Laura sollevò lo sguardo e la fissò: non sembrava per niente sicura della rassicurazione di Chloe. Jack fece un gentile tentativo di consolarla:

«Non essere triste, se non altro sai che là fuori c’è un posto in cui le specie preistoriche sono vive! Dev’essere fantastico per un paleontologo, no?»

«Immagino che abbia ragione, Jack» mormorò Laura, malinconica.

Sam si staccò dal muro e, seguito da Jack, fece per uscire dalla stanza quando, all’improvviso, Laura fece una nuova proposta:

«E se chiedessimo il parere di Helena? Abbiamo il suo numero»

Chloe e gli altri sbarrarono gli occhi, increduli. Chloe sapeva che Laura sapeva essere una ragazza tenace, quando voleva, ma di solito lo restava nei limiti della ragione. Questa volta, invece, non voleva proprio mollare, anche se un’idea come visitare ARK era semplicemente folle. Doveva essere davvero convinta; Chloe non riusciva a decidere se fosse ammirevole o allarmante. Sam scosse la testa con vigore:

«Oh, no! Scordatelo! Ti ha già concesso molto più di quanto avrebbe fatto parecchia gente, non tirare troppo la corda: anche la sua pazienza avrà un limite»

Jack annuì, preoccupato:

«Sam ha ragione, Laura: lascia stare il can che dorme. Dopo ci rimani male»

Laura sospirò:

«Se avessi voluto lasciar stare il can che dorme, non mi sarei mai spinta a cercarla e chiederle la verità. Ormai ci siamo dentro fino al collo, tanto vale andare fino in fondo. O sbaglio?»

«Eddai, è fuori di testa!» sbuffò Sam, contrariato.

«Secondo me vale la pena provare» insisté la bionda.

Chloe provò a riflettere, ma questa volta non trovò altri argomenti utili per placare la foga di Laura. Infine, decise che rimaneva solo un’opzione: quella rischiosa. Così decise di concedere una possibilità all’amica, mettendo però in chiaro a cosa rischiava di andare incontro:

«Sei proprio sicura, Laura?»

«Sicurissima» ribatté lei, fissandola con serietà.

Chloe annuì:

«Va bene, allora. Adesso ti do il mio cellulare: scrivile quello che ti sembra più adatto. Ma stai sempre pronta a un rifiuto o a qualcosa di molto peggio: non si sa mai. Le stai pur sempre per chiedere di accompagnarti nel posto più pericoloso della Terra»

Laura chiuse gli occhi e fece un lungo respiro profondo, ma annuì:

«Sono pronta. Se mi risponderà male, me la sarò cercata. Le chiederò scusa e non ne parleremo mai più, ve lo prometto»

«Non mi piace per niente» si lamentò Jack, preoccupato.

«È tutto a posto, Jack, mi prendo la responsabilità – lo rassicurò Laura, con un sorriso caldo – Comunque, ho un’ultima richiesta»

«Certo» disse Sam.

«Nel remoto e surreale caso in cui Helena mi dica di sì, vorrei che veniste con me su ARK. Dico sul serio: se metterò piede sull’isola preistorica, voglio farlo con voi»

Chloe guardò i due ragazzi e scambiò subito una furtiva occhiata complice a Sam: sapeva che il rosso stava dando per scontato ancora più di lei che Helena avrebbe mandato Laura a quel paese, quindi fingere di essere d’accordo per cortesia avrebbe aiutato la loro amica a sentirsi meglio. Jack, invece, sembrava insicuro, ma dal suo sguardo Chloe intuì che sarebbe stato davvero disposto a fare un tale favore a Laura solo per altruismo. Quindi, senza indugiare troppo, annuirono tutti e tre:

«Ma certo, Laura. Questo e altro» sorrise Jack, con tono quasi nobile.

La paleontologa sorrise e li ringraziò, emozionatissima; Chloe notò una punta di commozione nei suoi occhi. A quel punto passò il telefono a Laura e la osservarono digitare un messaggio. Si interruppe per rimuginare tra sé e sé parecchie volte, talvolta immobilizzandosi come una statua, prima di inviare la fatidica richiesta di aiuto alla biologa con mano tremante. Laura restituì il cellulare a Chloe, accavallò le gambe e incrociò le braccia, agitando il piede con fare nervoso.

«O la va o la spacca» affermò.

«Oddio, la vedo male» sussurrò Sam.

Jack si raccomandò a Laura di avvertirli appena Helena avrebbe risposto, prima di seguire il rosso nella stanza dei ragazzi. Al contrario delle aspettative di Chloe, non dovettero aspettare più di cinque minuti: il suo cellulare vibrò e tintinnò sul comodino della mora, facendo sobbalzare Laura dall’ansia. Chloe richiamò Sam e Jack a gran voce e i due accorsero in fretta.

«Allora? Ti ha mandata a fanculo?» chiese Sam, pessimista.

Chloe resisté alla tentazione di pestargli il piede per apostrofarlo. Laura lo ignorò e aprì il messaggio, mentre loro tre la osservavano col fiato sospeso; poi la bionda spalancò gli occhi, iniziando a respirare affannosamente. I ragazzi si allarmarono:

«Laura, cos’ha detto?»

La paleontologa sollevò lentamente lo sguardo, estasiata:

«Non ci posso credere, ha detto di sì!»

«Cosa?!» sussultò Sam, sconvolto.

«E non solo: ha detto che verranno tutti e quattro!»

«Incredibile! Com’è possibile?» chiese Jack, incredulo.

«E io che ne so?» reagì Laura, sul punto di piangere di gioia.

Chloe era semplicemente sbigottita. Era successa l’unica cosa che non si sarebbe mai aspettata. Ora il punto di non ritorno era stato superato e loro tre, come suoi amici, avevano preso un impegno. Quindi sospirò, ancora intenta a elaborare quello che aveva appena appreso, e dichiarò:

«Ti abbiamo dato la nostra parola, Laura. È deciso»

Jack si grattò il collo, esterrefatto:

«Be’, senz’altro non credevo che mi sarebbe mai successa una cosa simile, ma non mi tirerò indietro»

La gioia e l’entusiasmo sul volto di Laura erano indescrivibili. La bionda non trattenne più l’eccitazione e prese ad ansimare con un ampio sorriso esultante, facendo guizzare lo sguardo fra tutti loro. Sam si mise le mani nei capelli, scombussolato:

«Oh, mio Dio… andremo su ARK» constatò.

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Capitolo 6
*** Partenza e arrivo ***


Era passata una settimana da quando i ragazzi avevano scoperto che avrebbero seguito i quattro sopravvissuti su ARK. Erano stati sette giorni di fermento per tutti loro: Laura contattava Helena praticamente una volta al giorno per chiederle dritte e suggerimenti su cosa potevano portare per essere pronti a un viaggio simile. Per il resto, i ragazzi avevano discussioni animate su quali fossero gli oggetti e l’attrezzatura più adatti per stare su un’isola preistorica. Cercavano di usare i loro viaggi precedenti come riferimento, ma era ovvio che nessun altro posto poteva paragonarsi a quello che li attendeva.

Uno degli argomenti su cui tornavano più spesso era il cibo. Le opinioni al riguardo erano contrastanti: Jack e Chloe ritenevano più saggio portare una scorta di alimenti non deperibili. Sam e Laura non lo consideravano necessario, dal canto loro: sostenevano che avrebbero potuto procacciarsi il cibo o trovarne nei villaggi. ARK era un’isola civilizzata, dopotutto, come indicavano i racconti dei sopravvissuti. Jack non era tanto entusiasta all’idea di andare a caccia o mangiare quello che avrebbero trovato nella natura selvaggia, ma alla fine Laura riuscì a persuaderlo ricordandogli che avrebbero avuto degli “esperti” al loro fianco.

Seguivano poi le attrezzature. Dapprima, erano tutti concordi sul portare tantissimi cordini per montare delle palafitte in cui passare le notti, ma ci avevano rinunciato quando Helena aveva rassicurato Laura che avrebbero fatto soste regolari nei villaggi delle tribù arkiane e che i tragitti nelle zone pericolose non avrebbero previsto fermate. Non potevano mancare le bussole, com’era ovvio. Sam ci rise sopra commentando che, adesso, la loro vita avrebbe potuto dipendere dalle gare di orienteering fatte alle superiori.

Nel corso della settimana, radunarono tutto l’equipaggiamento di cui avevano imparato a munirsi in passato: abbigliamenti a cipolla, vestiti impermeabili, ricambi tenuti in sacchetti isolati per quando si sarebbero bagnati, borracce, una cassetta del pronto soccorso, repellenti per insetti e parassiti, scorte di biancheria intima, paia di scarponi, sacchi a pelo e via discorrendo. Laura provava un lieve senso di conforto, sapendo che avevano già quantomeno una base di preparazione. Tuttavia, era impossibile illudersi che sarebbe stato così facile da far bastare quei preparativi: stavano pur sempre andando in mezzo ai dinosauri, e neanche solo quelli. Laura non sapeva se fosse una buona idea precisare ai suoi amici che avrebbero dovuto stare attenti anche ai grandi artropodi del Paleozoico e i mammiferi del Cenozoico; alla fine, decise di omettere quei dettagli: sarebbe stato come rigirare il coltello nella piaga.

Seguiva il problema più grave di tutti: la sopravvivenza. Prepararono esche e acciarini per accendere i fuochi da campo il più in fretta possibile. Oltretutto, Sam insisteva che dovevano portare qualcosa per spaventare gli animali. Laura non la trovava affatto una cattiva idea; Helena l’aveva rassicurata che Mei-Yin e Nerva potevano badare a difendere tutti, ma non si sapeva mai. Quindi diede il via libera a Sam e il rosso, il giorno dopo, tornò a casa dal lavoro armato di un machete e di un pennato, una piccola accetta per tagliare il legno. Alla vista di quelle lame d’acciaio luccicanti, Jack strabuzzò gli occhi e chiese:

«Caspita! Dove li hai presi? Sei andato in un’armeria? Non ti sembra di esagerare?»

Sam scoppiò a ridere:

«Armeria? Che melodrammatico! No, li ho presi in un negozio di attrezzatura da campeggio. È roba che si usa tra i boy scout, sai?»

Jack alzò un sopracciglio, scettico:

«I boy scout usano machete e asce?»

«In che mondo fatato vivi, scusa?»

Il biondo scosse la testa e sospirò. Chloe gli poggiò una mano sulla spalla con fare incoraggiante e lo esortò:

«Prevenire è meglio che curare. Preferisci prendere un dinosauro ad accettate o farti mangiare?»

Jack alzò le braccia e ammonì:

«Basta che le accettate non le debba tirare io»

Ci fu una risatina nervosa da parte di tutti, poi sulla sala da pranzo dell’appartamento calò il silenzio. Passarono alcuni secondi, prima che Chloe si schiarisse la voce e chiedesse:

«Avete già fatto la chiamata?»

Laura e i ragazzi le lanciarono un’occhiata confusa e preoccupata. Chloe alzò gli occhi al cielo per una frazione di secondo e si chiarì:

«Non ricordate? Eravamo d’accordo che avremmo chiamato i nostri parenti per dirgli che stiamo per partire»

Tutti ebbero un’illuminazione improvvisa, mentre il pensiero tornava al momento in cui avevano discusso sul loro “alibi” da stabilire: non potevano certo raccontare alle loro famiglie che stavano per seguire quattro estranei conosciuti di punto in bianco su un’isola di dinosauri. Laura fece un sospiro nervoso e scosse la testa:

«Io no, mi è proprio sfuggito»

«Sto ancora pensando a come dirlo senza che mia madre se la prenda per il poco preavviso» ammise Jack.

Sam sbuffò:

«Oh, ma dai! Ti spaventi ancora per queste cazzate? Hai ventiquattro anni, non devi mica chiederle il permesso di uscire»

«Perché, tu l’hai già detto ai tuoi?» ribatté il biondo, sulla difensiva.

Il rosso esitò:

«Ehm… no, ma solo perché prima l’ho detto al mio capo»

Laura scosse la testa e li zittì alzando le mani:

«Va bene, ascoltate, facciamolo adesso. Togliamoci il pensiero dalla testa. Ora vado in camera e faccio la mia chiamata»

Intuì subito che Chloe aveva avvertito la tensione nella sua voce, perché la sua amica le si avvicinò, incrociò le braccia e la fissò con uno sguardo preoccupato:

«Non hai ancora parlato con tuo padre da quando hai il lavoro, vero?»

Laura serrò le labbra, indecisa se essere vaga o onesta. Alla fine, confessò:

«No. Ho lasciato che glielo dicesse mia madre»

«Ti senti pronta per questo?» chiese Chloe, seria.

Laura fece una risatina per sdrammatizzare:

«Oh, ma dai! È mio padre, non mi mangia mica! Sarà contento del posto di lavoro»

Chloe la fissò, come per dirle di non prenderla in giro. Laura si pentì subito di aver fatto la finta tonta e chinò lo sguardo. L’amica le parlò, prima che potesse trovare giustificazioni:

«Sai cosa voglio dire, Laura. Sei davvero pronta per quello che stiamo per fare? Ci siamo dentro insieme e ti staremo accanto, ma tu? Oltre l’entusiasmo, te la senti? Rispondimi sinceramente, è importante»

Laura rialzò il capo e la guardò dritta negli occhi. Era incapace di rispondere, perché non riusciva a decifrare il turbine di emozioni che stava vorticando nelle sue viscere. Le due sensazioni più forti erano la curiosità e la paura. Si mescolavano e tentavano di soffocarsi a vicenda. Si sbracciavano e urlavano dentro di lei, come due tifoserie avversarie, per convincerla o dissuaderla.

Cosa aspetti?! Corri su ARK! Farai l’impossibile! Realizzerai un sogno che per tutti sarebbe una follia! Vedrai e toccherai ciò che è solo un ricordo del passato!

Che stai facendo?! È stupido! Sei stupida! Hai riaperto le ferite di tre persone e assecondato un vecchio pazzo solo perché avevi qualche domanda! Ti rendi conto del casino che hai fatto per un libro? Se vai su quell’isola, non durerai un giorno! Tirati indietro finché puoi!

Non fermarti ora! Ti sei assicurata l’occasione di una vita! Che paleontologa saresti, se rifiuti di studiare creature estinte vive? Per non parlare di tutti quei misteri: sarà il massimo scoprire tutto quanto!

Resta coi piedi per terra! Vuoi morire e rovinare il futuro che ti sei costruita solo perché hai letto un libro?

Sempre più tesa, Laura lanciò una rapida occhiata a Sam e Jack. Entrambi, quando il loro sguardo si puntò su di loro, iniziarono a fingere di guardare il cellulare. Chloe la stava ancora aspettando, seria ma paziente. Alla fine, Laura deglutì, aprì la sua rubrica, avviò una telefonata con suo padre e si accostò il telefono all’orecchio. Chloe le rivolse un sorriso incoraggiante e la lasciò passare, quando Laura si diresse alla stanza delle ragazze. Mentre il telefono squillava all’altro capo della linea, la ragazza chiuse la porta e si rannicchiò sul suo letto, in sofferente attesa. Alla fine, sentì la voce calda e profonda di Carl Hamilton, suo padre:

«Sì? Laura?»

La ragazza fece un respiro profondo per calmarsi e rispose:

«Ehi, papà!»

«Ciao, spiga d’oro!»

Laura fu subito scossa da un brivido di imbarazzo, temendo che gli altri avessero sentito. Appena si riprese, sbuffò e protestò:

«Eddai, mi chiamavi così da bambina, non ti sembra l’ora di smettere?»

Suo padre rise:

«Ahahaha! Perché dovrei? Hai sempre dei bellissimi capelli dorati»

«Sì, grazie. Allora, hai sentito la grande notizia dalla mamma?»

Dall’altro capo ci fu una pausa di silenzio; brutto segno. Infatti, appena suo padre rispose, si accorse subito del cambio di tono: ora si stava sforzando di sembrare felice, ma era un entusiasmo forzato.

«Dal primo istante. Quindi ce l’hai fatta: andrai a tirare fuori ossa dalla polvere»

«In realtà, potrei anche iniziare a dare lezioni. Sai, per arrotondare»

«Appunto»

Laura sentì un lieve sobbalzo. Immaginò che suo padre se lo fosse lasciato sfuggire e se n’era accorto troppo tardi. Decise di andare oltre: del resto, sapeva già cosa pensavano i suoi genitori della sua scelta lavorativa.

«Ehi, come sta Jim?»

«Oh, tuo fratello si sta rilassando a più non posso: le ultime settimane sono state tremende per lui, a scuola. È contentissimo per te, ovviamente! Ha chiesto quand’è che gli porterai un teschio di T. rex a casa»

Laura scoppiò a ridere; suo fratello era sempre stato dolcissimo con lei.

«Cavolo, di T. rex? La vedo dura. Dici che se gli porto una coprolite, mi odierà a vita?»

«Aspetta, cosa?»

«Sai, perché le coproliti sono… lascia perdere, digli che appena posso gli farò fare un giro guidato in un museo. Comunque, ti ho chiamato per avvisarti»

«Perché? Cosa c’è?»

«Niente di grave, papà. Io e i ragazzi faremo il nostro viaggio annuale più presto, quest’anno. Abbiamo pensato di fare così per festeggiare il mio posto di lavoro, prima che cominci»

«Ah, ho capito. Dov’è che dovevate andare, quest’anno?»

«A Bali»

«Oh, bellissima. Vi trattate bene, eh?»

Laura fece una risatina nervosa:

«Be’, sai, occasione speciale e tutto»

«Quindi quanto starete via? Quando andate?»

«Partiamo venerdì prossimo. Ovviamente dovremo tornare per quando dovrò iniziare a lavorare, ma forse un paio di settimane ce le potremo concedere»

Per Laura fu molto difficile raccontare quella bugia. Non solo perché non potevano sapere quanto ci sarebbe voluto a trovare il tesoro di Darwin una volta su ARK, ma soprattutto perché la barriera avrebbe potuto condurli in qualsiasi epoca senza criterio, una volta che l’avrebbero aperta coi manufatti. E se si fossero ritrovati decenni nel futuro o nel passato? Helena aveva avuto una gran fortuna a fare un salto di “soli” otto anni, ma chi diceva che a loro sarebbe andata così bene? Tuttavia, la ragazza deglutì e si sforzò di sembrare naturale e rilassata, mentre annunciava la partenza. Suo padre non sembrò sospettare nulla:

«Ho capito. Ci manderete delle foto, vero?»

Laura sbarrò gli occhi. Improvvisò la prima scusa che le venne in mente:

«Oh, caspita, mi sa che non posso»

«Perché?»

«Ormai il mio cellulare ha sempre l’archivio pieno, non importa quanta pulizia cerchi di fare. Dovrei ricordarmi di chiedere a Chloe di fare le foto per me, ma non ti prometto niente»

«Capisco»

Ci fu un breve silenzio, prima che suo padre sospirasse e iniziasse a congedarsi:

«Be’, grazie per aver avvisato»

«Aspetta, posso salutare Jim, solo un attimo?»

«Meglio di no: sta studiando, adesso non vuole essere disturbato da nessuno»

«Oh, va bene. Allora ciao, papà»

«Ciao, spiga d’oro. Spero che ce la faccia, ora che hai realizzato il tuo sogno»

Detto questo, riattaccò. Laura fu amareggiata dal tono in cui glielo disse, ma lo ignorò: ci aveva fatto l’abitudine. Rimase seduta sul letto per qualche minuto, fissando il vuoto e agitando le gambe con frenesia: la paura di non rivedere i suoi cari diventava sempre più concreta. Quando sentì che i suoi occhi stavano per inumidirsi, si affrettò ad alzarsi e tirare un respiro profondo per calmarsi. Uscì dalla stanza delle ragazze e tornò in salotto.

«Bene, io sono a posto» annunciò.

Ma la sua voce era strozzata. Un attimo dopo, l’impulso di piangere tornò a tradimento, più forte che mai. Laura non riuscì a trattenere un singhiozzo e le sfuggirono due lacrime, che si affrettò ad asciugare.

«Scusate. Sono stupida, lo so» mormorò, imbarazzata.

Chloe fece un’espressione intenerita e venne ad abbracciarla:

«Oooooooh, Laura! Non sei stupida, non è facile neanche per noi» la consolò.

Dopo una breve esitazione, rassicurata dalla calda e affettuosa stretta dell’amica, Laura ricambiò l’abbraccio e si lasciò andare. Odiava quando aveva quelle ondate emotive: le ricordavano le volte in cui da bambina non riusciva a trattenere le lacrime quando si trovava in imbarazzo o le volte in cui gli altri ragazzini la prendevano in giro perché le piaceva una cosa “da maschi” come i dinosauri.

«Ehi, non fare così! Sei più straziante di un gattino ferito!» esclamò Sam.

Il rosso si avvicinò e Chloe si fece da parte per lasciare che le desse una confortante pacca sulle spalle. Jack, invece, la guardò preoccupatissimo e le chiese:

«Ti senti in colpa, vero?»

Era sempre stato molto perspicace, doveva ammetterlo. Laura, tra i singhiozzi, annuì e andò a sedersi al tavolo. Sam continuò a tenerle le mani sulle spalle, stando in piedi dietro di lei. Jack prese posto davanti a Laura e la incoraggiò con lo sguardo a sfogarsi. Laura si asciugò ancora le lacrime e disse:

«Sì, mi sento in colpa. Stiamo dicendo ai nostri che staremo via per un viaggetto, ma non sappiamo neanche se sopravvivremo! Sono un’egoista! Ci sto mettendo in pericolo per… per…»

Sam sbuffò:

«Oh, falla finita! Ti abbiamo detto che ci stiamo, basta! Se uno di noi diventa la cena di un lucertolone, saremo consenzienti»

Chloe lo fulminò con lo sguardo:

«Sam, per favore. Non scherziamo su questo»

Sam rimase interdetto, la baldanza abbandonò il suo volto poco a poco. Ma ritrovò subito l’ironia:

«D’accordo, mi è uscita male. Ma hai capito il concetto, Laura! Non ci stai costringendo a venire con te, siamo noi che lo vogliamo»

Jack annuì con convinzione e, dopo aver balbettato un po’ in cerca delle parole giuste, affermò:

«Sì! E poi… e poi… chi dice che moriremo per forza? Tu sei un’esperta, quei quattro conoscono l’isola, bene o male noi quattro sappiamo muoverci nella natura; se facciamo del nostro meglio e stiamo più attenti che mai, possiamo farcela! Coraggio, non deprimerti ora!»

Sam ridacchiò:

«E se uno come Jack ti dice “non deprimerti”, sai che dice sul serio»

«Che vorrebbe dire?» chiese il biondo, perplesso.

Sam fece spallucce:

«Be’, sai, di solito sei tu il depresso represso, senza offesa, quindi se la motivi tu, a maggior ragione. O no?»

«Lascia perdere, che è meglio – sbuffò Chloe – Comunque, hai capito, Laura? Questo non è il momento delle lacrime, per te. È il momento di fare i salti di gioia! Avrai i dinosauri, la scoperta del secolo e noi al tuo fianco. Cosa vuoi di più? Anzi, mi hai pure regalato un’occasione di imparare una lingua nuova! Ti devo un favore!»

Laura, a poco a poco, riuscì a convincersi delle parole dei suoi amici. Fece di tutto per concentrarsi solo sugli aspetti positivi dell’avventura su ARK e, alla fine, l’entusiasmo che l’aveva travolta la prima volta che aveva incontrato Helena tornò ad ardere e bruciò tutta la tristezza e il senso di colpa. Dopo aver annuito con forza, inspirò a fondo, si alzò in piedi e sorrise:

«Avete ragione. Grazie, ragazzi: siete i migliori. Sono davvero una cretina, a volte»

«Chi non lo è, quando è insicuro?» chiese Sam.

Jack gli rivolse uno sguardo sospettoso:

«È un’insinuazione? Tipo, perché io sono quasi sempre incerto…»

Il rosso alzò le mani:

«Ehi, lo stai dicendo tu, mica io»

Laura ridacchiò e chiese:

«Allora, avete fatto le vostre chiamate?»

«Sì. I miei non hanno nulla in contrario» rispose Chloe.

«Io ho mandato un messaggio al mio vecchio» disse Sam.

Jack, invece, si grattò il collo e chinò lo sguardo:

«Mia madre non l’ha presa bene: si è irritata perché non l’ho avvisata che avremmo potuto fare il viaggio prima dell’estate»

Sam sbuffò:

«Ma dai, quella è una pazza! Smettila di avere paura di lei, guarda come ti ha conciato! Mandala a…»

«Ehi! È pur sempre mia madre!» protestò Jack, sulla difensiva.

Il rosso alzò le mani, deluso. Dopodiché, aggiunse:

«Comunque, venerdì prossimo, eh?»

«Esatto» confermò Laura.

«Bene, allora dico la data al proprietario della barca. Il mio capo me l’ha già fatto incontrare ieri»

«Ah, però! Ti sei organizzato meglio di me? I miracoli esistono!» scherzò Chloe.

Sam fece un inchino esagerato e plateale, soddisfatto:

«Ci pensa lo zio Sam! Be’, non quello zio Sam: questo, coi capelli rossi. Ho il patentino per navigare, abbiamo la barca: non ci resta che incontrare ancora quei quattro e andare sull’isola che non c’è»

«Molto bene. Lo farò sapere a Helena» disse Laura.

Jack alzò la mano per richiamare l’attenzione.

«Sì?» chiese Sam.

«Ho solo una richiesta da farti. Ricordi quella volta che abbiamo noleggiato una barca in Florida?»

«Oddio, ancora quella storia» mormorò Chloe.

«Ecco, non investire nessun alligatore, stavolta. Anzi, qualunque cosa peggiore di un alligatore ci sia su ARK»

Sam fece l’offeso:

«Ehi, se Chloe non mi avesse distratto, l’avrei visto! Comunque starò attentissimo, rilassati»

Chloe si mise i pugni sui fianchi e protestò:

«Bugiardo! L’hai visto eccome! Te l’avevo indicato, ma l’hai investito lo stesso!»

Sam non disse più niente. Laura scosse la testa con un sospiro, prima di comporre il numero di Helena. A quel punto, non dovevano fare altro che aspettare il giorno fatidico.

IL VENERDÌ SUCCESSIVO…

La mattina presto, Sam accompagnò i ragazzi al molo dove li attendeva la barca che avevano preso in prestito. Laura aveva dato le indicazioni a Helena per raggiungerli; adesso, i ragazzi stavano aspettando i sopravvissuti davanti all’imbarcazione. Ciascuno di loro, ai propri piedi, teneva un voluminoso zaino con tutto l’occorrente che avevano deciso di portare. Il machete e la piccola accetta pendevano fiere ai lati dello zaino di Sam, quasi come trofei.

Le loro future guide si presentarono puntuali: alle otto in punto, come concordato. Anche loro portavano zaini carichi degli oggetti necessari per il viaggio. Sam dovette trattenere una risata, quando vide com’era vestito Rockwell: sembrava quasi un vecchio pescatore, col gilet impermeabile pieno di tasche che indossava sopra una maglia blu a maniche lunghe. Mei-Yin, invece, lo stupì: sotto un k-way grigio, indossava un’armatura leggera rosso brillante, di cui peraltro teneva i gambali sopra i pantaloni. Doveva aver preso quella storia molto sul serio. Sam non seppe resistere:

«Corazzata già adesso? Addirittura! Non siamo neanche partiti!»

Mei gli rivolse uno sguardo interrogativo e allargò le braccia:

«È l’armatura che indossavo sull’isola. E quindi? Mi servirà dal primo istante»

Sam fece spallucce e ridacchiò:

«Come ti pare, Mulan»

Chloe gli tirò subito una gomitata delle sue e gli altri lo fulminarono con lo sguardo. Laura si affrettò a scusarsi:

«Lasciatelo perdere, di solito non fa così. Dev’essere il nervoso, eh, Sam?»

«Ugh… sì, sono un po’ emozionato»

Rockwell alzò gli occhi al cielo e salì subito a bordo, senza guardare in faccia nessuno di loro. Dopo un attimo, si voltò indietro, si sporse dal parapetto e incalzò il rosso:

«Ebbene? Vogliamo salpare o sarò costretto ad assistere ad altre commediole da quattro soldi da parte tua?»

Sam ci rimase malissimo, ma stette zitto e balzò subito sulla barca: voleva proprio vedere se il vecchio inglese avrebbe avuto ancora da lamentarsi di lui, dopo che l’avrebbe portato alla sua preziosa isola in men che non si dica. Raggiunse il timone e osservò tutti gli altri salire a bordo. Depositò il suo zaino accanto a sé e lasciò che gli altri si sistemassero sottocoperta. Poco dopo, Rockwell lo raggiunse con una carta nautica in mano e gli mostrò la rotta che aveva tracciato:

«Dunque, questo è il tragitto che devi seguire, in base alle coordinate di ARK. Mi auguro che sia abbastanza competente da farci arrivare là senza colare a picco»

Sam gli lanciò un’occhiataccia:

«Ehi! Qualcuno si è alzato con la luna storta, eh? Non ti ho fatto niente!»

Edmund lo ignorò, stizzito:

«Ti spiace accendere il motore e partire?»

«Va bene, va bene! Porca vacca!»

Con uno sbuffo, Sam girò le chiavi e mise in moto l’imbarcazione. Fece manovra con scioltezza e disinvoltura, come aveva imparato a fare dopo anni di pratica regolare. Poco dopo, timonò la barca fuori dal porto, svoltò verso Est e accelerò, in direzione del Pacifico. In quel momento, vide gli altri uscire dalla cabina per osservare la costa di Sidney dietro di loro per l’ultima volta. Quindi decise di voltarsi per un attimo, per dire addio alla sua città con lo sguardo. Mentre guardava la sponda che si allontanava, vide qualcsa in cielo. Incuriosito, si tolse gli occhiali da sole e strizzò gli occhi: sembrava una sorta di elicottero, ma non aveva la forma giusta. D’un tratto, lo riconobbe: ne aveva visto una foto in una rivista di velivoli, una volta, in pausa dal lavoro in officina. Era un girocottero, una sorta di piccolo elicottero scoperto con un solo posto.

“Figo, non pensavo di vederne uno qui” pensò.

A quel punto, si rimise gli occhiali e tornò a concentrarsi sull’immensa distesa blu dell’oceano.

SEI GIORNI DOPO…

Il sole rosso dell’alba era appena spuntato all’orizzonte. Un luccichio abbagliante scintillava sull’oceano ancora in penombra, mentre il cielo diventava più chiaro ogni minuto. Sam si era appena rimesso al timone, dopo aver fatto una breve dormita. Navigava sempre dritto, con la rotta da seguire accanto a sé, e ammirava l’immensa distesa piatta dell’oceano davanti alla prua. Una volta che il cielo diventò del tutto azzurro, si strofinò gli occhi un po’ assonnati e inforcò i suoi inseparabili occhiali da sole. Era emozionato: secondo i suoi calcoli, basati sulla velocità e la costanza di navigazione e l’assenza di imprevisti, quello era il grande giorno. Il giorno in cui ARK sarebbe apparsa all’orizzonte. Il ragazzo timonava con un sorriso.

Era stata una settimana monotona per lui, resa interessante solo dalle discussioni che i quattro sopravvissuti facevano coi ragazzi o tra loro riguardo a vari argomenti da tenere a mente sull’isola preistorica. E in parte da Jack che vomitava quasi sempre, dopo aver mangiato. Il povero diavolo aveva il peggior mal di mare che Sam avesse mai visto.

A un certo punto, sentì la porta della cabina aprirsi dietro di lui e i ragazzi si unirono a lui. Subito dopo, anche i quattro sopravvissuti entrarono. Si raggrupparono di fianco a lui da entrambi i lati e tutti iniziarono a guardare l’orizzonte, in un silenzio imbarazzante. Sam guardò a destra e a sinistra, perplesso, e si alzò gli occhiali da sole sulla fronte.

«Ehilà? Il vostro capitano è qui in mezzo, vorrebbe sapere che sta succedendo» disse, scherzoso.

Helena gli sorrise:

«Ieri sera hai detto che avremmo potuto arrivare su ARK oggi. Abbiamo pensato di goderci il momento insieme»

Sam rise:

«Ah, così la fate quasi sembrare una crociera! Non che mi dispiaccia»

Mei-Yin incrociò le braccia e sospirò:

«Non è un momento da festeggiare. Dovremmo pensare a quale potrebbe essere il primo incidente, una volta superata la barriera»

Chloe fece spallucce:

«Non saprei, qualche mostro marino?»

Laura rimuginò:

«Sì, ma quale dei tanti? Megalodonti? Mosasauri?»

Helena propose:

«Per me, il candidato migliore è un leedsittide. Tra gli Arkiani sono famosi perché attaccano le imbarcazioni»

Sam si allarmò subito e le lanciò un’occhiata preoccupata:

«Frena, frena tutto, cosa?! Un mostro che ce l’ha con le barche?! Perché me lo dici solo ora? Cosa dovrei fare se qualcosa ci sfonda la barca prima ancora di toccare terra?»

Nerva gli rispose in tono tranquillo:

«Tre anni fa, abbiamo costruito una barca da soli. Possiamo farlo di nuovo»

Sam si irritò:

«Sì, ma io ho pagato per prendere in prestito questa nave, avete idea di quanto dovrò sborsare se le succede qualcosa?!»

Helena lo rassicurò:

«Non ti preoccupare, i leedsittidi sono i pesci più grandi mai esistiti, ma sono anche lentissimi. Una barca come questa può seminarne uno senza problemi»

«Così va meglio»

Rockwell si schiarì la voce:

«Dobbiamo anche iniziare a organizzarci sulla ricerca dei manufatti. Potrebbe essere accaduto di tutto a ogni artefatto, da quando ce ne siamo andati. Abbiamo bisogno di capire come rintracciarli e radunarli tutti»

Jack fece un’ipotesi azzardata:

«E se fossero ancora dove li avete lasciati? Magari nessuno li ha più toccati. Dalle vostre storie, non mi pare che gli indigeni fossero interessati ai manufatti»

Il vecchio inglese fece una lieve risata sardonica:

«Non so se sei ironico o troppo ottimista, ragazzo, ma in ogni caso credi troppo nella fortuna»

Mei si intromise, in tono fermo:

«Ascoltate, prima ci accertiamo di poter sopravvivere, poi iniziamo la ricerca. Dobbiamo ottenere delle creature e delle armi al più presto. Posso pensare io alle bestie»

Helena la guardò, perplessa:

«Mei, non credi che sia più facile andare al villaggio più vicino e farci dare le cavalcature? È uno sforzo in meno ed è più sicuro»

«Non voglio dipendere da nessuno» replicò la guerriera, secca.

A quel punto, Nerva le lanciò un’occhiata nervosa:

«A tal proposito, devo confidarvi il mio timore principale: non so se mi converrà mettere piede nei villaggi degli abitanti dell’isola. Dopo tutto quello che ho fatto, camminare tra loro come se niente fosse sarebbe come una sfida o un’umiliazione. Potrei scatenare la loro ira»

Chloe alzò un sopracciglio, dubbiosa:

«Oppure potrebbero solo guardarti male o non fare nemmeno caso a te. Hai dato così tanto spettacolo, tre anni fa?»

Jack le rispose per Gaius:

«Chloe, gli ha fatto la guerra! Vuoi che ci passino sopra e basta?»

La ragazza insisté:

«Una guerra che hanno vinto loro, poi l’hanno legato e sono stati contenti di lasciarlo andare via. Fidatevi, non se la possono essere legata al dito più di tanto»

Nerva la guardò a occhi sbarrati: era senza dubbio stupito dalla sicurezza con cui Chloe faceva affermazioni del genere. Rockwell, dal canto suo, la provocò:

«Chi sei tu, per parlare come se fossi una diplomatica incallita?»

Chloe fece un sorrisetto malizioso:

«Oh, niente di che, ho solo una laurea in mediazione linguistica, una magistrale in interpretariato e ho risolto svariate dispute interculturali tra aziende e società. È solo il mio lavoro»

Edmund si aggiustò gli occhiali, diffidente:

«Un consiglio: avvisa di sapere di cosa parli, prima di aprire bocca. Sarai molto più credibile»

Poco dopo, Jack alzò una mano e chiese:

«Giusto per capire meglio cosa aspettarmi, qual è la cosa peggiore che potremmo incontrare su ARK?»

Mei-Yin gli rispose subito senza esitare:

«Il Re dei Demoni» affermò, in tono greve.

I ragazzi la fissarono, perplessi e preoccupati. Helena alzò un sopracciglio:

«Usi ancora quei nomi che davi alle creature?»

«Sì. Si addicono molto meglio alle bestie di quelle parole lunghe e bizzarre che usano gli studiosi come te»

«Cos’è un “re dei demoni”?» domandò Jack.

«Si riferisce al più grande carnivoro mai visto al mondo: il giganotosauro» spiegò.

Laura prese subito l’enciclopedia di Darwin dal suo zaino e iniziò a sfogliare le pagine in silenzio. Si allontanò e iniziò a leggere una pagina Sam intuì essere quella della creatura interessata. Jack inclinò il capo, incuriosito:

«Gigantosauro?»

Laura alzò lo sguardo dal libro e lo corresse:

«No, è “giga-no-tosauro”. Il gigantosauro è un sauropode. Uno degli erbivori col collo lungo, per intenderci»

«Capito. Comunque, quanto è pericoloso questo coso?»

Nerva incrociò le braccia, con uno sguardo torvo:

«Troppo per chiunque. Mei-Yin ne aveva uno e ho commesso l’errore di ordinare ai miei legionari di attaccarlo. La sua furia è stata tale che si è rivoltato contro la sua stessa padrona; ha sterminato entrambi gli schieramenti senza distinzione. Abbiamo rischiato di morire tutti»

Jack rimase a bocca aperta. Poi deglutì e chiese, timoroso:

«Quante probabilità ci sono di incontrarne uno?»

Helena fece un sorriso rassicurante:

«Poche, per fortuna: è piuttosto raro. Ci basterà fare di tutto per evitare qualunque contatto con un esemplare e avremo un problema in meno»

Sam ripensò a quello che aveva appena sentito e provò a rimanere ottimista:

«Ma hai detto che Mei ne aveva uno, quindi anche questo giga-qualcosa si può domare. Non è poi così male, o sbaglio?»

Mei scosse la testa:

«Ti sbagli eccome: sono riuscita a prevalere per pochissimo. Ho dovuto sacrificare moltissime bestie solo per sfiancarlo. Datemi retta: è meglio se stiamo lontani dal Re dei Demoni»

Sam si serrò le labbra:

«Bello! Come non detto»

All’improvviso, Rockwell sobbalzò, afferrò il polso di Sam con una forza inaspettata e gli ordinò a gran voce:

«Ferma la barca!»

Sam, colto di sorpresa, esclamò:

«Woah! Calma! Perché dovrei?»

«Sbrigati!» insisté Edmund.

Il rosso non aveva alcuna voglia di discutere con quel vecchio gallinaccio, così sbuffò e girò le chiavi; il motore si spense e l’imbarcazione rallentò fino a fermarsi. Ora era immobile, cullata dalle onde. Con un sospiro irritato, Sam allargò le braccia e disse:

«Ecco, siamo fermi. Contento?»

Rockwell guardò l’orizzonte e fece una smorfia soddisfatta:

«Sono a dir poco entusiasta. Siamo arrivati!»

Confuso, Sam diede un’occhiata alla distesa blu sempre uguale davanti alla barca, poi guardò i suoi amici, che ricambiarono il suo sguardo con espressioni disorientate; allora volse lo sguardo ai quattro sopravvissuti e si accorse che stavano guardando tutti l’oceano con espressioni diverse: Helena pareva emozionata, Rockwell aveva uno sguardo sognante, mentre Mei e Nerva sembravano amareggiati. Sam si tolse gli occhiali da sole per mostrare loro quanto fosse disorientato e si schiarì la voce:

«Ehm… pronto? Terra chiama quattro naufraghi? Non c’è niente lì davanti. Sapete, a parte chilometri di acqua salata»

«Ci siamo» affermò Helena, tesa.

Rockwell sospirò e indicò l’oceano:

«Osservate bene, ragazzi. Non notate nulla di strano nell’aria?»

Sam e gli altri provarono ad aguzzare la vista. Dapprima, il rosso non notò nulla di particolare. Poi, però, vide del movimento: un tremolio nell’aria che deformava l’immagine del mare e del cielo. Era come quando l’aria del deserto era così rovente che le vampate di calore diventavano visibili. Quella era afa. Laura ne parlò prima che lo facesse lui:

«Quella è umidità calda?»

Helena le posò una mano sulla spalla e sorrise:

«Lo sembra, ma non lo è. Si tratta della barriera invisibile, ragazzi»

Jack sbarrò gli occhi:

«Volete dire che l’isola è invisibile? Davvero?»

Mei-Yin annuì:

«Nessuno di noi se n’è accorto, prima di avvicinarsi senza saperlo»

Chloe ci rimuginò un po’ sopra, poi dedusse:

«In effetti, credo che ormai i satelliti l’avrebbero vista, se non fosse nascosta»

«Esatto» confermò Helena.

A quel punto, la biologa batté le mani e si rivolse a tutti:

«Bene, questo è il punto di non ritorno, in ogni senso della parola. Siete pronti, ragazzi?»

I quattro amici si scambiarono un’ultima occhiata determinata, per poi annuire in silenzio. Helena fece uno dei suoi sorrisi confortanti, dopodiché si accostò a Mei e le mormorò:

«Ne sei davvero sicura, Mei?»

La guerriera fissò la cortina d’aria tremante per qualche secondo, prima di guardare Helena negli occhi e dirle:

«Lo sto facendo per te, Helena. Voglio ripagarti per tutto quello che mi hai dato. Quindi sì, sono sicura»

Rockwell tagliò corto schioccando le dita:

«Molto bene, vi siete fatti coraggio. Che la spedizione abbia inizio! Riaccendi il motore, ragazzo: la rivoluzione della scienza ci attende»

Sam si rimise gli occhiali da sole e obbedì.

«Agli ordini, Doc» scherzò.

Chloe esortò, in tono spiritoso:

«Dinosauri, Laura sta arrivando a studiarvi tutti!»

Mentre la barca tornava a muoversi, i ragazzi ridacchiarono per quell’ultima battuta. La presunta afa si avvicinò in fretta, finché non ci passarono attraverso. Sam ebbe una strana sensazione: sentì un formicolio intenso in tutto il suo corpo, così in profondità che credette di averlo persino nelle ossa. Non fu affatto gradevole. Gli altri dovevano star provando quello stesso disagio, a giudicare dalle loro espressioni infastidite. Ci volle un paio di secondi perché iniziasse ad affievolirsi, ma alla fine andò via. Sam tirò un sospiro di sollievo e fu stupefatto, alla vista di cosa aveva di fronte. Come dal nulla, in mezzo al mare era apparsa un’ampia battigia che correva da Nord a Sud, alla quale si stavano avvicinando da Ovest.

«Incredibile!» esclamò Jack.

Sam osservò tutta la linea della costa: da quella distanza gli sembrava sconfinata, perché non riusciva a vedere estremità definite né da un lato, né dall’altro. Davanti a loro, la spiaggia cedeva il posto a un rigoglioso palmeto; a sinistra, il paesaggio si apriva in una prateria. A destra, in lontananza, vedeva giganteschi scogli bianchi. In mezzo alla foresta davanti a loro, oltre gli alberi, si stagliava una sorta di torre o colonna nera e liscia, la cui punta luccicava al sole con un bagliore verde.

«Cos’è quello?» domandò.

«L’obelisco verde, il più sicuro da raggiungere» rispose Helena.

Rockwell incrociò le braccia:

«Molto bene, possiamo partire da lì. Verificheremo se i manufatti sono stati effettivamente spostati»

Chloe si mise le mani dietro la testa e fece un’espressione rilassata e soddisfatta:

«Che dire, la prima impressione è ottima: mi ricorda quasi i Caraibi. Siete d’accordo, ragazzi?»

«Sicuro» annuì Sam.

Il ragazzo sentì un lieve spruzzo d’acqua in lontananza. All’improvviso, Laura emise uno squittio eccitato e si precipitò sul parapetto della fiancata destra della barca. Helena, Chloe e Jack la seguirono. Sam non poteva abbandonare il timone, quindi si accontentò di voltarsi per vedere: la paleontologa si stava sporgendo oltre il bordo per ammirare un gruppo di animali simili a delfini che, a un centinaio di metri di distanza, spuntavano dall’acqua.

«Oh mio Dio, quelli sono ittiosauri!» trillò Laura.

Helena fece un dolce sorriso e le avvolse un braccio intorno alle spalle:

«Benvenuta su ARK, Laura» le disse.

«Sono sveglia? Qualcuno mi pizzichi! Ah, ecco, inizio a diventare scema» farfugliò la ragazza, estasiata.

Sam lanciò un’occhiata complice a Jack e gli indicò Laura con un cenno del mento: stava cercando di invitarlo a pizzicare Laura, visto che l’aveva chiesto, e già che c’era di farlo anche particolarmente in basso. Jack non sembrò capirlo, infatti lo fissò confuso e allargò le braccia, per poi chiedergli col labiale cosa volesse. Sam ci rinunciò e sbuffò, dopo avergli fatto cenno di lasciar perdere. Sentirono degli starnazzi nel cielo, a sinistra. La ragazza si voltò, sgranò gli occhi e corse subito al lato opposto della barca per guardare in alto. Sam si sporse fino al parabrezza della cabina per vedere cosa osservava: c’era un trio di bizzarri cormorani giganti ed esili che planavano verso la costa.

«Oh! Fantastico! Pelagorniti! Sai, Helena, io e gli altri abbiamo visto lo scheletro al National Museum, una volta che siamo stati a Washington» raccontò, emozionata.

La biologa si limitava ad annuire a braccia incrociate, con uno sguardo intenerito. Sam era contento di vedere Laura così: se non altro, si stava godendo l’isola preistorica fin dall’inizio, prima ancora di toccare terra. A quel punto, diede una rapida occhiata a Rockwell, Mei e Nerva, che erano rimasti con lui in cabina.

«Non vi unite alla combriccola lì fuori?» chiese.

Edmund si aggiustò gli occhiali, con aria indifferente:

«La fauna è l’interesse di Helena e della tua amica. Preferisco riflettere su quale sia il metodo più efficiente e rapido per trovare i manufatti»

«Cerchi scorciatoie? Bene, non mi lamento» commentò Sam.

«Almeno c’è chi è felice di essere intrappolato qui» sospirò Mei-Yin.

Sam guardò bene in faccia la Regina delle Bestie: sembrava tesa, oltre che turbata da qualcosa. Il rosso volle tentare di alleggerire un po’ l’atmosfera, quindi le chiese:

«Ehi, hai una faccia da traumatizzata. I ricordi del Vietnam ti hanno già assalita di prepotenza?»

Mei si voltò per guardarlo; la sua espressione, da preoccupata, diventò confusissima:

«Aspetta, cosa? Vietnam? Perché… che c’entra?»

Sam si pentì subito della battuta e provò a spiegarla:

«Oh, non l’hai mai sentita? Perché in Vietnam c’è stata la guerra, i soldati tornavano a casa coi traumi e… sai che c’è? Dimentica quello che ho detto. Comunque rilassati, proverò a non metterti in imbarazzo ogni singola volta che ti rivolgerò la parola!»

Mei lo fissò ancora più perplessa:

«Ehm… va bene?»

Rockwell fece una risatina sarcastica:

«Non che qualcuno ti abbia mai chiesto di aprire bocca finora»

Mei-Yin lo fulminò subito con lo sguardo e Sam non perse l’occasione di fare altrettanto, visto che aveva Mei dalla sua parte. Edmund non si voltò nemmeno per guardarli: non gli importava. Non smetteva un secondo di fissare l’isola, con le mani dietro la schiena, come fosse stregato.

“Vecchio stronzo inquietante” pensò Sam.

Ci fu un attimo di silenzio in cabina, mentre Laura continuava a impazzire per le creature marine che avvistava. Dopodiché, Nerva fece una risata nervosa, incrociò le braccia e guardò Mei-Yin:

«Lo sai, è la cosa più ironica che mi sia mai successa» affermò.

«Altrettanto» rispose lei, secca.

Il Romano precisò:

«Mi riferisco a noi due. Eravamo qui come nemici, quando siamo partiti ero il tuo prigioniero di guerra e adesso siamo uniti nel compito di difendere i nostri compagni di viaggio»

«E con questo cosa cerchi di dirmi?» domandò lei, in tono un po’ irritato.

Gaius assunse una posa solenne e dichiarò:

«Solo il fato può giocare con noi in questo modo. Come può un’ironia del genere sembrarti un caso?»

Mei-Yin sbuffò:

«Non è stato un caso, è cambiata la situazione. Sai bene cosa penso del destino»

Il centurione scosse la testa, sicuro di sé:

«Prima o poi dovrai accettare che le svolte sono dettate dal fato: ha fatto in modo che tornassi qui, come se dovessi finire qualcosa che ho iniziato. Forse è questo il mio nuovo scopo: trovare il perdono degli Arkiani, fare ammenda per la guerra che ho scatenato»

La replica della guerriera fu immediata:

«Quello è il tuo senso di colpa. Mi fa piacere che ti penta delle tue azioni, ma sei stato tu a scegliere di seguire Helena ed Edmund, come me»

«È stato il fato a volere che accettassimo di venire» insisté lui.

Rockwell alzò gli occhi al cielo e tuonò, esasperato:

«Insomma, volete smettere di punzecchiarvi come due marmocchi? Non riesco a ragionare! È incredibile: ci si aspetta che siate soldati seri e disciplinati, invece sono tre anni che continuate con questo dibattito sul principio filosofico più insulso di sempre! Se mi cercate, sarò sottocoperta»

Stizzito, il vecchio inglese uscì dalla cabina, ignorò l’invito di Helena a unirsi a lei e i ragazzi e si chiuse a chiave nella coperta. Dapprima imbarazzato, ma poi divertito, Sam fissò intrigato i due guerrieri:

«Bene bene, e così piace anche a voi fare a gara su chi ha ragione su un argomento?»

«Anche noi?» chiese Nerva, curioso.

Sam fece spallucce:

«Be’, sapete, è una cosa che ogni tanto facciamo io e Chloe. Solo che lei ha la lingua così lunga che mi frega ogni…»

Prima che il rosso finisse la frase, sentì un fortissimo impatto sotto di sé e, all’improvviso, la barca girò su se stessa quasi di novanta gradi, ondeggiando con violenza. Tutti persero l’equilibrio e caddero rovinosamente sul lato destro del ponte. Sam riuscì ad aggrapparsi alla leva dell’acceleratore prima di sbattere contro il muro e fermò la barca.

«Ah! Ma che cazzo?!» gridò.

L’imbarcazione stava ancora girando e volteggiando, a causa dell’impatto. Quando le oscillazioni si calmarono, Sam osò staccarsi dal suo appiglio e gli altri si alzarono, con fare cauto. Il rosso raggiunse gli amici sul ponte e chiese:

«Tutto a posto?»

«No» borbottò Jack.

Sam lo guardò e capì subito che si stava sforzando di non vomitare: era diventato più pallido di quanto non fosse di solito sulla barca e si teneva una mano davanti alla bocca. Alla fine, Jack non resisté più e si precipitò al parapetto per buttare fuori tutto in mare. Rimase piegato in avanti sulla ringhiera, col respiro affannoso, con lo sguardo fisso sull’acqua. Sam pensò di andare da lui e dargli qualche forte pacca sulla schiena per aiutarlo quando, di colpo, uno spruzzo bianco travolse il biondo in piena faccia.

«Woah! Dio!» sobbalzò Sam.

Jack rimase immobile per un attimo, per poi voltarsi lentamente con gli occhi chiusi. Era visibilmente disgustato, teneva le labbra serrate e le braccia larghe ed era pregno dalla testa al petto di un liquido biancastro e oleoso. In un’altra situazione, Sam avrebbe voluto fare una battuta sulla natura ambigua di quella sostanza, ma non era affatto il caso.

«Che sta succedendo?» chiese Chloe, allarmata.

«Non c’è niente da temere, tranquilli» li rassicurò Helena.

Sam si stupì della tranquillità della biologa. Si guardò in giro, per controllare gli altri naufraghi: Mei-Yin, Nerva e Rockwell, che si era appena affacciato dalla coperta, apparivano scossi, ma per nulla spaventati. Contrariato, protestò:

«Niente da temere? Qualcosa ha appena girato la barca dall’altra parte!»

«E ora Jack non osa neanche aprire gli occhi e la bocca» aggiunse Laura, che guardava l’amico imbarazzata.

Helena fece un sorrisetto divertito e indicò il mare, davanti alla barca:

«Guardate laggiù»

I ragazzi si avvicinarono alla prua e scrutarono l’acqua. A una decina di metri da loro, emerse una strana balena dal muso lungo e sottile, con le fauci irte di grossi denti appuntiti. Si immergeva e usciva dall’acqua di continuo e, ogni tanto, spruzzava dallo sfiatatoio. Osservando meglio, Sam notò che non era sola: sotto la superficie, ai fianchi del cetaceo, intravedeva le sagome di quelle che sembravano delle mante. Laura emise un altro squittio eccitato:

«Bellissimo! Un basilosauro!»

Chloe alzò un sopracciglio, perplessa:

«Perché “sauro”? A me sembra una balena»

«È una balena, ma quando trovarono i primi resti non lo sapevano» spiegò la bionda.

Dietro di loro, Jack si azzardò ad aprire bocca:

«Quindi mi ha starnutito in faccia?»

«In pratica» rispose Helena, dispiaciuta.

«Devo lavarmi subito» disse Jack, prima di correre sottocoperta.

«Ehi, sei sicura che non siamo in pericolo?» insisté Sam, cauto.

Helena alzò una mano per rassicurarlo:

«No, te lo garantisco. È probabile che ci abbia spinti col muso per giocare. Sono animali curiosi, la sagoma di questa barca deve esserle sembrato una novità. Avrà voluto osservarlo meglio»

«Che tenera» commentò Chloe.

«L’unico pericolo sarebbero le mantinache che lo seguono ovunque, ma finché non entriamo in acqua non ci faranno niente» aggiunse Helena.

«Una simbiosi? Interessante» rispose Laura.

Sam annuì, sollevato:

«A posto, allora. Vediamo di approdare. Ehi, per caso tutto il viaggio sarà così?»

«Di solito, è molto peggio» gli rispose Mei-Yin, tetra.

«Stupendo!» esclamò Sam, sarcastico.

Senza perdere altro tempo, il rosso riaccese il motore, fece manovra per orientare di nuovo la barca verso la costa di ARK e spinse la leva dell’acceleratore. Mentre l’imbarcazione sfrecciava verso la spiaggia sempre più vicina, Jack uscì di nuovo sul ponte pulito e con un vestito diverso. Tutti si radunarono a prua, con lo sguardo fisso sul palmeto. Dopo una decina di minuti, finalmente, la barca raggiunse la barriera corallina. Sam diede un’occhiata al fondale: era molto vicino alla chiglia e i coralli erano diffusi. Era meglio fermarsi lì, prima che le eliche si incastrassero da qualche parte. Dunque spense il motore e gettò l’ancora. A quel punto, si piazzò di fronte a tutti e, con fare plateale e un sorriso a trentadue denti, annunciò:

«Gentili passeggeri, qui è il vostro capitano che vi parla: siamo arrivati alla spiaggia del posto più letale sulla Terra! L’equipaggio non si prende la responsabilità per eventuali sbudellamenti, grazie per la comprensione»

Chloe alzò un pollice:

«Che professionalità»

Rockwell sbuffò:

«Dimmi se hai finito, così possiamo inziare il vero viaggio»

«Il capitano non aggiunge altro, neanche sulla sgarbatezza dei passeggeri di terza età» scherzò Sam.

«Mezza» sibilò Edmund, risentito.

Si radunarono sul bordo della barca, pronti a saltare nell’acqua bassa. I ragazzi decisero di concedere a Laura l’onore di scendere per prima. La bionda fece un respiro profondo per calmarsi; poi, finalmente, mise piede su ARK.

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Capitolo 7
*** L'obelisco verde ***


Laura non aveva mai fatto così tanta fatica a contenere la sua gioia come quel giorno. Non poteva fare a meno di immaginarsi incontri ravvicinati con tutte le specie di cui aveva letto nel libro di Darwin, di pregustare il brivido di toccare autentici “fossili viventi” con le sue mani. A momenti, la ragazza dimenticava che il vero scopo di quella spedizione era il misterioso segreto citato da Darwin, entusiasta com’era all’idea di studiare le creature e osservare coi suoi occhi le loro differenze dalle ricostruzioni dei fossili. Comunque, riuscì a controllarsi quanto bastava per ascoltare le istruzioni di Mei-Yin, una volta che furono sulla spiaggia. La guerriera cinese si pose davanti al gruppo come una vera guida e disse, in tono perentorio:

«Ascoltate bene, ragazzi: a partire da ora, stare vicini sarà di vitale importanza. Io e Gaius vi faremo da apripista e cercheremo di anticipare eventuali attacchi. Se notate movimenti sospetti nella boscaglia o sentite versi di animale, dovete dircelo subito. Su quest’isola, la vostra vita potrebbe finire da un momento all’altro, sul serio. Avete capito?»

Laura e i suoi amici fecero un respiro teso e annuirono. Sam alzò una mano per chiamare l’attenzione e chiese:

«Va bene se tiro fuori il machete da subito? Giusto per stare sicuro»

Nerva lo guardò come se avesse posto la domanda più ovvia di sempre e rispose:

«Ma certo. Bisogna sempre essere pronti a difendersi»

Dunque il rosso annuì e sfilò il machete dallo zaino. A quel punto, però, Jack si fece avanti con un’espressione diffidente e domandò:

«Ehi, aspettate. Voi due, che dovete fare gli apripista, rimanete disarmati? Non dovreste essere i più preparati di tutti a combattere? Non è che mi senti molto al sicuro, ora come ora»

I due guerrieri si scambiarono un’occhiata attonita e, senza dire una parola, si voltarono all’unisono per mettere in mostra i loro zaini. A quel punto, Laura si accorse per la prima volta che, dalle cerniere, sporgevano in parte le canne di due fucili. La ragazza si sorprese di non essersene mai accorta prima di quel momento ma, se ci pensava bene, era anche vero che non aveva mai fatto davvero caso ai bagagli dei quattro sopravvissuti.

«Dove li avete presi quelli? Avete il porto d’armi?» domandò Chloe, curiosa.

Nerva le spiegò in tono sereno:

«Sì, abbiamo ottenuto il permesso per usare le nuove armi della vostra epoca due anni fa. A me è stato richiesto per il mio lavoro, Mei-Yin l’ha ritenuto saggio per via del suo mestiere di accalappiatrice»

«Ho usato la caccia come motivo per farmi dare il permesso di avere un bastone sputafuoco» aggiunse Mei.

Helena ridacchiò:

«Anche con le armi usi ancora i nomignoli?»

La Regina delle Bestie fece spallucce:

«Ci sono troppo abituata»

A quel punto, Rockwell fece un sospiro nervoso:

«Ottimo, vi siete tutti chiariti. Ora che ne dite se partiamo per l’obelisco verde? Le giornate su ARK passano in fretta, quando ci si incammina troppo tardi»

Nessuno obiettò. I due guerrieri tolsero le armi da fuoco dagli zaini, rivelando due fucili da caccia, sistemarono la loro ottica e fecero cenno ai ragazzi di seguirli. Il palmeto oltre la spiaggia era caldo e afoso, ma a Laura non dava tanto fastidio: era stata in luoghi molto più soffocanti. Mentre teneva gli occhi e le orecchie aperti come le era stato detto di fare, cercava di avvistare qualche creatura nel sottobosco. Dopo aver visto quelle creature marine, non vedeva l’ora di quelle terrestri. Per il momento non ne vedeva nessuna, ma ne sentiva moltissime: quel palmeto era un concerto di versi lontani che facevano eco nel fitto della vegetazione. Stridii, schiocchi, ticchettii, fruscii; la paleontologa non riusciva mai a capire quanto fossero davvero lontani o vicini. C’era giusto una cosa che la inquietava: non aveva idea di quali versi fossero da segnalare a Mei-Yin come minacce. Però si confortava pensando che, se la Regina delle Bestie li ignorava, dovevano essere animali innocui a emetterli. Proseguirono in silenzio per ore, finché Chloe non fece una domanda:

«Per curiosità, quanto è grande quest’isola? Sapete un numero preciso?»

Rockwell si sistemò gli occhiali sul naso, fece qualche conto sulle dita e rispose:

«Se arrotondiamo per eccesso, ARK ha una superficie di circa ottomilacento chilometri quadrati»

Sam fischiò:

«Ah, però! Mi immaginavo il classico fazzoletto di terra sperduto nell’oceano»

Chloe ridacchiò:

«Insomma, un fazzoletto di terra non sarebbe proprio l’ideale per i lucertoloni giganti. Dico bene, Laura?»

La bionda sorrise e annuì:

«Be’, direi. A meno che non sviluppino il nanismo insulare, ma non mi pare questo il caso. Helena, confermi?»

La biologa rispose con una spiegazione assorta:

«Sai, la risposta è più complessa di quanto potresti credere. Tutte le specie di ARK hanno subito modifiche, da quando sono migrate sull’isola milioni di anni fa. Alcune si sono rimpicciolite, altre si sono ingigantite, quasi tutte hanno solo sviluppato tratti corporei mutati. Questa è la versione corta, per rispondere davvero dovremmo esaminarle tutte caso per caso»

All’improvviso, Jack sobbalzò ed esclamò:

«Ehi! Cos’è stato?!»

Tutti si fermarono all’istante e guardarono il ragazzo. Jack osservava il sottobosco cespuglioso del palmeto a occhi sgranati e si teneva le braccia premute contro il petto, come per proteggersi. Mei-Yin alzò il fucile, fece un passo verso di lui e gli chiese:

«Cos’hai sentito, di preciso?»

Jack iniziò a sudare freddo. Senza distogliere lo sguardo dalla vegetazione, farfugliò:

«Ecco, all’inizio mi sembrava un fruscio come gli altri, ma poi ho sentito anche dei passi accanto a me! Erano vicinissimi!»

«Hai sentito anche un verso? Qualche altro suono?» indagò Mei, vigile.

Laura iniziò a spaventarsi e si mise a scandagliare il palmeto a sua volta, timorosa che Jack non si sbagliasse. Eppure, per quanto si sforzasse di aguzzare la vista, non notava nulla: vedeva solo cespugli e piante basse dalle foglie larghissime, accanto alle palme. A volte gli steli si muovevano, ma era l’aria ad agitarle. Oltretutto, il coro della fauna era sempre lo stesso: era difficile isolare un verso in particolare, in quella cacofonia. D’un tratto, però, Laura sentì un pigolio simile a quello di un pulcino. Sembrava venire proprio dal cespuglio davanti a Jack. Di colpo, sentì il rumore di uno sputo e uno schizzo verdastro inzaccherò la faccia di Jack.

«Aaaaaaaaaaah!» urlò il ragazzo.

Il pigolio diventò un gracchio rauco e dal cespuglio spuntò un teropode grande come un umano, con due vistose creste dorate sul capo e una rada peluria ispida sul dorso. Nonostante la frenesia del momento, agli occhi di Laura spiccarono subito i suoi colori sgargianti: il corpo era grigio bluastro; la peluria e un ciuffo sulla punta della coda erano arancioni. Avvolto intorno al collo, si trovava un collare che le ricordava quello di un clamidosauro, verde smeraldo al centro e rosso rubino sui bordi.

«Porca troia!» sobbalzò Sam.

La bestia si avventò su Jack, che stava ingobbito con le mani sugli occhi. Mei-Yin puntò il fucile e sparò. Laura fu spaventata dal botto improvviso e si coprì le orecchie d’istinto. Il proiettile colpì solo di striscio la bestiaccia, mentre correva: le sfiorò il dorso. Il dinosauro si fermò con un gemito e si volse alla Regina delle Bestie. Laura ne approfittò per soccorrere Jack e aiutarlo ad allontanarsi. Mentre lo portava via, sentì un altro sparo alle sue spalle, ma la creatura continuava a gracchiare, segno che era stata mancata di nuovo.

«Che succede? Chi sei? Non vedo niente! Aaaaaaah, brucia!» mugolava Jack.

Laura si sforzò di ignorare le grida isteriche di tutti gli altri, miste ai versi inquietanti della bestia, e gli afferrò le spalle per tenerlo fermo. Iniziò a parlargli; faceva del suo meglio per avere un tono rassicurante:

«Sono io, sono Laura, Jack. Non preoccuparti, penso io ad aiutarti. Ti allontano il più possibile»

«Cos’è quello?! Cosa mi ha fatto?!» chiedeva lui, nel panico.

«Calmati, Jack. Prova a non agitarti, ascolta la mia voce. Quello è un dilofosauro, ti ha accecato con la saliva. Ora gli altri stanno… ehm…»

Preoccupata, la ragazza si voltò per controllare cosa stava succedendo. I due guerrieri stavano ricaricando i fucili, mentre Sam, Chloe e gli altri due sopravvissuti provavano a distogliere l’attenzione del dilofosauro. Sam teneva il machete con entrambe le mani e lo brandiva come se fosse una mazza da baseball. Rockwell si era impossessato dell’accetta da boy scout del rosso e stava in posa difensiva. In quanto a Chloe ed Helena, si sbracciavano e gridavano a turni per attirare l’attenzione. Il dilofosauro guardava ora l’uno, poi l’altro. Allargava il cappuccio e sibilava; non attaccava, ma non si tirava neanche indietro.

«Diciamo che lo stanno confondendo» concluse, insicura.

Jack annaspava come se stesse annegando e i suoi occhi lacrimavano, disegnando righe sulla macchia verde che aveva in faccia. Intanto, farfugliava:

«È velenoso? Morirò? Sarò cieco per sempre? Cosa fa questo schifo?! È disgustoso!»

«No! Certo che no! Non è letale! Dovremo solo sciacquare bene i tuoi occhi per un po’ e andrà via! Non sarai cieco per sempre, fidati di me!»

Fu allora che Laura sentì un terzo sparo, seguito da un lamento di dolore. Si voltò di nuovo e vide Nerva col fucile puntato: la canna dell’arma fumava. Il dilofosauro stava barcollando di lato e il fogliame sotto il suo corpo si stava sporcando di sangue. Il teropode crestato allargò il collare e lanciò un ultimo grido minaccioso, ma poi voltò le spalle al gruppo e scappò. Si dileguò nel fitto del palmeto in un batter d’occhio. Laura tirò un sospiro di sollievo e sorrise a Jack:

«A posto! L’hanno mandato via. Sei al sicuro, Jack!»

«Davvero?» mormorò lui.

«Sì! Tranquillo!»

Jack emise un mugugno sommesso. Provò a sollevare le palpebre, ma non riuscì a tenere gli occhi aperti per più di un secondo: erano troppo infiammati. Con le guance rigate di lacrime, dopo un altro gemito, abbracciò Laura all’improvviso e affondò il viso nella sua spalla destra. Non l’aveva mai stretta così forte. Dapprima, la ragazza si stupì, quasi si imbarazzò: si sentì arrossire. Tuttavia, capiva cosa stava passando il suo amico in quel momento. Così fece un sorriso intenerito e ricambiò l’abbraccio, dandogli delicate carezze sulla schiena.

Sulla spiaggia, a qualche chilometro da dove la comitiva aveva ancorato la barca, atterrò un girocottero che sollevò un polverone di sabbia. Il motore si spense e l’elica si fermò poco alla volta. Il baccano si affievolì fino a tacere. L’uomo con la bombetta inspirò a fondo, entusiasta e orgoglioso di sé, e mise piede sul suolo arkiano con fare solenne. Avanzò fino al limitare del palmeto a lente falcate e coi pugni sui fianchi e si guardò in giro, con un sorriso estasiato. Allargò le braccia e disse:

«Ammira, mia cara amica meccanica: l’isola preistorica si staglia davanti a noi, pronta a svelarci tutti i segreti che custodisce! E tutto grazie alla mia geniale idea di lasciare che fossero quei fessi a condurci qui!»

«Ti ho consigliato io di seguirli di nascosto» gli ricordò DOR-15.

Mike sbuffò:

«Sì, me lo ricordo, ma non sarà questo che racconteremo al mondo: non posso certo dire a tutti che la mente della spedizione è stata un cappello parlante!»

«A prescindere da tutto, la ritengo una discussione secondaria. La nostra priorità ora è organizzare la nostra ricerca dei manufatti»

Mike schioccò le dita, entusiasta:

«Giusto! Mettiamoci al lavoro! Dunque, se fossi nove pezzi di antiquariato su un’isola di dinosauri, dove potrei essere? Ehi, ho un’idea migliore! Lasciamo ancora che ci pensino loro, poi freghiamoglieli da sotto il naso! Che ne dici, Doris? Sono o non sono un genio delle tattiche ciniche?»

Doris ronzò sulla testa di Mike per elaborare i dati, poi rispose:

«È una strategia con ottime possibilità di successo, tuttavia comporta il rischio che i nostri concorrenti abbiano più probabilità di scoprire il segreto citato da Darwin prima di noi, se non agiamo abbastanza in fretta dopo la fine della loro ricerca»

Mike trasalì, frustrato:

«Ehi, è vero! Questo potrebbe rovinarci tutto all’ultimo»

«Inoltre, sussiste sempre il rischio che alcuni di loro o tutti loro muoiano a causa delle avversità dell’isola prima di trovare tutti i manufatti. Suggerisco pertanto di giocare di anticipo»

Mike si lisciò i baffi, intrigato:

«Il vecchio classico “chi primo arriva meglio si accomoda”, eh? Tanto meglio: sbattergli in faccia la mia palese superiorità renderà tutto ancora più glorioso, muhuhuhaha! Allora, come troviamo questi manufatti?»

Doris ronzò di nuovo, per poi suggerire:

«Propongo di raccogliere quanti più dati possibile, per prima cosa. Eseguirò una scansione aerea per rilevare elevate tracce di calore di corpi umani, la userò per localizzare l’insediamento indigeno più vicino»

«Va bene, ti aspetto qui»

DOR-15 si staccò dalla sua testa e volò fin sopra le fronde delle palme, quindi iniziò a girare su se stessa e a scandagliare il paesaggio. Mike la osservava da terra, con le mani sui fianchi. Capì subito che la bombetta ci avrebbe messo un po’, quindi decise di guardarsi meglio intorno nell’attesa. Si voltò verso il mare e si godé la brezza fresca. Trovò ironico quanto sembrava normale quel posto, a non sapere cos’era in realtà. Si accorse però di un essere bizzarro che strisciava sulla sabbia. Incuriosito, prese l’enciclopedia di Darwin dalla tasca e cercò la pagina giusta: era un trilobite, un artropode di mare antichissimo.

«Il mio primo incontro ravvicinato con un animale estinto! Ed è un animaletto schifoso senza capo né coda. Nel vero senso della parola» borbottò, deluso.

Con un sospiro, si avvicinò al trilobite e lo guardò da vicino. Più lo osservava, più gli faceva ribrezzo: era una sorta di guscio che si muoveva, con un casco triangolare e un ammasso di segmenti dietro. Non faceva nulla di interessante e sembrava un’aragosta avariata da mesi. E poi era così lento!

«E datti una mossa, sgorbio!» sbraitò Mike.

Tirò un calcio al trilobite, ma fu come dare una pedata a un mattone. Mike emise un urlo stridulo e si massaggiò le dita dei piedi doloranti, mentre il trilobite scattò via per lo spavento, con un rumore di sfregamento. Mike imprecava a denti stretti e camminava avanti e indietro per la spiaggia per ignorare il dolore. Ogni tanto, dava un’occhiata a Doris: la bombetta fluttuava sempre più lontano, volando a destra e a sinistra per scandagliare porzioni diverse del territorio. L’ultima cosa che voleva era perderla di vista, quindi Mike sibilò altre imprecazioni sul frustrante inizio della sua avventura e raggiunse il palmeto.

«Doris, non lasciarmi da…» iniziò.

Ma, prima di terminare la frase, calpestò qualcosa che si spappolò sotto il suo piede, con un rumore di frutta spiaccicata. Mike trasalì ed ebbe un fremito di disgusto; rimase immobile per qualche istante, prima di osare abbassare lo sguardo per controllare cosa aveva schiacciato. Aveva spappolato la testa di una formica. Una formica enorme, la più grande che avesse mai visto: era grossa come un gatto.

«Ih! Che schifo!» esclamò.

Fece un passo indietro e strofinò il piede nel terreno, per pulirlo dai fluidi biancastri della formica. Non contento, si accucciò e ci sputò sopra per sfregarlo con un lembo della giacca. Mentre puliva, però, iniziò a sentire un ticchettio frenetico. All’inizio era flebile, ma diventava sempre più intenso e risuonava da tutte le parti. Mike si sentì circondato. Si alzò, deglutì coi nervi a fior di pelle e si raccolse su se stesso, mentre indietreggiava.

«Doris? Ci sei?» chiese.

Non ottenne risposta. Al ticchettio si aggiunsero i fruscii del fogliame e le piante intorno a lui furono scosse da qualcosa. Ed ecco che, come se fossero uscite dal nulla, apparve un’intera armata di formiche giganti che schioccavano le mandibole e tastavano il terreno con le antenne. Procedevano verso di lui a passo di marcia, come un vero plotone. A Mike sembrò subito di essere in un film dell’orrore con gli insetti. Impallidì e strillò:

«Aaaaaaah! Le formiche mangiauomini! Aiuto! Doris! Vieni qui! Le formiche mi perseguitano!»

Si voltò indietro e corse a capofitto da dove era venuto, sulla spiaggia. Si guardava indietro di continuo e vedeva che le formiche zampettavano sempre più in fretta: gli si avvicinavano in massa. Ma Mike ebbe subito un’idea brillante:

«Non mi prenderete mai in mare, mostriciattoli!»

Con una risata trionfante, eseguì uno scatto da velocista olimpionico verso l’oceano, con lo sguardo fisso sulla linea dell’orizzonte. All’improvviso, però, inciampò in qualcosa di duro e perse l’equilibrio. In un attimo, si ritrovò con la faccia nella sabbia e il piede gli faceva ancora più male di prima. Nel panico, si alzò sui gomiti e si girò sulla schiena per guardare dietro di sé: vide il trilobite che scappava e la scia di formiche che lo inseguiva. Pestò il pugno sulla sabbia, incredulo:

«Ancora tu?! Non potevi vendicarti dopo?!»

Ormai le formiche gli erano addosso. Una manciata di esemplari con le ali si era aggiunta alla colonia e ronzava sopra l’esercito alla carica. Mike si raggomitolò e gridò:

«Doris! Dove sei?!»

Subito dopo, sentì un rumore di spruzzi e una pioggerella dall’odore pungente lo inzuppò da capo a piedi. Mike tossì per la puzza di agente chimico e si strofinò gli occhi, che gli pizzicavano. Notò però che le formiche non lo attaccavano. Stavano zampettando intorno a lui con circospezione e sondavano la sabbia intorno a lui con le antenne. Dopo qualche minuto, iniziarono a disperdersi in tutte le direzioni e il ticchettio caotico si placò.

«Oh! C’è mancato poco» commentò Mike.

Doris apparve accanto a lui. Con un sottile braccio meccanico segmentato, teneva una bomboletta di insetticida vecchia e rovinata. Mike la osservò e gongolò:

«Ah, quel repellente da Hong Kong! Sapevo che un giorno sarebbe stato la mia salvezza»

La bombetta posò la bombola a terra e ritrasse il braccio meccanico. Ronzò:

«Chiedo scusa per il mancato preavviso. Quando ho sentito la tua richiesta di aiuto sono andata al girocottero per prendere l’insetticida, senza premesse»

«Hai fatto bene! Brava, la mia bombetta d’azione! Ehi, dimmi, hai trovato niente con quel tuo occhio magico?»

«La mia strumentazione non è magica, ma sì. Il centro abitato più vicino è a Nord-Ovest di qui, in mezzo a un territorio erboso. Inoltre, ho rilevato i segnali termici degli otto soggetti che stiamo seguendo: sono diretti al grande obelisco oltre questa foresta di palme»

Mike rimuginò, pensieroso:

«Capisco. Allora mentre perdono tempo a guardare i monumenti locali, noi interrogheremo i selvaggi di qui e ci faremo dire dove trovare i manufatti! Coraggio Doris, non sprechiamo questo vantaggio!»

«Ne deduco che intendi andare al centro abitato»

«Devo proprio dirtelo? Sì!»

«Nuova destinazione impostata»

Doris si posò sulla testa di Mike e ritirò il visore. L’uomo con la bombetta si sfregò le mani, ridacchiò e tornò al suo girocottero. Ma si fermò interdetto, quando si accorse che due bizzarri gabbiani dal becco largo si erano posati sulle eliche e lo fissavano in silenzio. Mike li guardò a occhi sgranati per un paio di minuti, così stupito da rimanere imbambolato; poi si riscosse, si infuriò e tentò di scacciarli sbracciandosi e urlando:

«Ehi! Come osate? Sciò! Sciò, uccellacci! Giuro che se fate la cacca sul mio girocottero, vi stacco la testa!»

I due gabbiani strani rimasero del tutto indifferenti. Mike andò su tutte le furie e si guardò in giro, in cerca di qualcosa da lanciare. Trovò una conchiglia, la prese, mirò e la lanciò a uno dei due uccelli. Lo mancò, ma ciò bastò a irritare la coppia di gabbiani: entrambi si alzarono in volo con gridi assordanti e scesero in picchiata su Mike. Iniziarono a planare su di lui e beccarlo sulla schiena. L’uomo con la bombetta gridava terrorizzato e scappava verso le palme, ingobbito e con le mani sopra la testa.

«Ahia! Scusate! Ahi! Non volevo! Ah! Doris, non stare lì impalata! Doris?!»

«Sto valutando le opzioni per scacciare questa coppia di ittiorniti» spiegò la bombetta.

«Eddai! Ah! Andate via, non sono mica un tonno!»

«Si può dire che ARK ti ha riservato il suo benvenuto più distintivo, ragazzo» commentò Rockwell, sardonico.

Il vecchio inglese stava aiutando Jack a lavarsi gli occhi con un panno inzuppato, come avevano già fatto molte volte dopo l’attacco del dilofosauro. Il ragazzo era seduto su una roccia e si sforzava di tenere gli occhi aperti con le dita, con lo sguardo rivolto verso l’alto, mentre Edmund strizzava il panno per far gocciolare l’acqua sui bulbi oculari. Jack sibilava a denti stretti ogni volta che ripetevano il trattamento, ma Laura poteva vedere che ce la stava mettendo tutta per non lamentarsi. Era chiaro che non volesse sembrare ancora più rammollito di quello che dava già a vedere.

«Rimarranno degli effetti o tornerà a vederci come prima?» chiese Laura, apprensiva.

Ogni volta che Rockwell annunciava che era il momento di lavare gli occhi di Jack, la bionda li osservava con ansia, tenendosi un pugno davanti alle labbra e sorreggendosi il gomito con l’altra mano. Gli occhi di Jack la inquietavano: le cornee erano rosse e le pupille erano dilatate del tutto. Le ricordavano gli occhi di suo fratello, quando tornava dall’oculista. Solo che le gocce dell’oculista non erano la saliva tossica di un dinosauro. Con un gesto noncurante, Rockwell la rassicurò:

«Non avete nulla da temere: le pupille torneranno a contrarsi come al solito entro domani, mentre il bruciore si affievolirà col tempo. Scomparirà fra tre giorni, al massimo»

«Oh, meno male!» esclamò Laura.

«Non mi sento affatto al sicuro, a vedere solo sagome sbiadite su un’isola dei dinosauri» borbottò Jack.

Chloe gli si avvicinò, gli mise la mano sulla spalla per confortarlo e lo rassicurò:

«Suvvia, non sei da solo! Ci sono Mei e Gaius a proteggerci, hai visto?»

«No, non ho visto» ribatté Jack, irritato.

Chloe si rese conto della gaffe e ridacchiò, imbarazzata. Quando il lavaggio degli occhi finì, Laura si accostò a Jack e gli porse la mano, così da poterlo guidare. C’erano buone notizie: l’obelisco verde era ormai prossimo. Laura lo vedeva torreggiare oltre le palme più vicine ed era certa che l’avrebbero raggiunto, appena avessero superato quell’ultimo tratto di foresta. In quel momento, Mei-Yin tornò dalla sua rapida ricognizione e disse che non c’erano minacce. Il gruppo si rimise dunque in marcia.

La sensazione di Laura era giusta. Appena superarono la macchia di palme, si ritrovarono ai piedi dell’arcana struttura. La ragazza approfittò del momento per osservarlo meglio: aveva l’aspetto di un autentico obelisco egizio. La base doveva essere lunga dieci metri per lato e il monumento si innalzava fino a cinquanta metri, a occhio e croce. Ma le somiglianze con l’antico Egitto finivano lì, perché non era fatto di pietra. Laura non aveva mai visto un materiale del genere: sembrava metallo, ma la ragazza non capiva quale. Era grigio scuro e liscio; l’intera superficie era suddivisa in piccoli esagoni, come le cellette di un alveare. La punta, verde chiaro e molto luminosa, era senza dubbio fatta di cristallo. Laura abbassò lo sguardo e osservò meglio la base: era circondata da una sottile piattaforma di quello strano metallo, dal diametro di una quindicina di metri.

«Che strano materiale. Che roba è?» chiese Sam, affascinato.

«La stessa dei manufatti. Non abbiamo mai capito cosa sia» rispose Helena.

Il ragazzo si avvicinò alla struttura e fece scorrere le mani sulla superficie dell’obelisco, con uno sguardo rapito. Dopo un po’, si voltò ed esclamò, sbigottito:

«Ehi, questo affare pulsa! Molto piano, ma lo sento. È come premere il polso con le dita, è strano»

Rockwell fece un sorrisetto e annuì:

«Esatto. Straordinario, non è vero? Comunque, è ora di verificare»

Con le mani dietro la schiena, il chimico raggiunse l’obelisco e iniziò a fare tutto il giro della piattaforma, intento a scandagliarla palmo a palmo, assorto. Incuriosita, Laura guardò dove saettavano gli occhi dell’Inglese e notò un particolare: c’erano tre cavità, nel metallo. Le ricordavano gli stampini da riempire di gesso liquido con cui giocava da bambina, per fare le repliche dei fossili. Chiese a Helena se poteva tenere Jack un attimo e salì a sua volta sulla piattaforma. Si accovacciò accanto a ciascuno dei tre incavi, per osservarli meglio. Ciascuno aveva una forma unica, molto stilosa e ben distinta dalle altre. Era ovvio che lì si dovevano inserire i manufatti, come aveva raccontato Helena. Edmund sospirò:

«Come pensavo: sono stati rimossi»

Helena allargò le braccia:

«Be’, è evidente: la barriera è attiva. Il problema ora è cercarli»

«Sarà difficoltoso. Tre anni fa erano tutti nelle caverne, ma ora potrebbero essere ovunque»

Chloe guardò entrambi e azzardò un’ipotesi:

«Magari qualcuno se li tiene in casa e non ha idea del loro valore, come le uova di Fabergé»

Rockwell fece una risatina nervosa:

«Ah! Me lo auguro, signorina: sarebbe lo scenario più roseo»

«Scusate, qualcuno potrebbe descrivermi cosa state vedendo tutti?» chiese Jack, mogio.

Sam si voltò e gli rispose:

«C’è questo obelisco gigante coi battiti cardiaci, tre buchi in un metallo strano e i nostri manufatti sono tutti in culo al mondo. Insomma, in culo all’isola»

Sbalordito dalle parole dell’amico, Jack chiese di poter toccare l’obelisco per sentire le pulsazioni di persona. Laura lo osservò strofinare le mani con meraviglia con quel metallo sconosciuto e alieno, intenerita. Poi, però, senti un grugnito e un fruscio poco lontano da loro: qualcosa stava brucando, nella radura dell’obelisco verde. La paleontologa si guardò in giro, allertata; era così curiosa che qualunque timore di avvicinarsi al fitto della vegetazione scomparve. Andò a indagare in mezzo ai cespugli, al limitare della radura, e quello che scoprì la fece impazzire per l’emozione: c’era un piccolo rettile tondeggiante, con zampette corte e tozze e un becco dotato di canini. Laura si portò le mani alle guance e squittì:

«Iiiiiiiiiiiiiiih! Un listrosauro! Ed è carinissimo!»

L’animaletto alzò lo sguardo, confuso dai suoni acuti della ragazza, e la fissò mentre masticava con pigrizia un grappolo di bacche simili a more. Laura sentì subito l’impulso di ispezionarlo dalla testa alla codina, prenderlo e osservare ogni centimetro quadrato del suo corpo, ma si ricordò all’ultimo che era pur sempre un animale selvatico: era meglio evitare. Laura sentì Mei-Yin richiamarla, in tono contrariato:

«Ehi, se fossi in te non andrei così lontana: sei a due passi dalla foresta»

Helena, però, difese la ragazza:

«Eddai, Mei, lasciale vivere il suo sogno. Puoi sempre tenerla d’occhio da qui, non è mica lontana!»

La guerriera sospirò, nervosa:

«È facile per te dirlo, ma intanto abbiamo soccorso l’altro solo dopo che è stato attaccato»

«Grazie lo stesso per la premura» si intromise Jack.

Sam e Chloe si accostarono a Laura e osservarono a loro volta il piccolo animale. Il listrosauro ingoiò le ultime bacche e iniziò a fissarli tutti e tre uno alla volta; sembrava perplesso, ma tranquillo. Il rosso si accucciò per guardarlo meglio, si alzò gli occhiali da sole sulla testa e ridacchiò:

«E tu cosa saresti, un carlino prima che inventassero i carlini?»

Chloe si sbatté un palmo in faccia:

«Ti spiace dirmi che c’entrano i carlini con questo coso?»

Sam fece spallucce:

«Insomma, guardalo: piccolo, brutto, sembra tonto. È un carlino, ma rettile! Scommetto che la gente del posto li usa proprio così»

«Eddai, che ti ha fatto di male? Sembra così dolce»

Il listrosauro grugnì e iniziò a zampettare in giro, alla ricerca di altre bacche. Laura ridacchiò e non seppe fare a meno di trattenere una spiegazione:

«Sapete com’è, questo piccoletto fa parte dei dicinodonti. Significa “due denti da cane”, quindi in un certo senso Sam ci ha azzeccato»

«Ah, è per i due denti strani sul becco» capì Chloe.

«Esatto. Comunque, prima che uno di voi due dica una blasfemia, non è un dinosauro: è un sinapside. Sapete, rettili prima dei dinosauri. Erano loro gli animali di successo, nel Permiano»

Sam le fece un piccolo applauso sarcastico:

«Tutto molto interessante, ma hai intenzione di fare così ogni volta che ci capita un dinosauro nuovo?»

Chloe gli lanciò un’occhiataccia e gli diede una pacca furtiva sulla schiena. Sam si massaggiò il punto colpito e allargò le braccia:

«Che c’è? Dico solo che può fare la paleo-secchiona quanto vuole, ma se per noi è arabo, qual è il punto?»

«Ehi, io ho dovuto rinunciare al corso di arabo, non infierire!» scherzò Chloe.

Laura sbuffò e chinò lo sguardo:

«Tranquillo, Sam, a te si può perdonare quasi tutto. Quasi»

I tre ragazzi tacquero e si misero a contemplare in silenzio il listrosauro che brucava e spogliava i cespugli più piccoli a una velocità incredibile, per la sua piccola stazza. In effetti, Laura aveva notato subito che era alquanto in carne: doveva proprio avere una dieta abbondante. Chissà se aveva un metabolismo lento o se mangiava senza sosta? Avrebbe potuto rimuginarci sopra per ore, ma fecero tutti e tre delle smorfie preoccupate quando lo videro alzare la codina e divaricare le zampe posteriori. Si affrettarono a voltarsi e a tornare da tutti gli altri, ai piedi dell’obelisco. Quando si riunirono al gruppo, Rockwell aveva un annuncio da fare:

«Abbiamo deciso che ci accamperemo qui per la notte. Questo tragitto ha impiegato quasi tutto il giorno e non ha senso provare a raggiungere un’altra destinazione a quest’ora. Voialtri ne approfitterete per riposare, io farò mente locale sui posti in cui potremmo cercare i manufatti»

«Posso darti una mano con quello, se vuoi» si offrì Helena.

Fu evidente che Rockwell si sforzò per non ridere. Si sistemò gli occhiali e fece l’oltraggiato:

«Con tutto il rispetto, Helena, credo che sia meglio se me ne occupo io: ho scoperto di persona il primo dei manufatti mentre facevo speleologia, credo di essere più che abbastanza ferrato per fare una lista dei punti di ARK che hanno più possibilità di nasconderli»

Helena sospirò e incrociò le braccia:

«Sei convinto che non conosca abbastanza l’isola perché ci sono stata meno tempo di te, vero?»

«Non necessariamente»

Edmund si affrettò ad allontanarsi e iniziò a montare una tenda dall’altra parte dell’obelisco. Laura rivolse un rapido sguardo perplesso a Sam e Chloe, ma quando Nerva li esortò ad allestire l’accampamento, obbedirono in silenzio.

Era notte fonda. Il gruppo aveva finito di cenare intorno al fuoco da campo e ora quasi tutti si erano ritirati nelle loro tende. Jack era andato a dormire quasi subito, distrutto da tutto quello che gli era successo quel giorno. I suoi amici stavano chiacchierando a bassa voce tra loro, mentre Laura leggeva l’enciclopedia. Rockwell stava da solo per stilare il suo elenco dei posti in cui cercare. Infine, Mei-Yin e Nerva facevano a turni per stare fuori di guardia e tenere acceso il falò.

Helena fu svegliata da rumori di passi e fruscii. Fu disorientata e stordita per qualche minuto, prima di riordinare la mente e ricordarsi che era andata a dormire dopo una simpatica discussione con Laura sui sinapsidi di ARK, la quale si era dilungata fin troppo. La biologa sorrise, ripensando a quella sera. Quella ragazza faceva proprio come lei, nei suoi primi mesi su ARK: su di giri tutto il tempo, rapita da ogni singola cosa nuova che vedeva, impaziente di scoprire ciò che non sapeva ancora. Sapeva come si stava sentendo: conosceva la sensazione di essere tornata una bambina che esplorava il mondo per la prima volta.

Nel suo caso, però, la magia era scemata in fretta, una volta che aveva dovuto confrontarsi col rovescio della medaglia. La prigionia sull’isola, il senso di smarrimento quando non riusciva a dare un senso ai suoi misteri, il timore di restare coinvolta nella guerra tra gli Arkiani e la Nuova Legione. Una parte di lei era dispiaciuta per aver perso i momenti in cui il suo unico pensiero era emozionarsi di fronte alle creature preistoriche. E adesso aveva la seconda occasione che non aveva mai pensato di avere, grazie a una giovane paleontologa dalla passione contagiosa. In cuor suo, Helena sperava che quella fase della meraviglia durasse il più possibile per Laura. In teoria, l’unico vero mistero rimasto era il segreto di Darwin. Ormai sapevano come aprire la barriera e la guerra era finita. Non avrebbero dovuto esserci distrazioni.

“La aiuterò a trarre il massimo da questo viaggio. Glielo devo” si promise.

A quel punto, un altro fruscio la riscosse dai suoi pensieri. La biologa si mise seduta e si stirò: non aveva più sonno. Il sacco a pelo accanto a lei era vuoto, segno che Mei era uscita per il suo turno di guardia. Il rumore che l’aveva svegliata, quindi, dovevano essere stati lei e Gaius che si scambiavano di posto. Le venne voglia di trascorrere del tempo da sola con l’amica. Così sgusciò fuori dal sacco a pelo, abbassò la cerniera della tenda e sbirciò fuori. Mei-Yin era seduta su un ceppo davanti al fuoco da campo, col fucile sul grembo. Si era tolta il k-way e, adesso, la sua armatura cremisi scintillava alla luce del falò.

Helena uscì dalla tenda e raggiunse la Regina delle Bestie. Quando si sedé al suo fianco, la guerriera sembrò sorpresa per una frazione di secondo, prima di tornare fredda e concentrata come al solito. La biologa sorrise e tentò di iniziare una conversazione: era sempre quello il passo più difficile, con Mei.

«Una prima giornata intensa, non trovi?» chiese, ironica.

«Dovresti chiederlo al ragazzo biondo, non a me» replicò Mei-Yin, secca.

«Giusto»

Helena serrò le labbra, con una punta di imbarazzo. Si mise a osservare il fuoco, a concentrarsi sulla danza ipnotica delle fiamme e sul crepitio rilassante. Fu in quel momento che le fu chiaro il vero motivo per cui aveva voglia di stare lì con Mei-Yin: quella scena rievocava ricordi. Ricordi piacevoli dal suo naufragio su ARK. Le tornò il sorriso e disse:

«Ti ricordi quando ero la tua ospite, nella giungla? I nostri primi tentativi impacciati di chiacchierare?»

Gli angoli della bocca di Mei si piegarono in un mezzo sorriso divertito:

«Vuoi dire i tuoi tentativi impacciati. Il tuo mandarino era atroce»

Helena fece l’offesa:

«Ehi, all’università ero più brava! Era il tuo sguardo spaventoso che mi distraeva»

«Sai cos’era spaventoso? Le tue domande incessanti sullo sterco delle mie bestie»

Helena si sbatté un palmo in faccia:

«Possiamo saltare quella parte? Abbiamo avuto momenti migliori! Come quando abbiamo improvvisato uno stufato di verdure insieme. Ricordi? Mi era capitato di dire che ero stufa di arrostire un pezzo di carne tutte le sere, tu hai detto che valeva lo stesso per te e abbiamo avuto l’idea assurda di fare le cuoche»

Il sorrisetto di Mei diventò più caloroso per un istante e la guerriera commentò:

«D’altronde, se fossi stata brava a cucinare, sarei somigliata di più alle ragazze normali del mio villaggio»

«Ehm… sì, immagino di sì»

Calò il silenzio. Helena era sempre incerta su cosa dire, nei rari casi in cui Mei-Yin si faceva sfuggire dettagli sul suo passato in Cina: aveva paura di premere i tasti sbagliati. In quel caso, tuttavia, fu l’amica a rompere il silenzio con un affermazione seria:

«Ci servono delle bestie al più presto, Helena»

La biologa la fissò, sorpresa da quel tono cupo, e disse:

«Ma certo, siamo già d’accordo sul prenderle appena arriviamo a un villaggio»

La Regina delle Bestie la guardò negli occhi e aggrottò la fronte:

«No. Ci servono subito. Hai visto cos’è successo, oggi»

Helena allargò le braccia:

«So dove stai andando a parare, ma non andare in paranoia! Certo, quel dilofosauro ci ha colti alla sprovvista, ma…»

«Siamo stati troppo lenti per impedirgli di accecare il ragazzo. No, io sono stata troppo lenta. La prossima volta potrebbe essere troppo tardi anche solo per mettere mano al bastone sputafuoco»

Helena sospirò. Sapeva che la sua amica aveva ragione nella maniera più assoluta, ma d’altro canto voleva trovare un modo per alleviare il suo oneroso senso di responsabilità:

«Mei, è giusto che ti preoccupi, ma nessuno è infallibile. Certo, Jack è stato accecato prima che tu e Gaius lo salvaste, ma l’importante è che ci siate riusciti, no?»

La Regina delle Bestie ebbe un lieve fremito di stizza e la sua voce diventò un sibilo frustrato:

«Hai acconsentito a portare qui dei giovani in erba che non hanno neanche metà delle nostre speranze di stare vivi qui, dopo che hai deciso di tornare in questo posto maledetto, e ora mi dici di prenderla alla leggera?»

Helena ebbe un sobbalzo, disorientata da quel rinfaccio. Non sapeva più cosa dire, ma all’improvviso aveva la sensazione di aver commesso l’idiozia più ovvia ed evitabile di tutta la sua vita. D’altro canto, quando ripensò a cosa aveva pensato solo pochi minuti prima, capì che avrebbe dovuto essere la prima a concordare con Mei: se voleva che Laura si godesse ARK, invece di viverla come un incubo, doveva tenerla più al sicuro che mai. Quindi chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e annuì:

«È vero. Ci servono rinforzi bestiali al più presto. Allora, qual è il tuo piano?»

Mei-Yin chinò lo sguardo e rimuginò in silenzio per una manciata di secondi. Dopodiché guardò il margine del palmeto e rispose:

«Domattina, esplorerò la zona e mi metterò sulle tracce di qualche predatore piccolo o di taglia media. Bestie che si domano in fretta e facili da gestire per chiunque. Poi cercherò un nuovo raptor per me: questo è assoluto»

Helena ridacchiò:

«Sembra che la Regina delle Bestie sia tornata in pista, più in forma che mai»

La guerriera scrollò le spalle:

«È proprio vero quello che dicono: le vecchie abitudini sono dure a morire»

Dopo aver riflettuto in silenzio, la biologa ebbe un’idea folle. Le sembrava sfacciato fare una richiesta simile a Mei e pareva una ridicola contraddizione a tutto il discorso che avevano appena fatto, ma decise comunque di provare:

«Sai cosa penso? Che dovresti portare i ragazzi con te e mostrare loro come si fa»

Mei-Yin strabuzzò gli occhi:

«Cosa? Sei impazzita?»

«No, sono seria. Segui il ragionamento: vogliamo che sopravvivano il più possibile, no? Allora insegna i tuoi trucchi ai ragazzi. Addestrali a vivere come gli Arkiani, o quantomeno a imitarli. Prendiamo due piccioni con una fava: se sono più temprati, dipenderanno meno dalla tua protezione e non dovrai preoccuparti così tanto»

Dapprima, Mei-Yin fece per ribattere. Helena poteva capire dalla sua espressione che era contrariata. Invece, all’ultimo, lo sguardo della sua amica diventò titubante. La Regina delle Bestie distolse lo sguardo e fissò il vuoto, mentre tamburellava le dita sulla canna del fucile. Helena sapeva che Mei non poteva negare i vantaggi di quell’idea. Non disse più niente per provare a convincerla: si limitò a guardarla con aspettativa, fiduciosa che avrebbe fatto la scelta più intelligente. Alla fine, Mei-Yin sbuffò e guardò il fuoco:

«Ah! Come mi metti tu nei guai, non ci riesce nessun altro. Molto bene: farò vedere ai ragazzi come si sfugge alla morte su ARK. Mi sforzerò di essere paziente. Ma solo perché sei tu»

Helena non seppe trattenere una risatina, quando sentì l’ultima frase. Annuì e sorrise ancora:

«Grazie, Mei. Cosa farei senza di te!»

La guerriera scrollò le spalle:

«Be’, ho promesso di ripagare il favore, no? Forza, ora torna a dormire: non ti conviene distrarmi mentre faccio la guardia»

«Agli ordini, soldatessa» scherzò Helena.

La biologa si batté le mani sulle ginocchia e tornò nella tenda. Quando si distese nel sacco a pelo, si girò sul fianco e fissò le ombre proiettate dal fuoco, mentre si chiedeva come avrebbero reagito i ragazzi a ciò che li aspettava l’indomani. Con un sorrisetto divertito, si voltò dall’altra parte e chiuse gli occhi.

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Capitolo 8
*** Primi Contatti ***


Laura aveva dormito poco e male, quella notte. Non perché era poco abituata a dormire in una tenda, anzi. A tenerla sveglia era stata la preoccupazione per Jack. Le dispiaceva tantissimo che avesse avuto due incontri ravvicinati spiacevoli nel giro di poche ore già il primo giorno. Ma quello era il male minore: e se avessero incontrato qualcosa di più grosso e letale di un dilofosauro? Non osava pensarci. Sperava quantomeno che ottenessero mezzi migliori per stare al sicuro, una volta raggiunto il primo villaggio degli indigeni. Fino ad allora, tutto quello che potevano fare era stare sempre attenti e seguire le istruzioni di Mei-Yin come se fossero dogmi religiosi.

In ogni caso, si svegliò intontita e assonnata. Vedeva la luce che filtrava attraverso il tessuto della tenda e la spingeva ad alzarsi come la più insistente delle sveglie. Si mise seduta, sbadigliò e si strofinò gli occhi, con svogliatezza. Si stirò e si massaggiò il collo. Fatto ciò, batté le mani per incoraggiarsi e si sfilò dal sacco a pelo. Il fruscio attirò l’attenzione di Chloe, che era già sveglia. Laura si sorprese, quando la vide intenta a leggere l’enciclopedia di Darwin. La sua amica alzò lo sguardo dalle pagine e le sorrise:

«Buongiorno, paleontologa»

«’Giorno. Che fai con quel libro?»

Chloe fece spallucce:

«Mi sono svegliata prestissimo, ma non avevo voglia di disturbarti, così ho pensato di ammazzare un po’ il tempo. Ho notato che Darwin menziona sempre dei nomi alternativi per i mostri preistorici in due lingue: quella del posto e la traduzione. Mi è venuta voglia di provare a capire la linguistica di questo “arkiano”»

Laura ridacchiò e alzò il pollice:

«Non cambiare mai, poliglotta. Mi sembrava strano che avessi voglia di scoprire di più sugli animali»

«Pensavi che mi sarei persa l’occasione di imparare a mediare in una lingua che non conosce nessuno?»

Mentre parlavano, le ragazze sentirono dei passi fuori dalla tenda e qualcuno scostò i lembi dell’entrata: era Mei-Yin. Le guardò col solito sguardo serio:

«Bene, siete sveglie. Venite»

Se ne andò senza aggiungere altro. Laura e Chloe si scambiarono un’occhiata perplessa, dopodiché si vestirono in tutta fretta, presero il necessario e uscirono dalla tenda. Mei-Yin le stava aspettando in piedi accanto alle braci ancora fumanti del fuoco da campo; teneva le braccia conserte e i piedi equidistanti, come un sergente. Sam e Jack erano seduti lì vicino, in attesa, mentre Nerva beveva da una borraccia e faceva un giro d’ispezione ai margini della radura. Laura andò subito da Jack e si accucciò davanti a lui per guardarlo in faccia:

«Ciao. Come stanno gli occhi?» gli chiese, premurosa.

Jack sospirò:

«Molto meglio, grazie. Il dottor Rockwell ha continuato a sciacquarmeli tutta la notte»

«Ora ci vedi bene? Fa ancora male?»

«Non bruciano più, ma è tutto ancora un po’ sfocato. Niente di grave, però. Al massimo, inciamperò nei sassi. Come se non fossi già abbastanza goffo»

Sam sbuffò e gli diede una spinta:

«Piantala di fare la vittima! Guarda dove metti i piedi e il gioco è fatto»

Furono richiamati all’attenzione dalla voce severa di Mei:

«Ragazzi, sono qui»

Intimoriti dal suo tono, tutti e quattro si affrettarono d’istinto a mettersi in riga davanti a lei e ascoltare. Laura si accorse di una crepa nella compostezza di Mei: appena le avevano obbedito, la sua sicurezza e freddezza avevano vacillato appena appena, come se non fosse poi così certa della sua autorità. Laura sospettava che non fosse abituata a stare al di sopra degli altri. La Regina delle Bestie fece un rapido respiro e si ricompose. Si schiarì la voce e dichiarò:

«Stanotte ho parlato con Helena su come dovremmo comportarci con voi. Ho deciso di portarvi con me oggi, per insegnarvi a usare le risorse per sopravvivere e addomesticare una bestia. Ci servono cavalcature per viaggiare in fretta, quindi prenderò due piccioni con una fava addestrandovi nel mentre»

«Approvo» rispose Chloe.

Laura fu pervasa da un’improvvisa scarica di adrenalina e tutta la sua sonnolenza fu spazzata via in un baleno: stava davvero per imparare il metodo di doma descritto nell’enciclopedia! Con l’aiuto di una vera esperta! Come poteva contenere l’emozione? Resisté all’impulso di battere le mani e squittire come una bambina delle elementari, portandole dietro la schiena e afferrandosi un polso. Jack alzò la mano e prese la parola:

«Domanda: non cercheremo un mostro assetato di sangue, vero? Possiamo prendere un erbivoro docile?»

Mei-Yin lo fissò come se avesse appena posto la domanda più ovvia del mondo:

«Non sono un’incosciente. Certo che userò un erbivoro come allenamento. Baderò io a procurarci dei predatori. Per oggi, statemi dietro e fate come vi dico io. Prometto che vi proteggerò da qualunque cosa: sarò pronta»

Mentre lo diceva, indicò il fucile nel suo zaino col pollice. Sam si fece scricchiolare le nocche e affermò:

«Ammetto che una volta ho sognato di cavalcare un dinosauro, quindi perché no? Sono pronto»

Laura si guardò in giro e si accorse di non aver ancora visto né Helena né Edmund. Domandò a Mei dove fossero e la guerriera spiegò che, mentre Gaius faceva la guardia, loro due avrebbero studiato insieme la mappa di ARK per stabilire tutti i posti da controllare per la ricerca dei manufatti. Dunque Mei si sistemò meglio le bretelle dello zaino e ordinò ai ragazzi di seguirla. Passarono accanto all’obelisco verde e raggiunsero il limitare del palmeto, dove incrociarono Nerva.

«I paraggi sono sgombri. Ci sono solo piccoli erbivori» annunciò.

Mei-Yin annuì:

«Ottimo. Farò in modo da evitare territori di carnivori»

«Buona fortuna a voi, giovani»

I ragazzi lo ringraziarono e seguirono la loro guida nel fitto della vegetazione. Per precauzione, Laura stava accanto a Jack e lo teneva per mano per fargli da guida. Le sembrò nervoso: era più rigido di un tronco, evitava a tutti i costi di guardarla e la sua mano sudava a più non posso. Laura suppose che si trattasse solo della fifa dopo l’attacco del dilofosauro. Mentre camminavano, si voltò indietro un’ultima volta: l’obelisco verde torreggiava sopra le cime delle palme come un enorme palo lucente. Questo la tranquillizzava: se non altro, era impossibile smarrirsi, quando avrebbero dovuto tornare all’accampamento.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Palmeto by RobertoTurati

Mentre attraversavano il palmeto, Laura era combattuta: da un lato, voleva osservare nei minimi dettagli ogni singola pianta accanto a cui passavano e investigare su ogni fonte di rumore, dall’altro aveva paura di perdere di vista Mei-Yin e perdersi. Siccome stava già in fondo alla fila perché tenere Jack per mano la rallentava, non era proprio il caso di correre un tale rischio. Sam aveva il machete sguainato e Mei imbracciava il fucile: se non altro, erano pronti a intervenire in caso di pericoli. Laura aveva decine di domande sulla punta della lingua, ma non osava pronunciarsi: Mei-Yin restava in religioso silenzio e qualcosa le faceva presagire che si aspettasse altrettanto da loro quattro. Così si accontentava di guardarsi intorno.

Stavano marciando verso nord-est. Nella tarda mattinata, la vegetazione iniziò a cambiare: le palme cederono il posto a latifoglie dal tronco dritto e sottile. Gli alberi erano avvolti da rampicanti che salivano a spirale lungo il tronco e, dai rami, pendevano lunghi grappoli di graziosi fiori rossi. Il clima stava diventando meno tropicale e più temperato; le fronde erano mosse da una brezza leggera, che trasportava il profumo dolce dei fiori pendenti. Tuttavia, non tutti i fruscii erano dovuti al vento: a un certo punto, a Laura parve di scorgere dei movimenti sui rami. Strinse gli occhi, si portò una mano sulla fronte e si concentrò sul fogliame. Fu allora che le vide: scimmiette con una lunga coda e una vaporosa pelliccia grigia o dorata. Non sapé trattenersi e squittì:

«Iiiiih! Mesopitechi!»

Jack sobbalzò, terrorizzato, e si guardò intorno:

«Eh? Cosa? Dove? Aiuto!»

Laura lo guardò perplessa per un attimo, poi capì: non sapendo di che animale si trattasse, Jack doveva aver dato per scontato che fossero pericolosi. Non poté fare a meno di sorridere. Subito dopo, però, Mei-Yin le si avvicinò e le fece segno di stare in silenzio, a occhi spalancati. Laura si sentì subito in imbarazzo e le venne una scalmana. Si coprì la bocca con una mano, mentre il cuore le martellava nel petto per la vergogna. Ecco: due reazioni esagerate in pochi secondi. Che figuraccia terribile! Mei sospirò e proseguì senza dire altro. Laura chinò lo sguardo, ma sentì un tocco gentile sulla spalla: Chloe le stava sorridendo con uno sguardo comprensivo, mentre Sam, dietro di lei, le faceva segno di farsi forza. Laura si impose di calmarsi e fece dei respiri profondi. Quando si sentì pronta, proseguirono il viaggio. Jack le sussurrò all’orecchio:

«Ma quindi non siamo in pericolo?»

«No, colpa mia»

Alzò di nuovo lo sguardo verso l’albero di prima: i mesopitechi si erano immobilizzati e ora fissavano il gruppetto con sguardi vigili. Laura si sentì ridicola: persino le scimmie preistoriche sapevano che razza di bambinona era. Comunque, tutti i suoi pensieri negativi furono spazzati via in un istante, quando sentì l’eco di un verso in mezzo al bosco: sembrava un muggito, ma era così profondo da farle vibrare i timpani. A quel grido seguì un brusio di altri versi più gravi e calmi: un buffo misto fra gli starnazzi di un’anatra e i muggiti di una vacca. Mei fermò il gruppo e fece un sorrisetto soddisfatto:

«Ottimo: abbiamo trovato delle bestie perfette per il vostro primo tentativo. Se ricordo bene, gli indigeni li chiamano “sentinelle dei pascoli”, ma Helena li chiamava sempre…»

«Parasauri» concluse Laura.

Ora fremeva per l’emozione: era una delle specie che bramava di vedere più di tutte. Mei-Yin si rimise il fucile a tracolla e la tensione sembrò abbandonare il suo corpo. Sam e Chloe le rivolsero uno sguardo interrogativo, a cui rispose:

«Quando sono così chiassosi e tranquilli, vuol dire che i paraggi sono sicuri. Potete pure parlare ad alta voce. Venite con me»

Laura dové mettercela tutta per non mollare la mano di Jack e correre a perdifiato verso la fonte del baccano. Attraversarono una macchia di alberi e arbusti, raggiunsero una zona in cui il bosco era più rado e videro le creature che emettevano quei muggiti. Ormai il cuore di Laura palpitava e la ragazza non riusciva più a tenere ferme le mani. Lasciò Jack e iniziò a lisciarsi di continuo la coda di cavallo, mentre si mordeva le labbra.

«Che carini» sorrise Chloe.

Sam li riconobbe una volta che li vide e schioccò le dita:

«Aaaaah! Sono quelli con la cresta all’indietro! Ma scusa, Laura, a che serve quella cosa? A fare scena?»

«È una cassa di risonanza» rispose Laura.

«In che senso? Un altoparlante?»

«Sì: una delle ipotesi sul suo scopo è che servisse a lanciare richiami rumorosi e allertare gli altri esemplari. Forse sto per scoprire finalmente se è la teoria giusta!»

A quel punto, Mei-Yin richiamò l’attenzione dei ragazzi:

«Va bene, perché non fai i tuoi studi dopo che ne avrai uno tuo? È ora di domarne uno»

«Oh, sì! Insegnami!» esclamò Laura.

«Per favore, fa’ che non sia traumatico» mormorò Jack.

I ragazzi si radunarono in cerchio intorno alla Regina delle Bestie. Mei ordinò loro di ascoltarla con attenzione, per poi raccogliere grandi quantità di bacche dai cespugli che abbondavano intorno a loro. Mise un abbondante grappolo di bacche dai vari colori nel palmo di ciascuno dei ragazzi, per poi cominciare a spiegare:

«Se avessimo un arco, potremmo legare dei sacchetti alle frecce e tirarli da lontano, ma voi non avete né l’arco né la capacità di usarlo, quindi non vi resta che il metodo più basilare. Prima di tutto, scegliete uno di questi erbivori. Vi avvicinate con molta calma e, quando vi guarda, gli fate vedere bene il cibo che avete in mano. Poi lo lasciate a terra e vi fate da parte»

«Tutto qui?» chiese Sam, perplesso.

«Per ora, sì. Tenetelo d’occhio e vedete se è interessato. Se accetta l’offerta, dovete continuare a regalargli cibo ogni volta che vi capita l’occasione. Vi spiegherò dopo i passi successivi. Forza, datevi da fare»

I ragazzi si avvicinarono con cautela alla mandria di parasauri. Laura li fissò tutti uno per uno, estasiata. Avevano tutti dei colori meravigliosi, non ce n’era uno uguale. Ne contò una ventina, di cui cinque erano piccoli. Insomma, piccoli in senso relativo: gli adulti erano imponenti, alti come elefanti. Visti più da vicino, incutevano una certa soggezione, a parte il loro muso dolce. Persino Sam fece un fischio di ammirazione, cosa che attirò l’attenzione degli esemplari più vicini per qualche istante. Jack si intimorì e si rifugiò dietro un arbusto, ma si tranquillizzò quando i parasauri si voltarono.

La maggior parte degli esemplari stava brucando le bacche dai cespugli o le foglie dai rami. Tuttavia, ai margini della mandria, ce n’erano alcuni che facevano la guardia: ritti sulle zampe posteriori e sempre all’erta, si stagliavano sopra i loro simili chini e intenti a mangiare. Per logica, Laura presunse che le sentinelle fossero i parasauri che mangiavano di meno, quindi quelli che avevano più probabilità di avere appetito. Sempre ammesso che non si scambiassero di posto a intervalli brevi, ma valeva la pena di tentare. Chloe le sorrise e le indicò la mandria con un ampio gesto del braccio:

«A te l’onore. Sei venuta anche per questo»

Laura era così eccitata che le si seccò la gola. Deglutì, col cuore in gola, e fece dei cauti passi verso il parasauro sentinella più vicino, che notò subito la ragazza in avvicinamento. Era un magnifico esemplare: l’addome e il dorso erano azzurri, così come la cresta, mentre i fianchi e le zampe erano arancioni. I due colori si alternavano con motivi ondulati. Il parasauro osservò Laura con curiosità e reclinò il capo. La ragazza tese la mano e gli mostrò la manciata di bacche. Provò a muovere il braccio a destra e sinistra e, come sperava, il parasauro ne seguiva i movimenti col capo. Allora lasciò le bacche sull’erba e indietreggiò. Tornò dagli altri e anche loro fecero la stessa cosa.

Il parasauro sentinella rimase immobile per diversi minuti, prima di cedere alla tentazione: si avvicinò con cautela al mucchietto di bacche, tenendo il muso sempre più basso. Alla fine, si convinse e mangiò l’offerta in un attimo. Quando finì, tornò vigile e tenne d’occhio i ragazzi, mentre i succhi delle bacche gli colavano dal becco sporco. Dopo un borbottio amichevole, tornò alla sua postazione e ricominciò a fare la guardia. Laura si voltò verso Mei, in attesa di un verdetto. La guerriera annuì, soddisfatta. La paleontologa si portò una mano al petto: era pressoché commossa. Sam si sistemò gli occhiali da sole e scherzò:

«Sapete, credevo che avrei tenuto da parte questa battuta per molto più tempo, ma…»

«Qualunque idiozia stia per dire, evita: non rovinare il momento a Laura!» lo rimproverò Chloe.

«Che c’è? Secondo me sarebbe un complimento paragonarla a Owen Grady! O no?»

Laura alzò gli occhi al cielo:

«Grazie, Sam, apprezzo il pensiero»

«È bello vederti così felice» affermò Jack, timoroso.

La situazione non cambiò nei minuti successivi, quindi i ragazzi si sederono a ridosso di un albero e concessero a Laura di esternare tutte le riflessioni paleontologiche che turbinavano nella sua mente. Senza badare al respiro sempre più corto e alla gola sempre più secca, si mise a descrivere per filo e per segno quali parti del corpo di quei parasauri corrispondevano alle evidenze fossili e quali sembravano modifiche uniche di ARK, prima fra tutte la membrana sotto la cresta e la lievissima ramificazione di quest’ultima. Mentre Laura parlava, i parasauri sembrarono saziarsi e, uno dopo l’altro, si sdraiarono gli uni accanto agli altri per oziare nel sottobosco. Solo le sentinelle rimasero in piedi, tra cui quella che avevano adocchiato. Proprio mentre Laura dissertava sui vocalizzi di quelle creature, si voltò di nuovo verso i ragazzi e fece qualche passo avanti, come se aspettasse qualcosa.

«Molto bene: ora si aspetta che gli offriate altro cibo» dichiarò Mei-Yin.

I ragazzi non persero tempo: si alzarono subito, raccolsero altre bacche dai cespugli e le adagiarono davanti al dinosauro. Il parasauro emise un verso di apprezzamento, si alzò e mangiò di nuovo le bacche. Soddisfatto, si unì al riposo della mandria e si raccolse su se stesso per dormire. Laura sorrise: era proprio come guardare delle vacche al pascolo, ma milioni di anni più antiche. Ancora una volta, Mei fu contenta del loro andamento:

«Bravi. Penso che, dalla prossima volta, potrete fargliele mangiare dalle vostre mani»

Jack non era affatto convinto:

«Uh! Ma è obbligatorio? E se mi morde con quel becco?»

Sam scoppiò a ridere:

«Ahahaha! Ma dai, fifone! Guardali: non farebbero del male a una mosca! Scommetto che se vado lì e ne sculaccio uno, se la fanno sotto»

«No!» lo fermò Mei.

Il rosso si immobilizzò di colpo, mentre si avvicinava a spron battuto alla mandria. Laura si sbatté un palmo in faccia: non riusciva a credere che Sam stesse per farlo davvero. Il pericolo scampato col dilofosauro non era bastato a insegnargli a non prendere l’isola alla leggera, a quanto pareva. Sam si strinse nelle spalle e alzò le mani, come un criminale colto sul fatto.

«Se li spaventi, perderete la loro fiducia e non si lasceranno più avvicinare» spiegò Mei-Yin.

Sam sopportò l’immancabile occhiataccia di Chloe e si appoggiò a un albero a braccia conserte, facendo finta di nulla. I ragazzi rimasero in attesa più a lungo di prima; questa volta, Laura preferì leggere l’enciclopedia di Darwin per conto proprio, mentre Chloe si occupava di dare gli ultimi risciacqui agli occhi di Jack. A un certo punto, i parasauri si alzarono in piedi. Si scambiarono un profondo urlo dal significato misterioso e si misero in viaggio. La sentinella blu e arancione sembrava titubante, però. Rimase indietro e si voltò verso i ragazzi per un istante; poi, però, grugnì e si ricongiunse alla mandria.

«Dobbiamo seguirli. Il vostro candidato ha appena dimostrato che si ricorderà di voi, dovete mantenere vivo il suo interesse» esortò Mei-Yin.

Dunque, senza perdersi d’animo, i ragazzi tornarono a farsi guidare dalla Regina delle Bestie attraverso il bosco. Seguirono le tracce della mandria verso est.

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I parasauri si spostarono fino a un piccolo corso d’acqua nel bosco. Era un torrente dagli argini profondi e ripidi. Gli erbivori scesero sul letto del torrente e iniziarono ad abbeverarsi e rinfrescarsi nell’acqua. Comunque, ciò che attirò di più l’attenzione di Laura fu un’altra cosa, stavolta: cristalli. Nei paraggi del torrente, c’erano svariate formazioni di grossi cristalli azzurri. Le più piccole arrivavano alle ginocchia, la più grande raggiungeva il garrese dei parasauri. Fu allora che Laura si ricordò dell’aneddoto di Helena: l’abbondanza di cristalli dai colori vivaci era stata la prima cosa che le era saltata all’occhio, dopo il naufragio.

«Che bellezza!» esclamò Chloe.

«Sì, sono senza dubbio belli da vedere» constatò Mei, disinteressata.

«Secondo voi quanto valgono?» chiese Sam.

«Vuoi che provi a fare una stima?» si offrì Jack.

Il rosso fece spallucce:

«Ma no, era solo per dire. Non è neanche detto che si riesca a portarsene un po’ a casa»

Jack sembrò deluso, ma fece spallucce e si avvicinò alla formazione di cristalli più vicina per esaminarla. Anche Laura si concesse qualche minuto per guardare da vicino quegli affascinanti minerali, diversi da qualunque altro avesse mai visto nei corsi di geologia all’università. Erano liscissimi e il loro colore celeste era così acceso che sembravano quasi emanare luce, in piccola parte. Ma le bastò toccarli per intuire che c’era qualcosa di speciale: il minerale era tiepido. Dapprima, credé che fosse dovuto al clima, ma poi si accorse di qualcos’altro: la temperatura del minerale si alzava e si abbassava in modo appena percettibile, a un ritmo regolare. Affascinata, Laura stava per farlo notare agli altri, quando Mei-Yin indicò il parasauro blu e arancio:

«Sembra che abbia ancora appetito. Coraggio, non deludetelo» li esortò.

Laura guardò verso il torrente e vide la sentinella, appostata sul bordo dell’argine, intenta a fissarli in silenzio. Ormai non badava più a sorvegliare i dintorni per allertare la mandria: aveva occhi solo per loro. Così, per la terza volta, i ragazzi raccolsero le bacche e lasciarono andare Laura per prima. Fece dei respiri profondi per stare calma, o non sarebbe riuscita a trattenere l’entusiasmo. Mentre teneva il suo mucchietto di bacche nelle mani a coppa, avanzò un passo alla volta verso il parasauro. Quando fu a pochi passi di distanza, tese le braccia e mise bene in mostra il cibo. Il parasauro annusò l’aria con fare circospetto, ma poi uggiolò e le si avvicinò senza esitare. Laura dové mettercela tutta per non fare i salti di gioia: un dinosauro in carne e ossa stava mangiando dalle sue mani!

«Stai andando benissimo» sussurrò Chloe, dietro di lei.

Era una sensazione strana: il becco del parasauro era liscio, ma premeva con forza contro i suoi palmi per raccogliere le bacche, quindi era come se le stesse massaggiando le mani con molto vigore. Quando le bacche finirono, Laura abbassò con calma le braccia; era faccia a faccia con l’erbivoro. Il parasauro si chinò per guardarla negli occhi e sbuffò un alito che odorava di foglie e frutta. A quel punto, la tentazione fu troppo forte. Laura approfittò della curiosità del parasauro per risollevare le braccia e portare le dita ai lati del suo collo. Sentì le scaglie ruvide sfregarle i polpastrelli e raschiarle i palmi. Un brivido si diffuse dalle sue mani al resto del corpo e le sembrò che il tempo si fosse fermato: stava accarezzando un dinosauro vivo. Se avesse avuto la possibilità di rimanere lì così per sempre, l’avrebbe fatto senza pensarci due volte. Il parasauro gradì le carezze ed emise un forte muggito felice. Il resto della mandria imitò il verso, come se fossero contenti a loro volta.

Il parasauro passò accanto a Laura e si avvicinò agli altri. Mangiò le bacche anche dalle loro mani. Jack si spaventò un po’ e fece dei passi indietro, ma il parasauro lo mise con le spalle a un albero e mangiò dalle sue mani tremanti, mentre il ragazzo distoglieva lo sguardo, tremante. Sam allargò le braccia:

«Ma di cosa hai paura? Ti conosce a malapena da qualche ora e ti vuole già più bene della tua stessa madre!»

Chloe gli tirò uno schiaffo sul collo. Sam si massaggiò e protestò:

«Eddai! È un dato di fatto!»

«Lasciamo stare, che è meglio» sbuffò Chloe.

Il parasauro scompigliò i capelli di Jack con uno sbuffo, dopodiché girò intorno ai ragazzi. Guardò prima la sua mandria, poi ciascuno di loro, infine si sdraiò sull’erba in mezzo al gruppo. Emise un basso suono gutturale. Laura lanciò uno sguardo interrogativo a Mei-Yin, che si spostò i capelli dietro le orecchie e annunciò:

«I miei complimenti: avete addomesticato la vostra prima bestia. Ora vi seguirà e vi ascolterà, dato che gli avete dato la certezza che siete una fonte di cibo sicura»

«Scroccone» commentò Sam.

Chloe si avvicinò alla loro nuova cavalcatura e iniziò a coccolarlo come se fosse un cane:

«Ma come sei bravo! Ti piacciamo, eh? Sei pronto a portarci in giro, sì? Ehi, Laura, guarda qua»

«Cosa?»

Chloe adagiò lo zaino a terra, aprì una tasca a tirò fuori una fotocamera Nikon con le loro iniziali scritte in pennarello bianco sul laccio da spalla: la stessa che portavano sempre nei loro viaggi. Laura non ci aveva nemmeno pensato, durante la preparazione a Sidney, ma era contentissima che Chloe se ne fosse ricordata. Si avvicinò all’amica, che le mostrò il rullino: le aveva scattato una foto mentre il parasauro mangiava le bacche. L’immagine raffigurava Laura con un’espressione estasiata e angelica, con gli occhi colmi di meraviglia.

«Che te ne pare?»

«La adoro»

Anche i due ragazzi accorsero ad ammirare la foto e la trovarono splendida a loro volta. Con grande sorpresa di Laura, quando si voltò, anche Mei-Yin stava sbirciando da dietro di loro. Quando fu scoperta, sbarrò gli occhi e distolse subito lo sguardo. Tossì per richiamare l’attenzione e disse:

«Ottimo, ora non ci resta che tornare all’accampamento. Potete già provare a montare in groppa, ma vi avverto che sarà scomodissimo. E di certo non gradirà trasportarvi tutti. Uno di voi vuole fare una prova?»

«Oh, sappiamo tutti chi mandare!» ammiccò Sam.

Laura era molto tentata ma, dopo una breve riflessione, decise che per quel giorno aveva avuto abbastanza soddisfazioni e ora voleva essere altruista:

«Vai tu, Jack» propose.

L’amico rise, convinto che fosse una battuta. Ma Laura scosse la testa, per fargli capire che diceva sul serio. A quel punto, Jack rimase a bocca aperta e biascicò sillabe senza senso. Quando riuscì a comporre una frase, balbettò:

«Io? Perché mai? Ci tenete così tanto a farmi del male?»

«Ma no! È perché te lo meriti! Che cavolo, prima un basilosauro ti spruzza la faccia, poi un dilofosauro ti acceca! Voglio che anche tu provi la mia stessa gioia, altrimenti mi sento in colpa»

«Oh! No, Laura, grazie mille, ma no. Quel coso è altissimo! E se perdo l’equilibrio e cado? E se gli sto antipatico e si ribella?»

Mentre le sciorinava una paranoia dietro l’altra, Sam fece un’espressione maliziosa, gli si avvicinò di soppiatto alle spalle e lo sollevò di peso, dopo averlo afferrato sotto le ascelle.

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«Scusa» mormorò Laura.

«Non fa niente. Ahi!» gemé Jack.

Chloe gli massaggiò la spalla un’ultima volta e, con un’espressione stizzita, sentenziò:

«Non gli devi nessuna scusa, Laura. Non sei tu il cretino che l’ha messo a forza sulla schiena del dinosauro»

Sam fece una risatina imbarazzata e si grattò il collo:

«Ops, si è spaventato e si è alzato di colpo! Chi l’avrebbe mai detto?»

«Te l’avrei detto io, se me ne avessi dato il tempo» commentò Mei-Yin.

«Ah, giusto. Ci mettiamo una pietra sopra? Suvvia, è solo un livido»

Jack fece un respiro profondo e alzò gli occhi al cielo:

«Basta che non mi faccia più niente di simile»

I ragazzi stavano tornando all’accampamento, seguiti dall’ormai obbediente parasauro. Laura era costernata: voleva migliorare l’esperienza arkiana a Jack, invece gli aveva solo procurato una contusione tramite Sam. Certo, Jack era troppo timido e buono per prendersela, ma questo la faceva sentire ancora più in colpa: non se lo meritava.

Per non tormentarsi, Laura decise di fare qualche riflessione tra sé e sé sulla doma delle bestie. Le sembrava proprio il caso di ragionarci molto nel dettaglio con Helena, quando l’avrebbe rivista. Dalla lettura dell’enciclopedia, non si sarebbe mai immaginata che indurre gli animali preistorici all’obbedienza fosse così rapido e facile. Quel parasauro aveva rinnegato la mandria a cui apparteneva nel giro di mezza giornata, solo perché gli avevano offerto manciate di bacche! Come poteva essere così facile piegare i suoi istinti? Aveva già un paio di ipotesi personali, ma prima voleva sentire il parere di Helena. I suoi pensieri furono interrotti da Mei-Yin, che li sorprese prendendo la parola all’improvviso:

«In ogni caso, mi avete stupita in positivo»

«Ah, sì?» sorrise Chloe.

«Sono sincera. Ero convinta che, a un certo punto, sarei dovuta intervenire o che li avreste spaventati. Invece avete fatto filare tutto liscio. Ora sono meno preoccupata, all’idea di insegnarvi a sopravvivere»

Sam si tolse gli occhiali da sole e le puntò il dito contro:

«Ehi, riconosco questi discorsi! Ci prendevi per dei bambini dell’asilo?»

La guerriera fece spallucce:

«Non sapevo come ve la sareste cavata. Quando non so qualcosa, presumo il peggio»

«Onesta»

«Lo dici solo per farci sentire più al sicuro, vero?» insinuò Jack.

«Ho anche quell’intenzione, ma non faccio mai complimenti se non li penso davvero»

Sam si rimise gli occhiali da sole e guardò in alto. Constatò soddisfatto:

«Ci abbiamo pure messo il giusto: ora è il tramonto. Riusciamo a tornare per cena! Siamo domatori provetti»

«Va bene, adesso non montatevi la testa: era solo una sentinella dei pascoli. Già se fosse stato uno di quegli erbivori imponenti con tre corna, la faccenda sarebbe stata ben diversa. Non vi avrei nemmeno lasciati tentare»

In quel momento, erano ormai tornati nel palmeto. L’atmosfera caraibica al tramonto era molto rilassante e, con un grosso erbivoro al seguito, Laura si sentiva molto meno minacciata dai dilofosauri e altri eventuali carnivori piccoli. I raggi arancioni del crepuscolo facevano scintillare in lontananza la punta di cristallo dell’obelisco verde e si riflettevano sui cristalli azzurri sparsi per il palmeto. Ora che li aveva osservati, se si guardava bene intorno, Laura si rendeva conto che erano pressoché dappertutto. Dovunque fossero, notava almeno una formazione cristallina, seminascosta dalla vegetazione. Le adorava: le davano la sensazione di trovarsi in un mondo fantastico. Se non altro, ogni volta che fosse stata assalita dalle preoccupazioni o travolta dalle emozioni, avrebbe potuto attenuare l’agitazione con la bellezza del posto. Mentre osservava il palmeto, però, si accorse di un dettaglio: da dietro le fronde delle palme, verso l’entroterra, si innalzava una spirale di fumo. C’era un fuoco nei paraggi. Laura si emozionò: segni di vita umana!

«Ehi, fermi! Guardate laggiù!» esclamò.

Il gruppo si fermò, tra confusione e sorpresa. Il parasauro si fermò con un istante di ritardo e mugolò, come in risposta al grido di Laura. La bionda indicò il fumo e tutti si voltarono a guardare.

«Sarà un nativo? Potrei finalmente sentire la loro lingua!» esclamò Chloe.

«Ehi, non correre! E se sono stronzi? Mei, sai dirci se sono pericolosi?»

Mei-Yin imbracciò il fucile e, senza distogliere lo sguardo dal fumo, rispose:

«Se sono degli indigeni, non ci dovrebbero attaccare senza motivo. Se sono naufraghi come noi, dipende da che persone sono. Nelle mie prime settimane sull’isola, incontrai tre assassini che mi scambiarono per una preda facile»

Jack si torceva le mani e sudava freddo. Deglutì e propose:

«E se facessimo finta di niente e continuassimo per la nostra strada? Così ci togliamo ogni dubbio ed evitiamo rischi inutili! Ci mancano solo i tagliagole»

Chloe rimuginò a braccia incrociate:

«Hai ragione, ma è anche vero che abbiamo intenzione di raggiungere un villaggio. Se sono degli Arkiani, potremmo chiedere un passaggio! Che ne pensi, Mei? Risparmieremmo tempo e fatica»

La Regina delle Bestie la guardò con un’espressione tentata, ma dubbiosa. Rifletté a occhi chiusi per alcuni minuti carichi di sospensione. Laura la fissò senza accorgersi di star trattenendo il respiro, finché Mei non prese la sua decisione:

«Andiamo a controllare. State tutti dietro di me, avvertitemi se notate qualunque movimento sospetto e fate meno rumore possibile. Capito?»

I ragazzi annuirono. Jack tremava come una foglia:

«Succederà qualcosa di terribile, me lo sento»

Con prudenza, si inoltrarono nel fogliame. I cespugli tra le palme erano molto fitti, nel tratto di strada che li separava da quel fuoco da campo. Laura non riusciva a scrutare oltre la vegetazione e questo la agitava molto. Doveva sforzarsi di tenere a bada il respiro, per non essere rumorosa. Il parasauro li seguiva un passo alla volta, guardingo. Laura provò ad accostarsi all’erbivoro e si rese conto di sentirsi più tranquilla così: la sua imponenza la faceva sentire difesa. A un certo punto, tuttavia, il parasauro si allertò e allungò il collo. Iniziò a osservare ogni singola chioma di palma che lo circondava, come se si aspettasse di trovare qualcosa lassù. Preoccupata, Laura toccò la spalla di Mei-Yin per attirare la sua attenzione e le indicò il parasauro.

«Avverte un predatore» sussurrò.

Jack strabuzzò gli occhi e sibilò a denti stretti:

«Lo sapevo!»

Con una smorfia sarcastica, Sam si tolse gli occhiali da sole e glieli porse:

«Vuoi questi? Così ti schermi gli occhi da un altro sputo»

«Dammeli!»

Chloe e Mei-Yin sbottarono all’unisono, pur sussurrando sempre:

«Volete fare silenzio? Ci farete scoprire!»

I due ragazzi ammutolirono, imbarazzati e interdetti. Sam fece finta di niente e si rimise gli occhiali da sole, mentre Jack rimase lì, col braccio teso per prenderseli, come un fesso. Avanzarono nel palmeto per un’altra decina di metri e i cespugli iniziarono a diradarsi. Laura iniziò a sentire il crepitio del fuoco e il fumo si vedeva sempre meglio. C’erano quasi. All’improvviso, il parasauro emise un muggito assordante che assordò tutti. Laura si coprì le orecchie e lo osservò andare nel panico: pestava le zampe per terra, come se volesse fuggire ma non osasse farlo, e non smetteva di emettere quel verso fortissimo.

«Calmati, dannazione!» esclamò Mei.

La Regina delle Bestie provò ad afferrare il muso del parasauro, ma la creatura stava troppo eretta per essere a portata di mano. Mentre muggiva, teneva lo sguardo fisso su una specifica palma, più incurvata e spessa delle altre: formava una sorta di S sdraiata. Laura si sforzò di guardare con attenzione e capì cos’aveva spaventato il parasauro: c’era un felino gigante, sdraiato sulla parte curva della palma. Aveva la pelliccia rossa, le orecchie piccole, la coda lunga e le zampe grosse. Se ne stava in panciolle sul tronco e li osservava con occhi vispi. Dopo l’ennesimo muggito del parasauro, piegò le orecchie all’indietro e scoprì le zanne; Laura vide dei buffi incisivi da roditore e non ebbe più dubbi sull’identità di quel mammifero: non era affatto un felino.

«Un tilacoleo!» esclamò.

All’improvviso, tutti gli altri si immobilizzarono e la fissarono, confusi.

«Eh?» chiese Sam.

Laura schioccò le dita e si lasciò trascinare dal flusso di coscienza:

«Ve ne ho parlato una volta: il leone marsupiale! Vi ricordate? Quel gattone australiano del Pliocene che saltava giù dagli alberi?»

A Chloe si illuminarono gli occhi:

«Oh, sì! Per la tua tesi triennale! Ricordo i disegni»

Sam le guardò entrambe con un’espressione sconvolta:

«Ehi! Vi pare il momento? C’è il fifone con la cresta che urla e una pantera rossa che ci guarda e voi due fate le nostalgiche?»

In quel momento, il leone marsupiale emise un ruggito profondo che sembrava più irritato che minaccioso. Mei-Yin puntò subito il fucile e il parasauro urlò ancora più forte, mentre faceva dei passi indietro. I ragazzi sussultarono dallo spavento e tutti si radunarono dietro di Sam, come se il suo fisico in forma fosse un riparo.

«Cos’è, ora sono l’eroe del giorno?» chiese lui, costernato.

Il leone marsupiale stava in equilibrio sulla pianta e si abbassò, pronto a balzare. Gli si vedevano tutti i muscoli che si contraevano sotto il pelo, mentre si preparava a scattare. Laura si sentì gelida di colpo: non sapeva cosa aspettarsi. Ma non ci fu nessun attacco: all’improvviso, udirono un fischio nella direzione del fumo. Il tilacoleo si rilassò subito; stirò le zampe, si appese a testa in giù al tronco della palma e si lasciò cadere. Non successe più nulla, tanto che persino il parasauro si placò, a poco a poco. Mei-Yin tirò un mezzo sospiro di sollievo:

«È addomesticato. Non ci attaccherà»

Laura si sentì sollevata da un carico di tensione così opprimente che le sembrò di starsi sciogliendo: si sentiva i muscoli flaccidi. Jack si limitava a fare risatine nervose, come un pazzo. Chloe fu subito pronta a confortarlo, mentre Sam si asciugava il sudore dalla fronte. Laura sentì una spintarella sulla schiena: il parasauro stava tastando il suo zaino col becco. Capì cosa cercava e, con un sorriso, aprì una cerniera e ne tirò fuori delle bacche che le erano avanzate dalla doma. Il parasauro mugolò e le mangiò.

«Gli spaventi ti fanno venire la fame nervosa? Ne so qualcosa» sorrise Laura.

«Muoviamoci, scopriamo con chi abbiamo a che fare» esortò Mei-Yin.

Ora sembrava molto più tranquilla, quindi Laura dedusse che la situazione l’avesse convinta che, chiunque fosse il padrone del tilacoleo, non aveva cattive intenzioni. A quel punto, ogni traccia di paura la abbandonò e seguì la guerriera a passo spedito. Finalmente, la vegetazione si aprì e giunsero in vista dell’accampamento: era composto da una piccola tenda di fibre vegetali, un fuoco da campo con uno spiedo sopra e una sella adagiata su una roccia. Il tilacoleo era sdraiato accanto al fuoco come una sfinge e, accanto a esso, una giovane ragazza lo stava coccolando.

Laura non poté fare a meno di osservare quello splendido esemplare, ora che era più vicino: era parecchio più grosso delle tracce fossili, persino quanto un bisonte. Le cinque dita e gli artigli delle zampe anteriori diventavano più grossi, dal dito più esterno a quello più interno. Non aveva vibrisse e teneva la bocca semichiusa, come se fosse in allerta. La pelliccia rossa era decorata da striature marrone scuro sul dorso e sulla coda. Come paleontolga, Laura non credeva ai suoi occhi: quelle dimensioni le sembravano surreali, per quella specie, eppure i suoi occhi non mentivano. Comunque, fu riportata alla realtà da una voce allegra e vivace: quella della giovane padrona del tilacoleo.

«Oh! Vluditamjv! Ecizipjdaf! Ad ebed ezideb? Ecec ib ezacavluc?»

Laura rimase imbambolata: quelle parole, che a malapena le sembravano tali, le avevano mandato il cervello in cortocircuito. Poco alla volta, riuscì a elaborare: non c’era ombra di dubbio che quella fosse un’Arkiana, visto che parlava una lingua incomprensibile. La osservò meglio: sembrava un po’ più giovane di lei e i suoi amici; aveva la pelle ocra scuro, lunghi e folti capelli neri che le scendevano ben oltre le spalle, i lineamenti delicati e un paio di vispi occhi grigi. Indossava semplici abiti di cuoio cucito e fasce di lino sugli avambracci. Aveva inoltre una collana bellissima: era fatta con tanti frammenti di cristallo, tutti di un colore diverso: dal rosso al verde, dall’arancione al viola. Mentre l’Arkiana li scrutava con occhi affascinati e allegri, continuava ad accarezzare il tilacoleo, che non li perdeva d’occhio pur godendosi i grattini. La prima a risponderle fu Mei-Yin, che le parlò come se fosse tutto normale:

«Non abbiamo cattive intenzioni, volevamo solo scoprire di chi era l’accampamento. Sei una Freccia Dorata, a quanto vedo»

I ragazzi si voltarono verso di lei, allibiti: perché tutta quella spontaneità? Era una situazione ai limiti dell’assurdo. L’indigena giocherellò con la sua collana e annuì, contenta. Con grande stupore di tutti, si mise a parlare un inglese perfetto, persino con l’accento cinese di Mei-Yin:

«Hai indovinato! Sei qui da molto tempo, vero? Chi sono loro quattro? Hanno lo sguardo di chi è appena arrivato, li hai portati in esplorazione?»

A quel punto, Chloe iniziò a ridere per l’entusiasmo e l’incredulità ed esclamò, estasiata:

«Fenomenale! Sai imitare le lingue all’istante, come diceva il libro! Ma come fai?!»

La giovane arkiana si portò le mani dietro la schiena, arrossì un po’ e rispose con la cadenza australiana:

«A essere sincera, nessuno l’ha mai capito: ci riusciamo e basta. È come se le parole mi apparissero nella testa appena mi metto a rispondere, non so se mi spiego»

Chloe si coprì la bocca con entrambe le mani, in preda all’euforia:

«Oddio, passi pure da un accento all’altro con tutta quella naturalezza! Ragazzi, me la prestate un minuto? Devo farlo!»

In realtà, stava guardando solo Laura. Alla bionda si scaldò il cuore: addomesticare un dinosauro era stato il suo momento speciale, ma conversare con un indigeno che sapeva qualsiasi lingua era quello di Chloe. Come poteva negarglielo? Dunque indicò la ragazza con un ampio gesto del braccio, per dire all’amica che era tutta sua. Intanto, l’Arkiana assisteva alla scena con uno sguardo divertito. Chloe fece dei respiri profondi per calmarsi, si sistemò i vestiti e fece un passo avanti. Il tilacoleo ringhiò e la sua padrona gli accarezzò la testa per farlo stare buono. Chloe rimuginò un secondo, per poi chiedere:

«Si je te parle en français, cette langue-ci, tu me comprends ?»

«Bien sûr. Tu as d’autres questions ?»

«Ja: jetzt spreche ich auf Deutsch. Verstehst du mich noch?»

«Genau!»

«¡Podría seguir así todo el día! ¡Eres increíble!»

«Gracias, tú también: hablas muchos idiomas para ser una forastera»

Chloe si fermò a quel punto. Guardò per terra con le mani sulle guance e ansimava con un sorriso folle: sembrava che stesse avendo una rivelazione divina. All’improvviso, fece una fragorosa risata e si buttò su Sam: lo abbracciò fortissimo, senza smettere un attimo di ridere. Il rosso si sollevò gli occhiali da sole, allibito, per poi ricambiare l’abbraccio con fare un po’ indeciso e ridacchiare:

«Ma che bello, hai un nuovo gioco preferito! Pare che sia molto stimolante…»

Chloe smise subito di ridere e lo fulminò con lo sguardo.

«…per l’intelletto, ovvio! Ehehe»

«Ah, volevo proprio vedere»

Chloe si staccò da Sam dopo avergli dato un paio di buffetti sulla guancia. Laura e Jack si scambiarono un’occhiata divertita: non avevano mai visto Chloe così euforica, era qualcosa di pazzesco. A quel punto, Mei-Yin si schiarì la voce e riprese il discorso:

«D’accordo, basta così. Ascoltami, ci troviamo qui per…»

Chloe la interruppe, contrariata:

«Calma! Non ci siamo nemmeno presentati!»

La guerriera la fissò confusa, per poi rendersi conto di quello che la ragazza le aveva detto. Un po’ infastidita, alzò le mani e lasciò fare. I ragazzi, dunque, dissero i loro nomi all’indigena. Lei rispose mettendo in mostra il polso sinistro: nella sua pelle era impiantato un innesto a forma di rombo, composto da un metallo grigio e lucido, con una luce pulsante azzurra.

«Piacere di conoscervi, stranieri! Mi chiamo Acceber Ydorb»

«Acceber? Ha un suono particolare» commentò Jack.

«Dici? Non me l’ha mai detto nessuno. Tu, invece, chi sei?»

A quella domanda, Mei-Yin si strinse con forza un braccio con una mano e rispose, agitata:

«Sono stata su quest’isola tre anni fa, sono fuggita e ho fatto ritorno ieri. Sono certa che hai sentito parlare di me, anche se non conosci il mio volto. Mi chiamo Mei-Yin»

Appena sentì quel nome, Acceber strabuzzò gli occhi e si coprì la bocca, allibita:

«La Regina delle Bestie?! Qui, davanti a me?! Per caso sto sognando? Sei davvero tornata?»

«Per guidare questi ragazzi e una buona amica, sì»

«Per la dea, appena al villaggio ti vedranno, tutta l’isola resterà a bocca aperta! Sei maestosa e affascinante come nelle storie delle Rocce Nere!»

Più Acceber esultava e la lodava, più Mei si innervosiva e distoglieva lo sguardo. Laura la guardò bene e notò che stringeva il pugno libero fino a farlo tremare. La sua espressione tradiva il fastidio e il disagio. La ragazza non se ne stupiva: aveva capito fin dal loro primo incontro che Mei-Yin non era il tipo di persona a cui piaceva che si parlasse di sé, o essere popolare. Infine, la Regina delle Bestie alzò una mano per interrompere l’Arkiana:

«Basta, per favore. Posso chiederti una cortesia?»

«Figurati! Qualunque cosa!»

«Bene, allora non spargere la voce del mio ritorno. Chi mi riconoscerà, mi riconoscerà. Non mi interessano le gesta che ho compiuto per la tua gente: stavo solo facendo il necessario per sopravvivere. È tutta acqua passata»

Acceber sembrò delusa: si fece subito mogia e chinò lo sguardo, a labbra serrate. Tuttavia, fece spallucce e tirò un sospiro rassegnato:

«Come desideri. Posso almeno farvi qualche domanda? A tutti voi?»

Chloe, allora, fece un sorrisetto complice e propose:

«Ho una bella idea: stavamo giusto pianificando di andare a un villaggio per sistemarci meglio. Che ne dici di darci una mano e portarci dove abiti? Intanto, potrai approfittarne per chiacchierare quanto vuoi. È uno scambio perfetto, non trovi?»

Acceber tornò subito entusiasta e sorridente:

«Non mi dire, stavo giusto per chiedervi se vi serviva un rifugio! Speravo tanto di potervi ospitare»

«Davvero? Come mai?» chiese Sam, sospettoso.

L’indigena si strinse nelle spalle e oscillò avanti e indietro, con un’aria un po’ imbarazzata:

«In realtà, cerco di avere a che fare il più possibile con ogni straniero: mi avete sempre appassionata. Siete tutti così diversi! Venite da tanti posti, parlate mille lingue, vi vestite strano, avete strumenti bizzarri… voglio sapere tutto del mondo esterno, ma non posso abbandonare l’isola, quindi farmelo raccontare è il massimo che posso fare. Spero di non sembrare invadente»

Chloe ridacchiò:

«Al contrario: a me stai simpaticissima. Non siete d’accordo, ragazzi?»

Laura e Jack annuirono. Sam si limitò ad alzare il pollice. Mei-Yin fece un cenno di assenso e mise via il fucile, per poi dichiarare:

«Dunque siamo tutti d’accordo. Ascolta, Acceber, per te sarebbe un problema condurci al tuo villaggio domani? Ormai è il tramonto e, in ogni caso, dobbiamo avvisare i nostri compagni»

Acceber guardò il sole che calava e annuì:

«Per me va benissimo! Non avrei comunque pensato di portarvi a casa mia di notte, è troppo pericoloso. Posso fare una richiesta?»

«Dipende. Di cosa hai bisogno?»

«Posso passare la notte con voi, dovunque siate accampati? Così possiamo parlare con comodo! Anche voi quattro siete curiosi di sapere di più sull’isola, vero? Di solito i nuovi arrivati sono pieni di domande»

Mei-Yin si sistemò i capelli e rispose in tono indifferente:

«Per me è uguale. Lascio la decisione a voi»

«Certo che puoi! Scherzi?» esclamò Chloe.

Acceber esultò e abbracciò il grosso muso del suo tilacoleo:

«Grazie mille! Ti rendi conto, Rexar? Siamo ospiti della Regina delle Bestie!»

Il leone marsupiale le leccò la faccia e si stirò. Tra le risate, Acceber avvisò il gruppo che avrebbe subito smontato il suo accampamento e avrebbe seguito le loro tracce, quindi se volevano potevano partire subito. Mei-Yin non se lo fece ripetere due volte ed esortò i ragazzi a seguirla. Prima che partissero, però, Jack si schiarì la voce e domandò:

«Scusa se mi permetto, ma per curiosità: che stavi facendo qui? Non mi sembra un posto così particolare»

Acceber fece un’espressione sognante, come se fosse grata per quella domanda. Fece cenno di aspettare, corse nella sua tenda e tornò con un grosso sacco. Lo depose davanti a loro, lo aprì e rivelò un carico di cianfrusaglie sporche e rovinate. I ragazzi diedero un’occhiata più da vicino e riconobbero il contenuto del sacco: scarpe, palline di plastica, resti sgualciti di magliette, giocattoli; di tutto.

«Dall’oceano arrivano tantissime reliquie straniere, soprattutto dopo le tempeste. Così, dopo i temporali, vado sulla costa e faccio scorta. A casa ho una collezione bellissima, non vedo l’ora di farvela vedere: così potrete spiegarmi cosa significano alcuni dei miei tesori!»

Laura trovava tutto ciò dolcissimo: quella ragazza era adorabile, anche se un po’ troppo travolgente per i suoi gusti. Le dava l’impressione di essere una di quelle ragazze che, quando si facevano prendere dalla foga, non le lasciavano mezzo secondo per prendere la parola. Non certo il tipo di persone di cui era più entusiasta, ma nulla che non le andasse giù. A prescindere, l’interesse appassionato che dimostrava per l’estero la faceva sorridere: a pensarci bene, dal punto di vista di un nativo dell’isola, era uguale ai paleontologi che cercavano di capire le specie estinte dai fossili. Potevano solo immaginare la realtà.

«E brava, la nostra collezionista! Pulire le spiagge è importante» ironizzò Sam.

«Allora ci vediamo dopo» concluse Acceber.

Mentre l’Arkiana iniziava a raccogliere tutte le sue cose, i ragazzi seguirono Mei verso l’obelisco verde, seguiti a ruota dal parasauro. Ormai il sole stava per scendere dietro l’oceano e le ombre delle palme si erano allungate. Mentre camminavano, Laura si accostò a Chloe e la stuzzicò:

«Ti aspetta una serata bella accesa, eh?»

«Oh, ci puoi scommettere! Non vedo proprio l’ora»

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Arrivarono all’accampamento giusto in tempo: il sole era appena tramontato e in cielo splendeva la luna piena, assieme alle prime stelle. Il fuoco da campo creava bizzarri giochi di luce sulla superficie dell’obelisco e i tre sopravvissuti rimasti lì vi erano seduti intorno. Helena e Rockwell stavano sorseggiando una bevanda fumante, che Laura scommise essere tè, e discutevano con aria molto coinvolta. Nerva, dal canto suo, alimentava il fuoco e li ascoltava in silenzio. Il parasauro lanciò un richiamo amichevole e attirò la loro attenzione. Helena batté le mani, si alzò e venne loro incontro:

«Ci siete riusciti! Bravissimi! Com’è stato?»

Laura scatenò tutta la sua gioia:

«Com’è stato? Non sono mai stata più contenta in vita mia! Ho accarezzato un dinosauro, Helena! Sai benissimo cosa intendo, vero?»

«Ovvio che sì! Tutti voi, qua la mano»

Tese la mano e i ragazzi, dopo essersi scambiati un’occhiata divertita, gliela strinsero uno alla volta. Poi Helena si avvicinò al parasauro e gli accarezzò il becco. La creatura lo gradì e fece buffi movimenti col collo per dimostrarlo. Helena gli girò intorno e ispezionò l’esemplare nei minimi dettagli, per poi accarezzarlo ancora sui fianchi e commentare:

«Un maschio in ottima forma. Come l’avete chiamato?»

«Oh! Non ci abbiamo pensato» ammise Laura.

Mei-Yin si strofinò il collo, contrariata:

«È proprio necessario?»

Helena sembrò stupirsi:

«Ma come, Mei? Mi meraviglio di te: dovresti essere la prima a sapere quanto è pratico. Oltre a fischi e segnali, avrà pur bisogno di una parola da riconoscere come richiamo, no?»

La guerriera esitò per qualche secondo, quindi si giustificò in tono incerto:

«Pensavo di spiegarlo ai ragazzi più tardi. Per oggi bastava la doma»

«Ho capito. Volete pensarci ora, ragazzi?»

Chloe liquidò la questione con un gesto e disse:

«Magari domani, ora dobbiamo dirvi una cosa: abbiamo un’ospite, una ragazza di qui»

Non appena lo sentì, Gaius si allarmò e si alzò di scatto:

«Come hai detto?! Un’Arkiana sta venendo qui?»

Fu allora che Laura, e tutti gli altri presenti con lei, si ricordarono all’improvviso dei trascorsi di Nerva coi nativi. La bionda si coprì la bocca con una mano, sconvolta: e adesso? Non avevano avvisato nessuna delle due parti, avrebbe potuto essere un disastro! Mei-Yin, tuttavia, non sembrava per nulla turbata:

«Perché ti agiti? Cerchi il perdono delle tribù. Ti abbiamo offerto un punto di partenza. Hai forse paura?»

Nerva la fissò, torvo:

«Certo che ne ho. Non è così che mi stavo preparando ad affrontare il popolo dell’isola: stavo pensando a un’apologia in pubblico o il giuramento di un riscatto simbolico. Ma confrontarmi con uno di loro, faccia a faccia? Non era una possibilità che contemplavo»

«Hai carisma, saprai adeguarti»

Chloe iniziò a camminare avanti e indietro, impegnata a rimuginare. Il parasauro seguiva i suoi movimenti col muso, incuriosito. Laura sapeva cosa stava facendo: il suo istinto di mediatrice linguistica era emerso ancora. Anche il resto del gruppo si mise a guardarla, tra confusione e curiosità. Alla fine, Chloe schioccò le dita, andò da Gaius e gli suggerì:

«Forse ho trovato un buon compromesso. Non te la renderà più facile, ma dovrebbe quantomeno smorzare l’impatto iniziale, darle più tempo per digerire il tutto. Nasconditi nella tenda, mentre noi le riveliamo piano piano che ci sei anche tu. Al momento giusto, ti fai vedere e fai quello che devi. Ci stai?»

Il centurione si grattò la barba, con uno sguardo ammirato:

«Hai davvero la diplomazia nel sangue, puella. Amen, avrò fede nella tua proposta»

Detto ciò, come gli era stato consigliato, si rintanò nella sua tenda e la chiuse pure. Rockwell fece una risatina sprezzante, scosse la testa e finì il suo tè. Chloe lo sfidò con un’occhiata sicura di sé e si sedé davanti al fuoco, a braccia conserte. Helena sembrava soddisfatta:

«Che fortuna: avete pure trovato un contatto arkiano. Immagino che le abbiate chiesto di portarci al suo villaggio?»

«Ci siamo già accordati» confermò Mei.

«Bene, molto bene. Ci siamo risparmiati molti passaggi intermedi» commentò Rockwell.

Allora si misero tutti in attesa di Acceber, seduti in cerchio intorno al fuoco. Il parasauro si sdraiò dietro Laura, che poteva sentire il suo profondo respiro. Le dava un senso di pace, in qualche modo. Non dovettero aspettare molto: poco dopo, si udirono dei passi e delle fusa feline. Dal fitto del palmeto apparve il tilacoleo Rexar, con Acceber in sella. La ragazza li salutò con la mano e balzò giù dalla sua bestia, che andò a sdraiarsi sulla palma più incurvata che riuscì a trovare. L’Arkiana li raggiunse e rimase in piedi, emozionata:

«Eccomi! Scusate per l’attesa»

«Figurati. Come ti chiami?» le chiese Helena.

«Acceber. Tu devi essere la buona amica della Regina delle Bestie! Piacere di conoscerti. Chi sei?»

Helena sembrò intenerita da quell’appellativo e fece un sorriso materno:

«Mi chiamo Helena. Sì, io e Mei ci siamo conosciute quando eravamo delle naufraghe su ARK, tre anni fa. Siamo partite quando la barriera si è aperta alla fine della guerra, ma ora siamo tornate per cercare una cosa molto importante»

«Capisco. Davvero, non riesco ancora a credere di essere così fortunata: la Regina delle Bestie in persona è tornata e la prima a scoprirlo sono io! Quante possibilità c’erano?»

Jack scherzò:

«Non faccio per vantarmi, perché non mi vanto mai, ma se proprio vuoi posso calcolarle per te»

Sam alzò gli occhi al cielo:

«Oh, che due palle, queste offerte di calcoli! Tanto non frega a nessuno! Non ti preoccupare, troveremo qualcosa da far fare anche a te, ahahaha!»

E gli diede una fortissima pacca sulla spalla. Laura poteva capire dallo sguardo che Jack ci era rimasto molto peggio di quanto non desse a vedere, tanto che non si massaggiava neanche il punto dolente. Rockwell assunse un portamento elegante, si alzò e si sistemò per bene i vestiti, gli occhiali e i capelli. Guardò Acceber con aspettativa e affermò:

«Be’, se sei così entusiasta di incontrare di persona una domatrice dal talento spiccato con le armi, non oso immaginare quanto sia irrefrenabile la tua meraviglia nel trovarti di fronte il sottoscritto! Ho ragione?»

Acceber, tuttavia, rimase in silenzio. Il suo sorriso si spense a poco a poco, rimpiazzato da una faccia perplessa, mentre squadrava il vecchio inglese da capo a piedi. Dopo un minuto, iniziò a giocherellare con ciocche dei suoi capelli e chiese:

«Dovrei riconoscerti? Sto provando a ricordare, ma non credo di averti mai visto»

Edmund iniziò a preoccuparsi:

«Com’è possibile? Viaggiavo spesso da un villaggio all’altro, li ho visitati tutti almeno una volta. Intrattenevo spesso negoziati economici tra i membri delle tribù e coi vostri capi. Be’, anche ammettendo che non ci siamo mai visti di persona, avrai pur sentito il mio nome: ero sulla bocca di tutti, per un motivo validissimo»

«E chi sei?»

Il chimico si inchinò e fece la sua solita presentazione:

«Sir Edmund Rockwell, stupefacente studioso, galante gentiluomo ed esploratore straordinario. Permettimi di aggiungere qualche riferimento, per sicurezza: a me si devono l’invenzione del Tonico Scervellatore, la Zuppa di Lazzaro, il Curry Fritto e altri lampi di genio per temprare il corpo umano»

A quel punto, Acceber sembrò unire i puntini, ma pareva indifferente:

«Ah, sì: sei l’uomo che inventava gli intrugli strani. In tutta onestà, non mi sono mai serviti. Piacere di conoscerti, comunque»

Rockwell rimase impietrito. Stava immobile come una statua, a parte un fremito delle labbra e delle dita. Ogni tanto, emetteva qualche monosillabo insensato, ma non gli venivano le parole. Iniziò a respirare in fretta e a sistemarsi gli occhiali di continuo. Alla fine, indispettito, voltò le spalle a tutti e annunciò:

«Se avete bisogno di me, sarò nella mia tenda»

Tutti lo osservarono rintanarsi più in fretta che poteva nella sua tenda, mentre sibilava qualcosa a denti stretti. Calò un silenzio imbarazzante, il che permise a Chloe di affrontare l’argomento scottante della serata:

«A proposito, Acceber, c’è un’altra persona che non hai ancora incontrato. Anche lui è ben noto come Mei, ma potresti non essere contenta di vederlo»

La ragazza sembrava tranquilla:

«Perché mai? Se si tratta di uno straniero, cerco sempre di iniziare nel modo migliore. Non credo che possa essere così terribile»

Chloe si torse le mani e, con un imbarazzo che Laura sapeva essere finto, proseguì:

«Diciamo che ha combinato un mucchio di casini sulla vostra isola. Ci sono andate di mezzo parecchie vite e si è scombussolato tutto, per colpa sua. Ma ti garantisco che se ne pente! Vuole solo farsi perdonare»

«Cosa? Stai parlando della guerra con la Nuova Legione?»

«Eh… vedi tu stessa»

Laura sbirciò intorno a sé e vide Helena guardare da un’altra parte, con gli occhi sbarrati e le labbra serrate, mentre si tamburellava le dita sulle ginocchia. Si stava preparando al peggio. Le venne l’impulso di fare qualcosa per dissociarsi a sua volta, quindi si rigirò sul tronco e iniziò ad accarezzare il collo del parasauro, che si stirò felice. Sentì un fruscio e, alla fine, non resisté comunque: si voltò appena in tempo per vedere Gaius mettere piede fuori dalla tenda, con un’espressione mortificata.

«Ave» salutò.

Acceber trasalì e si immobilizzò: aveva preso un vero e proprio spavento, colta alla sprovvista. Si alzò e fece dei passi indietro, poi cercò il suo tilacoleo con lo sguardo e si mosse nella sua direzione.

«Ti prego di concedermi almeno una possibilità di spiegarmi, prima di fuggire o attaccarmi»

La giovane Arkiana batté le palpebre qualche volta, si riscosse ed esclamò:

«Che ci fa lui qui?! Anzi, come fa a essere vivo?! Che mi sono persa? I Teschi Ridenti l’avevano buttato nella fossa della morte!»

Gaius le spiegò subito in tono pacato:

«Sopravvissi alla sfida punitiva. Tuttavia, il tuo popolo non voleva comunque vedermi più, perciò mi rifilarono alla Regina delle Bestie come suo prigioniero personale. Così mi ritrovai a salpare insieme a loro»

«Le cose sono molto cambiate da allora» si intromise Mei, serena.

Acceber era sconvolta, come se tutte le sue certezze fossero crollate in un istante. Comunque, grazie alla dichiarazione di Mei, iniziò a sembrare meno nervosa. Stava ancora a distanza e non osava perdere d’occhio Gaius, ma almeno ora non era più tesa come una corda di violino. Fece un respiro profondo, si leccò le labbra e chiese in tono sospettoso:

«Cos’hai da dire a tua discolpa? Come puoi dimostrare che non ci dichiarerai ancora guerra? C’ero anch’io, sai? Quando hai rapito il capo Omleilgug e ci hai costretti a piantare la tua bandiera al centro del villaggio. E dovrei credere a qualcuno che finge di accettare un accordo di pace, per poi ricattare una tribù intera?»

Tutti gli sguardi si puntarono sul centurione. Laura sperava con tutta se stessa che Gaius le desse una risposta convincente, perché aveva davvero paura che iniziasse uno scontro. Non era pronta a vedere un uomo fatto a brandelli con artigli e zanne. Nerva chinò lo sguardo e rifletté a lungo. Si avvicinò al fuoco e fissò le fiamme in silenzio. Alla fine, dopo essersi asciugato il sudore dal viso, iniziò la sua giustificazione:

«I metodi a cui ricorsi erano tanto barbarici e squallidi quanto ero convinto che lo fosse la tua gente. Ora lo so e me ne vergogno, ma all’epoca era tutto ciò che conoscevo. Era il modo di pensare e di agire della civiltà in cui sono nato e cresciuto, dell’imperatore di cui ero un fedele generale. Ero convinto di garantirvi un futuro radioso, conquistando l’isola e facendone una provincia dell’Urbe. Ti confiderò inoltre che, ogni volta che sfidavo una nuova tribù, cercavo una strategia che mi consentisse di uccidere meno persone possibile. Perché che senso avrebbe avuto la civilizzazione, se non fosse rimasto quasi nessuno da civilizzare? Le Frecce Dorate furono l’unica tribù che mi diede l’occasione di annetterla senza vittime. So che questo non rende meno gravi le mie colpe, ma serve comunque a spiegarti che volevo fare una cosa buona. Solo una volta che ho visto un mondo molto più evoluto del mio, la realtà in cui vive Helena, mi sono reso conto di quanto fosse barbarica la mia cultura. Ebbene, il senso di colpa mi tormenta da tre anni, e ormai fatico a sopportarlo. Non avrò pace finché non avrò rimediato ai miei sbagli. Non so come lo farò, non so se ci riuscirò, ma devo farlo. Per me stesso e per le vite che ho rovinato»

Laura era senza parole: non si sarebbe mai aspettata un discorso così emozionante. Si sentiva addirittura ispirata, come se anche lei fosse coinvolta in quella faccenda. Era ammirata, perché ora aveva appena avuto la prova lampante che Nerva era proprio un condottiero nato. Anzi, l’avrebbe visto benissimo in politica. Ma non era lei quella che doveva convincere: era il momento di scoprire se per Acceber era abbastanza. L’indigena era ancora molto scettica, glielo si leggeva in faccia. Tuttavia, Laura vedeva anche qualcos’altro, nel suo sguardo: forse era disposta a dargli almeno un pizzico di fiducia. Volse lo sguardo a Mei-Yin, in cerca di un parere. Anche Gaius la guardò, in cerca di sostegno. La Regina delle Bestie rimase impassibile per un attimo, ma alla fine si sbilanciò e annuì:

«Dice la verità. Avrebbe preferito evitare di tornare qui, ma l’ha fatto solo per cercare perdono. Lo conosco abbastanza da poter garantire per lui»

Allora la ragazza osò avvicinarsi di nuovo al falò. Continuava a tenere d’occhio Nerva, ma non era più arrabbiata: adesso era incredula, ma anche intrigata. Alla fine, pronunciò la sua sentenza:

«La guerra di tre anni fa fu un periodo tremendo, per me come per tutti. Non me la sento di perdonarti come se niente fosse, ma mi rendo conto che sei sincero, e lo rispetto. Dubito che le tribù saranno in grado di accettare le tue scuse, ma ti auguro comunque di rimediare. In quanto a me, non ti consegnerò ai capitribù né penserò male di te. Non aspettarti altro»

Nerva annuì:

«È più di quanto abbia il diritto di chiedere. Ti ringrazio»

L’Arkiana fece un cenno di assenso, senza più rivolgergli né la parola né lo sguardo. Gaius, emozionato, annunciò di volersi concedere un momento per riflettere e si allontanò. Ci fu silenzio per qualche minuto, poi Sam disse:

«È andata di lusso»

«Molto meglio di quanto sperassi» ammise Helena.

Acceber si sedé sul tronco, tra Chloe e Mei. Studiò tutti i presenti con attenzione e, a poco a poco, il suo volto si rilassò e iniziò a tornare allegro come prima. Congiunse le mani, fece un sorriso caloroso e affermò:

«Ascoltate, ho proprio bisogno di distrarmi con una bella chiacchierata per farmi passare il nervoso, quindi che ne dite di iniziare a conoscerci meglio? Di solito concedo ai miei nuovi amici stranieri qualche domanda sulla mia gente e la mia terra, prima di ricambiare con le mie»

Helena annuì, compiaciuta:

«Mi sembra un’ottima idea! Trovo che per i ragazzi sarebbe molto più interessante scoprire certe cose da un Arkiano, piuttosto che da noi veterani dell’isola. Avete qualche domanda per lei? Non siate timidi!»

Ricadde il silenzio. I ragazzi cominciarono a rimuginare tra loro. Laura aveva mille opzioni, non sapeva proprio da quale argomento iniziare. Il clima misto dell’isola? Il rapporto generale tra i nativi e le bestie preistoriche? Se sapevano del segreto menzionato da Darwin? Il gorilla gigante di cui aveva parlato Helena? Ogni argomento la stuzzicava così tanto che faticava a dare la precedenza a uno di essi. Poi, però, la sua attenzione fu attirata dal lieve bagliore azzurro emanato dal polso di Acceber: si ricordò dell’innesto di metallo che aveva nella carne. Se n’era scordata fra una cosa e l’altra, ma ora che lo osservava bene si rese conto che faceva impressione. A quanto pareva, Jack era altrettanto curioso di capirci meglio, perché alzò la mano e prese la parola:

«Non vorrei affatto sembrare invadente, ma cos’è quella cosa che hai nel polso? Più la guardo, più mi sembra inquietante. È cucita nella tua pelle?»

Acceber si guardò il polso, per poi metterlo bene in mostra ai ragazzi tendendo il braccio sinistro. Laura lo trovava proprio bizzarro: sembrava fare parte del suo corpo in modo del tutto naturale e un abominio anatomico allo stesso tempo. L’indigena rispose:

«Questo è il simbolo della nostra isola. È ciò che ci rende diversi da chiunque venga dall’oceano: noi figli dell’isola l’abbiamo dalla nascita, è una parte di noi fin dall’inizio. Mi sembra di capire che nessun altro popolo al mondo abbia una cosa simile»

«Scherzi? Sembra un esperimento fantascientifico» affermò Sam.

«Ma cosa fa, di preciso? Serve a qualcosa?» continuò Jack.

Acceber fece spallucce:

«In pratica, non fa niente. Ce l’abbiamo e basta. Però le leggende e le storie che ci raccontano da piccoli raccontano che Colei che Veglia infuse una parte di sé nei nostri antenati e in tutti i loro eredi, così che potesse sempre starci vicina e guidarci»

«Chi sarebbe questa Colei che Veglia? Un angelo custode?» chiese Sam.

«È la nostra dea, l’unico essere al di sopra delle leggi della natura. Secondo le storie, fu proprio lei a insegnare ai primi figli dell’isola come sopravvivere e allearsi con le creature, per far sì che se la cavassero senza di lei una volta che avesse lasciato il mondo terreno. I frammenti di lei nei nostri polsi sono il suo lascito»

Chloe era meravigliata:

«Incredibile: abbiamo scoperto la quarta religione monoteista! E ha una dea femmina! Prendi appunti, Abramo» scherzò, sardonica.

«C’è dell’altro che vorreste sapere?» domandò Acceber, divertita.

Laura fece la sua scelta e si schiarì la voce:

«Sì, ecco, avrei una domanda sull’isola in sé. So che ci sono molte regioni qui. Potresti descrivermele tutte in breve? Così mi farò un’idea più chiara mentre la esploriamo»

«Ma certo! Dunque, a sud di questo golfo pieno di palme ci sono le Secche Bianche, la casa degli Squali Dipinti. È una spendida barriera corallina piena di isolotti ed enormi scogli bianchi, un vero spettacolo. A nord, invece, si trovano le Piane Gioiose. Ci vive la mia tribù, le Frecce Dorate. È una vastissima prateria dal terreno fertile, che si perde nell’orizzonte. A est di qui ci sono il Tropico e la Conca Sanguigna»

Sam la interruppe, perplesso:

«Aspetta, un tropico? E perché, questo posto cos’è?»

Acceber fece spallucce:

«Be’, questo è solo un bosco di palme, non è così particolare. Il Tropico è un golfo circondato da una vegetazione rigogliosa e in cui i pesci nascono e crescono in massa: c’è spesso un grande raduno di bestie marine. Come dicevo, proprio lì accanto c’è la Conca Sanguigna, il rifugio delle Rocce Nere. È un cratere dalle pareti altissime in cui c’è una giungla fittissima e un lago. La chiamiamo così per i cristalli rosso sangue di cui è cosparsa. Il lago è collegato a una palude fittissima e con pochissima terra asciutta, molto pericolosa senza una canoa o creature acquatiche. In pratica, ci va solo chi viaggia di fretta o cerca risorse»

«Sembra bellissima! La giungla, non la palude schifosa. E poi?» la incalzò Laura.

«Oltre il Tropico, ci sono le due savane, quella alta e quella bassa, e più a sud il deserto. Ci vivono i Piedi Sabbiosi ed è uno dei posti più rischiosi dell’isola, soprattutto perché ognuna delle sue zone ha dei pericoli tutti suoi. Se ci andate, dovete sapere quello che fate»

«Che tipo di deserto è? Sabbioso? Roccioso?» chiese Laura.

«Entrambi: più roccioso a nord, con una distesa di dune lungo la costa meridionale. C’è anche una gola lunghissima che lo divide in due, e un grotto fresco e lussureggiante, riparato dalle rocce. Infine c’è un’oasi, che è dove vivono i Piedi Sabbiosi»

Sam ridacchiò:

«Per caso c’è anche la neve, da qualche parte? Fatto trenta…»

«Certo: la Landa Glaciale, a nord. È divisa dalle Piane Gioiose dalle montagne e dalla tundra in alta quota dove vivono le Aquile Rosse. Non ho molto da dire sulle terre gelide a nord dell’isola: sono sempre ghiacciate, ci sono montagne con grotte congelate ed è il territorio dei Lupi Bianchi»

«Capisco. Cos’altro?»

«A ovest della Landa Glaciale, si trova la Grande Foresta. È un bosco di sequoie gigantesche, così alte da essere un punto di riferimento per chiunque viaggi verso nord-ovest, e ci abitano gli Alberi Eterni. Molti stranieri si fanno ingannare dalla sua bellezza e credono che sia un posto accogliente, ma fidatevi: è l’esatto contrario. Vero, Rexar? Vero, che da dove vieni tu è pericolosissimo?»

Il tilacoleo sbadigliò sul suo albero, poi girò il muso dall’altra parte. Acceber alzò gli occhi al cielo, si schiarì la voce e proseguì:

«A est delle terre ghiacciate, invece, c’è il posto più spaventoso di tutti: l’Isola Arcana»

Helena sussultò e annuì, con un’espressione intimorita: sembrava che Acceber le avesse appena rievocato dei ricordi spiacevoli.

«Oh, quella montagna! A volte fatico ancora a credere che esista davvero»

«Lo pensano in tanti. È una montagna sempre coperta da una nebbia fittissima, che non va mai via. Tuona tutto il tempo e l’aria ti pizzica la pelle, come quando si prende la scossa, avete presente? E i cristalli del posto sono molto pericolosi: se toccano del metallo, piovono fulmini ovunque! Inoltre, ci sono bolle d’acqua fluttuanti con dei pesci dentro»

Sam scoppiò a ridere:

«Ahahaha! Vabbè, non siamo così creduloni: ci hai scambiati per turisti da spennare?»

«Cosa? Guarda che dico sul serio. Piuttosto, cos’è un turista?»

«È vero, ragazzi: ci sono stata» confermò Helena.

«Oddio! Vabbè, scusa. Mi tocca credere a tutto, ormai. Prosegui pure»

Acceber fece un sorriso entustiasta e si sfregò le mani, con fare soddisfatto:

«Adesso tocca al posto più bello di tutti in assoluto, ancora più incredibile dell’Isola Arcana: l’Apoteosi»

Laura ricordava quel nome altisonante: l’aveva detto Helena al suo appartamento, quando aveva raccontato l’esperienza sua e dei suoi compagni di naufragio. Quindi non poté fare a meno di anticipare Acceber:

«Oh! Le isole volanti, vero?»

«Sì! Vedo che le conoscete già. Peccato. Ma di certo non le avete ancora viste, quindi va bene lo stesso: ogni volta, mi piace godermi le facce incredule degli stranieri che le osservano per la prima volta. Sono un posto incantevole: enormi rocce coperte di vegetazione che fluttuano sopra il mare, con cristalli enormi, cascate, grotte e pure ponti di radici! È un posto speciale per noi Frecce Dorate. Ci vado ogni volta che posso, perché mi fa proprio stare bene»

«Ti crediamo sulla parola. Senti, tra noi ci siamo anche parlati di un vulcano. Cosa ci dici di quello?» chiese Chloe.

«Il Monte Brace è la dimora dei Teschi Ridenti. È un posto dalla doppia faccia: da un lato, è una rigogliosa foresta di alberi rossi, dove il terreno è ancora più fertile che nelle praterie della mia tribù. Dall’altro, è un inferno ribollente in cui scorrono fiumi di lava e ribollono sorgenti calde. A volte, quando soffia il vento, tutto il vulcano è avvolto nel vapore e nel fumo. Tutt’intorno, c’è la Foce Cremisi, una foresta di mangrovie rosse che ricopre quella parte della costa est dell’isola. Accanto al vulcano, c’è il Picco Ramato, un monte con un bosco marrone e una lunga cascata su più livelli»

«Caspita, più descrivi quest’isola, più mi immagino foto di paesaggi da far venire la bava alla bocca! Sarà meglio che non stia esagerando, che la pubblicità ingannevole per i turisti è brutta» ironizzò Chloe.

«Vi giuro che sto descrivendo tutto com’è. Infine, a sud-est dell’isola, c’è il territorio delle Mangrovie Dolenti: la Valle Vasta. Immaginate una muraglia di roccia, circondata da giungla e acquitrini, che contiene un labirinto di canali paludosi pieno di alberi giganti che si intrecciano fra loro e infestato da funghi. È il posto più malsano dell’isola, pieno di carcasse e malattie. Solo le Mangrovie Dolenti ci stanno bene, ma non le invidio»

Sam alzò le sopracciglia:

«Ah, però. C’è dell’altro o il giro immaginario finisce con questa nota allegrissima?»

Acceber schioccò le dita, con una punta di imbarazzo:

«Oh, be’, ho tralasciato giusto due cose. Più o meno al centro, l’isola è tagliata a metà da un fiume immenso, così ampio e lungo che lo chiamiamo “l’Arteria d’Acqua”. Non è chiaro quale sia la sua vera sorgente, fatto sta che si estende fino a entrambe le coste, da ovest a est. Infine, c’è un posticino che forse compete in bellezza con l’Apoteosi: il Bosco Semprinfiore»

«Hai ragione, è proprio incantevole. E rilassante, soprattutto» commentò Helena.

«Verissimo! Si trova a nord-est, tra le Piane Gioiose e la Foce Cremisi, e confina anche con le montagne a nord. È una zona rocciosa piena di ciliegi; come potete capire dal nome, quegli alberi sono in fiore tutto l’anno, non appassiscono mai. Sono speciali, tanto quanto le isole volanti e la montagna nebbiosa. Per concludere in bellezza, ci sono tanti laghetti pieni di lontre! Le adorano tutti»

Laura si era lasciata trascinare dalle descrizioni al punto che, a forza di sognare a occhi aperti, si sentiva quasi staccare da terra. Le capitava solo quando si lasciava andare alle più sfrenate congetture paleontologiche. Volle fare un complimento sincero:

«Sai che sei davvero una narratrice coi fiocchi?»

«Dici? Mi fa piacere. Però posso avere dell’acqua? Ho la gola secchissima»

«Tieni» disse Mei.

Tirò fuori una borraccia dallo zaino e gliela lanciò. Acceber la prese al volo con dei riflessi ammirevoli e si sciacquò la gola. Si asciugò le labbra e restituì la borraccia, mentre si schiariva la voce. Rimasero tutti in silenzio per un po’ e, in quel frangente, la curiosità di Laura si spostò sull’argomento centrale del loro viaggio:

«Ho una domanda. Helena ci ha raccontato che lei e i suoi compagni sono scappati dall’isola perché hanno usato dei manufatti per aprire la barriera. Li avevano lasciati intorno agli obelischi, quindi siamo venuti qui a quello verde per cercarli, ma non ci sono più. Per caso sai dove possiamo trovarli?»

Acceber spalancò gli occhi, interessata:

«Oh! So di cosa parli! Se ne parlò tanto, dopo la guerra di tre anni fa»

All’improvviso, Rockwell uscì dalla sua tenda, più vigile e attento che mai, e si affrettò ad avvicinarsi al gruppo. Si sistemò gli occhiali e domandò, in tono esigente:

«State discutendo dei manufatti, se ho ben capito. Ebbene?»

Helena gli lanciò un’occhiata delusa e lo apostrofò:

«Allora stavi ascoltando, eh? Ti dà così fastidio parlare solo del più e del meno, come fanno tutti?»

«Oh, taci! Siamo qui per questo. Dunque, signorina… Acceber, giusto?»

L’Arkiana lo fissò disorientata per un attimo, per poi annuire:

«Sì, giusto. Purtroppo, non so dove si trovano adesso. Tutto quello che so è che all’inizio i capitribù hanno voluto che venissero tolti dalle basi degli obelischi, così che l’isola fosse di nuovo protetta com’è sempre stata. Poi annunciarono che tutti avrebbero potuto farne quello che volevano, li hanno dati via e non ne ho più sentito parlare. Potrebbero essere ovunque, nelle mani di chiunque o di nessuno»

Rockwell non era contento di quella risposta:

«Questa non ci voleva. È una gran bella complicazione. Pazienza: in vita mia, ho condotto ricerche molto più ardue. Vedremo se tutta la mia esperienza in terre lontane ed esotiche è diventata vino o aceto. Ma prima di tutto, devo isolare i posti in cui potrebbero essere finiti, con queste premesse, quindi vi saluto ancora»

Quindi, senza neanche dare loro tempo di salutarlo, si voltò e si rinchiuse ancora nella sua tenda. Laura dubitava che ne sarebbe più uscito, per quella sera. Acceber rimase interdetta ancora un po’, quindi si concesse un commento:

«È davvero lui il vecchio straniero che risolveva i battibecchi fra tribù e inventava medicine miracolose?»

Mei-Yin fece una smorfia sarcastica:

«Un uomo che si crede più saggio di tutti e che ti odia non appena smetti di concordare con lui. Sì, è proprio lui. Spero che non crediate che inventava medicine perché gli importava della vostra salute»

«Capisco. Vabbè, mi basterà ignorarlo. Avete ancora qualcosa da chiedermi, o posso iniziare a fare io le domande?»

Chloe fece subito per parlare; Laura scommise che voleva un approfondimento sulle singole tribù. Purtroppo, non lo scoprì, perché Mei la fermò subito in tono autoritario:

«Fermi tutti: ormai è tardi, e dovrete rimanere sempre più riposati che potete, finché vi è concesso. Potrete farvi tutte le domande che volete in futuro, le occasioni non mancheranno. Ora, però, voglio che dormiate. Non ammetto proteste»

Laura alzò le mani: non osava certo mettere in discussione la Regina delle Bestie. A giudicare dagli sguardi dei suoi amici, anche loro non avevano intenzione di ribattere. E poi, Mei-Yin aveva ragione: Laura sentiva ancora in piccola parte gli strascichi della lunga traversata dell’oceano e stavano tirando tardissimo, anche se durante la chiacchierata non se n’era resa conto. Helena batté le mani, contenta:

«Che dire, è stata una serata niente male: fra tutti, siete riusciti ad appassionarmi come se anch’io fossi qui per la prima volta. Tanto di cappello anche a te, Acceber: è un piacere averti fra noi»

Acceber arrossì:

«Il piacere è tutto mio! Non solo siete simpatici, ma c’è pure la Regina delle Bestie! State certi che non vi mollo più! Scusate, sembra strano dirlo ad alta voce»

«Figurati. Buonanotte»

La ragazza li salutò e tornò dal suo tilacoleo, ancora spaparanzato sull’albero. Prese l’attrezzatura dalla sua sella e cominciò a rimontare il suo accampamento. Laura, allora, si batté le mani sulle ginocchia ed entrò nella sua tenda con Chloe. All’improvviso, si sentiva così stanca che non ebbe neanche voglia di svestirsi, prima di infilarsi nel sacco a pelo. Si coricò e, ancora prima che si accomodasse, le calarono le palpebre.

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Capitolo 9
*** Un segno del destino ***


Il riposo di Nerva era stato molto irrequieto, quella notte. Non gli capitava di faticare a dormire a tal punto da quando era stato sconfitto nella guerra per conquistare ARK. E prima ancora, le sue notti erano state così turbate solo in occasioni quali il suo naufragio e la sua prima campagna da centurione in Dacia. Sapeva che tormentarsi così non avrebbe giovato per nulla al suo fisico e avrebbe avuto ripercussioni sul viaggio, ma poteva farci ben poco. Se non altro, sembrava aver convinto la ragazza nativa a dargli una possibilità. Ma era comunque una magra consolazione, al pensiero che stavano per recarsi al suo villaggio: Gaius non era uno stolto, sapeva benissimo che le folle erano molto più inflessibili. Gli serviva un’occasione per dimostrare le sue intenzioni coi fatti ma, fino ad allora, decise che l’opzione migliore era mantenere un basso profilo e passare inosservato il più possibile.

Era il suo turno di guardia quando sorse il sole, anche se il minaccioso felino dell’indigena era stato una vedetta molto più vigile di lui e Mei-Yin messi insieme. Quando i raggi dell’aurora lambirono la punta dell’obelisco verde, Gaius decise di svegliare gli altri. Si bagnò la mano con la borraccia e si sciacquò gli occhi per togliere la sensazione di pesantezza sulle palpebre. Scosse la mano per asciugarla, si alzò dal tronco davanti al falò e chiamò gli altri nelle rispettive tende. Mentre tutti si preparavano, pensò di chiamare anche Acceber, ma scoprì che era già stata svegliata dalla sua bestia.

L’indigena li osservò dalla sua postazione finché non furono tutti pronti. Helena la invitò a unirsi a loro, mentre si radunavano intorno al falò per fare colazione, e Acceber non esitò a raggiungerli. Gaius prese posto accanto a Mei-Yin senza badarci più di tanto, e fu solo allora che si accorse che anche la nativa aveva intenzione di sedersi vicino alla Regina delle Bestie. Tuttavia, ora che aveva visto lui, sembrava poco convinta. Nerva sospirò, ma decise di venirle incontro: si alzò, le indicò il posto libero e si spostò vicino a Rockwell. Per un breve istante, Acceber gli rivolse un sorriso riconoscente, prima di distogliere lo sguardo da lui.

Mei gli lanciò un’occhiata stupita e Gaius si limitò a stringersi nelle spalle. Osservandola bene, Nerva capiva che Mei-Yin si sentiva a disagio, accanto a una giovine che la ammirava così tanto, ma d’altronde c’era poco da fare se le sue imprese l’avevano resa un’eroina agli occhi degli indigeni. La colazione iniziò e i quattro ragazzi distribuirono biscotti secchi fra tutto il gruppo. Nerva mangiò il suo in silenzio e non poté fare a meno di osservare Acceber: aveva con sé un sacchetto di bacche e frutta secca, ma osservava gli alimenti che avevano portato con curiosità e attenzione.

«Sono molto più scuri di quelli che si preparano qui» commentò.

«Quindi su ARK si fanno i biscotti?» chiese Laura.

«Sì! Ogni tribù ha delle ricette uniche, si capisce da quale villaggio vengono dagli ingredienti. Posso provare uno dei vostri?»

«Certo»

Laura gliene passò uno e Acceber se lo rigirò tra le dita come se stesse esaminando una pietra preziosa, poi lo sgranocchiò con un’espressione concentrata. Non parve gradirlo tanto:

«Il sapore non è un granché; senza offesa»

Sam fece spallucce:

«Che ci vuoi fare? Sono integrali che più integrali non si può, a momenti sono fatti coi semi interi. Devono durare il più possibile quando li porti in giro»

«Cos’altro avete con voi? Non mi capita spesso di assaggiare cibo straniero, è davvero un peccato»

Laura frugò nel suo zaino e le mostrò una barretta dorata. Aprì la confezione, la spezzò in due e gliene porse metà. Acceber sembrava molto perplessa dalla composizione della barretta. La annusò e ne assaggiò un pezzetto. Lo masticò a lungo, quindi domandò con aria sospettosa:

«Non riesco a capire di cos’è fatta: non riconosco nessuno di questi sapori. Sento solo che è dolciastra e lascia un retrogusto in gola»

«È cibo processato, gli ingredienti hanno fatto moltissimi passaggi prima di diventare una barretta. Comunque, se vuoi sapere gli ingredienti, sono scritti lì» disse Jack.

Laura, allora, le diede anche la confezione e le indicò la lista degli ingredienti. Acceber provò a leggerli ad alta voce, ma andò in confusione quasi subito. Restituì la confezione con aria avvilita e affermò:

«Ho paura che il cibo straniero non mi appassioni quanto i manufatti stranieri»

Chloe ridacchiò e la rassicurò:

«Quello che hai assaggiato non è niente! Al mondo ci sono sette continenti, centinaia di cucine e migliaia di ricette: là fuori c’è roba mille volte più gustosa di questi spuntini. Non li consideriamo neanche cibo vero e proprio, a dirla tutta: questo serve solo a dare energia»

«Così mi fai venire voglia di scoprirle tutte, però! Non farmi sognare troppo»

Helena guardò i suoi tre compagni con un sorriso divertito:

«Mi ricorda quasi voi tre, quando vi stavate abituando a vivere a Sidney. Ehi, Gaius, ti ricordi quando eri ansioso di trovare dei ceci al supermercato e hai fatto scorta per un mese?»

Nerva si sentì un po’ in imbarazzo e lasciò andare una risata nostalgica:

«I ciceres mi suscitano ricordi felici della mia famiglia, quando ero giovane. Ci avevo pensato spesso, mentre ero qui»

Dopo un po’, i ragazzi misero una serpentina di metallo sopra il fuoco e vi adagiarono una caffettiera. Edmund volle approfittane per fare del tè per sé. Mentre aspettavano, Sam chiese ad Acceber:

«Ehi, il caffè l’avete qui?»

Acceber, che fissava la caffettiera come una gazza ladra, annuì:

«Sì, lo coltiviamo per le bacche. Però è la prima volta che lo vedo usato così: lo bevete? Quella polvere marrone viene dai chicchi?»

«Sì. Perché, non l’avete ancora scoperto?»

L’Arkiana fece spallucce:

«Per noi i chicchi di caffè sono semi come tutti gli altri. Alcuni li piantiamo, altri li diamo da mangiare alle bestie. Posso assaggiarlo?»

«Sei sicura? Guarda che è amaro!»

Acceber scoppiò a ridere all’improvviso. Tutti la guardarono, confusi, tranne Helena e Rockwell, che ridacchiarono a loro volta, come se sapessero perché lo trovava divertente. Edmund si sistemò gli occhiali e affermò:

«Fidati, giovanotto: gli Arkiani non temono i sapori aspri, dato che bevono il succo di equiseto»

Il rosso sbarrò gli occhi e rabbrividì, mentre i suoi tre amici trattenevano a stento le risate. Sam esclamò:

«Caspita, hanno un bel coraggio! Una volta mio padre mi ha convinto a bere un frullato di equiseto prima di una maratona. A volte sento ancora quel saporaccio nei miei incubi! In pratica, quella maratona la corsi alla ricerca di un posto abbastanza nascosto per ributtarlo tutto fuori»

«Non si finisce mai di imparare» disse Rockwell.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Finita la colazione, smontarono l’accampamento e si lasciarono alle spalle l’obelisco verde. Gaius si prese un istante per ammirarne la struttura maestosa, prima di seguire gli altri nel palmeto come chiudifila. Il tilacoleo di Acceber li fiancheggiava a sinistra, mentre il parasauro che avevano domato i ragazzi il giorno prima stava alla loro destra e i ragazzi facevano a turno per salirgli in groppa. Acceber e loro quattro chiacchieravano tutto il tempo, ma Nerva non ascoltava i loro discorsi: era concentrato a tenere d’occhio i dintorni con Mei-Yin. A dire la verità, però, la sua mente era altrove: i suoi pensieri si alternavano tra i ricordi della sua campagna militare e riflessioni su come affrontare la questione nel presente.

Ripensò al suo primo giorno su ARK. Era quasi nudo, esausto, incrostato di salsedine e gli occhi gli bruciavano sia per l’acqua di mare sia per le lacrime versate per i suoi amici e compagni della sua decuria originale, reclamati dall’oceano. Aveva vagato lungo la spiaggia per ore, confuso dai grandi cristalli colorati sparsi ovunque, che facevano sembrare quel posto surreale. Ricordava lo spavento e la suggestione, quando aveva incontrato per la prima volta una creatura dell’isola: un enorme rettile corpulento dal collo lungo e la coda sottile, che si sorreggeva su quattro zampe che sembravano le colonne di un tempio. Tre anni dopo, era ancora convinto che quel colosso fosse una salvezza mandatagli da Giano, perché quando erano apparsi cinque rettili piumati con falci sulle zampe, Gaius si era salvato proprio rifugiandosi tra le zampe del bestione, che li aveva intimiditi agitando la coda.

Ricordava il suo sollievo nello scoprire che l’isola era abitata, e ricordava ancora di più il suo ribrezzo nel constatare che la gente del posto aveva costumi e uno stile di vita ancora più rozzo e arretrato dei popoli germanici. Tale era stata la compassione per loro, che ancora lottavano per sopravvivere invece di pensare a costruirsi un retaggio da tramandare con orgoglio ai posteri, che aveva subito avuto la certezza che Marte avesse impedito all’oceano di prendere anche la sua vita apposta perché elevasse l’isola a provincia romana. Da tre anni si chiedeva quale fosse il vero motivo per cui era così determinato a conquistare ARK. Era davvero interessato ad annetterla all’impero? O cercava con disperazione di non rendere vano il sacrificio del suo intero esercito, mandato a esplorare i confini del mondo? Non sapeva mai rispondersi e l’angoscia di non conoscersi fino in fondo era seconda solo al pentimento per le vite che aveva rovinato, convincendo centinaia di Arkiani a mettersi contro i loro compatrioti per seguirlo in una missione che si era assegnato da solo, per un motivo di cui non era neppure sicuro.

D’un tratto, Gaius si rese conto che, mentre era perso nei suoi pensieri, il tempo era volato. Stavano marciando verso nord da ore e, dopo che ebbero attraversato un tratto acquitrinoso e guadato un delta, la vegetazione si diradò. Era mezzogiorno e ora, davanti a loro, si stagliava una sconfinata prateria punteggiata da betulle e cristalli rosa, con poche colline lontane l’una dall’altra. Il vento che soffiava dall’oceano faceva ondeggiare l’erba e creava effetti quasi ipnotici. Nerva chiuse gli occhi e si godé la brezza fresca: unita al profumo di mare che trasportava, gli dava una magnifica sensazione di pace. Quelle erano le Piane Gioiose, il territorio delle Frecce Dorate.

«Dovremmo arrivare al villaggio nel tardo pomeriggio» pronosticò Acceber.

Si addentrarono nella prateria in direzione nord-est, allontanandosi dalla costa. Nerva e Mei-Yin tenevano i fucili da caccia in braccio: erano in uno spazio aperto, i predatori avrebbero potuto vederli da molto lontano. I carnivori non mancarono durante il viaggio, infatti, ma per fortuna erano sempre distanti e disinteressati a loro. Gaius si divertiva a guardare Laura entusiasmarsi di tutte le creature che avvistava e descriverle ai suoi amici; aveva un’allegria quasi contagiosa. Quel posto era sempre stato uno dei suoi punti preferiti dell’isola: la pianura e le colline temperate gli ricordavano l’Emilia, dov’era cresciuto con la sua famiglia, mentre l’altra regione che gradiva, il deserto, lo faceva pensare alla Numidia, il suo vero luogo di nascita. Tuttavia, le Piane Gioiose gli ricordavano anche qualcos’altro e non seppe fare a meno di parlarne con Mei:

«Questa prateria è il posto in cui venni a sapere di te» affermò.

Mei-Yin rispose con fare distratto, mentre teneva d’occhio dei rettili volanti in cielo:

«Anch’io ebbi a che fare con la Nuova Legione per la prima volta qui»

«È un problema se ne parlo?»

«Non mi fa né caldo né freddo»

«Fu la prima occasione in cui le mie nuove truppe doverono ritirarsi. Fino ad allora, ero convinto di avere il patrocinio di Marte; non sapevo spiegarmi a cosa si dovesse quel primo cedimento. Dapprima, pensai che Minerva cospirasse contro di me»

Mei-Yin alzò gli occhi al cielo e sbuffò:

«Possibile che sia sempre così superstizioso? Senti, è semplicissimo: le Aquile Rosse mi avevano assoldata per scortare una loro carovana di terra, i tuoi soldati l’attaccarono e la difesi. Li sorpresi manovrando le mie bestie nel modo giusto e li misi in fuga. Non c’entra nessuna divinità»

Nerva alzò un sopracciglio:

«Allora perché difendesti gli Squali Dipinti dall’assedio sulla costa? I rapporti dei miei legionari parlavano di una guerriera determinata e accanita. Pensavo che ci tenessi davvero. È così? O anche allora stavi solo facendo un lavoro?»

Per un attimo, la freddezza di Mei scomparve:

«A dire la verità, hai ragione: non mi offrirono una ricompensa, un loro pescatore venne a casa mia da solo e mi supplicò di aiutarli. Fu una mia scelta. Pensavo che, se aveste continuato a espandervi, prima o poi sareste arrivati da me e non era detto che avrei saputo respingervi»

«Capisco. A proposito, mi rendo conto solo adesso che non ti ho ancora chiesto perdono per quella volta»

«L’incendio all’accampamento degli Squali Dipinti?»

«Sì. Scusa se gettai fango sulla tua reputazione. Cercavo una strategia per convincerli ad allontanarti da loro e quel sabotaggio funzionò»

Mei-Yin sospirò:

«A essere sincera, quella notte ero molto più furiosa con loro che con la Nuova Legione. Nonostante quello che avevo fatto per loro, credevano davvero che avessi bruciato io le loro tende! E dire che stavo iniziando a illudermi che mi apprezzassero davvero»

Gaius serrò le labbra, poi affermò:

«Mio padre mi diceva che la guerra è sia la madre sia la figlia dell’odio. Aveva proprio ragione»

«Sì»

Tra i due cadde il silenzio e Gaius decise di fermare la conversazione lì, anche perché si accorse che gli altri li stavano ascoltando. Si voltarono tutti appena li notò, ma Acceber lo guardò un po’ più a lungo; Nerva si sentì giudicato da quello sguardo, ma anche compatito. Dentro di sé, avvertiva che c’era empatia, in quegli occhi argentati, sotto la diffidenza e il risentimento. Il suo cuore iniziò a battere in fretta e, dopo qualche secondo, il centurione non fu più in grado di reggere quello sguardo. Iniziò a guardarsi intorno, con la scusa di sorvegliare i dintorni.

La loro marcia proseguì tra mandrie di erbivori e i laghetti a cui le bestie si abbeverarono. A mezzogiorno, si accamparono in riva a uno di quegli specchi d’acqua per pranzare e Gaius badò bene di evitare di incrociare gli occhi con Acceber per tutto il tempo. Si concentrò invece sui ragazzi che ammiravano le creature: lì potevano stare tranquilli, perché predatori e prede si ignoravano a vicenda per bere. Nerva ammazzò il tempo provando ad ascoltare bene tutti i nomi bizzarri che Laura elencava ai suoi amici, aiutato dalle lezioni di greco che aveva preso da ragazzo, ma era proprio difficile starle dietro. Capiva benissimo perché Mei-Yin continuava a usare i suoi soprannomi arbitrari. Inoltre, alcuni nomi gli sembravano strani anche con le sue conoscenze. Che avesse ragione il suo maestro? Quando studiava greco, girava voce che chi non lo ripassava per troppo tempo se lo dimenticava per sempre.

In ogni caso, fu un passatempo efficace, tanto che quando ripartirono si rese conto di non aver fatto nemmeno caso a cos’aveva mangiato. Man mano che il sole iniziava a calare e le ombre iniziavano ad allungarsi, superarono altre colline e branchi di dinosauri, fino a metà pomeriggio. Superata un’ultima collina, giunsero in vista del villaggio delle Frecce Dorate, la tribù degli agricoltori. Nerva fu subito pervaso dal ricordo di quando lo annesse, quindi si sforzò di distrarsi godendosi il panorama: in mezzo alla prateria, si trovava un grande lago turchese, costeggiato sulla riva settentrionale da case di mattoni e tegole grigi. Al di là della palizzata, la pianura era occupata dai campi della tribù, un variopinto mosaico vegetale che spiccava in mezzo al verde coi colori vivaci degli ortaggi e frutti maturi. Un luccichio in riva al lago attirò l’attenzione di Nerva: la serra, l’orgoglio delle Frecce Dorate e il fiore all’occhiello del loro villaggio, dove coltivavano le piante inadatte alle Piane Gioiose. Infine, osservando con attenzione, notò i tre monumenti iconici del villaggio: tre enormi teschi, ciascuno al centro di una piazza.

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Appena Chloe vide il villaggio, fu subito ansiosa di arrivarci: non vedeva l’ora di osservare da vicino una comunità di Arkiani, ascoltare conversazioni nella loro lingua “magica”, osservare le loro attività quotidiane e provare a dedurre i livelli più superficiali della loro cultura dal loro modo di fare. L’architettura delle case e la presenza della serra la sorprendevano: era un insediamento più avanzato di quello che si immaginava su un’isola di dinosauri. D’altronde, il fatto che quel villaggio si basava sull’agricoltura parlava chiaro: le Frecce Dorate dovevano essere una tribù adattabile che progrediva in relativa fretta. Mentre Acceber li scortava giù per la collina, Jack le chiese con curiosità:

«Cosa sono quei teschi giganti che avete nelle piazze? Sono veri o finti?»

Acceber ebbe un lieve sobbalzo, come se fosse scandalizzata:

«Finti? Ma quando mai! Quelli sono i crani dei tre distruttori che il nostro primo capo uccise con una sola freccia, cinquecento anni fa»

Laura reclinò la testa, intrigata:

«Distruttori?»

«È il nome arkiano dei giganotosauri» spiegò Helena.

Chloe fu subito affascinata da quell’accenno:

«E così avete un mito della fondazione? Dimmi, ne hanno uno anche le altre tribù?»

Acceber si accigliò:

«Quale mito? È una storia vera»

«Come può essere vera? Hai detto che il vostro primo capo uccise quei tre bestioni con una sola freccia. È ovvio che è un’iperbole»

«È verissimo! Ne colpì uno all’occhio, il distruttore si infuriò e si rivoltò contro i suoi due simili, così si uccisero a vicenda. La loro furia si ritorce spesso contro di loro»

«Confermo» si intromise Mei-Yin.

Chloe sbarrò gli occhi:

«Caspita! Ritiro tutto, allora: avete un aneddoto della fondazione»

Raggiunsero la riva meridionale del lago e iniziarono a costeggiarla. Chloe notò una struttura interessante, da lontano: all’estremità orientale del lago, era stato eretto una sorta di grande altare. Non ne era certa, ma dall’aspetto le sembrava proprio una struttura per le offerte sacrificali, o comunque adibita a funzioni religiose. Non le sarebbe dispiaciuto approfondire più tardi, quando avrebbe avuto più informazioni di base. Una volta raggiunta la palizzata protettiva del villaggio, fatta di pali di legno difesi da una fila di spuntoni, la seguirono fino ai cancelli d’ingresso, che trovarono aperti. Acceber si voltò, indicò il villaggio con un ampio gesto del braccio ed esclamò:

«Benvenuti dalle Frecce Dorate! O bentornati»

Sia Chloe sia Laura rimasero a bocca aperta e rimasero meravigliate, ma per motivi diversi: Chloe dava per scontato che la sua amica fosse estasiata dalle innumerevoli creature che videro dal primo istante, ma lei era concentrata sugli abitanti e sul modo in cui interagivano tra loro e gli animali. Chiese subito a Sam di darle il cambio sulla schiena del parasauro, così che potesse guardare meglio il posto mentre percorrevano le strade. Sam la accontentò subito con una risata divertita e Chloe iniziò a guardare a destra e a manca dall’alto, attenta ai minimi dettagli.

«Devo dire che mi mancava la vitalità di questo villaggio» ammise Rockwell.

Mentre seguivano il viale d’accesso, la prima cosa che Chloe osservò fu un uomo che raschiava una pelle di mammifero legata a un telaio per concia. Ai suoi piedi c’erano due compsognati che saltellavano e pigolavano con insistenza, a cui dava da mangiare i pezzetti e i residui che si staccavano dalla pelle stirata. Subito dopo, vide un falegname che levigava grossi pezzi di legno per fabbricare parti di tavoli, sedie e altri mobili. Tre dodo ruspavano fra i trucioli che coprivano il terreno davanti alla sua bottega, come galline. Poi notò una donna anziana e quattro bambini che selezionavano e accumulavano frutta e verdura: scartavano quella rovinata e mettevano quella buona in cesti di vimini. La vecchia alzò lo sguardo, sembrò riconoscere Acceber, la salutò e la ringraziò. Acceber ricambiò il saluto e, quando passarono oltre, disse:

«Intreccio cesti di vimini, lei è una dei miei clienti regolari»

Fu allora che raggiunsero la prima delle piazze adornate da un teschio di teropode. Vi si trovava un mercato ed era un tripudio di colori e aromi e c’era un gran fracasso. Ma la prima cosa che notò Chloe non furono le bancarelle e gli articoli che vendevano, bensì il viavai di creature: le strade del villaggio erano occupate da animali preistorici di ogni forma e dimensione che vagavano libere, senza sella né guinzaglio, e la gente passava accanto a esse come se nulla fosse. Era pazzesco: Chloe non avrebbe mai potuto immaginare una simile convivenza tra umani e animali, soprattutto di quelle specie.

«Occhio, facciamo passare» avvertì Acceber.

Davanti a loro, un triceratopo si stava facendo largo tra la folla, che si disperdeva per fargli spazio. A Chloe venne quasi da ridere: sembrava il passaggio di un enorme tram vivente in una zona pedonale. Quando passò accanto a loro, il parasauro gli rivolse un muggito, a cui il triceratopo rispose sbuffando e scuotendo la testa. Lo urtò per sbaglio con le spine sul collare osseo e il parasauro barcollò: per poco, Chloe non perse l’equilibrio.

«Ma che fai? Mi vuoi ammazzare?» scherzò.

Laura seguì per un po’ il triceratopo, estasiata:

«Pazzesco, un triceratopo con un collare che sembra quello di uno stiracosauro! Una convergenza evolutiva fighissima!»

In quel momento, il parasauro fece una bravata: si voltò verso le bancarelle, annusò una cassetta di verze e iniziò a masticare le foglie. Chloe, Sam e Jack sobbalzarono e iniziarono a sgridarlo e dargli pacche sul collo per farlo smettere, ma il parasauro emetteva solo muggiti di protesta, mentre continuava a sgranocchiare foglie di cavolo. Dalla tenda davanti alle casse di ortaggi uscì di corsa un uomo magro col pizzetto, che andò subito nel panico:

«Ah! I itic ibebac! Ded ë ebibvivef, vjzaz i idlutig!»

Chloe si sentì arrossire e si affrettò a scusarsi:

«Chiedo scusa! L’abbiamo addomesticato ieri, siamo ancora alle prime armi con questo bestione!»

«Allora sbrigatevi a educarlo! Mollalo!»

Il mercante afferrò in fretta e furia la seconda verza che il parasauro aveva preso di mira, quindi Mei intervenne e gli afferrò il becco, per poi tirarlo e costringerlo a passare oltre. Acceber si affrettò a frugare in un sacchetto appeso alla sella del tilacoleo e passò due sassi bianchi e lisci al mercante, anche se non sembrò consolarlo molto.

«E dire che ha brucato quando ci siamo fermati, prima!» esclamò Jack.

Helena fece spallucce:

«Che ci vuoi fare? Ha visto un pasto facile e ne ha approfittato! Andiamo avanti, prima che ci riprovi»

Acceber si affrettò a guidarli alla prima uscita dalla piazza ed entrarono in un viale più stretto, vicino alla sponda del lago. Mentre la seguivano tra case, passanti e animali che gironzolavano, Chloe ripensò a quello che aveva appena visto e chiese ad Acceber:

«Hai dato quei sassi bianchi all’ortolano come se fossero soldi. Quindi avete una valuta?»

«Sì: sono i ciottoli. Li usiamo da molte generazioni, ma ogni tanto sento raccontare di tempi andati in cui si faceva il baratto»

Jack le rivolse un’occhiata perplessa:

«Scusa, ma i ciottoli non sono un po’ troppo accessibili, come moneta? Insomma, se ogni ciottolo ha lo stesso valore, basta raccoglierne il più possibile dalla riva di un fiume per sistemarsi, quindi come fate a bilanciare il sistema?»

«Non c’è nessun problema: c’è solo un tipo di ciottolo a cui diamo valore, cioè quelli bianchi e lisci. Ogni villaggio ha un artigiano che leviga e dipinge i sassi normali per farli diventare ciottoli con cui si comprano le cose. Per averli, bisogna guadagnarseli, e non è semplice. In fin dei conti, è spesso più comodo arrangiarsi da soli e comprare quello che proprio è fuori portata»

Jack annuì, interessato:

«Sì, ha senso. Grazie della spiegazione»

Mentre ascoltava, Chloe si godeva tutte quelle succose informazioni col sorriso; conosceva studenti di sociologia a Sidney che avrebbero sbavato, all’idea di poter conoscere una civiltà del genere. Passarono accanto alla serra e Chloe la osservò quanto possibile: le colture all’interno erano irrigate da un semplice, ma efficace sistema di tubature di pietra che prelevavano l’acqua dal lago, entravano nella serra dal soffitto e distribuivano l’acqua a cascata. Non ebbe tempo di guardare tutte le coltivazioni, ma le sembrò di riconoscere pomodori, fagioli, canne da zucchero e altri ortaggi che non distinse. Anche da lì vide l’altare all’altra sponda e si ricordò di interpellare Acceber. Tuttavia, quando si voltò, la vide impegnata a parlare con Laura di creature domate. Fece spallucce: avrebbe aspettato.

Si addentrarono tra i vicoli e fu allora che al gruppo si avvicinò uno sconosciuto, con un’espressione meravigliata:

«Tomef! Vev timètluf az?»

Si parò davanti a Gaius, che si irrigidì come un tronco e iniziò a sudare freddo. Rockwell fece un sospiro irritato e si strofinò gli occhi sollevando gli occhiali, alla vista di quella scena. Helena e i ragazzi trattennero il fiato. Nerva deglutì e mormorò:

«Non capisco, cosa vuoi da me?»

«Riconosco questa voce! Sei il centurione Nerva!»

Prima che Gaius potesse dire qualcosa, l’Arkiano si rivolse agli altri passanti e gridò a squarciagola:

«Gaius Marcellus Nerva è tornato! Lo sapevo! Sapevo che non ci aveva abbandonati! La nostra rivalsa è vicina! Oh, centurione, sono così felice di rivederti!»

Tutti i presenti si voltarono verso di loro, sbigottiti. Gaius impallidì e fece un goffo tentativo di coprirsi il volto mettendosi una mano accanto alla testa e voltandosi verso il parasauro, ma ormai il danno era fatto: i passanti si avvicinarono a poco a poco, riuscirono a vederlo bene in faccia e sobbalzarono. Si sollevò un forte brusio: molti erano increduli, alcuni spaventati. Intanto, lo sconosciuto aveva iniziato a ridere come un forsennato. Alla fine, Gaius dové rassegnarsi e fronteggiò la folla, quindi il mormorio diventò molto più intenso.

«Sì, dopo tre anni di esilio, sono tornato. Ma…»

«Non ti ricordi di me, centurione?»

«Perdonami, ma no»

«Com’è possibile? Ti ho seguito dal primo giorno! Stavi predicando civiltà e progresso proprio in questo villaggio! Ho risposto alla tua chiamata alle armi e mi hai insegnato a combattere con disciplina, come gli altri! Ti devo tutto!»

«Cosa intendi?»

«Prima che arrivassi, non ero nessuno: non ero bravo a cacciare, a coltivare, a costruire… non avevo speranze di trovarmi un posto. Ma grazie a te, ho trovato la mia vocazione! Poi abbiamo perso e sono tornato alla mia vita miserabile. Fino a oggi! Sono pronto a obbedire, mio comandante!»

Dopo quel discorso, gli sguardi dei presenti iniziarono a farsi sospettosi e sprezzanti. Sempre più curiosi si aggiungevano alla folla e il fermento aumentava. Chloe si accorse che Acceber iniziava a preoccuparsi e stava abbracciata a Rexar, come in cerca di protezione. Gaius squadrava gli indigeni con apprensione e loro ricambiavano il suo sguardo con un astio crescente. Addirittura, un uomo corse in casa e ne uscì armato di forcone di legno. Chloe iniziò a considerare l’opzione di intervenire:

“Se non facciamo qualcosa, qui inizia un pogrom!” pensò.

«Dunque? Chi attacchiamo per primi? No, aspetta: prima dobbiamo radunarci! Ci penso io!» incalzò lo sconosciuto.

Fu allora che Gaius, dopo un respiro profondo, fece un’espressione seria e determinata e affermò:

«Non sono qui per questo»

Il suo lealista reclinò il capo:

«In che senso, scusa?»

«Non ci sarà più conflitto per colpa mia, su quest’isola. Sono venuto per aiutare i miei compagni di viaggio e per farmi perdonare»

Lo sconosciuto andò nel panico:

«Cosa? Ma è assurdo! Non puoi abbandonarci così! Abbiamo bisogno di te! La Nuova Legione era il futuro di…»

«Basta!» tuonò Nerva.

Lo sconosciuto si spaventò e indietreggiò, mentre gli spettatori ammutolirono. Gaius guardò ciascuno di loro, fece un passo avanti e dichiarò:

«Il soldato romano che ricordate è morto tre anni fa, sconfitto dalla Regina delle Bestie. Non sono più quell’uomo e non avrò pace finché non avrò rimediato ai suoi sbagli. Avete la mia parola. Spargete la voce, se volete. Ora, con permesso…»

Gaius andò in testa al gruppo e li esortò a proseguire con un gesto nervoso. Mentre gli abitanti del villaggio si scambiavano mormorii stupiti e fulminavano l’ex legionario con lo sguardo, Mei incalzò tutti iniziando a seguire Nerva. A quel punto, la situazione si sbloccò e il gruppo ripartì. Sam si fece scricchiolare le nocche e commentò:

«A volte la popolarità è una brutta bestia, vero?»

«Presumo di sì» sospirò Gaius.

Rockwell si schiarì la voce:

«Complimenti per la prontezza, in uno scenario così inaspettato. Vedo che non hai perso il tuo carisma»

Nerva si limitò a ringraziarlo con un cenno. Chloe era sollevata che la questione si fosse risolta per il meglio, quindi tornò a osservare il villaggio. Si accorse di un dettaglio che, col senno di poi, avrebbe dovuto notare molto prima: la maggior parte degli abitanti aveva una collana di cristalli uguale a quella di Acceber. Altri avevano monili diversi, ma Chloe vedeva comunque dei tratti in comune. Era una sorta di distintivo. Non perse l’occasione di chiederlo alla loro guida:

«Hanno quasi tutti la tua stessa collana. È un simbolo?»

Acceber giocherellò un po’ coi cristalli della sua collana, quindi annuì con un sorriso:

«Proprio così: è il marchio di noi Frecce Dorate. Portiamo un cristallo da ogni angolo dell’isola su di noi, per ricordare che in origine eravamo nomadi, al contrario delle altre tribù. Gli abitanti degli altri villaggi hanno i loro marchi: gli Alberi Eterni indossano ghirlande di sequoia, i Lupi Bianchi si coprono con pellicce di lupo e così via. Spero di potervi mostrare tutti i villaggi, se ne avrò l’occasione!»

«Non vedo l’ora» ammise Chloe.

Dopo un altro paio di svolte, Acceber si fermò e annunciò che erano arrivati: la sua abitazione era una casa a due piani con una piccola torre sulla sinistra che faceva da soffitta. Nel giardino c’erano un orto, come nella maggior parte delle altre case, con un pesco dietro. Acceber batté le mani e sorrise:

«Eccoci qua! Purtroppo non c’è spazio per tutti dentro, ma fuori sì: potete accamparvi nel giardino!»

«Ma il tuo tilacoleo e il parasauro?» chiese Laura.

«Non preoccupatevi per loro: lasciateli liberi, come le altre bestie. Poi, quando vi serviranno, vi basterà chiamarli e torneranno da voi»

«Bene, ci sistemiamo subito» incalzò Rockwell.

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Un Arkiano sulla quarantina e coperto di polvere da capo a piedi stava attraversando i campi delle Frecce Dorate in sella al suo fidato assaltatore, Onracoel. Aveva gli occhi marroni, i capelli corti e la barba folta, che iniziavano a ingrigirsi. Appesi per il collo a due ganci ai lati della sella, trasportava due peli terrosi che aveva abbattuto su richiesta dei contadini, dato che quelle bestiacce scavatrici si erano rintanate sotto i campi e li stavano riempiendo di buche per tendere i loro agguati. Drof Ydorb era partito convinto di finire in mattinata, invece il secondo pelo terroso gli era sfuggito dopo che Onracoel aveva spezzato il collo al primo e aveva dovuto cercarlo e stanarlo fino al pomeriggio inoltrato. Onracoel aveva ancora il muso incrostato di terra e impolverato.

«A casa ti darò una bella strofinata» affermò.

Diede due pacche sul collo del suo assaltatore, che grugnì soddisfatto. Rientrati al villaggio, si recarono subito al raduno dei contadini presso la serra e mostrarono loro i peli terrosi morti, quindi furono ringraziati e ricompensati con una scorta di orzo, come pattuito. Consegnò un pelo terroso ai contadini e tenne l’altro per scuoiarlo e rivenderne la pelle, quindi si diresse verso casa. Di sicuro, sua figlia era ormai tornata dal suo viaggio lungo la costa per raccogliere detriti portati dalla tempesta dei giorni prima. Lungo il cammino, notò alcuni uomini che allontanavano con insulti e minacce il reduce della guerra della Nuova Legione che bazzicava vicino al lago. Ormai non lo sorprendeva più: stessa storia ogni giorno. O forse no? Gli sembrava più squinternato del solito, quel giorno. Fece spallucce e spronò Onracoel coi talloni.

“Deve aver bevuto” pensò.

Quando fu vicino a casa sua, Onracoel si fermò di colpo, alzò il muso e iniziò ad annusare l’aria, all’erta. Sembrava che percepisse qualcosa che non andava.

«Cosa c’è, amico? Fiuti qualcosa?»

Ci volle un po’ per farsi obbedire, ma alla fine convinse l’assaltatore a muoversi. Tuttavia, Onracoel proseguiva a passo lento e cauto e scuoteva il muso. Una volta che fu davanti a casa sua, Drof capì perché: rimase a bocca aperta, nel trovare un intero bivacco di stranieri nel suo giardino. Per un attimo, fu in preda alla confusione, ma quando vide sua figlia uscire dalla porta di casa col sorriso in volto, unì i puntini e sospirò: Acceber aveva trovato ancora degli stranieri mentre era via e li aveva invitati da loro. Di solito, però, non erano così tanti e non si accampavano accanto all’orto. Drof non aveva detto mai di no, quando Acceber faceva amicizia coi naufraghi per soddisfare la sua passione del mondo esterno, ma a tutto c’era un limite. Forse era giunto il momento di parlargliene. Acceber lo vide e lo salutò:

«Bentornato, padre!»

Poi si rivolse agli otto ospiti e parlò loro in una lingua straniera:

«Ragazzi, lui è Drof, mio padre»

Drof scese dalla schiena di Onracoel e gli accarezzò il lato della testa per tranquillizzarlo. L’assaltatore, allora, si calmò subito e smise di scuotere la testa. Una degli stranieri, una ragazza dalla pelle chiara e bionda poco più grande di Acceber, si fiondò davanti a Onracoel con un’espressione incantata:

«Un carnotauro! Ed è ancora più imponente di come dovrebbe esserlo! Come si chiama?»

Drof ci mise un attimo a risponderle, colto di sorpresa da quell’entusiasmo.

«Ehm… lui è Onracoel»

Tre coetanei della ragazza raggiunsero la loro amica e la ascoltarono col sorriso, mentre lei girava intorno a Onracoel in preda alla meraviglia e osservava varie parti del suo corpo. L’assaltatore la lasciò fare per un paio di secondi, ma poi iniziò a infastidirsi e le rivolse uno sbuffo irritato, agitando le corna. La bionda si spaventò e sobbalzò all’indietro:

«Oh! Scusa, hai ragione: sono stata invadente»

Drof non poté fare a meno di prenderla in simpatia: sembrava una giovane di buon cuore, o almeno quella era la prima impressione che gli aveva dato. Ridacchiò e le disse:

«Basta che gli permetta di tenerti d’occhio, altrimenti si innervosisce»

«Mi sembra giusto. Ehi, ragazzi, guardate come tiene gli arti anteriori! Del tutto paralleli e aderenti al fianco, come se fossero atrofici, forse per essere più aerodinamico. Scusami, Drof, per caso può allargare le braccine?»

«Sì, ma non lo fa quasi mai»

«Bene, non sono atrofiche»

Drof si schiarì la voce e diede una rapida occhiata agli altri:

«Chi siete voi? È la prima volta che vedo un gruppo di naufraghi come il vostro»

«Oh, scusa! Non ci siamo ancora presentati. Mi chiamo Laura, loro sono Jack, Sam e Chloe»

Drof si rivolse ai loro compagni di viaggio più adulti:

«E voi quattro?»

A dire il vero, gli era parso subito di riconoscere il vecchio con la barba bianca: tre anni prima, gli capitava di vederlo in giro per i villaggi, a somministrare intrugli. Infatti, quando rivelò di essere Edmund Rockwell, la sua impressione si rivelò corretta.

«Mi ricordo di te: una volta ho assaggiato il tuo Curry Fritto, se non sbaglio»

Rockwell fece un sorriso soddisfatto:

«Oh, finalmente qualcuno che si ricorda dei miei servizi in campo farmaceutico! Lieto di conoscerti, Drof Ydorb. Perdona la mia indiscrezione, ma ti è mai capitato di farmi visita alla mia clinica? Purtroppo, non posso ricordare i volti di tutti i miei pazienti»

«Non mi sono fatto curare da te, ma la guaritrice degli Alberi Eterni dice che una volta era la tua assistente. Ormai è un’amica»

Rockwell sembrò molto intrigato da quella menzione:

«Oh, dunque Ellebasi ha cambiato sede! Sai dirmi come se la cava?»

«È molto brava, se intendi questo»

Edmund sorrise a occhi chiusi:

«Bene, molto bene. Devo proprio ricordarmi di cercarla, se dovessimo visitare gli Alberi Eterni»

La donna dai capelli castani gli sorrise:

«È bello vedere che ci tieni ancora a lei»

Rockwell si sistemò la giacchetta:

«Certo che ci tengo! Le ho affidato l’arduo incarico di continuare i miei studi floreali e medici in mia assenza! Sono curioso di vedere i progressi che ha fatto in tre anni»

Intanto, Laura continuava a esaminare Onracoel e Drof si voltò un attimo, quando la sentì esclamare:

«Oh! E questa qui, appesa alla sella, è una purlovia! Be’, una purlovia stecchita »

«Che roba è? Sembra un incrocio tra un ratto e un diavolo della Tasmania» disse Sam.

«È un terocefalo, una di quelle creature vissute prima dei dinosauri che in passato venivano considerate metà rettili e metà mammiferi, anche se non ha tanto senso. Devo dire, però, che la somiglianza coi mammiferi c’è tutta qui, ed è fortissima!»

«Altroché, non ci vedo niente di rettile»

A quel punto, Drof volse lo sguardo alla donna castana, che si presentò come Helena Walker. Poi toccò alla donna bassa con gli occhi a mandorla e Drof rimase sconcertato, quando scoprì chi era:

«La Regina delle Bestie in persona? Questa è una vera sorpresa. Mi auguro che mia figlia non ti abbia assillata troppo. Ti è saltata addosso, vero?»

Mei-Yin si fece sfuggire una risatina, ma la soffocò subito schiarendosi la voce:

«No, non mi ha dato fastidio. È molto espansiva, non c’è che dire»

Drof guardò Acceber con le labbra serrate e lei fece spallucce, come per dirgli che non poteva farci niente. Infine toccò all’ultimo straniero ma, prima che gli dicesse il suo nome, Acceber gli si accostò e gli prese il braccio per attirare la sua attenzione:

«Padre, per favore, non pensare male: questo è Nerva»

Dapprima, Drof fu troppo spaesato per rendersi davvero conto di cos’aveva appena sentito. Ma elaborò in fretta ed ebbe un tuffo al cuore; guardò meglio il volto dello straniero e, di colpo, ricordò di averla già vista. Gli riemerse il ricordo di quando la Nuova Legione era entrata a stendardo alzato nel villaggio, col capotribù Omleilgug in ostaggio, e il suo comandante aveva piantato di persona la bandiera del suo esercito nella piazza principale. Era proprio lui; l’unica differenza era il suo modo di porsi: più modesto e riservato di come lo ricordava.

«Ave» salutò Nerva.

Drof lo fissò a bocca aperta per qualche secondo, prima di scusarsi e trascinare sua figlia con sé fino al retro della casa. Una volta appartatisi, le sussurrò in preda al panico:

«Sei impazzita?! Ci assedieranno la casa! Hai idea di cos’ha fatto quell’uomo in giro per l’isola?»

Acceber annuì tenendo le braccia alzate davanti a sé, per fargli cenno di calmarsi:

«Lo so, padre, lo so! È stata la prima cosa che gli ho rinfacciato, quando ho scoperto che c’era anche lui!»

«Allora perché l’hai portato nel nostro villaggio, nel nostro giardino di casa, come se niente fosse? Sono ancora tutti arrabbiati perché non è morto, ci considereranno dei traditori se lo accogliamo!»

«Padre, ascoltami...»

«Devo ricordarti delle conseguenze che ci sono state anche dopo che se n’è andato? Prima fra tutte, il macello dell’anno scorso? E guarda caso, l’hanno fatto saltare fuori proprio due stranieri che abbiamo accolto noi due!»

«Ma Nerva non c’entra niente con quello! Comunque, dice di essere pentito e che farà di tutto per farsi perdonare; so che la sua parola sembra poco, ma ti giuro che sembra crederci davvero: glielo si legge in faccia. Dagli solo una possibilità, come gliel’ho data io!»

Drof aveva un bruttissimo presentimento. Poteva già vedere una calca furiosa che circondava la loro casa e chiedeva a gran voce che buttassero sia Nerva sia loro nella fossa della morte dei Teschi Ridenti. D’altra parte, però, sapeva anche che sua figlia aveva sempre avuto una sensibilità che a lui mancava. La stessa che, in passato, rendeva sua madre una donna così saggia. Era molto combattuto ma, riflettendoci bene, era anche consapevole che sollevare subito un polverone denunciando il ritorno di Nerva avrebbe potuto fare danni ancora peggiori di lasciarlo stare. Alla fine, cercò di scaricare tutta la sua tensione con un sospiro lungo e profondo e sentenziò:

«D’accordo, diamogli questa possibilità. Ma appena dice o fa qualcosa di sospetto, lo consegniamo subito ai capitribù. Intesi?»

«Certo»

Dunque tornarono davanti alla casa e trovarono gli ospiti che facevano gli ultimi ritocchi al loro accampamento. Acceber batté le mani per richiamare la loro attenzione e annunciò:

«Buone notizie: mio padre vi accetta tutti, finché non ci saranno guai»

«Ora vi lascio: devo pulire Onracoel» disse Drof.

Non era ancora pronto ad avere a che fare col conquistatore dell’isola, quindi per ora preferiva lasciarli tutti a sua figlia.

CrystalISLAND 1 by RobertoTurati

A Laura dispiacque che il carnotauro se ne andasse di già: aveva molte altre domande per Drof. Comunque, mentre aiutava i suoi amici a riempire le tende con le loro cose, Acceber chiese loro:

«C’è qualcosa che posso fare per voi? Qualcosa che volete fare?»

Le rispose subito Rockwell:

«Sì: dobbiamo fare ciò per cui siamo venuti e investigare sulla sorte dei manufatti. Suggerisco di interrogare il capotribù, in base a quel che ci hai raccontato»

«Concordo» annuì Helena.

Acceber si mosse i capelli e rispose:

«Oh, va bene. Spero che il capo Omleilgug sia in casa in questo momento, perché altrimenti non saprei dove potreste trovarlo»

«Allora non indugiamo oltre e facciamogli visita seduta stante» incalzò Edmund.

«Capisco. Venite tutti o...»

«Io resto qui» la interruppe Mei-Yin.

«Anch'io» aggiunse Nerva.

Anche Sam e Jack decisero di rimanere. Laura diede per scontato che al primo non interessasse e l’altro fosse troppo timoroso per un incontro del genere. In effetti, anche lei era un po’ nervosa, all’idea di bussare alla porta del capo di una comunità simile, ma non voleva tirarsi indietro: voleva essere partecipe della ricerca del mistero di ARK. Dunque, dopo che Acceber ebbe tolto la sella a Rexar e l’ebbe lasciato libero, Laura e Chloe si avviarono con Helena e Rockwell e la seguì attraverso i vicoli laterali del villaggio, che erano meno affollati e occupati da creature più piccole, come listrosauri e dodo. Questi ultimi le davano una gran voglia di fermarsi e accarezzarli tutti: era emozionante guardare da vicino una delle specie estinte che gli umani avevano incontrato, nel corso della storia. Si comportavano a tutti gli effetti come galline da cortile: becchettavano erba in giro, scavavano per cercare cibo e scappavano appena ci si avvicinava troppo. Le si scaldò il cuore quando vide una femmina che covava.

«Come sono dolci!» esclamò.

Helena ridacchiò:

«Pensa che i dodo di ARK depongono moltissime uova per volta e molto spesso, per sopravvivere con la legge dei grandi numeri. Ti sorprenderesti di quante uova ci sono sotto quella femmina!»

«Ricordo di averlo letto nel libro. La selezione naturale ha fatto cose pazzesche qui»

Mentre camminavano, Laura notò un cucciolo di parasauro che beveva da un secchio d’acqua e si ricordò di una cosa:

«Ehi, Helena! Ho pensato a un nome per il nostro parasauro!»

Helena le sorrise con le mani dietro la schiena:

«Ah, sì? Come l’hai battezzato?»

«Dunque, se fosse stata una femmina, l’avrei chiamata Ducky, come quella della Valle Incantata...»

«Oooooh, li guardavi anche tu? Ora mi sento meno vecchia»

«Per forza! Comunque, è un maschio, quindi ecco l’alternativa: Paracelso»

«Para... che?»

Chloe scoppiò a ridere, mentre Rockwell si voltò con gli occhi strabuzzati e la fissò, meravigliato:

«Come, prego? Mi stupisci, signorina! Non mi aspettavo una cultura di tale livello da un giovane del tuo secolo. Dimmi, come fai a conoscere un personaggio storico svizzero del XVI secolo?»

Laura fece spallucce:

«Quando andavo all’università, un mio compagno di corso dalla Svizzera italiana faceva sempre questa battuta quando parlavamo dei parasauri, tutti rimanevano perplessi e gli chiedevano cosa significava, e quindi ha insegnato questo Paracelso a tutti noi. Mi è rimasto impresso»

Rockwell rise, ancora esterrefatto:

«Pensa un po’ che coincidenze»

Seguirono Acceber fino alla piazza più grande del villaggio, a sua volta decorata con un teschio di giganotosauro posta su un piedistallo al centro. Uno scintillio sotto il sole abbagliò Laura e, strizzando gli occhi, la ragazza notò un particolare: in quel cranio, sopra l’orbita, era conficcata una freccia d’oro. Le scappò un sorriso: intuì che doveva rifarsi alla freccia con cui il fondatore della tribù aveva fatto infuriare quei tre giganotosauri, nel racconto citato prima da Acceber. In fondo alla piazza, si trovava quella che Acceber affermò essere la casa del capotribù. Era più alta e ampia delle altre abitazioni, aveva due piani e il tetto triangolare. Sul muro frontale, era inchiodato uno stendardo verde, blu e rosso, col simbolo di una freccia gialla ricamato al centro. Accanto alla casa, c’era un anchilosauro che pisolava, circondato da pezzetti di verdura masticata. Laura avrebbe voluto studiarlo da vicino, ma ora c’erano altre priorità.

«Ora vediamo se Omleilgug è in casa» disse Acceber.

«Posso farti una domanda?» chiese Chloe.

«Certo»

«Che tipo di figura politica sono i capi delle vostre tribù? Quanta autorità esercitano sugli abitanti dei villaggi? Come li eleggete? C’è un limite di età o di sesso per essere capotribù?»

Laura ridacchiò sotto i baffi e pensò:

“Da una domanda a mille è un attimo, con Chloe”

Acceber giocherellò coi suoi capelli, mentre rispondeva:

«Il capo decide lo stile di vita che la sua tribù condurrà finché è sotto la sua guida»

«Quindi la tua tribù si concentra sull’agricoltura così tanto perché l’ha detto il vostro capo?»

«Sì, e i suoi predecessori prima di lui. È lo stesso motivo per cui i Lupi Bianchi sono cacciatori, i Teschi Ridenti vivono di lotte e così via. Ogni capo viene scelto dal suo predecessore: quando capisce che non potrà fare il capo ancora per molto, sceglie un membro della tribù che giudica degno e inizia a prepararlo. Poi, quando lo crede pronto, chiede alla tribù se è d’accordo con la sua scelta. Se il villaggio approva, il successore prende il suo posto»

«Interessante: una sorta di democrazia diretta con una sfumatura di autocrazia»

«Non so di che parli, ma immagino di sì. Comunque, non ho mai sentito parlare di un capo che cambia la tradizione. In tutta onestà, non riesco nemmeno a immaginarlo»

Rockwell fece spallucce:

«Certo che no. Come potresti? Le comunità si sentono troppo al sicuro con le loro tradizioni per sperimentare. È sempre stato così e sempre così sarà, ecco perché il progresso umano va così a rilento»

«Edmund, non cominciare» sbuffò Helena.

Acceber aggiunse:

«Ogni mese, i nove capitribù si incontrano a casa di uno di loro per raccontarsi come vanno le cose sull’isola e decidere insieme quali scelte fare in futuro, chiedere collaborazioni, chiarire disaccordi e cose simili. Fanno a turno per ospitare gli altri. La volta scorsa, il capo Omleilgug ha chiesto a tutti se volevano insegnare alcune delle nostre tecniche per coltivare ai Teschi Ridenti, visto che sul vulcano hanno piante buone ma non sono bravi a curarle»

«È così che stringete i rapporti fra tribù?»

«Sì: ci aiuta a restare uniti e capirci»

Chloe la ringraziò per le spiegazioni, quindi avanzarono verso la porta della grande casa. Invece di bussare, Acceber guardò il tetto e fece un fischio. L’anchilosauro si agitò nel sonno e Laura sentì un verso stridulo sopra di sé. Alzò lo sguardo e vide un grosso pipistrello appeso alle travi del tetto. Aveva il muso di un pipistrello carnivoro, ma era grosso come una volpe volante, se non di più. Riconobbe la specie: era un oniconittero, un pipistrello nordamericano dell’Eocene, uno dei più antichi. Accanto a lei, Chloe fece una smorfia inorridita e indietreggiò, a braccia incrociate: aveva sempre odiato i pipistrelli, anche quelli dolci e amichevoli che mangiavano frutta. Per lei, alcuni dei loro viaggi in zone dove c’erano tanti pipistrelli di sera erano stati un incubo.

«Tranquilla, non ti fa niente» sorrise Acceber.

«Non posso farci niente, mi fa troppo schifo! È una pantegana che vola!»

Helena sbarrò gli occhi:

«Non dirmi che credi davvero che i pipistrelli siano topi!»

Intanto, Laura continuò a osservare l’oniconittero, che stiracchiò le ali ed emise un richiamo lungo e ritmico. Sembrava un segnale. Infatti, subito dopo, sentirono la voce di un uomo da dentro la casa:

«Ezibav emaf »

«Bene, Omleilgug c’è. Entriamo»

Aprì la porta come se fosse casa sua e li accompagnò dentro. Si ritrovarono in un ampio locale in cui non c’era altro che un grande tavolo di pietra triangolare con tre sedie per lato, ciascuna delle quali recava un emblema. La sedia con lo schienale più alto portava il simbolo di una freccia. Acceber spiegò:

«Qui è dove i nove capi si riuniscono. La vera casa del capotribù è di sopra»

E indicò una scala a pioli in un angolo. Seguirono la ragazza di sopra e si ritrovarono in un salotto con una porta-finestra che portava a un lungo balcone, da cui si poteva osservare tutto il villaggio e parte del lago. C’era un angolo scavato con una cucina rudimentale, un piccolo tavolo con pestello e mortaio lì accanto, una fila di colture in piccoli rialzi lungo tutta la parete e una scrivania davanti al balcone. Ed era a quella scrivania, seduto di spalle alla porta-finestra, che li attendeva un Arkiano di mezza età con la pelle un po’ grinzosa, capelli grigio scuro lunghi fino alle orecchie e la barba. Li guardava con un’espressione attenta e le mani incrociate sotto il mento, coi gomiti appoggiati sulla scrivania. Acceber indicò i visitatori e fece per presentarli, ma Rockwell si fece subito avanti e parlò per primo:

«Lieto di rivederla dopo tutto questo tempo, capo Omleilgug. Si ricorda di me?»

L’espressione del capotribù cambiò di colpo: sembrava risentito.

«Edmund Rockwell. Sì, mi ricordo. E ricordo anche gli effetti collaterali di cui molte Frecce Dorate si sono lamentate con me dopo aver assaggiato i tuoi intrugli»

“Cominciamo benissimo” pensò Laura, preoccupata.

Edmund ribatté, scocciato:

«Non avrei mai pensato che serbaste ancora rancore per quella sciocchezza. Mi auguro che la mia assistente non debba sopportare lo stesso divieto che imponeste a me! Sono passati tre anni, in fondo»

«No, il nostro divieto rimane. Non so cosa sta facendo la Mangrovia Dolente che ha preso il tuo posto, ma non ci dà gli stessi problemi che ci davi tu. Comunque, non siete venuti da me per questo, vero?»

Detto ciò, indicò loro delle sedie e li invitò a prendere posto. Ciascuno prese una sedia e si accomodò davanti alla scrivania del capotribù. Omleilgug rivolse un’occhiata intrigata ad Acceber e le chiese:

«Sei la figlia di Drof Ydorb, giusto? Sì, mi ricordo ancora della tua prova. Mi dicono spesso che ti piace fare amicizia con gli stranieri, ma non mi sarei mai aspettato che venissero a chiedermi qualcosa. Avete bisogno di aiuto?»

Acceber ridacchiò, con una punta di imbarazzo:

«A loro serve solo un’informazione che solo voi capi potete dare, per questo li ho accompagnati qui»

«Bene, allora chiedete e vi dirò tutto quello che so. Dopo, però, mi piacerebbe sapere come mai Edmund Rockwell è tornato. Perché mai uno dei pochi stranieri sfuggiti all’isola dovrebbero tornarci?»

Chloe si scharì la voce e gli altri le rivolsero un’occhiata interrogativa. Lei guardò tutti come per chiedere se poteva occuparsene lei. Laura sapeva che non avrebbe resistito: era la sua specialità. Helena le fece cenno di fare pure; Rockwell sembrava contrariato, ma anche lui lasciò fare. Laura le rivolse uno sguardo incoraggiante. La sua amica le strizzò l’occhio e si rivolse al capotribù con disinvoltura:

«Mi permette di fare delle presentazioni, prima? E anche una premessa»

«Certo»

«Grazie. Mi chiamo Chloe, lei è la mia amica Laura. Noi e i nostri amici siamo venuti qui con l’aiuto di Rockwell, Helena e la Regina delle Bestie in persona per fare una ricerca; una sorta di indagine, per così dire. Il motivo per cui Helena e Rockwell sono con noi è che si tratta di una vecchia pista su cui stavano investigando tre anni fa, ma non ne sono mai venuti a capo e ora vogliono rimediare. Ma non voglio dilungarmi troppo, quindi andrò subito al punto: per trovare quel che cerchiamo, dobbiamo prendere i nove manufatti che attivano gli obelischi. Acceber ci ha detto che siete stati voi capitribù a volere che venissero tolti dagli obelischi, quindi abbiamo pensato che chiederlo a uno di loro sarebbe stato un buon inizio»

Laura osservò l’espressione di Omleilgug cambiare man mano che Chloe esponeva i fatti: dapprima indifferente, poi sorpreso quando Chloe menzionò Mei-Yin, poi intrigato quando spiegò che Helena e Rockwell erano tornati su una vecchia pista. Tuttavia, appena Chloe tirò in ballo i manufatti, il capotribù sbarrò gli occhi e sussultò, come se avesse sentito qualcosa di scandaloso.

«I manufatti?! Gli stessi che aprirono il muro invisibile tre anni fa?»

«Sì. Perché questa reazione?» chiese Chloe.

D’un tratto, il capotribù si alzò dalla scrivania, fece un’espressione severa e affermò:

«Non posso darvi le risposte che cercate. Non dovete cercare quei manufatti»

Laura iniziò a spaventarsi: chi avrebbe mai detto che si sarebbe rivelato un tabù? Non avevano ancora iniziato la ricerca e rischiavano già di finire in guai seri.

«Non capisco» disse Chloe.

«Non serve che capisca. Mi dispiace che siate venuti sull’isola per niente, ma quel che è fatto è fatto. Potete andare»

Il cuore di Laura iniziò a battere all’impazzata e la ragazza iniziò ad avere le scalmane per l’agitazione. Accanto a lei, Rockwell si coprì la faccia con entrambe le mani e celò uno sbuffo esasperato. Intanto, Acceber assistiva alla scena con uno sguardo preoccupato: i suoi occhi guizzavano di continuo tra loro e il capotribù. Chloe non si perse d’animo. Alzò le mani, sfoggiò un sorriso comprensivo e disse:

«Pare che sia un argomento scottante. Chiedo scusa, non lo sapevo. Tuttavia, credo che sarebbe meglio per tutti se sapessimo perché non dobbiamo cercare i manufatti. Non dico che abbiamo il diritto di sapere tutto, ma saremmo molto grati se si chiarisse con noi»

Omleilgug la fissò a labbra serrate. Non sembrava affatto convinto. Chloe provò a incalzarlo:

«È una questione culturale? Le prometto che avremo una mente aperta!»

Il capotribù chiuse gli occhi e scosse la testa:

«Non è così. Non potete capire: sarebbe assurdo anche per gli altri figli di ARK»

Acceber reclinò il capo e alzò un sopracciglio. Da questo, Laura intuì che anche lei non aveva idea che fosse quel tipo di faccenda. Chloe insisté:

«Rimango della mia posizione: sarebbe meglio per tutti se comunicassimo con trasparenza. Ha paura che abbiamo cattive intenzioni? Che ne dice di uno scambio di verità? Noi le diciamo perché vogliamo i manufatti e lei ci dirà perché non dovremmo cercarli. Siamo onesti gli uni con gli altri!»

Omleilgug strinse gli occhi, per poi sospirare:

«Ditemi il vostro scopo. Poi si vedrà»

A quel punto, Chloe si rivolse a Laura ed Helena e le esortò:

«È meglio se questo lo dite voi. Coraggio, non abbiamo niente da nascondere!»

Helena si leccò le labbra, si schiarì la voce e disse:

«Tre anni fa, stavo studiando le creature di quest’isola e le stranezze del posto. Cioè, stranezze dal nostro punto di vista, sia chiaro! Non giudico la vostra patria! Dicevo, a un certo punto io e Rockwell ci siamo imbattuti nei manufatti. Quando abbiamo capito che erano collegati agli obelischi, ci siamo convinti entrambi che potessero guidarci verso un segreto nascosto da qualche parte su ARK, una spiegazione a tutto ciò che si trova qui. Ma poi la Nuova Legione si è messa in mezzo e i nostri studi sono arrivati a un punto morto. Prima che ce ne andassimo, però, ho scoperto qualcosa in cima al Monte Brace. Un posto in cui vanno inseriti tutti i manufatti. Questa è l’ultima pista che ci rimane: forse, è la nostra occasione per svelare il mistero dell’isola!»

Laura annuì con determinazione e aggiunse:

«Tra l’altro, sappiamo che c’è un mistero perché qualcuno ne è venuto a capo molto prima di noi. Un uomo di nome Charles Darwin. Ha scritto un libro su ARK, in cui accenna a un segreto che può cambiare il mondo. Ma non l’ha svelato, quindi c’è solo un modo per sapere di cosa si tratta. Tutto qui: abbiamo intenzione di capire perché l’isola è fatta così e cosa nasconde di tanto straordinario»

«Esatto: sete di conoscenza» rimarcò Helena.

«E il nobile desiderio di guidare il mondo verso un futuro radioso» si intromise Rockwell.

Chloe batté le mani:

«Ecco! Ora sa perché siamo qui. Le giuriamo che siamo in buona fede. Possiamo sapere perché non vuole che prendiamo i manufatti?»

Omleilgug rimase in silenzio a lungo. Poi iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, intento a torcersi le mani e borbottare tra sé e sé. Infine, si rivolse di nuovo a loro:

«Ora capisco»

«Cosa, capo?» domandò Acceber.

«Perché la dea mi ha chiesto di nascondere i manufatti»

Tutti quanti furono colti alla sprovvista da quella rivelazione. D’istinto, Laura mormorò:

«Eh?»

Omleigug incrociò le braccia e, più serio che mai, spiegò:

«La notte in cui sconfiggemmo la Nuova Legione e il muro al largo della costa si aprì, Colei che Veglia mi apparve in sogno. E mi riapparve la notte dopo, la notte dopo ancora e così via. Nel sogno, la dea mi chiedeva con insistenza di togliere i manufatti dagli obelischi e nasconderli. Ricordo ancora le sue parole: l’isola deve restare al sicuro. L’isola deve restare nascosta. I segreti vanno protetti. Per tutto questo tempo, non ho capito di quali segreti parlasse, ma ora lo so grazie a voi. Dunque, a maggior ragione, vi dico che quei manufatti devono restare dovunque siano finiti»

«Quindi non sai dove sono?» chiese Rockwell.

«No. Convocai i nove capitribù e li convinsi a prendere i manufatti dagli obelischi, uno per ciascuno di noi. Dopodiché, ogni capo fece perdere le tracce del suo»

«Ah, quindi almeno uno sai dov’è!» lo stuzzicò Edmund.

«Ti sbagli. Ascoltatemi bene: Colei che Veglia è la guida del popolo di ARK. Tutto quello che dice, lo dice per garantire la nostra sopravvivenza. Se vuole che i segreti restino sepolti, significa che ne va delle nostre vite. Fine della storia. Potete andare»

Voltò loro le spalle e uscì sul balcone, con un respiro nervoso. Laura si sentì rassegnata e abbattuta; si stravaccò sulla sua sedia come se non avesse più le ossa. Non si aspettava una reazione del genere ma, soprattutto, non aveva idea di cosa ci si potesse fare. Chi erano loro, per contraddire una superstizione dettata da una religione di cui non sapevano quasi niente? Ormai non credeva che Chloe avesse speranze di spuntarla, nemmeno con tutta la sua astuzia e carisma. Proprio allora, per caso, notò un dettaglio che le era sfuggito quando erano entrati: sopra la porta-finestra, era appeso un dipinto senza cornice. Raffigurava una folla prostrata ai piedi di un gorilla gigante, che la osservava con un’espressione maestosa e autorevole.

«Kong?» chiese, d’istinto.

Non si rese conto di averlo detto ad alta voce finché Omleilgug non si voltò, la guardò con perplessità e notò che stava guardando la parete. Tornò dentro e le rispose:

«Vedo che conosci già il re dell’isola»

Helena sorrise e intervenne:

«Gliene ho parlato io, prima che venissimo su ARK. Le ho raccontato che la Nuova Legione ha perso la guerra anche grazie a lui»

«Le hai raccontato anche perché noi Frecce Dorate gli dobbiamo tutto?» indagò Omleilgug.

Chloe e Rockwell nascondevano a malapena degli sguardi infastiditi: si capiva che erano arrabbiati per quel cambio di argomento. Laura si sentì arrossire e provò un lieve senso di colpa per aver deviato la discussione per sbaglio. Mentre si stringeva nelle spalle e si sforzava di respirare piano e a fondo per stare calma, Helena scosse la testa. Omleilgug fece spallucce e si rivolse ad Acceber:

«Magari puoi spiegarlo tu ai tuoi nuovi amici stranieri, Ydorb. Se a loro importa abbastanza»

Ad Acceber si illuminarono gli occhi e schioccò le dita con entusiasmo:

«Farò di meglio, capo: li porterò a vedere il rituale, stasera! Ora che ci penso, non ho ancora portato la mia offerta: siamo appena arrivati»

«Bene, allora non vi trattengo oltre. Andate pure»

Li stava liquidando. Era finita. Laura sospirò e attese che gli altri si alzassero per uscire. Ma qualcuno non era d’accordo: Chloe si alzò, appoggiò le mani sulla scrivania e si sporse in avanti. Fissò Omleilgug con la massima serietà:

«Un attimo. Non mi sembra giusto»

Il capotribù incrociò le braccia:

«Cosa? Parla chiaro»

«Con tutto il rispetto, trovo disonesto diffidare di noi a priori sulla base di una tradizione religiosa. Tanto per cominciare, come può dimostrarci che ha avuto davvero un sogno così chiaro e dettagliato? Sogno che ha avuto tre anni fa, per giunta»

Acceber sbarrò gli occhi e andò nel panico. Iniziò a scuotere la testa a labbra serrate e a fare cenno a Chloe di fermarsi, ma Chloe continuò imperterrita:

«Piuttosto, perché non ci giudica in modo più logico? Siamo qui per scoprire un segreto, quindi per pura curiosità e nient’altro. Senza contare che non è neppure detto che riusciamo a venirne a capo. Anzi, potremmo persino morire prima di capirci qualcosa! Come potrebbe mai la nostra ricerca mettere a rischio questo posto?»

Calò il silenzio. Laura e tutti gli altri rimasero col fiato sospeso, pronti al peggio. Omleilgug strinse gli occhi, si sporse sulla scrivania a sua volta e guardò Chloe in faccia:

«Non sta a me convincerti che dico la verità, così come non sta a te dirmi di dubitare della volontà di Colei che Veglia. Forse avete buone intenzioni, ma la prudenza non è mai troppa. Ci sono pochi rischi che sono disposto a correre, e questo non è tra quelli. Non ho altro da aggiungere»

Chloe corrugò la fronte e lo fissò in silenzio. Strinse i pugni sul tavolo con così tanta forza che le vibravano le braccia. Alla fine, gli rivolse un saluto secco e andò alla scala a pioli, stizzita e frustrata. Acceber si morse il labbro e mormorò, imbarazzata:

«Allora… ehm… a stasera, capo Omleilgug»

«A presto. Godetevi il rito della luna piena, se ci sarete»

Detto ciò, Omleilgug tornò sul balcone e non disse più nulla. Laura e gli altri lo ringraziarono, lo salutarono e raggiunsero Chloe, per poi scendere al piano di sotto e uscire dalla casa in silenzio. L’oniconittero li congedò con uno squittio, mentre si allontanavano. Laura tirò due sospiri: uno di sollievo, l’altro di preoccupazione. Col capovillaggio era andata male, ma non malissimo. D’altro canto, quella trattativa fallita aveva risvegliato un mostro.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

«Non sta a lui convincermi? Prima mi prende per il culo con la scusa dei messaggi divini e poi dice che devo prenderla per vera! Fanculo! Dio, quanto odio trattare con gli invasati: mi fanno sempre incazzare!»

Quando i suoi amici tornarono nel giardino di Acceber, Sam si era ritrovato di fronte una Chloe diversa. Una Chloe appena uscita sconfitta da una mediazione. Ora era seduta nella sua tenda e scarabocchiava su un pezzo di carta. Sam sapeva benissimo cosa stava facendo: disegnava schemi, specchietti, mappe concettuali o comunque le chiamasse lei. Stava provando a inventarsi qualche nuova battuta vincente che non le era venuta in mente prima. Nel frattempo, imprecava e si sfogava a denti stretti, paonazza. I suoi movimenti erano così scattosi che sempre più ciocche di capelli le cadevano dallo chignon e le dondolavano davanti alla faccia.

«Mi fa paura quando è così» sussurrò Jack, sbigottito.

I due ragazzi avevano appena finito di aiutare Mei-Yin e Nerva a sistemare le cose di tutti dentro e fuori dalle tende e ora stavano spiando Chloe dall’esterno. Rockwell passò davanti alla tenda e la vide. Fece un ghigno e le disse:

«Qual è il problema, signorina? Non sei una diplomatica così infallibile come credevi? Se ti consola, hai ancora tutta la vita per rifarti. Il carisma si affina con l’età, in fondo»

Chloe lo fissò e strinse il foglio in un pugno tremante che valeva più di mille parole. Edmund scosse la testa e proseguì, per poi entrare nella sua tenda. Sam e Jack si scambiarono un’occhiata allarmata:

«Codice rosso: è inviperita al massimo» dedusse il rosso.

«Si vede. Un po’ mi dispiace per lei, ma mi fa davvero paura»

Sam gli avvolse un braccio intorno alle spalle e ammiccò:

«Per questi casi ci vuole uno specialista: lascia fare allo zio Sam! Sarà come tirare fuori una gatta furiosa da sotto il letto»

«Be’, attento a non graffiarti troppo»

«Grazie della premura. Ehi, vai da Laura e scopri cos’è successo, mi raccomando»

Jack si guardò intorno, con fare insicuro:

«Perché? Possono raccontarci tutto anche se non glielo chiedo»

Sam alzò gli occhi al cielo:

«Eddai, devo dirti proprio tutto? Anche lei è tutta mogia, le serve una distrazione! E la nostra paleo-secchiona adora farsi distrarre da te»

Jack arrossì, sudò freddo e si districò dal braccio dell’amico:

«Ma no! A tutti piace farsi ascoltare, non c’entro io»

«C’entri, c’entri. Io consolo una, tu consoli l’altra. A dopo!»

Sam si avviò di fretta, prima che Jack potesse balbettare qualcos’altro. Si sporse dentro la tenda di Chloe, ancora concentrata sui suoi schemi e sul suo sfogo, e si schiarì la voce per chiamarla. Chloe alzò lo sguardo, sbuffò a occhi chiusi e tornò a pasticciare col foglio. Sam si sedé davanti a lei e rimase in silenzio, in attesa che parlasse per prima. Non ci volle molto, prima che Chloe indugiasse con la matita. Alzò lo sguardo e sibilò:

«Per favore, non metterti a fare il cretino: è l’ultima cosa che mi serve»

«Oh, sai che ti piace quando faccio il cretino nel modo giusto» ammiccò Sam.

«Sì, ma risparmiatelo comunque»

Sam la assecondò e iniziò la conversazione con serietà. Prima di tutto, la invitò a confidargli il motivo della sua arrabbiatura:

«Il capo del villaggio non vi ha parlato dei manufatti, vero?»

«No. Ma non solo! Aveva una scusa di merda»

«Quanto di merda?»

«Ha tirato in ballo la religione del posto»

Sam sbarrò gli occhi, scoprì i denti e ritrasse il collo, come se avesse preso una botta.

«Ahia, il tuo punto debole»

Chloe mise giù il foglio stropicciato e sospirò, con lo sguardo chino:

«Puoi dirlo forte. Anzi, mi ha messo più in difficoltà che mai: conosco le altre religioni e i ragionamenti che la gente ci fa di solito, ma qui non ero pronta»

«Ma cos’ha detto?»

«Non vuole dirci dove sono i manufatti, perché secondo lui questa dea della sopravvivenza gli ha detto che se scopriamo di cosa parlava Darwin… non so neanche di cos’ha paura, non poteva essere più vago di così»

«Ah. Ci crede davvero, giusto?»

«Fin troppo. La gente così mi manda in bestia! Le ho provate tutte per essere logica e argomentare, ma niente: per lui quello che sogna di notte è legge. Avrei molte domande sulle sue capacità di comandare una comunità, ma è meglio se lascio perdere»

Sam aveva capito subito che non doveva lasciarla inveire troppo sul capotribù e le sue credenze, così tentò di proporle delle alternative:

«Non mi sembra poi così grave: ora sai che vede messaggi dall’universo in tutto, perché non cambi metodo? Non mi sembra difficile fregare i tipi così: gli fai credere che stiamo simpatici alla sua dea e il gioco è fatto»

Chloe allargò le braccia:

«Sam, ci sono arrivata anch’io. Il problema è un altro: mi sono lasciata andare come una cretina e l’ho spinto a chiudersi ancora di più, e poi conosco troppo poco la religione per fare certi trucchetti. Certo, potrei farmela insegnare bene da Acceber, ne avevo già intenzione, ma ormai il capotribù non vorrà mai riprendere il discorso»

«Suvvia, sono scocciature passeggere. Magari domani gli sarà già passata, che ne sai?»

Chloe tentò di tornare ai suoi schemi. Ma ci rinunciò subito, appallottolò il foglio e lo gettò dall’altra parte della tenda. Si coprì il viso con entrambe le mani e grugnì:

«Che figura di merda! Volevo fare il mio lavoro e ho rovinato tutto, invece di rendermi utile! Siamo qui da appena tre giorni e ho mandato all’aria la mia prima mediazione su ARK! Ora quel vecchio arrogante mi ha presa per il culo per quello scambio che abbiamo avuto in barca e ha ragione»

Ora non era più furiosa col capotribù, ma con se stessa. Sam sapeva bene che era quello il momento giusto per tirarle su il morale:

«Suvvia, non devi dimostrare niente a nessuno! Hai fatto quello che fai di solito e volevi aiutare, sai che a Laura va benissimo già così. E poi non è mica detto che non possiamo inventarci qualcosa senza il capo di questo posto»

Chloe scosse la testa, contrariata:

«Voler aiutare non serve, bisogna farlo davvero. Non vorresti fare tutto il possibile per aiutare un’amica a realizzare la cosa a cui tiene di più? Abbiamo accettato di seguirla qui per questo»

«Ripeto: non era mica la nostra unica occasione. Siamo appena all’inizio! Forza, vieni qui»

Sam allargò le braccia per invitarla ad abbracciarlo. Chloe indugiò con lo sguardo chino per un po’, ma poi si convinse e si adagiò su di lui, appoggiando la fronte sul suo petto.

«Hai ragione, sarà per la prossima. Adesso però voglio rifarmi al più presto» mormorò.

Sam ridacchiò:

«Ti si vuole bene per questo. Su, non tenere quel musone: cosa dirà Laura? Sei sempre tu a motivarla, non puoi abbatterti al primo muro contro cui sbatti»

Chloe, piano piano, alzò lo sguardo, gli sorrise e gli diede due buffetti sulla guancia:

«Sai che sei proprio adorabile, quando diventi profondo? Dovresti farlo più spesso»

«Ne sei sicura? Dopo chi ci penserà a farvi ridere? E a prendersi le tue gomitate?»

Chloe scoppiò a ridere, mentre Sam ridacchiava sotto i baffi. La ragazza lo abbracciò a lungo, poi lo lasciò andare con un respiro profondo, si riordinò i capelli e disse:

«Grazie, Sam. Mi ci voleva»

«Figurati!»

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Nonostante il suo tipico imbarazzo, Jack decise di prendere sul serio la raccomandazione di Sam andò da Laura per chiederle com’era andata per l’esattezza dal capotribù. Helena non era più con lei: stava aggiornando Mei-Yin e Gaius. La sua amica stava seduta contro la parete della casa, con un’espressione afflitta, mentre Acceber raccoglieva degli ortaggi dall’orto e li metteva in un cesto di vimini. Jack si sentiva teso e aveva paura di mettere in imbarazzo entrambi, ma si fece forza e si sedé accanto a lei; si rannicchiò abbracciandosi le ginocchia.

«Ciao» la salutò, incerto.

Laura abbozzò un sorriso per un istante:

«Ciao»

Poi cadde un silenzio imbarazzante in cui ciascuno guardava davanti a sé. Jack era determinato a non farlo durare troppo, quindi si sbrigò ad attaccare bottone:

«È andata male?»

«Hai visto Chloe. Il capotribù non ha voluto dirci dove sono i manufatti. Ha provato a convincerlo, ma è stato irremovibile»

«Oh»

Acceber interruppe la sua raccolta per un attimo e li guardò:

«Forse avrei dovuto avvisarvi prima che Omleilgug è molto superstizioso. Se vi consola, anche per molti del villaggio è strano. Prende la leggenda di Colei che Veglia più sul serio di chiunque altro!»

«Ma cos’ha detto?» chiese Jack.

Concentrarsi sui fatti e non alle emozioni che suscitavano erano il metodo migliore che conosceva per far passare i sentimenti negativi, quindi si sforzò di applicarlo a Laura e sperò che funzionasse. Laura si lisciò la coda di cavallo:

«Ha detto che la dea dell’isola gli è apparsa in un sogno e gli ha ordinato di nascondere i manufatti, perché a quanto pare ARK deve restare isolata e nascosta. Altrimenti… be’, immagino che succedano cose brutte»

«Che tipo di cose brutte?»

«Chi lo sa? Era molto vago. Ma quando Chloe gli ha parlato del segreto di Darwin, è diventato ancora più diffidente»

«Davvero? Sembra che non voglia correre nessun rischio»

Laura sospirò e serrò le labbra:

«Ce l’ha detto chiaro e tondo. Insomma, non abbiamo cavato un ragno dal buco e ora Chloe è frustrata. Be’, se non altro, ci ha detto una cosuccia interessante su Kong»

A quel punto, Acceber si sedé davanti a loro col cestino sulle gambe e un’espressione entusiasta:

«Giusto! Gli ho promesso di spiegarvelo meglio! Da dove volete che cominci?»

Laura si entusiasmò a sua volta e le chiese:

«Ci sono altri scimmioni come lui? O è l’unico?»

«No, c’è solo lui. Kong è sempre stato l’unico da generazioni, non si è mai sentito parlare di suoi simili»

Anche Jack iniziò a interessarsi all’argomento, quindi si concesse di esprimere le sue personali curiosità:

«Da generazioni? Vuoi dire che esiste da più di un secolo?»

«Molto di più! Le storie dicono che era giovane ai tempi della Guerra Tribale, quindi vive qui da almeno cinquecento anni»

«Cos’è la Guerra Tribale?»

Acceber fece una smorfia:

«Ah, è una storia lunga, meglio se ve la racconto un’altra volta. Ma fu quella guerra a rendere le nove tribù quelle che sono oggi, soprattutto la mia. Anzi, è proprio per questo che siamo così devoti al re dell’isola: ci raccontano che tanto tempo fa, prima e durante la Guerra Tribale, non avevamo un nome e non stavamo mai in un posto troppo a lungo. Le bestie e le altre tribù ci minacciavano sempre, quindi viaggiavamo di continuo. E seguivamo Kong per stare al sicuro. Quando il nostro eroe sconfisse i tre distruttori in riva a questo lago, decise che saremmo diventati una tribù di contadini e da allora, ogni notte di luna piena, ringraziamo Kong per la sua protezione offrendogli quello che coltiviamo»

«In effetti, mi sembrava strano che una tribù di agricoltori si chiamasse “Frecce Dorate”. Quindi c’entra solo quell’episodio?» chiese Jack.

«Sì. Avete notato la freccia d’oro nel teschio di distruttore nella piazza grande? È la stessa con cui l’eroe cavò l’occhio al primo distruttore e lo fece infuriare contro gli altri due!»

«Fantastico! A proposito di Kong, la sua tana è sulle isole volanti, giusto?» domandò Laura.

«Giusto. Pensate che le giovani Frecce Dorate, prima del rito della prima doma, vanno lassù per fargli visita e farsi portare fortuna! Io l’ho fatto l’anno scorso, è stato bellissimo»

«Ma c’è un motivo particolare per cui lo chiamate “re” dell’isola?» chiese Jack.

«Altroché! Non va in giro senza meta, quando non è sull’Apoteosi: controlla che la natura di ARK sia sempre in equilibrio. Se qualcosa minaccia l’armonia delle creature, Kong è sempre pronto a difenderla. È davvero fortissimo, dovreste vederlo: pochissime bestie osano sfidarlo»

«Speriamo di non stargli antipatici, allora!» commentò Jack, ironico ma timoroso.

Acceber scosse la testa, con aria divertita:

«Ma no! Finché non lo provocate, è buono con tutti! Volete venire a vederlo, stasera? È buffissimo, quando mangia l’offerta al chiaro di luna»

Laura fremé, eccitata:

«Certo che vogliamo! Non vorrei perdermelo per niente al mondo! King Kong è reale? Be’, è ora di scoprirlo coi miei occhi»

«Non resterete delusi» promise Acceber.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

All’inizio, l’intenzione del gruppo era fare una rapida cena con una minestra in polvere da far bollire nel pentolino. Invece, Acceber invitò i ragazzi a mangiare fuori con lei e suo padre. Accettarono volentieri, soprattutto perché Chloe fu subito attratta dal pensiero di dare un’occhiata anche alla cucina locale. A loro si unirono solo Helena e Rockwell: Mei-Yin disse che aveva ancora intenzione di andare a domare predatori con cui viaggiare in sicurezza, mentre Nerva voleva solo evitare la folla. Dunque, Acceber e Drof li portarono a una locanda in riva al lago con dei tavoli esterni.

Quando si accomodarono, Laura notò che molti abitanti del villaggio avevano iniziato a radunarsi sul litorale sassoso del lago, accanto alla grande serra, per attendere il rito. Si rigirò sulla panca che condivideva con Chloe ed Helena e osservò la scena: il sole era quasi sparito dietro l’orizzonte e la luna piena stava sorgendo, con un rilassante bagliore dorato. Man mano che le stelle apparivano in cielo, i loro riflessi scintillavano sull’acqua, assieme ai bagliori delle torce. Sulla riva opposta, l’altare che avevano visto quando erano arrivati era stato riempito di frutta e verdura, impilata in un grande cumulo. Due grandi bracieri ai lati dell’altare erano pieni di tronchi e paglia. Nonostante la curiosità di Laura fosse immensa, in quel momento il suo appetito la superava.

Non c’era nessun menù scritto, ma Chloe aveva già chiesto ad Acceber cosa potevano chiedere da mangiare. Laura si era persa una parte dei loro discorsi, ma tornò ad ascoltare giusto in tempo per sentire la ragazza consigliare una lombata di “bestia grassa”.

«Che animale è?» domandò.

«È il nome arkiano della fiomia» spiegò Helena.

«Oh! Giusto» ridacchiò Laura.

Dal canto suo, Rockwell si dichiarò deciso a mangiare la pietanza arkiana che gli mancava di più: il salmone ai ferri. Poco dopo, arrivò un ragazzo della loro stessa età a prendere le ordinazioni. Acceber e suo padre chiesero la lombata di fiomia e Rockwell il salmone. Helena ordinò un generico “piattone di verdure” e a Laura non dispiacque l’idea, quindi ordinò lo stesso. Sam e Jack discussero un po’, per poi ordinare a loro volta il pesce. Infine, il cameriere posò lo sguardo su Chloe e lei, quasi con aria di sfida, gli domandò se c’era una specialità della casa. Il ragazzo annuì subito e fece per descrivere il piatto, ma Chloe lo interruppe di colpo e gli disse che non voleva sapere in anticipo di cosa si trattava. Il cameriere sembrava perplesso, ma acconsentì lo stesso.

«Sicura di volere la sorpresa? Magari te ne penti» la ammonì Jack.

Chloe gli strizzò l’occhio:

«Tranquillo, sai che ho il palato flessibile»

Mentre aspettavano quello che avevano ordinato, Laura chiese a Helena:

«Quando eri qui, hai visto questo rito con Kong?»

«A dire il vero, no»

«Ma come? Mi sembra la prima cosa a cui una biologa vorrebbe assistere!»

Helena si strinse nelle spalle, un po’ imbarazzata:

«Guarda, il motivo è molto più banale di quanto credi: ho scoperto di questa usanza troppo tardi per trovare il tempo di parteciparvi»

«In quanto a me, ero solo indifferente» aggiunse Rockwell.

Passarono vari minuti e la folla sulla riva cresceva sempre di più. Nel frattempo, Laura si accorse che, intorno ai tavoli, c’erano dei compsognati che si contendevano pezzetti di cibo caduti per terra o che li elemosinavano agli avventori della locanda. I più sfacciati, addirittura, rubavano degli avanzi. Laura rise sotto i baffi: certe scene erano uguali proprio dappertutto. Erano come cani in cerca di ossi. Dopo un po’, Drof si schiarì la voce e si rivolse ai ragazzi:

«Se volete stare con noi, mi piacerebbe conoscervi un po’ meglio. Non mi avete ancora detto come avete incontrato mia figlia»

Laura e i suoi amici gli raccontarono quello che avevano fatto il giorno prima, dalla piccola avventura sotto la guida di Mei per domare il parasauro al loro incontro casuale con Acceber. Da lì, una cosa tirò l’altra e, a forza di domande e racconti, risalirono a come e perché erano venuti su ARK. Al contrario del capovillaggio, Drof non reagì male, quando gli spiegarono dei manufatti e del presunto segreto dell’isola. Anzi, si dimostrò intrigato. Chloe gli chiese dunque se fosse lui ad avere la mente aperta o se fosse Omleilgug a essere vittima delle sue superstizioni; a quella domanda, Drof allargò le braccia:

«Diciamo solo che sono abituato a più… ehm… stranezze di molti altri figli di ARK. Soprattutto a causa di chi frequenta mia figlia negli ultimi anni»

Quando disse l’ultima frase, lanciò un’occhiata maliziosa ad Acceber, che fece una risatina sardonica. Laura stava per chiedergli cosa intendesse con “stranezze” ma, proprio allora, il cameriere e un’altra ragazza raggiunsero il tavolo con le loro pietanze. Laura lasciò perdere quello che voleva dire e osservò i cibi con l’acquolina in bocca e curiosità: la lombata di fiomia non era tanto diversa da una lonza di maiale. Però la carne era più grassa e spessa; era circondata da verdure che facevano da contorno. Le verdure che avevano ordinato lei ed Helena erano saltate in padella, a giudicare dalla consistenza apparente e dai profumi. Sembrava un quadro, per via di tutti quei colori: carote, patate, zucchine, peperoni, più altri ortaggi che Laura non seppe distinguere a occhio. Il salmone di Sam, Jack e Rockwell era un filetto di pesce cotto su un letto di insalata e pomodori, intriso di limone.

Infine, arrivò la specialità della casa per Chloe, la sorpresa. Tutti e quattro i ragazzi rimasero a occhi e bocca aperti: era un massiccio e corposo rotolo di carne ripiena, che a malapena ci stava nel piatto. Era grande quanto un maialino, se non di più. Chloe lo guardava con una faccia così attonita che tutti, persino Rockwell, iniziarono a ridere di gusto dopo un po’. Quando riuscì a riscuotersi, Chloe propose:

«Magari ce lo dividiamo, eh?»

Acceber si leccò i baffi:

«Senza il “magari”»

«Ma cos’è?»

Drof, che aveva già iniziato a spolpare la sua lombata, ingoiò un boccone e rispose:

«È un pezzo del fegato di un gigante gentile, imbottito di uova, spinaci, burro e pepe. È una ricetta molto speciale per noi Frecce Dorate, di solito lo facciamo in casa nei giorni di festa»

«Il gigante gentile è il brontosauro» specificò Helena.

«Burro? E di quale mammifero è?» domandò Chloe.

«Di solito usano il latte di mammut. È così? È di “elefante”?» chiese Rockwell.

Padre e figlia annuirono. Sam scoppiò a ridere e fece roteare la mano con fare enfatico:

«Porca miseria, proprio leggerissimo! Gran bella scelta, Chloe: è perfetto per quel corpicino a clessidra!»

Chloe arrossì e scosse la testa, ma poi assaggiò il suo piatto e rimase di stucco. A giudicare dal suo sguardo, doveva piacerle tantissimo. Dal canto suo, Laura andò matta per le sue verdure: non sapeva con cosa fossero condite, ma era delizioso. Oltretutto, la consistenza era perfetta: a metà fra il morbido e il croccante; non le erano mai piaciute le verdure troppo molli. Senza accorgersene, ripulì il piattone molto più in fretta del previsto e non si rese conto di essere sazia finché non ebbe finito. Fu allora che si accorse del dettaglio in comune fra tutte le pietanze: l’abbondanza. Tra le porzioni e i contorni, ogni piatto poteva essere benissimo un pasto completo. Non ricordava l’ultima volta che si era sentita così piena. Provò a dare un’occhiata agli altri tavoli e constatò che ogni singolo piatto era così ricco.

«Certo che qui si mangia tanto» commentò.

Acceber si pulì la bocca e le rispose:

«Sai, è buffo: a noi, invece, pare sempre che voi stranieri mangiate troppo poco»

Sam, che era arrivato a metà del suo pesce, alzò lo sguardo dal piatto:

«Ah, sì? Non so se siamo capitati per caso nel miglior locale dell’isola, ma magari mangiate così tanto perché siete tutti bravissimi a cucinare. Questo salmone è fantastico!»

Rockwell, mentre tagliava con calma e precisione il suo salmone per evitare le spine, si sistemò gli occhiali e spiegò, in tono appassionato:

«Vedete, è tutta questione di fisiologia. Questa è forse una delle scoperte che mi hanno entusiasmato di più, quando ho iniziato a fare il medico su ARK: i suoi nativi sono superiori a qualunque altro popolo sotto ogni aspetto. Forza, riflessi, resistenza, capacità polmonare, difese immunitarie… tutto incrementato. Com’è logico, un fisico così prodigioso ha un costo, motivo per cui hanno bisogno di molto più cibo e acqua di noi. Affascinante, non è vero?»

«Incredibile! Allora gli animali non sono gli unici a essersi evoluti, qui!» esclamò Jack.

Sam, invece, rifletté con uno sguardo tentato per vari minuti, poi schioccò le dita col braccio teso verso Acceber per chiamarla:

«Di un po’, ti andrebbe una sfida a braccio di ferro? Non ho perso quasi mai e, per ovvie ragioni, non potrei mai chiedere a una ragazza di fare a braccio di ferro con me. Ma se voi Arkiani avete la super-forza, potresti finalmente farmi sudare!»

Acceber fece un ghigno:

«Magari un’altra volta. Ma me lo ricorderò! Sfida accettata»

«Ti prendo in parola!»

«Ragazzi, qualcuno mi dà una mano? Sono in alto mare» borbottò Chloe.

Facendo del suo meglio, si era avvicinata a metà del suo fegato ripieno; ormai, però, aveva il fiatone e non osava più mangiare un altro boccone. I suoi amici, Acceber e suo padre si spartirono quello che rimaneva e Laura ebbe l’occasione di assaggiare la ricetta di punta delle Frecce Dorate. Come tutti i fegati, quella carne aveva un forte retrogusto di ferro; a tratti, risultava fastidioso, ma il ripieno faceva un buon lavoro a mitigarlo. Non le dispiacque affatto: anche il pepe era dosato nel modo giusto e non la fece tossire, come le capitava di solito. A Chloe rimase un pezzettino, ma lo regalò più che volentieri a un compsognato che venne a pigolare accanto alla sua sedia. Sam rise e scherzò:

«Ecco perché la bimba in Jurassic Park 2 è stata mozzicata: non aveva il fegato ripieno»

Quella battuta fece ridere Laura molto più di quanto avesse pensato. Poi, riflettendoci meglio, si rese davvero conto di quanto fosse stata unica quella serata: per la prima volta in assoluto, aveva mangiato carne di animali preistorici. Ed era una sensazione meravigliosa.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Dopo la cena, Acceber e Drof assicurarono un posto ai ragazzi in prima fila tra la folla radunata in riva al lago. Ormai il cielo era buio e punteggiato di stelle. L’aria notturna era molto più fresca lì che nel palmeto, ma le torce degli abitanti del villaggio scaldavano a sufficienza. Quando non ci fu più spazio libero, arrivò il capo Omleilgug, accompagnato da due arcieri che tenevano incoccate delle frecce infuocate. Il capotribù alzò le braccia per zittire la folla e, quando non ci fu più brusio, prese la parola. Parlava in Arkiano, quindi Laura non aveva idea di cosa dicesse, ma Acceber fu così gentile da sussurrare loro il significato del discorso.

Omleilgug stava ricordando ai presenti l’importanza di donare una parte dei prodotti della loro terra alla creatura che aveva reso possibile la nascita delle Frecce Dorate, oltre ad augurare agli agricoltori del villaggio che i loro sforzi li ripagassero con un buon raccolto per tutti i mesi a venire, così che la comunità non dovesse mai temere di affamarsi come ai tempi in cui vagavano per l’isola, braccati da predatori e nemici. Alla fine del discorso, Omleilgug fece un cenno ai due arcieri, che tesero le corde dei loro archi, mirarono al cielo e scoccarono le frecce. I dardi sfrecciarono a parabola sopra il lago e colpirono in pieno le due pire accanto all’altare. Nel giro di pochi minuti, la paglia e il legno presero fuoco e i due falò illuminarono buona parte della sponda opposta e della collina oltre il lago.

Per logica, Laura ipotizzò che quei due roghi fossero un segnale; un richiamo. Dopotutto, anche nel film di King Kong i nativi usavano il fuoco per annunciare il sacrificio. La folla attese per decine di minuti, in silenzio religioso. Anche la scena era quasi del tutto silente: a parte i crepitii delle torce e l’occasionale verso di qualche creatura del villaggio non ancora addormentata, non si sentiva un suono. Più aspettava, più Laura si sentiva tesa ed emozionata. Mentre muoveva con frenesia le ginocchia avanti e indietro e teneva le braccia incrociate, la ragazza continuò a pensare alla situazione. Nonostante tutte le anormalità che aveva visto in così poco tempo, le sembrava ancora assurdo: non solo esisteva un gorilla gigante come King Kong, ma aveva pure lo stesso nome e…

“Lo stesso rituale?” si chiese Laura.

Fu allora che si rese conto che le coincidenze iniziavano a essere troppe. Certo, le Frecce Dorate offrivano in sacrificio frutta e verdura, invece di persone vive. Eppure… sicura di non essere l’unica ad averlo notato, Laura si sporse verso Jack e gli sussurrò all’orecchio:

«Ehi, non ti sembra tutto troppo simile al film?»

Jack fece un’espressione inquieta, come se gli avesse letto nel pensiero, e annuì:

«Altroché. Si chiama Kong, è l’unico scimmione dell’isola, ha una tribù devota a lui; combacia tutto!»

«Mi sta venendo un sospetto. Vuoi vedere che…»

Prima che gli confidasse la sua insinuazione, Laura iniziò a sentire un crescendo di passi. Passi rapidi e veloci, ma pesanti e poderosi: facevano eco in lontananza e si avvicinavano sempre di più. A un certo punto, al rumore dei passi si aggiunsero anche sbuffi e grugniti. Il cuore di Laura iniziò a battere all’impazzata e tutti e quattro i ragazzi si impietrirono, col fiato sospeso. A un certo punto, un’ombra gigantesca spuntò da dietro la collina e torreggiò sopra il lago. Era la sagoma di una grande bestia pelosa. L’ombra rimase ferma un attimo, poi iniziò a scendere dal colle con calma e fu illuminata dai bracieri. La creatura si rivelò e Laura rimase senza fiato: dall’altra parte del lago, si trovava un colossale gorilla di montagna alto una ventina metri. Un maestoso maschio dalla pelliccia folta, la schiena argentata e una chiazza di pelo rosso sulla testa gibbosa. Tutto il suo corpo era sfregiato da cicatrici di ogni forma e dimensione. La sua andatura elegante e decisa gli conferiva davvero un’aria regale, che però era in contrasto con la sua espressione allegra e trepidante: aveva lo sguardo puntato sull’offerta.

«È immenso!» esclamò Chloe, a bassa voce.

«Incredibile, vero?» sorrise Helena, con le mani sui fianchi.

Laura non poté fare altro che annuire, a bocca aperta. Kong raggiunse l’altare e si sedé a gambe incrociate, con un grugnito famelico. Raccolse un mucchio di frutta nel palmo della mano e iniziò a masticarla con calma. Gli colavano pezzi di bucce e rivoli di succo dalle labbra e il rumore dei suoi denti che schiacciavano i frutti si sentiva fin lì. Quella scena era pazzesca da un lato e buffa dall’altro: non era tanto diverso dall’osservare un gorilla normale allo zoo che mangiava. Era solo ingigantito in scala, e lo “zoo” era un’intera isola preistorica. Dopo un attimo di estasi, Laura si riscosse e guardò Chloe per chiederle di fare una foto o un video, ma scoprì che l’amica ci aveva già pensato: stava filmando tutto. Laura tirò un sospiro di sollievo e tornò a godersi la scena. Kong finì il pasto di lì a poco e, dopo essersi pulito la bocca, volse lo sguardo alla folla. Emise un verso compiaciuto, come per ringraziare gli abitanti del villaggio. Poi, però, il suo sguardo cambiò: da rilassato e soddisfatto, diventò perplesso. Dapprima, Laura credé che fosse solo una sua impressione, ma poi non ebbe più dubbi: i loro sguardi si erano incrociati. Kong stava fissando proprio lei.

«Cosa?» mormorò, a disagio.

Dopo averla osservata per qualche secondo, Kong sbarrò gli occhi. Iniziò a grugnire a ripetizione, poi si eresse sulle zampe posteriori per guardare meglio. La folla ricominciò a bisbigliare e scambiarsi sguardi allarmati. Alcuni fecero dei passi indietro, intimoriti. A un certo punto, Kong ruggì e partì di corsa. Sfondò l’altare e si buttò nel lago. Continuò ad avanzare nell’acqua, diretto verso il villaggio; verso Laura. Quando capì che non le staccava mai gli occhi di dosso, la ragazza andò nel panico e, all’improvviso, si bloccò. Per quanto volesse voltarsi e scappare a gambe levate, il suo corpo si rifiutava di muoversi: era come congelata. Kong era ormai al centro del lago e la folla andò nel panico: scapparono tutti dalla riva, tra grida ed esclamazioni. Drof portò via Acceber a forza.

«Laura, muoviti! Andiamo via!» esclamò Chloe.

Era proprio quello che voleva fare, ma non ci riusciva. Il terrore la faceva sentire impotente. Sam intervenne subito e provò a portarla via, ma era troppo tardi: Kong era arrivato. Rockwell trascinò via Helena nonostante le sue proteste, ma i tre amici di Laura non fuggirono. Si piazzarono tutti davanti a lei, per proteggerla. Lo scimmione si fermò proprio davanti a loro e li osservò con attenzione. Piegò i gomiti e avvicinò il muso a loro, senza smettere un attimo di grugnire con frenesia. Laura e Kong si guardarono negli occhi per quella che a Laura sembrò un’eternità, come se il tempo si fosse fermato. Dopo un po’, tuttavia, Kong cambiò di nuovo espressione. Sembrava deluso. Nonostante il suo sguardo malinconico, però, Laura aveva l’impressione che fosse ancora entusiasta, in piccola parte. Il gorilla mugolò e tese l’indice destro verso i ragazzi.

«Ehi, ehi, ehi! Che fai? Giù le mani!» esclamò Sam.

Lo scimmione lo ignorò e li scostò tutti e tre con una delicatezza inaspettata, per poi accarezzare i capelli di Laura col polpastrello. La ragazza ebbe i brividi e i suoi amici con lei, soprattutto Jack; ma non era una sensazione sgradevole. Al contrario: dopo un po’, iniziò a sentirsi al sicuro. Poi, piano piano, ebbe la certezza che quel bestione non le avrebbe mai fatto del male. Lo avvertiva nel suo tocco gentile. Lo leggeva nei suoi occhi ambrati.

«Che sta facendo?» mormorò Jack.

Nessuno gli rispose. A poco a poco, il cuore di Laura si placò e il terrore svanì. Si sentì di nuovo libera di muoversi e la prima cosa che fece, senza nemmeno pensarci, fu alzare il braccio e strofinare il polpastrello rugoso di Kong, come per ricambiare la “carezza”. Lo scimmione fece un grugnito amichevole e Laura, d’istinto, gli sorrise. Kong ricambiò il sorriso e Laura sentì un intenso brusio dietro di sé. Si voltò e vide la folla accalcata con timore tra gli edifici. Tutti i presenti la osservavano con incredulità e meraviglia. Un altro grugnito di Kong richiamò la sua attenzione e, quando si girò, lo scimmione le rivolse un mugolio felice. Dopo una breve esitazione, Laura gli rispose:

«Piacere di conoscerti, Kong»

Con un altro borbottio, il gorilla si portò una mano al petto, come se stesse ricambiando. La fissò ancora per un po’, prima di voltarle le spalle e attraversare di nuovo il lago. Una volta sull’altra sponda, si scrollò l’acqua di dosso e rimase vicino ai due bracieri per asciugarsi più in fretta, dopodiché salì sulla collina e scomparve nell’oscurità. Il brusio diventò ancora più forte. Laura guardò i suoi amici e provò a dire qualcosa, ma non riuscì a fare altro che farfugliare. Anche loro erano senza parole. La prima a sbloccarsi fu Chloe:

«Laura, è stato incredibile!»

«Altro che incredibile! Hai filmato tutto, vero?» le chiese Sam.

«Certo! Si scaricherà la batteria molto presto, ma almeno questo l’abbiamo immortalato!»

Helena e Rockwell si riavvicinarono, sbalorditi. Edmund era a dir poco disorientato:

«Tutto mi sarei aspettato, tranne un comportamento del genere da Kong. Come si può spiegare? A cos’è dovuto un interesse così spiccato per una straniera? I tuoi tratti somatici gli sono sembrati particolari?»

Helena scosse la testa:

«Credo che ci sia qualcosa di molto più profondo sotto, Edmund. Hai visto il suo sguardo? Era commosso!»

«Stranieri?»

Quella era la voce del capotribù. I ragazzi si voltarono e videro Omleilgug davanti alla folla. Il suo sguardo era spiritato, come se avesse avuto una rivelazione. Si avvicinò a Laura e, con voce tremante, le chiese se poteva parlarle.

«Ehm… certo?» rispose, incerta.

Omleilgug le fece cenno di seguirla e la portò dietro la serra, lontano dalla folla. Con un’espressione allibita, le poggiò le mani sulle spalle e le guardò gli occhi:

«Stasera ho assistito al più grande miracolo della mia vita. Il re di ARK ha visto qualcosa in te, qualcosa che l’ha scosso nel profondo. Non l’ho mai visto aprire il suo cuore in quel modo con nessuna creatura o persona»

«Davvero?»

«Questo evento è straordinario. E può significare solo una cosa. Se il protettore stesso della nostra isola ti ha giudicata così speciale, vuol dire per forza che Colei che Veglia ti ha benedetta. E la dea fa sempre tutto per il bene dell’isola. Ora capisco: ho fatto male a diffidare delle vostre intenzioni. La dea mi ha mandato un segno per farmelo capire!»

Laura aveva un buon presentimento. Con un sorriso entusiasta, gli chiese:

«Allora ci dirai come trovare i manufatti?»

Omleilgug annuì, serio:

«Esatto. E farò anche sapere ai capi delle altre tribù che possono fidarsi di voi, se doveste chiedere aiuto anche a loro. Ora ascoltami bene: ho messo il mio manufatto in un forziere di cui custodisco la chiave. E questo forziere è nascosto in un anfratto nella roccia del laghetto delle lontre, nel cuore del Bosco Semprinfiore. Prometti che lo farai sapere solo ai tuoi compagni?»

«Certo, ha la mia parola»

«Molto bene. Vi consegnerò la chiave del forziere domattina. Che la dea vegli su di voi»

Detto questo, Omleilgug tornò indietro e annunciò qualcosa in arkiano, quindi la folla si calmò e iniziò a disperdersi. Laura, invece, fu raggiunta di corsa dai suoi amici.

«Cosa ti ha detto?» chiese Chloe, trepidante.

Laura le sorrise:

«Sai, alla fine la superstizione ha giocato a nostro favore. Sappiamo dove cercare un manufatto!»

Chloe, Sam e Jack esultarono e i quattro ragazzi si abbracciarono con forza: finalmente, il loro viaggio poteva iniziare sul serio. L’indomani, li attendeva la prima tappa della loro ricerca, al Bosco Semprinfiore.

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Capitolo 10
*** Prime scoperte, nuove svolte (storia vecchia) ***


Sulla cima di un’altura, a poche centinaia di metri dal “Partenone”, l’uomo con la bombetta e il suo cappello robotico osservavano insieme la scena dei ragazzi che indagavano. Mike, seduto comodamente sul sedile del girocottero, guardava dalle lenti regolabili da binocolo che DOR-15 aveva incorporate, così come molti altri dispositivi all’avanguardia. Il creatore di Doris l’aveva progettata per essere l’attrezzo definitivo e, senza dubbio, era riuscito nel suo intento. Era un vero peccato che non l’avesse mai brevettata e fatta produrre in serie. Intanto, sgranocchiava ancora delle arachidi dal sacchetto di juta che aveva ricevuto alla taverna delle Frecce Dorate come ringraziamento per aver regalato all’oste un coltellino svizzero, un oggetto dal mondo esterno che, giustamente, erano viste come dei souvenir di lusso su ARK. Quella era stata una versione un po’ “lecita” della famosa truffa “zaino in spalla”.

«Ecco! Stanno osservando le colonnine! Forse pensano che serva a qualcosa… ingegnosi, i bambocci! Tu che ne pensi, Doris?»

«Reputo che sia preferibile aspettare un risultato per esprimere un giudizio personale»

«Per la miseria, lasciati andare qualche volta, Doris! Su con la vita!»

«Per definizione, io non sono viva. Sono semplicemente fornita di un’intelligenza artificiale abbastanza sofisticata da permettermi di ragionare e comportarmi come un organismo, ma sono comunque una macchina»

«Oh, non fare così, ti sottovaluti!»

«Sei consigliato di non deconcentrarti e rimanere in osservazione dei quattro soggetti»

«Ah, giusto! Allora… vedo che… ah, stanno prendendo appunti! Non mi dire che stanno traducendo quegli strambi scarabocchi che vedo sulle colonnine! Ah, be’, tanto meglio per noi, che ci risparmiamo la fatica!»

«Sei pregato di aspettare… sto rilevando una minaccia in avvicinamento» lo avvertì Doris.

«Minaccia?! Dov’è? Dov'è?! Dimmelo!»

«I miei sensori rilevano dei movimenti potenzialmente pericolosi alle nostre spalle»

«Maledizione! È un T-Rex? Uno di quelli piccoli ma intelligentissimi che corrono qua e là come saette? Un insetto gigante succhia-sangue?»

«Non sono in grado di identificare la minaccia senza una scansione ai raggi X o genetica»

«Ah, ma perché me ne sbatto? Scappiamo!» e accese il girocottero, che iniziò a sollevare un gran polverone e a provocare un intenso frastuono.

«Purtroppo non abbiamo tempo per attivare l’autogiro e decollare: la minaccia arriverebbe prima che ci riusciamo»

«Allora… cosa suggerisci?»

«Tentare la fuga a piedi»

«E il girocottero?»

Prima che Doris potesse rispondere, sentirono dei passi fragorosi e un assordante ruggito. Poi, all’improvviso, dalla boscaglia emerse una creatura alta una decina di metri, con una folta e ispida pelliccia, nera come la sua pelle. Aveva un muso per metà umano e per metà bestiale, con due occhi porcini e zanne giallo avorio. Camminava sulle nocche e, dove non c’era pelliccia, si vedevano innumerevoli ferite e cicatrici. Quell’animale era molto simile ad un gorilla. Anzi, era un gorilla. L’unico dettaglio eccezionale erano le dimensioni. E ora, il gorilla gigante stava osservando con sguardo estremamente irritato il girocottero di Mike e Doris. Quello era Kong, il re di ARK.

«King Kong? Perché su quest’isola c’è King Kong? C’è anche lui nel tema “dinosauri”?»

Mike, nonostante la gravità della situazione, fu capace di reagire con questo commento intriso di sarcasmo.

«Ehi, un momento… ah, che smemorato che sono! Lo dicevano anche i diari!» disse poi.

Kong, il guardiano di ARK, aveva cambiato il proprio percorso perché aveva fiutato Mike e, essendo la sua una traccia odorosa insolita, aveva deciso di andare a controllare. E, nel momento in cui l’uomo con la bombetta aveva acceso il girocottero, il rumore delle eliche l’aveva infastidito oltre il limite della sua pazienza. Quindi, come prima cosa, emise un altro breve grido e si precipitò verso il piccolo velivolo. Mike si buttò di lato appena in tempo per non essere travolto, mentre Doris preferì alzarsi in volo. Il primate sollevò entrambe le braccia, stringendo i pugni, e li abbatté sul girocottero, sfasciandolo completamente.

«Nooooo! Il girocottero no! Perché?! Ci abbiamo passato così tante avventure da ladri onesti! Nooooo…» si lamentò Mike, quasi piangendo.

Sentendo la sua voce, il Megapiteco si voltò di scatto, ancora irritato. I due si osservarono, poi Kong cominciò ad avvicinarglisi con aria spaventosamente interessata. Terrorizzato, Mike si distese prono e si coprì la testa. Doris osservava dall’alto, calcolando quali fossero tutte le possibili soluzioni al problema, finché era arginabile. Mike sentì due grosse dita ruvide fare pressione sulla sua schiena scheletrica. Il gorilla lo sollevò in aria, stringendo un lembo della giacca, da cui lui pendeva come un sacco di patate. Mike, che fino a quel momento aveva tenuto gli occhi chiusi, osò guardare e la prima cosa che vide furono le narici dell’enorme gorilla che si stringevano e dilatavano: lo stava annusando. E, a quanto pare, anche alle scimmie non piaceva molto l’odore di un ladruncolo di strada che non vedeva l’ombra di una doccia da tempo immemore. Infatti, il Megapiteco gli urlò addosso, bagnandolo di una saliva schiumosa che odorava di frutta e foglie, ma anche di carne. Subito dopo… lo scagliò giù dall’altura, per poi tornare nella foresta con tranquillità. Doris, senza perdere tempo, iniziò a sfrecciare alla velocità della luce verso il suo proprietario. Mike cadeva strillando come una donnicciola. L’aria gli sferzava la faccia, emettendo uno strano fischio quando passava per i suoi baffi. E, quando il suolo fu a soli cinque metri da lui, si fermò. Doris l’aveva afferrato con le braccia meccaniche, dimostrando una notevole forza. Quando fu poggiato delicatamente al terreno, la mandibola e le mani gli tremavano.

«E adesso cosa facciamo, Doris? La situazione è crollata… anzi, no, si è polverizzata! È in frantumi come… come il nostro povero girocottero! Che riposi in rottami… e ci siamo persi la soluzione agli enigmi per trovare il Tesoro!»

«In realtà, ci sono molte altre soluzioni alternative. La popolazione nativa ci sarebbe ostile solo in caso manifestassimo le nostre vere intenzioni. Per il resto, possiamo ancora agire liberamente»

«E… allora?»

«Possiamo provare a raggiungere vivi l’insediamento più vicino, dove tu potrai chiedere di farti insegnare a cavalcare creature addomesticate, in modo da poterti procurare in seguito un volatile che ricopra il ruolo del nostro autogiro. Dopo, potremo riprendere le ricerche»

«È vero! Perché non ci ho pensato?»

«Inoltre, è probabile che i soggetti abbiano ormai appreso come trovare il Tesoro. Anziché continuare ad osservarli da lontano, potremmo prelevarli e obbligarli a rivelarci quello che sanno. Così facendo, non avremo più forme di concorrenza e non dovremo più cercare il nostro obiettivo temendo che qualcuno lo raggiunga prima di noi»

«Accidenti, hai proprio ragione! Sei il cappello più geniale del mondo! Il successo è ancora alla nostra portata, dobbiamo solamente prendere quei quattro ragazzi e fargli sputare il rospo! Muhuhuhuhuhuhuhahahahahahaha!»

Dunque, Mike prese la sua lista delle cose da fare dalla tasca interna e aggiunse un nuovo punto:

COSE DA FARE

  1. Raccogliere più informazioni

  2. Tenere d’occhio i quattro allocchi

  3. Prendere le coordinate dell’isola

  4. Prendere il Tesoro

  5. Diventare ricco e famoso!!!

 
3+) Ritentare con le maledette coordinate
3++) Prendere quei dannati bambocci


“Ah, quanto mi piacciono le liste!” pensò.

Ma poi gli venne da chiedersi come avrebbe fatto a raggiungere un insediamento arkiano senza essere sbranato da qualche bestia prima. La risposta gli apparve a qualche centinaio di metri di distanza: in quel momento, stava passando un diplodoco con dei sedili pieni di gente sulla schiena. Era chiaro che quello era una sorta di “autobus primordiale”. Stava per chiedere a Doris se lo vedeva, ma notò che la bombetta era andata in stand by sulla sua testa. Così, semplicemente, cominciò a correre verso il diplodoco e a chiamare a gran voce finché non lo sentirono.

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Acceber, prima di tornare dai ragazzi, controllò ancora e tirò un sospiro di sollievo quando scoprì che il Megapiteco non stava più andando verso di loro. Da quel che si poteva capire osservando l’ambiente, lo scimmione aveva bruscamente svoltato a destra ed era sparito nella foresta. Quando raggiunse i ragazzi, Laura le porse un biglietto, chiedendole se poteva tradurre il messaggio. Molto ingenuamente, Acceber chiese cosa fosse e Jack spiegò di aver capito che i segni sulle colonne seguivano uno schema in uso nel mondo esterno e, dopo che li aveva convertiti in lettere, era venuto fuori quel messaggio strano. Lei lesse attentamente, poi iniziò a tradurre oralmente senza la minima difficoltà. Le incisioni lasciate dai Pre-Arkiani dicevano:

Sappi, audace e incosciente che vuole scoprire la culla dell’isola, alla quale tutte le sue creature devono tutto, che per riuscire nel tuo intento devi ruotare questo piedistallo e tutti i suoi fratelli dopo aver posato su di essi le chiavi in ossidiana. Quando avrai fatto questo, ti sarà indicata la meta. Buona fortuna!

«Questo messaggio ha un non so che di teatrale» commentò Sam, ridacchiando.

«Dunque dobbiamo mettere il nostro manufatto sul piedistallo e… ruotarlo?» si domandò Laura, mentre lo faceva.

Tutti si radunarono subito intorno al piedistallo per vedere cosa sarebbe successo. Laura, poggiato il Manufatto del Furbo nell’incavo, continuò a premere verso il basso e provò a farlo ruotare in senso antiorario. Niente. Riprovò nel senso opposto… e il suolo vibrò. Tutti, spaventati, indietreggiarono. L’intero piedistallo cominciò a girare lentamente su se stesso in senso orario e tutto il pavimento all’interno del cerchio formato dalle colonne sprofondò con la stessa lentezza, sotto gli sguardi meravigliati dei presenti. In pochi secondi, si formò un buco cilindrico con al centro una colonna a cui il piedistallo fungeva da cima. E… basta.

«È stato fantastico! Ma… tutto qui?» disse Acceber, di nuovo euforica.

«A quanto pare… se è così, non dobbiamo fare altro che passare di villaggio in villaggio, di manufatto in manufatto e di piedistallo in piedistallo finché, infine, non ci sarà rivelato dove si trova il Tesoro! Il problema maggiore, a questo punto, sono i rischi del viaggio» suppose Laura.

«Già, ma per fortuna abbiamo una brava guida!» esclamò bonariamente Sam, andando da Acceber e dandole una pacca sulla spalla.

«Oh, grazie!» ringraziò Acceber, rispondendo con una pacca ancora più energica.

«Ehi, aspettate… qualcosa si sta aprendo, là sotto!» li avvertì Chloe.

Ed era vero: sul fondo del pilastro che dal piedistallo scendeva nello spazio cilindrico che si era formato, si era aperta una nicchia. E, dentro quella nicchia, c’era qualcosa. Sam si offrì di andare a vedere. Quindi, con un balzo, il ragazzo coi capelli rossi si calò nel fosso e prese l’oggetto misterioso.

«Cos’è?» gli chiese Laura.

«È come una piccola lastra di pietra, ma sopra ha dei... sì, sono tasselli, come quelli di un mosaico!»

Risalì e lo fece vedere a tutti. Come aveva già detto, era una sottile lastra di pietra levigata rettangolare, ricoperta di tasselli colorati. C’era da chiedersi come diamine avessero fatto a non scolorirsi, essendo rimasti nascosti in una nicchia sigillata per più di seimila anni, ma ormai era chiaro a tutti che, in un posto come ARK, era meglio non farsi domande. Non si capiva molto di cosa fosse raffigurato nel mosaico. Ma, osservando attentamente, Laura intuì che potesse essere il pezzo di un paesaggio: in basso a sinistra era tutto verde, sulla destra c’era un’area grigia a forma di triangolo rettangolo e, per il resto, uno sfondo blu.

«Forse è un mosaico – ipotizzò – Magari il messaggio in codice intende dire che per ciascun piedistallo che “attiviamo” col relativo manufatto, ci verrà dato un pezzo del mosaico, fino a completare il disegno. Quello
dev’essere l’indizio finale per il Tesoro!»

«Sai che questo ragionamento fila?» rispose Jack.

«Be’, allora che aspettiamo a continuare?» chiese Chloe.

Laura controllò la mappa con le indicazioni lasciate da Yasnet: la comunità più vicina era l’insediamento secondario delle Frecce Dorate, su un’isolotto in un fiordo.

“Ah, dove Helena e gli altri si trovavano quando l’ho sentita l’ultima volta! – pensò – Infine, non siamo riusciti ad incontrarci qui. Magari li incrociamo strada facendo… non vedo l’ora di averli insieme a noi: mi sentirò molto più sicura! Anche Acceber dovrebbe essere felice di stare con altri stranieri, vedendo com’è”.

E, pieni di entusiasmo e con una pista sempre più chiara da seguire, ripartirono.

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Helena Walker aveva quasi dimenticato come fosse cavalcare un dinosauro. Ovviamente, ricordava benissimo che le piaceva tantissimo volare con Atena, l’argentavis che Edmund le aveva regalato per aiutarla ad esplorare l’isola, due anni prima. Tuttavia, non aveva più in mente la sensazione in sé. Questo l’aveva fatta sentire doppiamente felice, quando Mei si era presentata con quattro velociraptor appena domati solo per loro. Anche la guerriera cinese lo era: glielo si leggeva in faccia. Mei-Yin assumeva un’espressione diversa dallo sguardo gelido e serio che la contraddistingueva solo in due occasioni: quando era furiosa e quando era soddisfatta. Per il resto, era impossibile riuscire a capire cosa provasse in un momento qualsiasi.

Inoltre, prima che partissero, Rockwell aveva provato a prendere il Manufatto dell'Immune da Aisirk Aiccerfatarod, la sorella di Yasnet, che era alla guida di quell’avamposto. Sosteneva che era stato un poco difficile convincerla, ma che alla fine aveva comunque ottenuto quel manufatto “destreggiandosi verbalmente fra gli argomenti giusti”. Le tattiche diplomatiche tipiche di Rockwell: le usava sempre e dovunque, usando la sua carriera di farmacista per fare esercizio. Sicuramente, quel tratto era un’eredità del suo secolo d’origine.

Era circa un paio d’ore che attraversavano la foresta al trotto, se così si poteva definire l’andatura media dei velociraptor. Mei apriva la fila, sempre entusiasta all’idea di poter relamare ancora il suo posto sull’isola come Regina delle Bestie, anche se relativamente per poco. Nerva stava dietro, Helena e Rockwell stavano in mezzo. Prima di partire, avevano avuto anche la premura di acquistare delle armi, per difendersi in caso avessero fatto incontri pericolosi. Tutti e quattro avevano preso una balestra e una faretra piena di frecce piumate, le frecce di miglior qualità su ARK, che erano decorate con penne e piume per essere riconosciute. Poi, Nerva e Mei avevano preso delle spade, essendoci abituati, mentre Helena e Rockwell si erano accontentati di due coltelli da sopravvivenza.

«Ehi, mi è venuta in mente una piccola cosa, giusto per sfizio!» disse Helena ad un certo punto, per rompere il silenzio.

«Dicci» le rispose Mei.

«È abbastanza triste tenere le nostre nuove bestiole anonime, specialmente se dovessimo affezionarci a loro. Che ne dite di suggerire dei nomi?» suggerì la biologa.

«Perché no? Del resto, l’avevo fatto anch’io, anche se su consiglio di Ellebasi» commentò Rockwell.

«D’accordo! Allora comincio io. Fatemici pensare… be’, credo che andrò sul classico: visto che questo è un animale veloce, lo chiamerò Usain, come Bolt. Ricordate di quando vi ho parlato dell’atleta più veloce del mondo, no? Sapete, il Jamaicano»

«Sì, sì» risposero gli altri.

«Il mio vecchio argentavis si chiamava Archimede, quindi penso di voler dare il nome di un genio classico anche a questo velociraptor – rimuginò Rockwell – Dunque… siccome sono un medico, lo chiamerò Ippocrate»

Gaius, siccome il suo velociraptor aveva la pelle bianca e i ciuffi di piume sul verde acqua ed era femmina, decise di chiamarlo Alba (dal latino albus, che vuol dire “bianco”).

Quanto a Mei, Helena sapeva già che avrebbe tirato fuori uno dei bizzarri nomi orientali per i quali il suo vecchio contingente di creature era diventato così popolare su tutta l’isola. E aveva ragione. Però, anche Mei scelse il nome in base ai colori: infatti la chiamò Hei, che in mandarino significa “nero”, essendo la sua bestia color pece con le piume grige.

Mezz’ora dopo, finalmente, anche loro raggiunsero la collina del “Partenone” e iniziarono a scalarla, in cerca dei ragazzi.

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Drof Ydorb non ricordava quasi niente di quello che era successo dopo lo scontro con suo figlio. Aveva marciato con le creature superstiti verso la foresta di sequoie, sforzandosi di sopportare il dolore alla spalla. Ma le fitte non facevano che diventare più insistenti: ogni volta che Onracoel faceva un passo, era come se qualcuno gli avesse ficcato due dita nel buco scavato dal proiettile. Aveva fasciato la ferita con quel poco che aveva, ma la spalla non è il braccio o la gamba: è abbastanza difficile trattenere una perdita di sangue da quel punto, specialmente per uno che conosceva solo i trattamenti basilari della sopravvivenza. Più sangue sgorgava, più le sue forze diminuivano. A un certo punto gli si era offuscata la vista: non riusciva più a distinguere le sagome di alberi e rocce. Poi, gli era venuto sonno. Alla fine, il poveraccio aveva ceduto ed era caduto dal dorso del suo carnotauro.

Ma, dopo un lasso di tempo che non riusciva a stimare per lo stordimento, si era svegliato su un letto, in una stanza con le pareti in pietra cosparse di un liquido trasparente, cosa che poteva capire dai riflessi creati dalle lampade ad olio appese al soffitto, che evidenziavano i contorni delle chiazze bagnate, e piena di scaffali, ciascuno dei quali etichettato e riposto in vari scompartimenti. Quando acquisì più lucidità, immaginò di essere finalmente arrivato alla clinica di Ellebasi Iderap, presso gli Alberi Eterni. Non aveva idea di come ci fosse mai arrivato, ma ne fu comunque contento. Sollevò la testa e vide che adesso la sua ferita era stata fasciata molto più professionalmente; ma anche le nuove bende erano inzuppate di sangue. Girò la testa verso sinistra e vide, su un tavolino, dei rudimentali attrezzi chirurgici in metallo, anch’essi evidentemente cosparsi di quel liquido. A quel punto, intuì che era un disinfettante. Forse bile di ammonite, o magari muco di acatina. Inoltre, appeso ad uno dei muri, era appeso il ritratto, tinto col succo di varie bacche, di Ellebasi e il dottor Edmund Rockwell insieme in uno studiolo. Lui era raffigurato seduto ad una scrivania, intento a sezionare e studiare fiori e germogli, mentre lei guardava incuriosita quello che stava facendo il medico.

In quel momento, la porta in legno rinforzato della stanza si aprì ed apparve la donna che l’aveva salvato. Ellebasi era una donna sulla quarantina, sul cui viso si erano già formate le prime rughe. I suoi capelli brizzolati erano raccolti con grandissima cura e le mani erano cosparse del liquido disinfettante.

«Finalmente ti sei svegliato, Ydorb! Quando ti hanno portato qui ho pensato che non sarei riuscita a salvarti, lo sai? Ma sei stato più forte del previsto. Tipico delle Frecce Dorate!»

«Da quanto sono qui?»

«Dieci ore. Tre cacciatori ti hanno trovato perché hanno sentito i versi di varie creature, le tue. Ti hanno trovato in fin di vita e ti hanno portato da me»

«Dov’è il mio carnotauro? E le altre bestie?»

«Nella stalla comune. È stata una bella sfida rimovere quella pallottola dalla tua spalla: era andata bene in fondo! Chi ti ha sparato, comunque?»

Drof non sapeva se era pronto a rispondere. Sospirò e, con sforzo e dolore, si mise seduto e si stirò le gambe.

«Hai presente il Ladro di Innesti?»

«E chi non l'ha presente?»

«Be’… è mio figlio»

Ellebasi sbarrò gli occhi:

«Come?!»

«Già. Mio figlio, un mostro che speravo fosse morto otto anni fa, è il sadico assassino che ruba gli innesti alla gente»

«Per gli spiriti… perché si comporta così?»

«Non ne sono del tutto certo, ma credo che sia impazzito il giorno in cui dovette assistere alla… dipartita di sua madre»

«Capisco. È rimasto traumatizzato e, come conseguenza, ha sviluppato gusto per la morte altrui. Rockwell mi ha spiegato qualcosa di simile, due anni fa»

«E ora vuole uccidere sua sorella Acceber. So già che quel brutto bastardo non si fermerà davanti a niente per riuscirci. Ma giuro sul mio spirito che lo fermerò! Non sarò mai in pace finché Gnul-Iat minaccia la mia meravigliosa figlia! Dov’è la mia attrezzatura?»

Balzò giù dal letto e si apprestò ad uscire, ma Ellebasi lo trattenne:

«Altolà! Dove penseresti di andare, Ydorb? Finché la tua spalla non sarà guarita del tutto, non ti azzardare ad uscire da questo villaggio!»

«Ma devo avvertire mia figlia e cercare Gnul-Iat per sbarazzarmi di lu! È il mio dovere!»

«Puoi sempre inviarle una lettera, per farle sapere di te e di suo fratello! Hai qualcosa che le appartiene per farla rintracciare, no?»

«Ma certo!»

«Allora fai così! Ma non uscire ancora da questo villaggio. È per il tuo e il suo bene, Ydorb. Se vuoi davvero renderti utile, ascolta me!»

Drof era fortemente combattuto. Era difficile accettare la verità e non ribattere. Ma alla fine riuscì a tenere i nervi saldi e decise di obbedire. Quindi, dopo aver “incaricato” Ellebasi di spargere la voce per mezzo dei pazienti che le si sarebbero presentati a venire, uscì dalla farmacia. Il villaggio degli Alberi Eterni era costruito per la maggior parte sulle piattaforme ad anello ancorate alle sequoie giganti e l’ufficio postale non faceva eccezione. Drof, dopo aver attraversato un paio di ponti tibetani, ci entrò e chiese se c’erano dei tavoli liberi per la stesura di una lettera. Gliene fu indicato uno in un angolo. Dunque ci si sedette, prese la carta e lo stilo che erano già lì, pronti per l’uso, e riassunse tutta la sua vicenda a partire dalla battaglia sulla spiaggia, per poi spiegare che lui avrebbe dovuto attendere qualche tempo per via della riabilitazione. Finito di scrivere, arrotolò il foglio e lo legò con un filo di spago. Poi andò alla voliera dei dimorfodonti viaggiatori, usati per trasportare la posta per tutta ARK. C’era da ringraziare per il giorno in cui un impiegato portoghese dal 1980 aveva insegnato il servizio postale agli Arkiani. Drof avvicinò un dimorfodonte che si lisciava le piume con tranquillità e gli fece annusare una ciocca di capelli di sua figlia, in modo che il piccolo pterosauro sapesse rintracciare la destinataria. Il dimorfodonte strillò, prese la lettera e volò fuori dalla finestra.

“Non abbassare mai la guardia, figlia!” pensò Drof.

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Capitolo 11
*** Ricongiungimento (storia vecchia) ***


Acceber e i ragazzi erano finalmente scesi dalla collina del “Partenone” ed erano rientrati nella foresta, dirigendosi verso la strada battuta più vicina per rientrare nella zona sicura. Ora si erano fermati ad un torrente per fare scorta d’acqua: ognuno, strigendo la propria borraccia, stava chino sulla riva e la teneva sommersa perché si riempisse rapidamente. Rexar, intanto, beveva avidamente con degli scattanti guizzi della lingua e, ogni tanto, si distraeva a guardare i pesci, valutando se era il caso di provare ad afferrarne uno con una zampata.

«A proposito, gran bel lavoro con quel messaggio in codice, Jack!» si complimentò Laura, sentendosi in dovere di dare una spinta all’autostima latente dell’amico.

«Grazie! E pensare che imparare il codice binario era l’attività che trovavo più impegnativa all’università. Be’, almeno sono servito a qualcosa in questo viaggio: al di fuori dei numeri sono buono a niente» rispose tristemente lui.

«Ah, avrei scommesso che avrebbe attaccato con la depressione cronica!» commentò Chloe, alzando gli occhi al cielo, ma con fare sarcastico.

«Il nostro Einstein biondo si deprime troppo! – esclamò ironicamente Sam, alzandosi e andando a dargli una manata che avrebbe fatto male ad un toro – È vero che sei una mammola, infatti non sai resistere in bici neanche per mezzo metro, ma almeno sei quello che ha materia grigia per tutti e quattro!»

«Ahia! Che fai?! Così mi sfondi la schiena!» si lamentò Jack, massaggiandosi le spalle.

«Cos’è una bici?» chiese Acceber, incuriosita.

«È un mezzo di trasporto a pedali che si usa quasi dovunque nel mondo. Ma di solito solo i meno pigri o i più poveri si spostano con quella» spiegò in breve Chloe.

«A me sembra figo!» disse l’Arkiana, sorridendo.

«Credimi, Acceber: gli animali che si cavalcano qui su ARK sono molto più emozionanti!» rispose Laura, con sincera commozione.

«Ormai avete capito come sono io: qualunque cosa riguardi il mondo esterno mi sembra il massimo che si può immaginare, da quando ho conosciuto…» si bloccò e si fermò, senza motivo: sembrava che fosse diventata una statua di cera.

«Da quando hai conosciuto… chi?» chiese Sam, che aveva ancora voglia di parlare.

«Zitti! Ascoltate bene…» replicò Acceber. Perfino Rexar, ora, si era messo nuovamete in allerta.

I ragazzi sbiancarono, terrorizzati all’idea che un predatore di sorta si stesse avvicinando silenzosamente: ripensare all’infernale notte in cui avevano affrontato i troodonti li faceva ancora rabbrividire.

«Cosa c’è?» osò domandare Jack, a bassa voce.

«Non sentite delle… voci? Non sono Arkiani, sono stranieri come voi»

«Come hai fatto a sentirli? Io non me ne sarei mai accorto!» chiese Sam, sollevato dalla notizia che si trattava di persone e non di carnivori.

«Anni di pratica di caccia» rispose Acceber, con una punta di orgoglio.

Comunque, tutti si zittirono e stettero in ascolto: finalmente, anche i ragazzi cominciarono a sentire delle voci. Voci che parlavano nella loro lingua. Voci che si stavano avvicinando. Voci che riconobbero.

«Sono Helena e gli altri! – esclamò Laura, raggiante – Acceber, sono i nostri contatti!»

«Quelli con cui parli sempre con quel congegno con un’antenna e dei numeri sopra?»

«Sì, loro! Forza, aiutaci a raggiungerli! Credo che ti piaceranno, inoltre»

Così, si incamminarono in direzione delle voci, facendosi strada fra cespugli e ceppi.

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Helena stava parlando ai suoi amici di qualcosa che la divertiva sempre, nell’ambito della sua carriera da biologa: gli animali poco conosciuti. Puntava sempre su quelli più strani e misteriosi in assoluto, nel tentativo di impressionare anche Rockwell, che era un tipo a cui serviva vedere cose al di là dello straordinario per rimanere senza parole. I quattro non si facevano problemi a conversare ad alta voce, perché sapevano che se si fosse avvicinata una minaccia, i velociraptor si sarebbero agitati e ora i quattro rettili procedevano tranquilli.

«Allora, questo vi soprenderà: vi dice niente il nome “verme bobbitt”?» chiese.

«Assolutamente no» risposero gli altri.

«È un verme marino che si nasconde sotto la sabbia e afferra di scatto i pesci quando gli passano sotto. Li trascina nella sua tana e… be’, nessuno sa esattamente come li mangia. A dire la verità, le sue mandibole sono così affilate che, spesso, invece di afferrarli li taglia in due»

«Fa quasi paura» commentò Nerva.

«Qual è il nome scientifico?» chiese Rockwell

«Eunice aphroditois. È bruttissimo, però quando il suo esoscheletro è allo scoperto fa un bel riflesso colorato»

«Quanto è grosso?» le domandò Mei.

«Più che altro è lungo. Siccome dalla sabbia emerge solo la testa, sembra minuscolo, ma in realtà misura tre metri»

«Il nome è ridicolo. Perché l’hanno battezzato così?» fu la nuova domanda di Edmund.

«Il biologo marino che l’ha scoperto circa un decennio fa l’ha chiamato “bobbitt” perché gli ricordava un caso giuridico di quel periodo. Questo verme taglia in due le prede, dunque a lui è venuta in mente Lorena Bobbitt, una psicopatica statunitense che aveva… ehm…»

«Cosa?»

«Tagliato la pannocchia del marito e l’aveva gettato in un campo di notte. Ecco, l’ho detto!»

Tutti la guardarono con aria sconvolta.

«Devo dire che non sentivo niente di così scandaloso da quando…» iniziò Rockwell, ma si interruppe quando sentirono delle voci che li chiamavano a gran voce.

«Ehi, siamo noi! Di qua!»

Poco dopo, dal fogliame apparvero i quattro ragazzi, accompagnati da un’Arkiana ancora più giovane di loro che cavalcava un tilacoleo.

«Ragazzi! Finalmente ci ritroviamo!» esclamò Helena, balzando giù da Usain. Anche i suoi amici scesero dalle cavalcature e li raggiunsero.

«Vedo che siete ancora tutti d’un pezzo, mi fa piacere!» commentò Helena.

«Il merito è della nostra fantastica guida! Vi presento Acceber»

Acceber, dal canto suo, era nel pieno di uno dei suoi momenti di euforia pura e si stava già presentando:

«Piacere di conoscervi, nuovi stranieri! Ogni tanto Laura ha parlato di voi, non vedevo l’ora di incontrarvi! Tu chi sei?»

«Helena Walker e piacere mio»

«E… un momento, ma tu sei…»

«Sì, il dottor Edmund Rockwell. Qui la mia fama mi precede, ormai. Incantato, giovinetta»

«Non ho mai avuto bisogno di farmi visitare da te, per fortuna, però tutti non facevano che nominare te e le tue medicine! Adesso si fa la stessa cosa con la tua assistente, anche se non così tanto. È fantastico vederti di persona!»

«Ehi, sembra che abbiamo trovato la tua ammiratrice numero uno, Edmy!» lo punzecchiò Helena, trattenendo le risate a fatica.

«Non chiamarmi Edmy! È orrendo!»

Acceber passò a Mei. La fissò un attimo, senza dire niente, poi sembrò intuire chi fosse:

«Un momento… pelle giallognola… occhi a mandorla… sguardo da brividi…»

A dire la verità, in quel momento Mei non aveva affatto uno sguardo da brividi. Anzi, era in imbarazzo e non riusciva a nasconderlo: quella specie di analisi la metteva a disagio. Le sue guance stavano diventando rosse.

«Oh, dèi! Sei la Regina delle Bestie? Intendo… sei veramente lei?!»

«Sì» fu la laconica risposta.

«Accidenti, uno dei miei più grandi sogni fatti realtà! Posso farti una domanda? Quando eri sull’isola volevo fartela così tanto…»

I ragazzi, intanto, si stavano divertendo un mondo a guardare l’allegria briosa di Acceber che travolgeva gli autori dei diari come un fiume in piena.

«Ehm… sì, perché non dovresti?» rispose timidamente Mei.

«Qual è il numero massimo di bestie che hai avuto? Voglio assolutamente diventare una domatrice grandiosa come te, un giorno!»

Mei rifletté qualche secondo, poi rispose:

«Non ne sono più sicura, ma credo di essere arrivata a sessantasette animali, fra quelli da battaglia a quelli da soma. Ma non hai bisogno di usarmi come esempio, ragazzina! Io cercavo solo di sopravvivere, e senza disturbare la tua gente»

«Sessantasette?! Presi da sola?!»

«Sì»

«Sei così mitica!»

Acceber le si gettò addosso e la abbracciò per dei lunghissimi secondi, facendo aumentare smisuratamente l’imbarazzo di Mei. Tutti, ormai, morivano dal ridere, anche Rockwell. A quel punto, Acceber passò a Nerva, che stava mentalmente supplicando tutti gli dèi del suo panthéon affinché il suo travestimento reggesse.

«Tu chi sei?»

Gaius lanciò una rapida occhiata ad Helena, ed Helena gli lanciò un’occhiata con cui lei intendeva dirgli “sii naturale”.

«Caio Giulio Cesare – rispose lui, infine – Chiamami come vuoi tu: è uguale»

«Uhm… forse preferisco Cesare. Piacere di conoscere anche te! E, gente, lui è Rexar! – continuò, indicando il tilacoleo – L’ho scelto per la mia Prova della Maturità. Non mi sono ancora fatta tatuare la sua immagine sulla pancia, ma un giorno ci riuscirò!»

«Si può accarezzare?» chiese Helena.

«Certo! È abbastanza coccoloso con la gente»

Helena, strofinò affettuosamente le guance del leone marsupiale, che in risposta la leccò, inzuppandola di bava. Dopo l’ultima, sommessa risata, Laura raccontò brevemente della scoperta che avevano fatto al Partenone. Helena ed Edmund si fecero subito attenti.

«Oddio… dopo tutto questo tempo… salta fuori che i piedistalli sono girevoli! Se l’avessimo capito allora non saremmo solo tornati a casa, ma avremmo anche scoperto il Tesoro!» fu il ragionamento allibito di Helena, alla fine del racconto.

«Chissà a quali rivoluzionarie scoperte potrebbe mai condurre il genere umano! – rimuginò Rockwell, sognante – Se solo mi fossi concentrato di più su questo argomento, due anni fa!»

«Ehi, non è colpa vostra! – li consolò Laura – Neanche noi ci saremmo arrivati, se Jack non si fosse accorto che quelle incisioni sono il codice binario! E, a proposito…voi venite dall’avamposto delle Frecce Dorate e il manufatto più vicino è là… per caso l’avete già voi? Mi dispiacerebbe se foste costretti a tornarci per seguirci…»

«Rilassati, ragazza: ho convinto il capo, la signora Anaitat, a consegnarmi il manufatto di cui è la custode. Lo chiamano “Manufatto dell’Abile”»

«Oh, meno male!»

«Allora, ragazzi, ripartiamo?» chiese Acceber.

La nuova destinazione era il monte Allics, impervia montagna rocciosa e sede della tribù delle Aquile Rosse, maestri scalatori e commercianti per via aerea. Il piedistallo per il Manufatto del Furbo si trovava al centro di una città pre-arkiana in totale rovina, su una sporgenza vicino alla vetta dell’Allics. Per arrivarci, avrebbero prima attraversato la giungla nel Sud-Est dell’isola, uno degli ambienti più selvaggi di ARK. Avrebbero raggiunto il villaggio delle Rocce Nere, la tribù locale, dove avrebbero chiesto il terzo manufatto.

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Gnul-Iat aveva mandato bestie da ricerca dappertutto: era solo questione di tempo, prima che una di loro trovasse Acceber e gli indicasse la strada. Ma, in attesa di quel momento, il figlio di Drof aveva espresso un desiderio molto chiaro:

«Oggi uccideremo un’allegra famigliola e lo faremo come solo noi siamo capaci: con stile! Ho già in mente ogni fase dell’esecuzione» disse a Sotark, con aria sognante.

Il suo socio, tenendo le proprie possenti braccia incrociate, ascoltava senza mai proferire parola e alzava gli occhi al cielo: nonostante tutto il tempo che avevano passato insieme, non si era abituato del tutto al gusto malato che Gnul provava anche solo nel premeditare la morte di una persona: quello l’aveva sempre disgustato e l’avrebbe sempre fatto. Eppure, non lo abbandonava mai: Gnul-Iat l’aveva salvato dall’ex-amante di sua moglie, quindi era in debito con lui.

«Poco distante da qui vive una coppia solitaria e la moglie è incinta. Non ho idea di quanto manchi per il moccioso, ma sicuramente poco, visto il pancione»

A sentire quello, Sotark non riuscì a trattenere una critica:

«Aspetta… hai intenzione di uccidere anche il bambino?»

«Certo. Perché? Non l’ho mai fatto con un marmocchio, così ho deciso che questa sarà la prima volta. Qualcosa in contrario?»

«Uhm… sì»

Gnul-Iat si accigliò:

«Non ti è mai sbattuto niente delle nostre vittime. Perché adesso rompi per un minuscolo ammasso di carne da macello che non è neanche venuto al mondo?»

«Niente di che, è solo che quest’idea mi pare… insensata»

Gnul lo fissò con uno sguardo per metà perplesso e per metà infuriato; poi, però, gli venne un’intuizione e rise, compiaciuto.

«Aaaaaaaaah! Ho capito! A te rode il fegato perché ti fa venire in mente che anche tu avresti potuto avere il tuo moccioso personale, se tua moglie non fosse stata una tale…»

«Non ti permettere! E comunque… sì, mi hai scoperto. È per quello»

Gnul-Iat tornò serio.

«E va bene. Sei pur sempre il mio socio, quindi ti farò questo piacere. Ucciderò subito solo lui e lei… diciamo che non ne uscirà illesa, ma potrà continuare a vivere la sua vita con il mostriciattolo e con un trauma al suo fianco. Ti va bene?»

Sotark sospirò:

«Sì, può andare»

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Odlanir Icisrep, il padrone della casa isolata nella foresta e in riva ad un torrente, uscì con un secchio di legno pieno di piccoli pezzi di ortaggi assortiti per riempire le mangiatoie del suo gregge di ovis, unito a due equus e qualche fiomia, radunato nella vasta recinzione che aveva costruito lì accanto. Aprì il cancello e, come versò il cibo nelle mangiatoie, gli animali si precipitarono per mangiare, accalcandosi e comprimendosi, rischiando quasi di investirlo. Con una serie di spintoni, riuscì a tornare fuori e si richiuse il cancello alle spalle. Si avviò per rientrare in casa, quando sentì un fischio. Proveniva dalla foresta. Per precauzione, corse di nuovo al recinto e raccolse un’accetta di metallo che usava per fare legna e si tenne pronto a difendersi contro eventuali minacce. Ma mai si sarebbe aspettato che dal fogliame sarebbe schizzato fuori un rampino che lo impalò all’addome e fuoriuscì dalla sua schiena. Qualcuno l’aveva scagliato con una balestra e l’aveva centrato. Dopodiché, quel qualcuno riavvolse il cavo, trascinando il poveraccio urlante nella foresta. Si ritrovò lungo disteso, di fronte ad un ragazzo sfregiato e ad un gigante con barba e capelli incolti.

«Ciao, deficiente – lo salutò Gnul – Ovviamente non mi conosci, ma per la cronaca sono il Ladro di Impianti. E lui è il mio socio»

«Tu… il… il… – boccheggiò Odlanir, sputando sangue – Bastardo! Mia moglie…»

«Ah, ti puoi rilassare, amico: dipendesse tutto da me, la tua donna e l’esserino che si porta in corpo sarebbero già carne morta, ma il mio socio ha il cuore tenero: mi ha convinto a lasciarli in vita. Ma non credere che non le farò niente… e adesso crepa!»

Queste furono le ciniche parole di Gnul-Iat, prima di ficcargli un sasso in bocca, afferrarlo per le caviglie e trascinarlo un po’ più in là, dove una decina di compsognati attendeva pazientemente un ordine. Gnul emise un lieve fischio indicando l’agonizzante Odlanir. I compsognati gli saltarono subito addosso e, un pezzettino di carne alla volta, iniziarono a spolparlo. Le sue grida erano attutite dal sasso e non cercava neanche di sfilarselo dalla bocca: era troppo impegnato a cercare di cacciare i compsognati, che lo trucidavano con la voracità di una bestia grande venti volte loro. Alla fine, Sotark volle porre fine alle sue sofferenze e gli infilzò il cranio con un coltello. Gnul non disse niente e, soddisfatto, prese il suo pugnale e strappò l’Impianto della Maturità dal polso di Odlanir.

«E, adesso, andiamo a salutare sua moglie!»

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Incrociarono Aizitel, la moglie di Odlanir, nello spiazzo di fronte alla casa: i rumori di prima l’avevano allarmata. Appena vide Gnul-Iat sporco di sangue e sorridente, intuì cosa poteva essere successo al marito e, urlando, si chiuse in casa. Ridendo, Gnul-Iat fischiò e chiamò un triceratopo; gli ordinò di caricare la parete della casa. Il dinosauro cornuto sbuffò, prese la rincorsa e partì. Tutta la parete crollò e l’intera casa tremò. La donna cadde a terra e si coprì la testa, temendo che qualche blocco di pietra del soffitto le cadesse in testa. Non fu così. Davanti a lei c’era un triceratopo che scuoteva la testa. Apparve un giovane sui diciotto anni che le rivolse un sorriso sadico.

«Ciao, dolcezza. Siamo in dolce attesa, eh?» ridacchiò lui.

«Stammi lontano! Cos’hai fatto a mio marito?!»

«Niente… ho solo fatto di lui uno spiedo e l’ho regalato ai miei compsognati. Tu sei stata fortunata, invece»

«Perché?»

«Perché il mio socio ha voluto che risparmiassi la cosa che hai nella pancia. Il che sta a significare che non posso ucciderti. Vorrei tanto prendere il tuo innesto, ma non credo che sia salutare per uno che è vivo. Cosa mi posso inventare? Uhm…»

Il suo sguardo cominciò a passare continuamente da una parte all’altra del corpo della donna terrorizzata. Ragionava ad alta voce per impaurirla:

«A cosa potresti rinunciare senza conseguenze? Uhm… occhi? No, troppo sangue. Naso, magari? Potrebbe essere un’idea, ma sembreresti un mostro… ho trovato! Le orecchie!»

Prese di nuovo il coltello.

«Non mi toccare!» urlò lei, mentre le si avvicinava. La stordì con una forte testata e spostò i suoi capelli dietro le orecchie.

Sotark entrò in tempo per vedere il suo socio che, segando freneticamente, tagliava le due orecchie della donna, che urlava e piangeva emettendo degli squittii fastidiosissimi. Ebbe compassione di quella poveretta.

«Hai finito?» chiese, disgustato, mentre Aizitel si rannicchiava sul pavimento singhiozzando e premendosi i due buchi che avrebbero sostituito le sue orecchie per sempre.

«Sì, finito. E mi sono divertito come non mai! Che c’è?»

«Uno dei nostri dimorfodonti è tornato. È agitato. Sai che significa, vero?»

Gnul rimase di stucco:

«Acceber?! Sappiamo dov'è?!» era emozionatissimo.

«Sembra di sì»

«Andiamo subito da lei! Finalmente i miei otto anni di preparazione daranno il loro frutto!»

«Ehi! Prima dà delle bende a questa donna!»

«Fallo tu, raggiungimi dopo. E non dimenticarti di prendere le bestie di questi tizi: eravamo giusto a corto di ovis - a quel punto, si rivolse ad un interlocutore immaginario - Attenta, sorellina, la caccia è aperta e io sono sulla tua pista!»

Il figlio di Drof chiamò a gran voce un tapejara, balzò agilmente sulla sua groppa e partì, facendosi guidare dal dimorfodonte che aveva trovato Acceber. 

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Capitolo 12
*** La storia dei fratelli Ydorb (storia vecchia) ***


Dopo il passaggio che si era fatto dare sul diplodoco, Mike era stato portato al villaggio dei Teschi Ridenti, tribù stanziata nella macchia mediterranea sulla costa occidentale di ARK, non molto distante dal monte Opmilo e, come aveva già fatto presso le Frecce Dorate, si era fatto dare una stanza nella taverna. Il giorno dopo il suo arrivo, come da programma, era andato alla stalla comune e aveva chiesto agli stallieri quanti ciottoli volevano affinché gli insegnassero a cavalcare un volatile. Ma quelli avevano aspramente risposto che quel che stava chiedendo loro non era affatto un incarico da poco e che, se voleva convincerli ad accettare la richiesta, doveva offrire qualcosa di molto più “stuzzicante”. Per questo, in quel momento, Mike stava discutendo con Doris per la possibile soluzione.

«Dobbiamo riflettere attentamente, Doris: questa volta un giocattolino dal resto del mondo non basterà, vedendo il senso in cui intendevano “stuzzicante”!»

«Non ti è possibile applicare la cosiddetta “truffa zaino in spalla” in un senso più esteso?»

«Ma come? Non ho niente di così fuori dagli schemi che possa lasciarli di… – ma, a quel punto, gli venne un’illuminazione – Ma certo! Certo che ce l’ho! È proprio qui con me!»

«Di che si tratta?»

«Intelligente come sei, non lo capisci, DOR-15? Sei tu!»

«Io?»

«Sì! Sì, proprio tu! L’attrezzo più utile, versatile e convenzionale di sempre!»

«Sei totalmente sicuro che offrirmi a loro sarà sufficiente a convincerli ad istruirti come da te richiesto?»

«Sarà molto più che sufficiente! Tu sei già avanzata per il mondo in cui viviamo, immagina quanto saranno sorpresi questi sempliciotti esotici!»

«E per quanto riguarda il fatto che dovrai consegnarmi a loro?»

«Ah, non ci servirà! Basterà raccontare la giusta bugia e farla suonare più credibile che si può… muhuhuhuhuhahaha!»

E si accinse ad uscire dalla camera, con l’ardore di un leone. Ma…

«Un momento… ma cosa posso dirgli per presentarti?»

«Sei sconsigliato di sottovalutare le tue capacità di improvvisazione: nelle città in cui siamo stati finora hai sempre dimostrato di avere una colorita fantasia»

«Lo so, ma qui… perché non ti presenti da sola? Sei molto più brava di me…»

«Per ovvie ragioni»

«Oh, giusto: un cappello senza testa potrebbe traumatizzarli, se non li si prepara…»

«Ti suggerisco molto caldamente di farti coraggio e prepararti a procedere» lo incoraggiò Doris, prima di posarsi sulla sua testa ed entrare in modalità furtiva.

«Spero che tu abbia ragione, mia adorata DOR-15!»

Mike Yagoobian, facendo appello a tutta la sua esperienza da sceneggiatore di strada, andò alla stalla comune e socchiuse timidamente la porta. Lo scricchiolìo fu fortissimo in ogni caso, quindi tutti gli stallieri interruppero bruscamente le loro faccende e lo fissarono, perplessi. Le bestie erano tutte tranquille e ignorarono l’arrivo di Mike.

«Ancora tu, eh? Sei venuto per offrirci qualcosa di decente?» chiese un vecchietto calvo e con una lunga barba bianca, la schiena curva e senza la gamba sinistra.

«Sì, sono ancora io… ehm… posso?» chiese Mike, in preda all’ansia.

«Sì, non mordiamo mica!» gli rispose una donna spaventosamente muscolosa, ridendo.

Mike entrò e si richiuse la porta alle spalle, provocando uno scricchiolìo ancora più intenso ed imbarazzante.

«Dunque… ehm… preparatevi per… uhm… la più…»

«Ehi, ci sei o ci fai?» gli chiese sarcasticamente un giovane Arkiano sulla ventina, facendo scoppiare tutti i presenti a ridere.

Mike sentì una fitta di rabbia. E fu proprio tale rabbia che fece scattare la scintilla creativa nella sua mente, facendogli decidere una volta per tutte come fare il suo discorso. Fece un sorriso a trentadue denti da imbonitore, scrocchiò le nocche, si raschiò la gola e iniziò:

«Resterete a bocca aperta! Dubito che abbiate mai visto o sentito di un’invenzione geniale e stupefacente come quella che sto per mostrarvi! Voglio farvi una domanda: per cosa vi mettete in gioco ogni giorno della vostra vita, magari anche rischiando di perderla, solo per provare a semplificarvela?»

«Be’… cerchiamo di imparare sempre più cose dagli stranieri, tranne che dagli idevlac, e ci facciamo aiutare dagli animali che domiamo» rispose la donna muscolosa.

«Chi sono gli ide… cosi?» chiese Mike, colto alla sprovvista.

«Sono degli strani uomini che arrivano dal cielo ogni due anni da un cerchio nero. Usano strumenti così strani da non sembrare nemmeno reali!» rispose il vecchietto invalido.

«Oh… ehm… ma voi usate solo le bestiole e le cose del mondo, giusto?» domandò Mike.

«Sì» fu la risposta collettiva.

Il sorriso da imbonitore tornò sulle labbra di Mike:

«Bene! Benissimo! Allora sappiate che in un futuro affatto lontano come potreste pensare non vi serviranno più i dinosauri per vivere bene e nella comodità più assoluta, perché è arrivata… questa!»

Si sfilò Doris dalla testa e, tenendola appoggiata sulle mani a coppa, la fece vedere a tutti camminando avanti e indietro per la stalla.

«Un cappello strano e pure brutto? Comincio davvero a sentirmi preso in giro» commentò il ventenne, con diffidenza.

«A-ha! Avrei giurato che uno di voi l’avrebbe detto! – reagì prontamente Mike – Ebbene, l’apparenza inganna! Perché questo cappello, questa semplice e minuscola bombetta, vi cambierà la vita! Sì, sì, sì! Dovete provarla, deve piacervi, dovete progredire fino a divenire capaci di costruirla da voi e fabbricarla in serie, perché questo prodotto è stupendo, unico, sensazionale, straordinariamente innovativo ed è pure comodissimo quando indossato!»

Corse dal vecchietto invalido e gli mise Doris in testa.

«Allora, com’è?» chiese.

«Ehm… sì, è davvero comodo, ma non vedo niente di speciale» rispose il vecchio.

«E adesso… inizia la magia! È il tuo momento, Doris! Rivelati!»

«Come desideri» rispose la bombetta.

Dunque, uscì dalla modalità furtiva e si alzò in volo, lasciando tutti con un palmo di naso.

«Buongiorno, io sono DOR-15, il primo modello della versione commerciale e definitiva di cappello-domestico. Come posso esservi utile?»

Gli stallieri erano sconvolti.

«Coraggio, non siate timorosi! Datele un ordine qualsiasi» li esortò Mike.

«Ehm… cappello parlante e volante, potresti spazzolare questo megaterio fino a levargli tutti i peli morti?» provò la donna muscolosa, indicandole un megaterio seduto in uno dei piccoli recinti della stalla comune.

«Certamente, signorina» rispose Doris.

La bombetta, dunque, andò a prendere una spazzola con una delle braccia meccaniche e, andata dall’enorme bradipo, iniziò a strofinarne la pelliccia con movimenti rapidissimi, ma precisi ed efficaci. In cique minuti, finì l’azione per cui in media una persona impiegava più di tre quarti d’ora.

«E il bello è che non finisce qui! I cappelli-domestici hanno decine e decine di accessori di ultima generazione, pratici e utili! Immaginatevi se ognuno su quest’isola ne avesse uno!» esclamò Mike.

«E… quando li avremo?» chiese il ventenne.

«Oh, presto! Purtroppo, Doris è ormai intestata a me e mi appartiene, ma in un vicinissimo futuro, dopo che io avrò fatto quanto necessario per superare l’ostacolo del muro invisibile che circonda la vostra graziosa isola, potrò acquistarne centinaia d’altri e regalarveli! Sì, avete capito: per voi saranno gratuiti! Ora, se voi foste così gentili da insegnarmi a volare con una di queste bestioline con le ali… potrei spostarmi da una parte all’altra dell’isola e fare prima quello che mi tocca fare, cioè aprire il muro invisibile, magari assaggiare i vostri prodotti gastronomici oppure… vedere se trovo una certa cosuccia che potrebbe rendermi l’uomo più ricco del mondo. Allora, ci state? È un giuramento solenne! Tornerò qui e allora avrete i cappelli-domestici!»

I tre stallieri si guardarono, poi annuirono. Mike esultò mentalmente, orgoglioso delle sue capacità di truffatore di strada.

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Per raggiungere la giungla, avevano deciso di farsi dare un passaggio in barca via fiume. Dunque si erano diretti a Sud, fino a raggiungere l’Etnorehca, il fiume più grande di ARK; per la precisione, erano andati fino al punto in cui l’acqua, dopo aver scorso verso Ovest per kilometri, svoltava improvvisamente a Sud. Con gli anni, l’erosione aveva fatto in modo che si formasse un lago, o comunque una gigantesca conca in cui l’acqua si fermava, pur se ricevendo un continuo ricambio. Quell’ansa era chiamata “Efam ved Vèfaz”, che in arkiano significa “Rupe dei Tuffi”. Questo perché c’era un’alta parete di roccia a picco sulla riva più esterna; tale parete aveva una lunghissima sporgenza che si prolungava fino al centro esatto della conca. I più temerari o, comunque, quelli a cui piaceva fare cose adrenaliniche erano soliti arrampicarcisi per poi tuffarsi dal limite della sporgenza. L’unico rischio, dopo il tuffo, era l’eventuale passaggio di qualche megapiraña affamato.

«Qualcuno di voi vuole provare il tuffo? Io l’ho fatto a quattordici anni: è stato fantastico!» aveva chiesto innocentemente Acceber, quando erano arrivati.

Tutti quanti scossero subito la testa, facendo un’espressione che significava “io non sono scemo!”. L’unico che guardava quella rupe con aria tentatissima era Sam, che una volta alle elementari aveva assunto il titolo di “più coraggioso della scuola” per essersi tuffato giù dalla scogliera di un faro, a Sidney.

«Io ho voluto farlo, due anni fa – raccontò Helena – E me ne sono pentita prima ancora di toccare l’acqua!»

Acceber fece spallucce.

«Comunque, stavo pensando… prima o poi voi ragazzi dovrete prendervi delle cavalcature personali! – continuò la ragazza – Mi sento ancora in colpa a vedervi costretti a seguirci a piedi, specialmente adesso che ci sono io con Rexar e i vostri amici coi loro velociraptor!»

«Effettivamente, io comincio a non sopportare più le marce forzate, anche se queste tute piene di foglie sono comodissime!» rispose Chloe.

«Sì, anch’io vi suggerisco di prendere degli animali al più presto: sono pratici per le fughe» affermò Rockwell.

«Allora vi consiglio di cominciare a raccogliere ciottoli, prima che saliamo in barca: questa riva è molto ghiaiosa, come vedete» concluse Acceber.

«Non saprei… io ci vedo un lato triste – affermò Laura – Se riusciamo a prendere delle bestie e a tenerle in vita con noi per il resto del viaggio… come faremmo quando sarà ora di andare via da ARK? Non so come si ragiona qui o come vi siete sentiti voi due anni fa, ma io credo che mi ci affezionerei troppo per separarmene, specialmente perché il fatto che siano degli animali preistorici me li farebbe stare ancora più a cuore!»

Acceber rimase interdetta, e anche gli autori dei diari. In particolare Mei-Yin: lei si era fatta un vero e proprio esercito, prima che iniziasse la serie di eventi finita con la loro partenza. In particolare, si era affezionata a Wuzhui, il suo primo animale, un velociraptor che aveva addomesticato nella giungla. Alla fine, sia perché si era concentrata su altro, sia perché aveva perso tutti gli animali, non ci aveva più pensato; ma se li avesse avuti ancora quando avrebbe dovuto lasciare l’isola, avrebbe provato le stesse emozioni descritte da Laura, il che la fece riflettere molto sull’empatia che cercava sempre di mettere in secondo piano per potersi concentrare meglio su quello che c’era da fare. La stessa cosa sarebbe valsa per Helena e Rockwell, che ai tempi avevano degli argentavis. Sam ebbe l’impulso di fare una battuta di cattivo gusto sul sentimentalismo, ma poi reputò che avrebbe solo peggiorato le cose e si trattenne.

«Be’… nel frattempo pensiamo ad imbarcarci! Va bene?» si riscosse la figlia di Drof.

I ragazzi annuirono, con dei mezzi sorrisi imbarazzati.

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L’imbarcazione da trasporto che navigava lungo l’Etnorehca era una grandissima zattera in legno, capace di ospitare fino ad un massimo di venticinque passeggeri, fra persone ed animali di piccola o media taglia. Era comunque una barca piccola, in confronto al fiume, il quale era largo una sessantina di metri ed era profondo poco più di una trentina. Per non rischiare incidenti con dei predatori d’acqua dolce (come, per esempio, i sarcosuchi), la chiatta era scortata dallo spinosauro del barcaiolo, che sorvegliava le acque precedendoli di qualche decina di metri, girando loro intorno e immergendosi ogni tanto per controllare che non ci fosse niente di pericoloso. La navigazione era tranquilla. Il barcaiolo parlava poco o affatto; però, siccome masticava foglie di tabacco essiccate, sputava ogni due minuti e Jack doveva trattenere un conato di vomito ogni volta, perché solo pensare a quegli sputi schiumosi che finivano nel fiume lo nauseava. Laura aveva chiesto come gli Arkiani avessero scoperto la nicotina e Rockwell aveva spiegato che, dal momento che parecchi naufraghi che finivano su ARK avevano il vizio del fumo, i nativi erano risaliti alla radice di quella sostanza così rilassante da rendere dipendenti da essa: la pianta di tabacco. Al tramonto la quiete fu interrotta da uno stridìo proveniente dal cielo. Tutti guardarono su e videro la sagoma di un piccolo volatile che sfrecciava in picchiata nella loro direzione.

«Un dimorfodonte viaggiatore!» esclamò Acceber, quando notò il pezzo di carta arrotolato e legato attorno a una zampa del piccolo pterosauro.

«Cosa? Avete pure la posta?» chiese Sam.

«Sì» gli rispose Acceber.

Il dimorfodonte atterrò velocemente sull’imbarcazione, quasi schiantandosi. Si avvicinò ad Acceber, sempre stridendo, essendo lei la destinataria. Acceber tese il suo braccio destro perché le salisse in spalla. Il dimorfodonte balzò su, aspettò che lei gli staccasse la lettera dalla zampa e ripartì.

«Che figata!» esclamò Chloe.

«Su quest’isola ne vedrai molte altre, credici!» le disse Helena, strizzando l’occhio.

Sul lato esterno del foglio c’era il nome del mittente.

«È di mio padre! – constatò Acceber, sorpresa – Perché mai mi ha scritto? Conoscendolo, avrebbe dovuto essere già venuto da noi…»

Tutti puntarono gli occhi su di lei, incuriositi. Acceber leggeva con aria assorta e perplessa. Ma, ad un certo punto, diventò pallida e sbarrò gli occhi… che subito dopo si rovesciarono all’indietro… e svenne.

«Oh! Ehi! Ma che...» fece Sam.

Tutti si precipitarono da lei, anche il barcaiolo.

«Secondo te le è preso qualcosa o è solo svenuta?» chiese Helena a Rockwell.

Il medico controllò il polso di Acceber e le aprì un occhio per vedere se la pupilla reagiva normalmente alla luce.

«Non sembra un malore dovuto ad un’infezione o ad uno squilibrio dei parametri: ha solo perso i sensi» concluse.

«Ma… che c’è scritto in quella lettera? Se è svenuta per quello, dev’essere grave. Almeno per lei» ragionò Nerva.

Chloe cercò il foglio, ma vide presto che era finito in acqua dopo la caduta di Acceber. Poi, all’improvviso, la ragazza si riprese e si mise seduta. E cominciò a piangere e ad ansimare in preda al panico.

«No... no! Non può essere vero… no, era un sogno! No... non lui! Lui è morto! Non lui!» adesso le lacrime scendevano una dietro l’altra, come la pioggia.

«Acceber, che ti prende?» le chiese Laura.

«Io… io… devo bere»

«Vado a prendere una borraccia» si offrì Mei.

Ma Acceber, sconvolta, si era già trascinata fino al bordo della zattera e aveva preso a bere direttamente dal fiume.

«Perbacco! Un urto emotivo in piena regola! Di norma, occorre il ritorno di un forte trauma infantile per provocarne uno… o meglio, così ho letto nei saggi di tale Sigmund Freud tre mesi fa» commentò Rockwell, non accorgendosi che non era esattamente il caso di dire certe cose in quel momento.

«Acceber, per piacere, spiegati! Sfogati! Dicci tutto!» la incoraggiò Jack.

«V-v-va b-b-bene… – balbettò Acceber, ancora pallida – Mio padre… è stato ferito… dal Ladro di Innesti… e…»

«Chi?» chiesero tutti, all’unisono.

«L’assassino più violento, sadico e psicopatico che ARK abbia mai conosciuto – spiegò il barcaiolo – Da anni si trovano persone morte smembrate e senza più il loro Impianto della Maturità – Dunque, non conoscendo il suo nome, l’abbiamo chiamato “Ladro di Impianti”. Ultimamente giungono dei pettegolezzi dal villaggio degli Alberi Eterni: dicono che hanno scoperto chi sia. Se almeno si degnassero di dire questo dannato nome!»

«Perché noi non ne abbiamo mai sentito parlare? Siamo stati qui due anni fa» domandò Edmund.

«Allora tutti erano concentrati sulla maledetta Nuova Legione» fu la spiegazione.

«Lui… – Rantolò Acceber, imbambolata – È… Gnul-Iat…»

«E chi sarebbe?» chiesero tutti. 

«Mio… fratello…»

Automaticamente, sentendo quelle parole, Chloe ripensò a quello che avevo visto a casa Ydorb: il ritratto di famiglia. Nel disegno c’erano quattro persone: due genitori e due figli, ad uno dei quali uno era stato cancellato il volto. Chloe aveva già scoperto allora che Acceber non era figlia unica, ma poi non ci aveva più pensato. A giudicare da come la loro guida aveva reagito a leggere il nome del fratello, avevano dovuto avere una ragione decisamente più che valida per disconoscerlo.

«Uao… e così hai un fratello, eh? Si può sapere perché sei morta dentro?» chiese Sam, senza più preoccuparsi di avere tatto.

«Io torno al timone» annunciò il barcaiolo.

«Io… sì... va bene, va bene… è giusto che capiate…» balbettò Acceber, sforzandosi di calmarsi.

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Tutti si sedettero in cerchio davanti ad Acceber, che finalmente si era tranquillizzata.

«Mio fratello non è sempre stato quello di cui avete appena sentito parlare – raccontò – Io e lui siamo nati lo stesso giorno ed eravamo inseparabili. Be’, forse lui aveva un po’ meno pazienza di me quando succedevano cose snervanti, ma era normale. Eravamo felici. Ma è tutto cambiato il giorno in cui abbiamo compiuto dieci anni. Mio padre mi aveva portato fuori, quel giorno. Voleva farmi vedere l’isola fuori dal villaggio per la prima volta. Com’era bello… Gnul-Iat, invece, andò con nostra madre. E loro ebbero una sfortuna immensa. Come sapete, le strade battute sono sicure, però ci sono delle eccezioni a tutto. Anche alla sicurezza. Quando io e mio padre tornammo al villaggio, ci stupimmo di non trovarli da nessuna parte. Il giorno dopo, il capo degli Alberi Eterni in persona venne a riportarci Gnul-Iat da solo. Per gli spiriti, ricordo ancora la sua faccia… il suo sguardo… mi faceva paura… e quando ci fu spiegato che nostra madre era stata uccisa da un tilacoleo e che il suo corpo era stato trovato in una fossa nella foresta di sequoie, mi sentii… non ho idea di come mi sentii. Ma era terribile. E, chiaramente, mio fratello aveva assistito alla sua morte. Non era più lui, era un guscio vuoto che non pensava né provava niente»

«Aspetta… per caso è per questo che hai scelto un tilacoleo per la tua Prova? Per onorare tua madre?» chiese Helena.

«Sì. Comunque sia, da quel giorno Gnul non fu più lo stesso. Era apatico, irritabile, non diceva quasi più niente… inoltre usciva continuamente di casa, spesso non lo si vedeva per tutto il giorno. Poi alcuni compagni di villaggio raccontarono a mio padre di averlo visto mentre uccideva e squartava piccoli animali catturati in giro. Mio padre indagò e scoprì che Gnul-Iat aveva un nascondiglio segreto dove accumulava le carcasse degli animali che macellava tutti i giorni. Erano tantissimi… ma, per qualche motivo, lui non disse niente. Io stessa sono venuta a saperlo qualche anno dopo. Dopo alcuni mesi, mio fratello è cambiato ancora: ora prendeva in giro tutto e tutti, faceva del sarcasmo, tirava fuori dei commenti acidi per qualsiasi cosa… anche quello non era normale. Poi… ci fu la rovina di tutto. Un giorno, io ero andata al fiume per prendere dell’acqua, siccome toccava a me lavare i vestiti. Mentre riempivo il secchio, lui è comparso dietro di me e mi ha colpito in testa. Mi ha buttato sulla ghiaia. Mi ha tenuto ferma la testa… aveva un coltello… lui mi… guardate voi stessi»

Si voltò e, per la prima volta da quando i ragazzi l’avevano conosciuta, si raccolse i capelli. Rimasero a bocca aperta quando videro che sulla schiena di Acceber, sotto il collo, era inciso il nome del fratello:

«Seriamente?! Una firma con un coltello?! Questo tizio non è pazzo, è veramente fuori!» esclamò Sam.

«Dopo questo, appofittai di un momento in cui allentò la presa per liberarmi. Quella riva era piena di sassi. Ne afferrai uno e lo colpii in testa con quello. Tre volte. Gnul-Iat svenne e cadde nel fiume, con la faccia sommersa. La corrente lo portò via. Non l’ho pù rivisto. Ed ecco perché lo davamo per morto. Mio padre era dispiaciuto, ma anche soddisfatto della cosa, dentro di sé. Io non ho mai saputo cosa pensare a riguardo. La storia si sparse per tutta ARK e per sei mesi non si sentì parlare d’altro. Quanto a me, siccome mi vergognavo di questa cicatrice, lasciai che i miei capelli la nascondessero. Infine, da allora, mi sforzo di essere più allegra che posso per allontanare i brutti ricordi. Ormai, l’unico argomento che mi dava ancora felicità era la speranza di imparare tutto sul mondo esterno grazie ai visitatori stranieri. Quella è sempre stata la cosa che mi ha affascinato di più. Ero anche riuscita a cancellarlo dalla mia mente, ma ora scopro che mio fratello è vivo, è l’assassino seriale più temibile di ARK e mi sta cercando per finire quello che ha cominciato otto anni fa. Sono terrorizzata…»

«Faremo in modo che non ci riesca, puoi fidarti» le promise Mei, mettendole una mano sulla spalla.

Sentire quella triste storia le aveva fatto venire compassione per Acceber. Della vera compassione. Più unico che raro per Mei-Yin-Li.

«Grazie, Regina delle Bestie» ringraziò Acceber.

«Per favore, chiamami solo Mei: non è necessario esaltare la mia figura»

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Una massa di cumulonembi nel cielo coprì il Sole. Pochi minuti dopo, iniziò a piovere. Poi la pioggia divenne un temporale. Si dovettero rifugiare sotto la piccola tenda ad un angolo del barcone per non inzupparsi. Intanto, anche se solo Laura l’aveva notato, lo spinosauro del barcaiolo non emergeva più da diversi minuti. Ma non se ne preoccupò, dato che suppose che si trovasse sott’acqua, il che era molto plausibile, essendo gli spinosauri animali preferibilmente acquatici. Eppure sentiva, dentro di sé, che qualcosa non andava. Si sentiva leggermente a disagio. Non capiva perché e la cosa la preoccupava. Poi, all’improvviso…

 

TOC!!!

Qualcosa si schiantò contro le assi di legno della barca dal basso, facendola ondeggiare molto più di quanto non facesse già.

«Ah! Cos’è stato?» chiese Jack, spaventato.

«Accidenti, quanto è stato sgradevole…» si lamentò Rockwell.

«Di certo, solo un animale avrebbe potuto farlo…» rifletté Helena.

«Confermo» risposero Acceber e Laura.

Rexar, nervoso, aveva piantato gli artigli nel legno, teso i muscoli e scoperto i denti.

Il barcaiolo cominciò a fischiare più forte che poté. Poco dopo, disse qualcosa:

«Qsap ded edòtèvim ip itic imovif!...»

«Cos’ha detto?» chiese Sam ad Acceber.

«Che il suo spinosauro non risponde ai suoi fischi. Dev’essergli successo qualcosa di grave…» fu la traduzione.

A Laura venne la pelle d’oca. La sua sensazione era giusta!

Acceber suggerì di prendere le armi e ognuno eseguì. Il barcaiolo prese una balestra e, tenendosi sempre pronto al lancio, iniziò ad osservare la superficie del fiume. La pioggia la agitava, sarebbe stato difficile individuare le increspature causate dalla creatura che aveva colpito la barca, qualunque essa fosse. Per diversi secondi ci fu calma; l’unico rumore era quello della pioggia. Poi, all’improvviso, a poppa ci fu un enorme schizzo e l’acqua si agitò ancora di più. Intravidero due vele, una arancio e una verde, in mezzo alla schiuma. Un secono dopo, scomparvero.

«Il dinosauro del barcaiolo sta combattendo contro un suo simile!» esclamò Chloe.

I due spinosauri comparvero ancora, ma si vedeva e capiva pochissimo. Gli schizzi che sollevavano nascondevano buona parte del loro combattimento subacqueo.

«È spaventoso ma… è anche una figata!» commentò Sam, senza fiato.

Rexar, per qualche motivo, ruggì e balzò sul bordo della barca per sferrare una fulminea zampata alla superficie del fiume. Il barcaiolo osservò l’acqua, perplesso… e qualcosa afferrò la sua caviglia sinistra e lo trascinò fuori bordo. L’Arkiano, però, si aggrappò giusto in tempo al timone. Nerva corse ad aiutarlo e, afferratogli un braccio, cercò di tirarlo su. Ma la creatura che aveva afferrato il barcaiolo emerse e addentò il collo della sua preda, uccidendola all’istante. Aveva un muso che sembrava l’unione fra quella di un coccodrillo e quella di una lucertola, con piccoli denti conici.

«Barionice!» esclamò Laura, riconoscendolo.

Il barionce, con uno strattone finale, portò via la carcassa della vittima e Nerva rimase col moncherino sanguinante dell’avambraccio in mano.

Contemporaneamente, senza che gli altri se ne accorgessero, la lotta fra gli spinosauri si era spostata… adesso erano pericolosamente vicini a loro. Infatti uno, spinto dall’altro, ci finì contro, distruggendola.

L’ultima cosa che Jack Thunder vide, prima di perdere i sensi, fu il cielo che svaniva sotto la superficie mossa del fiume. E sentì l’acqua che gli entrava nel naso.

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Mike Yagoobian non si sarebbe mai aspettato che imparare a cavalcare lo pteranodonte fosse così facile. Credeva che gli ci sarebbero voluti mesi; invece, nel giro di tre giorni, già aveva imparato a non farsi disarcionare (anche se era successo infinite volte), aveva capito come tenere le gambe sulla speciale sella per volatili e con quanta forza tirare le redini per rallentare, svoltare e decollare o atterrare. La sua truffa “zaino in spalla” con Doris era stata un gran successo, reso ancora più facile da raggiungere dalla stupidità degli stallieri. Non a caso i capivillaggio sceglievano quelli con le capacità di sopravvivenza più scarse per il lavoro nelle stalle comuni. Il loro nuovo mezzo di trasporto era stato battezzato Girodue, in memoria del vecchio e tanto rimpianto girocottero. Così, quel giorno, fece un’ultima volta la promessa fasulla sulla promozione dei cappelli-domestici e, congedatosi coi suoi ex-allenatori, volò via dal villaggio dei Teschi Ridenti. Era pure meno fastidioso del girocottero, visto che non c’erano eliche a fare un gran rumore. Erano inzuppati da capo a piedi per la pioggia. Inoltre, le correnti d’aria si percepivano di più in volo: faceva venire freddo. Ma Mike era abituato a stare sotto la pioggia: era una delle situazioni più ricorrenti nella vita del senzatetto. E, del resto, la sua giacca di pelle era buona come impermeabile. Insomma, niente di insopportabile. L’unico rischio possibile era farsi colpire da un fulmine, ma quella era più una questione di sfortuna.

«Allora, cara Doris, puoi fare un’altra scansione? Dobbiamo rintracciare quei bambocci» chiese.

«Certamente»

«Ora che ci penso… non è strambo che, previdente e macchinosa come sei, non ti sia mai ricordata di farne una negli ultimi giorni?» domandò Mike.

«Nell’ultimo periodo, la nostra necessità primaria è stata procurarci qualcosa che potesse sostituire l’autogiro: non serviva intraprendere una scansione geografica ai fini della nostra operazione»

«Se lo dici tu…»

Doris, dunque, si alzò in volo e, raggiunto un punto più alto nel cielo, scandagliò ARK alla ricerca dei loro obiettivi. Tornò poco dopo:

«Ci sono degli aggiornamenti preoccupanti»

«Dannazione! Cos’è? Ho già capito che è una delle notizie che fanno dire “dannazione” o peggio…»

«I soggetti Walker, Rockwell, Li e Nerva hanno raggiunto a loro volta l’isola e si sono uniti ai soggetti Hamilton, Webster, Thunder e Fox. Inoltre, con loro c’è una giovane locale della presumibile età di diciotto anni»

«Dannazione!»

«Sono presenti un esemplare di Thylacoleo furtimorsus e quattro di Velociraptor prime»

«Dannazione! Perché non ce ne va mai una giusta?!»

«Ma c’è anche una cosiddetta “buona notizia”» aggiunse Doris.

Subito dopo, Girodue scosse la sua lunga ed ingombrante testa per togliersi qualcosa che gli era entrato nell’occhio e la sella dondolò per alcuni secondi, facendo venire i sudori freddi a Mike.

«Quale sarebbe?»

«In questo momento sono separati. Probabilmente hanno avuto un incidente o hanno fatto un incontro ravvicinato con una creatura aggressiva»

«Oh… ottimo! Questo potrebbe semplificarci parecchio le cose! Dobbiamo solo giocare le carte giuste… e la vittoria sarà nostra! Muhuhuhaha! Avanti, dimmi dove sono!»

«A pochi kilometri da qui c’è un fiume. Segui la sponda verso Est e li troverai»

«Hai detto che sono separati, giusto? Chi sarebbe più facile da pedinare e catturare per il nostro interrogatorio sui manufatti?»

«Approssimativamente parlando, sei consigliato di fare un tentativo coi soggetti Hamilton e Walker. In questo momento, sono sole con la giovane nativa. Ammesso che quest’ultima non si riveli un ostacolo più considerevole del previsto, questi dovrebbero essere i nostri bersagli più facili»

«Sei mitica! Andiamo a prendere la biondina e la biologa! Forza, Girodue, svolta!»

Strattonò le redini verso destra, anche se un po’ troppo energicamente. Girodue gracchiò con tono irritato, ma svoltò come richiesto dal padrone e accelerò.

“Magari ne approfitterò per vendicarmi con Walker per l’umiliazione subìta nel magazzino, a Sidney. Chissà, potrebbe essere un’occasione. La rivincita di Mike Yagoobian incombe!” pensò l’uomo con la bombetta.

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Jack non aveva visto che nero, dopo aver perso i sensi nel fiume. Il nero era abbinato alla terribile sensazione di non riuscire a respirare. Ci provava, ma niente: l’aria non voleva per niente entrare nelle sue narici. Voleva provare a respirare con la bocca, ma non riusciva ad aprirla: ogni parte del suo corpo non si muoveva. Per quanto si sforzasse, non poteva muovere niente. Non poteva nemmeno aprire gli occhi. In realtà, non sapeva bene se in quel momento erano aperti o chiusi: il nero rendeva la cosa impossibile da stabilire. Il che rendeva quel nero ancora peggiore della cecità temporanea che gli era venuta quando il dilofosauro gli aveva sputato, il primo giorno su ARK. Poi… qualcosa lo colpì sullo sterno. Il dolore fu intenso, ma durò solo un secondo. Poi fu colpito ancora, ancora e ancora. Si rese conto che più veniva colpito, più il nero sembrava dissiparsi. Poi gli sembrò di poter piegare le dita. Poi riuscì a muovere i piedi. Dopo toccò alle palpebre (e questo gli fece capire che aveva gli occhi chiusi). Poi, finalmente, riuscì a tirare un profondissimo sospiro. La sensazione dell’aria fresca che entrava di nuovo nei suoi polmoni vuoti era meravigliosa. E poi... luce! Improvvisamente, vide il cielo coperto di nuvole grigio-bianche sopra di sé. Si rese conto di avere la bocca piena d’acqua, quindi la buttò fuori come una fontana. La pioggia gli stava bagnando tutto il corpo, ma non faceva nessuna differenza, dal momento che poco prima era caduto in un fiume in piena. Sotto la propria schiena sentiva tanti piccoli rilievi che premevano sulla sua pelle, pizzicando i suoi nervi. Dedusse di essere disteso su della ghiaia e, dunque, di essere sulla sponda del fiume. Poi sentì una voce, la voce di Edmund Rockwell.

«Perdinci, giovanotto! Mi hai quasi spaventato! Temevo che fossi morto: non reagivi!»

Jack si mise seduto e trovò il medico londinese inginocchiato alla sua destra.

«Dottor Rockwell… cos’è successo?»

«I due spinosauri hanno distrutto la barca, il nostro traghettatore è morto e siamo stati tutti separati. Dopo aver raggiunto con estrema fatica la riva del fiume facendo appello a quello che resta della mia prestanza fisica minata dall’età, ho cominciato a cercare gli altri. Ho trovato te, che galleggiavi sulla sponda con la faccia immersa. Eri sul punto di annegare, sai? Ti ho fatto un massaggio cardiaco, ma non ero sicuro della sua efficacia»

E, con questo racconto, Jack si spiegò le fitte allo sterno.

«Ha idea di dove possano essere gli altri?»

«Sfortunatamente, no. In ogni caso, giovanotto, non pensi che dovresti dirmi qualcosa, in quanto ti ho salvato la vita?»

«Eh? Ah, giusto! La ringrazio»

«Non c’è di che. Ora aspettami qui…»

Rockwell si alzò e si diresse al limitare della foresta di sequoie: infatti, loro due erano finiti sulla sponda meridionale dell’Etnorehca. Intanto, Jack si risedette e osservò l’acqua che scorreva davanti a lui. Non gli sembrò affatto vero di essere sopravvissuto ad una cosa simile, quando per lui un semplice giro in bici era stato una tortura mortale.

“Chissà, magari quest’isola mi farà diventare più forte! – pensò – Magari non coraggioso e forzuto quanto Sam, però…”

Notò qualcosa: a pochi metri dalla riva, la superficie dell’acqua aveva come ribollito per un paio di secondi. Era appena visibile, ma era comunque un movimento parecchio diverso da quello della corrente. Si fermò subito. Ma, per sicurezza, Jack si alzò e fece un po’ di passi indietro. Si voltò in cerca di Rockwell e lo vide indaffarato a staccare dei pezzi di legno dagli arbusti che circondavano le immense sequoie. Jack ammirò con soggezione quegli enormi sempreverdi: i più alti raggiungevano almeno i novanta metri e le fronde ad ombrello erano vastissime. I tronchi rossicci e pieni di scanalature trasmettevano tutta la sensazione che quelle piante fossero lì da decine di secoli. Però l’idea di esplorarla non gli andava tanto a genio. Certo, la trovava molto meno inquietante della foresta in cui erano stati assaltati dai troodonti, però… ritornò alla realtà quando, finalmente, Rockwell tornò da lui. Aveva legato delle pietre appuntite ai rami che aveva raccolto per fare due lance improvvisate. Gliene passò una.

«Avrei preferito fabbricarne altre, per sicurezza, ma temo che il tempo non giochi a nostro favore in questo caso. Però, a meno che non incrociamo delle creature eccessivamente pericolose, queste dovrebbero fornirci una protezione sufficiente. Tu fanne buon uso!»

«Mi scusi se lo dico, ma… mi sembrano sempre troppo poco. Inoltre, non ho ancora tutta questa dimestichezza con le lance. Quando ci sono stati i troodonti, l’ho usata più o meno alla cieca»

«Giovanotto, hai idea di chi fossi una volta? A venticinque anni ho abbattuto una tigre del Bengala col solo ausilio di una fiaschetta piena e una pipa accesa. Non riportai nemmeno un graffio!»

«Mi sembra impossibile»

«Sono Sir Edmund Rockwell. Quando si ha un ingegno come il mio, niente è impossibile! Dovresti essere più sicuro di te, sai?»

«Me lo dicono in tanti e lo penso anch’io»

«Comunque sia, non temere: mi accerterò che arriviamo dagli altri sani e salvi!»

«Lo…»

GRRRRRRRRRR...

Jack fu bruscamente interrotto da un ringhio profondo e gorgogliante. Si voltarono. Dalla foresta era appena emerso un metaorso. Jack non aveva mai visto un orso in tutta la sua vita, neanche allo zoo, in quanto non gli interessava andarci. E, come prima volta, quella fu davvero spaventosa. Era a venti metri da loro, ma si capiva anche così quanto fosse imponente. Jack, rabbrividendo, tese la lancia:

«Sapevo che sarebbe andata male! Questo stecco farà ben poco, me lo sento…» mugolò.

Ma Rockwell lo tranquillizzò:

«Rilassati, giovanotto! Se avesse avuto intenzione di ucciderci, l’avrebbe già fatto! Ci sta semplicemente avvertendo di lasciarlo stare. Molto probabilmente è qui per bere. Basterà che lo assecondiamo e si dimenticherà subito di noi»

«Oh… bene!» rispose Jack, con un sorriso imbarazzato e sentendosi stupido.

Quindi si spostarono e, come supposto da Edmund, il metaorso andò ad abbeverarsi. Lo osservarono dalla distanza. Jack, però, credette di rivedere ancora l’acqua ribollire.

“Vuoi vedere che…” si insospettì.

Ma, all’improvviso, ci fu uno schizzo enorme e l’orso, con un muggito di sorpresa, fu subito afferrato per il collo da un gigantesco coccodrillo, che iniziò immediatamente a sbattere la preda a terra con la testa e a rotolare sui fianchi per farla a pezzi.

«Un sarcosuco… eh, già. Purtroppo, dissetarsi può essere molto pericoloso in luoghi come ARK. Quel metaorso non è stato abbastanza cauto. Forse era ancora giovane…»

«Io avevo visto delle bolle. Dunque era il coccodrillo gigante che respirava…»

«Sei un buon osservatore! Qualità utile per sopravvivere qui. Ma non attardiamoci: c’è un villaggio da raggiungere e una giungla che presto dovremo attraversare!»

Dunque, cominciarono a marciare verso Est.

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Capitolo 13
*** Verso le Rocce Nere (storia vecchia) ***


«Stai bene?» chiese Mei-Yin.

«Sì, sono a posto» rispose Chloe.

Loro due, insieme a tre dei velociraptor (ovvero Hei, Alba e Ippocrate) erano finite a loro volta sulla riva meridionale. Ma, prima di raggiungerla, erano state trascinate per parecchi kilometri a Est rispetto a Jack e Rockwell. Inoltre, Mei era riuscita a non perdere la spada, anche se purtroppo la balestra era stata impossibile da riacciuffare dopo che la corrente gliel’aveva sfilata di tracolla.
          
«Bene. Vieni, dobbiamo proseguire. Scegli un velociraptor tra Alba e Ippocrate»
                         
«Proseguiamo… e basta? Che ne sarà degli altri? Per quanto ne sappiamo, i miei e i tuoi amici potrebbero non avercela fatta o avere bisogno di aiuto!»

«Lo so, ma sono sicura che non è così. I miei amici sono molto in gamba e sono certa che lo sono anche i tuoi» rispose la guerriera, montando in sella a Hei.

Non c’era un filo di insicurezza nella sua voce… o, almeno, non lo si poteva percepire.

«Ehi! Non mi piace questo ragionamento! Ho capito che è il tuo modo di pensare, ma… a me non sta bene! Mi sembra di star abbandonando Laura, Jack e Sam!» protestò Chloe, affatto convinta.
Mei alzò gli occhi al cielo e la fissò, seria:

«Ascoltami: siamo in un ambiente ostile. Solo gli altri esseri umani sono dalla nostra parte, qui…Anzi, no: la maggior parte di loro. Anche qui ci sono i criminali; anche quelli a cui non importa degli altri e basta»

«Dunque?»

«Dunque non dobbiamo perdere di vista l’obiettivo principale e stare vigili! Le distrazioni possono costare la vita su quest’isola. È una delle prime cose in assoluto che ho imparato, quando sono naufragata su questi lidi. Tu sforzati di pensare solo a quello che ti succede e che devi fare e sarà meglio per entrambe. Fidati. E abbi fede anche tu: gli altri staranno bene. E ora raggiungiamo le Rocce Nere!»

«Io… sì, hai ragione. Scusa»

«No, non ti scusare: hai anche ragione. Ma in questo momento, non ti devi distrarre»

Quindi, Chloe salì su Alba, infilò i piedi nelle staffe e afferrò le redini.

«Sembra più facile di quanto pensassi!» commentò.

«Già. Per questo adoro i velociraptor. Ora, vedi quelle tracce?» indicò la larghissima scia di solchi a forma di zampe di varie forme che percorrevano l’intera sponda per il lungo.

«Sì. Sembrano impronte»

«Lo sono. È una mandria di erbivori: più specie che viaggiano insieme. Vanno nella stessa direzione in cui dobbiamo andare noi, quindi perché non approfittarne? La raggiungeremo e la seguiremo finché non dovremo deviare per forza»

«Non si spaventeranno vedendo i nostri velociraptor?»

«No. Non ne avranno motivo: nessun predatore si avvicina con calma e allo scoperto se è a caccia»

«Capito»

E si incamminarono. La mandria era più vicina del previsto: dieci minuti dopo, iniziarono a sentire già i primi urli e richiami. Poi, in cinque minuti, la raggiunsero: era un massiccio gruppo di triceratopi, stegosauri e megaloceri. Questi ultimi erano molto simili a dei cervi, ma con dei palchi esageratamente grandi e ramificati e alti quasi due metri. Le femmine, coi cuccioli, stavano al centro del branco, dove triceratopi e stegosauri tenevano a loro volta i rispettivi piccoli. I maschi, invece, trottavano a ritmo ben sostenuto ai margini e si guardavano continuamente in giro: facevano la guardia. Quando Chloe e Mei si accostarono alla mandria, i megaloceri guardarono i velociraptor con sospetto, ma non lanciarono nessun allarme. A Chloe sembrò che Ippocrate stesse però tenendo d’occhio i cuccioli all’interno del branco con un po’ troppa cupidigia. Lo fece notare a Mei che, per sicurezza, gli lanciò un pezzo di carne secca.

«Questa mandria viene da dentro questa foresta di pini giganti?» chiese Chloe, cercando di far scorrere più velocemente il tempo.

«Oh, no. Ho osservato e dato la caccia a branchi come questo abbastanza da capire che non la attraversano mai se sono così numerosi: ci girano attorno e basta. Ogni mandria ha un tragitto ad anello personale»

«Sembra una figata! Chissà come sarebbe eccitata Laura… avrei già perso il conto di tutte le riflessioni da secchiona che avrebbe sparato a raffica!»

«Non distrarti» la ammonì Mei.

«Entschuldigung»

«…come, scusa?»

«Eh? È tedesco. Significa “mi dispiace”» spiegò Chloe, contenta di avere ancora a che fare con l’insegnamento delle lingue straniere.

«Bah, una lingua mi basta e avanza da imparare!» rispose Mei, con un accenno di sorriso.

Chloe si mise a ridere, coprendosi la bocca con una mano:

«D’accord, alors. E questo era francese»

In quel momento, però, molti dei megaloceri sul fianco sinistro della mandria cominciarono a bramire, seguiti a ruota dagli altri. L’intera mandria si allertò. Persino i tre velociraptor si innervosirono: presero a fissare la foresta di sequoie e a scambiarsi versi e cenni.

«Tra poco qualcosa attaccherà, anche se non possiamo sapere cosa – annunciò Mei – Appena la minaccia appare, tu sprona Alba per ordinarle di correre: aggireremo i predatori passando alle loro spalle e approfittando della loro caccia per proseguire. Tieniti pronta!»

«Oddio…» balbettò Chloe, coi nervi a fior di pelle.

Pochi secondi dopo, un grosso dinosauro indubbiamente carnivoro emerse dalla foresta e si precipitò su uno dei megaloceri, che però riuscì a rifugiarsi in mezzo ai triceratopi e agli stegosauri in tempo. Uno stegosauro agitò la coda, facendo fischiare l’aria con le sei punte ossee che ne emergevano, e diede un velocissimo “schiaffo” al carnivoro, lasciandogli due profondi solchi sanguinanti sul lato destro della testa e gli fece volare via cinque denti. Chloe aveva già visto quel predatore nell’enciclopedia, la prima volta che Laura l’aveva letta ad alta voce in camera. Ma non ricordava proprio il nome… era sicura che cominciasse con la A. E sembrava un misto fra il carnotauro e il tirannosauro…

“Ah, ecco! Allosauro!” si illuminò poi.

Non si era accorta, però, che Mei si era già messa a correre e le stava urlando di muoversi prima che fosse troppo tardi... ma un secondo allosauro, comparso in quel momento, la notò e si diresse verso di lei. Chloe urlò e cercò di agitare le redini. Ma l’istinto di conservazione di Alba fu più rapido: il velociraptor compì un grande balzo di lato, evitando l’attacco, poi cominciò a correre come un ghepardo, distanziandosi in un attimo dall’allosauro, ancora confuso per la velocità del bersaglio. Un terzo ed un quarto allosauro, il capobranco e una femmina, arrivarono in soccorso del primo che aveva attaccato. Un triceratopo caricò, travolgendo la femmina e scaraventandola a terra. Il capobranco lo azzannò alla caviglia per tenerlo fermo, poi lo morse più volte sulla schiena. L’allosauro sfregiato dallo stegosauro pensò di vedere uno spiraglio nella barriera di erbivori e tentò di raggiungere i cuccioli… ma un altro stegosauro lo colpì al fianco, scavando tre profondissimi buchi conici nel suo fianco sinistro. Uno dei suoi spuntoni raggiunse il cuore: il colpo fu mortale. Un allosauro era andato. Il secondo allosauro, dopo aver perso il velociraptor, fece un tentativo simile e gli fu spezzata una zampa da un triceratopo. Allora, i tre allosauri rimasti capirono che non era affatto il caso di rischiare oltre: si voltarono e se ne andarono.

«Ti sei distratta! Potevi morire! – esclamò Mei, accostandosi a Chloe – Sei ferita? Non ho visto bene cos’è successo»

«Sono solo stravolta: Alba ha fatto tutto da sola»

«Meglio così. Ehi, mi hai fatto venire paura! E io non ho paura quasi di niente!»

Chloe sorrise:

«Be’, allora ti importa di me!»

«Non dovrei? Sono io quella con più esperienza. È mio dovere proteggerti, al momento»

«Prometto che starò più attenta, d’ora in avanti»

«Brava. E adesso andiamo, prima che succeda qualcos’altro!»

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«Forza, corri!» ordinò Nerva.

«E che sto facendo?» ribatté Sam.

Loro due erano finiti sulla sponda settentrionale, che dava su una distesa rocciosa, poco alberata, ma piena di cespugli. Erano quasi tutti arbusti spinosi alti più di una persona, dai cui rami pendevano grappoli di bacche gialle. Gaius aveva dovuto sfilarsi la maschera, perché in qualche modo si era riempita d’acqua. Tanto non c’era nessuno che potesse riconoscerlo. E la prima cosa che avevano incontrato dopo essere sopravvissuti al fiume era stata… un tirannosauro che avanzava verso riva per bere. Si nascosero immediatamente nel cespuglio più vicino, cercando di fare il meno rumore possibile. Il tirannosauro sembrò indugiare per pochi secondi; Sam ebbe paura di aver fatto frusciare le foglie per un istante di troppo. Ma alla fine il teropode lasciò perdere e abbassò la testa per bere.

«Allora, vogliamo levarci dai piedi?» sibilò Sam a denti stretti.

«Preferirei non rischiare: attendiamo che sia lui ad andarsene» rispose Nerva, senza mai distogliere lo sguardo dal tirannosauro.

Sam aveva paura. Normalmente si vergognava quando qualcosa gli metteva paura, ma se davanti a lui c’era un bestione alto cinque metri con denti grandi come una mano e famoso grazie a Steven Spielberg, la paura era più che accettabile. Poi, il suo sguardo si soffermò sulle bacche e, quasi ingenuamente, si chiese se fossero commestibili. Provò a chiederlo a Nerva a gesti: indicò le bacche, poi la propria bocca aperta. Gaius capì e annuì. Allora, praticamente in automatico, a Sam venne appetito. Intanto, il tirannosauro continuava a riempirsi la bocca d’acqua e ad ingoiarla. Era già il sesto sorso.

“Che diamine, quanta sete aveva quel coso?” pensò Sam.

Provò a raccogliere il grappolo più vicino a lui, il più silenziosamente che poteva: tenne fermo il ramo e lo torse finché non si spezzò. Si mise in bocca la prima bacca: era dolcissima. Sam odiava i sapori zuccherini in generale, ma la dolcezza di quel piccolo frutto era irresistibile, tanto era buono. Provocava quasi dipendenza. Così, iniziò a ficcarsi in bocca le bacche a quattro per volta, masticando voracemente e godendosele con gusto peccaminoso. Finalmente, il tirannosauro smise di bere e si mise in cammino, seguendo la riva in direzione Ovest. Nerva fece segno di avere ancora un minuto di pazienza. Sam annuì e continuò a mangiare, dimenticando di avere un sacchetto pieno di carne secca da consumarsi ogni volta che voleva: avrebbe potuto stare lì e mangiare quelle bacche per un secolo. Poi, però, sentì qualcosa di peloso che gli faceva il solletico alla gamba. Infastidito, controllò e… un animaletto brutto come la fame e con la schiena coperta di peli ispidi gli saltò addosso e gli sfilò il grappolo di mano, poi fuggì. Era un pegomastax, un piccolo dinosauro frugivoro detestato dagli Arkiani a causa della sua tendenza a rubare cibo per sopravvivere. La caduta di Sam provocò un fruscìo. Un forte fruscìo. Un forte fruscìo di cui il tirannosauro si accorse.

“Dannazione, no!” pensò Nerva.

Il tirannosauro si voltò nella loro direzione e annusò attentamente l’aria. Se non li aveva ancora trovati, era solo perché erano sottovento, visto che ormai aveva smesso di piovere. Sam non osava rialzarsi né muoversi, sapendo che qualunque cosa avesse fatto avrebbe provocato un fruscìo traditore. Il gran teropode iniziò ad avanzare lentamente verso di loro, guardandosi continuamente in giro. Ancora pochi passi e la sua enorme testa sarebbe stata esattamente sopra le loro… Nerva, sudando freddo, raccolse un sasso da terra e, in un momento in cui non fu nel campo visivo di quel bestione, lo lanciò più forte che poté verso sinistra. Il sasso sbatté contro una roccia e poi rotolò sulla ghiaia per una manciata di secondi: fu sufficiente per trarre il tirannosauro in inganno. Subito, smise di indagare sul fruscìo e andò a controllare il punto da cui veniva il nuovo rumore. Sam e Gaius lo osservarono mentre aggirava la roccia e guardava a destra e a sinistra con perplessità. Poi, inaspettatamente, qualcosa si agitò in uno dei cespugli che circondavano il macigno. Il tirannosauro emise un breve grido e vi si scagliò subito a fauci spalancate. I denti cosparsi di saliva luccicavano al Sole. Ma ritrasse subito la testa e barcollò all’indietro. Sam ebbe l’impressione che stesse per cadere, ma non successe. Nel cespuglio era annidato un pulmonoscorpio, l’antenato gigantesco degli scorpioni di terra. Il tirannosauro l’aveva messo in allarme, quindi era balzato fuori e si era messo nella tipica posizione difensiva degli scorpioni: chele molto divaricate e aperte, pungiglione alzato e teso. Il tirannosauro, ripresosi dallo sbandamento, sbuffò e rivolse un fragoroso ruggito di sfida al pulmonoscorpio. Quest’ultimo, sempre più nervoso, divaricò ancora di più le chele; una goccia di veleno fuoriuscì lentamente dalla punta della coda, brillando come rugiada, poi cadde.

«Presto, approfittiamone per andare via!» esclamò Nerva, sempre a denti stretti. Intanto, si era rimesso la maschera, visto che ormai si era asciugata.

«Non me lo faccio ripetere due volte, fratello!» rispose Sam, balzando in piedi.

«Non sono tuo fratello» replicò seccamente Gaius.

«Oh, andiamo! È un modo di dire! Sicuro di esserti aggiornato?»

«Non perdere tempo e seguimi!»

Mentre cominciavano a correre, il tirannosauro girava intorno al pulmonoscorpio, che non lo perdeva mai di vista, ruotando su se stesso in base ai movimenti dell’avversario. Il “re” dei dinosauri, sempre più arrabbiato, sbuffava a ripetizione e non stava fermo un secondo. Agitava continuamente la coda, talvolta sbattendola sul terreno come una frusta. Avrebbe attaccato da un momento all’altro e le possibilità erano due: o il tirannosauro avrebbe fatto a pezzi il pulmonoscorpio in tempo, o l’aracnide sarebbe stato più rapido e avrebbe punto il teropode, narcotizzandolo e facendolo svenire per ore, ore durante le quali ne avrebbe approfittato per mangiarlo vivo. Nerva e Sam superarono una collinetta e continuarono la fuga dietro di essa per accertarsi di non poter essere visti. Il tirannosauro sferrò l’attacco, stringendo le fauci tra l’addome e la coda del pulmonoscorpio. L’aracnide riuscì comunque a conficcare il pungiglione vicino alla narice destra del suo aggressore per un secondo. Il tirannosauro lo lasciò cadere per il dolore. Ma ormai lo scorpione era ferito mortalmente: il morso del dinosauro gli aveva lasciato profondi squarci lungo l’addome e aveva perso tre zampe. Il tirannosauro, furioso e già mezzo drogato a causa del veleno soporifero, terminò l’opera e afferrò ancora il pulmonoscorpio, spappolandone la testa, per poi ingoiarlo con tre movimenti della testa.

«Non ti fermare» ordinò Nerva

«Ehi, non serve che me lo dica!»

«La prudenza non è mai troppa»

Aggirarono una seconda collina per tornare alla riva del fiume e continuarono a correre per altri cinque minuti. Poi… si trovarono di fronte ad un branco di ienodonti che spolpavano la carcassa decomposta di un sarcosuco. Come li videro, abbassarono le orecchie e presero a ringhiare. Alcuni si leccavano continuamente le gengive.

«Oh… questi cani rabbiosi fanno impressione quasi quanto quello della portinaia della mia palazzina!» commentò Sam, agitato ma sempre lungi dall’abbandonare la sua ilarità.

«Mi ricordo di questi canes – disse Nerva – Ci minacciano, ma non ci attaccheranno finché siamo in forze. Basterà brandire un’arma per spaventarli»

Quindi estrasse la spada e iniziò a brandirla mentre avanzava. Come preannunciato, gli ienodonti cominciarono a guaire e scapparono.

«Ha funzionato. Andiamo, prima che…»

«Centurione congedato…»

«Come mi hai…»

«Non credo che siano scappati per la spada…» farfugliò Sam, indicando le colline appena superate, per poi rimettendosi a correre.

Nerva guardò: il tirannosauro era riapparso e stava venendo lì. Chiaramente, nonostante il diversivo, alla fine li aveva fiutati e aveva deciso di seguire la nuova pista. Riprese la fuga e raggiunse Sam. Correvano con tanta foga, che per poco non raggiungevano il gruppo di ienodonti. Alla fine li ritrovarono… radunati attorno a due Arkiani, un uomo e una donna, che cavalcavano rispettivamente uno smilodonte e un parasauro. I due osservarono l’ex-peggiore nemico dell’isola travestito da Cesare e il ragazzo coi capelli rossi incrociarli e sorpassarli di corsa, con tanto di suggerimento da parte di Sam di correre. Contemporaneamente, i loro animali si innervosirono.

«Itag epò vlutidamjv edòpjv tòdafèpov pò aveclapag» suppose la donna.

«Iv. Timef è òp zimadòtipame. Ec ed ofacot ev» rispose lui.

Spronò lo smilodonte e si diresse al fiume di corsa. Ma trovò il tirannosauro lungo disteso sulla ghiaia, privo di sensi: la tossina del pulmonoscorpio aveva fatto effetto. Tornò dalla donna, sua moglie, e la informò che andava tutto bene. Quindi raggiunsero i fuggitivi:

«Vlut, veb!» li chiamò lui.

Sam e Nerva si fermarono.

«Ehi, c’è un T-rex là dietro!» avvertì Sam.

«Sì, l’ho visto. È svenuto» rispose l’uomo.

«Ah… perfetto»

Nerva li squadrò: entrambi erano più o meno sulla mezza età e avevano i capelli grigi. Lui era calvo, aveva un lungo pizzetto da capra che scendeva quasi fino al torace e l’aria del buontempone. Lei aveva le guance rugose, i capelli lunghi e ricci e sorrideva. Tutti e due indossavano abiti in tessuto. Probabilmente l’esperienza li aveva portati a non portare né protezioni, né abiti mimetici.

«Che stavate facendo qui, stranieri?» domandò lei.

«E poi siete abbastanza strani: un ragazzo coi capelli color carota e un vecchio con una faccia da depresso... siete padre e figlio? Non vi somigliate per niente»

«Non siamo parenti. Ci conosciamo e basta» rispose Nerva, seccato.

«Abbiamo avuto un dannato incidente e abbiamo perso i nostri compagni. Ehi, per caso voi sapete già dei quattro stranieri che cercano i manufatti?»

Gli sguardi della coppia si illuminarono:

«Oh, sì! Il nostro capovillaggio ha fatto addirittura un discorso pubblico su di voi, da parte di quello delle Frecce Dorate!»

«Se stanno tutti bene, si stanno dirigendo al villaggio delle Rocce Nere, come noi» tagliò corto Gaius.

«Che coincidenza! Noi siamo Rocce Nere! Volete che vi accompagnamo?» suggerì lei.

«Sì, tanto stavamo già rientrando! – affermò lui – Conosciamo la strada più rapida per il sentiero battuto, sarà sicuro e non ci vorrà niente!»

Sam e Nerva si scambiarono una rapida occhiata, poi annuirono.

«Bene! Allora seguiteci»

Mentre si incamminavano, Nerva fu scosso da un brivido: ricordava bene le Rocce Nere. La prima tribù che la sua Nuova Legione aveva sconfitto e sottomesso, due anni prima. Era sicuro che, se avesse incrociato il loro capovillaggio, non avrebbe neanche sopportato la sua vista per la vergogna. Ma lo scopo di Laura, Sam, Chloe e Jack rendeva inevitabile passare da ogni singolo villaggio, anche dal loro. Quindi si sforzò di non pensarci. Intanto, Sam chiese e ottenne di accarezzare lo smilodonte, che lo ricambiò leccandogli la faccia e bagnandogli la tuta mimetica.

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Capitolo 14
*** L'URE - Repubbliche Unite della Terra (storia vecchia) ***


«Calma, Rexar! Siamo al sicuro, ora!»

Acceber accarezzava continuamente il collo del tilacoleo, ancora agitato per tutto quello che avevano appena passato nel fiume, mentre lo cavalcava. Helena e Laura viaggiavano al suo fianco, facendo a turno per stare in sella ad Usain.

«Questa è di certo la cosa più terrificante che sia mai successa nella mia vita finora!» fu il commento di Laura, dopo che ebbero discusso su come potevano stare i loro amici.

«Io, invece, credo che sia la… uhm… quarta cosa peggiore che mi sia mai capitata qui su ARK» rispose Helena.

«Quali sono le altre?» domandò Laura, incuriosita.

«Allora … c’è stata la volta in cui il primo tirannosauro che incontrai mi aveva quasi uccisa, mi ero dovuta buttare sotto un groviglio di radici per sfuggirgli»

«Ehi, anche a me è successo! – la interruppe Acceber – Però era con un megalosauro e in una caverna in cui ero entrata per cercare dei funghi. Non chiedetemi cosa volevo farci»

Laura ed Helena la fissarono con imbarazzo per un attimo, poi scoppiarono a ridere.

«Un’altra volta – proseguì la biologa – Mentre volavo con l’argentavis, alcune fibbie della sella si sono rotte e io sono caduta. Per fortuna sotto c’era un lago!»

«E la cosa più spaventosa che tu abbia mai visto qui?»

«Il Megapiteco, ovviamente. Non vorrei mai più vederlo, ma qualcosa mi dice che presto o tardi apparirà per forza»

«Già»

Proseguirono in silenzio per un’altra ora, poi Laura chiese ad Acceber come facessero gli Arkiani ad avere sempre quell’aria così tranquilla e disinvolta in un posto dove si poteva morire in qualsiasi momento. La ragazza fece spallucce:

«Se nasci qui è del tutto normale. Impari subito quali sono le cose migliori da fare per non essere sopraffatto dall’isola. Se non esageri con le cose pericolose e le fai come si deve, andrà quasi sempre tutto bene. Il resto è fortuna. Poi, in caso si muoia, almeno ci si può consolare pensando all’Isola degli Spiriti»

«Ah… è così che chiamate il vostro aldilà?» chiese Laura, ricordando le spiegazioni scritte da Darwin sulla religione arkiana.

«Sì. Nessuno lo sa per certezza, ma corre voce che sia un’isola come la nostra, però con un’atmosfera… come dire… magica? Le leggende raccontano di grandi cristalli colorati, alti come colline, di lunghe spiagge dalla sabbia bianca, una foresta rosso sangue, un’isola mostruosa e sempre avvolta da tempeste…»

«Certo che avete una gran fantasia!» commentò Helena.

«Ah, non ci credi?»

«Parlo solo come una che non professa la tua religione» fu la risposta.

In quel momento, le ombre degli alberi si allungarono abbastanza da coprirle. Guardarono il cielo: l’azzurro si stava tingendo di arancio.

«È il tramonto. Suggerisco di accamparci» disse Acceber.

Le altre due acconsentirono. Quindi, mentre Helena si offriva per prendere i materiali per il fuoco da campo, Laura e Acceber sistemavano il resto sulla riva e lasciarono che Rexar e Usain andassero a bere al fiume.

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Mike e Doris, finalmente, atterrarono di fronte al fiume, a diverse centinaia di metri da dove Laura, Helena e Acceber si stavano accampando.

«Andiamo a prendere la biondina, Hamilton!» esclamò lui, balzando giù da Girodue.

«Aspetta – ordinò Doris – Vado io. Questa volta resti qui»

«Stare con Girodue? Ma… anch’io voglio fare la mia parte!»

«E la farai. Reputo che sia giunto il momento più opportuno per sperimentare l’accessorio più avanzato che il mio creatore ha progettato per me»

Il visore di Doris diventò azzurro, la bombetta meccanica vibrò e, dal suo interno, fuoriuscì una minuscola copia di lei, dal visore viola. Mike sobbalzò:

«Oh! Una Doris in miniatura?!»

«DOR-15-B, per la precisione»

«Non pensavo che ne fossi capace. Il tuo creatore era un dannato genio! Non mi capacito che fosse un tale fallito… che carina!»

Doris andò a frugare nel loro bagaglio, che avevano legato alla sella di Girodue, e prese il controller per Wii U che il suo creatore aveva dato a Mike il giorno in cui gli aveva regalato Doris, senza fare spiegazioni né lasciare che gli fossero fatte domande.

«Questo game pad modificato funge da telecomando per controllare DOR-15-B»

«Aaaaah! Ecco a cosa serviva quel coso! Perché non me l’hai mai spiegato?»

«Il mio programma mi imponeva di rivelarne lo scopo unicamente appena sarebbe stato il momento più opportuno per utilizzare DOR-15-B»

«Se lo dici tu… cosa posso fare con questa, comunque?»

«DOR-15-B è capace di manipolare il sistema nervoso centrale di qualunque organismo e fare in modo che obbedisca agli ordini dell’utente, impartiti attraverso il microfono del suo controller. Sullo schermo è mostrato tutto quello che DOR-15-B vede. Inoltre, nel caso in cui si acquisisca il controllo di un organismo che parla una lingua straniera o animale, l’IA di DOR-15-B tradurrà immediatamente scansionando i pensieri del soggetto e mostrandoli sullo schermo sotto forma di sottotitoli»

«Fantastico! Io la provo subito! Portiamola a fare un giretto…»

Provò a muoverla in tutte le direzioni con le due levette analogiche e la fece erroneamente andare a sbattere contro Doris.

«Mi hai urtato»

«Oh, scusa»

«Torniamo al nostro obiettivo»

«Ti seguo»

Le due bombette, quindi, presero il volo in direzione dell’accampamento delle tre ragazze, rilevato da Doris con l’ultima scansione geografica. Mike sbatté contro di lei per altre sette volte, perché ogni tre secondi cominciava a far ruotare Doris-B su se stessa per osservare il paesaggio dall’alto e non si accorgeva di starsi avvicinando a quella originale. Finalmente si trovarono a venti metri sopra i loro tre bersagli, che non si erano accorti di niente.

«Eccovi qua! Oh... – ridacchiò Mike – Cosa suggerisci di fare, Doris?»

«Spiacente, ma in questo caso resterò imparziale: questa è comunque la prima volta che DOR-15-B è attivata, dunque prenderai tu le decisioni. Io farò supervisione»

«Ah… la cosa mi agita e neanche poco. Va bene, mi inventerò qualcosa. Magari userò un animale a caso per agire indirettamente e catturare la biondina… sì, questo piano mi piace tanto!»

Dunque, mandò Doris-B nella foresta, alla ricerca di qualcosa da ipnotizzare. Per più di un quarto d’ora, non trovò niente. Poi, finalmente, si accorse di un gruppo di mesopitechi che riposavano e mangiavano sulle fronde degli alberi più alti.

“Uh, scimmiette! – pensò Mike – E somigliano parecchio a quelle maledette ladre di cibo che bazzicavano sempre in giro a Bangkok… se sono come quelle anche caratterialmente, allora ci si potrà fare di tutto! Facciamo un tentativo…”

«Doris, come si ipnotizza qualcosa con questa?» chiese.

«Se premi il tasto Y quando inquadri il bersaglio scelto al centro dello schermo, DOR-15-B si aggancerà automaticamente al suo cranio per manipolare il suo sistema nervoso»

Subito, Mike seguì le istruzioni e Doris-B, veloce come un fulmine, si posò sulla testa del mesopiteco scelto. Appena fu ipnotizzato, il suo sguardo divenne fisso e i suoi muscoli si irrigidirono. Gli altri mesopitechi fuggirono, spaventati. Mike ridacchiò al microfono:

«Preso! Adesso sei in mio potere!»

Il mesopiteco emise una serie di versi che, prontamente, apparvero sullo schermo come sottotitoli:

Adesso sono in tuo potere

«Hihihihihi!»

Hi-hi-hi-hi-hi

«Finisci di ridere!»

Finisco di ridere

«Non ripetere tutto quello che ti dico!»

Non ripeto tutto quello che mi dici

«Bene!»

Bene

«Hai detto “bene” perché io ho detto “bene”?»

…no

«Bene!»

Bene

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Laura ed Helena conversavano del più e del meno riguardo i fatti più curiosi su ARK ed il suo ecosistema, mentre Acceber le ascoltava sorridendo.

«Sapevi che i paleontologi si sbagliano quando ipotizzano che le femmine di paraceraterio abbandonano il loro cucciolo subito dopo averlo svezzato?» disse la biologa.

«Cosa fanno in realtà? Darwin non si è soffermato su quell’argomento nel suo libro…»

«Infatti, te lo rivelo io raccontando di quanto ho visto. In realtà lo fanno quando il piccolo raggiunge la maturità sessuale. Ho osservato una femmina dal terzo giorno di vita del suo a quando l’ha cacciato»

«Interessante…»

«Quando i miei l’hanno spiegato a me e a Gnul-Iat, avevamo quattro anni. A me è venuto da piangere, lui sembrava perplesso» raccontò Acceber, ridacchiando.

«Chissà, magari sono solo i paracerateri arkiani che lo fanno, visto che ci sono anche dei predatori a cui non erano abituati da dove sono venuti. Darwin ha scritto che molte specie qui hanno subìto un’evoluzione comportamentale per adattarsi ad ARK» suggerì Laura.

«Forse è così. Tutto è possibile. Grande intuizione, comunque!»

«Grazie, signorina Walker»

«No, chiamami Helena: non siamo più estranee, al massimo conoscenti. Per me, c’è già abbastanza confidenza per darci del “tu”»

«D’accordo, sign… Helena» rispose Laura, arrossendo.

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In quel mentre, il mesopiteco ipnotizzato da Mike raggiunse il limitare della foresta e restò sulla cima di un albero ad osservare i tre bersagli.

«Ci siamo! – gli disse Mike attraverso il microfono – E adesso, mio schiavo, escogita un'idea per prendere la biondina e consegnamela!»

Il mesopiteco sbarrò gli occhi alla vista di Rexar e Usain e non mosse un muscolo. Mike, dapprima perplesso, si irritò:

«Non hai sentito quello che ti ho detto? Idiota! Prendi la ragazza bionda e portala da me!»

Sullo schermo del controller apparvero i sottotitoli:

Il fatto è che sono in tre. E ci sono due mostri mangiacarne con loro. E io sono minuscolo. Non sono proprio certo che questo piano sia stato elaborato bene…

Mike non credeva alle proprie orecchie. I suoi occhi diventarono due strette fessure e le sue labbra tremarono, facendo vibrare i baffi.

Padrone? Padrone?

Per tutta risposta, Mike ringhiò come un cane per svariati secondi.

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«Accidenti, c’è mancato pochissimo! E adesso cosa facciamo?» chiese Jack, ansimando.

«Eh, le alternative sono poche, giovanotto: a questo punto, siamo costretti ad avere molta pazienza e aspettare che il nostro seccatore decida di cambiare preda» rispose Rockwell.

Scesa la notte, loro due si erano accampati; al villaggio delle Rocce Nere mancava poco, ormai. Purtroppo, però, erano stati attaccati da un megalosauro affamato che passava da quelle parti. I megalosauri erano teropodi di taglia media notturni: di giorno, dormivano o in grotte, o in fosse o angoli poco illuminati. Dopo una breve e rapida fuga, i due erano riusciti a salire su un alto masso pieno d’appigli e si erano messi relativamente in salvo, dato che il rettile non riusciva in nessun modo a salirci. Avevano preso dei tizzoni dal fuoco da campo, quindi avevano almeno una fonte di luce e calore. Ma la paura e la scomodità della situazione rimanevano. Rockwell aveva già provato ad agitare il bastone infuocato davanti al muso del megalosauro per spaventarlo, ma non c’era verso di farlo andare via del tutto. Per cui, ormai si erano rassegnati a stare semplicemente lì e aspettare che si stufisse di loro. Ma era già trascorsa un’ora e mezza e il megalosauro era sempre lì, a camminare avanti e indietro e a fissarli con aria famelica. Poi, però, nelle acque del fiume si era accesa un’intensa luce blu che non aveva niente di naturale. Sia loro due che il megalosauro si erano voltati di scatto e poi si erano girati di nuovo, perché il bagliore era accecante. Dall’acqua schizzò fuori una sagoma velocissima che sfrecciava verticalmente verso il cielo, lasciando dietro di sé una scia di fumo bianco. Raggiunta una ventina di metri d’altezza, la figura si fermò e restò sospesa a mezz’aria.

Jack ne approfittò per guardarla bene: sembrava una persona, ma indossava una bizzarra corazza argentea che emanava la luce azzurra da alcune scanalature. In testa aveva un casco dotato di una visiera simile ad uno schermo ad esagoni, che impediva di vedere la faccia dell’individuo. Ma capì, grazie alla forma dei fianchi e del torace e alla sottigliezza degli arti, che si trattava di una donna. Qualcosa che aveva sulla schiena emetteva una sorta di fiamma blu che produceva il fumo: senz’altro era il sistema di propulsione che le consentiva di volare. Imbracciava quello che sembrava una sorta di fucile futuristico, fatto di quello stesso strano metallo. Il megalosauro ruggì, ma il suo non era un verso di rabbia o sfida, sembrava paura mascherata. Jack e Rockwell, dal canto loro, la fissavano a occhi sbarrati e bocca aperta. La figura premette il grilletto del fucile; ci fu un altro lampo e, dalla canna dell’arma, uscì una grande rete, sempre composta dallo strano materiale lucente, la quale intrappolò il megalosauro a terra, ancorandosi alla ghiaia in qualche modo: l’animale, per quanto si sforzasse, non riusciva più a muoversi: la rete faceva pressione su di lui al punto che non poteva nemmeno sollevare la testa. La figura scese a terra e abbassò l’arma. Jack continuò a fissarla e non poté fare a meno di paragonare la sua armatura a quella dei Power Ranger. I due erano così sconcertati da non riuscire neanche a parlare. Addirittura, Rockwell aveva quasi smesso di respirare. La sconosciuta si portò un dito alla tempia e parlò, probabilmente ad una versione futuristica della radio:

«Ho trovato e neutralizzato il bersaglio: raggiungetemi con l’attrezzatura»

Poi, finalmente, si voltò verso di loro e rivolse loro la parola:

«Ehi, voi due! Tecnicamente, vi ho appena salvato la vita, per cui… prego!»

Non ricevette risposta.

«Ehm... ci siete? So che palesemente non avete mai visto niente di simile, ma dubito che siate sordo-muti»

Finalmente, Jack si riscosse:

«Ah… uh… grazie?» abbozzò, imbarazzato come non mai.

Non poterla vedere in faccia lo metteva a disagio, ma non aveva il coraggio di dirglielo. Rockwell era ancora immobile. Lei li squadrò:

«È chiaro che non siete degli Arkiani. Da dove venite? Anzi, no: da che anno? So che le persone che capitano qui potrebbero venire da qualsiasi epoca»

Jack stava per rispondere, ma Rockwell uscì dal silenzio in quell’istante e fu più veloce:

«Mi scusi, signorina, potrei sapere da cos’è costituito il suo equipaggiamento? Non ho mai visto nulla di vagamente simile in tutta la mia vita…»

Jack trattenne un sorriso: avrebbe dovuto sapere che un tipo come Edmund Rockwell non avrebbe resistito alla tentazione di fare domande come quella di fronte a qualcosa di mai visto.

Lei guardò la propria armatura, poi lui, poi la sua arma e chiese, con tono incerto:

«Io non so se potrebbe…»

«Non si preoccupi di fare spiegazioni tecniche: sono un farmacista e un chimico, ne potrei già sapere qualcosa»

«Be’… anche così, dipende dall’anno in cui vive» rispose lei, con una punta d’imbarazzo.

«Ehi, un momento… – si intromise Jack – Tu chi sei? Io mi chiamo Jack Thunder e lui…»

«Aspetta, dico io il mio nome: è più etico – lo fermò Edmund – Io sono Edmund Rockwell, eccelso studente, galante gentiluomo e farmacista straordinario. Con chi ho il piacere di parlare?»

Lei si sfilò il casco e, finalmente, Jack poté vedere il suo viso: era una giovane donna che sembrava avere poco meno di trent’anni, con gli occhi verdi, lunghi capelli rossi raccolti in uno chignon, il naso all’insù e le lentiggini.

«Diana Altaras, piacere mio – si presentò – Allora, stavamo parlando di provenienze. Da dove venite?»

Rispose Jack:

«Io sono di Sidney e per me è il 2018. Lo sarebbe anche per lui, ma in realtà è di Londra e viveva nel 1875 prima che, due anni fa, trovasse ARK. Ne è uscito e si è ritrovato nel 2016 perché era insieme ad una persona che veniva da quell’anno»

«Interessante! Perché siete…»

«Lei da quale epoca arriva? Dalla tecnologia di cui dispone, immagino che venga da un periodo futuro» domandò Rockwell.

«Ha ragione: io e la mia squadra veniamo dal 2150»

I due rimasero sorpresi.

«Accidenti, bel progresso!»

«Allora, perché siete qui?»

Jack stava per iniziare il racconto, ma Rockwell gli chiese se prima poteva chiedere di più sulle apparecchiature di Diana.

Lei sorrise con una punta d’imbarazzo e disse solo che tale tecnologia si chiamava “TEK” e che era stata scoperta nel 2090 grazie a dei campioni di un fossile rinvenuto in India, le cui caratteristiche erano tenute segrete dai Governi. In pochi anni, l’utilizzo del TEK aveva rivoluzionato tutto il pianeta e aveva risolto parecchi problemi. Fu interrotta dall’arrivo di altre persone che indossavano lo stesso tipo di armatura: erano quelli che aveva contattato prima alla radio.

«Bel colpo, tenente!» si complimentò uno di loro, battendole il cinque.

«Grazie, Santiago»

«Ehi, vedo che abbiamo compagnia! Chi sono loro?» chiese lui, vedendo Jack e Rockwell. Intanto, gli altri avevano narcotizzato il megalosauro.

«Quello più giovane viene da Sidney ed è del 2018, l’altro signore è un farmacista inglese dall'Ottocento. Il bersaglio li aveva presi di mira, li ho aiutati» spiegò Diana.

«Quindi sei a capo di questo gruppo di… be’, militari dal futuro?» le domandò Edmund.

«Sì, sono diventata luogotenente e capo di questa squadra due anni fa»

«Per quale motivo siete su ARK? Il vostro atteggiamento organizzato e il fatto che avete catturato questo megalosauro mi suggerisce che non siate qui per caso» continuò lui.

«Ecco… è molto lunga da spiegare… sarebbe scomodo farlo qui, su due piedi» rispose lei.

Intanto, gli altri soldati si radunarono attorno al megalosauro svenuto e, dopo aver salutato la loro caposquadra, un tizio premette un tasto su un telecomando. Attorno a loro si formò una strana semisfera trasparente, in cui lampeggiava una rete di esagoni luminosi. Ci fu un lampo e… scomparvero. Erano rimasti lì con loro solo Diana e Santiago. Jack sobbalzò e Rockwell, incredulo, lasciò cadere a terra gli occhiali, che aveva tolto per pulirli.

«Cosa?! Avete il teletrasporto?! Da voi esiste?!» boccheggiò Jack.

Diana ammiccò:

«Questo e altro!»

Rockwell recuperò gli occhiali e continuò a fare domande:

«Ha detto che questa tecnologia viene da un fossile trovato in India, giusto?»

«Sì: il tutto parte da una sostanza chimica che chiamiamo “Elemento TEK”, o anche solo “Elemento”. Ma, come Diana vi avrà detto, nessuno sa esattamente cosa sia perché non è concesso a nessuno saperlo, neanche a noi militari» rispose Santiago.

Il medico si strofinò la barba, ragionando ad alta voce:

«Uhm… chissà, a questo punto la signorina Helena potrà avere un altro motivo per visitare l’India, quando avremo finito qui! Potrei chiederle di portarmi con lei, così potremmo cercare di scovare questo fossile prodigioso!»

«Cosa? No, non ci provate neanche! – esclamò Diana, improvvisamente seria – Questo comporterebbe un cambio della Storia! E, se lei è ragionevole, saprà che non è il caso di riscriverla, quando tutto il mondo sarebbe coinvolto! La barriera che circonda quest’isola può fare brutti scherzi col tempo…»

Jack guardò Rockwell: da un lato, sembrava contrariato e anche irritato, mentre dall’altro sembrava capire quello che Diana intendeva spiegare.

«Immagino che siate un po’ stanchi dopo quello che vi stava succedendo, quindi… che ne direste se vi concediamo una sosta nella nostra base? – suggerì Diana – A condizione che non riveliate niente sul TEK quando andrete via dall’isola, visto che sembrate conoscere il processo per aprire la barriera»

Jack esitò:

«Ecco… io, personalmente, non saprei: siamo stati separati dai nostri compagni e la nostra guida Acceber e li stavamo raggiungendo al villaggio più vicino, per cui…»

Rockwell si voltò verso di lui:

«Per favore, giovanotto, non farmi perdere l’occasione di conoscere meglio la più grande scoperta che abbia mai fatto in tutta la mia lunga e brillante carriera! Gli altri capiranno… o forse li avvertiremo noi, se questi signori hanno anche un avanzato sistema per contattare le persone a distanza. E poi, come ha suggerito la signorina, potremmo riposarci»

A quel punto, Jack non volle più insistere: non si sentiva in vena di deludere Rockwell o di mancarlo di rispetto, visto che non avevano la stessa confindenza che Helena e gli altri due amici di Edmund avevano con lui. E accettò. Rockwell sorrise e lo ringraziò. Intanto, Diana era rimasta a bocca spalancata:

«Un momento… Acceber? Vuoi dire forse Acceber Ydorb?»

«Uh… sì. La conosci?!»

«Certo! Io e lei ci siamo conosciute due anni fa: io le ho mostrato un po’ la nostra tecnologia perché la incuriosiva e lei mi ha insegnato molte cose su ARK e sugli Arkiani. Era molto triste quando ha saputo che sarei tornata due anni dopo, ma pensavo di venirla a trovare uno di questi giorni. Come sta?»

«Sembrerebbe bene, anche se è saltato fuori che ha un fratello omicida che vuole trovarla e ucciderla» spiegò Jack.

«Oh… non me ne aveva parlato…»

Santiago fece una nuova proposta:

«Allora facciamo così: vi ospiteremo un po’ alla nostra base, poi Diana vi accompagnerà dai vostri amici, così ne approfitterà per rivedere Acceber. Andata?»

Jack e Rockwell annuirono. Quest’ultimo sottolineò anche il suo desiderio di voler sapere di più sul TEK, promettendo che non avrebbe mai rivelato nulla al mondo esterno. Così, Diana disse a Santiago di teletrasportarli alla base. Lui prese un telecomando come quello che avevano visto poco prima e lo attivò…

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Capitolo 15
*** Finalmente dalle Rocce Nere (storia vecchia) ***


Mike Yagoobian, con Doris e Doris-B al suo fianco e Girodue che sonnecchiava dietro di lui, si lisciava i baffi con fare pensieroso: la cugina preistorica delle scimmie ladruncole di Bangkok non si era rivelata essere una buona schiava. Per punizione, l’aveva fatta andare nel fiume prima di liberarla dal controllo di Doris-B, dandola in pasto ad un piccolo banco di megapiraña. Per riuscire a mettere le mani su Laura Hamilton gli serviva qualcos’altro. Qualcosa di più grosso, ma non troppo, qualcosa di abbastanza stupido da non ribattere come quel primate insolente. Si mise a sfogliare l’enciclopedia di Darwin, consultando le spiegazioni sulle innumerevoli specie preistoriche arkiane, in cerca di una creatura più idonea per il rapimento camuffato da attacco animale. Ma tutte sembravano avere più difetti che problemi: quello era troppo ingombrante, quell’altro era troppo raro, quell’altro ancora non faceva affatto paura… poi, però, giunto alla lettera T, il suo sguardo si fermò su uno strano dinosauro dal collo lungo, un folto piumaggio sulla schiena, la testa piccola e tre lunghi artigli alle zampe anteriori: il Therizinosaurus multiensis. Era inquietante come pochi e quegli artigli sarebbero stati più che sufficienti per intimidire e sottomettere la ragazza, se presa in un momento in cui si sarebbe ritrovata isolata dal gruppo…

«Ehi, Doris! Guarda questo! Il terizo-coso!»

«Terizinosauro» lo corresse lei.

«E io che ho detto? A ogni modo… non ti sembra semplicemente perfetto?» le chiese, con un sorriso compiaciuto.

DOR-15 tacque per dei lunghi istanti, poi espresse i suoi dubbi:

«Personalmente, non comprendo in quale modo un animale come il terizinosauro possa letteralmente catturare un essere umano e portarlo in un punto: le tre dita delle sue zampe anteriori non sono opponibili; inoltre, i suoi artigli potrebbero ferire il soggetto»

«E credi che non l’abbia capito? Bombetta ingenua! Non lo useremo per catturarla, ma per costringerla a venire da noi! Aspettiamo che si ritrovi da sola e tanto lontana dai suoi amici decerebrati, la minacciamo con gli artigli e lei, terrorizzata, accetterà di seguire la nostra pedina mesozoica fino a noi più docilmente di un agnello che deve andare al macello per Pasqua! Non è geniale? Muhuhuhaha! Ammettilo, Doris: se stavo così simpatico al tuo creatore, era anche perché avevo un cervello acuto come il suo!»

Doris non rispose. Il suo visore si chiuse e si mise a vibrare come una vecchia lavatrice a pieno carico. Quando smise e riaprì l’occhio meccanico, spiegò:

«Ho appena svolto un calcolo delle probabilità di successo della strategia da te proposta»

«E?» chiese lui, fiducioso.

«Secondo un approfondito calcolo, abbiamo un…»

«Suvvia, Doris! Non basarti sui numeri, che servono solo a complicare inutilmente le cose! Sono certo che il mio piano è talmente brillante che non corriamo affatto il minimo rischio di fallimento! Mike Yagoobian e DOR-15 sono sempre un passo avanti!»

«In realtà…»

«Zitta, zitta, zitta! Non fare la dubbiosa: i dubbi portano sfortuna! E adesso posati sulla mia testa e andiamo a cercare un tezizezo-coso!»

«Terizinosauro» gli ricordò lei.

«Quello che è, fa lo stesso! Una rosa punge anche se la chiami in un altro modo, no?»

Mike era ottimista. E Doris, nonostante fosse animata da algoritmi e schemi, aveva saputo imparare che quando il suo proprietario si comportava così c’erano solo disastri in vista. E il lato peggiore di quei momenti era che, esattamente come era appena successo, lei non riusciva mai a cercare di fargli capire quanto improbabili fossero le sue idee, siccome lui la interrompeva di continuo, essendo così entusiasta da non voler sentire opinioni contrarie. Dunque, con una manata, Mike svegliò lo pteranodonte, che gracchiò con irritazione. Erano diretti ad un prato qualsiasi, visto che il libro diceva che i terizinosauri erano soliti mangiare e setacciare cespugli negli spazi erbosi.

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C’era voluto tanto, ma finalmente Drof aveva recuperato tutte le sue energie. Ellebasi era stata di grande aiuto durante la riabilitazione, rendendo tutto più veloce coi suoi consigli. Ora che era nuovamente pronto per riaffrontare il selvaggio ecosistema dell’isola, l’uomo aveva in mente un obiettivo preciso: mettersi sulle tracce di Gnul-Iat e toglierlo di mezzo una volta per tutte, prima che uccidesse altre persone, in particolare Acceber. Quindi, fece scorte abbondanti al mercato degli Alberi Eterni, pregò per chiedere supporto morale dallo spirito di sua moglie e andò a recuperare Onracoel e le bestie sopravvissute al massacro alla stalla comune. Inoltre, ne comprò altre per andare sul sicuro. Ma questa volta, siccome aveva visto quanto numeroso fosse il contingente di Gnul, decise di andare a farsi aiutare per diventare più forte. Ragion per cui, lasciato il villaggio delle case sulle sequoie, la Freccia Dorata si diresse ad Ovest, verso l’abitazione di suo cugino Odranreb, un cacciatore solitario che disponeva di diverse creature, anche se non formavano un contingente così grande. Quello che però lo rendeva un prezioso alleato contro Gnul era la sua bestia più distruttiva: un giganotosauro.

Pochi sull’isola possedevano uno di quei giganteschi mostri, visto che erano abbastanza rari e che affrontarli corrispondeva a condannarsi a morte. Il mezzo meno rischioso con cui li si poteva domare era rubarne un uovo e allevare il cucciolo dalla nascita, ammesso che si riuscisse a sfuggire alla furia della madre. E, in un combattimento, occorreva stare molto attenti a non farli infuriare: in tutto il regno animale, nessuna furia si poteva paragonare a quella di un giganotosauro arrabbiato. Anche un esemplare domato poteva ribellarsi al suo padrone e ignorarne i comandi o, nel peggiore dei casi, divorarlo insieme a tutto quello che avrebbero incrociato prima di sbollire. Era un grande rischio. Ma, vista la situazione e viste le necessità, Drof decise di correre il rischio e rivolgersi ad Odranreb. Era da quasi un anno che non si rivedevano, quindi da un lato sarebbe anche stata un’occasione per rincontrare un parente ed amico. Aveva già in testa come sarebbe andata: si sarebbero salutati, ci sarebbero stati i rispettivi racconti, poi lui gli avrebbe chiesto di aiutarlo e seguirlo col giganotosauro. Conoscendo Odranreb, non sarebbe certo andato contro un rifiuto. Anzi, suo cugino era sempre in attesa di un buon pretesto per scatenare il suo mostro.

“Ho commesso molti sbagli coi miei figli. Con entrambi, specialmente con lui. Ma stavolta vedrò di andare sul sicuro: non posso permettermi di fallire. O muore Gnul, o moriamo io e lui insieme” pensò con determinazione, prima di spronare Onracoel e partire al galoppo col nuovo contingente.

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Grazie allo strappo dei due coniugi arkiani, Sam e Nerva raggiunsero la giungla nell’Est in relativa sicurezza e piuttosto rapidamente, nonché per primi. Era mezzogiorno quando ci entrarono. Avevano entrambi fame e la donna li aveva invitati a pranzare da loro. Nerva non era affatto entusiasta dell’idea: avrebbe preferito di gran lunga andare nella taverna e spendere dei ciottoli per ordinare un pasto. Ma Sam accettò subito e parlò praticamente per entrambi, per cui non si sentì in vena di contestare, il che lo confuse: conoscendosi, di norma non avrebbe mai permesso che qualcuno non gli lasciasse voce in capitolo, eppure si ritrovava sempre più spesso ad essere più o meno recessivo. Ma poi si rese conto che, in fondo, cambiava poco. Quindi accettò silenziosamente di essere ospitato in casa di due sconosciuti che avevano già fatto loro più di un piacere. Avrebbe provato a non pensare ai vergognosi ricordi di due anni prima e a comportarsi il più naturalmente possibile. Mangiarono un piatto di carne cotta allo spiedo, condita con quella che pareva una carota preistorica. Le porzioni per ognuno erano molto abbondanti, ma non a tal punto da lasciare avanzi. Sam chiese a che animale apparteneva quel taglio e l’uomo gli rispose che era la zampa posteriore di una fiomia.

«Era gustosa! Non so se è la carne che è buona di suo o se la cuoca è tanto brava, ma in ogni caso complimenti!» commentò goliardicamente Sam, facendo ridere i due. Gaius fece un vago sorriso.

«Allora, avete intenzione di andare dal capo fin da subito?» chiese lui.

«Sì» rispose Nerva.

«Poi aspetteremo i nostri amici, sperando che siano tutti vivi» aggiunse Sam.

«Buona fortuna. Intendo, per tutto. Sapete, il vostro viaggio, i vostri amici, sopravvivere…» augurò lei.

«Grazie. Ci ricorderemo della vostra cordialità e ospitalità! Andiamo, adesso» si congedò il Romano, alzandosi e dirigendosi verso la porta d’ingresso.

Sam rigraziò a sua volta e salutò, prima di raggiungere Nerva. A quel punto, raggiunsero la casa del capo delle Rocce Nere, Orteip Arenaiccor. La sua abitazione era particolare: gran parte di essa era scavata in un enorme macigno nero che si ergeva al centro della piazza del mercato: da quello derivava il nome della tribù. Mentre vi si avvicinavano, uno dei mercanti richiamò la loro attenzione, chiedendo loro se volevano comprare un animale di piccola taglia, indicando un bancone attorno al quale metalontre, diplocauli, dimetrodonti e altre specie erano legati a dei paletti. Lo ignorarono. Un altro venditore gridava a pieni polmoni per invitare i clienti ad acquistare quella che definiva “una sua piccola invenzione”: un raschietto che, a dir suo, permetteva di rimuovere le ementerie, grosse sanguisughe che infestava gli acquitrini di ARK e che, talvolta, trasmetteva una pericolosa infezione che si chiamava “Febbre della Palude”, dalla pelle. Dietro di lui pendeva un cartello di legno sul quale aveva dipinto, con una tintura bianca, i vari passaggi per usare l’attrezzo. Sam era davvero curioso e non resistette alla tentazione di prenderne uno. Nerva lo guardò con un po’ di perplessità quando lo vide tornare col raschietto in mano, e Sam si limitò a scrollare le spalle e a dirgli che la prudenza non è mai troppa. Poi Nerva bussò alla casa del capovillaggio e rabbrividì al pensiero di incontrare di nuovo uno dei suoi vecchi nemici. Una notte aveva sognato di essere solo e circondato da tutti i capivillaggio che lo picchiavano a morte dopo averlo smascherato. Allontanò il pensiero e attese. Quando la porta si aprì, comparve Orteip in persona. Era un uomo anziano dalle tempie rasate e i capelli rimanenti spostati a sinistra e una rada barba. Teneva uno dei manufatti sottobraccio: evidentemente stava aspettando quel momento.

«Immagino che voi siate gli stranieri che cercano il Tesoro» suppose con un sorrisetto e direttamente nella loro lingua.

«Già» rispose Sam.

«Bene, il Manufatto del Signore dei Cieli è qui. Oh, e se doveste arrivare al Tesoro… non fatene cattivo uso. Tutto il popolo di ARK vi tiene d’occhio!»

«Be’, non abbiamo la minima idea di cosa possa essere e il piano è partito dalla mia amica Laura, per cui dovrebbe essere lei a giurare di servirsene bene. Ma lei non c’è, dunque lo faccio io»

«Bene. Ora prendetelo e andate: tra poco avrò molto da fare. Amministrare una comunità è impegnativo, cosa credete?».

Sam prese il manufatto e salutarono. Orteip grugnì e richiuse la porta.

«Però, è stata facile!» commentò Sam.

«Meglio, no?» gli chiese Nerva.

«Eh, certo! Adesso?»

«Attendiamo l’arrivo degli altri»

«Se arriveranno…»

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«Ce l’abbiamo fatta!» esclamò Chloe, sollevata, vedendo la palizzata del villaggio.

«Sì, e senza rischiare la vita altre volte! – aggiunse Mei – E adesso speriamo che qualcun altro sia riuscito ad arrivare fin qui»

Quando si avvicinarono ad uno dei portoni, le guardie riconobbero la Regina delle Bestie all’istante. Non tanto perché si era diffusa la notizia del suo ritorno, ma per il suo aspetto. Ormai il suo sguardo perennemente serio e i suoi lineamenti asiatici erano proverbiali su ARK. Entrarono e iniziarono ad attraversare tutto il villaggio, guardandosi attentamente intorno per vedere se c’erano i loro amici. Alla fine, videro in lontananza Sam e Gaius che, intanto, erano già stati raggiunti da Helena e Laura. Si avvicinarono e gli altri, notandoli, corsero loro incontro a braccia aperte.

«Ehi, Chloe! Anche tu sei tutta intera, benone!» esclamò Sam.

«Modestamente. Però me la sono vista brutta»

«Mai quanto me! Noi due ci siamo dovuti nascondere da un T-rex e per poco quel grosso bastardo bavoso non ci scopriva!»

«Io, invece, sono stata quasi mangiata da un allosauro, se si chiama così. Seguivamo una mandria e c’è stato un attacco. A te com’è andata, Laura?»

«A noi tre non è successo niente, per fortuna. Però mi sentivo come… osservata? Non so, era come se qualcosa di familiare mi tenesse gli occhi addosso. La stessa che ho provato sulla barca»

«Ehi, cos'è? Sei diventata la maga delle sensazioni? Senti degli squilibri nella Forza? Quand’è così, teniamoti stretta, che sei comoda!» scherzò Sam e tutti e tre risero, nonostante la battuta fosse pessima.

«Ma… dove sono Jack e il dottore?» chiese poi Laura.

«Il secchione e il farmacista non si sono ancora visti. Forse stanno arrivando…» suppose Sam, speranzoso.

«Da quel che ho visto, direi che tutti voi sapete cavarvela, anche loro!» disse Acceber, per dare supporto morale, mentre accarezzava la testa di Rexar.

«Io non vorrei dovermi spaventare… Edmund ha una certa età, ma conosce molto bene la sopravvivenza. Però…» Helena sembrava dubbiosa.

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Dopo qualche altra discussione, Jack e Rockwell erano arrivati ad una soluzione definitiva: il ragazzo si sarebbe fatto teletrasportare da Diana al villaggio delle Rocce Nere, così lui avrebbe spiegato tutto agli altri e lei avrebbe salutato Acceber, mentre il dottore sarebbe andato a vedere l’avamposto dei soldati con l’equipaggiamento TEK per scoprire di più. Ma poi, Jack sarebbe tornato da lui.

«Conoscendo Helena, lei non si sentirebbe affatto tranquilla a lasciarmi da solo con una cosa che mi interessa tanto quanto questa – aveva detto – almeno tu potrai tenere attivi i contatti e mostrarle che è tutto sotto controllo. Così lei non si lamenterà con me come suo solito…»

E così, Jack e Diana apparvero insieme sul teletrasportatore che l’URE (così si chiamava il corpo militare dal 2150, significava "Repubbliche Unite della Terra") aveva segretamente piazzato poco distante da ogni villaggio, tra cui quello delle Rocce Nere. Lei aveva sbrigativamente detto che potevano essere utili per quelli che, come lei, erano interessati a fare degli scambi culturali con gli Arkiani.

«Accidenti, che mal di testa!» esclamò Jack, appena la luce bianca sparì e fece comparire giungla fitta attorno a loro.

«Sei andato bene!»

«Davvero? In che senso?»

«La maggior parte delle persone sviene, al primo teletrasporto»

«Oh... e io che ho mal di tutto!»

Lei si tolse ancora il casco e lo agganciò alla cintura della corazza. Quando si avvicinarono al portone, chiesero e ottennero di farselo aprire; le due guardie fissarono Diana per tutto il tempo. Nonostante gli incontri fra i nativi e l’URE avvenissero ogni due anni, gli Arkiani non avrebbero mai smesso di stranirsi, vedendo il TEK. Anche dentro il villaggio, tutti i passanti si voltavano verso di lei per un secondo, il che la fece diventare rossa come un pomodoro. Dopo qualche minuto, finalmente, Jack rivide i suoi amici vicino al mercato. Li indicò a Diana.

«Oh, sì, ecco Acceber! Non vedo l’ora di conoscere anchei tuoi amici, comunque. Vai tu e dille che c’è una visita per lei: immagino che sarà ancora più contenta se mi vedrà da sé»

«D’accordo»

Quando i ragazzi videro Jack, lo abbracciarono e non smisero un secondo di chiedergli cosa gli fosse accaduto. Gli autori dei diari erano perplessi per il fatto che fosse da solo.

«Dov’è Edmund? Non dirmi che…» chiese Helena, praticamente nel panico.

«Sta bene, non è successo niente! Tra poco spiegherò tutto. Ma… Acceber?»

«Sì?»

«Una persona è qui per te. Guarda laggiù!»

La figlia di Drof guardò dove le indicava e…

«Diana! Per gli spiriti… sei tu!»

E corse dall’amica, veloce come il vento. Le balzò addosso e la strinse in un abbraccio sorprendentemente energico, ignorando la durezza dell’armatura in Elemento.

«Scusa per l’attesa. Ciao, Acceber!» rispose la ragazza coi capelli rossi.

Intanto, gli altri rimasero a bocca spalancata nel vedere la sua corazza.

«Ma che cazzo...» sobbalzarono Sam ed Helena, contemporaneamente.

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Gnul-Iat osservò tutta la scena col canocchiale, dall’alto, in sella al suo tapejara.

“Cosa? Ha un’amica degli Uomini dal Cielo? Dannazione! E ora? OK, devo riflettere… non tutto è perduto… se avrò abbastanza pazienza, riuscirò a prenderla lo stesso! Prima o poi dovrà pur isolarsi, magari per fare le sue cose o per cercare ciottoli da sé… aspetta solo di darmi una buona occasione, sorellina, e vedrai! Ti ammazzo! Vedrai come!” pensò, malevolo.

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Capitolo 16
*** La verità sul 2150 (storia vecchia) ***


Santiago fece fare un rapido giro dell’avamposto militare a Rockwell, spiegando nel modo più chiaro possibile come funzionava ogni cosa. Il farmacista era emozionato ogni istante di più. La base dell’URE era completamente circondata da un grande campo di forza trasparente, anch’esso attraversato da una rete di esagoni azzurri luminosi. L’area, situata in una gran prateria al centro-Nord di ARK, era considerevolmente estesa. Era suddivisa in più zone, in ciascuna delle quali si svolgeva un’attività specifica: c’era un edificio in cui le creature catturate durante le spedizioni venivano congelate (letteralmente) in cubi di ghiaccio delle loro dimensioni, per poi essere rimpicciolite e “archiviate” in degli scompartimenti appositi. Poi c’era l’infermeria dove, ovviamente, erano ricoverati i soldati che avevano avuto degli incidenti. In fondo alla struttura c’erano due “letti” con una cupola di vetro sigillabile e con molte bocchette all’interno. Santiago spiegò che quelli erano riservati ai casi più estremi in assoluto, quando gli infortunati erano praticamente agonizzanti: la tecnologia medica dei lettini avrebbe migliorato di gran lunga le loro condizioni, anche se non totalmente. Poi era presente una piattaforma al centro della quale c’era un grande dispositivo composto da un triplo supporto, due a terra e il terzo in alto, che reggeva quattro grossi anelli metallici che roteavano velocemente in orizzontale e verticale, passando uno sopra l’altro, e al centro esatto della “sfera” attorno alla quale orbitavano infuriava una tempesta di piccoli fulmini azzurri che partivano da una luminosa palla liquida fluttuante e ribollente.

«Quello è un replicatore di TEK – spiegò Santiago – È da quello che parte tutto. È come una “forgia” che sforna oggetti in Elemento. Se qualcosa come il pezzo di un’arma o di una struttura si danneggia irreparabilmente o va perduto, o se serve semplicemente qualcosa di nuovo, si richiede la fabbricazione dell’oggetto da un terminale, il replicatore elabora la richiesta e, dopo aver prelevato dell’Elemento liquido da un serbatoio ad esso collegato, lo fa solidificare con la forma dell’oggetto desiderato. I processi fisico-chimici che infuriano al suo interno si fermano finché l’oggetto non viene prelevato»

«Meraviglioso… assolutamente meraviglioso!» boccheggiò Edmund, con aria spiritata.

«Sì, lo so. È più o meno la reazione di tutti noi quando ci spiegano tutto, in accademia» gli rispose Santiago, ammiccando.

«Toglimi una curiosità, giovanotto… qual è il vero nome di quest’incredibile materiale?»

Santiago sollevò un sopracciglio:

«Gliel’ho già detto: Elemento TEK»

«Oh… veramente? È questo il modo in cui vi ci riferite? Anche nell’ambito scientifico?»

«Ehm… sì. Qualcosa in contrario?»

«Ho solo una contestazione a riguardo: secondo il mio parere, questo nome è fin troppo generico. Qualunque cosa è un elemento chimico! Lo si può confondere con un centinaio di altre sostanze, se non si specifica bene di cosa si tratta. Possiede una formula chimica, almeno?»

«Certamente! È “Tk”»

«Se volete, posso aiutarvi a conferirgli un nome migliore: sarebbe un piacere!»

Santiago ridacchiò:

«Mi spiace, ma ho come l’impressione che per quello se ne debba parlare coi Governi: noi soldati semplici dell’URE siamo come formiche, in confronto ai pezzi grossi che dirigono la nostra società. Ma se proprio le va, può usare un nomignolo personale»

«Ci rifletterò. È tutto?»

«Tecnicamente, ci sarebbero ancora gli alloggi. Ma quelli sono solo le nostre camere da letto e la nostra mensa, niente di eccezionale»

«Sì, sì, comprendo»

«Bene! Allora, per caso ha intenzione di stare qui a lungo? La avverto da subito che non ci sono alloggi aggiuntivi»

«Sì, mi fermerò qui per dei giorni: ho l’assoluta intenzione di scoprire le caratteristiche del vostro Elemento più approfonditamente. Quanto al pernottamento, io e il ragazzo con cui mi avete trovato useremo le nostre tende: non vi daremo fastidio, da quel punto di vista»

«Ah, allora la cosa è risolta dal principio! OK, potete restare e lei può fare altre domande, ad una condizione»

«Sarebbe?»

«Non faccia mai, mai e poi mai allusioni all’Elemento al suo stato liquido. Mai! Sottolineo il “mai” ancora una volta: m-a-i»

Rockwell era confuso:

«Mi sembra una proibizione strana, se non perfino ridicola! Perché?»

«Non posso entrare troppo nello specifico, ma… sappia che da dove veniamo noi è illegale usarlo per cose diverse dalla forgiatura di oggetti nel replicatore di TEK. Faccia due più due…»

«Non hai spiegato perché»

«È questo il punto: nessuno lo sa. Anche indagare sulle proprietà dell’Elemento liquido è illegale e sancibile con anni di prigione. Solo i ricercatori fidati dei Governi e i politici hanno il permesso di sapere»

«Uhm…»

«Quindi… facciamo così: se qualcuno di noi la sorprende anche solo una volta a ficcare le mani nel serbatoio dell’Elemento liquido, lo dirà prima a me e poi a Diana. E poi lei sarà obbligata ad allontanarvi da questa base. Ci siamo capiti?»

Rockwell era estremamente contrariato e, in fondo al cuore, arrabbiato. Ma annuì.

«Bene. Vedrà, sopravvivrà anche a sapere dell’Elemento solido… se non rivelerà niente al mondo esterno. Ci si vede!»

«Arrivederci. Buon “lavoro!” Ma per quale motivo venite su ARK?»

«Oh, cavolo! Dimenticavo! Ecco... che ne dice se la invito a cena nella mensa, stasera? Almeno conoscerete meglio gli altri e converseremo un po’ e chiariremo anche questo!»

«Perché no? La ringrazio!» e si congedarono.

Rockwell raggiunse un angolo remoto della base, lo spazio che aveva scelto prima per montare la tenda propria e di Jack. Posò il suo zaino a terra, prese carta e penna e, con una foga che non provava da quando aveva scoperto ARK, scrisse questa riflessione:

In tutta la mia vita, non ho mai visto niente di così meraviglioso! Questo straordinario metallo, questo “Elemento TEK” portato su ARK dal futuro, è affascinante come null’altro!

Devo assolutamente scoprire di più. Purtroppo, però, questi militari venuti dal 2150 non saranno sempre collaborativi: mi è già stata imposta una limitazione. A quanto pare, la forma liquida di questo misterioso materiale è considerata un vero e proprio tabù. Mi hanno addirittura minacciato di cacciarmi dalla loro base operativa!

Ma hanno commesso un enorme errore: hanno negato una spiegazione a me, a Sir Edmund Rockwell! Nulla può essermi celato: la scoperta non può e non deve avere limiti. Non vogliono svelarmi nulla a riguardo? Poco male: lo scoprirò da me. E lo farò sia con, sia senza l’aiuto del giovane Jack Thunder, che sarà in mia compagnia durante la mia permanenza qui.

Devo anche ricordarmi di dare un nome degno a quest’elemento chimico… ci rifletterò, ma penso proprio che conterrà una parte del mio nome, il nome dello scienziato che ha avuto l’immensa fortuna di assistere ad uno spettacolo a cui normalmente non sarebbe mai potuto giungere.

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Dopo le presentazioni (Acceber era stata fiera di presentare Mei a Diana, sebbene nesssuna delle due sapesse chi fosse l’altra), avevano deciso di andare alla taverna per conversare tranquillamente seduti a tavola. Jack spiegò tutto su quello che era capitato a lui e Rockwell e sull’accordo che avevano preso.

«Ah, me lo sarei aspettato da un tipo come Edmund! – ridacchiò Helena – Be’, chi siamo noi per negargli “il pregio di scoprire il futuro”, come diceva sempre lui quando i primi mesi a Sidney comprava enciclopedie a non finire?»

Tutti scoppiarono a ridere, mentre Mei-Yin si limitò a sorridere e scuotere la testa a occhi chiusi.

«Ma non ci sono rischi, vero, ehm… Diana?»

«No, non credo… se Santiago non gli rivela niente sull’Elemento liquido. Allora ci sarebbe da tenerlo sempre d’occhio, visto che per dieci minuti buoni non ha fatto che strapparmi informazioni sul TEK»

«Di che parla?» chiese Chloe.

«Ah, troppo complicato: magari un’altra volta, se ci sarà. Magari quando avrete finito con le vostre cose»

Sam ebbe un’idea:

«Ehi, a proposito delle nostre cose… voi ragazzi futuristici sembrate passarvela comoda con quella tecnologia che avete, quindi… non è che potreste darci un passaggio? Sai, così noi non rischieremmo troppo la vita facendo tutto il giro dell’isola a piedi come dei dannati turisti!»

Diana scosse la testa, mortificata:

«Scusami tanto, ma non c’è modo: abbiamo una tabella di marcia e pause ed interruzioni sono accettabili solo fino ad un certo punto. Per esempio, in questo momento sto usando il mio intervallo post-cattura per parlare con voi, ma tra poco mi toccherà tornare alla base. Due anni fa io e il mio amico Santiago abbiamo provato ad indagare sulle rovine e su quei manufatti, ma abbiamo rischiato seriamente di beccarci una lavata di capo dai superiori a causa delle troppe ore “sprecate”. Per cui… no»

«Ci hai provato, Sam» disse Chloe, amareggiata quanto lui.

Anche Helena e gli altri erano sconsolati per quell’occasione persa.

«Allora, Acceber, adesso sei maggiorenne, giusto?» chiese poi Diana.

La figlia di Drof gonfiò il petto, orgogliosa:

«Oh, sì! Come vedi, ora ho un Impianto della Maturità tutto mio!» affermò, mostrandole il polso sinistro.

«Carino! Non fa male metterlo?»

«Ero sedata quando me l’hanno impiantato, quindi… chissene!»

«Ah, bene così! E hai anche un tilacoleo… bell’esemplare! Maschio o femmina?»

«Maschio: si chiama Rexar e ci ha già aiutato tante volte! Vero, ragazzi?»

«Altroché!» risposero i quattro Australiani, ripensando ai troodonti.

«Per curiosità… hai ancora quel piccolo regalo che ti ho fatto l’ultima volta che ti ho vista? Non sono mai stata sicura che ti piacesse sul serio, onestamente!»

«Oh, ma certo! Eccolo…»

Acceber sollevò il collo della tuta mimetica e tirò fuori una collana che nessuno aveva mai notato prima di quel momento. Il laccetto era di cuoio e il ciondolo era in Elemento. Era la miniatura di quello che sembrava un aereo militare futuristico.

«Carina, quella!» commentò Laura.

«Oh, grazie!» rispose Acceber, prima di nasconderla di nuovo.

«Perché la tieni nascosta? Per comodità?» le chiese ingenuamente Mei.

«Ah… ehm… anche, ma specialmente perché mi guardavano strano vedendola, quindi ho cominciato a ficcarla qui sotto»

«Capito. E comunque… se sei ancora interessata ad avere qualche dritta da parte mia, me lo devi solo dire! Non che ti servano: sembri già abbastanza capace di sopravvivere!»

Helena guardò l’amica e sorrise: le piaceva il fatto che si impegnasse per seguire quel suo suggerimento di ammorbidire il carattere.

«Grazie, Regina delle Bestie! Ma non credo che ti disturberò con certe richieste…» disse la figlia di Drof, arrossendo.

«Figurati!»

«Quindi voi quattro siete stati qui due anni fa? – chiese la donna dal futuro agli autori dei diari – Sapete, mi dispiace proprio di non avervi incontrato durante l’ultima missione: voi mi sembrate così simpatici!»

Helena ringraziò, mentre Gaius provò una fitta d’imbarazzo a sentirlo: se pensava al tipo di cose che aveva fatto lui…

«Vabbè, è ora per me di tornare al lavoro. Tu devi venire con me, Jack»

I ragazzi si alzarono e Thunder guardò i suoi migliori ed unici amici negli occhi:

«Allora, a quanto pare non ci vedremo per un pezzo…» fu tutto quello che riuscì a dire.

«Rilassati, non ci offendiamo!» gli disse Laura, sorridendo.

«Secondo me ti divertirai col vecchio dottore: tra secchioni vi capirete! Magari impari pure qualcosa di nuovo in matematica! He he he he he!» scherzò Sam, tirandogli una pacca.

«Sì, potrebbe andare così. Buona fortuna, ragazzi! Per favore, non morite là, nella natura selvaggia! Cosa dovrei dire alle nostre famiglie, dopo?»

«Fidati, faremo del nostro meglio!» rispose Chloe.

Li abbracciò uno alla volta, poi strinse la mano ad Helena, Mei e Gaius per salutare anche loro. Fatto ciò, lui e Diana uscirono dalla taverna e poi dal villaggio, diretti alla piattaforma di teletrasporto nascosta nella giungla.

“Ci si vede, Jack… se saremo ancora vivi” pensò Laura, rabbrividendo.

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“E… trovato! Finalmente" pensò Mike, ridacchiando, appostato dietro dei cespugli.

Finalmente, in una radura, avevano avvistato un terizionosauro. Così aveva fatto atterrare Girodue su un macigno poco distante; poi, seguito a ruota dalle due bombette robotiche, si era trovato un nascondiglio.

«Pronta per partire in missione, piccola Doris?» chiese a bassa voce.

Il terizinosauro raggiunse un albero e lo graffiò per limare i suoi artigli, lasciando lunghissimi ed inquietanti solchi dritti e paralleli nella corteccia. Mike rabbrividì, immaginandosi quella bestia brutta e strana che trasformava le sue interiora in esteriora con un movimento della zampa.

«DOR-15-B non possiede un dispositivo che le permetta di imitare la voce umana» spiegò Doris.

«…davvero? Be’, questo è triste: mi rovina la scenografia dell’operazione… ma chissene! Prendiamo quella cosa piumata»

Estrasse il controller e indirizzò Doris-B verso il terizinosauro. La fece andare in alto, aspettò che l’animale alzasse la testa, affinché fosse meglio agganciabile… e lo ipnotizzò.

Soddisfatto e trionfante, Mike uscì dai cespugli e si avvicinò al suo nuovo schiavo, che lo fissò con uno sguardo vacuo.

«Allora, vediamo di stabilire la gerarchia… chi è il padrone?»

Tu, si sentì nel microfono.

«Chi è lo schiavetto rammollito senza scopo nella vita?»

Tu

Mike non poteva crederci.

«Ma che… cosa… come…? Argh! Come ti permetti?! Ritira quello che hai detto o sei cibo per dinosauri non erbivori!»

Ritiro quello che ho detto

«Allora riproviamoci: chi è lo schiavetto rammollito senza scopo nella vita?»

Io

«Chi decide quando sarai libero, ovvero mai?»

Penso che sia tu

«Mike…» cercò di avvertirlo Doris, allarmata.

«Aspetta, Doris. Chi ti dà il permesso di mangiare, dormire e svuotare la prostata?»

Fame, sonno e prostata

«No, in teoria sono io, perché sono il tuo padrone. Però…»

«Mike, i miei sensori rilevano una minaccia alle nostre spalle. È quasi arrivata»

«Cosa?! E perché non me l’hai detto subito?!» sobbalzò Mike, terrorizzato.

«Tu mi hai interrotto, quindi ti ho avvertito in ritardo»

Gli alberi e il terreno vibrarono. Mike deglutì quando vide un tirannosauro emergere dalla boscaglia. Il rettile, quando vide il terizinosauro immobile e impassibile, si fiondò su di esso e lo afferrò con le sue possenti mandibole, iniziando a sbatterlo ripetutamente a terra. Doris-B fu sbalzata via. Ma Mike ebbe un’idea furba, per una volta: approfittando della distrazione del tirannosauro, riprese a pilotare la piccola Doris e ipnotizzò il T-rex, che subito mollò il terizinosauro, ormai morto, e si irrigidì.

«Una prontezza di riflessi e di intuito affatto male, Mike» si complimentò Doris.

«Eh? Mi stai facendo dei complimenti? Mitico! Grazie, Doris. Ah, lo so: modestia a parte, io sono il ladro e truffatore più astuto del mondo! Come potevo non cogliere quest’occasione unica e rara?» si pavoneggiò lui.

Osservò il tirannosauro, ammirato. Richiamò Girodue con un fischio.

“Quest’amico grande e grosso ci sarà d’immenso aiuto per catturare quella bambocciona bionda!” pensò, fregandosi le mani.

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Dopo aver lasciato il villaggio delle Rocce Nere col manufatto, i ragazzi erano andati a Nord, seguendo la linea della costa orientale dell’isola. Camminarono per un’intera giornata lungo la strada battuta finché, per la seconda volta, dovettero lasciarla. Quando il Sole cominciò a tramontare, raggiunsero la palude che occupava interamente il letto del fiume Egits, una diramazione dell’Etnorehca che attraversava metà isola in direzione Est, separando il monte Allics dalla giungla. Esili mangrovie alte dai due ai quattro metri formavano un groviglio che lasciava poco spazio per muoversi sulle poche macchie di terra asciutta che, come piccoli atolli fangosi, emergevano di pochi centimetri dall’acqua salmastra e verde. Le loro radici si intrecciavano nei modi più bizzarri, formando quasi un unico, grande nodo che serpeggiava in lungo e in largo per la palude. Il gruppo, raggiunto il suo limitare, sostò per un’ora.

«Avete una decisione da prendere – annunciò Acceber – Preferite dormire qui o attraversare la palude dell’Egits al chiaro di Luna?»

«Io voto per non fermarci: qualcosa potrebbe attaccarci mentre riposiamo, tanto vale uscire da questa situazione il prima possibile» disse Mei.

«Sono d’accordo: detesto le paludi» aggiunse Helena.

Laura guardò Sam e Chloe:

«Io non saprei. Voi due che dite?» domandò.

Le sembrava giusto lasciare che fossero i suoi amici a fare le scelte: li aveva convinti lei a seguirla su ARK, era colpa sua se avevano già rischiato di morire più di due volte.

«Io non resto qui! Questo posto sembra fare proprio schifo!» esclamò Chloe, rabbrividendo al pensiero di che razza di creature potessero nascondersi in quel vasto pantano.

«Neanch’io sono in vena di tirarla per le lunghe. Meglio un tirannosauro che qualche verme colloso che ti succhia tutto il sangue, centomila volte!» commentò Sam.

«In ogni caso, abbiamo quel raschietto che hai comprato al villaggio» gli ricordò Gaius.

«Sì, lo terrò sempre pronto!»

«D’accordo, allora. Andiamo!» disse Acceber.

Rexar sembrava titubante, mentre i velociraptor sbuffarono contrariati: a nessuno piaceva quel posto. In pratica, l’unico modo per gradirlo era viverci o conoscerlo come il palmo della propria mano.

Dunque, fattisi coraggio, si avventurarono.

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L’aria era ferma e pesante, l’umidità dava più fastidio del caldo tropicale. Anche l’acqua era calda, anche avrebbe potuto essere piacevole se non fosse stato per il fatto che il fondale era dannatamente scivoloso. Perfino Rexar, con la salda presa che aveva grazie ai lunghi artigli, aveva già incespicato un paio di volte. Per non farsi sopraffare dal disagio, avevano deciso di salire e scendere a turni dalle bestie: meno stavano in quell’acqua maleodorante, che arrivava al collo nei punti più profondi e alla vita in quelli che lo erano meno, meglio era. Ormai era mezzanotte, la Luna e le stelle brillavano in un cielo limpidissimo: con la loro luce, si poteva vedere decentemente, ma avevano avuto comunque bisogno di accendere delle torce, il che fu piuttosto difficile a causa dell’umidità. Procedevano lentamente, ma senza imprevisti… per il momento. Ad un certo punto, Chloe sussultò e ansimò.

«Oh! Che ti succede?» le chiesero Laura e Sam contemporaneamente.

«Qualcosa mi ha strofinato i polpacci! L’ho sentito… ora è sparito…» spiegò lei.

Mei, per precauzione, estrasse la spada.

«Era ruvido o liscio?» chiese Helena.

«Ruvido, mi pare…» balbettò Chloe: la sua mandibola tremava.

«Potrebbe essere un titanoboa…» rifletté la biologa.

«Titanoboa?! Vi consiglio di tenervi pronti!» esclamò Acceber.

«Tutti quanti, raggiungete subito un angolo asciutto!» ordinò Gaius.

Corsero all’atollo più vicino e formarono un cerchio. Ognuno impugnava la sua arma, teso e guardingo. Le cavalcature osservavano l’acqua e le fronde delle mangrovie, fiutando l’aria.

«Domanda cretina: cos’è un titanoboa? Un serpente gigante o una cosa così?» chiese Sam, preoccupato.

«Esatto. Un antenato dei serpenti costrittori, con un collare di pelle attorno alla testa come i dilofosauri» spiegò Helena.

«Non fatevi mordere: vi farà svenire» spiegò Acceber.

Per cinque minuti, non successe niente. L’acqua era ferma e l’unico rumore presente era l’intenso gracidìo notturno dei belzebufi, grandi rane preistoriche. Poi, però, i velociraptor si agitarono e cominciarono a scambiarsi ripetutamente versi e sibili. Laura vide, per un attimo fuggente, una sinuosa sagoma nera che emergeva lievemente dalla superficie dell’acqua, per poi sparire nuovamente.

«Ho visto qualcosa!» segnalò.

«Anch’io!» avvertì Nerva, una decina di secondi dopo.

«Ci sta sondando – spiegò Helena – Potrebbe attaccare da un momento all’altro…»

«Odio i serpenti… anche se sono australiano!» sibilò Sam.

«Ci sono tanti titanoboa da dove venite voi?» chiese Acceber, curiosa, dimenticando per un secondo la pericolosità della situazione: non poteva resistere ad un riferimento al mondo esterno.

«Non è il momento!» la rimproverò Mei.

«Mi dispiace, Regina delle Bestie» si scusò l’Arkiana, mortificata.

«Guardate là!» esclamò Chloe, indicando un punto davanti a sé.

La sagoma era riapparsa e stava compiendo un ampio giro attorno all’atollo, allontanandosi lentamente, per poi svoltare all’improvviso e sfrecciare verso di loro. Istintivamente, Acceber fischiò e indicò la sagoma per ordinare a Rexar di attaccare. Il tilacoleo ruggì e si fiondò sul bersaglio, alzando un grande schizzo. Si sentì un assordante sibilo e, quando Rexar affondò i denti in un lungo corpo nero e a scaglie, dall’acqua emerse la grossa testa triangolare di un serpente che agitava la lingua e un collare di pelle verde brillante che decorava i lati della sua testa. Il titanoboa scoprì i denti e si preparò ad attaccare, ma Rexar fu abbastanza svelto da schivare il morso all’ultimo e prendere le distanze, aggiungendoci anche un ruggito di minaccia.

“Che figata!” pensò Sam, affascinato.

Il titanoboa provò ad attaccare di nuovo, ma Rexar scartò di lato e sferrò una zampata che aprì cinque tagli obliqui nella pancia del serpente. I velociraptor si unirono al combattimento di loro spontanea volontà: senza nemmeno stare ad organizzarsi, fecero a turno per bloccarlo e colpire: quando uno si ritirava, un altro andava all’attacco, seguito da un altro ancora.

«Approfittiamone per finirlo!» suggerì Gaius.

Quindi tutti, raccolto il coraggio, si buttarono sul titanoboa ormai malconcio e lo trucidarono con le loro armi, poi Mei lo decapitò.

«Fiuuuu, c’è mancato poco, eh? – commentò Chloe, con un sorriso nervoso – Comunque, Acceber… sì, in Australia ci sono tanti serpenti. Ma non come questo, sono molto piccoli, però sono velenosi e bastardi»

«Interessante… grazie per avermelo spiegato!» ringraziò la figlia di Drof.

«Forza, andiamo via da qui, prima di trovare altri animali striscianti!» li esortò Helena, con un brivido.

Dieci minuti dopo che si furono allontanati, un kaprosuco che passava da quelle parti notò il titanoboa morto e iniziò a mangiarne la carcassa: la sfortuna del primo aveva significato un pasto gratuito per l’altro.

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«Dunque, giovanotto, sei pronto per andare a questa cena?» chiese Rockwell, impaziente.

«Mi sono sistemato come meglio potevo, dottor Rockwell» rispose Jack.

«Ti sei strofinato l’erba aromatica che ti avevo indicato sul collo per nascondere i cattivi odori della natura selvaggia? Sono un gentiluomo, sono abbastanza pignolo sulla presentabilità. Questa è anche un’altra occasione per scoprire di più su questa società e sull’edmundio, non possiamo permetterci brutte figure!» esclamò il medico, uscendo dalla tenda.

«Ho capito che… aspetti, come ha detto? “Edmundio”?» chiese il ragazzo, seguendolo. Era perplesso.

«Mi riferisco al cosiddetto “Elemento TEK”. Dopo attenta riflessione, ho stabilito il suo nuovo nome comune, anche se sarà usato solo da me e in privato» spiegò il farmacista, fiero.

«Questo a me sembra narcisismo, se permette» fu il commento.

«Non dire assurdità, giovanotto! Parecchie sostanze chimiche oggi portano il nome dei loro scopritori! Perché io dovrei fare eccezione?»

«Contento lei…»

«Forza, adesso andiamo! Chissà se nel 2150 sono stati compiuti dei progressi anche nella conservazione degli alimenti…»

«Secondo me sì: sono militari, ne hanno bisogno. E poi, con una tecnologia che permette il teletrasporto…» rifletté Jack, mentre si incamminavano verso gli alloggi della base dell’URE.

«Sai, ragazzo? Penso che io e te andremo molto d’accordo durante le mie preziose ricerche! Hai anche un’aria affidabile»

“Fa’ che niente vada storto, per piacere!” pregò mentalmente Jack. Nonostante la calma e la sicurezza di quel posto, il giovane tecnico informatico percepiva guai all’orizzonte.

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Capitolo 17
*** Odranreb (storia vecchia) ***


I due cercatori di uova Harg Anar e Ailog Opsor, accompagnati da due diplocauli, vagavano per la palude in cerca di un nido di belzebufo: le femmine, dopo l’accoppiamento, scavavano una buca sul fondo della palude in cui deporre centinaia di uova grandi quanto un pungo. Da quelle uova sarebbero nati altrettanti girini, ma pochissimi di loro sarebbero diventati adulti. I cercatori di uova come Anar e Opsor erano dei cacciatori specializzati, per l’appunto, nella ricerca e raccolta di uova di animali selvatici su commissione. In quel caso, cercavano uova di belzebufo per conto di un Teschio Ridente che voleva aprire un vivaio. Una parte del bottino sarebbe andata a lui, un’altra sarebbe rimasta a loro e si erano accordati per venderle ad uno o più mercati. Immersi fino al collo, Harg e Opsor tastavano il fango coi piedi: se avessero trovato un punto in cui il terreno era meno scivoloso e più cedevole, allora sarebbero stati sopra una di quelle buche. Mentre cercavano, tenevano strette le loro balestre, caricate con frecce in ossidiana. Le avrebbero usate se una creatura aggressiva avesse dato fastidio. Il problema era notarla in tempo, visto che era così buio e non potevano accendere torce. Ma al momento non ci pensavano, concentrati com’erano in quello che stavano facendo.

«Ehi… ehi! Il mio piede affonda, forse ne ho trovata una!» esclamò Harg, ad un certo punto.

«Controlliamo» gli disse Ailog, mandando i diplocauli a scavare.

I due anfibi si immersero; tornarono che avevano in bocca degli oggetti sferici e gelatinosi, in cui si intravedevano le sagome di piccoli girini raggomitolati.

«A-ha, trovata!» esclamarono i due, fregandosi le mani.

Presero le pale in legno che avevano a tracolla e si prepararono ad aiutare i diplocauli nello scavo, ma furono interrotti da una voce maschile che li chiamava; alle loro spalle, si accese una torcia. Si voltarono e videro un ragazzo con una bandana attorno alla testa e molte cicatrici dovunque. Era appoggiato con la schiena ad una mangrovia su un atollo e stringeva una fiaccola. Accanto a lui c’erano un’artropleura e un anchilosauro: le loro cavalcature. Loro le avevano lasciate all’esterno della palude per non avere rogne, ma lui le aveva portate fin lì per qualche motivo.

«Per caso questi due sono vostri?» chiese il giovane, con un sorriso provocante.

«Ehm… sì. Ma non ci servivano qui. Chi sei? Che vuoi da noi?» chiese Harg, sospettoso.

«Ve lo dico dopo. Niente, ho visto due animali sellati tutti soli e ho deciso di cercare i loro padroni, per cui eccomi qua. Non vi servivano? A saperlo, mi risparmiavo la fatica. Un’altra domanda: per caso avete visto una ragazza molto simile a me, con una smorfia mielata in faccia e un autografo sul collo?»

«Cosa? Non è quella Freccia Dorata che…» iniziò a parlare Ailog.

«D’accordo, adesso vuoto il sacco: non mi serve che me lo diciate, perché so già dov’è. Lei e il gruppetto di stranieri a cui sta facendo da guida turistica si sono accampati poco fa. Ora, se voi due…»

«Chi diamine sei?!» chiese Harg, spazientito.

«D’accordo, visto che avete così voglia di farla finita… mi chiamo Gnul-Iat Ydorb. Contenti?»

I due impallidirono e imbracciarono le balestre:

«Il Ladro di Innesti!»

«In persona! Bene, siete noiosi, siete stupidi, siete inutili. Morite pure»

«Non se ti ammazziamo prima noi, figlio di puttana!» esclamò Ailog, portando il dito al grilletto della balestra.

Stava per scoccare, ma Gnul fischiò e loro sentirono un fragore di passi e acqua mossa alle loro spalle. Si voltarono appena in tempo per vedere un imponente paraceraterio caricarli dopo essere stato piazzato da Gnul in un punto dietro di loro, prima che iniziasse la loro conversazione. I due non ebbero il tempo di fare niente, prima che il mammifero dal lungo collo sollevasse le zampe… e li schiacciasse.

«Mia madre non era una puttana. Era meglio di chiunque altro su ARK» ringhiò Gnul.

Ordinò al paraceraterio di spostarsi, poi trascinò a riva i resti spappolati dei due cercatori di uova e prelevò gli innesti dai loro polsi.

“E anche per questa volta sono a posto – si disse – Adesso devo solo aspettare che Sotark prenda Acceber”

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L’atmosfera nella mensa dei soldati dell’URE era decisamente più accogliente di quanto Jack pensasse. Il locale, che occupava l’intero piano terra della struttura degli alloggi, aveva un arredamento che definire spartano era un eufemismo: praticamente c’erano solo il lungo tavolo e le sedie. La stanza era illuminata da poche, ma potenti lampade simili a quelle al neon. Dalle ampie finestre si vedeva il resto della base, illuminata a giorno da molti riflettori che facevano dimenticare che era notte. A sollevare il morale era l’allegria dei presenti e le canzoni di un gruppo musicale di cui Santiago era un ammiratore, riprodotte da una sorta di bluetooth futuristico. Quando le armature non servivano e i turni erano finiti, i soldati indossavano delle comode maglie fatte di un tessuto sintetico lavorato in modo da somigliare alla seta di bombice del gelso. Per cena era stata servita una minestra di verdure frullate… e prese da una dispensa di cibi sintetizzati in molecole da riportare al loro stato originale per quando era l’ora di un pasto. Anche questo affascinò immensamente Rockwell.

Per loro fortuna, alcuni dei soldati erano finiti in infermeria, per cui avevano potuto avere un posto. Jack consumava la zuppa in silenzio, godendosela e rispondendo pacatamente alle occasionali domande che gli erano rivolte sulla vita nel 2018. Era strano sentire parlare della propria epoca storica come se fosse una materia scolastica. Rockwell, dal canto suo, fra una cucchiaiata e l’altra faceva sempre domande sul TEK. Poi anche lui aveva preso confidenza e aveva accettato di raccontare alcuni aneddoti sulla sua vita nella Londra settecentesca. Poi, finita la cena, ci fu un minuto di silenzio, dopo un’ora e mezza di racconti e risate. Poi, Jack e Rockwell chiesero contemporaneamente perché i soldati TEK venivano sull’isola a catturare creature preistoriche.

«Be’, il momento è arrivato» ridacchiò un veterano di nome Skipper, seduto all’ultimo posto a sinistra del lato anteriore della tavola.

«Inizio io?» chiese Diana ai suoi commilitoni, ottenendo un sì collettivo.

Edmund e Jack si fecero attenti.

«Allora, i Governi ci incaricano di catturare dinosauri perché… casa nostra fa schifo!»

I due la guardarono con aria interrogativa.

«Sta dicendo che il pianeta Terra è diventato praticamente invivibile» chiarì un soldato.

«Non fosse stato per il TEK, ci saremmo estinti secoli fa – aggiunse Santiago – Anche se in realtà dev’essere stato proprio l’Elemento il responsabile della rovina»

Skipper sbuffò:

«Voi giovani dovete smettere di fare i complottisti! Non è ufficiale»

«Infatti – ribatté Diana – ma non c’è altra spiegazione. Peccato che i Governi non vogliano ammettere che è stata la loro preziosa tecnologia a rovinare il pianeta azzurro. Comunque, voi due… mi dispiace che dobbiate sentire che il mondo che conoscete è destinato a decadere a partire dal 2103»

«Triste… ma cosa c’entra tutto questo con ARK?» domandò Rockwell.

Diana si versò dell’acqua e la bevve tutta d’un fiato, poi riprese:

«Che ci crediate o no, la società potrebbe aver trovato la salvezza proprio nelle unicità di quest’isola. È stata scoperta nel 2117 grazie ad un satellite in TEK di ultima generazione. Chissà quanto ancora ne avremmo ignorato l’esistenza, senza quello!»

«E pensare che così tante persone, prima e forse dopo di me, non hanno potuto rivelarlo al mondo dopo averla casualmente trovata!» esclamò Rockwell, con un mezzo sorriso.

«Gli scienziati l’hanno osservata a lungo: hanno studiato la barriera, le creature, gli Arkiani, tutto – continuò lei – E alla fine hanno avuto un’idea»

«Ovvero?» pensò Jack.

«Siccome gli Arkiani sanno sopravvivere in un ambiente così ostile che, in linea teorica, per degli umani così primitivi sarebbe impossibile durare a lungo, hanno pensato che forse pure la nostra società potrebbe tentare di ricominciare letteralmente da capo… su delle copie di ARK»

«Cosa?!» esclamarono i due, increduli.

«Esatto. Il loro piano è stato provare a ricreare ARK in un luogo adatto, ovvero… la parte più esterna dell’atmosfera terrestre, imitare artificialmente gli ambienti climatici misti con un sistema meccanizzato di terraformazione e coltivazione, proteggere le isole spaziali dal Sole con degli scudi TEK che fanno la parte della barriera eccetera»

«Tutto questo è… pazzesco! Ma perché non farlo sulla Terra?» chiese Jack.

«Oh, sai, ci sono stati dei tentativi – rispose una soldatessa coi capelli tinti di verde – Però hanno dovuto rinunciarci a causa dei troppi inconvenienti che venivano fuori tutte le volte. Condizioni esterne ostili, superficie troppo irregolare per plasmarci i finti biomi sopra… alla fine hanno deciso di piazzarle nello spazio»

«Ovviamente, per vedere se l’idea è funzionale, hanno cominciato sperimentandola. La fase di prova è ancora in corso»

«E chi sono le cavie, se permettete il termine?»

Gli rispose Diana:

«Chiunque può esserlo: ogni abitante del pianeta con più di diciotto anni e perfettamente in salute fisica e mentale può offrirsi per “sfidare” le finte ARK. Se accetta, gli viene cancellata la memoria e i tecnici lo spediscono lì. Poi si regola da sé per sopravvivere. Può restare da solo, fare gruppo, addomesticare dinosauri e costruire oggetti utili… insomma, si ritrova a fare le cose tipiche dell'Arkiano medio»

La ragazza dai capelli verdi si grattò il collo, pensosa:

«Da quello che vediamo, sembra che i sopravvissuti se la stiano cavando alla grande... però mia cugina Sally, che lavora fra i tecnici, mi ha confidato che ogni tanto la loro équipe si diverte a giocare sadicamente con le funzioni delle Arche, senza che nessuno dica niente!»

«Già, in effetti ci dicono tutti che il loro caporale sia un tipo un po' sopra le righe - aggiunse Santiago - È quello che dice sempre di voler uccidere a tutti i costi un soggetto tedesco che gli ha fatto un torto?»

«Penso di sì. Al massimo chiederò a Sally»

«Non ho ancora ben capito l’utilità di questa prova… follie del personale che se ne occupa a parte» disse Jack, confuso.

«Scienziati e politici hanno dibattuto a lungo e hanno concluso che, se continuassimo a vivere col TEK, forse rischieremmo di ripetere l’incidente apocalittico. Quindi questa sfaccettatura dell’esperimento serve a capire se la società sarebbe idonea per un “tuffo nel passato” per rovinare meno il pianeta» spiegò Skipper.

«Oh, ha senso, in effetti!» commentò Jack.

«In realtà le ARK hanno uno scopo superiore molto, molto importante – continuò Diana – Sulla Terra la natura è quasi assente al di fuori degli spazi verdi nelle città. Ma le ARK sono letteralmente delle bombe di vita e di natura. Una volta che gli scienziati avranno capito come risolvere il problema che sta impedendo alla natura di germogliare da sé, le isole atterreranno e diffonderanno flora e fauna di prima qualità… oltre a persone in grado di sopravvivere nella Terra rinata»

«Oh… ma allora i dinosauri? Nella vostra epoca non ci sono più! E i cani, i gatti, i leoni, i lupi, tutte le creature del mondo? Non potevate clonare loro?» fece notare il ragazzo.

Diana sospirò, triste:

«Credimi, non è così semplice. Lo stiamo facendo, ma sono troppo pochi e ci vorrà parecchio. Noi abbiamo un disperato bisogno di nuova fauna adesso, e ARK ne è piena. Quindi, al momento della rinascita, su una Terra deserta non cambierà molto se ci sono i dinosauri. E poi, con l’esperimento, sapremo conviverci. Inoltre, quando i cloni degli animali moderni saranno finalmente abbastanza, rilasceremo anche loro. Sono sicura che si potrà trovare un equilibrio ecologico»

«Bene, bene, spero vada come sperate!»

«Come possono sapere le vostre cavie come si addomesticano le creature?» chiese Rockwell.

«Alcune informazioni utili gli sono suggerite dall’ologramma che si accende da innesti ispirati a quelli arkiani, che ficcano nei loro polsi a tal scopo» disse un soldato jamaicano.

Continuò Santiago:

«Per testare l’idoneità dell’esperimento, hanno aggiunto una falsa storia d’origine dietro le ARK finte per indurli a superare una prova di forza. Hanno piazzato tre strutture simili ad obelischi ai tre angoli dell’isola, che teletrasportano a tre “arene” abitate da mostri fantasy creati tramite modifica genetica: li possono raggiungere radunando delle imitazioni dei manufatti che voi state cercando. Poi, se vincono, dovranno affrontare una sfida finale in una galleria in TEK grezzo in cui combatteranno un robot a forma di innesto. La scelta della forma… non so, è per estetica. Gli scienziati sono un popolo tutto da scoprire! – tutti risero, tranne Edmund – E da lì la loro prova è superata, i tecnici li prelevano e gli fanno recuperare i ricordi»

«E in base a quante prove saranno superate, decideranno se questa è davvero la soluzione giusta per dare una nuova casa alla popolazione mondiale» terminò Skipper.

«Accidenti… incredibile! Ci si potrebbe anche scrivere un libro o sviluppare un videogioco!» fu la reazione di Jack, leggermente ironica per una rara volta.

«Dunque, voi catturate le creature per portarle sulle ARK antropiche?» chiese Edmund.

«Già – rispose Diana – Non direttamente, però: dopo i tecnici li clonano per dstribuirli sulle ARK e ricreare progressivamente la fauna. Con ogni nostra spedizione, la fauna si aggiorna, come gli aggiornamenti di un videogioco»

«Cavolo… non vedo l’ora di raccontarlo ai ragazzi via radio! Chissà che cosa stanno facendo ora…»

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Chloe non era mai stata più disorientata di così. Ricordava che era il suo turno di guardia per il fuoco da campo, era tutto tranquillo. Poi, però, aveva sentito una voce roca chiamarla, dall’alto. Lei aveva guardato le fronde delle mangrovie e… un’imponente figura coperta da un completo mimetico, con una cerbottana in bambù, le aveva scagliato una strana gelatina trasparente in faccia, facendola crollare. Quando si era svegliata, ormai il Sole era alto. La testa le girava e doleva. Si guardò intorno. I suoi amici erano a terra, anche loro con quella gelatina in faccia: quel tizio li aveva drogati con qualche narcotico naturale. Qualcosa che era pure forte, visto il mal di testa che le aveva causato. Si alzò con grande sforzo e andò a scuotere gli altri, che si alzarono a loro volta a fatica.


«Dio… che male… è peggio di quando ho scolato sette birre in discoteca l’ultimo anno di liceo!» rantolò Sam.

«Cosa ci è successo?» anche Mei-Yin era completamente stordita.

Faceva parecchio strano vedere una come lei in quello stato. Laura si tolse la gelatina dalla faccia e la annusò:

«Se l’annuso mi viene la nausea… forse è stata questa… accidenti, è forte…» faceva fatica a parlare.

Nerva si sedette su un masso e si massaggiò la testa. Poi andò a prendere una borraccia dalla sua sacca. Anche le bestie erano state narcotizzate: i velociraptor giacevano su un fianco e avevan gli occhi semichiusi, respiravano lentamente; Rexar era steso sull’addome, con gli arti allungati e la lingua fuori.

«Biotossina… sì, ecco cos’è! Biotossina, veleno di cnidaria. Roba da stendere un elefante in cinque secondi... anche un giganotosauro…»

Helena era sull’orlo del delirio, tanto era in trance. Laura e Chloe, finalmente, si riscossero. E notarono qualcosa di sconcertante:

«Ehi, ma… dov’è Acceber?» si chiesero.

A poco a poco, chi più, chi meno, tutti tornarono lucidi e si accorsero che la figlia di Drof non era più con loro.

«Dannazione! Che diamine le è successo?» chiese Mei, sentendosi in colpa per non averci potuto fare nulla.

«Magari… ehi, stanotte ho visto un uomo tra le foglie… mi ha lanciato quello schifo viscido in faccia. E se l’avesse rapita?»

«Pro diis… chiunque fosse, si è organizzato bene!» esclamò Gaius.

«E se fosse il fratello psicopatico di cui ci ha raccontato? Se è così, sta rischiando di morire, seriamente!» esclamò Laura, spaventata.

«Sento qualcosa di strano sulla caviglia… oh... ragazzi, guardate qua!» gridò Sam, schifato.

Si era scoperto la caviglia sinistra e aveva realizzato che una sanguisuga grande quanto la sua mano era ancorata alla sua pelle. Il suo collo si gonfiava e sgonfiava lentamente, ma a ritmo costante: poco alla volta, stava succhiando tutto il suo sangue. E lui non l’aveva notata a causa del sonno profondo e lo stordimento.

«Un’ementeria!» esclamò Laura.

«D'accordo… niente panico… – disse Helena – Il procedimento per staccarla sarà doloroso, però funziona… Mei, aiutami a tenerlo fermo: dobbiamo fare l’incisione e cauterizzare!»

«Cosa? No! Ferme! Ho il raschietto! Quello che ho preso al villaggio!» esclamò subito Sam.

«Ha ragione! Vado a prenderlo» esclamò Nerva, andando a prenderlo.

«Sam, spero per te che non abbia preso una patacca qualsiasi! Non puoi morire per una sanguisuga, dopo esserti salvato da un T-rex!» lo incoraggiò Chloe.

«Grazie per il pensiero, bella» rispose Sam, più infastidito che consolato.

«L’ho trovato – Nerva arrivò con l’attrezzo – Te ne occupi tu o preferisci avere auxilium

«Grazie, ma vorrei vedere da me. Poi vedremo…» rispose Sam, prendendo il raschietto.

Gli occhi di tutti erano puntati sulla sua caviglia.

«Allora… è un raschietto, quindi penso che si debba premere e fare leva…»

«Sì, sembra fatto per staccarla tirando dal basso» disse freddamente Mei.

«Mei, così lo metti a disagio!» esclamò Helena, che in realtà era più a disagio di Sam.

«Che c’è, Helena? Ho solo detto la cosa per come sta!»

Sam prese fiato, cercando di ignorare il fatto che stesse sudando freddo. Poggiò la lama nel punto esatto in cui l’ementeria aveva inserito la bocca. Provando una fitta di dolore affatto lieve, spinse e fece affondare il raschietto lentamente nella carne. Sentiva la pelle di quel viscido parassita contro la lama, come un muro gommoso. Poi non lo sentì più: era andato più in fondo della punta dell’ementeria. A quel punto, facendosi coraggio, iniziò a fare leva spingendo verso l’alto. Il dolore fu più intenso del previsto, ma gli strappò solo un grugnito: ci voleva ben altro per far gridare Sam Fox. L’ementeria non resisté a lungo: in un paio di secondi, il ragazzo riuscì a staccarla e farla cadere per terra con un movimento secco. La sanguisuga preistorica si contorse sul terreno, poi Gaius la calpestò.

«Porca troia, ha fatto male!» imprecò Sam, tirando un sospiro di sollievo insieme a Chloe e Laura.

«Speriamo che non fosse malata…» disse Helena, pensando a voce alta.

«Oh, pure quello? Che gli può succedere?» domandò Laura, preoccupata.

«Le ementerie possono trasmettere la Febbre della Palude, la malattia più temuta su ARK dopo la mega-rabbia. Ma non penso di aver visto degli sfoghi verdi su questa, quindi forse sei al sicuro» spiegò la biologa, cercando di confortarli con un sorriso fiducioso.

Mei prese delle fasce e aiutò Sam a bendarsi la caviglia, su cui era rimasto un grosso buco triangolare dai bordi frastagliati.

«Bene, tu sei a posto. Ma Acceber è ancora prigioniera di chiunque l’abbia presa…» sibilò la Cinese, stringendo occhi e denti.

«Cosa faremo?» chiese Chloe.

Mei fissò il vuoto per dei lunghi istanti, poi sospirò e disse, determinata:

«Voi proseguite. Io andrò a cercarla»

«Cosa? Ma… come farai?» le chiese Helena.

I ragazzi non osavano intromettersi.

«Semplice: il suo felino conosce il suo odore, magari potrà condurmi a lei»

A tal proposito, ormai anche le bestie si erano riprese. Rexar, agitatissimo, non smetteva di annusare la sacca di Acceber, rimasta lì insieme alle armi della ragazza, e a gironzolare col muso alzato. Gaius le mise una mano sulla spalla:

«Se vuoi farlo, lascia che io venga con te. Sei la Regina Bestiarum e conosci bene questo luogo, ma non sai quanto possano essere abili i nostri avversari. Siamo stati compagni di lavoro per due anni, possiamo anche esserlo in questa nuova battaglia» era molto serio.

Le labbra di Mei si contorsero in un abbozzo di sorriso. Tolse la mano di Nerva dalla propria spalla e rispose:

«Grazie, ma no. Tu ed Helena dovete stare coi ragazzi: più sarete, più al sicuro sarete. È meglio che corra solo io questo rischio»

«No, Mei! – la contraddisse Helena – Ha ragione lui! Fallo venire con te. Resterò io con loro! Non combatto bene come voi due, ma anch’io so difendere me stessa e gli altri. Possiamo cavarcela anche con voi due lontani!»

«Oh, sì – fece Sam, a metà strada fra il serio e il sarcastico – Siamo scampati ad un piccolo dinosauro che sputa, mostriciattoli infernali notturni, un fiume in piena e un T-rex. Cosa può succedere di peggio?»

«Mei, fammi questo piacere. Non mi darei più pace se morissi!» la supplicò Helena, tesa.

La guerriera rifletté e fece un paio di giri avanti e indietro, pensosa. Alla fine cedette e accettò il suggerimento di Helena. Dunque, i due combattenti salirono sui velociraptor e fecero cenno a Rexar di seguire l’odore di Acceber, facendogli annusare meglio gli oggetti della sua padrona. Il tilacoleo ruggì, poi corse verso Sud-Est, quasi come se sapesse già dove andare. Forse aveva già capito, ma aveva comunque aspettato un comando. Quindi, Mei e Nerva scomparvero alla vista, fra le mangrovie.

«Speriamo che vada tutto bene, ragazzi» disse Helena.

«Anche noi, sul serio» rispose Laura.

«Forza, allora: non perdiamo altro tempo e raggiungiamo quelle montagne!»

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Finalmente, Drof arrivò alla casa di Odranreb, costruita sotto un’imponente parete calcarea in riva al mare. Suo cugino abitava sulla costa occidentale di ARK, precisamente sullo stretto che divideva il corpo principale dell’arcipelago dal Dente Ghiacciato, la grande isola perennemente innevata e proverbialmente fredda, dimora della tribù dei Lupi Bianchi. Le sue sponde bianche e lucenti erano vagamente visibili da lì. E, a causa della vicinanza col Dente Ghiacciato, su quella spiaggia soffiava una brezza costante, fresca e pungente. Ogni tanto, Drof e i suoi animali (tranne quelli abituati al freddo) erano scossi da un brivido. La casa di Odranreb era stata costruita dal loro prozio sessant’anni prima, quando gli Ydorb avevano deciso di provare a stanziarsi ciascuno in un angolo diverso dell’isola per rendere più prosperosa la stirpe. Pur essendo un’abitazione isolata, era strutturata come quella di un villaggio: un portico, un piano terra, un primo piano con un balcone e una piccola camera da letto mista ad una soffitta in cima ad una torretta. Tutt’attorno alla casa, legate a dei pali o radunate in recinti, c’erano creature di varie specie. Erano tutte molto tranquille, la maggior parte dormiva. Drof scese da Onracoel, poi lasciò il contingente libero di servirsi alle mangiatoie degli animali di Odranreb: se lo meritavano, il tragitto non era stato brevissimo e non si erano fermati neanche una volta. La Freccia Dorata si guardò intorno, ma sul litorale non c’era traccia del cugino. Andò alla casa, bussò e attese: nessuno venne ad aprirgli. Si allontanò dal portico e camminò verso il bagnasciuga per osservare il mare: Odranreb era un pescatore esperto, magari era partito per il largo… rabbrividì ancora: a riva, l’aria fredda si sentiva il doppio. Non vedeva nessuno, neanche in lontananza. Allora si rassegnò all’idea di rimanere lì ad aspettare, magari approfittando delle comodità casalinghe di suo cugino. Poi, però, sentì un flebile fischio, trasportato dal vento. Si fermò e tese le orecchie; cinque secondi dopo lo sentì ancora, più vicino. Alzò lo sguardo, coprendosi gli occhi col palmo, e osservò il cielo azzurro. Notò un’ombra, la sagoma di un argentavis, che planava verso la spiaggia. Poi, chiaro e forte, sentì una voce familiare che lo salutava:

«Ciao, Drof!»

Il rapace, rapido come un lampo, atterrò sulla spiaggia, slittando un po’ in avanti per inerzia e frenando con gli artigli. A cavalcarlo era un Arkiano della sua età completamente calvo, con gli occhi blu come i suoi e il naso a patata. Tre graffi paralleli gli attraversavano il volto: i due più esterni andavano dalla mandibola alla fronte, passando per le palpebre; quello di mezzo attraversava mento, bocca e naso. Tuttavia, Odranreb Ydorb aveva un’espressione giuliva in volto e ispirava simpatia. Balzò giù dall’argentavis e rise:

«Ah, guarda chi c’è! Il mio buon cugino ha avuto la bontà d’animo di passare a salutare il triste e solitario sottoscritto!»

Drof rise a sua volta e si avvicinò:

«È bello rivederti, pelato!»

«Suvvia, non infierire» Odranreb trovava sempre una scusa per scherzare.

Una volta Acceber aveva scommesso che si sarebbe messo a ridere anche se fosse stato sventrato da un uccello del terrore, durante l’ultima riunione di famiglia.

«Che stavi facendo, per stare in cielo?»

«I Piedi Sabbiosi hanno un quezal in meno, adesso: uno è morto di vecchiaia proprio ieri. E così, in attesa che l’ultimo nato cresca e lo sostituisca, mi hanno chiesto di prestare il mio alla loro comunità. Stavo tornando dal loro villaggio»

«Capisco. Ascolta, anch’io ho un piacere da chiederti. È molto pericoloso, potremmo morire entrambi. Dunque, sei libero di rifiutare: non ti rinfaccerò niente»

«Stuzzicante… di che si tratta?»

«Hai già sentito in giro che il Ladro di Innesti è Gnul-Iat, vero?»

«Come no? Non parlano d’altro! Non dirmi che ne sei sorpreso: ti ho sempre detto che quel bastardello non era morto, secondo me»

«Non lo sono. Comunque, in questi otto anni è diventato molto potente: ha un vero e proprio esercito di bestie al seguito e, in qualche modo, è sempre passato inosservato. Io l’ho già affrontato e…»

«Hai preso un pallettone nella spalla. Sì, anche questo è sulla bocca di chiunque»

«…sì, quello – rispose Drof, imbarazzato – Quel mostro è vuole riprovare ad uccidere sua sorella, ora più che mai»

«Non mi dire! Tlud pjvez id tèfad

«Non permetterò che succeda. Ho sbagliato come padre e come uomo a non toglierlo di mezzo prima che diventasse un pericolo per tutti noi, è ora di rimediare. Ma non potrò mai sconfiggerlo da solo…»

«Uhm… sai cosa? Ci sto. Che Ydorb sarei, se non aiutassi un altro Ydorb ad uccidere un pazzo? Dobbiamo coinvolgere anche il resto della famiglia?»

«No, quello no. Non voglio mettere in pericolo tutti. Mi basteresti tu, visto che sei quello con più bestie»

«Capisco cosa intendi. Sono con te, Drof!»

«Bene! Grazie, Odranreb»

I due si strinsero la mano.

«Allora, dov’è la tua arma di distruzione di massa?» gli chiese Drof, ammiccando.

«Parli di Anitteb? È nel suo solito angolo, di solito a quest’ora dorme. È diventata sedentaria, da quando ha deposto quell’uovo»

Drof sbarrò gli occhi:

«Ha deposto un uovo!? Com’è successo? Ti sei messo d’accordo con degli stallieri per farla accoppiare?» Drof non aveva mai avuto un giganotosauro, era una delle cose che aveva giurato a se stesso di fare prima di lasciare la vita terrena. 

Per quello, in parte, invidiava suo cugino. Sapere che presto ne avrebbe avuti due lo lasciò a bocca spalancata.

«Vieni, ti porto da lei…»

I due si incamminarono verso un’enorme caverna nella scogliera di calcare. Lunghe stalattiti appese al soffitto gocciolavano continuamente, il rumore delle varie gocce che cadevano sul pavimento o in piccoli stagni formava una sorta di sinfonia naturale che faceva eco. I due cugini vi si addentrarono per un centinaio di metri, prima di imbattersi nel terrore di ARK. Il giganotosauro, grande più del doppio del tirannosauro grazie ad un adattamento evolutivo che gli aveva permesso di raggiungere l’apice della catena alimentare, era imponente anche da acciambellato. Anitteb stava dormendo accanto al suo uovo, che aveva deposto in una fossa profonda un paio di metri scavata nel calcare.

«Che bellezza!» esclamò Drof, ammirato, mettendosi le mani sui fianchi.

«Modestamente» rispose Odranreb, orgoglioso, prima di fischiare.

Anitteb aprì gli occhi e sollevò lentamente la testa. Quando si accorse del padrone, si mise goffamente in piedi, cercando di non sbattere contro il soffitto dell’antro con la schiena. Drof guardava avidamente la sella sulla sua schiena, immaginando se stesso che cavalcava quel gigante dalla furia implacabile.

«Allora, pronto per un giro di prova? Dopo, potrai stare certo che tuo figlio ha i giorni contati! Sarà uno spasso…» ridacchiò Odranreb, tirandogli una pacca sulla schiena.

«Non vedo l’ora, cugino! Non vedo proprio l’ora!»

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ANGOLO AUTORE

Mi prendo giusto un attimo per rivelarvi una curiosità... i riferimenti fatti dai soldati TEK sulle Arche artificiali e sui tecnici che ci lavorano sono una citazione a quelli che chiamo d'ARK Humor, una serie di brevi racconti comici che improvviso di volta in volta con Maya Patch per fare una parodia alla sua storia di ARK (che, ancora una volta, vi consiglio). Visto che l'occasione era ghiotta, ho pensato che fosse un'idea divertente metterci un piccolo riferimento sull'ARK terrestre...

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Capitolo 18
*** La spettacolare morte di Acceber (storia vecchia) ***


Gnul-Iat, da oltre sei ore, osservava col canocchiale una mandria sempre più numerosa di erbivori di ogni genere e dimensione che andava a bere e dormire in riva al lago in cima all’altopiano sopra il quale fluttuava la magnifica isola volante, il posto più strano di tutta ARK, per poi scarabocchiare una massa confusionaria di schemi e linee tratteggiate sopra la piantina stilizzata del Labirinto di Gole, un sistema di canyon intrecciati nell’estremo Sud-Est dell’isola. Quello era il posto che aveva scelto per allestire la spettacolare serie di eventi da far concludere con...L’attesissima morte di Acceber.

“Allora, al primo ingresso metto tre tirannosauri, così stiamo certi che entrano tutti…Poi ai primi tre bivi li faccio seguire dai velociraptor per farli confluire dappertutto…I vicoli ciechi saranno compito di qualche carnivoro di taglia media, così nessuno si ferma…Almeno la maggior parte finisce nella gola in cui abbiamo allestito la cosa…Dovrebbe bastare. Ah, se Acceber fosse stata lì mentre provavo il discorso ad effetto, sarebbe stata cinque volte più terrorizzata! Porca puttana, quanto adoro me stesso!” pensava.

«Sono tornato, socio. Ho portato quello che mi avevi chiesto» sentì Sotark dietro di sé.

Gnul si voltò e vide il suo socio che trasportava un’Acceber priva di sensi sulla spalla sinistra.

«Grandioso! Ecco la mia sorellina…Fammela vedere!»

Sotark adagiò la ragazza a terra, senza neanche chissà quale delicatezza.

«Non dovrebbe essere già sveglia a quest’ora?» chiese Gnul.

«Sai com’è, non volevo che si riprendesse e cominciasse a dare tanto fastidio inutile mentre venivo qui, così le ho spalmato altra biotossina in faccia»

«Oh, capisco: l’avrei fatto anch’io. Hai risparmiato gli altri, vero?»

«Sì, rilassati. Anche se continuo a non essere d’accordo: e se vengono a disturbarci e sono più capaci di quanto sembra?» incrociò le braccia, poco convinto.

Gnul sbuffò:

«Oh, andiamo, socio! Tu non sei prorio capace di goderti il sapore del rischio! Hai idea della soddisfazione che provi a vincere rischiando di perdere?»

«Sì, ma il rischio di perdere c’è sempre»

«Me ne sbatto: la mente sono io, quindi facciamo come voglio io. Ah, Acceber, Acceber…È passato tanto tempo! Sai, Sotark, questo fiorellino è la persona più irritante che conosca, ma ammetto che è veramente…Bella»

«Lo penso anch’io: non è affatto male. Ma che è, sei attratto da tua sorella? Fa impressione, anche per i tuoi standard!» rispose distrattamente Sotark, cominciando a sua volta a guardare le bestie che si abbeveravano.

«Ma no, che hai capito? L'ultima volta che ci siamo visti avevamo dieci anni, è ovvio che è diventata ancora più carina! Si capiva già allora che era tutta come nostra madre...»

Affinché il loro piano funzionasse dall’inizio alla fine, dovevano accertarsi che non ci fossero errori o aspettative fin troppo alte. E, se c’era una cosa che Sotark aveva imparato alla perfezione su Gnul, era che il Ladro di Impianti era un maestro delle aspettative troppo alte. Intanto, Gnul si diveriva a fissare Acceber che dormiva. La mise seduta tenendola su con una mano e le spostò i capelli dal dorso con l’altra: la sua firma cicatrizzata era ancora lì, perfettamente leggibile. L’assassino seriale sorrise, compiaciuto. Quella mocciosa che si sentiva più matura di quanto non fosse in realtà solo perché si era fatta mettere quel dannato innesto non aveva idea di cosa l’aspettasse…

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«Ecco, siamo finalmente usciti da quella palude fetida!» esclamò Helena, sorridendo ai tre ragazzi.

«Sì, finalmente!» esclamò Chloe, festosa.

«Già, finalmente…Non ripenserò più continuamente a quel parassita succhia-sangue!» fece Sam, ridendo anche se disgustato.

«Quindi da qui in avanti si va in salita fino al monte Allics, giusto?» chiese Laura, prendendo la cartina di ARK dalla sua sacca.

«Esatto. Prima raggiungeremo il piedistallo per il Manufatto del Signore dei Cieli, dopodiché prenderemo il prossimo al villaggio delle Aquile Rosse»

Helena scese da Usain per dare il cambio a Laura, mentre Sam cedette Ippocrate a Chloe. quindi ripartirono.

«Scarpinata in montagna, eh? Meno male che Jack non c’è, altrimenti chissà che delirio: i miei polmoni non reggerebbero mai lo sforzo della camminata e di incalzare lui nello stesso momento!» commentò Chloe, scherzosa.

«Ah, tranquilla: penserei io ad incalzarlo, ma a pedate nel fondoschiena!» rispose Sam, con una fragorosa risata.

Laura sorrise, ma non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che Acceber stesse seriamente rischiando di morire. Magari era già morta e Mei-Yin e Nerva stavano andando a rischiare a loro volta per niente…Non osava immaginarlo. Helena continuò a spiegare:

«Sarà una lunga salita, ma dopo vedrete che panorami! Vi consiglio di goderveli al massimo, perché sono letteralmente unici al mondo. Una volta ho fatto una sosta alla taverna delle Aquile Rosse, ne ho approfittato per osservare l’isola dal grande terrazzo che hanno fatto levigando e smussando le punte di uno sperone roccioso, all’estremità del ripiano naturale dove sono insediate. Era bellissimo!»

«A sentirlo così, sembra magnifico!» disse Chloe, sognante.

«Perché lo è» le rispose la biologa, ammiccando.

«Se il mio cellulare ha ancora un pizzico di batteria, farò una foto. Una sola foto del posto più letale e segreto della Terra; la terrò per noi, ma almeno resterà un ricordo materiale!» affermò Laura.
Helena fece spallucce:

«Be’, noi avevamo i nostri diari, quindi perché una foto dovrebbe essere male? Basta che non lo veda nessuno al di fuori di voi, lo sapete».

«Chissà se…» cominciò Sam.

TUUUUUMMMMM – TUUUUUMMMMM – TUUUUUMMMMM

Delle forti scosse fecero vibrare le fronde degli alberi. Si sentirono rumori fragorosi di passi, vaghi ma inconfondibili. Anche l’acqua in una pozza lì vicino s’increspava col ritmo di quelle scosse. I velociraptor si allarmarono e cominciarono a guardarsi attorno e sbuffare.

«Porca di…Correte!» ordinò Helena, battendo con la mano il fianco di Usain per spronarlo prima che Laura elaborasse bene tutto.

I velociraptor correvano, ma non al massimo, visto che Laura e Chloe tenevano le redini un po’ tirate affinché non lasciassero Sam ed Helena troppo indietro. Ma la corsa durò poco e fu inutile: arrivati ad una radura piena di macigni, alla fine della salita che stavano facendo, si ritrovarono la strada tagliata da un tirannosauro…Il tirannosauro di Mike Yagoobian.

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«Muhuhuhuhuhuhahahahahaha! Ci siamo, Doris! Ci siamo! Li abbiamo raggiunti e loro non possono farci niente! È la nostra occasione per prendere Hamilton!» esclamò Mike, preso dall’euforia, seduto in sella a Girodue a qualche kilometro di distanza. Aveva seguito tutti i movimenti del tirannosauro dallo schermo del controller.

«Mi domando perché la maggior parte di loro non ci sia ancora» disse Doris, distratta.

«Oh, devono essere morti, che vuoi che sia successo? È un’isola preistorica, porca paletta! Be’, chi se ne sbatte. Schiavo, prendi subito la ragazza bionda!» ordinò al microfono.

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“E che diamine…Un tirannosauro mi bastava!” pensò Sam, quando il tirannosauro ruggì e si lanciò direttamente su…Laura.

Usain fece appena in tempo a saltare via, ma lo sbalzo fu così improvviso e violento che la ragazza cadde rovinosamente per terra. Il tirannosauro non esitò a spalancare la bocca e ad avvicinarla pericolosamente a lei…

«NO!!! Non così, deficiente! Mi serve viva!» tuonò la voce del suo padrone nella sua mente.

Allora il tirannosauro chiuse la bocca e si accorse che Laura si era rialzata ed era tornata dai suoi amici.

«Inoltre, DOR-15 mi ha detto che ha un manufatto di ossidiana. È un coso strano e nero e simile ad un sasso. Se vedi che ce l’ha lei, prendi anche quello!» ordinò Mike, non capendo di star impartendo ordini troppo complessi per quello che altro non era che un rettile enorme vissuto 65.000.000 anni fa, il cui unico pensiero autonomo era sostentarsi.

«Ragazzi, dobbiamo combattere: non abbiamo scelta! Prendete le lance!» esclamò Helena, imbracciando la balestra e caricandola. I ragazzi recuperarono le lance usate in precedenza contro i troodonti, in fretta e furia.

Il tirannosauro partì nuovamente alla carica, puntando allo stesso bersaglio di prima. Usain evitò ancora il colpo di fauci, poi balzò accanto alla testa ancora abbassata del teropode per tirargli una zampata, lasciando dei solchi. Anche Laura colse l’occasione per pungerlo con la lancia sotto l’occhio. Fece poco, ma le diede comunque soddisfazione. Il predatore aprì ancora la bocca e tentò un altro morso, ma fallì. Sam, in un momento di coraggio e follia da adrenalina, corse fino alla zampa del tirannosauro e conficcò la sua lancia nel polpaccio del rettile con tutta la forza che trovò. La estrasse con non poca fatica; il dinosauro emise un verso infastidito, guardò il suo seccatore e…Lo sbalzò via con una leggera codata. Anche se lieve, il colpo tolse il fiato al ragazzo e gli fece fare un volo di quattro metri. Per sua gran fortuna, il prato era bagnato e scivoloso: quando cadde, slittò per altri due metri sul dorso, quindi l’impatto si disperse lentamente e non gli fratturò le ossa: i danni si limitarono a dei grossi lividi sparsi sulla schiena. Helena salì su uno dei macigni e mirò alla testa del tirannosauro. Fu allora che notò che, su di essa, c’era un piccolo oggetto nero e cilindrico. Era molto piccolo, le ci vollero dei secondi per capire cos’era, ma alla fine lo riconobbe, rimanendo esterrefatta: una bombetta.

“L’uomo con la bombetta!” esclamò dentro di sé.

E così, alla fine, il ladro li aveva rintracciati e aveva aizzato quel tirannosauro contro di loro in qualche modo. Imprecò, poi ebbe un’idea: e se avesse provato a romperla? Magari il tirannosauro ne avrebbe risentito…C’era solo un problema: quel dannato teropode non stava fermo un secondo, essendo impegnato ad insistere con Laura. La ragazza bionda non era mai stata così nel panico: non aveva idea di come fosse riuscita a trovare tutta l’energia che le stava permettendo di evitare tutti i colpi del tirannosauro. Ma la fuga non durò molto: alla fine, si ritrovò intrappolata a ridosso di un alto macigno con una parete del tutto verticale. Guardò la bocca spalancata e gocciolante del T-Rex avvicinarsi di corsa; chiuse gli occhi e strinse i denti, preparandosi a soffrire e a morire…Ma non successe niente. Sentì solo uno scossone e una serie di tremori. Aspettò un po’ prima di osare aprire gli occhi…E si accorse che il tirannosauro non poteva avvicinarsi oltre: lei era fuori dalla sua portata grazie al sasso, contro cui lui teneva premuta la testa e agitava le piccolissime zampe anteriori in un disperato tentativo di usare quelle per afferrarla o altro. Intanto, continuando a camminare come se non ci fossero ostacoli, stava scavando dei profondi solchi nel terreno: per quanto terrificante, la scena si stava caricando di una comicità demenziale.

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«Che succede? Perché non prendi la biondina?» chiese Mike, che non poteva vedere bene come si stava sviluppando la situazione dal visore di Doris-B. I sottotitoli che gli apparvero sullo schermo lo lasciarono senza parole dalla frustrazione:

Ho la testa grossa e le braccia corte…Non sono proprio certo che questo piano sia stato elaborato bene.

«…Io…Io…Io…»

…Padrone?

«GRRAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHRRRRRRRRRRRRGH!!! STUPIDO!!! STUPIDO!!! STUPIDO!!! STUPIDO!!! STUPIDO!!!»

«Che cosa sta succedendo?» chiese Doris.

«Succede che il T-Rex è un deficiente! Ecco, ecco cosa succede!»

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“Così, testa di fossile…Sta’ fermo…”

Helena si concentrò al massimo, prese la mira con la balestra e…Scoccò. Il tirannosauro si spostò giusto di un paio di centimetri, quindi la freccia, invece di fracassare Doris-B, scalfì il suo lato posteriore, staccandola dalla testa del dinosauro, che barcollò e…Svenne.

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«Oddio, no!» esclamò Mike, terrorizzato.

«Che cos’è successo?»

«Walker ha danneggiato la piccola te…L’ha fatta cadere, il T-Rex è svenuto»

«Ciò è dovuto all’interruzione della connessione neurale. Sei consigliato di riportarla qui: si auto-riparerà, ma non possiamo rischiare oltre; ormai la nostra copertura è saltata»

«Giusto. Maledetta sfortuna persecutrice…»

Quindi, muovendo le levette analogiche, iniziò a far tornare indietro DOR-15-B.

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«L’uomo con la bombetta è tornato…Ed è più attrezzato del previsto» constatò Helena.

«Seriamente, chi diamine ha progettato quello stupido cappello?!» chiese Sam.

Laura non parlava, doveva ancora riprendersi dallo spavento e dal fiato corto.

«Io non voglio restare qui…Andiamo alla montagna, per favore!» chiese Chloe, agitata.

«Sono più che d’accordo. Proseguiamo…»

Quindi, in ansia e in silenzio, ripartirono. Avrebbero ripreso l’argomento appena possibile.

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La testa di Acceber faceva malissimo. La figlia di Drof aveva passato quello che le sembrava una vita col mal di testa e al buio: non aveva neanche sognato, mentre era svenuta. Adesso, finalmente, riuscì ad aprire gli occhi. Lo fece molto lentamente, dondolando la testa avanti e indietro. Sentì una voce spaventosamente familiare, per quanto diversa da quella che si ricordava:

«Ehi, socio, si sta riprendendo! Vai a prendere il secchio!»

«Subito» rispose una seconda voce, profonda e cavernosa.

Pochi secondi dopo, una cascata d’acqua gelida le piovve in faccia, riportandola alla realtà più bruscamente che mai. Acceber emise un breve grido di sorpresa e sputò dell’acqua che le era entrata in bocca. Scosse il capo per spostare alcune ciocche di capelli che le erano finite davanti agli occhi.

«Ma che ca…» fece per balzare in piedi, ma si rese conto che non poteva: era legata ad un albero.

Si guardò rapidamente in giro e…Vide suo fratello. Era seduto su un ceppo, piegato in avanti e con la braccia appoggiate sulle gambe. Accanto a lui, infisso nel legno, c’era un coltello. Era molto cambiato in quegli otto anni: lo ricordava molto più gracile, esile quasi quanto lei. Adesso…Aveva l’impressione che avrebbe potuto romperle tutte le ossa con un calcio. Il suo sorriso malizioso, invece, era sempre quello. Era troppo per lei:

«No, no, no…NO!!! Perché sei vivo? Perché?!»

«Grazie tante, Acceber, miglior saluto del mondo! Non avrei mai scoperto che “ciao” non si usa più quando ci si rivede dopo otto anni, senza di te!»

Quel sarcasmo trasformò il terrore di Acceber in rabbia:

«Senti, so già che vuoi uccidermi. Allora perché non l’hai fatto subito? Così, almeno, mi risparmiavo di vederti!»

Gnul-Iat, veloce come un fulmine, prese il coltello e lo scagliò verso di lei. Una frazione di secondo dopo, la lama vibrava nel tronco dell’albero, ad un centimetro dalla tempia destra della ragazza. Acceber, sudando freddo e sentendosi mancare, fece una risatina isterica e biascicò:

«Ciao…Gnul»

«Oh, molto meglio. Posso ucciderti subito, se ci tieni…Ma così avrei allestito il grande evento per niente. Sarebbe uno spreco di tempo e pazienza…Vero, socio?»

«Concordo» rispose un uomo imponente e barbuto, apparendo accanto a Gnul-Iat.

«…Grande evento? Cosa?»

«Senti, so che non stai nella pelle per saperlo: ti conosco, Acceber, non hai mai visto l’ora di sapere tutto. A proposito…Lui è il mio compagno di uccisioni, Sotark»

Sotark salutò con un grugnito.

«Che diamine vuoi farmi? Gli farai aggiungere il suo nome sul mio collo?»

«…HAHAHAHAHAHAHA!!! Per gli dèi, non ci avevo pensato, ma…Sarebbe magnifico! Quasi quasi gli chiedo un parere…Ehi, socio, ti andrebbe di autografare il collo di mia sorella e magari anche di ricalcare la mia firma?»

«No»

«Oh! Perché?»

«Perché me ne sbatto»

«Sicuro? Sappi che questa è la tua unica occasione! Dopo non avrai mai più un collo su cui scrivere…»

 

«Ho detto di no. Vado a mettere i carnivori in posizione» e si allontanò.

«Dov’è che va? Gnul, dimmi subito cosa vuoi farmi! Io non sto al tuo gioco!»

«Va a dare il via allo spettacolo di oggi. Si intitola La Spettacolare Morte di Acceber»

«…»

Gnul-Iat le si avvicinò, riprese il coltello e tagliò le corde. Acceber cadde a terra, finalmente libera di muoversi.

“È la mia occasione!” pensò.

E, dopo aver teso tutti i muscoli, gli balzò addosso e finirono entrambi a terra. L’intenzione di lei era gonfiarlo di botte, ma lui la sbalzò via prima ancora che cominciasse. Acceber si rialzò, ma Gnul le tirò un pugno allo stomaco che le tolse il respiro e la fece crollare seduta. Subito dopo, suo fratello le assestò un calcio sul naso, mettendola fuori combattimento. La figlia di Drof sentì il sangue colarle dal naso alle labbra quasi subito. Gnul la rigirò sull’addome, le afferrò la collottola e la trascinò verso l’orlo di un precipizio, lì vicino.

«Hai capito dove siamo, vero?»

«È il Labirinto di Gole…Ma che…?»

«Indovinato. Tu morirai qui…In un modo o nell’altro!»

«…Cos’hai in mente? DIMMELO!!!» Acceber cominciava ad avere seriamente paura.

«Lo scoprirai!»

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Jack, tenendo le mani in tasca e cercando di mantenere un profilo basso per non dare troppo fastidio ai soldati dal futuro, osservava un insieme di gabbie con dei dodo dentro che veniva tirata fuori dalla struttura in cui si congelavano e archiviavano gli animali e spostata in un altro edificio che non aveva notato la prima volta. Un’insegna olografica diceva Quarantena sopra l’ingresso. Non avrebbe voluto ma, spinto dalla curiosità, si convinse ad andare dal soldato che stava accanto alla porta e compilava qualche elenco con un tablet che pareva uscito da un film di fantascienza tripla A.

«Mi scusi…» chiamò.

«Sì, che c’è?»

«Cosa succede agli animali che vanno in questa “quarantena”?»

«È importantissimo che gli esemplari raggiungano le strutture di clonazione sulla Terra in piena salute: se portassimo qualche agente patogeno sulle ARK artificiali, sarebbe un vero disatro. Contenere e fermare l’infezione costerebbe pacchi di soldi e ricreare gli animali che potrebbero morire nel frattempo anche. Spesso ci accorgiamo subito se delle creature sono malate, ma in caso ce ne siano di asintomatiche o in incubazione, i nostri controllori fanno delle analisi approfondite»

«Mi sembra giusto…Quindi?»

«A quelli a cui viene diagnosticato qualcosa spetta la quarantena. Non possiamo stare a fabbricare una cura per tutto e per tutti, quindi li mettiamo lì e li teniamo d’occhio, cercando di aiutarli alla bell’e meglio. Se migliorano entro quaranta giorni, bene; altrimenti, li rilasciamo e li lasciamo ai loro malanni»

«Capito. Grazie!»

«Di niente»

Mentre Jack si allontavana, vide Rockwell che gli faceva cenno di raggiungerlo alla tenda. Il ragazzo eseguì e chiese cosa ci fosse.

«Ho chiesto a Diana il permesso di farci teletrasportare al villaggio degli Alberi Eterni con la prossima squadra di cattura e lei ha accettato»

Jack trasalì:

«Un momento…Vuole guardarli cacciare in quella foresta e portarmi con lei? Potrei rifiutare? Non so se ho tanta voglia di fare cose pericolose, ora…»

«Tranquillo, voglio solo presentarti una persona»

«Davvero? Chi?»

«Ellebasi Iderap, l’Arkiana che due anni fa ho istruito e assunto come mia assistente. Ho saputo che ha trasferito la vecchia farmacia dagli Alberi Eterni, così quando ho scoperto che una squadra stava andando lì ho voluto cogliere l’occasione per rivederla e fartela anche conoscere» Jack notò un filo di nostalgia e commozione nel tono del medico.

«Va bene, allora!»

«Grazie, giovanotto. Seguimi, stanno per andare…»

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Poco dopo, i due camminavano attraverso il villaggio nella foresta di sequoie. Se dalla riva del fiume quegli enormi abeti rossi sembravano inquietanti, vedere come gli Arkiani avevano escogitato un modo per costruirci sopra e viverci era stupefacente. Jack guardava a destra e a sinistra, osservando ogni singolo dettaglio su quelle case ottagonali che circondavano i tronchi ad anello, mentre Rockwell rispondeva giulivamente ai saluti dei vari passanti che lo riconoscevano.

«Che tipo è questa Elle…Uh…» chiese poi, cadendo nell’imbarazzo per il vuoto di memoria sul nome.

«Ellebasi? Oh, immagino che non potrà che piacere ad uno come te! Ho scelto l’assistente con estrema diligenza, due anni fa! Non mi sono pentito affatto di aver assunto lei. Adesso, poi, sta mandando avanti l’attività! Non potevo sperare di meglio»

«Immagino che sia simpatica!»

«Sì, certo. Ed è anche molto intelligente, se si considera che prima che arrivassi io non ha mai conosciuto la medicina come la si intende oggi: ha imparato molto rapidamente le regole del mestiere»

«A Sidney aveva detto che stava esplorando l’Oceania e il Pacifico per cercare nuove erbe medicinali. Perché ha deciso di aprire una farmacia qui? Non voleva…Che ne so…Andare via? Mi stanno venendo tutte queste domande…»

«Ah, è un piacere per me rispondere. Ma dovrai tenerle per dopo: forse siamo arrivati» lo interruppe Rockwell, indicando la casa che ora avevano davanti: sopra il tetto, incisa nella corteccia, c’era un’insegna tinta di verde:

Le Cure di Ellebasi a Buon Mercato

«Ah, è quasi toccante!» sospirò Edmund.

«Perché?»

«Ha mantenuto l’insegna pubblicitaria che avevamo ideato per la nostra prima clinica, ha solo cambiato il nome del medico»

Jack sorrise. Entrarono nel rudimentale ascensore mosso da una spessa corda con zavorre e azionato da una leva che permetteva di raggiungere ciascuna piattaforma e si trovarono di fronte all’ingresso. Come vi si avvicinarono, sentirono un lieve brusio di voci dall’interno.

«Sì, questa è decisamente lei» affermò il medico, prima di bussare.

«C’è un controllo, aspettate!» gli fu risposto da dentro.

«D’accordo…»

Attesero imbarazzati per due minuti, prima che gli aprissero. Ellebasi restò praticamente scioccata dal vedere il suo vecchio capo e mentore.

«Edmund! Per gli spiriti…Sei venuto a trovarmi! Ero contentissima quando ho sentito che eri tornato, ma non mi sarei mai aspettata di incontrarti!»

«Ho visto un’occasione per passare da qui e ho reputato giusto coglierla, Ellebasi. Piacere di rivederti!»

«Ehm…Salve, io sono Jack Thunder – si presentò Jack – Sono qui coi miei amici per una ricerca piuttosto importante. Sto tenendo compagnia al dottor Rockwell»

«Ciao anche a te! Forza, entrate! Stavo controllando un bambino malato di cui mi occupavo da ieri, ma ora sono a posto»

Dentro c’erano due coniugi con un neonato. I pazienti diedero un sacchettino di ciottoli ad Ellebasi, la ringraziarono con un ampio sorriso ed uscirono. Jack osservò la farmacia: non era affatto male. Riuscì a fare parallelismi con le farmacie moderne per ogni cosa: scaffali di farmaci con scompartimenti perfettamente ordinati, divisorio che separava la stanza dei medicinali dalla sala operatoria, sostanze naturali al 100% per sterilizzare l’ambiente.

«Incredibile…È perfino meglio della vecchia sede!» esclamò Rockwell, ammirato.

«Lo so! Mi dispiace solo che tu l’abbia visto solo adesso»

«Ora l’ho visto, quindi non è più un problema. Comunque, Ellebasi…So che non mi vedi da due anni e che sono tuo ospite, ma abbiamo fretta. Avrei un piacere da chiederti…»

«Mi chiedi pure? Qualunque cosa, amico!»

In quel momento, Jack sentì un ronzio dalla rice-trasmittente che aveva preso dopo che si era accordato coi suoi amici per tenersi e tenerli sempre aggiornati.

«Jack, sono Laura. Ci sei? Tutto bene, amico?»

Jack guardò Rockwell con aria interrogativa.

«Be’…Parlale pure, giovanotto. Io ed Ellebasi andremo di là»

«Va bene. Ciao, Laura! Qui tutto tranquillo, il TEK è interessante e ora stiamo facendo visita all’ex-assistente di Rockwell. A voi come procede? Siete sulla montagna?»

«Non ci crederai mai…Come? Ah…HAHAHAHAHA!!!»

«Perché ridi?»

«Sam dice di dirti che non dovevi dire “interessante”, ma “figata assurda” con questo TEK»

«Ooooooooh…Ma certo…»

«Comunque…Non ci crederai! Un tirannosauro ci ha attaccati, io sono quasi morta…»

«Oh, cavolo! Sei ferita?! Chloe e Sam?!»

«Tranquillo, siamo solo ammaccati. Ma non è questo il punto: sulla testa di quel bestione c’era una bombetta! Ti rendi conto di cosa significa?»

«Oddio…L’uomo con la bombetta? C’era anche lui, per caso?»

«No, non penso. Ma sa dove trovarci, è questo il problema! Come facesse a controllare un tirannosauro è un mistero, ma ormai abbiamo capito che quel dannato cappello è qualcosa tipo l’invenzione del secolo»

«E allora che farete se tornerà?»

«Non lo sappiamo…In ogni caso, sei fortunato a non esserci: questa scalata è dura! Tutta roccia, tutto in pendenza…»

«Immagino! Almeno c’è una bella vista?»

«Non sai quanto! Stiamo andando dove Helena dice che c’è il prossimo piedistallo, ti farò sapere poi!»

«Va bene. Se è tutto…Spero di trovarvi tutti interi, quando tornerò!»

«Lo speriamo anche noi! Ciao!»

«Ciao»

A conversazione finita, Rockwell uscì dalla camera lì accanto, trasportando un grosso sacco e seguito da Ellebasi.

«Giovanotto, qui abbiamo finito. Torniamo al campo dei militari dal futuro e riprendiamo le ricerche!» esortò.

«Cos’ha preso?»

«Edmund mi ha chiesto se potevo prestargli degli strumenti e dei preparati per un po’. Puoi restituirli quando vuoi, basta che tornino!»

«Certamente, Ellebasi! Sei sempre stata fedele e io sono un gentiluomo: non ti tradirei mai. Comunque, queste cose mi servono per delle osservazioni più approfondite sull’edmundio che dovrò fare…Ehm…Per conto mio, per forza di cose»

Jack fu perplesso prima e deluso poi: il vero scopo di Rockwell non era salutare la sua amica e collaboratrice, ma prendere degli attrezzi per studiare il TEK anche se non gli era stato permesso? Era difficile da accettare.

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Rockwell ed Ellebasi si salutarono un’ultima volta e i due uscirono. Mentre si avvicinavano al teletrasportatore, Jack ebbe il coraggio di protestare:

«Allora siamo qui solo perché vuole scoprire di più sul TEK a tutti i costi? Ellebasi era solo una scusa?»

«Certo che no! Avevo seriamente voglia di rivederla. Ma non posso rinunciare ad una tale occasione! Potrei anticiparela società di secoli! Ovviamente, non rivelerò niente a nessuno: anche se lo volessi, sarebbe troppo sapere inaspettato in troppo poco tempo per le masse. La mia è mera sete di conoscenza personale, come ogni uomo di scienza»

«E se sapesse già tutto con quello che ci hanno detto?»

«Impossibile! Li hai sentiti? Anche la loro società è tenuta all’oscuro su alcuni dettagli per volere di chiunque governi nel 2150. Io scoprirò i segreti dell’edmundio, è una promessa!»

«Contento lei…Ma non sono comunque convinto. E se ci scoprissero e ci cacciassero?»

Rockwell si imbarazzò:

«Io…Rispetto il tuo diritto a disapprovare. Però, questo è troppo importante per me! Voglio correre questo rischio, dovesse andare contro il codice dei gentiluomini! Fidati di me. E non denunciarci, per piacere!»

«Andrà male…» sospirò Jack.

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Capitolo 19
*** Machu Picchu (storia vecchia) ***


Sotark tornò in sella ad uno pteranodonte. Acceber era ancora slegata, ma era così stordita che non riusciva più a reagire.

«Fatto?» chiese Gnul-Iat.

«Sì, hanno cominciato a correre. Dovrebbero fare come pensi tu… forse»

Acceber cominciava a sospettare qualcosa di terrificante.

«Fantastico! Ehi, sorellina, lo spettacolo sta per cominciare. Sei abbastanza in forma per il primo atto?»

«Non saprei… mi hai fatto vedere le stelle…» replicò lei, sforzandosi di affrontare il sarcasmo cinico di lui con l’ironia.

«Meglio, così durerà meno!»

«C’è dell’altro» si intromise Sotark

«Cosa?»

«Mentre volavo qui, ho visto due persone che si avvicinavano. Ho guardato col canocchiale e sono la Regina delle Bestie e uno degli altri tizi. Con loro c’è il tilacoleo di tua sorella»

Questo fece venire un po’ di speranza ad Acceber, anche se la paura era ancora fortissima.

«Oh, esattamente come volevo! Tra poco faranno la fine dei dodo. Allora prendi delle bestie e vai a salutarli come si deve, io resto qui a sistemare lei»

«Ricevuto»

Quindi, Sotark fischiò ad alcune cavalcature e si rialzò in volo, dirigendosi a Sud.

“La Regina delle Bestie e Cesare mi stanno venendo ad aiutare! Ma quanto ci vorrà?” si chiese Acceber, preoccupata.

Gnul-Iat la trascinò fino ad un tapejara, la mollò a terra e salì sulla sella dello pterosauro, che la afferrò una volta alzatosi in volo. Planò girando in cerchio fino al fondo della gola, dove la fece cadere. Acceber si mise seduta, dolorante, e si massaggiò la schiena.

«Ti faccio un paio di anticipazioni, sorellina – le disse Gnul, sul tapejara – Puoi restare ferma e morire o puoi provare a metterti in salvo e morire lo stesso, a meno che non ti venga una mezza idea per salvarti le ossa!»

«Cosa?!»

«E non dimenticare che andare in quella direzione significa morte» concluse suo fratello, indicando alle spalle di lei.

«Stai…»

«Oh, ma che assassino strano che sono! Do suggerimenti su come non morire alla mia vittima! Tanto morirai lo stesso. Addio, Acceber! Finalmente potrò avere pace» e tornò in cima.

“Tutto questo è assurdo!” pensò Acceber.

Pochi secondi dopo, però, ebbe una strana sensazione. Sentiva una sorta di tremore sotto i suoi piedi. Una vibrazione appena percettibile che attraversava il terreno… per poi farsi più intensa… e diventare un forte rombo. Pochi secondi dopo, tutto cominciò a tremare. Dalle pareti della gola cadevano macigni. Acceber capì cosa stava succedendo: aveva già provato quella sensazione nelle praterie, durante certe cacce. Era quando tanti animali, radunati in una mandria, scappavano da un predatore: il pestare di zampe collettivo causava sempre quell’effetto a terremoto. Peccato che ora non si trovasse in una prateria, ma in una gola: non poteva spostarsi di lato e aspettare che le bestie passassero. Poteva solo correre in avanti… sperando di non essere calpestata e spappolata. Il panico si impadronì di lei, si sentiva le gambe molli. Mosse dei passi incerti all’indietro; voleva assolutamente correre via da lì con tutta la forza che aveva nei piedi e nei polmoni, ma era come bloccata. Ma le bastò e avanzò vedere l’inizio di una fila di creature in corsa, che definire lunghissima era roba da poco, per sbloccarsi. Cominciò a sfrecciare alla velocità della luce, quasi senza respirare: l’adrenalina le dava la carica più di quanto immaginasse. Ogni tanto, osava girarsi a guardare, pur sapendo che voltarsi la rallentava. Dietro di lei c’era veramente di tutto: vedeva qualunque specie di erbivoro dell’isola in quella mandria. Triceratopi, stegosauri, anchilosauri, gallimimi, iguanodonti, parasauri, megaloceri, fiomie, ovis, kentrosauri, paracerateri i possenti diplodochi e brontosauri… tutto. Era chiaro cosa stesse succedendo: Gnul-Iat e il suo compagno dovevano aver spaventato quegli animali al lago che c’era all’inizio del Labirinto di Gole e indirizzati lì. Cosa non era stato disposto a fare suo fratello, pur di torturarla e ucciderla… i primi animali cominciarono a sorpassarla e questo la fece accelerare ancora di più. Un gallimimo le passò terribilmente vicino, tanto di schiamazzo agitato: un metro in più e l’avrebbe colpita. Ormai era nel bel mezzo del corteo di bestie impazzite.

“Lo spettacolo è cominciato! Ora mi piacerebbe contare per quanti secondi durerà… uno, due, tre, quattro, cinque…” pensò Gnul-Iat dall’alto, soddisfatto.

Acceber vide un bivio che divideva la gola in due corridoi: uno proseguiva dritto, l’altro era più stretto e andava a sinistra. Pensò che la mandria sarebbe proseguita dritta, senza mai cambiare direzione, dunque le venne un’idea. Senza rallentare, ma anche stando attenta a non incrociare la traiettoria di nessun animale (cosa affatto facile), andò verso sinistra e si dirise verso il sentiero a sinistra. Per poco non fu schiacciata da un paraceraterio. Quando ormai credeva di avercela fatta… si ritrovò la strada sbarrata da cinque velociraptor. Non la attaccarono, rimasero semplicemente lì a lanciarle gridi minacciosi e a sbavare. Un gruppo di equus prese la curva a sinistra a loro volta e, come lei, si dovettero fermare alla vista dei velociraptor. Anche questo doveva fare parte del piano di Gnul: costringerla a seguire la mandria.

“Ti odio, fratello!” imprecò mentalmente.

I velociraptor cominciarono ad avvicinarsi, sempre più aggressivi. Non aveva altra scelta: o si sfidava la sorte buttandosi nel mucchio, o si moriva. Si voltò e, sconcertata, le sembrò che non avesse più modo di rientrare nella gola grande: gli animali erano diventati ancora più veloci e scalpitanti, più vicini gli uni agli altri; non riusciva a vedere spazi vuoti da usare per unirsi alla massa e continuare la corsa…

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«Questa pantera rossa ci ha condotti proprio qui, dove c’è un grande fragore di animali che corrono. Ho paura che c’entri qualcosa con la ragazza» disse Gaius, preoccupato.

«Sai una cosa? Lo penso anch’io. Gaisi…» esclamò Mei-Yin. Entrambi sfoderarono le spade, mentre i velociraptor continuavano a seguire Rexar.

Il tilacoleo prese un sentierino appena visibile che, seguendo la parete esterna della gola più meridionale e andando in salita, permetteva di raggiungere il bordo. Quando furono in cima e guardarono verso il fondo di quel gigantesco crepaccio, sbarrarono gli occhi: nessuno dei due aveva mai visto così tanti animali correre insieme nello stesso posto. Sembravano un grosso fiume vivente in piena che travolgeva ogni cosa dopo mesi di secca.

«Pensi che Acceber sia…» cominciò Mei.

«Attenta!» le gridò Gaius, afferrandole improvvisamente la nuca e spingendola verso il basso e abbassandosi a sua volta.

Così impedì ad una freccia scoccata da lontano di colpirla alla tempia sinistra.

«Oh! Grazie...»

«Libenter. Qualcuno ci sfida!»

Apparve un uomo gigantesco e barbuto, a cavallo di un iguanodonte. Attorno a lui, a poco a poco, arrivarono altri animali, tra cui un argentavis che scese subito in picchiata su di loro. Alba balzò via e Nerva decise di scendere a terra per essere più agile con la spada. Mei seguì il suo esempio: i velociraptor avrebbero combattuto al loro fianco. Rexar ruggì ma, invece di combattere, ricominciò a seguire l’orlo del precipizio e scendere lentamente lungo la parete: supposero che avesse fiutato la padrona e che volesse raggiungere lei o quello che rimaneva se erano arrivati tardi.

«Il mio socio sapeva che sareste arrivati. Ecco perché sono qui» affermò Sotark.

«Ascolta, noi non sappiamo chi tu sia e non ci interessa saperlo, ma non siamo venuti a perdere tempo. Lasciaci cercare Acceber Ydorb!» esclamò Mei.

«Non potete: andatevene o sfidatemi» fu la tonante replica.

«Spostati, barbaro!» minacciò Nerva.

«Avete fatto la vostra scelta. Spero tu sia valorosa come sembri nei racconti di taverna, Regina delle Bestie!»

Mei, ignorando il fatto che anche quel tizio imponente sapesse chi fosse, si mise in posizione di combattimento e fischiò, mandando Hei alla carica. Il velociraptor si scagliò su un megaterio in prima fila. L’argentavis li aggirò in volo e si buttò su Mei, protendendo gli artigli. La guerriera se ne accorse appena in tempo e lo evitò con una rotolata. Gaius prese la balestra (con una freccia già incoccata), mirò e riuscì a colpire la pancia del rapace, che precipitò stridendo verso la gola. Prima ancora che si schiantasse, fu travolto dalla massa di creature.

«Tu pensa alle creature, io provo a raggiungere lui!» disse Nerva.

Mei annuì. Un carnotauro cercò di tirarle una testata, ma mancò. Alba gli saltò addosso e iniziò a morderlo e graffiarlo. Il teropode cornuto, mentre si agitava, non si accorse di starsi avvicinando al bordo e cadde giù, mentre Alba saltò via subito prima. Dopo, Mei notò in tempo un rinoceronte lanoso che la caricava: schivò e poi, dopo essersi messa in una posizione strategica, si fece attaccare di nuovo, attirando il mammifero neozoico fino al bordo… e lasciando che si buttasse da solo perché non aveva modo di frenare. Il lato positivo di trovarsi su un campo di battaglia lungo e stretto era che i nemici non potevano attaccare in massa, salvo rare occasioni: ogni trucco imparato durante la guerra tornava sempre utile. Intanto, Nerva si sforzava di evitare le creature che cercavano di sbarrargli la strada mentre correva verso Sotark. Un gigantopiteco, urlando, gli si parò davanti e sollevò i pugni per fracassargli la testa. Nerva fu più rapido e trafisse la sua con un affondo di spada: la lama entrò dalla gola e uscì dal cranio. Un araneomorfo, dalla cima di un masso, gli lanciò una trappola di seta per immobilizzarlo, ma Nerva schivò anche quello. Con un fischio, inviò entrambi i velociraptor ad occuparsene. Purtroppo, non vide che Sotark l’aveva raggiunto e stava brandendo il manico di una grande ascia. Il legno colpì duramente la testa di Gaius, facendolo cadere in ginocchio. Intanto, Mei aveva azzoppato un allosauro facendo in modo che un pachicefalosauro ne investisse una zampa con una testata. Cadendo, il teropode aveva schiacciato il pachicefalosauro.

«Tirati su, vecchio! Voglio che il nostro duello sia equo» ordinò Sotark.

Nerva, irritato per essere appena stato chiamato “vecchio” per la maschera da Cesare, si sforzò e si alzò, rimettendosi in posizione di difesa. Con un fischio e un gesto del braccio, il socio di Gnul-Iat ordinò alle bestie di cessare l’attacco.

«Meritate di affrontarmi di persona: pochi resistono così a lungo contro un contingente di bestie senza averne altrettante» disse.

«Molto onorata. Accettiamo la sfida!» disse Mei, furiosa ma colpita dall’onestà di quel tizio.

Si accostò a Nerva e il Romano attaccò per primo, tentando un affondo. Sotark lo schivò e brandì l’ascia; Mei lo fermò tirandogli un calcio nel fianco, poi attaccò anche lei. Rivelando un’agilità che non avrebbero mai immaginato da quella stazza, Sotark schivò con un balzo all’indietro. Nerva, salito sul macigno dove si era appostato l’araneomorfo, richiamò la sua attenzione con un grido e cercò di saltargli addosso. Sotark provò a parare mettendo l’ascia di traverso di fronte a sé, ma l’impatto spaccò il manico di legno non lavorato in due. Gettò via la metà senza lama, ormai inutile, e stordì Nerva con un fortissimo pugno. Gaius era a terra, e nessuno si accorse che il colpo aveva stortato la maschera, rivelando che quello non era il suo vero volto. Mei, alle spalle di Sotark, gli saltò addosso. Avvolse i suoi fianchi con le gambe per aggrapparsi e, tenendo la spada per i due estremi, la spinse contro la sua gola per soffocarlo e sgozzarlo nello stesso momento. Ma lui non si scompose e, afferrati i capelli della combattente, la strattonò e la sbatté a terra. La stordì ulteriormente con una pedata. Quindi prese la sua spada e la sua balestra e le buttò giù dal burrone. Piantò la lama dell’ascia per terra e andò da Nerva, quindi gettò via anche le sue armi. Fu allora che notò qualcosa di strano nella faccia di quel vecchio…

«Una maschera! Non lo sembrava nemmeno… dannati stranieri, voi e i vostri trucchi!» ringhiò.

Stordì anche lui, lo afferrò per la collottola e gliela sfilò.

«Cosa?! – non credeva ai suoi occhi – Il generale della Nuova Legione… tornato?!»

Gaius, capendo dalle parole dell’avversario quello che era successo, trasalì e si riscosse.

«Per gli spiriti… be’, ha anche un certo senso: se c’è la Regina delle Bestie, perché non ci dovevi essere tu, sporco invasore? Gnul sarà davvero…»

Nerva, all’improvviso, gli tirò una testata, facendogli mollare la presa. Ma Sotark si riprese subito e, furioso, gli afferrò la gola e strinse: presto l’avrebbe soffocato a morte. La vista di Nerva cominciò a sfocarsi e i suoi polmoni a bruciare... ma Mei saltò di nuovo addosso all’omone e gli premette un pezzo di tessuto contro la bocca. Pochi secondi dopo, Sotark crollò a terra, privo di sensi.

«Mi devi un favore, ma non adesso» disse a Gaius, tirandolo su.

«Gratias. Cos’era?»

«Ricordi la tossina con cui ci avevano addormentati? Alla palude, ho pensato di prenderne un po’ e metterla su un pezzo del mio vestito in caso di emergenza. Meno male che ho avuto l’idea!»

«Già. Ti ringrazio ancora»

«Prego. Per ora le sue bestie ci ignorano e noi siamo disarmati, prendiamo i velociraptor e ricominciamo a cercare Acceber, prima che ci attacchino senza comando!»

Quindi ripartirono in fretta e furia… senza notare di aver dimenticato lì la maschera.

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«Il posto è questo: ci siamo!» esclamò Helena.

«Oh, finalmente!» disse Chloe, sfinita.

Era stata una lunga scarpinata, in cui erano passati da diversi pendii e sporgenze dove si rischiava seriamente di cadere e fare un volo di cento metri e passa, ma alla fine avevano raggiunto il sito in rovina sull’Allics. Mezz’ora prima avevano anche potuto osservare da lontano un piccolo gregge di ovis che saltava tra le rocce e mangiava i ciuffi d’erba sparsi. Quelle rovine non ricordavano l’architettura greca: si trattava di una cittadella distrutta su uno spianamento che sembrava un grande “scaffale” sulla parete della montagna. Da quel poco che rimaneva degli edifici, si intuiva che erano interamente in pietra, senza pavimento e squadrate, attaccate le une alle altre. C’erano scalinate e spiazzi erbosi. Helena guidò i tre ragazzi fino a quello più grande, al centro del quale c’era il piedistallo, identico in tutti i minimi dettagli a quello al “Partenone”.

«Quindi le rovine di questi tizi venuti prima degli indigeni di adesso sono tutte diverse?» le chiese Sam, mentre si asciugava il sudore dalla fronte.

«Non le ho viste tutte, perché gli Arkiani mi hanno aiutato durante la caccia ai manufatti, ma suppongo di sì»

«Secondo te c’è un motivo per cui sembrano le architetture di altre civiltà?» domandò Laura, prendendo il manufatto.

Helena si imbarazzò:

«Sai che non ci ho mai pensato? Ero così concentrata sul tentare di capire il nesso fra rovine e manufatti che non ho mai dato peso a com’erano fatte le rovine in loro! Effettivamente, è strano che i Pre-Arkiani conoscessero tutte queste architetture senza sapere di chi fossero! Forse alcuni loro membri erano venuti qui da casa loro, come noi, ma com’è possibile? È un miracolo che io, Edmund e gli altri ci siamo arrivati da soli, figuriamoci chiunque altro in gruppi estesi!» iniziò a riflettere.

«Il mistero si infittisce! Credo proprio che ci siamo ritrovati a fare Indiana Jones e Sherlock Holmes allo stesso tempo» scherzò Chloe.

Laura, pensosa, mise il manufatto sul piedistallo, ruotò la struttura e accadde lo stesso della volta precedente: si aprì un buco cilindrico attorno al cubo di pietra e Sam scese a prendere il secondo pezzo di mosaico dall’incavo nel muro. Laura se lo fece passare e provò ad accostarlo con quello che avevano già: sì, era proprio una mappa frammentata di ARK. Ma Sam, che era ancora nella fossa, aveva notato qualcosa:

«Gente, c’è qualcosa di strano in questo buco quadrato…»

«Cioè?» chiese Chloe.

«Mentre staccavo il pezzo di mappa ho premuto per sbaglio e mi è sembrato che andasse verso l’interno, come un pulsante!»

«Prova a premere di nuovo: forse non è un caso!» lo esortò Helena.

«Va bene» disse Sam.

Quindi appoggiò due dita alla liscia pietra della nicchia quadrata e spinse. Non era stata una sensazione: si muoveva per davvero come un pulsante! E, alla fine, si fermò. A quel punto, qualcosa nella pietra emise un ticchettio e il tasto tornò automaticamente a posto.

«Credo di aver attivato qualcosa… anche se non so cosa!» avvertì Sam.

Laura ed Helena fremevano per l’emozione. Per un po’ di secondi, non accadde niente. Ma poi… il pavimento di pietra vibrò.

«Oh… ragazzi, dovremmo preoccuparci?» chiese Chloe.

«Non so» disse Helena.

Sam, per precauzione, balzò fuori dalla fossa.

Improvvisamente, una grandissima porzione di terreno iniziò letteralmente a scivolare verso destra, rivelando un cratere quadrato con una scalinata che scendeva nell’oscurità. Loro ci si avvicinarono, a bocca spalancata e occhi sbarrati.

«È… incredibile! Non posso crederci… mi sono davvero persa tutto questo?» Helena era praticamente in estasi.

Dopo essersi scambiati una rapida occhiata, decisero di scendere e dare un’occhiata. Là sotto era buio pesto, ma appena scesero l’ultimo gradino una serie di luci a forma di strani simboli e disegni illuminò un grande stanzone fatto di una strana roccia nera, molto simile all’ossidiana, ma chiaramente diversa. Le luci venivano da delle scanalature che formavano quei ghirigori, alternati al codice binario riconosciuto da Jack sulle colonnine. Più andavano avanti, più lo stupore già alle stelle aumentava. A Laura dispiaceva che non ci fosse Jack, altrimenti avrebbero potuto fargli tradurre le scritte. Ma il pezzo forte era alla fine dell’atrio: era appena apparso un vero e proprio ologramma azzurro che rappresentava... il pianeta Terra. Ormai era molto chiaro che i Pre-Arkiani non erano affatto più primitivi della società moderna, ma quello rasentava i limiti della fantascienza!

«Una civiltà antica… avanzata! Come vorrei che gli altri fossero qui per vederlo… che rabbia non poterlo rivelare a nessuno!» boccheggiò Helena.

«A chi lo dici!» le disse Laura.

Su quel mappamondo digitale c’era un punto rosso lampeggiante in corrispondenza delle Ande.

«A che serve quello?» chiese Sam, non ottenendo (giustamente) risposta.

Notarono poi che, oltre il mappamondo, finiva lo stanzone e, scavato nella parete nera, c’era un grande arco dai bordi decorati con altri di quei ghirigori. Accanto ad essa c’era una sorta di maniglia: sembrava che li invitasse ad afferrarla e girarla, tanto era in vista… infatti, quasi d’impulso, Helena la raggiunse e la girò in senso orario. I ghirigori diventarono ancora più luminosi e la parete all’interno dell’arco si aprì scorrendo verso l’alto. Dall’altra parte c’era uno stanzone identico e con una struttura simmetrica a quello in cui si trovavano. Ma là dentro il mappamondo aveva il punto lampeggiante nella metà australe del Pacifico, dove presumibilmente si trovava ARK. Il portone in fondo all’altro atrio si spalancò com’era successo a loro dopo aver premuto il tasto nella nicchia. Questo fece venire un sospetto stravolgente a Laura: se da loro il globo indicava le Ande e oltre il passaggio ARK… senza preavviso, si lanciò lì dentro di corsa, ignorando le esclamazioni degli altri, che la seguirono. Salì le scale in fretta e furia, uscì dalla grande botola e… il sangue le si fermò nelle vene per la meraviglia: si trovava in cima ad una montagna nel bel mezzo di una catena montuosa… poco distante da uno dei siti archeologici più famosi del mondo: Machu Picchu. Gli altri la raggiunsero e fecero un’espressione indescrivibile. Si erano appena teletrasportati da ARK alle Ande.

«No, questo è troppo! – esclamò Sam – Questi tizi avevano il teletrasporto, millenni fa? Chi erano? Cos’è tutto questo? Che razza di posto è quest'isola?!» gridò.

«Va bene…a desso sono vagamente confusa… che ne dici, però, Laura? Ne è valsa veramente la pena venire sull’isola dei dinosauri!» disse Chloe, mettendo la mano sulla spalla di Laura.

«Sì, è vero…» ma, in realtà, Laura era troppo emozionata per capire.

Helena cercò di trattenersi dal balzare di gioia e raccolse le idee:

«Dunque… stando a tutto questo, i Pre-Arkiani potrebbero aver avuto accesso a tutto il resto del mondo con qualche tecnologia preistorica ma più avanzata della nostra. Magari le rovine hanno l’aspetto delle architetture di altre civiltà perché così facendo potrebbero essere venuti a contatto con esse… ma se sono esistiti molto prima? A meno che non sapessero pure viaggiare nel tempo…»

«Ah, be’, dopo questo direi che tutto è possibile» commentò Sam.

«In effetti…»

«E oltre a ciò sapevano come funziona la barriera di ARK e cos’è il Tesoro. Mio Dio, chissà cosa ci si può fare, se loro sono arrivati a questi livelli!» disse Laura.

«Già. Quindi… che aspettiamo ad andare avanti? Abbiamo altri nove manufatti da sistemare per arrivarci!» li incoraggiò Helena, ispirata.

Ai ragazzi dispiaceva un po’ lasciare il mondo “civilizzato” e tornare nel pericolo, soprattutto dopo aver visto da lontano una vasta comitiva di turisti vestiti all’europea che stava visitando Machu Picchu in quel preciso istante. Ma annuirono e tornarono indietro. Tornati nell’atrio su ARK, Laura provò a rigirare la maniglia e, come previsto, la botola sulle Ande si chiuse e anche il passaggio.

«Troppa roba in troppi pochi minuti, ragazzi! Troppo in troppo poco!» esclamò Sam.

«Non vedo l’ora di raccontarlo a Jack!» disse Chloe.

«Anch’io» affermò Laura, sorridendo e sistemandosi la coda di cavallo.

«Accidenti, Edmund, Mei e Gaius non ci crederanno mai!» disse invece Helena, scordando che in quel momento Mei-Yin e Nerva stavano rischiando la vita insieme ad Acceber.

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Acceber non era ancora riuscita a fare niente. I velociraptor avevano smesso di avvicinarsi, per fortuna, ma era comunque bloccata. Vide un triceratopo vicinissimo alla parete che in pochi secondi sarebbe passato davanti a lei e le venne un’idea assurda, praticamente da suicidi… ma decise di farlo, anche per orgoglio: qualunque cosa, pur di non fare il gioco di Gnul-Iat. E poi, quel triceratopo non stava correndo velocissimo; anzi, era lievemente zoppo. Questo la incentivò ancora di più a sfidare la sorte. Dunque, appena le fu davanti… cercò di saltare sulla sua schiena, mettendo tutta la sua forza nelle gambe… e ci riuscì. Rimase in qualche modo aggrappata al dorso rugoso del dinosauro, così impegnato a galoppare nel mucchio da non pensare nemmeno a lei, quindi non provò a disarcionarla. Acceber, con un grande sforzo, riuscì a posizionarsi sulla groppa del triceratopo come se fosse in sella, poi si aggrappò a due delle punte ossee del collare sulla testa del rettile e sperò che questo la portasse al sicuro, all’uscita dal Labirinto di Gole.

“Cosa? Saltare su un triceratopo a caso? Come ci è riuscita?! – pensò Gnul, innervosito dall’imprevisto – D’accordo, d’accordo… non ti agitare, Gnul: ci sono ancora tanti bivi prima di uscire da lì! E poi… tra i prossimi c’è il campione del giorno!”

Infatti, poco dopo, la gola si divise in tre corridoi. A destra non si poteva passare, al centro c’erano quattro allosauri a bloccare il mucchio di bestie… e, a sinistra, un giganotosauro.

«No!» esclamò Acceber, nel panico.

Come se non bastasse, due degli allosauri si piazzarono a destra: ora non si poteva più andare da nessuna parte. Le bestie in prima fila si fermarono, dando inizio ad una caotica congestione che proseguì lungo il fiume vivente fino a fermarlo del tutto: pure i dinosauri più grandi, come i brachiosauri, non riuscivano più nemmeno a muovere le zampe. I predatori lì davanti ruggivano e minacciavano di partire all’attacco: gli erbivori non osavano avanzare. Ma ce n’erano alcuni più impazienti di altri, che cominciarono a spintonare i loro vicini con coda e fianchi. Iniziò così un rimbalzo continuo e infinito di spintoni, nemmeno leggeri. Uno stegosauro accanto al triceratopo di Acceber andò a sbattere contro il dinosauro a tre corna e alla ragazza toccò balzare in piedi e rimanere in bilico sulla sua groppa per non farsi spappolare le gambe. Lo scossone fu seguito da altri, sempre più forti: presto lei sarebbe caduta e Gnul avrebbe avuto la soddisfazione di vederla schiacciata sotto decine di zampe. Ma poi sentì distintamente un ruggito familiare…

«Rexar?»

Il suo tilacoleo era apparso in cima alla parete di sinistra e, dopo aver avvistato la padrona, l’aveva chiamata. Quindi si era calato giù scivolando sulla roccia con gli artigli e aveva preso a balzare agilmente da una groppa di dinosauro all’altra senza mai esitare né sbilanciarsi. Gli animali su cui saltava sobbalzavano e si guardavano intorno, infastiditi dalle punture degli artigli e perplessi perché non capivano cos’era successo. Si fermò sullo stegosauro che era accanto al triceratopo. Acceber, sorridente, stava già per saltare sulla sua sella, ma tutto fu interrotto da un assordantissimo ruggito, lo stesso che aveva sentito sulla cima della collina del “Partenone”: il grido di battaglia di Kong.

“No… no! Non anche lui, adesso! Perché lui?! Ah! Che giornata del cazzo…” si disse Gnul, atterrito e stizzito.

Il dominatore dell’isola era lì perché si era accorto dell’enorme spostamento che gli animali avevano svolto dal lago sotto l’isola volante e sapeva che non era normale. Così, spinto da una curiosità istintiva, era andato a vedere ed era andato su tutte le furie come aveva visto un giganotosauro, l’unico essere arkiano capace di metterlo in difficoltà: gli succedeva ogni volta che ne vedeva uno, era più forte di lui, doveva mostrare all’intera fauna chi era il vero re. Acceber si riscosse e balzò in sella a Rexar quasi con la sua stessa agilità, mentre la grande sagoma nera e pelosa, metà uomo e metà bestia, si buttava giù dalla parete di mezzo e si schiantava sul giganotosauro, facendolo rotolare fino al muro opposto e sollevando una nube di polvere immensa. Gli allosauri si spaventarono e fuggirono, il che diede alla mandria il coraggio di ripartire: il fiume riprese a scorrere. Rexar riprese a balzare da una schiena all’altra, anche se la difficoltà ora era maggiore. Acceber lo incoraggiava, fiduciosa. Dopo tre balzi, finalmente, Rexar si aggrappò alla parete e la scalò, portando la padrona in salvo.

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Intanto, il Megapiteco e il giganotosauro si osservavano, ansimanti e furiosi, mentre gli altri animali terrorizzati sfrecciavano accanto e davanti a loro senza nemmeno considerarli. Il teropode fece la prima mossa e, ruggendo, caricò. Kong si spostò di lato e il giganotosauro sbatté contro la parete, che tremò. Con una spallata, Kong fece perdere l’equilibrio all’avversario e lo fece rovesciare sul fianco, quindi iniziò a pestargli la testa con una serie di pugni, tirati così forte che i colpi sul cranio rimbombavano. Ad ogni pungno, il Megapiteco gridava, scatenando tutta la sua furia. Ma poi il dinosauro si rialzò e lo morse alla spalla. Più stringeva, più la pelliccia ispida e color pece dello scimmione si macchiava di sangue. Sforzandosi di non cedere, il Megapiteco prese la mascella del rettile con la mano sinistra e la mandibola con la destra, poi cominciò a tirare. Dovette fare uno sforzo immenso, ma alla fine i denti del mastodontico teropode si sfilarono dalla sua carne e fu libero. Con una spinta, allontanò il giganotosauro e gli ruggì contro. Fatto ciò, con un balzo, gli saltò addosso, gli circondò la gola con le braccia e strinse, provando a strangolarlo. Fece pressione per più di un minuto, ma niente: il rettile era ancora vivo e riuscì a liberarsi. Kong si alzò in piedi e lo stordì con un sinistro; il giganotosauro contrattaccò voltandosi di scatto e investendolo con la coda. Il gorilla cadde all’indietro, ma si rialzò subito. Afferrò la coda, strattonò girando su se stesso e, come al lancio del martello, scagliò il teropode dall’altra parte della gola.

Lo schianto del giganotosauro lasciò per terra innumerevoli fosse nell’erba già rovinata e pestata dai branchi in fuga. Mentre il dinosauro scalciava nel tentativo di alzarsi, Kong lo raggiunse con in mano un sasso dagli spigoli appuntiti e gliel’abbatté sul ginocchio destro, fratturando la zampa posteriore. Il giganotosauro gridò di dolore, mentre Kong indietreggiava per permettergli di rialzarsi. Il teropode ci riuscì dopo molto tempo e, una volta in piedi, iniziò a tenere la zampa rotta sempre sollevata. Non gli restava che arrendersi, ma decise di non farlo: ruggì ancora in segno di sfida. Kong, allora, ruggì in risposta; tenendo le zanne scoperte, sbatté il sasso contro la parete della gola, frantumandolo in mille schegge affilatissime. Ne prese una e andò dal giganotosauro, lo buttò di nuovo a terra e gli infilzò l’occhio, spingendo fino a raggiungere il cervello. Il dinosauro fu scosso da una rapida convulsione, poi si adagiò flaccidamente per terra. Vittorioso, Kong salì in cima alla gola, ruggì al cielo battendosi i pugni sul petto e si allontanò, svanendo com’era apparso.

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“Ah, no! Pensi davvero di scappare così?!” pensò Gnul-Iat, vedendo il suo grandioso piano andare in fumo e sentendosi ferito nell’orgoglio.

Prese un moschetto da una sacca e cercò di mirare, ma ormai lei era sparita fra gli alberi. Allora corse al tapejara, ma subito prima che ci saltasse su il suo pterosauro fu colpito al cuore da due frecce. Sopreso, il Ladro di Innesti si voltò e non poté crederci: davanti a lui c’erano suo padre e suo zio Odranreb, armati di arco lungo.

«Sono pronto per la rivincita, Gnul-Iat!» esclamò Drof, determinato e con sguardo fermo.

«È un peccato che tuo padre avesse fretta e che non potessimo portare le mie bestie dalla stradina che abbiamo preso come scorciatoia, se no ti facevamo vedere, bastardello!» aggiunse lo zio, spavaldo.

«Oh, fammi il piacere! Morire ti costava troppo, padre?» chiese Gnul, che iniziava a non vederci più dalla rabbia.

«Sì»

«Soffri!» gridò il fratello di Acceber, lanciando il coltello che aveva alla sua cintura, mirando alla fronte di suo padre.

Drof lo schivò inclinando la testa o, ma si graffiò la tempia. Prima che entrambi prendessero la mira, Gnul tirò fuori una lancia dalla sacca e li attaccò. Con un fendente, disarmò suo padre e si preparò ad un affondo, ma si accorse che Odranreb aveva incoccato una freccia. Allora si girò di scatto e lo colpì al ginocchio con un calcio, facendolo incespicare.

«Ah! Dannata testa di…» imprecò Odranreb.

Drof, tenendo le estremità dell’arco, arrivò alle spalle del figlio e gli avvolse l’arma attorno alla gola, stringendo più forte che poteva.

«Sbrigati, cugino!» esortò.

Odranreb, che aveva una spada in un fodero sulla sua schiena, prese la lama e stette pronto a trafiggere il costato di Gnul-Iat. Il ragazzo, però, gli tirò un altro calcio che gli tolse il fiato. Poi, con una torsione, si liberò dalla stretta del padre e gli tirò un pugno sul naso.

«Tutto qui? Patetici! Siete due poveri vecchi, sapete?» li provocò, divertito.

Odranreb si gettò di peso su di lui, placcandolo:

«Ritira quello che hai detto!» gridò.

Alzò la spada per decapitarlo, ma il Ladro di Innesti schivò girando la testa. Mentre lo zio tirava per estrarre la lama dal terreno, gli piantò un destro in fronte, per poi buttarlo a terra con una pedata. Preventivamente, fischiò per chiedere soccorso ad uno dei suoi volatili, poi si riconcentrò sulla lotta. Si impadronì della spada, intenzionato a sgozzare Odranreb, ma le forti braccia di suo padre gli avvolsero il collo: Drof stava cercando ancora di soffocare il figlio. All’improvviso, però, sentì una raffica di vento che lo costrinse a mollare per proteggersi gli occhi, per riflesso automatico. Era arrivato un argentavis di Gnul. L’uccello, senza neanche atterrare, attese che il padrone gli afferrasse le zampe, cosa che succedé. A quel punto, se ne andò. I due cugini rimasero lì, umiliati e con un palmo di naso, a guardare la loro preda che volava via dopo che erano arrivati così vicini all’obiettivo.

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Capitolo 20
*** Droga legale (storia vecchia) ***


Rexar accompagnò Acceber da Mei e Gaius i quali, per giunta, avevano finito per doversi allontanare molto dal bordo della gola a causa dei troppi ostacoli, raggiungendoli seguendo il loro odore. Mei era sollevata e imbarazzata allo stesso tempo per aver perso tempo a combattere con l’omone, mentre il tilacoleo aveva pensato da solo al salvataggio con più efficienza di una persona. Acceber, vedendola, balzò giù e salutò gaiamente, tornando alla sua solita allegria, ma poi si accorse di un minuscolo dettaglio: la faccia di “Cesare” era diversa. E quello non era affatto uno sconosciuto. La figlia di Drof provò un’ondata di confusione mista a odio da patriottismo alla vista dello straniero che per quasi tutta la durata del 6316 aveva invaso e sottomesso senza diritto mezza isola con la scusa di portare “ordine e civiltà”. L’aveva visto solo una volta, quando era venuto con una scorta armata al suo villaggio per negoziare con Yasnet, ma i lineamenti le erano rimasti impressi.

«Uno di voi due mi potrebbe spiegare perché lui è qui? Mi sono appena salvata da un assassinio e ora mi ritrovo anche il capo della Nuova Legione?! E perché proprio tu, che sei famosa per ciò che hai fatto per tutti noi contro di lui, gli stai accanto come se niente fosse, Regina delle Bestie?!»

Spinta da un’ondata di “patriottismo”, si lanciò su di lui e provò a colpirlo in faccia, ma lui fu più veloce e si scansò, facendole rischiare di capitombolare. Prima che si lanciasse ancora, Mei-Yin la trattenne afferrandole un braccio. Allora, terrorizzato, Gaius si toccò la faccia e si accorse solo allora di aver dimenticato di recuperare la maschera in lattice. Incredibilmente, anche Mei non l’aveva realizzato, e lei di solito si accorgeva infallibilmente di certi dettagli.

«Allora? Avete perso la voce?» chiese Acceber, ora più perplessa che arrabbiata.

«Lui è…» cominciò a spiegare Mei.

«No, aspetta, preferisco dirlo io: sapevo già che presto o tardi la verità sarebbe emersa» la fermò Nerva.

«Come vuoi»

«Dunque… ragazza, quando i miei amici hanno deciso di seguire quei quattro giovani sulla vostra isola, avevo paura di venire, perché sapevo che il perdono pubblico della tua gens era solo una formalità: per quello che vi stavo facendo, non potrei mai ricevere delle vere scuse»

Acceber annuì, con gli occhi stretti a fessura.

«Così Helena mi ha convinto dandomi una maschera da Gaio Giulio Cesare, una persona che fu molto importante nella storia della civiltà a cui appartenevo. E così eccomi qua, con una copertura che è durata poco. Odiami quanto vuoi, ma puoi fidarti di me: oggi non provo che vergogna per quello che pensavo e facevo fino a due anni fa, lo giuro e lo garantisco. Possa Plutone trascinarmi negli inferi se sto mentendo!»

La figlia di Drof sembrava cominciare a convincersi, anche pensando al fatto che il presunto “Cesare” fino ad allora le era sembrato un tipo a posto, ma esitava ancora…

«Ascolta, Acceber, tutto questo sarebbe inaccettabile anche per me, se fossi al tuo posto – le disse Mei – Anch’io lo odiavo e lo volevo morto, ma all’ultimo mi ha dimostrato che era davvero pentito. All’inizio non sopportavo l’idea, ma ora che ho vissuto al suo fianco per due anni, posso confermare che è sincero»

Acceber strinse i pugni, chiuse gli occhi e tirò un lungo sospiro… e poi annuì:

«D’accordo, d’accordo: farò finta che tu non sia un nemico di ARK e ci crederò solo perché lo dice anche la Regina delle Bestie in persona! Non ti denuncerò a nessuno e ti tratterò come prima… ma stammi lontano, o potrei pensare di alzare le mani o di mettere mano ad un coltello. O di svelare il tuo segreto al primo villaggio a cui andiamo»

«Me ne ricorderò. Ma, come ho detto, di me puoi fidarti»

«Vedremo» disse Acceber, indignata, prima di liberarsi dalla presa di Mei e avviarsi con aria altezzosa in direzione Nord, fiancheggiata da Rexar.

I due ex-nemici e colleghi di vigilanza si guardarono con disagio, poi si incamminarono. Mei, in uno dei suoi rarissimi momenti di sarcasmo, provò a consolarlo:

«Poteva andarti peggio: avrebbe potuto essere armata, oppure avrei potuto esserci io al suo posto»

«Mei-Yin-Li che scherza? Suppongo che anch’io dovrò lasciarmi andare più spesso, se la Regina Bestiarum concede»

Dopo una breve risata a denti stretti, si incamminarono a loro volta.

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«Dove devo sistemare questo?» chiese Jack, mostrando a Rockwell l’ultimo oggetto che era nel sacco, cioè un rudimentale miscroscopio di bambù intagliato.

«Mettilo subito lì sopra, poi vedrò io con calma» rispose distrattamente il medico, indicando il tavolo da lavoro improvvisato che aveva montato con scatole in TEK leggero vuote che aveva chiesto di prendere in prestito.

Jack obbedì, poi sospirò con soddisfazione.

«Ora – affermò Rockwell, andando a sbirciare da una delle due finestre arrotolabili della sua tenda – dobbiamo cercare di capire quando avremo delle occasioni per prendere un po’ di edmundio fluido da quel serbatoio…» guardava con avidità la cisterna del replicatore di TEK, troneggiante al centro della base.

«Oh, Gesù… capisco che vuole studiare quella cosa, ma… se ci scoprissero? Io ho ansia!»

«Te l’ho detto, è un rischio che merita di essere corso. Tu sei troppo timoroso, giovanotto! La fiducia in se stessi è importante, nella vita»

«Lo so, ma mi sento come se stessimo per ficcanasare in qualcosa di troppo grosso per noi, non so come spiegarlo…»

«In che senso?»

«Insomma… una sostanza usata a più di cento anni nel futuro e che è mezza illegale anche per loro, che lo usano sempre? Ci dev’essere un motivo…»

«Il motivo è che credono che io sia troppo retrogrado per capire la loro tecnologia! – tuonò Edmund – Ma gliela farò vedere! Immagino già i loro sguardi attoniti quando rivelerò di aver scoperto tutto…»

«Da dove viene fuori, questa?»

«Dal fatto che so interpretare quello che mi si dice»

«Magari ci hanno proibito di chiedere altro perché sanno che c’è qualcosa di pericoloso con quel liquido e non vogliono che ci accada qualcosa! Dopo la responsabiltà ricadrebbe su di loro, chiunque siano le persone a cui obbediscono»

«Forse è così. E noi scopriremo cosa c’è di pericoloso nelle proprietà della forma liquida di quello straordinario metallo!»

Jack, capendo che non sarebbe mai riuscito a dissuadere Rockwell, iniziò a sudare freddo, quando sentì il suo cellulare (che aveva incredibilmente ancora batteria) vibrò. Lo prese, lesse e trovò un messaggio di Sam.

SAM
Ehi, secchione! Come va col gentiluomo inglese? Guarda cos’abbiamo scoperto noi!

Subito dopo, arrivò una foto del grande seminterrato sotto le rovine dell’Allics, più una foto di Machu Picchu. Perplesso, Jack avviò una telefonata e, dopo aver salutato tutti, si fece raccontare tutto.

«Come? Ma è pazzesco! Chi erano questi Pre-Arkiani?»

«Che ne so? Mi sa che lo scopriremo se cerchiamo il nostro Tesoro»

Poco dopo, sentì la voce di Helena che gli chiedeva di mettere il vivavoce per permetterle di spiegare a Rocwell e lui lo fece. Richiamò quindi l’attenzione di Edmund, che era tornato alla finestra, e mise il vivavoce. Il farmacista ascoltò il racconto di Helena con aria assorta. Alla fine, cominciò a mormorare:

«Fenomenale… incredibile… prima l’edmundio, ora questo…»

«Pronto? Edmund? Va tutto bene, lì?»

«Oh, il dottor Rockwell sta bene, sta cercando di assimilare le scoperte» spiegò Jack, che trattenne a stento una risata: quella scena faceva troppo ridere.

«Capisco, è quello che è successo anche a me! Non… cos’è quel… oddio!»

Dall’altro capo del telefono si sentì uno stridìo assordante, poi grida e la voce di Sam che bestemmiava, poi la linea cadde. Jack rimase agghiacciato.

«Pronto? Pronto?! Ragazzi!» gridò, preoccupato.

«Non credo che possano risponderti» sospirò retoricamente Rockwell.

«Oh, dannazione! E se fossero…»

«Non andare subito sul tragico! Siamo tutti sopravvissuti a qualunque cosa l’isola ci abbia messo di fronte, finora, persino noi due da soli. Perché i tuoi amici e una ragazza conscia del fatto suo come Helena Walker dovrebbero soccombere a qualcosa che noi non abbiamo potuto distinguere perché l’abbiamo solo sentito?»

«Ha ragione, dovrei fidarmi di più»

«Ora, comunque, dicevo: se c’è un periodo particolare in cui assolutamente nessuno può vedermi avvicinarmi a quel serbatoio, forse avremo una possibilità di…»

In quel momento, nella tenda entrò la giovane soldatessa coi capelli verdi e i due balzarono, Jack dallo spavento e Rockwell perché terrorizzato dall’idea che qualcuno avesse potuto sentirlo cospirare sull’Elemento liquido. La ragazza aveva un braccio ingessato, adesso.

«Ciao, simpaticoni dal secolo scorso!» esordì lei, senza entrare del tutto nella tenda e con un sorriso a metà strada fra l’imbarazzato e il sornione.

«Ehm… ciao» rispose Jack, arrossendo.

«Non vorrei rimproverarti, giovinetta, ma è molto più cortese avvisare e chiedere il permesso di entrare, prima di aprire una porta o una tenda!» contestò Rockwell, lievemente irritato.

«Mi scusi, ha ragione – si scusò lei, imbarazzandosi a sua volta – Il fatto è che vi ho preso in simpatia quella sera nella mensa, così adesso ho voluto approfittare del mio periodo di infermità per farvi vedere qualcos’altro su di noi!» disse.

Sia Jack che Rockwell, per i rispettivi motivi, accettarono di buon grado. Allora lei entrò e, dopo essersi frugata in tasca, porse loro quattro inalatori d’Elemento, simili a quelli per gli attacchi d’asma.

«Cos’è?» chiese Rockwell, incuriosito e prendendoli.

Se li rigirò tra le mani in cerca di scritte o simili, ma non ne trovò.

«Niente di meno che la prima droga legale della Storia» esclamò lei, divertita.

«Come?» domandarono entrambi, stupiti.

«La Terra sarà anche invivibile, ma vi ricordo che le città sono ancora protette e sicure: c’è tutto il necessario per progredire ancora nei campi secondari, come drogarsi. Questo ha un nome lunghissimo che è "neurofarmaco stupefacente per apoteosi psichica", o NFSAP, ma tutti preferiscono chiamarlo in un modo molto più divertente: sballa-mente!»

«Interessante… un allucinogeno legale… un’altra meraviglia che il contatto con la società del futuro mi ha donato!» esclamò Rockwell, quasi commosso.

«E quindi… cosa fa?» chiese Jack.

«Quello che facevano gli acidi: provoca viaggi mentali. Solo che questo non ti fa diventare dipentente e non ha effetti collaterali. Quindi può essere benissimo comprato e usato senza rischi. Anzi, gli strizzacervelli lo usano per capire cos’hanno i depressi che non va! Alla fine, il paziente prova una sensazione meravigliosa di autoconsapevolezza inconscia che chiamiamo “apoteosi psichica”»

«Oh, un nome così altisonante non può che creare una certa aspettativa! Be’, grazie tante, giovinetta!» ringraziò Rockwell.

«Chiamatemi Sarah. Ciao!» e se ne andò.

«Allora, giovanotto…vuoi provare tu questo psico-farmaco? Io vorrei osservare gli effetti da un punto di vista esterno» suggerì Rockwell, dandogli uno degli inalatori.

Jack, non trovando il coraggio di rifiutare, prese e si fece coraggio. Si mise la bocchetta di fronte alla bocca e spruzzò l’aerosol all’interno, inspirando con forza… e tutto quello che lo circondava scomparve.

Il mondo si dissolse liquefacendosi e spargendosi ovunque, come delle tempere sommerse da un getto d’acqua. La tenda, gli oggetti, Rockwell… persino lui stesso si sciolse ed espanse in giro. Poi fu il buio… Jack si ritrovò in una stanza male illuminata che sembrava una vecchia rimessa degli attrezzi, polverosa e fatiscente.

«Dove sono?» chiese ad alta voce, sconvolto.

«Fa’ silenzio ed osserva il progresso!» gli rispose la voce di Rockwell, tonante.

Jack si voltò e vide Edmund davanti ad un tavolo di legno semi-distrutto. Sul tavolo c’erano quattro piante in vaso e il farmacista le stava annaffiando…Con uno strano liquido viola. Come le pianticelle assorbirono il fluido, iniziarono a contorcersi e ad avvitarsi, poi il groviglio di rami prese delle forme e dei colori definiti… e diventarono le teste di Jack, Laura, Sam e Chloe.

«Ah!» esclamò Jack.

«Incredibile, vero?» gli chiese Rockwell, con orgoglio.

Ma le piante si attorcigliarono di nuovo e presero un’altra forma, quella della testa di un mostruoso uccello simile ad una gallina con la cresta di un dilofosauro e le zanne di un serpente. Il ragazzo gridò dal terrore, ma gli sembrò che la voce gli uscisse a fatica dalla gola e l'eco durò per sempre, almeno per come la udì. 

La catapecchia crollò su se stessa nel momento in cui le teste di uccello strillarono e Jack si ritrovò ancora da solo. Era in uno spazio nero, infinito e senza gravità, dove centinaia di animali preistorici fra tutte le specie di ARK fluttuavano con lui, senza muoversi né guardarsi intorno: respiravano e basta. Jack era angosciato o, meglio, avrebbe dovuto essere angosciato; invece si sentiva rilassato e sereno, come se si stesse godendo una vacanza al mare dopo mesi di lavoro. Per curiosità, toccò un moscope, un goffo lucertolone paleozoico, e si sentì risucchiato da una forza invisibile, come una calamita. Poi cadde a peso morto per dieci secondi e… si ritrovò negli uffici dove lavorava come tecnico informatico. Tutti gli impiegati sfogliavano documenti e svolgevano pratiche al computer, ignorandolo. In fondo al corridoio, vide il suo capo discutere con un uomo in giacca e cravatta. No, un momento… non era una persona: era un gigantopiteco coi vestiti! Improvvisamente, il soffitto fu sfondato e un velociraptor vestito da Robin Hood e armato di arco irruppe. Puntò l’arco verso Jack e scoccò una freccia. Il ragazzo trattenne il fiato, pronto per il dolore… ma la freccia non gli fece male, quando raggiunse il suo torace. Guardò meglio e si accorse che la freccia aveva una ventosa al posto della punta e che l’altra estremità era itagliata a forma di cuore. Guardò ancora il velociraptor/Robin Hood e notò che gli erano spuntate delle ali da angelo e che in realtà la sua testa era una maschera... dietro la quale c’era Laura.

«Laura?! Ma che diamine...» chiese Jack, incredulo.

«Dovresti saperlo, Jack. Io non lo so, ma tu l’hai sempre saputo, guardandomi» fu la risposta.

Tutti i presenti applaudirono. Il gigantopiteco rivelò di essere un costume a sua volta e sotto c’era Sam, che gli strizzò l’occhio. La segretaria che in quel momento stava facendo delle fotocopie, invece, era Chloe.

«Io non capisco!» gridò blandamente Jack.

Improvvisamente, gli venne sonno. Chiuse gli occhi e… tutto tornò alla normalità.

Non si era mosso di un centimetro: la tenda, Rockwell, ARK… tutto invariato.

«Oh! Che mi è successo?» chiese Jack, ancora preso da quel senso di beatitudine che Sarah aveva chiamato “apoteosi psichica”.

«Ti sei addormentato in piedi, ragazzo!» esclamò Edmund.

«Io… ho visto di tutto! Noi due, le creature, il mio posto di lavoro… e ho anche scoperto che forse ho un’attrazione inconscia per Laura! È… è… non so come prenderla!»

«Be’, sei eccitato sessualmente da lei ma non te ne sei mai accorto. Oppure hai represso il sentimento tanti anni fa, fino a dimenticartene. È frequente nella post-adolescenza, sai?»

«Lo so, ma mi ha colto alla sprovvista! E poi chi ha mai detto che me la voglio sco... no, non in quel... bah, ma insomma! Non lo sapevo neanche, giuro!»

«Comunque sia, questa sostanza è un vero portento! Posso solo immaginare cosa possa mai nascondere l’edmundio fluido…»

“Ci risiamo…” pensò Jack, sconsolato.

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Parte della squadra di cattura dell’URE, appostata su un ripiano del monte Iddirac da ormai più di due ore, osservava le registrazioni dei vari droni che avevano mandato in giro per la zona delle due montagne gemelle alla ricerca di specie selvatiche. Mentre Santiago e gli altri si accertavano che tutto procedesse senza imprevisti tecnici, Diana restava in contatto radio con gli altri soldati, mandati nelle zone d’interesse a gruppi di due per prendere gli eventuali bersagli individuati.

«Guppo due, qui il tenente Altaras. Come procede con lo smilodonte?» stava chiedendo in quel momento.

«Cattura svolta con successo: bersaglio neutralizzato e sedato, aspettiamo l’autorizzazione a procedere al teletrasporto»

«L’avete, potete andare – rispose – Claudia, cancella lo smilodonte dall’elenco»

«Subito» le rispose la soldatessa seduta accanto a Santiago.

«Tenente, abbiamo contatto visivo con un brontosauro in uno specchio d’acqua. Potremmo provare un dirottamento verso una trappola, conferma?» le chiesero quelli del gruppo sette.

«Uhm… non mi dispiacerebbe, ma no: aspettiamo di organizzare una missione apposita per i sauropodi. Ricordate l’ultimo tentativo, col diplodoco?»

«Ma…»

«Non cambierò idea questa volta, mi spiace. Sapete anche voi che casino è, tra piazzare un muro d’energia contro cui farli andare a sbattere e colpirli finché si addormentano! Se per un diplodoco c’è voluta un’ora e abbiamo avuto tre feriti, pensate a qualcosa di ancora più grosso!» fu la replica.

«D’accordo, capiamo»

«Ehi, tenente, guarda qua: c’è un argentavis vicino alla nostra postazione – la chiamò Santiago – Dalla telecamera del drone che lo sta riprendendo si vede anche il nostro gruppo… ed infatti eccolo lassù!»

«Ora l’ho visto. Quindi? Abbiamo già preso degli argentavis»

«Lo so, il punto è un altro… l’ho visto un quarto d’ora fa e non si è mai allontanato da questa zona. Così mi è venuto un sospetto… e se stesse guardando noi?»

Diana inarcò le sopracciglia:

«Sai, ha senso, ma… perché? Pensi davvero che voglia attaccarci?»

«È un animale ed è carnivoro, tutto è possibile!» disse l’altra soldatessa.

«Ma non ricordi le istruzioni sulla fauna arkiana? Gli argentavis sono saprofagi, quindi non ci dovrebbe att…»

Quasi come se l’avesse sentita e volesse smentirla, il rapace smise bruscamente di fare i suoi lenti giri in cerchio e scese in picchiata… proprio su di lei. Per gli altri due presenti fu un istante: prima Diana c’era, poi era passato un bolide nero e piumato, infine lei non c’era più.

«Oh! Porca vacca, l’ha afferrata!» esclamò Santiago, sconvolto.

Subito, lui e la soldatessa presero i fucili e provarono a mirare, ma capirono subito che non avrebbero potuto fare tanto, perché il rischio di colpire Diana coi proiettili al plasma era troppo alto ed era assolutamente meglio evitare. Si trattava dell’Ala di Sangue, un leggendario esemplare di argentavis unico in tutta la sua specie, che da anni terrorizzava le Aquile Rosse sulle due montagne gemelle. Diversamente da ogni suo simile, l’Ala di Sangue era golosa di carne umana e attaccava le persone a vista, invece di intimidirle se invadevano il suo territorio, com’era normale tra gli argentavis. In più, era attratta dalla lucentezza, come le gazze ladre. Quindi, vedendo Diana e vedendo la sua armatura in Elemento, non aveva saputo resistere, anche perché aveva appena fallito nell’inseguire quattro bersagli che erano i ragazzi ed Helena. Era il suo verso, quello che Jack e Rockwell avevano sentito durante la telefonata. Diana era ancora senza fiato per l’urto e per lo spavento: all’improvviso, si era ritrovata nella zampa di un’aquila-avvoltoio gigante!

Non aveva il casco, era appeso alla sua cintura, per cui le toccava stringere gli occhi, perché l’aria che le sferzava il viso era fortissima. Cercando di non farsi prendere dal panico, tirò il braccio destro verso l’alto per liberarlo dalla stretta dell’artiglio dell’argentavis. Si fermò un istante a ringraziare la sua armatura in TEK per aver attutito l’impatto: la zampa del rapace le avrebbe frantumato le ossa se non l’avesse avuta. A quel punto, premette il pulsante che attivava il propulsore schienale. Come sperava che succedesse, il calore della fiammata costrinse l’uccello a mollare la presa e lei fu libera. Le ci vollero dei secondi per stabilizzare il volo, ma alla fine acquisì il controllo dell’armatura. Prese subito il casco e lo indossò, attivando anche la visione termica. L’Ala di Sangue, dopo un secondo di sbandamento in aria, si voltò verso di lei e stridé di rabbia, poi cominciò a vorticare intorno a Diana, in attesa di una buona occasione per attaccare.

“È ora della rivincita, gallina di merda!” pensò Diana, accelerando col propulsore.

Si proiettò verso il bersaglio tenendo un pugno avanti come Superman, contando di dare un colpo potentissimo grazie alla carica. Ma l’argentavis aveva dei riflessi più pronti di quanto pensasse: poco prima che Diana lo investisse, appiattì le ali contro i fianchi e la schivò con una breve picchiata, per poi tornare ai lenti giri in tondo di prima. Colta alla sprovvista, Diana schizzò in avanti per una decina di metri per inerzia, prima di riuscire a fermarsi. Nel frattempo, tutti i soldati dell’URE in missione avevano interrotto la battuta di caccia per osservare, come ipnotizzati, il combattimento dalla telecamera nel casco di Diana, visto che ogni elmo ne aveva una e che erano tutte connesse. L’Ala di Sangue tentò un attacco, ma questa volta fu Diana a schivare, e approfittò dei loro ruoli rovesciati per lanciarsi in un’altra carica, che questa volta non poté fallire: investì in pieno il rapace e, avvinghiati l’una all’altro, iniziarono a scendere verso il pendio roccioso del monte in una spirale caotica. Diana tirò un pugno sulla testa dell’argentavis e lo lasciò molto stordito. Peccato che non avesse accumulato energia potenziale, prima, altrimenti gliel’avrebbe letteralmente spappolato. A questo punto, scorgendo la roccia sempre più vicina, Diana mollò e osservò l’Ala di Sangue scendere. L’uccello riuscì a rallentare la sua caduta un secondo prima dello schianto e rotolò per un po’, prima di riuscire ad alzarsi sulle zampe: era intontito e ammaccato, penne e piume vorticavano ovunque. L’argentavis alzò il becco verso la sua avversaria che, immobile nell’aria, incrociò le braccia in attesa di vedere cos’avrebbe scelto di fare la bestia. Il rapace fece la cosa più sensata: arrendersi e volare via.

«E ringrazia che ci sia andata piano, stronzo!» gli gridò Diana.

Tutti i suoi commilitoni cominciarono ad esultare e a complimentarsi con lei, il che la fece sentire fiera di sé come non era mai stata sul lavoro.

 
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Dopo essere stati attaccati dall’Ala di Sangue, i ragazzi ed Helena avevano corso di nuovo giù dal pendio per forza di cose ed erano caduti in un lago che riempiva una conca su un ripiano, alimentato da una cascata che usciva da un buco nella roccia. I velociraptor, agitati, raggiunsero in fretta e furia la riva e cominciarono a camminare avanti e indietro, in preda al nervosismo. Dopo essersi ripresi dallo spavento e fermatisi a riposare vedendo che quel dannato uccello non li inseguiva più, avevano sentito altri dei suoi stridii e rumori di motori. Guardando in alto, si erano accorti dello scontro aereo fra Diana e l’argentavis e l’avevano osservato dall’inizio alla fine, ammirati. A quel punto sentirono delle voci familiari chiamarli e si voltarono: Mei e Nerva erano tornati e avevano recuperato Acceber. I ragazzi corsero dalla figlia di Drof:

«Ehilà! Bello riaverti!» esclamò Chloe, sorridendo.

«Grazie!»

«Cos’è successo? Tuo fratello… quel Gnul-Iat?» chiese Laura, seria.

«Eh, già. Lui e il socio che si è trovato a caso pensavano di farmi calpestare da una mandria impazzita in una gola!»

«Uao, è come ne Il Re Leone, con te a fare Simba! Spero non ci sia stato nessun Mufasa» Sam non poté resistere alla tentazione di fare quella battuta.

«Sam, sai che non può capire una parola di quello che hai detto, vero?» gli ricordò Chloe, con tanto di gomitata.

«Certo! È solo che volevo fare questa battuta»

«Quindi loro due ti hanno salvato? E… hai scoperto l’identità di Nerva, giusto?» chiese allora Laura, mai in vena di alleggerire l’atmosfera con un minimo di spiritosità.

«Mi ha salvato Rexar, in realtà. Loro mi hanno raccontato di aver sfidato l’aiutante di Gnul e… sì, ho scoperto chi è veramente il “vecchio Cesare”. Volevo spaccargli il naso e anche l’osso sacro, ma mi sono trattenuta perché voglio mantenere un po’ di decenza»

«Fidati, ti capisco: se fossi arkiana e fossi passata da quello da cui siete passati voi due anni fa, verrebbe da fare così anche a me, anche se sono così timida» rispose Laura, giusto per assecondare le sue emozioni.

Intanto, Helena aveva raccontato tutto l'accaduto a Mei e Gaius, dopo aver ascoltato la storia di come aveva perso la maschera ed essersi sbattuta un palmo in faccia. Entrambi rimasero stupefatti da quella rivelazione sulla vera natura dei Pre-Arkiani.

«Sospettavo che quei manufatti avessero qualcosa in più del potere di rompere il muro!» esclamò il Romano, ricordando a come si era improvvisamente interessato agli artefatti alla fine del suo “dominio” su ARK di due anni prima.

«Come pensi che siano riusciti a creare tutto ciò così tanto tempo fa?» le chiese Mei che, fatto straordinario, si stava interessando all’argomento “misteri pazzeschi di ARK”.

«Non posso saperlo, voglio comunque arrivare prima a capire cos’è il Tesoro. Magari sarà proprio quello a spiegare cosa c’è dietro questo… teletrasporto primitivo» teorizzò Helena.

«Allora, adesso dobbiamo ancora andare a quel villaggio sulla montagna?» chiese Nerva.

«Sì, per il prossimo manufatto: il programma non è cambiato, a meno che non ci siano dei casini» spiegò la biologa.

E si voltarono a guardare il cielo, dove la sommità della montagna penetrava la coltre di nuvole scure che si era appena formata. Forse, di lì a poco, avrebbe piovuto.
 
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Dopo aver seguito le tracce dei loro bersagli, Mike e Doris erano arrivati alle rovine che portavano a Machu Picchu e li avevano osservati aprire la botola nel terreno, entrarci e poi uscirne per richiuderla. Emozionato perché aveva finalmente scoperto cosa fare con quei piedistalli, Mike era corso a premere il tasto segreto nella nicchia e, pregustando le scoperte, andò a guardare la botola riaprirsi.

«Ci siamo, Doris! Un punto di svolta! Pronta a diventare ricca e famosa?»

«Tecnicamente, l’attuale fase non è quella che ci può condurre a successo e ricchezza»

«Oh, quanto sei inquadrata! Ogni tanto è bello sognare, guardare in avanti!»

«Ti devo ricordare che ciò è possibile solo per un encefalo organico e malleabile come il tuo e quello di ogni altro organismo pluricellulare»

«Sì sì, quello che è. Andiamo a vedere!»

Corse dentro, seguito da Doris che, invece di fluttuare, camminava con le zampe di ragno. Videro tutti i simboli e il mappamondo olografico e la porta.

«Ehm… che significa tutto questo?» chiese Mike, confuso.

Doris, per trovare la risposta, scansionò l’ambiente e fece un calcolo algoritmico di ogni potenziale meccanica di quella camera. E concluse a sua volta che doveva essere girata la serratura accanto al portone. Lo fece e nell’arco apparve l’immagine di Machu Picchu. Mike spalancò la bocca e fece la bella statuina. Doris spiegò di aver capito di cosa si trattava e, a sentire ciò, il ladro di strada le ordinò subito di aspettarlo lì e si fiondò al sito Inca, perché voleva sperimentare coi suoi occhi il teletrasporto. Il creatore di DOR-15 non gli mentiva affatto, quando gli aveva promesso che ARK gli avrebbe portato la gloria. Mike stette via per un quarto d’ora. Doris, preoccupata, stava decidendo di andare a cercarlo e accertarsi che fosse tutto a posto, quando il suo proprietario si rifiondò dentro, ancora più estasiato di prima:

«Doris, oggi è il nostro giorno fortunato!»

«Per quale motivo?»

«Perché… ho trovato qualcuno che ci aiuterà a dimostrare al mondo che diciamo la verità! Ehi, voi, venite! L’isola dei dinosauri e delle meraviglie archeologiche aspetta solo voi… e le vostre telecamere!»

Quindi, dal portale apparvero tre persone che formavano una sgangherata troupe televisiva. Erano una donna in impermeabile, coi capelli biondi e gli occhiali, che osservava la camera segreta pre-arkiana con una gioiosa espressione spiritata, un giovane barbuto coi capelli rossi leggermente in sovrappeso che reggeva un microfono e un tipo alto e smilzo, anch’egli con gli occhiali, che filmava tutto. Mike raccontò a Doris che erano tre criptozoologi che aveva appena incontrato a caso a Machu Picchu, mentre loro provavano a trovare e a documentare prove della presenza di fossili nei siti archeologici delle civiltà antiche, famose o misconosciute. Lui aveva approfittato dei loro progetti per avvicinarli con la promessa di portarli in un posto che avrebbe confermato tutte le loro teorie e che avrebbe reso sia loro che lui famosissimi, grazie alle prove e al “talento nella recitazione” che Mike affermò di avere con aria pomposa e sicura di sé.

«Incredibile… i dinosauri esistono ancora! E stavano con persone antiche più avanzate di tutti noi! Stai registrando, Phil? Il microfono è acceso, Allan?» chiese Vicky, la documentarista bionda.

I suoi due colleghi annuirono, in estasi a loro volta. DOR-15 si ritrovò, per una volta più unica che rara, ad approvare i piani improvvisati e fantasiosi di Mike. Che fosse davvero l’inizio della loro scalata per il successo? O solo un’illusione in un incubo destinato a finire male?

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Capitolo 21
*** Furto senza scasso e sequestro di persona (storia vecchia) ***


Dopo essersi svegliato tutto intontito, Sotark aveva trovato Gnul seduto a gambe incrociate di fronte a lui, furioso. Gli fu rivelato che erano passate sei ore e che, nel frattempo, a Gnul era toccato depistare suo padre e suo zio prima di poter tornare a recuperarlo.

«Fammi capire… tu avevi più di dieci bestie ad aiutarti e loro erano soli con due velociraptor, eppure sei riuscito a farti addormentare come un’idiota?» il suo sarcasmo pungente era stato completamente sostituito dalla rabbia, per il fallimento del suo omicidio più atteso.

«Scusa, ma era pur sempre uno spazio strettissimo, le bestie potevano fare poco. Alcune sono cadute!»

«Allora sei scemo due volte! – prese il coltello e, andato da lui, premette la punta contro la sua gola – Sai qual è l’unico dettaglio che mi fa passare la voglia di legarti ad una roccia e lasciarti agli animali selvatici?»

«No»

«Il fatto che fossero la Regina delle Bestie… e pure il capo della Nuova Legione! Le uniche candidate vittime che ho dovuto togliere dalla lista perché erano sparite. Ma ora sono tornati, e grazie a te che hai fallito ho di nuovo l’occasione di eliminarli! Dopo Acceber, ovviamente» quindi, si limitò a fare una lieve incisione sulla gola di Sotark, che se la strofinò infastidito.

«Non bastavano gli assassinii a caso, adesso dobbiamo anche fare i pagliacci…» protestò.

«Ehi! Ti stai forse lamentando?»

«Sì, perché la stiamo tirando troppo per le…»

Gnul lo interruppe tirandogli un pugno sul naso.

«Decido io cosa si fa! Puoi fare come ti dico, morire o tornare alla tua patetica vita socia… ops, dimenticavo che non hai più una vita sociale! Le scelte diminuiscono, socio…»

«Sai che sei un bastardo?»

«Me lo dicono in tanti, ma ogni volta muoiono. Chissà perché...»

«Va bene, va bene, resto ancora dalla tua parte per non so quanto. Cosa facciamo adesso?»

«Secondo te? Riprendiamo la caccia, sperando che non ci voglia troppo… o che quei due dannati seccatori non si facciano vivi troppo spesso»

«Pensi che li vedremo molte volte?»

«Ne sono certo: mio padre caccia molto bene, me lo ricordo dall’infanzia»

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Drof e Odranreb, dopo aver perso Gnul, avevano raggiunto il contingente del cugino di Drof e ora, stando entrambi sulla sella di Anitteb, guidavano le bestie verso uno spiazzo in cui poter allestire un accampamento. Odranreb bevve da una borraccia e la porse al cugino, che però rifiutò sconsolato.

«Non disperarti, Drof! È andata male, ma come non è morto lui non siamo morti noi! Lo ritroveremo, vedrai che la prossima volta saremo avvantaggiati»

«Non ne sono sicuro… combatte meglio del previsto, anche senza bestie… se non riesco a proteggere Acceber da quell’essere, non me lo perdonerei mai!»

«Drof, sei un padre, è normale che ti senta così. Ma non devi dare per scontato che quella ragazza sia spacciata appena lo vede! Dev’essere senz’altro in grado di cavarsela, no? Lo siamo tutti, su ARK!»

«Ah, hai ragione: la sottovaluto. Sei davvero d’aiuto, Odranreb! Adesso, però, torniamo alla ricerca di quel mostro…»

«Ah, volentieri! Questa volta, farò sparpagliare le bestie, mentre noi restiamo con Anitteb. Così lo troveremo molto prima!»

«Dipende da quanto sarà bravo a nascondersi e a difendersi»

«Andiamo, cuginastro! Nessuno è invincibile, neanche tuo figlio!»

Odranreb si fece dare un vecchio bracciale di spago che era appartenuto a Gnul-Iat quando aveva cinque anni, l’unico ricordo di lui di cui Drof non aveva voluto liberarsi. Scese dalla femmina di giganotosauro e lo avvicinò al naso di ognuno dei suoi animali, poi diede loro l’ordine di cercare. Gli animali urlarono e sparirono nella vegetazione, prendendo direzioni diverse: i primi che avrebbero capito dov’era Gnul, sarebbe tornato e avrebbe avvertito il padrone.

«Nel frattempo, vuoi provare a muovere le redini di Anitteb?» chiese al cugino, tornato su.

«Non me lo faccio ripetere!» esclamò Drof, sorridendo per la prima volta da svariate ore.

Dunque, prese posto nella parte anteriore dell’enorme sella e afferrò gli anelli di ferro fissati alle lunghe e spesse redini di Anitteb che facevano da tramite fra le mani del fantino e la cavalcatura.

«Attento, questa simpatica signora ha il vizio di provare ad andare dove le pare: ci vuole forza di volontà, con lei!» precisò Odranreb.

«Come quando ha incontrato il maschio che si è arrapato per lei?» lo punzecchiò Drof.

«Ah, sì...»

«Farò del mio meglio»

Drof, con tutto la forza delle sue braccia, spronò Anitteb, che cominciò a camminare lungo il margine della zona alberata da cui poi si raggiungeva il Labirinto di Gole. I passi di quella potente e letale creatura facevano tremare la terra e la vibrazione saliva lungo tutto il corpo, trasmettendosi anche nelle redini e finendo tra le sue dita, dandogli una sensazione che non riusciva a descrivere, ma che gli piaceva. Era così pentito di non aver mai preso almeno un giganotosauro prima di allora! Si sentiva potente, a controllarne uno. Abbastanza da avere la certezza ferrea di poter sconfiggere Gnul-Iat e cancellarlo dalla faccia dell’isola.

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Finalmente, dopo tanto tempo passato solo a sapere che ci sarebbero arrivati, raggiunsero il villaggio delle Aquile Rosse, sul più grande ripiano naturale del monte Allics. Anche se ne aveva visti solo altri due, Laura era più che certa di poterlo affermare: quello era il villaggio arkiano più bello che avesse visto. Per la cronaca, per ovvie ragioni, Nerva rimase a debita distanza da un luogo così affollato: fu incaricato di tenere a bada le cavalcature, cosa che lui fece molto volentieri, pur di non farsi linciare da una massa patriottica e inferocita. La palizzata serviva solo davanti e dietro, perché sulla destra c’era il versante del monte, in cui erano state scavate alcune abitazioni, e sulla sinistra c’era il dirupo, sul cui bordo c’era un parapetto di pietra. La cosa più spettacolare, giustamente, era il panorama. Come aveva suggerito Helena, i ragazzi presero qualche minuto per restare soli e andarono subito alla sporgenza per osservare l’isola. Si poteva vedere veramente tutto: le foreste, le praterie, le colline, i picchi innevati, così lontani ma comunque dall’aria imponente, le cime delle sequoie giganti che bucavano le nuvole passeggere, il fumo dei due crateri dell’isola vulcanica (il luogo che appariva più piccolo, in quanto il più lontano), il deserto…

«Volete sapere una cosa?» chiese Chloe, appoggiando i gomiti sul parapetto.

«Dicci tutto» le rispose Sam, brioso.

«Già lo pensavo guardando il paesaggio mentre scalavamo, ma ora posso dirlo senza alcun dubbio: ne vale decisamente la pena. Siamo lontani da casa e non sappiamo se ci potremo mai tornare, ma se siamo condannati a morire... almeno ci saremo goduti queste viste! E anche gli abitanti del posto e gli animali preistorici, finché non ci vogliono staccare braccia e gambe. Vero, paleontologa nostra?»

«Lo penso anch’io. Tutto quello che hai detto è giusto, Chloe. Mi sento così felice! E questa soddisfazione... Helena me l’ha descritta più di una volta... mi sento bene a scoprire sempre più cose, anche se non posso né devo dirlo al mondo!»

«Goditela finché puoi, allora!»

«È un vero peccato che Jack non sia con noi: scommetto che, se ci fosse, attaccherebbe subito a giocare a calcolare le distanze dei luoghi a mente! A parte che sarebbe morto dalla fatica prima ancora di arrivarci, quindi non cambia tanto» scherzò Sam.

«Dài, non rovinare il momento!» lo apostrofò Chloe, ottenendo una risatina in risposta.

In quel momento, furono raggiunti da Acceber, che sembrava allegra almeno quanto loro: si era ripresa molto in fretta dal rapimento e tentata uccisione.

«Ehi, ragazzi! Vi piace l’isola da qui?»

«Sì, tantissimo!» rispose Laura, serena.

«Helena e la Regina delle Bestie sono andate dalla capovillaggio a prendere il manufatto, di certo sapere che l’Ala di Sangue ha perso uno scontro contro gli Uomini dal Cielo la farà sentire di buon umore: potrebbe addirittura portare il manufatto al suo posto per conto suo! No, scherzo, era solo per rendere l’idea. Comunque, che ne dite di vedere un posto che vi faccia sentire di nuovo nel vostro mondo?»

«In che senso?» chiese Chloe, incuriosita.

«Qui, dalle Aquile Eterne, c’è un negozio che è il mio posto preferito in tutta ARK, quando si tratta del mondo esterno. L’hanno fondato sei stranieri l’anno scorso, sono molto simpatici e disponibili! Hanno qualche anno più di me e meno di voi e dicono di venire da una terra che chiamano “Kentucky”» spiegò la figlia di Drof.

«Americani? Giovani? Negozio? Voglio vedere subito!» esclamò Sam.

Ai tre ragazzi bastò un’occhiata per concordare…

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«Sparito?!» esclamò Helena.

«Neanch’io capisco: poco fa era qui! Ero in questa stanza e c’era!» anche la donna a capo della tribù delle montagne era sconvolta.

Quando lei e Mei si erano presentate a casa sua, aveva riconosciuto subito la Regina delle Bestie e l’aveva ringraziata per tutto il servizio che aveva avuto la pazienza di prestare alla società arkiana: anche se erano passati due anni dall’ultima volta che un capovillaggio le era dato formali ringraziamenti, il senso di gratitudine era ancora forte in tutti loro, così come l’astio per Nerva. Ma non aveva importanza: quando le aveva fatte entrare per prendere il Manufatto del Bruto, non l’aveva trovato. A suo dire, si era come volatilizzato.

«Non è colpa tua, rilassati…» cercarono di tranquillizzarla.

«Be’, lo so, ma mi sento in colpa lo stesso! Per essere svanito così, non può che essere un furto. Ma chi è stato, allora? A nessuno è mai importato di quelle bizzarre cose in ossidiana! Perché oggi e adesso?! Non mi capacito, non me ne capacito proprio!»

Bastarono quelle parole a far insospettire Helena che, strabuzzando gli occhi, fissò l’amica:

«Pensi alla stessa persona a cui sto pensando io, Mei?»

«…l’uomo col cappello ridicolo?»

«Certo! Chi altri, se no? Chi altri potrebbe mai essere interessato ai manufatti, specialmente sapendo a cosa servono dopo aver spiato le persone giuste? Sembra assurdo, ma a quanto pare gli sono bastati questi due minuti per rubare il manufatto, prima che ci arrivassimo noi»

«E allora cosa stiamo aspettando? Dobbiamo cercarlo subito! E poi non ho finito con lui» replicò Mei, insolitamente fomentata.

«Ehm… di che state parlando, voi due? Mi state facendo agitare, per gli spiriti!» si intromise la capovillaggio.

Helena stava per rispondere, ma Mei tagliò corto dicendole di non preoccuparsi e di tornare alla sua vita quotidiana, prima di afferrare il braccio della biologa e trascinarla fuori dalla casa.

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«Muhuhuhaha! Preso! Siamo i migliori, Doris!» esclamò Mike.

Dopo aver “reclutato” la troupe amatoriale, Mike si era divertito come non mai a raccontare diversi aneddoti finti per sembrare una sorta di “Indiana Jones dei poveri”, come si autodefinì. Ora, dopo averli lasciati filmare il più possibile dell’isola, avevano seguito la traccia chimica dei manufatti grazie alle scansioni di DOR-15. Giunti a poca distanza dal villaggio, Mike aveva intimato ai tre documentaristi di non muoversi da dov’erano, dicendo loro che ci sarebbero state occasioni migliori per intervistare la popolazione locale. Appena avevano scoperto che i loro rivali in ricerca erano presenti, Mike aveva mandato subito Doris ad infiltrarsi nella casa della capovillaggio e a recuperare il manufatto, cosa che avvenne senza problema.

«Molto bene, siamo in possesso di uno dei manufatti. Secondo le mie analisi, la prossima destinazione è nella regione desertica a Nord dell’isola» spiegò la bombetta, cominciando a ronzare verso il punto in cui avevano lasciato Girodue e la troupe.

«Aspetta! C’è ancora una cosa da fare!» la fermò lui.

«Ovvero?»

«Non te lo ricordi più? Rapire la biondina! Ci serve per avere subito più informazioni!»

«Ricalcolo dati in corso… confermo: ci eravamo precedentemente accordati per questo»

«Ci pensi tu, vero?»

«Affermativo. Come al solito, oserei aggiungere, visto l’andamento delle operazioni. Ma dopo l’ultima scoperta che abbiamo effettuato, il motivo per cui dovremmo catturare Laura Hamilton è cambiato»

«Perché?»

«Non sono certa che tu l’abbia notato, ma quando abbiamo osservato i nostri bersagli al sito in rovina più a valle, ho ingrandito la visuale e ho visto che hanno raccolto una strana tessera di pietra da una nicchia. Probabilmente, questo ha importanza per la ricerca del Tesoro»

«Davvero? E io non me ne sono vagamente accorto! O forse sì, ma me ne sono dimenticato subito… comunque, li ha lei, vero?»

«Sì»

«Ah, lo sapevo! Come pensi che la prenderemo?»

«DOR-15-B ha quasi terminato l’auto-riparazione, ma l’attesa è ancora relativamente lunga. Quindi, il mio suggerimento è questo: io torno al centro abitato ed elaboro una strategia e tu ti accerti che Girodue e i nostri nuovi compagni di spedizione stiano al sicuro»

Mike fece un sorriso a trentadue denti, schioccò le dita e strizzò un occhio:

«Sicuro! Fa’ del tuo meglio, Doris! Vuoi battere il cinque come augurio?»

«Come preferisci»

Quindi lei estrasse un braccio meccanico e lasciò che lui le battesse il cinque, facendosi pure male. Quindi, volò in direzione del villaggio…

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«Queste maglie sono fantastiche! Dove hai imparato?» chiese Chloe, tenendo in mano una veste in lino su cui era stata dipinta, a tinte naturali, una bandiera statunitense.

«Ho imparato qui: ho avuto due anni per fare pratica! Questo è forse l’unico posto su tutta l’isola in cui sentirete profumo di casa» rispose una delle due ragazze al bancone, con un sorriso.

«Sei davvero brava!»

«Grazie»

Come aveva detto Acceber, quel negozio era gestito da sei studenti universitari venuti dal Kentucky: Rusty, Emilia, Boris, Trent, Imamu e Skye. Erano approdati su ARK un paio d’anni prima e si erano rassegnati all’idea di essere prigionieri di quel posto. Per compensare, dopo un breve periodo passato prima isolati in un rifugio improvvisato nella giungla, poi presso le Rocce Nere a svolgere diverse mansioni presso vari Arkiai, avevano deciso di aprire quel piccolo negozio in cui vendere oggetti d’artigianato a tema mondo esterno per ricordarsi di casa, offrire agli Arkiani curiosi come Acceber qualche souvenir stucchevole e consolare gli altri eventuali stranieri. Questo, in due parole, fu il racconto di Emilia quando Laura le chiese com’erano finiti lì. In quel momento, c’erano solo Emilia e Skye: i quattro maschi, a dire della cassiera, erano all’avamposto degli Squali Dipinti all’arcipelago tropicale nel Nord-Ovest a fare scorta di coralli, che servivano per scolpire le statuette di monumenti tipici di vari luoghi che tenevano in lunghe file sulle mensole del negozio.

«Quella lì mi piace! – disse Laura, indicandone una a forma di Sidney Opera House – È fatta benissimo!»

«Grazie! Mi fa piacere saperlo: è sempre stata quella più difficile. La prima volta che ne ho fatta una, ho dovuto scartare più di venti pezzi prima che venisse a dovere»

«Ragazzi, vi dispiacerebbe se ne prendessi una?» chiese timidamente agli altri.

«Perché dovrebbe?» disse Sam.

«Acceber, posso chiederti dei ciottoli?» si rivolse quindi alla figlia di Drof.

Ma lei, imbarazzata, si strofinò il collo e del rossore apparve lentamente sulle sue guance color bronzo:

«Ehm… mi dispiace, ma li ho finiti tutti poco fa»

«Oh! Come mai?»

«Ricordate quando vi ho promesso che avrei comprato degli archi per tutti voi, così avreste potuto difendervi meglio che solo con le lance? Ecco, dalle Rocce Nere mi sono dimenticata per via di Diana, così ne ho approfittato qui. L’armaiolo mi ha detto che ci sarebbero voluti dieci minuti o poco più per sistemare frecce e faretre per ognuno degli archi, quindi non li ho adesso. Purtroppo, però, mi è costato ogni ciottolo. Scusa, Laura!»

«No, no! Va tutto bene! Anzi, li hai spesi per qualcosa di molto meglio! Un souvenir non è un’arma, d’altronde…»

Emilia, notando la malinconia nel tono di Laura, le disse che offriva la casa e che poteva prendere la piccola scultura.

«Oh, grazie infinite!»

«La vuoi come soprammobile o come collana? – chiese la cassiera – Di solito, il costo non cambierebbe, quindi offriamo noi lo stesso»

«Uhm… potrei avere la collana, per piacere?»

«Subito! La porto a Skye, così ci lavora…»

Prese la statuetta e andò nel retro-bottega, sparendo. Tornò pochi minuti dopo: ora c’era un laccetto di spago che attraversava la piccola scultura da parte a parte, pur rimanendo poco visibile. Laura ringraziò ancora e se la provò, chiedendo agli altri come stava. Loro le dissero che andava benissimo, anche se si vedeva poco sull’abito mimetico.

«Se vuoi vederti, lo specchio e sulla parete del vicolo, fuori… sì, so che è ridicolo, ma non avevamo nessun posto migliore» spiegò Emilia, ridacchiando.

Laura, allora, disse agli altri di avere un secondo di pazienza e andò fuori da sola, trovando lo specchio dov’era stato indicato. Sì, le stava veramente bene.

“Ah, Sidney, quasi quasi mi pento di averti lasciata!” pensò, sorridendo.

Improvvisamente, però, sentì uno strano ronzìo meccanico, un rumore che le ricordava in qualche modo i film di fantascienza. Si guardò intorno con perplessità, ma non vide niente. Ma, in un istante, sentì un brusco peso sulla testa e... tutto diventò grigio. I suoi muscoli si intorpidirono e si sentì braccia e gambe flaccide; non riusciva più a fare niente: non poteva muoversi, parlare né addirittura pensare. Vide solo, allo specchio, di avere una bombetta con un visore in testa e capì subito cosa stava succedendo. Un secondo dopo, non per sua volontà, si mise a correre verso l’uscita posteriore del villaggio, rimanedo lungo il perimetro della palizzata, dove non c’era quasi nessuno. Prima di raggiungerela guardiola delle due sentinelle del lato Nord, il cappello robotico la fece balzare in un buco simile a quello di un coniglio, che passava sotto i pali. Probabilmente, era stata Doris stessa a scavarlo, avendo pianificato dall’inizio di fare così... era caduta nelle mani dell’uomo con la bombetta.

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«Dove diamine è Laura?»

Ormai erano cinque minuti che la cercavano. Non avevano solo guardato nei dintorni del negozio, ma avevano anche provato a chiedere ai passanti. Apparentemente, nessuno aveva notato nulla di strano negli ultimi cinque minuti; anzi, nessuno si era nemmeno accorto di una ragazza bionda nel vicolo accanto alla bottega.

«Potreste provare nella taverna» suggerì Acceber

«Di solito chi non è di un villaggio e deve andare in bagno va lì»

«Oh... è possibile?» chiese Sam a Chloe.

«No, non può essere. Voglio dire, conosci Laura!»

«In che senso?»

«Sai che prima di fare qualsiasi cosa avvisa o chiede il permesso e tutto il resto!»

«Ah, giusto! Ricordo ancora quando l’ho persuasa a farsi il profilo Facebook: chiedeva il permesso a me solo per mettere il “mi piace” alla foto di un semplice paesaggio...»

«Che c’entra?»

Mentre divagavano, ignari della gravità della situazione, Acceber li ascoltava e si arrovellava il cervello, sforzandosi di capire da sola cosa potesse essere Facebook. La conversazione fu interrotta dall'arrivo di Helena e Mei, che annunciarono la mancanza del manufatto e dissero di chi sospettavano. Subito, allora, a Sam e Chloe venne spontaneo fare il collegamento, anche se non ne avevano la certezza. Sam volle comunque esplicitarlo:

«E se ci fosse di mezzo l'uomo con la bombetta? Voglio dire, il manufatto svanisce poco prima che arriviate voi e subito dopo Laura scompare senza parlare né fare segno? Dubito che sia una coincidenza...»

Helena incrociò le braccia e si strinse le guance con le dita della mano sinistra, pensosa:

«Ho veramente paura che tu abbia ragione. Se è stato davvero l'uomo con la bombetta, dobbiamo trovare subito un modo per capire dov'è»

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Seduto a braccia conserte su una roccia, Nerva sentì Alba stuzzicarlo sulla schiena col muso, per la terza volta da quando gli altri erano andati al villaggio: lo faceva per chiedere carne secca.

«Ancora? Allora hai preso il vizio! Sai che non va bene, giusto?»

La femmina di velociraptor emise un verso schioccante e fremette, facendo agitare i suoi ciuffi di piume.

«E va bene, ma sappi che è l'ultima volta!»

Gaius frugò nel suo sacco e ne tirò fuori due strisce di carne. Le lanciò verso Alba e lei le afferrò al volo. Se le rigirò in bocca per un paio di minuti e ingoiò.

«Contenta? Bene»

In quel momento, vide gli altri arrivare, ma dalle facce che avevano capì subito che c'era qualcosa che non andava. Mancava pure la ragazza bionda, per cui non c'erano dubbi...

«Cos'è successo?» chiese quando lo raggiunsero.

«Il manufatto è scomparso poco prima che arrivassimo e adesso anche Laura» gli rispose Mei.

«Dietro dev'esserci l'uomo con la bombetta» aggiunse Helena.

«Oh, ancora lui... sapevo che prima o poi ne avremmo sentito ancora parlare» commentò il Romano.

«Comunque dovete spiegarmi meglio chi è questo tizio! - esclamò Acceber - È già un paio di volte che lo nominate, ma ho capito solo che è cattivo...»

«Eh, ti spiegheremo meglio poi. Come pensate di trovarlo?» chiese Chloe.

«Allora, ricordo che questo manufatto doveva essere messo sulla montagna al centro della regione desertica: direi che sia diretto lì - rifletté Helena - In caso non lo troviamo lungo la strada... credo di avere un'idea!»

«Oh, quindi si va nel deserto? Che figata!» esclamò Sam.

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Al campo dell'URE si era radunata una gran folla quando la squadra di Diana era tornata dalla spedizione con le bestie del giorno: tutti avevano sentito dell'attacco dell'argentavis e volevano sentirglielo raccontare sul momento. Jack, incuriosito, aveva voluto andare a sua volta, mentre Rockwell si era rifiutato dicendo che intendeva osservare più attentamente il campo di forza attorno alla base e il macchinario che lo generava. Inizialmente, Diana (che aveva una faccia mezza sconvolta a testimoniare il fatto) ripeteva di non avere voglia di raccontarlo subito, che voleva prima riprendersi nel suo alloggio e poi parlarne con comodo nella mensa, la sera. Ma i soldati che quel giorno erano rimasti alla base, specialmente i suoi coetanei e quelli poco più grandi, insisterono al punto che lei si arrese. Quindi, poggiata la schiena contro un muro e toltasi il casco, iniziò a descrivere l'attacco dell'Ala di Sangue e di come lei ne fosse uscita vittoriosa. Sentendo l'aneddoto, Jack immaginò la scena praticamente come una battaglia spaziale incredibilmente drammatica, senza neanche sapere bene perché. Si accorse che la folla si era fatta ancora più grande, fino a quando tutti i presenti furono lì. Finito il racconto, tutti si dispersero e tornarono a svolgere i loro incarichi. Quando rientrò nella tenda, trovò Rockwell che camminava avanti e indietro tenendo le dita congiunte e con un'espressione soddisfatta e sognante.

«Va tutto bene?» chiese Jack, perplesso.

«A meraviglia, giovanotto! - rispose il farmacista - Quell'improvvisa esplosione di notizie là fuori mi ha dato un'occasione imperdibile per compiere il primo passo per la ricerca!»

Andò dietro la scrivania e prese qualcosa da sotto di essa. Ci appoggiò sopra due barattoli di vetro pieni di un bizzarro fluido viola e quasi luminescente, per come rifletteva la luce. Jack trasalì quando notò che somigliava incredibilmente alle gocce violette che aveva visto uscire dall'annaffiatoio, durante il suo viaggio mentale.

«Cos'è?» chiese, anche se sapeva perfettamente la risposta.

«Sono riuscito a prendere dell'edmundio liquido dal serbatoio del replicatore! Senza farmi mai notare, com'è ovvio»

«Oh no!»

«Che ti succede?»

«Questo non va bene per niente! Se ci scoprono adesso, ci abbandoneranno là fuori! Poi come faremo a trovare gli altri o un qualunque posto sicuro?»

«Devi smettere di avere paura di tutto, ragazzo! Le regole non vanno sempre bene: è giusto che esistano, ma se c'è di mezzo uno scopo come questo è lecito aggirarle o rivederle»

“Meno male che era un gentiluomo...” pensò Jack, con una vena di sdegno.

Ma, anziché rimproverare Rockwell, gli chiese cosa aveva intenzione di fare adesso: prima avrebbero cominciato, prima si sarebbero tolti quel rischio di torno.

«Innanzitutto, voglio osservarlo a livello molecolare: tra gli attrezzi che ho recuperato dalla farmacia, c’è anche un microscopio»

«Come fa la sua assistente arkiana ad averne uno? Mi fa un poco strano!»

«Semplice: lo commissionai ad un artigiano quando avviammo l’attività. Chiedi ad un manifatturiere arkiano di costruire un oggetto qualsiasi: il risultato ti lascerà a bocca aperta!»

«Le credo sulla parola. Cominciamo subito?»

«No. Preferirei stanotte, quando la maggior parte di loro starà riposando e i restanti saranno in missione»

«Capito. Speriamo bene...»

In quel momento, la ricetrasmittente di Rockwell emise un ronzio e si sentì la voce di Helena che chiedeva di lui.

«Sono qui, ti sento - rispose il medico - C'è stato un imprevisto?» chiese, avendo un cattivo presagio sul motivo della chiamata.

«L'uomo con la bombetta ci ha preceduti con questo manufatto. E forse ha anche catturato uno dei ragazzi»

«Come?!» fu la reazione sia di Rockwell che di Jack.

«Chi ha preso?!» chiese il ragazzo.

«Laura»

«Cazzo!»

Dall'altro capo della radio, Chloe e Sam, che avevano sentito poiché l’urlo dell’amico era stato davvero forte, si guardarono stralunati, non capendo perché dovesse prenderla così estremamente. Era giustissimo che sapere ciò lo sconvolgesse, ma si era sentito chiaramente qualcos’altro in quel’esclamazione, qualcosa che ad entrambi ricordò il tono con cui un genitore o un marito reagisce quando gli rapiscono la moglie o i figli: protettività, attaccamento… conoscendolo da una ventina di anni, gli sembrò stranissimo da parte sua. Se avessero saputo del suo viaggio mentale, avrebbero capito parecchie cose. Rockwell notò a sua volta come quella reazione stonasse con la timidezza e introversione del giovane e sorrise sotto i baffi (che nascosero abbastanza bene la smorfia) sospettandone la causa.

«La dobbiamo ritrovare al più presto!»

«Non ti preoccupare, è quello che faremo! – cercò di calmarlo Helena – Sospettiamo che lui stia andando al deserto, dove c’è il prossimo piedistallo, per cui lo seguiremo. Prometto che ti faremo sapere subito cosa succederà»

«Grazie, grazie» Jack cominciava a ricomporsi, quindi la telefonata finì.

«Però, hai preso davvero sul serio quanto il tuo inconscio ti ha svelato durante la tua visione! Comprendo perché i medici della mente del futuro lo usino nelle psicanalisi» commentò il dottor Rockwell.

«Non è che adesso amo perdutamente Laura! Anzi, penso di non provare niente di serio. Ho gridato così perché ora pensare a lei mi ricorderà quel sogno per mesi!»

«Vedila come vuoi. Dunque, cerca di stare lucido e torniamo al lavoro! Vedrai che la tua amica starà bene… come Mei-Yin ha già dedotto a Sidney, quell’uomo non è altro che un sempliciotto ambizioso con in mano una meraviglia ingegneristica che non merita!»

Jack gli diede ragione. Per un istante, un fuggevole istante, considerò l’opzione di chiedere l’aiuto di Diana. Ma, alla fine, decise di lasciar perdere.

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Quando Laura tornò libera di controllare il suo corpo, Doris le aveva fatto legare mani e piedi con della corda che Mike si era fatto dare dagli stallieri dei Teschi Ridenti per chiudere le sacche da sella di Girodue. Fu messa seduta su un macigno, all’ombra di un salice nodoso. La sua testa girò per un paio di minuti e le immagini traballarono. Sentì la voce robotica del cappello che chiedeva a Mike dove fossero i documentaristi, chiunque fossero. Lui rispose che avevano visto un dinosauro bere ad un ruscelletto ed erano andati a filmarlo.

«Come giustificherai il sequestro di Laura Hamilton?» chiese Doris.

«Facile: dirò loro che lei è con me e che stiamo facendo le prove per un film amatoriale che loro potranno aggiungere al loro documentario! Così, anche se la biondina frignerà e li proverà a corrompere, non ci riuscirà perché sembrerà tutto sul copione!»

«Lo trovo astuto e improbabile allo stesso tempo, ma principalmente improbabile» fu l’ovvia opinione di Doris.

«Bah, funzionerà! Non mettere in dubbio il mio ingegno pianificatore, tanto quei tre sono dei fessi!»

«L’uomo con la bombetta…» rantolò Laura, ancora mezza stordita.

«Oh, si sta riprendendo! Eccoti, finalmente, Hamilton! Questa la prendo io… muhuhuhaha!» e Mike prese la sua borsa, si accertò che contenessero i tasselli del mosaico pre-arkiano e la appese alla sella dello pteranodonte, trionfante e sorridendo a trentadue denti.

«Pensavi davvero che tu e i tuoi amici col moccio al naso poteste negarmi quello che merito di diritto di scoprire per sempre? Avreste dovuto già capire in quel bar che con me, ovvero Mike Yagoobian, non si scherza! Certo, lì mi andò un po’ male, ma hai capito!»

Laura non trattenne una risatina.

«Cos’hai da ridere?» chiese Mike, con un tono che credeva minaccioso, ma che pareva il commentario di un direttore di circo.

«Niente, avevo sentito il tuo nome già una volta e mi era scappato da ridere, ora che me lo dici tu anche il doppio»

«Mocciosa impertinente! Ma non mi abbasserò ad arrabbiarmi per certe scemenze…»

«Senti, hai preso quello che volevi, inutile che provi a convincerti a ridarmelo… ma ora non hai motivo di tenermi! Lasciami andare!»

«Certo, così mi insegui coi tuoi amici? Non sono mica scemo! Se loro dovessero essere più svegli del previsto e raggiungermi…Dovrei solo minacciarti per tenerli buoni! Muhuhaha!»

Laura rifletté e dovette ammettere che il ragionamento dell’uomo con la bombetta aveva senso. Doveva assolutamente liberarsi, riprendere i tasselli e il manufatto e tornare dai suoi amici… come?

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Capitolo 22
*** Chi è Mike Yagoobian? (storia vecchia) ***


«Molto interessante!» esclamava a bassa voce Rockwell, guardando al microscopio una goccia di Elemento liquido.

«Cosa?» chiese nervosamente Jack, mentre guardava ossessivamente fuori dalla piccola finestra della tenda sperando che nessuno si avvicinasse proprio in quel momento.

«Allo stato solido, l’edmundio presenta ogni singola proprietà tipica dei metalli, in due parole è un nuovo tipo di metallo... metallo che, tuttavia, è composto da biomolecole. Un metallo organico, per così dire! Inoltre, esaminandolo in forma fluida, ho scoperto che contiene... ife fungine!»

«Come? Quindi quel metallo è "vivo" e contiene un fungo?»

«Apparentemente. Una simbiosi che non riesco affatto a spiegarmi... la cosa più simile che mi viene in mente sono i licheni, dal momento che sono l'unione simbiotica tra un'alga e un fungo, ma un micete e un "metallo organico"? Non immaginavo che potesse esistere qualcosa del genere, in natura! In ogni caso, adesso che ci rifletto bene, avremmo dovuto aspettarcelo: ci avevano detto che fu trovato… no, che sarà trovato grazie ad un fossile»

«Oh… vuol dire che è esistita una sorta di fungo con un guscio di metallo o qualcosa di simile?»

«A quanto pare è così, giovanotto, a quanto pare è così»

«Fatico ad immaginarlo»

«Anch’io, ma non esiterei a ritenere che il proprietario di quel fossile sia paragonabile ad una divinità»

«Non le sembra una leggera esagerazione?»

«Non direi: guarda cos’ha costruito la società di questi soldati con questo materiale! Però continuo a non capire cosa possa avere di tanto rischioso da essere quasi proibito parlarne. Dopotutto, sembrano averne un buon controllo, anche a livelli industriali…»

«Come ho detto, sarà per buone ragioni»

«Io, nel frattempo, analizzo un campione più grande»

Il farmacista fece prese un’altra fiala e, stando molto attento a non sporcarsi le dita, la riempì per meno di metà. Ma, mentre la solleveva per portarla al microscopio, gli scivolò e il liquido viola si riversò sull’erba, vicino al limite della tenda.

«Oh, maledizione!» esclamò Rockwell.

«La aiuto a sistemare?»

«Si, grazie»

Jack si mosse, ma si immobilizzò appena vide che stava succedendo qualcosa che non era per niente normale dove l’Elemento aveva bagnato l’erba: i fili verdi assorbirono il liquido in meno di un secondo, passarono alcuni istanti e cominciarono a ondeggiare, come alghe mosse dalla corrente di un fiume. Poi, lentamente, iniziarono ad attorcigliarsi fra loro sotto lo sguardo attonito del medico e del ragazzo. Alla fine, si trasformarono in un’unica, strana pianta alta una trentina di centimetri, con un gambo verde suro e nodoso, attraversato da una rete di capillari fosforescenti che pulsavano di una luce violetta. Era costellato da grosse spine gialle, a loro volta cosparse di minuscole punte bianche. Questo gambo, più contorto di un bonsai, terminava con un bellissimo fiore rosso, la cui corolla aveva un diametro lungo come una mano. I suoi dieci petali avevano la forma del seme di picche e il centro del fiore era un buco da cui usciva un lungo e sottile stelo con attaccati degli stami attorno ad un pistillo, come nell’ibisco. Il polline appiccicato agli stami era viola e luminoso.

«Mio Dio, cos’è quello?! – sobbalzò Jack, meravigliato e inorridito allo stesso tempo – Un fiore mutante… è un disastro! Se qualcuno entra qui e vede quella cosa, siamo fuori! – si mise le mani nei capelli e cominciò a camminare freneticamente avanti e indietro, disperato – Prima mi tocca stare qui, poi Laura viene presa dall’uomo con la bombetta e adesso devo anche guardare dell’erba diventare un fiore gigante! E credevo pure che dopo i soldati dal futuro su un’isola di animali preistorici fosse tutto…»

«Una reazione biologica che ha causato un drastico cambiamento nella struttura fisica…» ragionava invece Rockwell, estasiato come mai prima di allora.

«Sì, è quello che è successo – nonostante il nervosismo, Jack non poté fare a meno di fare una riflessione sulla scoperta – Crede che sia per questo che la Terra nel 2150 è diventata un brutto posto? Perché l'Elemento fa mutare quello che tocca, da liquido?»

«Potrebbe essere… se quel che ci vogliono nascondere e che è illegale da trattare nella loro epoca è questa proprietà dell’edmundio… posso dire con certezza che sono tutti ciechi!»

«Perché?»

«Ti rendi conto che questo ciuffo d’erba ha appena subìto un cambiamento fisico che l’ha reso più complesso, potenzialmente in grado di svolgere nuove funzioni e, soprattutto, molto migliore?»

«Ha appena definito l’evoluzione»

«Infatti, ragazzo! L’evoluzione, il processo che dobbiamo ringraziare se la biosfera non è ancora composta da minuscoli essere unicellulari capaci solo di muoversi, fagocitare ogni nutriente che trovano e duplicarsi! Ci sono sempre voluti milioni di anni di tentativi falliti e di competizione accanita per innescarla, ma questa sostanza l’ha trasformata in una questione di istanti! Posso solo immaginare l’incredibile progresso che l’umanità farebbe…» gli occhi di Rockwell scintillavano, praticamente.

«Magari lo sanno e hanno già provato, e questo ha portato alla devastazione di cui parlano! E poi, scusi, questo TEK gli ha già fatto fare un progressone: guardi che tecnologia!»

«Uhm… vedendo l’intelligenza che hanno dimostrato finora, ne dubito fortemente. In quanto alla tua seconda ipotesi… può darsi, ma in ogni caso, hanno esplorato solo la punta di un enorme iceberg! Ho deciso: scoprirò di più su questa proprietà dell’edmundio fluido! E tu, Jack, mi aiuterai!»

«Oddio, siamo rovinati…»

«Dunque, facciamo un passo alla volta… abbiamo avuto un assaggio di cosa succede ad un vegetale erbaceo, ma cosa può succedere ad un animale? Ci serve un soggetto facile da prendere, ma che ci permetta di agire in segreto… qui hanno parecchi esemplari, non dovrebbe essere complicato!»

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Dopo la disfatta al Labirinto di Gole, Drof e Odranreb avevano ripreso la ricerca. Gnul e il suo socio erano bravi a coprire le tracce e gli odori, tanto da mettere in difficoltà cacciatori espertissimi come i due cugini. Ma, alla fine, le cavalcature avevano idividuato una pista. Seguendola, avevano attraversato l’Etnorehca e si erano addentrati nella foresta di sequoie, posto che Anitteb non gradiva particolarmente per quanto era accidentato: gli spazi fra un abete gigante e l’altro erano enormi, ma di contro era pieno di cespugli spinosi, sequoie novelle alte quanto il giganotosauro e molto vicine fra loro e tronchi caduti: mentre le bestie di taglia piccola e media marciavano agilmente nel sottobosco, lei era costretta a sopportare il solletico che le facevano le fronde basse e a scavalcare molto attentamente i trochi lunghi distesi per terra, siccome avrebbe impiegato troppo per aggirarli. A lungo andare, quel tipo di viaggio la faceva innervosire; per cui, Odranreb acconsentiva a lasciarla sfogare appena si presentava l’occasione. Per esempio, le permise di divorare una coppia di allosauri che erano stati così folli da sfidarla. Alla fine, erano giunti a quello che indubbiamente era il nascondiglio attuale di Gnul e Sotark: l’ingresso di una piccola caverna accanto ad una cascata, accanto ad un vecchissimo vialone in pietra dei Pre-Arkiani, che manteneva la sua aria di pomposità originaria anche in rovina. A confermare la presenza del loro bersaglio c’erano alcune grosse cavalcature sellate che dormivano in semicerchio, dal momento che ormai era sera: evidentemente, erano quelle che non avevano potuto entrare.

«Bene, nascondiamo gli animali e vediamo di pensare ad un buon piano...» suggerì Drof.

«Ci penso io. Tu trova un buon punto per spiare la caverna!» rispose Odranreb.

Drof, scelto un albero abbastanza robusto e con una fronda sufficientemente fitta, ci si arrampicò dopo aver controllato che non ci fosse un tilacoleo o un microraptor in agguato. Osservò bene l’ambiente intorno al nascondiglio col cannocchiale: gli sembrava di riconoscere quel posto. Tra le molte volte che aveva cacciato o raccolto materiali nelle foresta di sequoie, ricordava di aver setacciato una piccola caverna a corridoio diramato con un’uscita al lato opposto dell’entrata.

«Più a Nord c’è un altro ingresso» affermò.

«Ho già capito: vuoi che io entri da un lato e tu dall’altro?»

«Già»

«Cosa facciamo con le bestie?»

«Vorrei sempre stare furtivo, quindi a meno che non siamo individuati evitiamo di portale là dentro»

«Credo di non aver capito. Pensi davvero di non farti vedere dalla miriade di creature che certamente stanno lì dentro? Come?»

Drof frugò nella sacca e tirò fuori un vasetto da cui usciva, anche se era tappato, un odore salato.

«Olezzo del sopravvissuto? Credevo che fossi un tradizionalista» scherzò Odranreb, ridacchiando.

«Non lo sono più da un sacco di tempo. Da parte sua, Gnul-Iat non giocherà certo pulito, del resto»

«Non ne dubito»

Quindi se ne cosparsero e si accordarono sul da farsi: Drof sarebbe entrato dall’ingresso che stavano osservando in quel momento, cercando di non farsi vedere dalle bestie, mentre Odranreb avrebbe usato il retro. Se la copertura fosse saltata, avrebbero cercato di spostare la battaglia all’esterno per far scontrare i due contingenti, in modo da poter affrontare personalmente Gnul e Sotark mentre le bestie si scansavano a vicenda.

«Buona fortuna, cugino!» si augurarono l’un l’altro.

Drof aspettò che Odranreb svanisse alla vista, quindi cominciò a muoversi. Di fronte alla grotta c’erano un tirannosauro che dormiva, tre kentrosauri adunati in cerchio e un megalosauro che andava avanti e indietro, guardingo. Quest’ultimo era il più difficile da evitare, essendo notte, ma il padre di Acceber sapeva già come levarlo di mezzo. Stando attento a rimanere fuori dai loro campi visivi e a non fare rumori che si distinguessero dal brusio di sottofondo della foresta, raggiunse una roccia al limite dello spiazzo fra il fiume e la caverna, dove c’erano le creature. L’olezzo del sopravvissuto era una miscela organica di colore arancione che aveva un odore abbastanza pungente per l’uomo, ma del tutto irrintracciabile per gli animali. Inoltre, copriva del tutto gli altri odori che una persona aveva addosso. Attese pazientemente che il megalosauro andasse il più lontano possibile da lui. Non poteva passare tutta la notte pattugliando, prima o poi avrebbe dovuto mangiare o bere o rispondere a qualche stimolo. Infatti, una decina di minuti dopo, il sauro andò al fiume a dissetarsi. Senza perdere un istante, Drof sgattaiolò dentro.

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Gnul finì di riempire le piccole mangiatoie che usava per gli spostamenti e guidò le creature nella caverna affinché condividessero equamente le casse di cibo. Finito ciò, prese con sé un’artropleura e, facendosi seguire da essa, raggiunse la stanza dove aveva lasciato gli ostaggi del giorno: si trattava di cinque quattordicenni o quindicenni, tre ragazzi e due ragazze, che aveva avvistato nella foresta quella mattina, mentre raccoglieva legna. Avendo fortemente bisogno di uno sfogo per alleggerire la rabbia per la fuga di Acceber, aveva pensato bene di assaltarli, legarli mani e piedi, imbavagliarli e gettarli lì, al freddo e al buio. Era stato facilissimo: non avendo ancora diciotto anni, non avevano bestie e probabilmente erano soli nella natura selvaggia solo per svolgere qualche commissione basilare, come raccogliere risorse o dare la caccia a piccole bestiole. E, ora che erano impotenti ed impauriti, era pronto a macellarli a dovere... accese due torce a muro che aveva fissato quando erano arrivati alla caverna e illuminò la stanza. Gli ostaggi gemettero sudando freddo. Gnul li mise in riga con le spalle al muro e, mentre l’artropleura si arrotolava in un angolo, lui prese il suo strumento di tortura preferito, il falcetto, e poggiò la schiena alla parete, sghignazzando:

«Bene bene bene, cos’abbiamo qui? – cantilenò, più strafottente che poté – Carne fresca di seconda scelta! La buona notizia per voi è che vado matto per la carne fresca…»

I maschi lo guardarono furiosi e perplessi allo stesso tempo, mentre le femmine parvero terrorizzate. Gnul finse di star annusando l’aria:

«La cattiva notizia è che detesto quella di seconda scelta - finse di annusare l'aria - Bleh, schifo… ha un odore inconfondibile: sembra un misto fra pelle ammuffita e piscio di brontosauro, e mi fa ancora più ribrezzo del piscio stesso. Potrei togliervelo di dosso facendovi fare il bagno, ma preferisco di gran lunga una doccia di sangue!»

Si staccò dal muro e si avvicinò a loro, facendoli dimenare un po’.

«Dunque, ecco cosa faremo stasera… partite col presupposto che, fra dieci minuti, nessuno di voi sarà vivo. Ma potete fare in modo da andarvene con le buone o con le cattive! Ora io vi toglierò il bavaglio uno alla volta. Sappiate subito che, se griderete, non vi sentirà nessuno. Quando uno sarà libero di muovere il buco di latrina che chiama “bocca”, gli concederò di scambiare le sue ultime parole con me. Se mi starete simpatici, morirete con le buone. In caso contrario... avete capito»

Tolse il bavaglio al primo da sinistra, un ragazzo leggermente in sovrappeso che pareva più spaventato delle due ragazzine. Il piccolo strato di doppio mento che gli si vedeva vibrava per i brividi e Gnul doveva trattenersi per non mettersi a ridere, nel vederlo.

«Tu cosa mi dici? Scommetto che sei pentito di non esserti mai messo a dieta»

«Per favore, lasciaci andare! Non voglio morire, non sono pronto…» piagnucolò lui.

«Non mi piacciono le suppliche» commentò Gnul, improvvisamente serio.

Schioccò le dita e l’artropleura, veloce come un fulmine, si avventò sul giovane e gli divorò la pancia, sotto lo sguardo atterrito e traumatizzato dei suoi amici. Furono costretti a fissarlo morire dissanguato, quando l’artropode ebbe finito. Lo zampillo di sangue imbrattò la vittima accanto a lui.

«Che vi dicevo, eh? Doccia di sangue! Ah, quelle erano le cattive, a proposito. Tocca a te!»

Fu il turno di una delle due giovini, una ragazza così minuta e con la faccia così tonda che pareva più una bambina un po’ alta che un’adolescente.

«Non so cosa ho fatto di male per meritare questo, ma vorrei tanto dire a mia madre che avrei mantenuto la mia promessa…»

«Cioè?»

«Che sarei stata lontana dalla vita da cacciatore e che sarei diventata una ricamatrice, la migliore di ARK!»

«Oh, che tenera… ti sei guadagnata la morte con le buone»

La trascinò al centro della stanza tenendola per i capelli, eseguì un movimento fulmineo e preciso col falcetto e le recise la gola. Quando mollò la presa sulla sua testa, essa cadde flaccidamente in avanti. Le facce dei rimanenti tre ostaggi erano indescrivibili. Godendo più di una bestia, Gnul si parò davanti a loro, ma si rese conto con perplessità che stavano guardando un punto alle sue spalle. Si voltò appena in tempo per vedere suo padre che gli puntava un arco teso alla fronte, appena in tempo per schivare fulmineamente la freccia che Drof scagliò poco dopo.

«Merda!» esclamò Drof, provando a prendere un’altra freccia.

«Eh no, padre!» esclamò suo figlio, lanciandogli il falcetto.

Anche Drof si scansò ruotando i fianchi, ma si ritrovò comunque con un lungo taglio sul lato destro del collo. Era la seconda volta che schivava il falcetto di Gnul-Iat, ma questa volta c’era mancato veramente poco. Suo figlio portò due dita alla bocca ed emise un forte fischio.

«Questo sarà l’ultimo errore della tua vita, padre! Vediamo se saprai sfuggire ad una grotta piena di animali…» ghignò Gnul, prima di sgozzare sbrigativamente pure il resto degli ostaggi.

“Dannazione… se sbaglio qualcosa qui, è la fine!” pensò Drof.

L’artropleura gli fu addosso quasi subito, ma lui conosceva bene le parti da attaccare: capendo che il centopiedi gigante voleva sputare un getto del suo acido, lo superò con un’agile scivolata e usò l’accetta che portava assieme all’arco per decapitarlo. Un fiotto di liquido giallastro si cosparse sul pavimento, mentre l’insetto senza testa cadeva floscio per terra. Un lago corrosivo divise padre e figlio, impedendo a Gnul di attaccare. Drof cominciò subito a correre, ma un velociraptor gli si parò davanti, mettendosi in una posa di minaccia e sibilando. Drof mantenne la lucidità e usò il manico dell’ascia per parare il morso che seguì dopo, poi lo respinse con una spallata e sollevò l’accetta, conficcandone lo spigolo nel cranio piumato del velociraptor. Drof estrasse l’arma con non poca difficoltà e riprese a correre verso l’uscita. Davanti a lui apparve un carnotauro e dietro un calicoterio. Provocando il carnotauro con una serie di movimenti ampi e plateali delle braccia e della testa, lo indusse a caricarlo; schivando, gli fece infilzare il torace del bizzarro mammifero metà cavallo e metà scimmia. Un triceratopo particolarmente sonnolento non si era ancora messo in piedi, quindi superarlo fu molto facile. Finalmente fu all’ingresso, ma ora il megalosauro di prima era lì che lo aspettava. Ma Drof aveva un asso nella manica: lanciò l’ascia verso l’uscita, in modo che il teropode la seguisse con lo sguardo per riflesso automatico, quindi prese rapidamente l’arco e lo colpì alla gola, uno dei pochi punti davvero morbidi dei rettili. Fuori c’erano il tirannosauro e i tre kentrosauri, ma finalmente potevano dare inizio alla battaglia vera e propria. Emise un forte fischio; ci vollero pochissimi secondi perché dalla boscaglia emergessero i loro due contingenti, pronti a combattere. Mentre gli animali di Gnul-Iat uscivano uno alla volta o a coppie dalla caverna, il tirannosauro che stava di guardia fu sfidato da uno yutiranno. Coi suoi gridi fortissimi, il teropode delle nevi cominciò da subito a spaventare gli avversari piccoli e a deconcentrare quelli più grossi. Drof fu raggiunto da Onracoel, per niente disposto a combattere prima di riunirsi al suo padrone e compagno.

«Pronto a sbranare qualcosa, amico mio?» chiese Drof, balzando sulla sella.

Il carnotauro si passò la lingua sulle gengive.

«Lo immaginavo!»

La prima creatura che affrontarono fu un iguanodonte, che alla vista di Onracoel si alzò in piedi e tese in avanti gli artigli dei pollici, gridando a squarciagola. Il carnotauro ruggì in risposta e lo travolse con una cornata, poi gli afferrò il collo e lo soffocò. Strappò un boccone di carne e lo trangugiò frettolosamente prima che il suo padrone lo facesse tornare a lottare con un colpetto di talloni sui suoi fianchi. Andarono ad aiutare un paraceraterio che stava avendo difficoltà contro degli ienodonti, non riusciva infatti a schiacciarli e loro mordevano continuamente le sue caviglie. Lo yutiranno fu appoggiato da uno spinosauro, che lo aiutò a liberarsi del tirannosauro nemico. Poco dopo arrivò anche Odranreb, a cavallo del suo argentavis.

«E io che pensavo che sarei stato io a fare casino!» commentò, iniziando a bersagliare le bestie nemiche di frecce dall’alto.

«C’ero quasi! Quel bastardo è velocissimo a schivare»

Senza che se ne accorgessero, un pachicefalosauro caricò dalla destra di Onracoel e lo investì nel costato. Drof percepì lo scossone che risaliva il corpo della sua cavalcatura fino a lui, mentre il carnotauro ruggì di dolore e sorpresa prima di capovolgersi, facendo rotolare il padrone nel mezzo della mischia. Drof si alzò stordito e disorientato, nella confusione gli parve di sentire suo cugino che urlava:

«Schiva!»

Si accorse all’ultimo di una purlovia che gli balzava addosso. Drof fece in tempo a pararsi il viso con le braccia prima di essere placcato e buttato a terra. Lui e il mammifero scavatore rotolavano nella polvere, la purlovia cercava di raggiungere la faccia di Drof con artigli e zanne e l’uomo faceva il possibile per respingerlo, riempiendosi di graffi dappertutto. Prima che la purlovia penetrasse la sua guardia, Onracoel tornò e la infilzò con un affondo delle corna.

«Bravo, Onracoel! Bravissimo!» esclamò Drof, sconvolto e col cuore a mille.

A quel punto si accorse di un dettaglio importantissimo:

«Dov’è il giganotosauro? Pensavo di aver chiamato tutte le bestie!» chiese al cugino.

«Anitteb risponde solo a me. Ora ci penso io…»

Ma, all’improvviso, qualcuno dentro la caverna lanciò un sacchetto in cuoio con una fionda, colpendo la testa dell’argentavis. Un fittissimo banco di polvere formò una nuvola intorno al rapace, che non capì più niente e si mise a volteggiare a caso, finendo per schiantarsi col suo cavalcatore. Drof sentì la voce di Gnul:

«Voi due non vi muoverete da qui!»

Mentre la sua femmina di allosauro, l’unica bestia sellata del suo contingente, uccideva un deodonte, il figlio di Drof lanciò un altro sacchetto di polvere ai piedi del padre. Drof si ritrovò accecato, nel mezzo di un fumo bianco in cui non si vedeva ad un palmo dal naso. Onracoel, infastidito, sbuffava e indietreggiava per uscire dalla nuvola, lui provava ad allontanarsi a sua volta. Ma, di colpo, apparve Gnul… che gli tirò un potente calcio sui genitali. Il dolore fu immediato e lancinante, gli strappò un grido e lo fece finire seduto.

«Questo è per essere venuto ancora a rompere…» ringhiò Gnul.

Gli tirò poi un secondo calcio in faccia, mandandolo lungo disteso.

«E questo è per lo scherzo dell’acido» concluse.

La nuvola si dissolse e Gnul, sottratta l’accetta al padre, gli afferrò il bavero per tirarlo su e costringerlo a guardarlo negli occhi:

«Non è una bella sensazione, vero, padre? Ti eri così fissato con l’idea di ammazzarmi per salvare quella piccola demente, invece eccoti qua, che stai per fare la stessa fine che prima o poi riserverò a lei! Poetico, non trovi?»

«Fottiti»

«Prima tu»

Mentre il fumo svaniva, sollevò l’accetta. Ma, prima che sferrasse il colpo, Drof sollevò un piede e lo respinse con una pedata nello stomaco, quindi si alzò di scatto e lo colpì con una testata.

«Ti rifiuti ancora di crepare? Allora è un vizio di famiglia!» ringhiò Gnul, tenendosi una mano sulla fronte.

«Prego»

Drof riprese l’ascia e Gnul il falcetto. Iniziarono a girare in cerchio guardandosi in faccia, mentre le creature continuavano a combattere. Ma, prima che si buttassero l’uno sull’altro, sentirono un fischio: Odranreb, ancora disteso sotto l’argentavis con le ali rotte, aveva chiamato il giganotosauro.

«Oh, cazzo! Come ho potuto scordarmi di quello?» si chiese Gnul, ad alta voce.

Si sentirono passi pesantissimi e Anitteb apparve dal buio della foresta. Tutte le creature di entrambi i contingenti si congelarono sul posto e la guardarono. Il giganotosauro afferrò un allosauro per i fianchi e, sollevandolo come se non pesasse nulla, iniziò a sbatterlo ovunque e a sfregarlo sul pavimento, rompendo ogni osso che aveva in corpo. Si avvicinò allo stesso tirannosauro con cui lo yutiranno e lo spinosauro erano stati occupati e i due si spostarono prima che Anitteb scagliasse l’allosauro adosso all'altro, facendolo cadere.

«Se solo non avessi perso il mio in quella gola...» si lamentò il ragazzo.

Anitteb abbassò la testa e investì a capofitto un temerario rinoceronte lanoso che stava per attaccarla. Ormai le creature di Drof facevano prima a smettere di combattere e farsi da parte: in forze e combattiva com’era, Anitteb avrebbe potuto finirla in pochi minuti. Drof vide che Gnul era distratto e lo placcò. Tenendolo a terra, sollevò l’ascia e la sbattè giù con tutte le forze, ma suo figlio inclinò la testa e la lama si incastrò nel terreno. Rotolando, Gnul fece perdere l’equilibrio al padre e si preparò a fare lo stesso col suo falcetto… ma arrivò Onracoel e lo spinse via con una cornata. Gnul-Iat finì nel fiume e, purtroppo, il carnotauro l’aveva colpito con la fronte: le corna non erano riuscite a ferirlo. Così si rialzò stordito e pieno di graffi e lividi, ma piuttosto in forze.

«Ne ho anche per te, bello!» esclamò.

Ma percepì del movimento alle sue spalle e schivò Odranreb prima che gli tirasse un colpo di clava in testa. Ora i due cugini erano uniti e aiutati dal carnotauro, mentre Anitteb faceva piazza pulita di bestie nemiche. Drof riprese l’arco e provò a colpirlo, ma anche questa volta il colpo fu schivato. Sentirono sibilare e un titanoboa uscì dall’acqua, allargando il collare e sollevandosi ad altezza d’uomo. Subito, si buttò su Onracoel e lo azzannò alla spalla. Drof corse ad aiutarlo, mentre Odranreb si gettò ancora su Gnul-Iat. Fendette la clava mentre correva, ma il ragazzo si spostò di lato alla velocità della luce e allungò la gamba subito dopo, facendo lo sgambetto allo zio, che finì col naso tra i sassi.

«A quarant’anni hai le gambe di un vecchio? Non mangi abbastanza verdure, zio?» lo sfotté Gnul.

«Zitto, o ti ficco una carota in bocca!» esclamò Odranreb, alzandosi.

«C’è un altro buco molto più ad effetto, se ti intendi di battute non puoi non conoscerlo! Vuoi un esempio col mio falcetto?»

«Brutto insolente!»

In uno scatto d’ira, Odranreb provò a cogliere il nipote alla sprovvista lanciando la clava senza preavviso, ma Gnul la afferrò al volo, lasciandolo senza parole.

«Come ci riesci?!» nessuno dei due si capacitava di quanto fosse veloce.

«Ho sentito che abbattere dei velociraptor solo con un coltello fa bene ai riflessi e ci ho provato. Funziona, come vedi!»

Prima che Odranreb cercasse di buttarsi su di lui, Gnul lo raggiunse e gli tirò una ginocchiata nello stomaco, facendolo cadere di nuovo. Poi gli rifilò un destro sul naso, stordendolo del tutto. A Drof, che era finalmente riuscito a salvare Onracoel, parve di sentire il colpo fin dove si trovava. Quando si voltò a guardare, Gnul stava correndo dal suo allosauro, ancora impegnato ad irritare Anitteb. Si arrampicò su di lei e frugò in una sacca. Drof montò su Onracoel e si avvicinò in fretta, uccidendo un dilofosauro ostile con una freccia nel mentre. Il Ladro di Impianti tirò fuori una scatoletta di legno su cui c’era un’incisione dipinta di blu… quando Drof capì che era l’immagine di un fiore, sbiancò nel capire cosa voleva fare. Gnul aprì la scatola e, attendendo il momento giusto, la lanciò nella bocca di Anitteb appena ruggì. Il giganotosauro sbarrò gli occhi e cominciò a rigirarsi la lingua in bocca con aria disgustata.

“Oh, no...” pensò Drof, ordinando ad Onracoel di fermarsi.

Nell’ora che sarebbe seguita, qualunque cosa si muovesse attorno ad Anitteb sarebbe morta se non fosse scappata: Gnul-Iat le aveva fatto ingerire polline di fiore dell’ira, una pianta che se mangiata scatena una furia inarrestabile sia nelle persone, che negli animali.

«Addio, padre! Mi piacerebbe dire che meriti una degna sepoltura, ma sai… dubito che resterà qualcosa di te» Gnul fece un’ultima battuta cinica, prima di richiamare il suo intero contingente con un fischio e iniziare la fuga.

Drof sentì una violenta vampata d’ira salire dentro di lui. A momenti, era più arrabbiato lui di quanto lo sarebbe stata Anitteb di lì a poco. Aveva fallito per la terza volta. Neanche con l’aiuto di due branchi di cavalcature da battaglia aveva saputo liberare Acceber e l’isola dalla lurida presenza di quello che era suo figlio solo perché l’aveva generato. Era così furioso che gli parve di trovarsi nel deserto a mezzogiorno, stringeva i pugni con tale forza che gli si sbiancavano le nocche. E questo al pensiero che non avrebbe potuto inseguire Gnul: adesso doveva pensare solo a mettere in salvo se stesso, suo cugino e le creature. Anitteb non avrebbe più ascoltato nemmeno Odranreb: un giganotosauro in preda alla rabbia non apparteneva a nessuno, il suo unico pensiero era distruggere tutto e divorare ogni essere vivente incontrasse. Quando raggiunse il cugino, ancora mezzo svenuto, lo caricò frettolosamente sulla schiena di Onracoel e fischiò a sua volta per farsi seguire dalle loro bestie. Raggiunto il fronte boscoso, si fermò per accertarsi che tutti gli animali fossero presenti. Ne approfittò per guardare Anitteb da lontano: stava sbavando saliva rossa per il polline, le pupille erano dilatate del tutto e il respiro era affannoso. Cominciò a prendere a testate, zampate e codate rocce e cespugli e ruggiva ogni tre secondi, letteralmente. Drof scosse la testa e promise a bassa voce che sarebbero tornati a prenderla all’alba, poi si allontanò, amareggiandosi della sconfitta.

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L’ultimo giorno e mezzo era stato tremendo per Laura. Avere le mani e i piedi legati e stare sdraiata sull’addome sulla sella di uno pteranodonte a mezz’aria senza poter muovere gli arti era spaventosissimo. Lui era a dir poco una persona ridicola e faceva venire voglia di pestarlo addirittura a lei, che era timida quasi quanto Jack. Poi, a quanto pareva, con lui c’era un trio di documentaristi con l’attrezzatura da cinema che davano l’impressione non sapere neanche come ci si allaccia le scarpe, visto quanto erano ingenui e impacciati. Aveva provato a chiedere loro aiuto, ma quel tizio doveva avergli raccontato qualche bugia a cui continuavano a credere. Quell’inquietante cappello col visore e le zampe di ragno la teneva d’occhio ogni istante, tranne rare volte in cui, a quanto pareva, le si scaricavano le batterie. Ogni tanto, l’uomo con la bombetta si girava verso di lei e diceva frasi auto-celebrative del tutto a caso, quando non la insultava o le rinfacciava di essere stata stupida a credere di potergli negare il segreto di ARK. Alla fine, spinta dal nervosismo e da una vaghissima curiosità, Laura gli domandò chi diamine era e cos’era quella bombetta.

«Uuuuuh, nel giro di qualche reincarnazione ci è finalmente arrivata! Date una medaglia alla biondina!» la prese in giro Mike.

«Mike, sei davvero sicuro di voler rilasciare tutte queste informazioni private? Le mie statistiche indicano che sarebbe altamente rischioso per il successo della nostra spedizione, in caso il nostro ostaggio fugga»

«Lo so, Doris, ma siccome non scapperà mai… – si schiarì la voce e iniziò a raccontare con aria fiera, come se la sua fosse una vita da invidiare – Questa è la storia del sottoscritto, Mike Yagoobian…»

«Che schifo di nome…»

«…un povero cristiano da Seattle che non ha mai conosciuto la normalità, cresciuto per strada come qualsiasi barbone e circondato da altri barboni»

«Ecco perché hai quest’odore!» scherzò Laura, contraccambiando il sarcasmo.

«…sì, grazie tante. Comunque, l’arte del rubare e del truffare è stata sempre la mia fedele alleata morale, ma per mia fortuna avevo un amico mille volte più agiato. Un genio delle scienze, specialmente della meccanica e della robotica. Insuperabile progettatore e anche benefattore, visto che si accorse di me per strada e diventò il mio migliore amico senza un chiaro motivo e iniziò a darmi mance mensili…»

La pomposità con cui raccontava una biografia abbastanza banale stonava così tanto che Laura era costretta a trattenere le risate, visto che sarebbero state così fragorose da sbilanciarla e farla cadere da Girodue.

«Sto parlando, ovviamente, del professor Hermann Melville!»

«Ma… quello è l’autore di Moby Dick

«No! Quello è “Herman” con una N sola, il nome del mio amico ne aveva due, è diverso!»

«E poi perché “ovviamente”? Non ne ho mai sentito parlare»

«Certo, è perché voi cinici e viscidi borghesi non avete occhi per i veri genii come lui, quando capitano!»

«Parli come se tutti fossero ricchi, tranne te!»

«Il povero Hermann era ignorato e sfottuto dall’intero mondo della scienza… lui, che ha inventato il primo robot capace di volere e di intendere! Il cappello-domestico, una rivoluzione del mondo dei lavori manuali! Nessuna ditta volle mai finanziarne la produzione in serie, così l’unico modello che costruì fu DOR-15, la qui presente Doris!»

«Io sono DOR-15, il primo ed unico cappello-domestico dell’industria. Posso esserle d’aiuto?» Doris rafforzò il racconto recitando il suo slogan d’accensione.

Un’invenzione come Doris le sembrò geniale e ridicola allo stesso tempo. A essere sincera, anche lei si sentiva un po’ dispiaciuta per lo spreco di talento di quel Melville.

«Così la regalò a me e da allora io e DOR-15 siamo soci. Non sai quanto siamo capaci di fare insieme! Da quando ho lei, le mie truffe sono infallibili! Ogni volta elaboriamo dei piani e li confrontiamo, prima di partire in azione. I miei progetti sono geniali, anche se… be’, alla fine scegliamo sempre quelli di Doris. Ma comunque sono io quello che fa tutto!»

«La soggettività del tuo racconto distorce sensibilmente la realtà dei fatti» obiettò la bombetta.

«Bello, ma... cosa c’entrate con ARK?»

«Ah, giusto! Mi ero fatto trascinare dai ricordi… la meccanica non era l’unica cosa di cui si occupava. Dimmi, biondina, hai presente quei tizi che credono che ci sia qualcosa di cui nessuno sa ma che dovrebbe?»

«Ehm… i complottisti?»

Girodue scosse la testa e fece vibrare le ali per sgranchirsi e lei ebbe un tuffo al cuore, credendo di cadere.

«Uhm… sì, ma no. Fatto sta che era anche appassionato di storia. In vita sua ha visto tutto il mondo e studiato tutte le civiltà e sai cosa notò? Cioè, neanch’io so cosa notò, dico solo cosa mi ha raccontato»

Laura rimase in silenzio, in preda alla sospensione, in attesa che il discorso continuasse. Mike si irritò per quello:

«Allora, ti decidi a fare la domanda basita da colpo di scena? Così non posso fare la rivelazione ad effetto, non c’è gusto!»

Laura non ci poteva credere, ma sospirò raccogliendo tutta la sua pazienza e lo accontentò:

«Cosa notò?»

«Che fra le tracce lasciate dalle civiltà c’erano dei segni che non sembravano farina del loro sacco (parole sue) e sembravano parlare di creature come quelle di questo posto… e anche di strana gente parecchio più avanti di loro!»

«Oh… quindi i Pre-Arkiani usavano spesso quei passaggi! Interessante…» riflettendoci, dimenticò dov’era e di essere in ostaggio.

«Oh, almeno il commento basito da colpo di scena ti è riuscito! Torniamo a noi… Hermann fece la sua scoperta definitiva quando, nella British Library, trovò questo nascosto dietro una copia de L’Evoluzione delle Specie»

E le mostrò la sua copia dell’enciclopedia su ARK. Laura sbarrò gli occhi: quello fu quasi come prendere una secchiata d’acqua fredda. Guarda caso, lei e l’amico dell’uomo con la bombetta avevano trovato quel libro nello stesso, identico modo.

«Purtroppo, Darwin aveva strappato l’ultima, preziosissima pagina, dove c’erano le coordinate e la cartina di ARK»

Un altro dettaglio uguale.

«Si sarebbe messo volentieri alla ricerca dell’informazione mancante, così da cercare il Tesoro e riscattarsi di tutte le ingiustizie di una vita… peccato che gli venne la leucemia. Prima di essere ricoverato e tirare le cuoia, il generoso professor Melville affidò questa missione all’altra persona che merita di averlo quanto lui: me!»

«Vorrei chiederti di considerare anche me» protestò DOR-15.

«Me e Doris! Mi promise ricchezza, fama e gloria. Come potevo rifiutare? Così, dopo che morì, mi misi alla ricerca di quella pagina in tutto il mondo. E fu così che trovai la tua amica Walker e i suoi compagni, due anni fa. Vedi, se ti ho rapita è solo colpa tua! Se ti fossi fatta gli affari tuoi, io avrei fatto tutto in tranquillità e sarei già dove voglio arrivare! Ma ormai è irrilevante: il Tesoro di ARK ci aspetta! Muhuhuhaha!»

Laura capiva il suo punto di vista, ma non le importava assolutamente niente se voleva rifarsi una vita: lei aveva tutto il diritto di scoprire cosa nascondeva l’isola, tanto quanto Darwin, Melville ed Helena. Si sarebbe ripresa il manufatto, gli avrebbe impedito di prendere i tasselli del mosaico per poi tornare dagli altri.

“Però devo pensare bene a come fare… innanzitutto, mi serve l’occasione giusta!” si disse Laura, pensando fin da subito ai momenti di stand-by di Doris.

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Dopo aver avvertito Jack e Rockwell della scomparsa di Laura, il gruppo si era messo subito all’inseguimento dell’uomo con la bombetta. Rexar, ormai, conosceva perfettamente l’odore di tutti loro e gli era stato piuttosto facile trovare una pista. Così Acceber aveva chiesto se Mei poteva accompagnarla mentre andava qualche centinaio di metri più avanti degli altri, giusto come scusa per stare da sola con la sua eroina e farle una serie di domande su di lei. Mentre gli altri le seguivano lungo il fianco destro della montagna, conversavano per non sentire troppo la preoccupazione. Chloe, che camminasse o che stesse sulla sella di Usain, osservava l’oceano che si vedeva da lì: meraviglioso almeno quanto il paesaggio dell’entroterra che si poteva ammirare dal villaggio delle Aquile Rosse. Sam si fece raccontare da Nerva la storia del centurione:

«La vita del soldato non era stata sempre parte dei suoi progetti. Ero il figlio di un modesto latifondista della campagna emiliana; da bambino mi ero sempre divertito ad osservare i servi al lavoro e alla fine mi appassionai ad agricoltura e allevamento…»

«E loro ti lasciavano fare?»

«Certe, una mano in più fa sempre comodo quando lavori in una villa. Ma mio padre voleva che votassi la mia vita a servire l’imperatore entrando nell’esercito, come aveva fatto lui»

«Aspetta, quindi in famiglia eravate soldati o padroni di zappatori?»

«Mio padre era vecchio, stanco e senza un piede, non poteva più combattere. Il latifondo era un dono per la carriera da milites che l’aveva fatto diventare abbastanza noto fra i generali dell’italica terra e delle province. Non ebbi scuse: ho dovuto dire addio alla campagna e farmi soldato. Grazie al mio innato talento per combattere e l’influenza di mio padre, diventai decurione e centurione molto più in anticipo della media…»

«Eh, senti questo raccomandato!» lo canzonò Sam, facendo sorridere Helena e incuriosendo Chloe, ancora presa ad ammirare la vista di montagna.

«Non intellege male, io me ne vergognavo, ma non potevo farci niente. Mi affermai con la conquista della Dacia e la nomina a generale, poi Traiano mi affidò la spedizione in Oriente e trovai quest’isola. Sapete già il resto»

«Mai avuto una cotta? Che strano…» lo stuzzicò Chloe.

«Una… quid

«Uff… sei mai stato innamorato?»

«Oh! No, mai»

Sam stava per provocarlo chiedendogli se era imbarazzato perché non aveva mai avuto una fidanzata o se non voleva confessare di averne avuta una, ma Helena richiamò l’attenzione di tutti:

«Ehi, guardate lassù!»

Stava indicando la parete rocciosa alla loro sinistra. Tutti guardarono dove lei indicava e si stupirono nel vedere un’incisione nella pietra a forma di… fungo atomico.

«Uao… questo mi mette un po’ di ansia, francamente!» commentò Sam.

«Secondo voi è arte pre-arkiana, come le rovine?» chiese la biologa, emozionatissima: scoprire di aver perso dei dettagli due anni prima le faceva sentire le farfalle nella pancia.

«Mah… io scommetto di sì – azzardò Chloe – Chi è che su un’isola preistorica si mette a scolpire esplosioni nucleari come se fossero i disegni dell’uomo primitivo?»

«Ti do ragione» rispose Helena.

«Lo penso anch’io, ammesso di averci capito qualcosa. Gli Arkiani non hanno l’aria di sapere cos’è un atomo e neanche ospiti d’onore da altre epoche lo saprebbero. Per cui, se non è stato il pilota dell’Enola Gay o roba così, dev’essere come dite voi» affermò Sam, sempre scherzando.

Nerva, dal canto suo, si limitava ad osservare le singole linee delle incisioni con attenzione. Alla fine, prese la parola a sua volta:

«Credo di riconoscere lo stile di questa strana ars»

«Come?!»

Helena era così tesa che avrebbe potuto saltargli addosso, come per strappargli fuori le rivelazioni di bocca.

«Ho visto un’immagine fatta nello stesso modo su un’altra roccia, due anni fa»

«E non me l’hai mai detto?!» sobbalzò Helena.

«Come potevo immaginare che ti servisse?»

«Ma… no, è vero. Comunque, anche quella aveva un fungo atomico?»

«No. Era un’immagine che a quei tempi non potevo capire, ma si trattava di quelle due strane spirali legate da linee colorate, quelle che vedo qualche volta nei libri di medicina di Rockwell. Come si appellabat? Erano tre litterae, se non sbaglio…»

«Ehm... il DNA?» chiese Sam.

«Esatto!»

Helena non credeva alle proprie orecchie.

«Oh, mio Dio… - quasi balbettava – I Pre-Arkiani… conoscevano l’energia termo-nucleare e la genetica! È molto più di quanto io ed Edmund avessimo ipotizzato su di loro… questo va oltre ogni congettura che abbiamo fatto su di loro. Ma allora potrebbero anche…»

«Ehi, voi, tutto bene? Perché vi siete fermati?» furono chiamati da lontano da Acceber, che si era accorta della loro assenza ed era tornata indietro con Mei.

«Forza, andiamo!» esclamò Nerva.

Dovette tirare Helena per le braccia, visto quanto era estasiata e distratta, ma alla fine ripartì anche lei. Non vedeva l’ora di riflettere meglio sulla nuova scoperta, ma avrebbe potuto permettersi di chiamare Rockwell solo appena si fossero accampati… aveva una voglia bruciante di mettere per iscritto le sue scoperte, come quando teneva il suo diario. Era così eccitata!

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L’uomo con la bombetta si accampò al tramonto. Si fece aiutare dai documentaristi ad accendere un fuoco da campo, poi si allontanò con Doris dicendo che dovevano “discutere sul da farsi”. Laura fu lasciata lunga distesa a ridosso di un macigno, mentre Girodue nascose la testa sotto un’ala e si addormentò. I tre documentaristi si sedettero attorno al fuoco e riguardarono le riprese della giornata, commuovendosi ogni due secondi. Avevano lasciato una telecamera che catturava i movimenti in un cespuglio e, per un quarto d’ora, guardarono gli animali che ci erano passati davanti.

«Non ci credo, uno smilodonte! La tigre dai denti a sciabola!» esclamò Vicky, che faceva la presentatrice nelle scene informative o dialogate.

«Sta trascinando una preda… cos’è, un ippopotamo-maiale?» chiese Allan, il fonico.

«Ma come, non hai studiato neanche un po’? È una fiomia, il capostipite degli elefanti!»

«Vicky, sei tu il cervello. Noi abbiamo studiato cinematografia e tu non saresti qui senza di noi» replicò Phil, il cameraman.

Quando lo smilodonte uscì dall’inquadratura, lo schermo del tablet diventò nero, poi tornò l’immagine. Le ore segnate erano le 17:16, tre ore prima. Un oviraptor era corso nel cespuglio, smuovendo un po’ la telecamera, e aveva mangiato in tutta fretta un uovo appena rubato. Guardarono avidamente come lo apriva picchiettando sul guscio col becco e come beveva il tuorlo a leccate, raccogliendo fino all’ultima goccia. Infine aveva lasciato il guscio rotto fuori dall’arbusto ed era sparito dietro una curva del sentiero. Qualche minuto dopo, era arrivato un pachirinosauro di corsa, che annusò in giro ed emise un gemito sconsolato quando trovò l’uovo rotto. Era evidente che si trattava della madre, che aveva superato l’effetto del feromone tranquillante dell’oviraptor.

«Il ladro di uova della Mongolia!» commentò Vicky.

Il loro fantasticare fu improvvisamente interrotto dalla voce di Laura:

«Scusate, avete un secondo?»

«Cosa c’è?» chiese Allan.

«Devo fare la pipì… - affermò la ragazza, imbarazzata – Mi potreste slegare?»

«Ma Mike ci ha detto che gli hai chiesto di tenerti sempre legata per allenarti con la recitazione del ruolo della rapita…» ricordò Phil, perplesso.

«Sì, però salvo urgenze… ehm… corporee! Avanti, non è educato farla fare addosso a una donna!»

Allora Allan si avvicinò imbarazzato e le liberò i polsi. Laura cercò la borsa di Mike, legata alla sella di Girodue, cercò e prese il manufatto e i tasselli presi dalle rovine senza farsi notare: quei tre si erano distratti ancora ed erano come in trance. Allora, senza perdere un istante, corse via. Corse con tutta la forza che aveva nelle sue gambe, senza fermarsi né guardarsi indietro, stando attenta a non inciampare da qualche parte. Trovò un punto nella parete in cui c’era un buco, l’inizio di una galleria alta quanto un bambino. Incoraggiata dalla fretta, Laura ci strisciò dentro ed entrò in un sentiero sassoso stretto tra due alte pareti, attraversato da un rigagnolo. Forse era stato quello a scavare la fenditura. Senza rifletterci troppo, Laura corse fino in fondo e uscì infilandosi nella fessura che ne segnava la fine, ringraziando di essere sottile come un chiodo, in barba a sua madre che le diceva sempre di mettere su qualche chilo. Quando fu fuori, scoprì di essere sul lato frontale dell’Iddirac, la più settentrionale delle montagne gemelle. Il pendio scendeva molto meno scosceso da quella parte, però c’erano diversi gradini abbastanza alti da rendere cadute e scivoloni mortali. Se voleva scendere, avrebbe dovuto fare zig-zag, visto che i dislivelli erano collegati così. Qua e là c’erano conche circondate da alberelli, piene d’acqua piovana o da cui uscivano limpide acque di sorgente. Ma quello che attirò subito la sua attenzione fu cosa c’era a valle: una breve piana aspra e pietrosa divideva le ultime macchie boscose… dalla regione desertica. Il cantone settentrionale dell’isola, visto dall’alto, si presentava come una distesa dorata che intervallava spiazzi sabbiosi a colline di roccia rossa dalle forme varie, ma principalmente geometriche. Ad un certo punto, le rocce terminavano e il tutto si riduceva ad un mare di dune che si estendeva fino all’oceano della costa Nord. Laura rimase così, incantata e ipnotizzata, finché il pensiero della situazione non la riscosse. Rifletté e capì di avere due scelte: provare ad incontrare gli altri per strada o cercare di raggiungere il deserto da sola, sperando che anche loro stessero andando lì. In ogni caso, la scelta più opportuna sembrava raggiungere la regione arida, quindi inspirò a fondo e si rimise in marcia.

 

Camminò per un’ora, tenendo occhi e orecchie aperte: con la poca bravura che aveva con le armi, incontrare un predatore avrebbe significato la sua morte anche senza che Mike l’avesse disarmata. Poi, però, svoltò una curva e rimase impietrita: all’ombra di un vecchio olmo, un pachicefalosauro sellato osservava in silenzio un troncone umano senza testa né gambe. Lo scenario non era difficile da spiegare: quelli dovevano essere i resti del suo padrone e il piccolo dinosauro, ormai solo, rimaneva lì, incapace di separarsi dal compagno umano. Appena vide Laura, si alzò ed emise un gemito che le fece salire le lacrime agli occhi: anche se era solo un verso, riuscì a percepire tutta la tristezza e solitudine di quel pachicefalosauro. Scuotendo piano la sua testa a cupola, si avvicinò a Laura, che si spaventò e indietreggiò. Ma si fermò, capendo presto che non intendeva attaccarla. Provò a stare ferma per capire cosa succedeva: il pachicefalosauro annusò la sua tuta mimetica, le leccò la faccia e…Si sedette accanto a lei porgendole la schiena, con aria di invito.

«Oh… tu… vuoi che ti cavalchi?» chiese Laura, sorpresa, come se potesse risponderle.

Davvero quel pachicefalosauro si stava sottomettendo a lei? Aveva così tanto bisogno di un padrone? La sola spiegazione logica che Laura seppe darsi era che fosse molto giovane, quindi non ancora del tutto autonomo. Facendosi coraggio, allungò la mano e gli accarezzò collo e muso, lui ricambiò chiudendo gli occhi, fremendo e mugolando. Fu una sensazione meravigliosa: non aveva mai provato quell’emozione in vita sua. La sua gioia diventò improvvisamente paura quando sentì una voce femminile meccanica:

«Sei consigliata di non opporre resistenza e di seguirmi»

Davanti a lei c’era Doris. Ci era voluto meno del previsto perché scoprissero la sua fuga.

«Sai una cosa? No! Questo è il mio viaggio e lo faccio come voglio io!» si ribellò Laura, in un aspettato lampo di coraggio in stile Sam.

«Dunque mi costringi a ricorrere nuovamente alla manipolazione neurale»

La bombetta si avvicinò, ma Laura decise di lottare e la afferrò prima che potesse posarsi sulla sua testa. Doris cominciò ad agitarsi e a tirare in ogni direzione per liberarsi, ma la ragazza non voleva arrendersi. Allora DOR-15 estrasse due delle zampe meccaniche e le punse i polsi, ferendola.

«Ah!» si lamentò Laura, come il sangue iniziò a scorrere, scuro e denso.

«È stata legittima difesa, per definizione» si giustificò Doris.

«Cosa?! Sono io che mi difendo! Vuoi ipnotizzarmi!»

«Questa prospettiva è alquanto relativa, troppo per farti avere ragione»

Ma, prima che Doris facesse un secondo tentativo, il pachicefalosauro scattò in avanti e sferrò una testata a sorpresa, mandandola a sbattere contro l’olmo e aprendole un buco da cui zampillavano scintille.

«Errore… errore… errore… calotta centrale danneggiata… attivare auto-riparazione e attendere…» scandì il cappello, prima di spegnersi.

Laura guardò il pachicefalosauro con ammirazione.

«Be’, dunque… volevi unirti a me, giusto?» chiese, quando lui si rimise in posizione.

Provò a montarlo come faceva con Alba e trovò che era addirittura più facile. Dunque lo spronò e il suo viaggio riprese in compagnia della sua nuova cavalcatura. Doveva anche pensare a dargli un nome, visto che non aveva idea di come lo chiamasse il vecchio padrone…

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Capitolo 23
*** Un dodo per la scienza (storia vecchia) ***


Dopo l’inaspettata scoperta sugli effetti dell’edmundio sugli organismi viventi, ho giustamente fatto delle proiezioni su eventuali prove future. Il ciuffo d’erba che abbiamo fatto accidentalmente evolvere nella tenda ha subìto un’ulteriore mutazione: adesso ha la forma di un calice bombato con tre grossi petali pendenti verso il basso, l’interno è cavo e contiene un curioso viticcio retrattile che emerge se ci si avvicina alla pianta. Jack ha riferito di provare una sensazione di benessere quando si trova in sua prossimità, per cui ho voluto fare un esperimento: mi sono inciso una mano e l’ho avvicinata al viticcio; la ferita si è rimarginata in pochi istanti! Dal momento che su ARK esistono già due piante preistoriche ignote ai paleontologi chiamate “pianta X” e “pianta Y”, reputo opportuno battezzare questa nuova specie “pianta Z”. Desidero ardentemente fare una ricerca più approfondita sulle sue proprietà, così come non ci sono parole per descrivere la rabbia che provo per non poterlo confidare a nessuno, ma per il momento devo concentrarmi sul portare avanti lo studio sull’edmundio: devo assolutamente vedere se il DNA animale reagisce come quello vegetale.

A tal proposito, non riesco proprio a capire quel ragazzo: fino a qualche giorno fa era entusiasta almeno quanto me di essere qui, ad osservare da vicino i soldati dal futuro e il modo in cui impiegano l’edmundio, eppure da quando ho iniziato le ricerche sulla forma liquida è sempre agitato e non smette di supplicarmi di smettere, prima che ci scoprano. Non mi capacito che un giovane con un’intelligenza come la sua possa essere così inquadrato e privo di lungimiranza. Non si rende conto di quello che abbiamo per le mani? Non comprende che scienza e scoperta sono tutte un enorme, ma appagante rischio? Ho dovuto combattere più di un soldato al fronte per convincerlo ad aiutarmi a prendere un animale che possiamo sottoporre all’esperimento e ha addirittura insistito perché scegliessi la specie più innocua possibile, come se potesse succedere il finimondo in caso contrario! Incredibile… non vedo l’ora di vederlo ritirare tutto quello che ha detto, alla fine di questa vicenda!


Rockwell aveva scritto questa nota, dopo quello che avevano fatto con quella pianta. Il medico era più ansioso che mai di iniettare l’Elemento nel corpo di un animale, Jack era sempre più certo che la cosa non prometteva affatto bene. Avevano avuto diversi litigi: prima per fare questa prova, poi per catturare un animale selvatico al posto di rubarlo dal centro veterinario dell’URE ed infine perché prendessero un dodo e niente di più in alto nella catena alimentare. Ed ecco perché, in quel momento, erano appostati in silenzio su una piccola altura nelle pianure degli Ipmac Isile. Avevano posizionato semi e bacche assortiti su un ceppo d’albero a valle, nella speranza che qualche dodo nottambulo ne fosse attirato. Essendo piena notte, Jack ammazzava il tempo stando disteso sull’erba a fissare il firmamento, fantasticando su quanti altri stessero facendo altrettanto nel mondo, in luoghi più sicuri di quell’isola dimenticata da Dio. Eppure, fissare le stelle sembrava quasi cancellare la pericolosità di una zona selvaggia arkiana e gli faceva dimenticare per qualche secondo di star aiutando un vecchio medico folleggiante con manie di grandezza, il che lo confortava parecchio. Fu riportato alla realtà da Rockwell, che gli punzecchiò il braccio:

«C’è movimento laggiù, vai a dare un’occhiata!» bisigliò il medico, speranzoso.

Jack si mise seduto e scese pigramente la collina. Quando raggiunse il ceppo e vide cosa stava mangiando le bacche, si sbatté le braccia sui fianchi e alzò gli occhi al cielo: un listrosauro. Lo stesso che aveva già dovuto scacciare quattro volte. Senza dire una parola, afferrò l’animaletto per i fianchi e iniziò ad allontanarsi tenendolo in braccio. Il listrosauro non se ne lamentava mai; anzi, pareva trovarlo piacevole o divertente.

«Dobbiamo seriamente farti stare lontano per un po’…» commentò Jack, mordendosi subito la lingua per paura di aver attirato l’attenzione di qualche predatore di passaggio.

Notò un roveto carico di more e lamponi. Dunque mollò il listrosauro, ne raccolse un paio di manciate e le mise su un sasso, impilate in una montagnetta. Attirò il piccolo rettile fino al sasso e aspettò che iniziasse a mangiare. Iniziò subito a divorare le bacche, sporcandosi il becco di succo rosso e blu.

«Ecco, ora fa’ il piacere di farti andare bene queste!» lo ammonì Jack.

Per risposta, il listrosauro sollevò la coda e defecò, ignorandolo completamente.

«Grazie tante…» commentò il ragazzo, demoralizzato, poi cominciò a tornare indietro pensando a Laura.

Quando fu a venti passi dal ceppo vide Rockwell che correva a capofitto giù dalla collinetta, verso l’esca. Jack guardò e vide che, finalmente, un gruppo di sette dodo era venuto a servirsi da loro. Così anche lui comiciò a correre con tutte le sue forze, mentre i dodo iniziarono a disperdersi starnazzando alla vista dei due inseguitori. Rockwell provò ad afferrarne uno, ma gli venne una fitta alle ginocchia e cadde, facendosi venire altri dolori alle ossa. Jack fallì nel provare a tuffarsi su quello che gli sembrava il dodo più grasso e goffo, ma si rialzò in pochi secondi e riprovò, riuscendo ad afferrarlo come un giocatore di rugby si getta sul pallone. Stando attento a non farsi graffiare o beccare, Jack aggiustò la presa per impedire al dodo di dimenarsi e gli chiuse il becco.

«Ah… ahia… Edmund, stai diventando un relitto, ormai… ragazzo, l’hai preso?»

«Eh… sì, ne ho uno!» esclamò Jack, vagamente soddisfatto, ma preoccupato per cosa veniva dopo.

«Perfetto! E ora diamo la parola all’edmundio…»

“Aiuto…” pensò Jack, iniziando ad avere davvero paura.

Rockwell, che aveva già riempito una siringa di Elemento liquido, prese l’ago e si avvicinò al dodo. Gli sollevò un’ala e fece l’iniezione nell’addome. Subito, il pennuto smise di agitarsi e si irrigidì, con lo sguardo vuoto.

«Prova a lasciarlo andare…» chiese Rockwell, senza staccare lo sguardo dal dodo.

Jack lo lasciò libero e l’uccello fece due passi in avanti, prima di bloccarsi di nuovo come una statua. Rimase immobile quasi per un minuto… poi si inclinò e stramazzò a terra, morto. Rockwell ne fu sconvolto e rimase a bocca spalancata, mentre Jack si trattenne dal tirare un sospiro di sollievo, siccome si aspettava di peggio.

«È… l’ha… una reazione letale? Non capisco… p-p-perché l’erba si è evoluta e… e… e questo dodo è deceduto in pochi secondi?»

«Non si disperi, dottore: forse è proprio così che funziona! Magari abbiamo capito come c’è stata l’apocalisse nel futuro di Diana. Vede che fanno bene a proibire quella sostanza malefica?» lo confortò Jack.

«No, non può essere. Ci dev’essere una spiegazione! Forse questo esemplare era malato o aveva un altro tipo di anomalia che ha impedito all’edmundio di agire efficacemente… non può essere così!» il farmacista ci era rimasto davvero male.

Tastò il corpo del dodo e auscultò il torace per accertarsi che fosse morto.

«Purtroppo, è effettivamente trapassato. Però… è una femmina. A quanto pare, era pronta a deporre le uova. Forse la gravidanza ha alterato i suoi valori e non ha retto la presenza dell’edmundio, o gliene ho dato troppo o troppo poco? Insomma…»

«Dottor Rockwell, la smetta! È andata così, fine!» lo interruppe Jack, che iniziava a spazientirsi.

«Ma… sì. Sì, hai ragione, ragazzo: ho preteso troppo. Dimenticavo che ci sono anche le delusioni, nel mondo della scienza…»

«Be’, ha comunque scoperto cosa fa agli animali, no? Sempre meglio che non saperlo e rischiare di più!»

«Ti devo dare ragione. Coraggio, torniamo alla base dei soldati dal futuro, prima che la nostra assenza diventi troppo lunga. Io farò ancora qualche domanda sugli usi quotidiani dell’edmundio solido e tu potrai fare ancora tutte le domande che vuoi sui loro costumi, poi ci riuniremo agli altri, dovunque siano» stabilì Rockwell, triste e rassegnato.

«Ci sto»

E si incamminarono verso la base dell’URE. Ma non si accorsero che, nel frattempo, il dodo aveva riaperto gli occhi, che ora luccicavano di viola; e iniziò a contorcersi per terra. Sulla sua pelle, si formò un reticolo di capillari violacei e fosforescenti, dalla bocca uscì del vomito dello stesso colore e ancora più fluorescente…

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Nel mentre, in una tana di araneomorfi costruita in una rete di gallerie sotto la giungla delle Rocce Nere, si era diffuso il panico: i giganteschi ragni stavano passeggiando tranquillamente da una camera tappezzata di tela ad un buco riempito di filamenti appiccicosi per intrappolare le prede, si incrociavano e scambiavano rapidi e semplici messaggi di feromoni, le femmine fertili custodivano le sacche con le uova, deposte ogni cinque anni, in buche speciali. Le prede del giorno venivano portate dentro, fatte a pezzi e condivise. Era come un alveare o un formicaio, ma senza regina. Improvvisamente, però, qualcuno aveva cominciato a lanciare strani oggetti che splendevano di blu ed esplodevano pochi secondi dopo. Una serie di scoppi azzurri rigirarono tutta la terra in zona e portarono la tana allo scoperto. Terrorizzati e furiosi, gli araneomorfi cominciarono a zampettare in tutte le direzioni, sparpagliandosi a caso. Allora, la squadra di cattura di Diana iniziò ad immobilizzare quelli che capitavano rinchiudendoli con speciali dispositivi che creavano campi di forza dove li si lanciava. Quando ne ebbero presi trenta, Diana annunciò il compimento della missione e tornò la calma. Tutta la sua squadra si radunò intorno ai campi di forza pieni di ragni, osservandoli con soddisfazione e togliendosi i caschi.

«Complimenti, ragazzi, siete stati più coordinati che mai! È così che vi voglio, sempre!» commentò Diana, con un sorriso.

«Merito di chi ci aiuta a fare tutto così bene!» le rispose una donna.

«Grazie, Janet. Forza, ora chi di dovere teletrasporti queste schifezze a otto zampe alla base, così poi potrete andare tutti a dormire!»

Dunque, alcuni si allontanarono, mentre altri si avvicinarono ai ragni catturati per avviare il teletrasporto. Diana fu chiamata via radio da Santiago:

«Ehilà

«Ciao»

«Com’è andata coi ragni?»

«Splendidamente. Non vedo l’ora di raccontarlo a Skipper! Sarà fiero di sapere che la strategia che abbiamo pensato insieme ha funzionato»

«Come al solito!»

«Comunque, hai finito la registrazione settimanale delle scorte?»

«Sono qui per questo: c’è stata una diminuzione insolita della quantità finale di Elemento fluido nella tanica per il replicatore»

«Ah, sì? Be’, potrebbe essersi bucato: ha già rischiato di succedere, l’altra volta. Scoprite subito se è entrato in contatto con dell’erba o con qualche forma di vita endemica! Non vogliamo un casino genetico proprio qui»

«Ho già controllato: è intatto. L’unico modo in cui un decilitro potrebbe essere perso è prendendolo a mano»

«E chi mai… oh, no! Dici che sono i nostri due ospiti, quel Jack e il dottor Stonewell?»

«Credo che fosse Rockwell. Ma sì, sospetto anch’io: è sempre stato fissato con l’Elemento, specialmente con quello liquido. Forse ho fatto più male che bene a proibirglielo: avrei fatto prima a tenerlo segreto…»

«Dobbiamo subito fare due chiacchiere con lui! Va fermato, prima che faccia guai…»

«Tutto qui? Mi aspettavo di sentirti bestemmiare e urlare di buttarlo fuori a pedate»

«Oh sì, sono così incazzata che potrei spaccare un muro senza armatura. Ma oggi sono di buon umore: prima voglio provare a discuterne da persone civili. A me non sembrano cattivi, del resto. Sono lì?»

«No, sono andati nelle praterie, dovrebbero tornare a breve. Sarebbero pure capaci di aver già provato quel liquido su qualcosa!»

«Speriamo di no, sarebbe un gran bel casino. Va bene, sto arrivando. A tra poco!»

«D’accordo. Intanto controllo la loro tenda, forse trovo l’Elemento che hanno rubato…»

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Grazie a Cupcake (così aveva chiamato il pachicefalosauro), Laura aveva raggiunto in poche ore il fondo della montagna e adesso stava attraversando lo spazio sassoso fra l’Allics e il deserto. La cavalcata non era tanto comoda, a lungo andare: si era abituata a dare il cambio ad Helena ogni ora e aveva cavalcato tutta la notte. Ogni tanto le erano venuti dei colpi di sonno e aveva passato metà tragitto in dormiveglia, scattando di colpo sull’attenti e col mal di schiena quando Cupcake metteva la zampa in una cunetta o scavalcava un ostacolo. In più, a causa dei tagli che Doris le aveva fatto, non poteva stringere troppo le redini per evitare che lo sforzo tirasse i bordi delle ferite, ma di contro le veniva spontaneo per paura di cadere dalla sella. In altre parole, era come viaggiare su un treno vecchio e malandato, ma a cui si è affezionati. Finalmente, raggiunse il limite della zona arida: ad accoglierla, c’era una sorta di ponte ad arco che collegava due pilastroni d’arenaria, una sorta di ingresso naturale.

«Va bene, Cuppy, ci siamo – a quanto pareva, parlargli la confortava – Tu sei già stato nel deserto? Io ho visto l’Outback un paio di volte. Quanti bei ricordi…Ma preferisco di gran lunga l’oceano. Cerchiamo il villaggio…»

Proseguirono alla cieca fino a mattina inoltrata. Il Sole si alzava e, con esso, la temperatura. Il calore saliva dal terreno a vampate scottanti, mentre i raggi solari le bombardavano il viso: avrebbe potuto cuocere un uovo su una pietra, tanto era caldo. Passare dall’aria frizzante d’alta montagna a quell’afa soffocante fu un vero trauma. Fu tentata di togliersi la tuta mimetica, ma resisté: sapeva bene che a stare coperti nel deserto si crepava, ma almeno si stava al sicuro dalle scottature. Quindi si limitò a togliersi il bavero incorporato alla tuta, che tanto non aveva mai usato, e se lo avvolse in testa per proteggersi.

“Ah, molto meglio!” pensò.

La strada era un tortuoso percorso tra le formazioni rocciose. Alcune offrivano tanta ombra, il che non poteva che essere piacevole. Ad un certo punto, però, sopraggiunse la sete. Per fortuna, alla sella di Cupcake era legata una giara in terracottta da riempire d’acqua e aveva fatto scorta alle sorgenti sull’Allics. Quindi la prese e bevve un piccolo sorso, giusto per sciacquarsi la gola. Cupcake la notò e girò la testa verso la giara, tirando fuori la lingua e ansimando. Laura capì e, con una punta di imbarazzo, gli versò un goccio in bocca. Lui sollevò la testa per ingoiare, poi si rigirò la lingua nel becco. Attraversata una collina piena di cespugli spinosi, Laura notò un cartello che la rese speranzosa: ai piedi di un masso di arenaria, c’era un’indicazione a forma di freccia puntata verso la sua destra e un messaggio:

TIGUPLABIB VED VÒTIF IVEVLABAV
PÈFEC AZADLUTIG A TIVAF ID ECEP

EBECIMEF: CEZABAFI E DETÒTÒZI

Non capì una virgola, ma sperando che fosse un’indicazione per un villaggio, Laura decise di seguire la freccia. Certo, prima avrebbe dovuto cercare il piedistallo, metterci il Manufatto del Signore dei Cieli e prendere il nuovo tassello del mosaico, ma le importava molto di più raggiungere un luogo abitato e ritrovare gli altri, in quel momento. Quindi, dopo aver sacrificato un altro goccio d’acqua per lavare le ferite ai polsi, spronò Cupcake e ripartì. Raggiunsero una distesa dove crescevano svariati saguari, i cactus messicani. Passandoci accanto, Cupcake si fermò e si fermò davanti ad uno di essi, fissandone la cima senza più obbedirle. Laura guardò e si accorse che avevano i fichi d’India sulle punte delle braccia.

«Ma allora sei viziato!» scherzò, scimmiottando una mamma che riprende un bimbo.

Ma alla fine venne la tentazione anche a lei, dal momento che adorava quei frutti, specialmente quando era piccola. Cercò di “parcheggiare” il pachicefalosauro accanto al saguaro, quindi cercò di mettersi in piedi sulla sella, concentrandosi sull’equilibrio. A questo punto, appoggiò una mano in una scanalatura senza spine e con l’altra afferrò il fico più vicino, tirandolo finché si staccò. La spinta all’indietro la fece quasi cadere, ma riuscì a restare in piedi. Sistemò il frutto nella bisacca e raccolse tutti gli altri alla sua portata. Finito il lavoro, tornò a sedere sulla sella e ne offrì uno a Cupcake, che lo mangiò in un attimo. Ne iniziò uno anche lei e lo gustò con calma, mentre procedevano. Le formazioni rocciose non erano finite, però erano più lontane le une dalle altre. Nei dieci minuti successivi, non successe niente di particolare, a parte il fatto che Laura avvistò uno stormo di avvoltoi imperiali che volteggiavano all’orizzonte, alla sua sinistra.

“Meno male che non devo andare là!” pensò.

Poco dopo, trovarono un pozzo. Non era una sorgente, era proprio un pozzo costruito da persone, con argano e secchio.

“Oh, perfetto!” esultò Laura, volendo riempire ancora la giara.

Vi si avvicinò, scese da Cupcake e, anche se con molta goffaggine, calò il secchio. Quando sentì che si era riempito, lo riportò su e ci riempì il contenitore d’argilla, bevve, riempì ancora e lasciò che Cupcake bevesse il resto. Quando risalì, però, il silenzio fu rotto da un verso che le fece gelare il sangue:

GRUUUUUNFRRRRRROARRRRRFFFF!!!

Era abbastanza lontano, ma lo sentì benissimo. Cupcake si voltò di scatto e lei vide una sorta di cinghiale più grosso di un cavallo che trottava verso di loro: un deodonte, il vorace e prepotente suino dell’Oligocene. Laura sbiancò a vederlo: si avvicinava molto rapidamente e sembrava arrabbiato. Emise quell’agghiacciante grido un’altra volta; Cupcake rispose con un breve muggito e sfregando una zampa sul terreno, ma non era del tutto convinto: Laura sentiva che aveva paura quanto lei. Il pachicefalosauro provò a rispondere un’altra volta alle sfide del deodonte, ma quando il suino fu a dieci metri da loro non si trattenne più e cominciò a correre dall’altra parte.

«Ehi! No! Cuppy, stai sbagliando stra… no!»

Laura fece il possibile per reindirizzarlo nella direzione giusta che, per fortuna, non era quella del deodonte. Si sforzò parecchio ed ebbe l’impressione che i tendini dei polsi stessero per schizzare fuori, ma alla fine riuscì a farlo svoltare. Cupcake correva sempre più veloce, tenendo la testa bassa per fare meno attrito con l’aria, ma il deodonte non era da meno: passò dal trotto al galoppo e non dava segno di lasciar perdere. La fuga proseguì così fino al letto di un fiumiciattolo in secca e Laura vide un altro cartello, identico a quello di prima, che puntava a destra. Laura era contentissima che ci fossero i cartelli fuori dalle strade; era chiaro che fossero pensati per i dispersi. Quindi fece girare Cupcake e il deodonte pure. Laura credeva che li avrebbe lasciati stare dopo un po’ per il semplice fatto che si trovavano nel suo territorio, come spiegato nell’enciclopedia, ma non accadde: il maiale infernale li inseguiva con sempre più foga. I casi erano due: o aveva tanta fame, o non aveva ancora un territorio fisso nel deserto. Ma non aveva importanza, perché ormai era vicinissimo: Cupcake correva più veloce che poteva, ma il deodonte, perdendo bava schiumosa e grugnendo come se fosse posseduto, stava per raggiungerlo. Laura andò nel panico quando il deodonte cercò di mordere la testa della sua cavalcatura in corsa. Cupcake schivò e sferrò una testata in risposta, che stordì l’inseguitore e fece volare qualche goccia di sangue, costringendolo a fermarsi. Era la seconda volta in un giorno che quel pachicefalosauro le salvava la vita. Laura tirò un sospiro di sollievo, ma lo ritirò quando, girandosi per controllare, scoprì che il deodonte era tornato a rincorrerli. Ma vide anche qualcos’altro: in lontananza, era apparso un terzo animale che si avvicinava ancora più in fretta. Poco dopo, vide che era sellato e riconobbe la persona che lo cavalcava; un ampio sorriso le apparve in faccia, anche se era deformato dalla paura.

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Una volta raggiunto il deserto, Rexar aveva seguito l’odore fino a trovare una scia di impronte che si vedevano con chiarezza: quelle di un pachicefalosauro. Quando erano passati dall’olmo con le gambe umane, non era stato difficile capire cos’era successo: Laura doveva essersi impossessata della cavalcatura. Doris non c’era più: arrivata a metà dell’auto-riparazione, era tornata da Mike per dirgli della cattiva notizia e finire di aggiustarsi. Il gruppo aveva lasciato che Acceber andasse avanti con Rexar, ora che Laura era alla loro portata. E così, semplicemente, la figlia di Drof aveva seguito le tracce fino a vedere il pachicefalosauro inseguito dal deodonte. Aveva quindi ordinato a Rexar di scattare. Quando raggiunsero il deodonte, Acceber saltò a terra e lasciò che il tilacoleo facesse il resto: Rexar atterrò l’ungulato con un balzo, slittò atterrando oltre, si rialzò, gli afferrò la gola e lo soffocò a morte. Laura, accorgendosene, fece fermare Cupcake e scese, correndo dall’Arkiana.

«Acceber! Dio santo, ti devo una marea di favori!» esclamò, piangendo di gioia.

«Oh? Ma no, non serve! Ti abbiamo trovata, conta quello! Eri nei guai, ti ho tirata fuori, fine»

«Dove sono gli altri?»

«Stanno arrivando, approfittane per calmarti: ansimi più di uno ienodonte!»

«Già, lo noto solo ora… ah, c’è mancato poco!»

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Come annunciato, i suoi amici arrivarono una dozzina di minuti dopo con Helena, Mei e Nerva. Chloe e Sam corsero subito da lei, felicissimi. Chloe la abbracciò molto forte, mentre Sam si limitò ad una delle sue possenti pacche, cercando di contenere l’entusiasmo per imbarazzo.

«Forza, raccontaci come hai preso per il culo quel demente con la bombetta!» la incoraggiò Chloe.

«Ti prometto che, appena lo incontriamo, gli spacco la faccia per te» rassicurò Sam.

«Parteciperò anch’io: non ho finito con lui» concluse Mei-Yin.

Dunque, Laura raccontò tutto, facendo crepare i due amici dal ridere quando parlò della stupidità della troupe televisiva. Helena, invece, sorrise con una punta di compiacimento alla parte in cui Cupcake si attaccava a lei per il bisogno di un padrone o di una figura “genitoriale”. Finito il racconto, Helena e Nerva parlarono di quella bizzarra incisione rupestre pre-arkiana, lasciando Laura di stucco.

«Dunque il mistero si infittisce... chi è che lo diceva? Non me lo ricordo più…» rimuginò Sam.

«Be’, non ci resta che fare una pausa dai Piedi Sabbiosi e ripartire, giusto?» chiese Acceber, sperando di aver capito bene e guardando nella direzione dei due cartelli visti da Laura.

Laura rifletté un secondo: l’esperienza su ARK era un continuo tira-e-molla: a momenti si pentiva di esserci voluta venire perché era un luogo mortale, in altre occasioni era grata a se stessa per star vivendo un’avventura di proporzioni praticamente storiche. Ora, più che mai, voleva scoprire cos’accidenti era il Tesoro di ARK e chi erano i Pre-Arkiani, così come Helena se l’era chiesto prima di lei.

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Capitolo 24
*** La nascita di una nuova specie (storia vecchia) ***


Quando Mike aveva scoperto che l’ostaggio era scappato e, peggio ancora, aveva portato via il manufatto e i tasselli, Doris era andata subito a recuperarla. Ma la bombetta tornò volando a fatica, col visore incrinato e un lato sfasciato.

«Ah! Doris! Stai bene? Mi senti? Rispondi! Non mi abbandonare così, sei tutto quello che possiedo!» gridò lui, terrorizzato.

«Errore: sistema strutturale danneggiato… auto-riparazione in corso…» Doris era del tutto stordita.

«Doris, che diamine è successo? Dov’è la biondina?»

«Grazie per aver scelto DOR-15! È pregato di lasciare un’impronta vocale»

«Doris, datti un contegno, per Dio! Che hai fatto?»

«Impronta vocale registrata. Buongiorno, signor Mike Yagoobian! Come posso esserle utile?»

Mike aveva un diavolo per capello, e meno male che ne aveva ben pochi. Le chiese un'altra volta, scandendo le parole, cos'era successo.

«Trovato... bersaglio. Pachicefalosauro... attaccato. Attendere per auto-riparazione. È consigliato di espormi ai raggi ultravioletti per velocizzare il processo...»

«Eh? Oh, certo, al Sole! Subito!»

«Qualcosa non va?» chiesero i documentaristi, che stavano mangiando fagioli in scatola davanti al fuoco.

«Eh? Oh, niente! Io e Doris abbiamo avuto un... ehm... problema tecnico. Devo portarla al Sole, così si aggiusta da sola» prese in mano Doris e salì su Girodue.

«Dov’è finita Laura? Doveva andare a fare pipì, ma non si è più vista!» chiese Vicky.

«Uh? Oh, Laura! Ecco, è complicato... sta bene, sta bene, ovviamente, è solo che ha una questione che vuole sbrigare e vuole farlo da sola e... di certo ci vorrà parecchio!»

«Bene. Anche noi ci muoviamo, tra poco: abbiamo avvistato un quezal in cielo, dobbiamo assolutamente farci una ripresa a parte! Non sappiamo quando torneremo, ma ne varrà la pena»

«Oh, fate più riprese che potete: più prove raccogliete, più diventerò... diventeremo ricchi e famosi a casa! Non morire, mi raccomando!»

Detto questo, Mike spronò Girodue e lo diresse verso qualche punto più in alto della montagna per mettere Doris al Sole. Cinque minuti dopo, finiti i fagioli, i documentaristi iniziarono a camminare nella direzione del quezal che avevano visto, seguendo quello che credevano un sentiero secondario, anche se in realtà non portava da nessuna parte.

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Proseguirono seguendo Vicky, che andava avanti disinvolta come se sapesse quella strada da tutta la vita. Per Phil non era un problema camminare con la telecamera in mano e l'occhio nell'obiettivo, ma Allan faceva abbastanza fatica con la giraffa (il microfono a ponte) nelle eventuali strettoie. Nell'ora che seguì, chiese cinque volte a Vicky se poteva riposare le braccia, ma lei rispondeva sempre che il quezal non aspettava.

«Però solo tu hai visto questo pterodattilo enorme! Sicura di non esserti fatta prendere troppo da questo posto e aver sognato?» si insospettì Phil.

«L'ho visto, lo giuro!»

«Sì, certo. E quando?»

«Prima di accamparci e andava in questa direzione. Magari ha un nido più in alto! Ora che ci penso, avrebbe potuto farlo Mike per noi, può usare quello pteranodonte... sellato e obbediente, poi! Anche su questo dovremo indagare! Che ne dite di una compilation di domande ai nativi come prossimo servizio, eh?»

«Si può fare» rispose Phil.

«Be', se è in alto, ti faccio notare che noi stiamo scendendo» protestò Allan.

Infatti, erano su un tragitto in discesa e si stavano addentrando in un boschetto di larici. Vicky non si scoraggiò:

«Ragazzi, basta fare scene! I sentieri di montagna sono fatti così, vanno su e giù, qua e là, ma portano sempre in cima!»

«Secondo me questo è tutto, tranne che un sentiero» bofonchiò Allan.

«Fatemi indovinare, ci siamo persi? Magnifico, soli a vagare a vuoto su un'isola a cui le Cinque Morti fanno un baffo lungo così! Cosa potrebbe andare storto, ora? Grazie, Vicky, sarai sempre la nostra bambina speciale!»

«Smettetela, frignate più dei mocciosi dell'asilo! Non è la prima volta che ci  siamo persi: ricordate quella volta in Islanda?» li rimproverò lei.

«Come dimenticarlo? Ho rischiato di dovermi far amputare i piedi per ipotermia!» si lamentò Phil.

«Perché vuoi vedere quel bestione alato così tanto? Abbiamo già tanti filmati di animali preistorici!»

«Non bastano, ne voglio tanti e li voglio filmati per bene: l'ultima cosa che vogliamo è una denuncia per fotomontaggio dopo tutta questa avventura»

«Oh, certo, perché Girodue sembra finto! L’ho pure dovuto accarezzare e mi ha guardato come se fossi la sua cena!»

«Anche la troupe di Vinicio tocca quello squalo con le macchie da leopardo in CGI nel loro programma spazzatura e lo fanno sembrare vero»

«Ma lascia perdere quell'idiota! Lui è solo...»

In quel momento, un fruscio tra i larici li interruppe. I tre si voltarono improvvisamente verso il rumore, con tutti i muscoli tesi. Poi si guardarono intorno, ma i rami dei larici si muovevano solo per il vento e non si sentiva una mosca volare. Cominciarono ad avere paura, quindi Vicky suggerì di fare finta di niente e proseguire.

«Sì, buona idea… una delle poche che ti sono venute finora!» commentò Phil, ricevendo un’occhiataccia.

Andarono avanti, tremando come foglie. Phil usava l’ingrandimento della telecamera per vedere se c’era un animale sugli alberi, ma sembrava che ci fossero solo loro. Allan cominciò a sentirsi a disagio:

«Vicky, non potremmo tornare indietro? Non mi fido a stare qui…» chiese.

«Dopo tutta questa strada? No e poi no! Al massimo, scopriamo cos’è che abbiamo sentito prima!»

«Ci porterai nella tomba, prima o poi…»

E sentirono ancora quel fruscio, stavolta seguito dal rumore di un legnetto spezzato. Capirono che veniva dal larice che avevano appena superato, quindi provarono ad osservare tutti i rami. Finalmente, Phil notò qualcosa:

«Ehi, Vicky, guarda là, sotto la cima! Che roba è?»

La donna controllò e vide un piccolo pterosauro con una testa enorme per il corpo esile che si ritrovava, una bocca dura come un becco e cosparsa di dentini appuntiti e una coda lunga e sottile, con una decorazione non piumata all’estremità. Lo riconobbe in fretta:

«Oh, un dimorfodonte!» esclamò.

«E… è pericoloso?» chiese Allan.

«Non lo so… facciamo un servizio lampo! State pronti…»

Quindi accese il microfono e, avvicinandosi, iniziò a fare la telecronaca, descrivendo la creatura e quanto se ne sapeva fino ad allora grazie ai fossili. Si avvicinò all’albero ma, quando lo raggiunse, il dimorfodonte emise un grido stridulo e piuttosto fastidioso, che durò una decina di secondi.

«Oh… cos’è, il bisnonno stonato dei canarini?» scherzò Allan.

«Allan! Non dovete farvi sentire, durante un servizio serio!» si infastidì Vicky.

«Vabbè, lo taglierò quando monteremo il tutto» la calmò Phil.

Pochi secondi dopo, i larici si agitarono e un intero stormo di altri dimorfodonti apparve sui rami, attirato dalla chiamata dello pterosauro. Tutti quanti fissavano i documentaristi con interesse… anche troppo. Poi scesero a terra e si avvicinarono zampettando… ormai li avevano circondati… cominciarono a mordicchiare l’aria, come se avessero appetito…

«Vicky, non trovi che sia il caso di…»

«Correte!» gridò lei.

I due uomini non se lo fecero ripetere due volte e la seguirono nella direzione da cui erano venuti, calpestando alcuni dimorfodonti. Gli pterosauri si infuriarono e si buttarono all’inseguimento, alcuni zampettando a terra, altri svolazzando di albero in albero. Alcuni li raggiungevano e mordicchiavano le loro spalle, ma scrollarseli di dosso non era poi così difficile. A un certo punto, Allan ebbe un impulso di eroismo e cominciò a colpire quelli che si avvicinavano troppo col microfono come se fosse una mazza. Vedendoglielo fare, Phil lo incoraggiava con un tifo improvvisato e Vicky lo esortava a correre senza perdere tempo.

«Ah, sì! Fottetevi! Prendete questo, piccoli bastardi! L’audio funziona, Phil, vedi?» gridava Allan, che ormai però non capiva quasi nulla dall’eccitazione e dalla fretta.


Alla fine svoltarono di lato (o meglio, Vicky lo fece, loro due la seguirono) e si buttarono in un fosso, per poi appiattirsi contro la parete.

«Un momento… a che serve venire qui? Siamo in trappola!» esclamò Phil, riflettendo un secondo.

«A me sembrava riparato…» protestò Vicky.

Aspettarono a occhi chiusi e denti stretti, aspettandosi di essere beccati a morte, ma non successe niente. Era pure tornato il silenzio. Aspettarono cinque minuti, prima di azardarsi a sbirciare oltre il bordo della buca. Sì, si sarebbe proprio detto che non li stavano più inseguendo.

«È… finita?» chiese Allan.

«Ah, forse ho capito: non ci stavano inseguendo davvero, ci stavano solo spaventando. Forse eravamo in un territorio o in un terreno di cova…» ipotizzò Vicky.

«Mi fa piacere! Phil, la ripresa è buona? Si è visto bene quanto sono stato figo?» chiese Allan.

«Puoi contarci, amico!»

E si batterono il cinque, ridendo e cercando di respirare con calma, perché stavano rischiando di farsi venire un infarto. Era ora che tornassero da Mike e lasciassero perdere il quezal…E fu allora che si accorsero di essersi persi definitivamente. Allora, una fortissima bestemmia e un insulto a Vicky echeggiò per tutta quanta la montagna.

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Jack e Rockwell stettero in silenzio quasi tutto il tempo, sulla via del ritorno. Il medico alternava momenti in cui guardava il terreno con tristezza a fasi in cui rimuginava borbottando e grattandosi nervosamente la barba. A guardarlo, Jack quasi si sentiva dispiaciuto: sapeva bene che tipo di delusione si poteva provare a vedere che, dopo tutto l’entusiasmo che si mette nel provare qualcosa di nuovo, i risultati erano completamente diversi da come ci si aspettava. Ma preferì non confortarlo e lasciare che gli passasse col tempo. Ad un certo punto, il medico smise di pensare e stabilì una volta per tutte che se ne andavano: avrebbero salutato e ringraziato la squadra di Diana, poi avrebbero cercato gli altri. Jack acconsentì in pieno. Certo, avrebbe preferito infinite volte andare via prima di disobbedire al divieto sull’Elemento liquido, ma ormai… Jack, allora, cambiò idea e decise di fargli almeno una consolazione: se non altro, anche se era finita in un vicolo cieco, aveva scoperto parecchie cose nuove. Rockwell lo ringraziò apaticamente per il sostegno e promise che, in cambio della collaborazione, avrebbe rivelato a Laura che Jack era attratto da lei se il ragazzo gli avesse chiesto di farlo. Jack diventò rosso come un pomodoro e rise con imbarazzo, uscendone con un “non dica assurdità!”. Ma si rese presto conto di essersi appena bruciato una carta formidabile. Comunque sia, alla fine tornarono alla base e si fecero teletrasportare dentro. Mentre si avvicinavano alla loro tenda, però, notarono che chiunque incrociassero li guardava in modo strano: sembrava che stessero dicendo loro “condoglianze” o qualcosa di simile. I due si guardarono terrorizzati, sospettando cosa potesse essere mai successo. Infatti, quando entrarono nella tenda, videro la loro paura confermata: c’erano Diana e Santiago, a fissarli. Lui era serio e teso, mentre lei fece rabbrividire Jack: dire che era furiosa sarebbe stato un eufemismo generoso. La rossa teneva gli occhi stretti al punto che sembravano due fessure, il suo viso era dello stesso colore dei capelli e teneva le labbra serrate e tremanti, come se stesse trattenendo degli sproloqui osceni.

«Ecco, noi…» iniziò Jack, d’istinto.

Ma Rockwell lo fermò con un cenno e dicendo:

«Fermo, le parlo io: mi prendo io la responsabilità – quindi, guardando lei, le rivolse le sue scuse – Signorina Altaras, so perfettamente cosa sta per dirci. Non ho saputo resistere alla tentazione di andare oltre quello che mi avete cordialmente spiegato voi e di scoprire quanto possibile sull’edmun… volevo dire, sull’Elemento TEK. Ho disobbedito alle vostre richieste, agendo in maniera infantile, e ripensandoci a mente lucida mi rendo conto di quanto insensate e puerili siano state le mie azioni. Avevate detto che me ne sarei dovuto andare se avessi fatto cose del genere… ebbene, intendo attenermi all’accordo. Vi ringraziamo per l’ospitalità, studiare la vostra tecnologia è stato unico. È tutto. Ora, se permettete…»

«Chiedo scusa anch’io: avrei dovuto fermarlo prima che fosse troppo tardi, ma come mio solito non ho avuto abbastanza fegato» aggiunse Jack, altrettanto mortificato.

Diana emise un lunghissimo sbuffo che trasudava tutta la sua rabbia. A momenti, Jack la trovò più spaventosa degli occhi dei troodonti che brillavano nell’oscurità. La donna fece qualche passo avanti e si rivolse a Rockwell:

«Lei adesso viene con me. Non voglio sentire ragioni»

Jack non avrebbe mai immaginato che la sua voce potesse diventare così minacciosa. Rockwell sospirò con vergogna e rispose:

«Sarebbe ridicolo da parte mia credere di poter replicare. La seguo, signorina Altaras»

«E io?» domandò Jack.

«Tu puoi stare tranquillo, resta qui» lo rassicurò Santiago.

«Perché?»

Diana, quando parlò con lui, si ammorbidì un po’… giusto un po’:

«Perché sappiamo bene che non sei il colpevole. Non quello principale, almeno. È chiaro come un nodo di Elemento corrotto in una distesa sterile, nella nostra epoca. Venga, Rockwell: abbiamo parecchio da dirci»

Rockwell annuì in silenzio e seguì Diana ad una delle strutture più grandi della base, dall’altra parte del campo. Allora Jack rimase solo con Santiago e i due finirono in un silenzio imbarazzante, in cui entrambi si sentivano intrappolati e a disagio: né l’uno, né l’altro osavano dire una parola o inventarsi qualcosa da dire per smorzare la tensione. Alla fine, Jack si fece coraggio e si decise a precisare un punto importante:

«Per la cronaca, ho cercato di fermarlo»

Santiago fece spallucce:

«Immagino. Però non è servito a granché, visto quello che avete nella tenda…»

«No, quello è stato un incidente. Non potevamo sapere che l’erba sarebbe diventata… quella cosa»

«Motivo per cui l’Inglese non avrebbe dovuto credere di poter tenere il TEK fluido sotto controllo. Voglio dire, è già un’impresa per noi…»

«Ci spiace»

«Mh-hmm. Però questa pianta non è un danno così grave: abbiamo visto che ha proprietà curative, per cui…»

«Eh, in effetti…»

«Ma il TEK fluido resta sempre troppo imprevedibile, quindi il danno resta»

«Saremo puniti? Incarcerati o… qualunque legge abbiate nel futuro?»

«No! Non ha senso coinvolgere gente dal passato. Ora Diana starà sfogando tutta la sua tensione latente con Rockwell, ma tutto quello che farà sarà scacciarvi definitivamente dal campo. In realtà era già sotto pressione per la responsabilità del comando: questa è stata una buona occasione per lasciarsi andare. Che resti tra noi, mi raccomando!»

«Certo, la capisco…»

Pochi minuti dopo, Diana e Rockwell riapparvero, osservati da lontano da tutti i soldati della base: nessuno di loro poteva resistere alla tentazione di curiosare. Diana sembrava meno paonazza, ma era comunque stizzita. Rockwell cercava di rimanere impassibile, ma la sua vergogna era palese.

«Spero di essere stata chiara» sospirò lei.

«Certo che lo è stata, signorina Altaras» annuì Edmund.

«Bene. Sapete cosa fare: raccogliete le vostre cose e andate via. Salutatemi Acceber, quando la incontrate»

«Lo faremo» le rispose Jack.

«Comunque, cos’avete fatto per creare quella pianta nella tenda? Non riusciamo a capire come sia partita la reazione»

«Il terreno ha assorbito delle gocce che si erano rovesciate e l’erba si è trasformata» spiegò Rockwell.


Diana e Santiago ne furono incredibilmente sorpresi. Si guardarono con gli occhi sbarrati, poi si avvicinarono e iniziarono a sussurrarsi all’orecchio. Jack colse diverse parole come “corruzione”, “ingestione”, “mutazione” e così via. Alla fine, i due soldati dal 2150 si degnarono di spiegare qualcosa: rivelarono che, di solito, le forme di vita che entravano in contatto con l’Elemento TEK non raffinato e usato per gli scopi umani impazzivano e venivano avvolte da appendici parassitiche di TEK, invece di mutare come quell’erba. Confessarono che il vero problema del mondo nel futuro era proprio questa diffusione incontrollata di Elemento pericoloso: da loro si chiamava “Corruzione”. Dovunque fuori da ogni città era stato intaccato: piante, animali persone… le creature corrotte erano come rabbiose: attaccavano indistintamente tutto quello che vedevano e diventavano come degli zombi, senza volontà, né controllo. Le piante corrotte avevano assorbito avidamente ogni nutriente dal suolo, motivo per cui la Terra era diventata sterile. E la Corruzione e la sua diffusione globale era il problema che gli scienziati dovevano risolvere perché le ARK artificiali potessero atterrare e seminare la vita che avevano accumulato negli anni. Ormai erano pochi gli animali liberi dalla Corruzione ed erano gelosamente custoditi in laboratori e riserve interne alle metropoli. Poi, ovviamente, c’erano gli animali domestici, al sicuro nelle case.

«Interessante, molto interessante… com’è successo?» Rockwell scattò subito sull’attenti, riscoprendo ancora una volta il piacere di ragionare sul TEK.

«Nessuno lo sa. I complottisti che Skipper prende tanto in giro sono convinti che i Governi abbiano dato inizio a tutto studiando il TEK fluido come facevate voi due, salvo poi farselo sfuggire e lasciare che si diffondesse sul pianeta. Per loro l’Elemento liquido è stato reso illegale per questo, cioè per evitare peggioramenti mentre noi lavoriamo sul replicare ARK» rispose Santiago.

«Quindi, tornando al punto, non capiamo perché quest’erba sia diventata qualcos’altro invece di corrompersi. L’avete fatto entrare in contatto con qualcos’altro, vero? Ditecelo subito! L’ultima cosa che ci serve è un’altra Terra nel posto che dovrebbe farcela salvare»

«L’abbiamo iniettato ad un dodo, ma è morto» rispose Jack.

I due rimasero straniti ancora una volta.

«…morto? Impossibile! L’Elemento non uccide, non si è mai sentita una cosa simile» disse Santiago.

«Eppure è quello che è successo, me ne sono accertato: è caduto a terra senza più polso nel giro di pochissimi istanti» raccontò Rockwell.

Ci fu un lungo ed imbarazzante silenzio; alla fine, Jack disse che era decisamente ora di tornare dai suoi amici: avevano perso abbastanza tempo. I due soldati li guardarono tutto il tempo in cui rimisero i loro oggetti a posto e smontarono la tenda. Diana chiese se potevano salutarle Acceber e Jack promise di ricordarsene. Rockwell chiese cos’avevano intenzione di fare con la pianta Z, a quel punto, e Santiago disse che, proprietà curative o no, era pur sempre una contaminazione di Elemento fuori controllo in un’area pura, quindi dovevano toglierla di mezzo a prescindere. Quando furono pronti, ringraziarono e salutarono per l’ultima volta e si avviarono verso il campo di forza. Al teletrasportatore, incontrarono di nuovo Sarah.

«Ehilà! Quindi… buttati fuori, eh?» chiese, imbarazzata.

«Già» rispose Jack, mogio.

«Peccato, sembravate simpatici, soprattutto tu!»

«Oh! Ehm… grazie» rispose il ragazzo, arrossendo.

«Ho un pensierino per voi: una dose extra di sballa-mente! L’avete già provato, vero? Forte, eh?»

«Oh, sì! Diciamo che è… intenso»

«L’ha provato solo lui, io ho ancora qualche titubanza» precisò Rockwell.

«Capito. Vabbè, buona fortuna col vostro viaggio! Dovete trovare un… tesoro, giusto?»

«Sì, sospettiamo che possa essere alle origini di tutte le caratteristiche uniche dell’isola» le ricordò Edmund.

«Figo! Fateci sapere se lo scoprite, eh? Diana vi ha cacciati, ma sotto sotto era interessata. Magari ci serve!»

«Senz’altro»

E così finì la loro pausa alla base dell’URE. Mentre camminavano, contattarono gli altri e si aggiornarono sugli ultimi fatti. Jack era contento di sapere che Laura era stata ritrovata e Rockwell, che aveva deciso di pensare il meno possibile al TEK per non farsi bruciare troppo la delusione, tempestò Helena di ipotesi e domande sulla strana incisione rupestre dei Pre-Arkiani. In ogni caso, ebbero conferma di dove potevano ritrovarli, ovvero all’avamposto secondario dei Piedi Sabbiosi. E così Rockwell pensò di tornare dagli Alberi Eterni, così avrebbero sia restituito l’attrezzatura ad Ellebasi e preso un quetzal o un diplodoco per il deserto. Dunque, partirono. Per andare alla foresta di sequoie, dovettero per forza tornare alle praterie, dallo stesso punto in cui avevano fatto l’esperimento sul dodo. Avendo occasione per farlo, Jack non resisté alla tentazione di guardare il corpo del povero uccello… peccato che non ci fosse più nessun corpo. Basito, lo fece notare a Rockwell:

«Ehm… il nostro dodo non c’è più!»

«Perché ti sorprende? Potrebbe essere stato portato via da un carnivoro»

Jack si sentì ingenuo a non averci pensato e pensò di essersi spiegato tutto. Ma poco dopo si accorse anche, con la coda dell’occhio, che qualcosa invece c’era dove il dodo era morto: una pozzanghera viola. Viola come l’Elemento liquido.

«E quello cos’è, allora?» chiese, indicando la pozza.

Appena la vide, Rockwell si precipitò subito a controllare e Jack lo seguì a ruota. Ne rimase affascinato e ne fu preoccupato allo stesso tempo. Quello che si chiese ad alta voce subito dopo fece raggelare il sangue ad entrambi al solo pensiero: e se davvero fosse mutato come l’erba, se Diana e Santiago avessero avuto ragione quando avevano detto che non poteva essere morto? La loro paura fu subito confermata quando notarono che a breve distanza da lì partiva una serie di impronte. Rockwell, garantendo di aver imparato a riconoscere le tracce di tutte le specie arkiane grazie agli insegnamenti di Ellebasi, affermò che non se n’erano mai viste di simili. Ormai era ovvio che il dodo fosse diventato qualcos’altro… ed era poco probabile che fosse qualcosa di buono, com’era stata la pianta Z. Senza dirsi una parola, cominciarono a seguirle quasi d’istinto. Avendo ancora le lance improvvisate che Rockwell aveva fabbricato dopo l’incidente al fiume, le presero e le tennero pronte, sperando che bastassero in caso di incontri spiacevoli. Le tracce erano fresche e facili da seguire: segni nel fango, erba schiacciata… mentre cercavano trovarono due velociraptor morti: erano pieni di profondi squarci e buchi lasciati da una punta: ferite lasciate da artigli e un becco. Qualunque cosa fosse successa a quel dodo, ora era molto combattivo e letale. Spaventati, ma spinti dalla curiosità, andarono avanti fino ad un gigantesco salice piangente. Le tracce si interrompevano proprio davanti al tronco. Il che significava che… entrambi furono colpiti in testa da grosse gocce calde cadute dai rami. Si pulirono i capelli e guardarono cos’aveva sporcato le loro mani: sangue. Terrorizzati, guardarono in alto e quasi svennero dall’orrore: in alto, in mezzo alle fronde del salice, un uccello mostuoso stava spolpando un compsognato, che aveva portato lassù dopo averlo preso. Era così impegnato a mangiare che, per fortuna, non li notò. Dunque ebbero modo di osservarlo: aveva una corporatura snella e atletica, senza più penne. Potenti zampe posteriori da struzzo e piccole ali verdi atrofiche, simili a quelle di un pipistrello. La pelle a scaglie era giallo limone, decorata da motivi leopardati. Il collo lungo e flessibile reggeva una spaventosa testa adornata da un collare di pelle rosso fuoco che girava tutt’attorno al capo come un ventaglio. Ogni tanto, dal lungo becco da rapace, usciva una lingua da serpente; senza scordare i due canini da vampiro che si intravedevano bene anche quando il becco era chiuso.

Ecco cosa l’Elemento aveva fatto ad un dodo. Rockwell aveva fantasticato sul fatto che un essere così goffo e indifeso avrebbe avuto modo di evolversi in qualcosa di superiore con un salto di milioni di anni, ma sempre di fantasticherie si trattava. Eppure, in qualche modo, ci aveva proprio azzeccato. Peccato che questa “versione superiore” era così forte e feroce da aver squartato dei velociraptor senza farsi un graffio. Jack sentì le gambe tremargli e le sue mutande bagnarsi. A quel punto, l’emozione ebbe il sopravvento e il giovane iniziò di colpo a correre nella direzione opposta più veloce di un gallimimo, spinto oltre ogni limite dall’adrenalina. Rockwell stava per gridargli dietro, ma si fermò in tempo per non allertare il dodo mutante e lo seguì più in fretta che poté, ignorando il dolore alle ginocchia. Mentre correvano, sentirono un raggelante stridio, che si sentì per tutta la prateria. Pareva un misto fra il canto di un gallo e lo strillo di un’aquila. Si voltarono, credendosi inseguiti, ma no. Forse, notandoli, il mostro non aveva avuto voglia di smettere di mangiare e li aveva solo avvertiti. Jack corse a perdifiato fino ad una macchia di cespugli, in cui si tuffò praticamente di testa e vi si rintanò con le mani tremanti. Cercò di controllarsi, si sforzò di respirare piano e si vergognò di essersela fatta addosso. Ma non era stata la creatura in sé a fargliela scappare, era stato un altro dettaglio: era lo stesso uccello mostruoso che aveva visto nel viaggio mentale! Sul serio lo sballa-mente gli aveva mostrato il futuro? Ma allora… voleva dire che aveva qualche speranza di raccontare a Laura quello che aveva visto su di lei? Pensarci gli cancellò il terrore senza che se ne accorgesse. Rockwell lo raggiunse che era mezzo morto e paonazzo, riportandolo alla realtà.

«Cielo, ragazzo, faresti invidia a quello che ero io alla tua età! Da dove veniva quell’energia?» esclamò, zuppo di sudore.

«La paura fa venire i super-poteri, immagino» rispose Jack, ridacchiando.

«In ogni caso, dobbiamo assolutamente avvertire Diana! Non importa se non ci fanno entrare, devono sapere! Dannazione, e io che pensavo di non poter far degenerare oltre la situazione…» si lamentò Rockwell.

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Quando raggiunsero di nuovo il campo, Sarah era ancora vicino al teletrasportatore per l’esterno, dunque i due poterono chiedere a lei se poteva portare lì Diana. La ragazza con la tinta verde andò subito di corsa e, poco dopo, il tenente Altaras apparve di nuovo di fronte a loro. Vedendo le loro facce sconvolte, capì subito che non erano tornati per un’inezia. Jack, cercando di non farfugliare per il panico, le raccontò di cos’avevano scoperto. Lei ascoltò e, finalmente, i conti le tornarono: le pareva strano che l’Elemento avesse ucciso un corpo ospite. Ma ancora, non si spiegava perché ci fosse stata una mutazione fisica e non la Corruzione.

«Grazie molte per averci avvisati subito. Provvederò subito a mandare una squadra per cancellare ogni traccia di Elemento fuori controllo, prima che faccia troppi danni…»

Jack sospirò di sollievo, convinto che la questione fosse risolta. Invece no: Rockwell intervenne all’improvviso e tirò fuori la più grande ed insuperabile idiozia che potesse mai sentire.

«Aspetti, signorina Altaras…»

«Eh?»

«Se permette, potremmo offrirci noi di eliminare quell’essere»

«Cosa?!» sobbalzò Jack, stravolto e indignato allo stesso tempo.

«Seriamente?» chiese invece Diana, quasi scoppiando a ridere.

«Dico sul serio. Quello che ho fatto va davvero oltre ogni limite del vergognoso e non potrò mai perdonare me stesso per queste azioni sconsiderate, a meno di non rimediare di persona al disastro che ho fatto»

Diana lo fissò, appoggiando le mani sul campo di forza, e sorrise:

«Senta, io capisco che è un gentiluomo alla britannica e quindi ha un senso morale della miseria, ma offrirsi di fare il lavoro della mia squadra senza il nostro TEK è come organizzarsi il funerale da solo! Perché no, io non ho alcun’intenzione di fornirvi armature e armi all’Elemento, non dopo questa faccenda»

«Ecco, infatti! Dottore, che cacchio le è saltato in testa? Suvvia, possono fare da soli! Forza, andiamo: c’è tanta strada da fare…»

Jack fece leva sulle parole di Diana per salvarsi la pelle, iniziando pure a trascinare Rockwell per un braccio, ma il medico si liberò dalla sua presa e si avvicinò a Diana, cominciando ad argomentare:

«A dire la verità, il semplice fatto di trovarmi su ARK dovrebbe equivalere ad un suicidio. Eppure, ci ho vissuto per un lunghissimo periodo senza difficoltà. Anzi, ho trovato un impiego utile per i locali! Inoltre da giovane ero un appassionato di esplorazioni e caccia di animali pericolosi, per cui sono assolutamente sicuro di questa mia decisione. Non le sto chiedendo di fidarsi di me, signorina Altaras, le sto chiedendo di dare per scontato che io e il ragazzo avremo successo per voi!»

«No, eh? Perché devo esserci sempre anch’io? Non è giusto! Io sono qui per trovare un “Tesoro” coi miei amici e basta, non ho mai chiesto di farmi uccidere con lei!» si lamentò Jack, disperato.

Ma ormai Diana, contro le sue aspettative, sembrava star abboccando: rimase zitta a riflettere, arricciandosi i lunghi capelli rossi con l’indice, poi rispose:

«Sapete cosa? Ci sto. Mi ha incuriosita, Rockwell: voglio proprio vedere cosa combina!»

«No!» gridò Jack.

«La ringrazio molto, signorina Altaras! Andiamo, ragazzo, abbiamo un dovere»

E partirono, Rockwell spavaldo e a testa alta, Jack disperato e con le mani nei capelli.

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«Cosa?! Perché hai accettato?» sobbalzò Skipper, quando Diana andò dai suoi compagni ad avvertirli.

«Perché l’idea mi divertiva» fu la risposta.

«Ma… così li condanni a morte!»

«Gliel’ho detto, ma mi hanno garantito di essere all’altezza, quindi peggio per loro. E poi credete che sia così stronza da abbandonarli a loro stessi? No! Mentre voi continuate il lavoro, io li terrò d’occhio di nascosto. Se si troveranno in grave pericolo, li soccorrerò. Affiderò il comando a Santiago, in questo frangente»

Questi le si parò davanti, contrariato:

«Diana, no! Non è professionale! Hai idea di cosa ti farebbero i superiori se sapessero che hai tralasciato la prassi per spassartela con due “civili”?! Abbiamo tutti bisogno di te, qui!»

«E chi ci obbliga ad aggiungere questa storia nel rapporto?»

Santiago non seppe ribattere.

«Andrà tutto bene, rilassatevi!»

Tutti i presenti fecero spallucce e tornarono alle loro solite attività, anche se erano distratti dal pensiero di ciò che stava succedendo ultimamente. Chi si sarebbe mai aspettato un casino simile da due ospiti? I sorveglianti della cisterna di Elemento liquido si sentivano molto in colpa, erano davvero sorpresi di non essere stati ancora strigliati e fustigati.

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Jack non era arrabbiato, di più. Come si permetteva Rockwell di coinvolgerlo di nuovo in una follia (stavolta, per giunta, letale) senza preoccuparsi di chiedere la sua opinione in merito? Si maledì mille volte per essere troppo passivo e indeciso per opporsi quando era il caso. Per questo si era sempre sentito al sicuro in presenza di Sam, Laura e Chloe: gli davano forza interiore. Da solo era così chiuso in se stesso che, a momenti, non si sarebbe battuto nemmeno per difendersi se l’avessero condannato a morte per nulla. Quindi si limitò a seguire Rockwell senza dire una parola, anche se la sua faccia indicava con chiarezza che era irritato. Rockwell, ad un certo punto, volle dare un nome al mutante:

«Secondo te come potremmo chiamare questo frutto dell’edmundio?»

«Ha importanza?»

«Tutto ha importanza, giovanotto!»

«Non saprei… forse “dodo brutto”?»

«No, non è professionale. Magari un nome tecnico dal greco o dal latino…»

«E se invece usassimo un nome mitologico? Nei film di fantascienza dànno nomi mitologici a tutto, ormai»

«Mitologico? Ma certo!»

«Eh?»

«Si chiamerà “coccatrice”»

«Cos’è una coccatrice?»

«Pffff, e poi Helena mi critica quando dico che i giovani non hanno più una cultura! Nell’immaginario medievale, la coccatrice era un uccello con alcuni tratti da rettile, che nasceva se una gallina covava un uovo di serpente per sette anni. Il nostro dodo evoluto somiglia parecchio a molte sue immagini, per cui calza bene»

«Oh, capito! Però si deve avere davvero tanta fantasia, per dire che una gallina covava un uovo di serpente per sette anni come se succedesse tutti i giorni!»

«Era il Medioevo, non c’è di che sorprendersi»

Raggiunsero il salice di prima e trovarono presto una nuova pista. Cominciarono a seguirla, Jack si ricordò di fare un triplo segno della croce nel mentre.

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Capitolo 25
*** Le mantidi a Nosti (storia vecchia) ***


Acceber spiegò a Laura che il cartello che aveva letto indicava la strada per il villaggio principale dei Piedi Sabbiosi, ma in realtà il centro abitato più vicino era il loro avamposto, costruito su una piccola isola rocciosa sulla punta nordorientale di ARK, collegata all’entroterra da due ponti naturali di arenaria: uno dei panorami più curiosi e suggestivi di ARK. Quando ci arrivarono (ovviamente Nerva fu lasciato a debita distanza), per aiutare Laura a godersi un meritato riposo, Helena e Mei suggerirono di restare un po’ fra loro giovani a rilassarsi, mentre loro andavano alla diplo-stazione per vedere se c’era un diplodoco disponibile per un trasporto diretto al villaggio principale. I ragazzi, allora, andarono in taverna e ordinarono un abbondante pasto a base di verdure fresche condite con salse fatte in casa che l’oste definiva “la ricetta segreta”. Normalmente, Laura avrebbe cominciato subito a provare ad indovinare coi suoi amici di cosa fosse fatta quell’invitante salsa densa e arancio, freschissima e dissetante quasi quanto l’acqua, ma in quel momento voleva solo recuperare tutte le ore di digiuno forzato a causa della prigionia con Mike e dimenticare l’uomo con la bombetta. Sam provò ad attaccare bottone dicendo che non l’aveva mai vista così vorace, ma lei lo ignorò e, in un minuto, svuotò il piattone di verdure assortite che aveva davanti. Offrì Acceber, anche se Laura le disse di non disturbarsi. Poi, per divertirsi un po’, Acceber fece una proposta, ammiccando:

«Ditemi, voi stranieri pensate di essere forti di stomaco?»

«Be’, quando ci siamo laureati abbiamo festeggiato andando in un posto dove vendevano i peperoncini più piccanti al mondo e abbiamo provato a mangiarli… penso di aver perso qualcosa come dieci chili per quanto ho sudato, ma anche gli altri non scherzavano! Alla fine, però, siamo riusciti a cavarcela…» raccontò Chloe.

«Tranne Jack, ovviamente: ricordi quanto vomito rosso ha versato nel gabinetto?» ricordò Sam.

«Ah… che dire, l’avevamo previsto!»

«Pensi che su ARK ci sia qualcosa di peggio, Acceber?» chiese Laura, finalmente a pancia piena.

«Sappi che non si tratta di piccante, si tratta di sapori forti!» rispose l’Arkiana.

«Uhm… che dite, accettiamo?» chiese Laura.

Gli altri due fecero spallucce e allora la sfida fu raccolta. Allora Acceber, quando passò un cameriere, gli chiese una caraffa d’equiseto a testa. Laura conosceva molto bene l’equiseto: è una pianta molto diffusa, ma a meno che non si studi paleontologia come lei non ci si fa tanto caso. Durante un master in Europa, aveva visto intere collezioni di lastre di pietra con incise le impronte fossili di questa pianta simile ad una coda di cavallo. Non la soprese che gli Arkiani ci facessero una bevanda: era uso anche in passato. Ma nessuno di loro aveva mai sentito che sapore aveva… stavano per scoprirlo. Così furono serviti loro quattro boccali pieni di una bevanda verde pisello e abbastanza densa, come un frullato di frutta. Acceber prese il suo e li invitò a fare altrettanto.

«Pronti? Via!» e trangugiò tutto il contenuto del boccale in un fiato, come se fosse acqua.

Vedendola così disinvolta, anche loro se lo versarono in bocca in quantità, ma se ne pentirono subito. Quella roba era orribilmente amara, faceva venire da vomitare. Laura pensava di annegare in quell’asprezza: se il rabarbaro era amaro, l’equiseto era dieci volte peggio. Chloe l’avrebbe paragonato a bere candeggina e soda caustica insieme. Sam si sforzò di fare il duro e resistere, ma dopo tre sorsi si arrese anche lui. Pochi secondi dopo, erano tutti sfiatati e con la lingua fuori, che tossivano e bevevano dalle borracce per sciacquarsi la bocca. Acceber rise di gusto:

«Ma come, avete già ceduto? Andiamo, su!»

«Che pretendi? Tu sei abituata!» protestò Chloe.

«No, questa è appena la terza volta che ci provo! Siete voi che ne avete provato un goccio e già vomitate i polmoni!»

In quel momento, furono raggiunti da Helena, che annunciò di aver trovato e prenotato un diplodoco. Sarebbe partito poco dopo, quindi dovettero pagare sette ciottoli a testa per l’equiseto e avviarsi. Le bestie erano alla stalla comune a rimpinzarsi e Cupcake, appena vide la sua padrona adottiva all’ingresso, sollevò subito la testa dalla mangiatoia e le corse incontro: voleva stare da solo il meno possibile.

«Sembra che gli stia più simpatica di quanto pensassi! Credo che anche tu debba iniziare a prendere seriamente il vostro rapporto… sai quanto è stato emozionante empatizzare con Atena?» le disse Helena, con un sorriso ammirato.

«Davvero? Uao… ti sto così simpatica, bello?» gli acarezzò il collo e lui le strofinò la guancia col muso.

«Oooooh, è come un cagnolone preistorico!» commentò Chloe.

Laura, allora, ebbe un’idea:

«Acceber, mi insegni a gestire una cavalcatura come fate voi Arkiani?»

La figlia di Drof rimase sorpresa e colta alla sprovvista allo stesso tempo e si strofinò nervosamente il collo in cerca di una buona risposta:

«Oh… ehm… volentieri! Però spero di saperti far fare tutto, non sono ai livelli di mio padre… certo, mi ha fatto vedere un sacco di cose, ma ho sempre solo Rexar per ora e non…»

«Fa niente, mi va bene qualunque cosa!»

«Oh… d’accordo, allora! Quindi… comincio quando arriviamo al prossimo villaggio?»

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Il diplodoco avanzava placidamente lungo la larga strada battuta che aggirava il cuore rovente del deserto e fiancheggiava la costa, ricollegandosi al villaggio dei Piedi Sabbiosi. Il piccolo corteo delle bestie dei passeggeri che ne avevano gli stava sotto la pancia per stare all’ombra, tranne quelle che erano più abituate a quel clima torrido, come Rexar. I tilacolei, infatti, non vivevano solo nella foresta di sequoie, ma anche nelle zone rocciose e collinari del cantone arido. Chloe era seduta sul lato che dava sulla costa e osservava meravigliata il contrasto fra il dorato della sabbia e il blu cobalto dell’oceano. Ogni tanto degli ittiosauri saltellavano fuori dall’acqua in fila per tre ed era uguale a guardare i delfini in Australia, il che le faceva venire nostalgia di casa. Riuscì anche ad intravedere la pinna dorsale di un megalodonte che si aggirava per la superficie. Helena, seduta accanto a lei, la aiutava a riconoscere le varie specie di pesci, uccelli marini e, eventualmente, bestiole da spiaggia che si vedevano dal diplodoco ed era alquanto divertente. Sopra il sauropode volteggiava uno stormo di avvoltoi imperiali che, ormai da generazioni, avevano preso l’abitudine di “elemosinare” dai passeggeri dei pezzetti di carne o ossicini per fare meno fatica che cercare carcasse. Sam volle provare una volta e si fece prestare una striscia di carne secca dal suo vicino di sedile: aspettò che un avvoltoio gli si avvicinasse per lanciarlo, ma aspettò un po’ troppo e rischiò di farsi cavare l’occhio. Per fortuna, però, si ritrovò solo con la faccia coperta di penne.

«Quindi, visto che tu sarai occupata ad empatizzare con… Cupcake, potremmo dividerci ancora un momento: voi prendete il nuovo manufatto dal capovilaggio e vi riposate ancora un po’, più questo esercizio con Acceber, noi portiamo quello che l’uomo con la bombetta ci ha rubato al piedistallo. È un problema per te, Mei?» chiese Helena.

«Scherzi? No! Anzi, faremo ancora più in fretta… - vedendo lo sguardo triste che Laura le rivolse, si corresse in un baleno – Ehm… ovviamente non sto dicendo che voi ragazzi ci date fastidio! È solo un fatto»

In quel momento, però, Chloe notò qualcosa di molto strano in mare. Non era un pesce e non era una pinna dorsale, ma senza ombra di dubbio era quello che le era sembrata a prima vista: una cresta. Spuntò piano piano dall’acqua e iniziò a fendere la superficie seguendo la linea della costa, procedendo più o meno alla lentezza del loro diplodoco. Quando emersero del tutto, Chloe richiamò l’attenzione degli altri e tutti i passeggeri del diplodoco (cocchiere incluso) si voltarono a guardare a bocca aperta quella cosa misteriosa. Laura provò a chiedere ad Acceber o agli altri Arkiani, ma nessuno seppe dirle di che creatura si trattasse. Erano tre file parallele di placche ossee triangolari, dai bordi sottili e frastagliati. Le placche delle file esterne erano più piccole di quelle della fila al centro. Diventavano sempre più grosse man mano che proseguivano dall’estremità destra a quella sinistra, per poi tornare piccole all’altro capo. Il fondo si muoveva sinuosamente a destra e sinistra: la creatura nuotava agitando la coda. Erano tutti così allibiti che il cocchiere smise di stare attento alle redini: il diplodoco, ormai, avanzava da solo per abitudine. Sam le trovava mostruosamente familiari.

“Io conosco quella cresta… più la guardo, più mi sembra… no, che diamine penso?"

Aveva una vaga idea di cosa potesse essere, per l’incredibile somiglianza, ma scacciò a forza il pensiero perché lo trovava troppo assurdo. Alla fine, la cresta si immerse e scomparve com’era apparsa di colpo. La gente continuò a fissare l’oceano con gli occhi sgranati, poi, quasi vergognandosi di ciò, tornarono a pensare ciascuno ai fatti propri. La notizia sarebbe comunque girata e non l’avrebbe di certo ignorata nessuno. I ragazzi si guardarono con muta meraviglia, poi alzarono le spalle e pensarono:

“Be’, questa è ARK, in fondo…”

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Adesso Laura si trovava in un largo recinto pieno di attrezzi e ostacoli per allenarsi alla cavalcatura delle bestie, come una pista per cavalli. Mentre Sam e Chloe andavano dal capovillaggio a reclamare il manufatto, Acceber cercava di allenare Laura a cavalcare il pachicefalosauro. Prima di tutto, le insegnò a regolare la velocità: un colpetto leggero con le caviglie sui fianchi per la camminata, due per il trotto e tre per la corsa. Laura non si ricordava più niente di quel poco di equitazione che aveva fatto in vita sua, ma non ci voleva un esperto per notare quanto fosse simile all’allenamento dei cavalli: in due parole, erano solo animali diversi. Di certo, con quelli acquatici, giganteschi e alati ci voleva un altro approccio, ma ci avrebbe pensato in un altro momento. Acceber, sempre affiancandola, le fece fare cinque giri piano, tre a velocità media e uno in corsa.

«Però, è già ad un livello niente male! Mi sa che possiamo permetterci di saltare certi passaggi…» constatò.

«Be’, deve aver imparato dal suo vecchio padrone» ragionò Laura.

«OK, ora passiamo a come dare ordini rapidi, facili da capire e validi per qualunque creatura!»

«In che senso?»

«Be’, è logico: se un carnivoro ti sta puntando, non puoi certo perdere secondi preziosi a dire un’intera frase! Per questo i nostri antenati hanno inventato il sistema dei fischi»

«Interessante…»

«Già, davvero. Sai fischiare?»

«Sì, anche piuttosto bene»

«Benissimo! Allora ascolta bene i miei e cerca di impararli a memoria: ti salveranno la vita molto spesso»

Laura scese da Cupcake e, nei successivi minuti, Acceber le fece provare tutti i tipi di ordine che si potevano dare fischiando: con una nota che di primo acchito si poteva definire “d’invito”, l’animale cominciava a seguirla a distanza ravvicinata dovunque camminasse. Con lo stesso suono, ma con una nota alta alla fine, si fermava. Poi, con un doppio fischio che pareva quello che fanno gli uomini alla vista di una bella donna, si diceva alla cavalcatura di sedersi o sdraiarsi. A proposito di ciò, Acceber spiegò anche che nel caso dei megalosauri c’era anche un fischio speciale per dare loro il permesso di dormire. Laura seppe imitarli molto bene e Cupcake, in più, aveva l’aria di starsi divertendo, quindi tanto meglio. Alla fine, Acceber li accompagnò fino ad una serie di piloni di legno e fantocci in paglia che gli animali usavano per fingere di combattere. Acceber fece un fischio che sembrava un avvertimento e Cupcake, abbassata la testa, caricò il pilone che avevano scelto, lasciandoci una grossa ammaccatura. Laura riprovò e Cupcake non sembrò molto convinto: la guardò inclinando la testa e rimanendo confuso. Acceber le disse che non ci aveva messo abbastanza “arrabbiatura”, con un risolino. Laura dovette riprovare altre cinque volte, prima di farsi obbedire. Alla fine, visto che era praticamente già a posto, rimaneva una cosa da fare:

«Hai notato quella cinghia allentata arrotolata accanto alla sella?» chiese Acceber.

«No, onestamente…» rispose Laura, imbarazzata.

«È un’esclusiva dei pachicefalosauri e dei volatili. Nessun altro animale da carica lo fa nel modo violento e concentrato di loro, quindi puoi ben immaginare che se glielo fai fare mentre lo cavalchi ti ritrovi metà isola più lontano per lo sbalzo, una volta che colpisce. Ed è per questo che è stata aggiunta quella»

Quindi fece rimontare Laura e le legò quella strettissima cintura alla vita. Le disse di tenere saldissime le due redini, coprimere le gambe contro i fianchi e serrare i denti per evitare di mordersi la lingua. Quindi spostarono Cupcake fino ad un macigno che i velociraptor usavano per esercitarsi a balzare e scalare e lo misero nella giusta posizione. In quel momento, arrivarono anche Chloe e Sam col manufatto. Vedendo Laura così, nel bel mezzo della folla che si esercitava, si incuriosirono e rimasero sulla staccionata per vedere che faceva. Laura prese tutte le precauzioni date dalla sua “maestra”, fece il fischio e strinse i denti spingendo la lingua contro il palato subito dopo. Il pachicefalosauro muggì e partì in corsa, andando sempre più veloce e facendole venire una scarica di adrenalina sentendo l’aria che le sferzava la faccia. Quando ci fu l’impatto con la roccia, Laura fu proiettata in avanti, bloccandosi subito grazie alla cintura. Ma la cinghia le schiacciò così tanto la pancia che non fece altro che tossire senza riuscire a parlare per più di cinque minuti. E la tosse peggiorò quando notò che alla staccionata Sam e Chloe ridevano di gusto e con loro Acceber, anche se lei almeno si copriva la bocca con una mano.

“Chissà come se la passano Helena e gli altri, intanto…” si disse.

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«Uff, in questo deserto si soffoca… non mi abituerò mai a questo caldo! Mi manca la brezza di montagna del mio villaggio…» si lamentava maliconicamente Mei-Yin.

«Cosa? L’ultima volta che me ne hai parlato hai detto che era nella foresta» rispose Nerva.

«Sì, certo, una foresta di montagna. Ricordo che, da piccola, quando sapevamo di non rischiare un attacco dei Turbanti Gialli, io e altre bambine andavamo nelle radure a dar da mangiare ai panda»

«Cavolo, questo dettaglio è così tenero che non sembri nemmeno tu, Mei!» scherzò Helena.

«Quando passi la vita combattendo, è ovvio che dimentichi la tenerezza» sospirò la guerriera.

«Comunque, io sono decisamente a posto coi deserti: sapeste quante spedizioni ci ho fatto, tra l’Outback e il Namib! Ciò non toglie che sia una tipa costiera, però… viaggiare per il mondo a studiare gli animali aiuta a farsi crescere i peli nello stomaco. E tu, Gaius?»

Il Romano alzò le spalle:

«Non sono stato in tutte le province dell’Impero, ma nel periodo dopo la promozione a decurio sono stato a Cartagine. Avevamo un castra nel deserto per tenere a freno i saccheggi dei predoni ed era lì che il caldo si faceva sentire»

«Eh, vabbè, ma lì è mitigato dal vento di mare, come qui! Hai idea di come sia il centro dell’Australia?»

Mentre i tre compagni conversavano e marciavano verso le formazioni rocciose che torreggiavano al centro del deserto, anche i velociraptor si parlavano a modo loro: Usain e Hei si scambiavano uggiolii e scuotevano le code come segnali, Ippocrate si affilava gli artigli della zampa anteriore, poi si faceva aiutare da Alba a pettinarsi le penne e così via. I velociraptor erano così abituati a socializzare e organizzarsi fra loro, da crearsi dei “branchi” anche in cattività, non importava quanto e quando stavano insieme. Così, ridendo e scherzando, al tramonto, il quale dava un’atmosfera talmente magica e incantevole ai dintorni che Helena l’avrebbe osservato in silenzio per sempre, arrivarono ad una convergenza delle gole scavate tra le formazioni rocciose ed ecco che arrivarono alle rovine pre-arkiane, che per qualche motivo i Piedi Sabbiosi chiamavano “Nosti”, un nome che in arkiano non esisteva e non significava nulla.

«Giusto per sfizio, guardatevi bene intorno: se vedete incisioni come quelle alla montagna, avvisatemi. Voglio sapere di più su questa storia!» chiese Helena.

«Io mi preoccuperei più che altro per dei predatori, in tutta onestà» disse Mei.

Mentre si aggiravano per gli edifici antichissimi e ormai ridotti in macerie, Nerva fece notare quanto facessero pensare alle abitazioni egizie: struttura quadrata, tetto-terrazzo piatto, muri bianchi… dunque era quello lo stile a cui i Pre-Arkiani si erano ispirati in quel bioma. Arrivarono al piedistallo ed Helena, scesa da Usain, mise il manufatto sottratto all’uomo con la bombetta e lo ruotò come di consuetudine. Si aprì la fossa con la nicchia e lei scese a prendere il nuovo tassello del mosaico. Poi, però, si ricordò che Mei e Gaius non avevano visto il portale che conduceva a Machu Picchu, avevano solo sentito il racconto; le venne quindi la tentazione di vedere dove portava quel sito, ma Nerva la riportò alla realtà indicandole qualcosa: in effetti, una curiosa incisione era presente, sul muro della casa più vicina al cerchio di colonnine attorno al piedistallo.

«Ma quello non è un pittogramma, è un messaggio in geroglifico e…Oddio, c’è una scritta in geroglifico egizio e una nella mia lingua!»

Si avvicinarono e osservarono meglio la scritta, che si presentava più o meno così:

Helena si strofinò le guance, pensosa, mentre leggeva:

«Dahkeya… suona molto pellerossa. E il fatto che lo chiamassero con un nome legato agli animali lo conferma. Raia… be’, se questo è il tipico messaggio d’amore, immagino che la sua amata sia egizia»

«Lo è sicuramente, scrive come gli Egizi! E poi Raia est nomen che sentivo molto spesso quando con le copiae passavo dalla valle del Nilo» disse Nerva, a sostegno della tesi.

Helena rimuginò sulle origini dei due autori della scritta: Dahkeya era un pellerossa ed era un fuorilegge, era probabile che fosse approdato su ARK mentre attraversava il Pacifico. Aveva sentito di fuorilegge del Far West che cercavano di fuggire negli arcipelaghi del Pacifico per sfuggire alle autorità, quindi poteva essere il suo caso. Ma Raia? L’unica spiegazione logica era che avesse trovato il portale pre-arkiano dall’esterno e avesse usato quello per raggiungere l’isola senza fare il giro del mondo, alla sua epoca impossibile. Fu riportata alla realtà da un’improvvisa esclamazione preoccupata di Mei:

«Dobbiamo andare via subito! I velociraptor si innervosiscono. Ci sono dei predatori!»

Appena finì di dirlo, da qualche parte provenne un sibilo inquetantissimo, che faceva gelare il sangue. Non era quello di un serpente, anche se vi somigliava tanto: era sicuramente un insetto. I velociraptor si voltarono verso una delle case ed emisero un grido intimidatorio, avvicinandosi gli uni agli altri. Helena aveva un vago sospetto di a cosa appartenesse il sibilo, l’aveva già sentito. Ma Mei e Gaius non ne avevano la minima idea, per cui si affrettarono a chiederglielo mentre mettevano mano alle spade.

«Oh, no…» mormorò la biologa, terrorizzata.

Almeno una decina di altri sibili risposero ai velociraptor da tutte le parti, intimidendoli. I quattro rettili formarono un cerchio di loro spontanea volontà e presero a guardarsi attorno con la massima attenzione, occhi e orecchie tesi.

«Mantidi spadaccine… raggruppate… siamo in un nido!» rivelò Helena.

«Mantides?» chiese Nerva, perplesso.

Un grido stridulo alle loro spalle attirò la loro attenzione e i velociraptor si voltarono: sul tetto della casa con la scritta d’amore, era apparsa una mantide di due metri. L’insetto, verde smeraldo e con l’esoscheletro traslucido, si mise in posa di minaccia spalancando le zampe a falce e sollevando le ali, sibilando. Subito dopo, tutt’intorno, ne apparvero molte altre. Alcune uscivano dalle finestre delle case, altre da buchi nelle rocce, altre spuntavano dal bordo della gola. Alcune erano verdi, altre erano un po’ più piccole e arancio come zucche. Erano circondati.

«Sono terrificanti!» esclamò Mei.

«State molto attenti a non farvi colpire: una zampata delle loro potrebbe tagliarvi in due! Non avete idea di cosa abbia visto quando le studiavo…» avvertì Helena.

Fu interrotta dalla mantide sul tetto, che balzò giù per attaccare proprio lei. Usain fu abbastanza fulmineo per scartare di lato all’ultimo, mentre la sua padrona si reggeva meglio che poteva, scossa. Mei-Yin spronò Hei ad attaccare subito dopo: prima che l’insetto facesse qualcos’altro, il velociraptor nero le saltò addosso e la bloccò a terra premendo sulle zampe con gli artigli e serrandole il collo tra le fauci. La guerriera puntò la spada contro la testa della mantide sporgendosi dalla sella di Hei e la infilzò, uccidendola. Un fiotto di sangue biancastro la insozzò tutta e dovette sforzarsi per non vomitare dal disgusto. Intanto, Nerva preferì scendere da Alba per non renderla troppo goffa col suo peso. La velociraptor cadida scattò in avanti verso la mantide più vicina: le due creature ebbero un breve scontro, ciascuna delle due attaccava a vuoto e schivava con prontezza i colpi dell’altra. Il centurione, a piedi, schivò la zampata di una delle mantidi arancio, ma fu colpito di striscio: la falce affilatissima squarciò il suo abito e incise una lunga ferita obliqua lungo tutto il corpo, dalla spalla destra fino al fianco sinistro. Nerva ignorò il bruciore della ferita a denti stretti e compì una scivolata, andando sotto la pancia dell’insetto. Mentre slittava sulla sabbia, sollevò la spada e aprì in due lo stomaco della mantide, sporcandosi a sua volta e ammazzando la creatura. Alba, finalmente, trovò il momento adatto a spezzare la guardia della mantide e le afferrò la testa, quindi gliela staccò di netto con uno strattone. Helena decise di mandare Usain in soccorso di Ippocrate, che stava per essere circondato perché si era isolato troppo: uccise due mantidi, ma una terza lo soprese alle spalle e lo colpì in testa, cavandogli l’occhio destro e mozzandogli alcune piume sulla testa. Il velociraptor, in preda al dolore e confuso, prese a girare su se stesso a caso, non riuscendo a mettere le immagini a fuoco solo con l’occhio sinistro. Un’altra zampata lo graffiò sul fianco, facendolo cadere. Usain intervenne prima che il compagno fosse ucciso: saltò sul dorso di una mantide e le aprì il torace con fulminee artigliate. Helena, scesa a terra, prese la balestra e, anche se non era tanto ferrata, riuscì a colpire la testa di un’altra perché era grossa e alquanto vicina. Mei, nel frattempo, aveva aiutato Hei ad ammazzarne altre e Alba uccise le ultime, anche se fu colpita alla caviglia. Erano sopravvissuti, anche se non ne erano usciti per niente illesi. 

«State bene?» chiese Helena, ancora col fiato corto.

«Insomma…» borbottò Nerva, tenendosi una mano sulla ferita e controllando la zampa di Alba.

«Penseremo a sistemarci una volta tornati dai ragazzi. Helena, pensi che ce ne siano altre in giro?» chiese la Regina delle Bestie.

«Molto probabile. Devono essere a caccia o in cerca di una tana migliore»

«Allora non aspettiamo di incontrarle e partiamo. Forza, muoviamoci!» esortò Mei.

«Be’, e anche questa è fatta!» sospirò Helena.

Spronando i velociraptor, anche se ad Alba fu concesso di camminare per non sforzare troppo la zampa ferita, iniziarono il ritorno. Intanto, in cielo, cominciavano a spuntare le prime stelle, tra cui spiccava Venere.

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Capitolo 26
*** Il re dei mostri (storia vecchia) ***


Quando tornarono, la mattina dopo, Laura era impegnata con una nuova sessione di allenamento con Cupcake al villaggio. Stava migliorando molto: ora sapeva praticamente padroneggiare le andature, aveva imparato a memoria i fischi, cosa resa ancora più semplice dal fatto che Cuppy fosse già addestrato, e finalmente sapeva contrarre gli addominali in tempo per non farsi schiacciare la pancia dall’inerzia dopo una carica. Helena si sentiva allegra e nostalgica a vederla, perché le venivano in mente i suoi primi voli con Atena. Chissà come stava… era morta? Era ancora viva? Aveva continuato la sua vita da selvatica, dopo essere volata via quando la Nuova Legione aveva preso Helena in ostaggio? A porsi tutte quelle domande, le vennero quasi le lacrime agli occhi. Ma si riscosse quando si rese conto che i velociraptor feriti dovevano andare alle stalle comuni per farsi medicare e che dovevano comprare del disinfettante e bende per Nerva, rimasto lontano dalla palizzata come suo solito.

«Cos’è successo?» chiese Chloe, preoccupata.

«Niente di grave, è solo che il piedistallo era in un nido di mantidi spadaccine – raccontò Helena – Però, come vedete, ci siamo salvati! Tranquilli, quando saremo sistemati potremo ripartire. Voi avete il manufatto?»

«Certo» rassicurò Sam.

«Bene! Il piedistallo di questo qui è una minuscola isola nell’estremo Ovest dell’arcipelago, a ridosso del muro invisibile. Salvo imprevisti, dovrebbe essere tutto tranquillo!» spiegò, sorridente.

«Già, salvo imprevisti…» bofonchiò Sam, grattandosi il collo.

«Io vado» annunciò Mei, allontanandosi con Hei, Alba e Ippocrate.

«Va bene, a dopo!» la salutò Helena.

«Ciao, bentornata! Guarda Laura!» le disse Acceber, avvicinandosi allo steccato dall’interno.

«Vedo, vedo! Sei una brava insegnante. E poi si capisce che ci sta mettendo passione!»

«Almeno vi daremo poco fastidio col fare cambio dei velociraptor: non vedo l’ora di provare quel testone!» rise Chloe.

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Viaggiavano alla svelta, mentre il Sole si alzava nel cielo. Helena chiedeva ogni ora a Gaius come andava la ferita. Bruciava, ma lui la tranquillizzava sempre dicendo che non era nulla: in guerra gli era successo di peggio, in fondo. Si mantenevano anche stavolta sulla costa, dal momento che la loro destinazione era un’isola. Chloe guardava quasi ossessivamente il mare, convinta di rivedere la cresta della misteriosa creatura che nessuno aveva mai visto, ma era tutto tranquillo. Anzi, diversamente da quando erano sul diplodoco, non si vedeva una forma di vita spuntare in superficie: calma piatta, letteralmente. Le dispiaceva un po’. Comunque, Cupcake era davvero socievole: aveva preso subito in simpatia Chloe e Sam, a momenti era lui che andava da loro per farsi accarezzare. Una volta si era anche accostato a Rexar per attirare l’attenzione di Acceber, ma il tilacoleo gli aveva ringhiato contro per scacciarlo.

«Tranquillo, gelosone, non ti cambierei mai con nessuno!» rise lei, arruffandogli la pelliccia sul collo.

Sam, vedendo che Chloe non smetteva un secondo di guardare il mare, decise di accostarsi a lei e confidarsi sui suoi sospetti:

«Sai cos’è sembrato a me, quando l’ho visto?» chiese.

«No»

«Anzi, chi mi è sembrato»

«Spara, mi hai incuriosita»

Sam stava per dirlo ad alta voce, ma poi gli venne un’ondata di imbarazzo. Così si coprì la bocca con una mano e glielo bisbigliò all’orecchio. Come temeva, Chloe non lo prese sul serio e si mise a ridacchiare, chiedendogli come diamine gli fosse venuto in mente. Lui protestò, più convinto che mai:

«Ma è lui, non c’è dubbio! Chi altri ha quei… quei “cosi” sulla schiena?»

«Ma dài, dev’essere una coincidenza. Siamo su un’isola di dinosauri, come hai notato ci sono tanti dinosauri coi “cosi” sulla schiena. Non abbiamo letto tutta l’enciclopedia, magari se cerchiamo troveremo una bestia così e amen»

«No, fidati: non può essere nient’altro – A quel punto, gli venne un’idea maliziosissima – Anzi, scommettiamo?»

«Oh, qualcuno gioca pesante, qui! Cosa c’è in gioco?»

«Se io ho torto, pulirò camera tua e laverò i tuoi vestiti per un mese quando torniamo a casa»

«Troppo poco. Facciamo tre mesi!»

«Uffa… vada per tre»

Helena e Mei, vedendoli discutere così come i ragazzi che erano, li fissavano e si fissavano con aria stranita e divertita allo stesso tempo. Intanto, anche loro discutevano su quanto ci sarebbe voluto prima che Rockwell e Jack li raggiungessero, ovviamente ignorando di tutta la storia della coccatrice. Ma Mei, ogni tanto, si ricordava ancora di quando lei e Nerva avevano dovuto salvare Acceber da suo fratello e il suo socio. Si erano scontrati solo con quest’ultimo, ma la guerriera era più che sicura che Gnul-Iat non fosse da meno ed era convinta che dovessero provare a domare o, molto più sbrigativamente, noleggiare nuove cavalcature in caso si fosse fatto vivo un’altra volta. E Nerva si disse d’accordo con Mei. Ma Helena era alquanto riluttante a riguardo: capiva il timore di un’imboscata, ma per lei era altrettanto vero che più si sbrigavano, meno probabilità c’erano di farsi raggiungere. Pur sapendo che era un azzardo, insisté sul provare a sbrigarsi il più possibile con le indagini sul Tesoro, in modo da concludere tutto in fretta e impedirgli di escogitare la prossima mossa. Nessuna delle due opinioni riusciva a prevalere, anche se dentro di sé Helena sapeva di dover dare ragione a Mei e Gaius. Intanto, Sam e Chloe continuavano a stuzzicarsi:

«E se invece hai ragione?»

Sam le rivolse un ghigno complice. Chloe capì al volo e dovette trattenere le risate dall’imbarazzo:

«ìOh no! No, eh? No! Avevi detto che non sarebbe più venuto fuo…»

«Voglio che mi conceda quattordici notti di passione intensa di seguito in quel motel che sai tu… o perché no, magari alla prossima taverna che becchiamo qua!»

«Dài, Sam…»

«Ah, giusto: qui non ci sono i contraccettivi. Dannazione...»

«Cosa sono i contraccettivi?» chiese Acceber.

«Ma… non li avete?» chiese Sam, stranito.

«Sì, ci sono su ARK, il fatto è che mio padre non ha mai voluto farmi sapere più di tanto in merito…» rispose lei, imbarazzata.

«Aspetta, ma allora… state ascoltando tutto?!» chiese Chloe, imbarazzatissima.

«Sì – rispose Laura, soffocando le risate – Allora, cos’è questa storia del motel? Mi nascondete qualcosa, eh, furboni?»

Sam e Chloe si guardarono per qualche secondo, poi lui si schiarì la voce e, accertatosi che almeno i tre adulti non stessero seguendo la conversazione, prese a raccontare:

«Niente di che, il fatto è che una volta abbiamo fatto questa stessa scommessa»

«Per cosa, se permettete?» chiese Laura, divertita, mentre Acceber sogghignava.

«Il primo stage in un’officina che ho avuto ai tempi del liceo… lei era convinta che non ne avrei mai trovato uno retribuito, così abbiamo scommesso che se ne avessi beccato uno avremmo fatto quello che abbiamo detto poco fa. Ed è così che abbiamo avuto la prima volta, in quel motel di cui non riuscirai mai a farmi dire il nome»

«Oh, peccato che non me l’abbiate mai detto! Sarebbe stato perfetto per trasformarti in una calamita per tutte le altre signorine che hanno spasimato per te all’università!»

Chloe scosse la testa:

«Ah, non serve! Le mirabolanti avventure sono arrivate lo stesso per lui, e anche per me»

«Vabbè, cambiamo argomento, ora che ci siamo divertiti» suggerì Laura, a cui ormai veniva il singhiozzo.

«Già, meglio…»

Quindi proseguirono facendosi raccontare di più sulla vita degli Arkiani da Acceber per il resto del tragitto. Fu davvero un argomento interessante: scoprirono che il lunghissimo passato di quella civiltà erano gli unici fatti che fossero trascritti continumente e archiviati minuziosamente perché tutte le generazioni ricordassero cosa c’era stato prima di loro. Era tutto custodito e copiato in una biblioteca apposita che si trovava al centro esatto di ARK, ovvero sulla vetta del monte Oilep. Dentro c’era lo sviluppo degli eventi di tutti i sessanta millenni che erano trascorsi dall’approdo ed era stato voluto dagli otto capivillaggio dopo la caduta del regime dispotico di Onaitsabes Ollevar nel 3045, uno dei periodi più bui della storia arkiana. Così, parlando, arrivarono alla meta senza accorgersene. L’isoletta su cui c’era il piedistallo appariva come una piccola macchia verde nel blu marino: ci si poteva fare un’idea già da quello di quanto fosse minuscola. Helena indicò un piccolo attracco al termine di una lingua di sabbia che si protendeva dalla costa a formare una piccola laguna in cui l’acqua era alta fino alla cintola e dove avannotti di celacanto sguazzavano allegramente. Passando accanto alla laguna, incrociarono un uomo sulla trentina con abiti che ricordavano lo stile delle antiche popolazioni germaniche, con la pelle a metà fra il bianco e il bronzo chiaro e capelli e barba neri. Stava seduto a gambe incrociate davanti al mare, come se fosse in attesa di qualcosa. Quando li vide, li guardò un secondo e salutò distrattamente. Loro risposero con un cenno. Quindi, scesi dalle cavalcature, andarono alla laguna, dove c’erano una piccola canoa a vela pronta per essere spinta in acqua e, lì accanto, una cabina in cui si pagava una traversata fino all’isoletta. La vecchietta alla biglietteria chiese dieci ciottoli e disse loro che ci potevano andare solo quattro persone, come voluto dalla legge degli Squali Dipinti.

«Perché?» chiese Laura.

«Lascia perdere, dietro c’è tutta una storia complicata e questioni di incidenti. Accettalo senza discutere» disse Acceber.

Decisero che sarebbero andati i tre ragazzi più Acceber, così Laura si fece dare il Manufatto del Divoratore da Helena e, con gli altri, spinse la canoa in acqua. Helena, Mei e Nerva tornarono alla spiaggia dalle creature, in attesa che tornassero. Mei chiese dove sarebbero dovuti andare dopo ed Helena rispose che sarebbero andati all’avamposto secondario degli Squali Dipinti, molto più grande di quell’isola. Poi, qualche kilometro più a Sud nell’oceano, avrebbero preso il Manufatto del Bruto dai Lupi Bianchi al Dente Ghiacciato. Mei e Gaius, per qualche motivo, erano contenti all’idea di andare in un posto freddo, non ci si spiegava il perché. Intanto, la barchetta si avvicinava all’isola: Sam remava e Acceber si occupava della vela. Laura le chiese se era già stata lì e lei rispose di no, ma di essere stata dagli Squali Dipinti in passato, quando aveva imparato a navigare e a pescare. In dieci minuti, approdarono. Lì non c’era nemmeno un animale, a parte i trilobiti che zampettavano sulla sabbia dorata e calda: c’erano solo ulivi, rose e palme. Era circondata da innumerevoli e variopinti coralli paleozoici e le rocce di uno scoglio avevano una forma strana, simile alle scanalature di una conchiglia, a causa dell’erosione.

«Ah, che pace, qui! – sospirò Chloe, stirandosi sotto il Sole – Sarebbe bellissimo averci una casetta estiva…»

Il piedistallo era sulla cima di una collinetta in fondo all’isolotto e le rovine pre-arkiane, questa volta, ricordavano il Taj Mahal e altre rovine indù, come fece notare Laura. Misero il manufatto a posto, fecero emergere la nicchia e presero il tassello del mosaico. Laura fu investita da una fortissima ondata di adrenalina nel vedere il disegno di ARK che andava lentamente a formarsi: prima o poi avrebbero capito dov’era il Tesoro. Mentre osservava i tasselli, Chloe si guardò intorno e notò che, scritta in grande e a carboncino su un muro controvento del sito in rovina, c’era un messaggio in una lingua che conosceva bene dopo dieci anni di liceo e università: il greco.

«Oh, mio Dio…» farfugliò, dopo averlo letto.

«Cosa dice?» chiese Sam, notandolo a sua volta.

«Non ci credo! “Platone e Socrate sono stati qui”… vi rendete conto?!» era così eccitata che le mancava il fiato.

«Cosa?! – Sobbalzò Laura – ARK era nota anche a personaggi celebri come loro?!»

«Sì! Mio Dio, i miei due eroi delle versioni in greco a scuola sono stati qui! Ma… come?»

«Be’, ora che sappiamo dei portali possiamo immaginare che in Grecia ce ne sia uno e che loro due, in qualche modo che non sappiamo, l’abbiano trovato e abbiano esplorato ARK. È fenomenale! Più esploriamo… più cose grosse saltano fuori!»

«Laura, sono contentissima di essere qui con te! Questo è fantastico!» esclamò Chloe, con le lacrime agli occhi dalla gioia.

Acceber li guardava, confusa, non capendo di chi stessero parlando, ma sorrise e decise di lasciarli fare, nel vederli così felici.

 

Con Chloe ancora al settimo cielo, i ragazzi tornarono alla barchetta e iniziarono la traversata di ritorno, presi da una fitta conversazione. Ma, quando furono a metà strada, la canoa fu colpita dal basso e il legno emise un fortissimo tonfo secco e sordo. Con il ricordo dell’incidente al fiume ancora ben impresso in mente, i ragazzi si irrigidirono e si aggrapparono ai bordi, terrorizzati.

«Ehm… Acceber, hai idea di cosa fosse?» chiese Sam, provando a non balbettare.

«No. Ma, nel dubbio, togliete le mani dai bordi, se non volete che ve le mangino!» li avvertì la figlia di Drof.

Loro si affrettarono ad obbedire. Chloe, che sentiva il bisogno morboso di aggrapparsi a qualcosa, abbracciò l’albero della vela e vi si tenne stretta. Si guardarono intorno a occhi spalancati, cercando di scovare il minimo movimento in acqua. Alla fine, Acceber vide una pinna dorsale inconfondibile sfrecciare verso di loro, fendendo la superficie al suo passaggio.

«Un megalodonte! Reggetevi!» esclamò.

«Oh, cazzo…»

In una manciata di secondi, una gigantesca bocca di squalo, con troppe file di denti per contarle e che a loro apparve come un vasto pozzo nero pronto ad ingoiarli, schizzò fuori dall’acqua e azzannò metà barca: dalla prua, tutta la canoa fino all’albero gli entrò in bocca. Laura e Sam si gettarono verso Acceber e Chloe all’ultimo, salvandosi dal farsi maciullare. Il megalodonte, con gli occhi chiusi a renderlo ancora più inquietante, serrò la mandibola e tranciò in due l’imbarcazione. Quello che restava si riempì d’acqua e affondò, i quattro si ritrovarono a sbracciarsi in mare, a metà strada fra l’isola e l’entroterra.

«No! Non voglio morire così! Non dopo quello a cui sono sopravvissuto!» gridò Sam, iniziando a nuotare con tutte le sue forze verso riva, con la destrezza di un atleta.

Gli altri lo seguirono come meglio poterono. Furono stranamente lasciati in pace per un lungo tratto, trovarono anche una corrente calda che li spinse ancora più in fretta verso la battigia. Ma il megalodonte riapparve in lontananza e si avvicinò veloce come un lampo. Ad un certo punto, in superficie apparve anche la testa e aprì la bocca per afferrare Laura… era vicino… vicinissimo… ma, all’ultimo, un’immenso getto di schiuma si elevò alla sua sinistra e si intravide un’imponente massa grigia al suo interno. Udirono un ruggito assordante:

GHAAAAREEEEEEEEEEEAAAAAAAAAAHHHRRUUUUUUURRRRNNNN!!!

Tutto quello che Sam riuscì a scorgere bene fu una testa squadrata da rettile che si abbatteva sul collo dello squalo preistorico, a cui seguiva l’ormai famosa cresta a tre fila e infine una lunga coda affusolata. L’onda che la creatura sollevò li spinse all’indietro, dando loro un ultimo aiuto per farli tornare a riva. Strisciarono nell’acqua bassa e si adagiarono sulla sabbia, esausti e increduli di avercela fatta. Helena, Mei e Nerva li raggiunsero di corsa.

«Oddio, state tutti bene?!» chiese Helena, aiutandoli ad alzarsi.

«Sì, sì… ma cos’era?!» domandò Laura, guardando il mare sbigottita.

Intanto, l’uomo vestito da Germano che avevano incontrato prima si era alzato e ora fissava il mare tenendosi una mano sopra la fronte per ripararsi dal Sole: aveva l’aria di aver previsto tutto…Tutti guardarono il mare: la superficie dell’acqua iniziò a ribollire, ad una ventina di metri dalla spiaggia. Improvvisamente, la creatura saltò fuori e stringeva ancora il collo del megalodonte con la mandibola, per quanto fossero quasi della stessa taglia. Poi, come una balena, si rischiantò nell’acqua e svanì tra la schiuma.

«Quid genus monstri est illud?» si chiese Nerva, pensando d’istinto a qualche manifestazione di Nettuno.

Passò un’altra manciata di secondi e, molto più vicino a loro, il mastodontico rettile riemerse. Ora, stando ritto in piedi e immerso fino ai fianchi, teneva ferma la testa del megalodonte con le zampe, dotate di quattro dita semi-opponibili. Lo squalo si contorceva e si agitava per liberarsi, ma gli artigli dell’avversario erano agganciati a fondo nella sua pelle. A quel punto, il mostro mise la testa del megalodonte di fronte alla propria e si irrigidì, iniziando ad inspirare a fondo. Notarono che una luce blu cominciava a far brillare le sue placche, partendo dalla punta della coda e avanzando rapidamente lungo il dorso, fino alla testa. Anche le venature fra le scaglie più vicine alla cresta si illuminarono di azzurro. Poi una densa voluta di vapore turchino iniziò a fuoriuscire dalle placche, come se stessero uscendo da una ciminiera; gli occhi presero a splendere a loro volta, passando dal loro naturale marrone scuro ad un blu zaffiro. Gettò con violenza il megalodonte per terra, facendolo finire sulla terraferma, dove non poteva fuggire. Quindi spalancò la bocca e… un potente e intensissimo getto di energia dal bagliore accecante si scagliò sullo squalo, carbonizzando la sua carne e uccidendolo in pochissimi secondi. La sabbia tutt’intorno si trasformò in vetro per il calore. Il gigantesco animale continuò a sprigionare quel raggio per una decina di secondi, durante i quali il vapore emesso dalle placche usciva con più forza, come se fosse soffiato dalla locomotiva di un treno. Alla fine, il getto si assottigliò fino a sparire e tutte le luci nel corpo della creatura si spensero. Del megalodonte non rimaneva altro che una carcassa annerita e in fiamme sul vetro. Il bestione scosse la testa e, con aria soddisfatta, soffiò buttando fuori una vampata di fumo. Tutti quanti erano sconcertati da quello che stavano guardando. E Sam era più sconvolto che contento dal vedere che, dal primo avvistamento, aveva indovinato.

«Godzilla?!» sobbalzarono.

Infatti era esattamente il Re dei Mostri, una leggenda della cultura popolare dal 1954. Solo che quello era nella vita reale e… molto più basso di com’era nei film: era alto "appena" poco più di una trentina di metri. A tal proposito Helena, per quanto faticasse a pensare a qualunque cosa per lo stupore, riuscì a spiegarselo: era logico che una creatura come Godzilla fosse alta quanto molti dinosauri di ARK. Fosse stato più alto di un titanosauro, la postura eretta l’avrebbe esposto al pericolo di sprofondare sotto il suo stesso peso. Solo… come diamine era possibile che si trovasse lì? Con loro grande sorpresa, Godzilla si avvicinò al tizio di prima, che iniziò a parlargli come gli Arkiani parlavano con affetto alle loro creature.

«È… è domato?!» sobbalzò.

«Credevo che ci fossimo accordati per una battuta di pesca, non per un arrosto di squalo! – scherzò lo sconosciuto, guardando il megalodonte a braccia conserte – Alla fine hai beccato quello grosso, eh, amico? E sei anche riuscito a fare l’eroe!» aggiunse, voltandosi verso il gruppo sconcertato.

Chloe si voltò verso Sam e gli disse:

«Hai decisamente vinto la scommessa»

«Già… a quanto pare…» rispose lui distrattamente, senza guardarla.

«Helena, che razza di mostruosità è quella?» chiese Mei, che intanto aveva sfoderato la spada per istinto.

«Quello… quello dovrebbe essere immaginario! Non credevo di trovarlo qui! Ed è pure domestico!»

Lo sconosciuto, che cominciava ad imbarazzarsi vedendo tanti sguardi puntati su di sé, si avvicinò e disse:

«So cosa state pensando, chiunque altro ha fatto quella faccia, da quando sono qui. Non temete, il mio amico non è pericoloso. Siamo disinfestatori, sa bene quando e cosa attaccare»

Acceber non sapeva cos’era Godzilla, ma ovviamente era senza parole anche lei. Stava abbracciata a Rexar per farsi coraggio, anche se pure il tilacoleo era in soggezione. Laura si fece avanti e trovò la forza di chiedergli come avesse domato il mostro, chiamandolo per nome.

«Non l’ho domato, non si può fare. L’ho ereditato da mio padre, che l’ha ereditato da mio nonno, che l’ha fatto nascere dopo aver portato a casa nostra l’uovo dal Giappone. E tu come fai a sapere come lo chiamò? Solo i miei amici e clienti lo sanno»

«Be’… è famoso!»

«No, non lo è. Cioè, lo è da dove vengo io, perché ha salvato il mondo dal Ghidorah, ma...»

Ogni volta che quel tizio apriva bocca, ci capivano sempre meno. Chi era? Cosa intendeva? Helena si offrì di prenderlo in disparte e farsi raccontare tutto, visto che le sembrava opportuno. Tutti annuirono e andarono un po’ più lontano con le bestie per aiutarle a calmarsi. Notarono, con spavento e dispiacere, che la vecchietta in biglietteria era morta d’infarto alla vista di Godzilla. Helena invitò il Germano a sedersi su una roccia e chiese se poteva fargli qualche domanda per vederci chiaro. Lui sembrava un tipo cortese e disponibile, infatti accettò. Intanto, Godzilla iniziò a spolpare il corpo carbonizzato del megalodonte. Si chiamava Alford ed era un Inglese dal 1495. Questo spiegava alla perfezione lo strano accento "obsoleto" con cui si esprimeva. Ma quello che colpì Helena fu scoprire che non veniva da fuori da ARK. Non lo disse esplicitamente, lo spiegò un po’ alla buona, ma il significato era chiarissimo: era venuto da un altro universo. Solo che per lui l’altro universo era ARK, ovviamente. Helena era tentata di chiedergli come fosse il suo mondo, visto che c’era qualcosa come Godzilla in carne ed ossa, ma resisté e lo tenne per dopo. Gli fece per prima la domanda più importante:

«Allora, come sei arrivato sull’isola?»

«Be’, diciamo che la scoperta fu di mio padre, io l’ho saputo pochi anni fa. È una faccenda personale…»

Le raccontò di aver passato tutta la vita credendo di essere metà inglese e metà hawaiiano, cosa che fece intuire ad Helena che grazie ai Titani (così chiamava i mostri enormi che popolavano il suo mondo) l’umanità aveva scoperto l’interezza del pianeta Terra molto in anticipo rispetto alla nostra realtà: già conoscevano il Pacifico, le Americhe e l’estremo Oriente e ci avevano rapporti regolari, addirittura i Romani avevano costruito loro ambasciate in tutto il mondo per facilitare gli scambi. Aveva passato molti anni alle Hawaii. Ma alcuni anni prima era stato richiamato in Inghilterra per la morte di sua madre. Dopo il funerale e la sepoltura, suo padre gli aveva rivelato una verità sconvolgente: sua madre era scura di pelle non perché era hawaiiana, ma perché veniva da un’isola in un altro mondo che lui aveva casualmente scoperto tramite una porta segreta nascosta fra i blocchi di pietra di Stonehenge, che aveva trovato dopo una cerimonia religiosa tradizionale. Per curiosità, aveva portato Godzilla con sé per esplorare in modo più sicuro l’isola, provocando vari scontri con Kong. In un villaggio conobbe la donna di cui si innamorò e, dopo che nacque Alford, la convinse a seguirlo nel mondo dei Titani. Ora suo padre aveva incaricato il figlio di riportare in patria l’Impianto della Maturità di lei per onorarla.

«Capisco… e l’hai fatto?» chiese Helena.

«Sì. Ora ho una seconda vita qui: voglio riscoprire le mie origini»

«Toglimi un’altra curiosità: sapresti dirmi in che punto dell’isola ti sei ritrovato, dopo il “passaggio”? Che aspetto aveva la porta?»

«Il passaggio visto da questo lato è un enorme portone che si solleva se giri una manopola che ha ad altezza d’uomo, è intagliato in uno scoglio in riva al mare. Sopra c’è il disegno di un simile di Godzilla»

«Molto interessante… grazie!»

«Be', non c'è di che»

Lo ringraziò, dicendo che le era stato di prezioso aiuto, gli augurò buon viaggio e lo guardò mentre tornava da Godzilla e gli saliva sulla schiena, mentre il Titano tornava lentamente in acqua. La nuova scoperta era straordinaria. I Pre-Arkiani non solo conoscevano le tecnologie più avanzate del ventunesimo secolo e il teletrasporto, ma anche il viaggio fra più dimensioni! Il Multiverso esisteva davvero… ed era stato scoperto prorpio lì, su ARK! Probabilmente sempre grazie al Tesoro di Darwin. Se ciò era vero, quello che stavano cercando poteva letteralmente rovesciare da cima a fondo e per sempre tutto il mondo come mai prima di allora. Ma se Darwin aveva taciuto, doveva pur esserci un motivo... l’avrebbero capito solo indagando. Per ora, si godé l’euforia della scoperta e la condivise con gli altri, che furono altrettanto emozionati.

«Sapevo che stare con voi stranieri mi avrebbe aiutata ad imparare cose nuove, ma non così tante!» commentò Acceber.

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Recuperare Anitteb non fu facile. Come Drof si aspettava, quando erano tornati all’ingresso della grotta al fiume lei non c’era più. Così lui e Odranreb sprecarono un intero giorno: dodici ore suonate per raggiungerla, più altre dodici per tornare sui loro passi. Gnul-Iat se n’era andato in fretta, quindi per un lungo tratto dalla foresta delle sequoie al Nord delle pianure, le tracce erano chiare e facili da vedere, prima che fossero cancellate. Ma tanto, ormai, era chiaro che andavano a finire nel deserto. Per fortuna, c’era un tipo di pista che l’inseguito non aveva fatto in tempo a nascondere: l’odore. Onracoel conosceva bene l’odore di Gnul-Iat: era stato vicino a lui e ad Acceber per molti anni, quando erano bambini. Il carnotauro li guidò in un percorso insolito, fatto di depressioni e crepacci, attraversato da piccoli rigagnoli. Era una zona piuttosto isolata e coperta da pareti da quasi tutti i lati: l’ideale per l’ennesimo rifugio… o addirittura una base. L’idea di star andando ad attaccare il mostro nella sua dimora mise in tensione Drof, ma gli diede anche un pizzico di speranza: se avessero agito bene, forse avrebbero potuto finalmente liberarsi di lui. Tuttavia, doveva considerare anche un grande rischio: essendo in una zona che Gnul conosceva bene, avrebbero potuto cadere in un’imboscata. Alla fine, quando arrivarono ad una zona circolare dalle pareti attraversate da scanalature concentriche e dove i pochissimi arbusti erano tutti morti, piena di vecchie ossa di creature varie, la Luna sorse per la seconda volta da quando erano partiti: molte bestie erano stanche e anche loro, a dire la verità.

«Ci accampiamo?» chiese Odranreb.

Drof esitò per diversi istanti, ma alla fine accettò.

«Quanto cibo abbiamo ancora?» chiese.

Odranreb fece il giro delle sacche appese alle selle di quasi metà del contingente e scosse la testa mordendosi le labbra con rassegnazione:

«Purtroppo hanno tutti preso colpi belli gravi l’ultima volta: molte borse si sono rotte, è uscito tutto. Gran parte di quel che resta è solo per loro»

«Ho capito: stanotte si va a caccia. Ci penso io. Resta sempre vigile: se vieni attaccato, fai gridare lo yutiranno per chiamarmi»

«Non serve che me lo dica, cugino! Rilassati!»

«Non si è mai troppo cauti»

Quindi prese un gruppo di carnivori con sé, si salutarono e il padre di Acceber si avviò per il bel mezzo della regione desertica.

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Sotark stava strigliando e dando da mangiare alle bestie quando uno dei dimorfodonti che avevano mandato a sorvegliare i dintorni della base entrò nella grotta che usavano come stalla strillando. Sapendo cosa voleva dire, andò ad avvertire il suo socio: lo trovò nella minuscola baracca in legno e paglia che aveva costruito sui rami di un vecchio baobab qualche mese dopo aver allestito la base, anni prima. Salì sulla scaletta che portava all’ingresso e aprì la porta, ma senza entrare perché Gnul-Iat gliel’aveva proibito, pena lo scorticamento e un bagno con gli elettrofori. Lo vide accucciato in un angolo, come suo solito: usando un dente di barionice, stava intagliando una statuetta in legno di Acceber... l’ultima di una lunghissima collezione che occupava quasi tutto l’interno della casupola. Gnul non stava indossando la bandana: l’aveva appoggiata sull’altarino accanto a lui, sul quale troneggiava una tela ingiallita su cui aveva disegnato un ritratto di sua madre incidendosi i polpastrelli e tracciando i lineamenti col sangue. In realtà, la bandana era un lembo dell’abito che Yram Ydorb indossava il giorno in cui era morta: si era squarciato e tinto di rosso quando il tilacoleo l’aveva sgozzata. E Gnul aveva visto ogni singolo dettaglio. Sotark si sentiva profondamente triste per lui ogni volta che lo vedeva così: quella casetta era il fulcro di tutta la sua follia, la rappresentazione concreta di quanto la sua mente era stata rovinata da quella perdita. Era un mostro creato da una tragedia, che spezzava la vita altrui per distrarsi dalla sofferenza.

«Tuo padre sta arrivando» disse Sotark.

«Già, com’era ovvio» rispose Gnul, con tono apatico, senza sollevare la testa.

«Ti dico subito che questa volta io non vengo»

Ora, Gnul lo guardò, vagamente sorpreso:

«Ah, sì?»

«Sì. Comincio a stancarmi delle nostre “imprese”, non riesco più a rimanere indifferente. Se vuoi uccidermi per punirmi, sappi che non ti darà soddisfazione: non ho paura della morte»

Ma ora toccò a lui farsi sorprendere dalla risposta del compagno:

«No, non ti preoccupare: tanto ti avrei detto io di non venire»

«Cosa?»

«Oggi mi sento diverso. Sento che la cosa sta diventando sempre più… personale, anche se lo è sempre stata. Non ho alcun’intenzione di fare il pagliaccio, questa volta»

«Oh… dunque te ne sei sempre reso conto?»

«Che facevo il pagliaccio? Certo, è una scelta di stile. Le esecuzioni mi vengono meglio, così… ma ho scoperto che quando si trattava di mio padre, mia sorella e Odranreb mi sentivo male a farlo. Anzi, se ora ripenso a tutta la sceneggiata che ho fatto con La Spettacolare Morte di Acceber, muoio di vergogna»

«Capisco. Va bene, io torno dalle bestie»

Gnul-Iat rimase lassù finché finì la nuova statuetta. Quindi scese con calma, prese le armi dalla rimessa degli attrezzi da tortura e chiamò metà delle creature nella base. A questo punto, avviò la prima fase dell’operazione d’emergenza che teneva sempre in serbo in caso di “invasione”: era notte, quindi prese tre megalosauri che aveva chiamato come le tre emozioni che gli piaceva di più incutere nelle sue vittime e li mandò avanti prima di tutto il contingente. Il loro scopo era attaccare i nemici da tre lati diversi e fingere di combattere per iniziare a togliere le forze alle creature, in modo che lui partisse già in vantaggio. Mentre li osservava allontanarsi, Gnul giurò a se stesso che almeno uno dei due parenti sarebbe morto, quella notte… in particolare uno.

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Rimasto solo, Odranreb aveva deciso di iniziare a cucinare qualcosa di quello che era rimasto per sé e Drof, così il ricavato della caccia sarebbe diventato una scorta. Allestì un fuoco da campo, prese due cosce di fiomia dalle sacche di un diatrima, le infilzò in un ramo che usò come spiedo e iniziò a girarle lentamente sulle fiamme. Rimase lì così per mezz’ora, quasi tutto il tempo che serviva alla carne per caramellarsi fuori e ammorbidirsi dentro. Ma la quiete fu improvvisamente interrotta quando, da Est, provenne in ruggito di un megalosauro. Il cugino di Drof sospettò subito che dietro ci fosse Gnul-Iat, ma decise di aspettare a darlo per certo: nel deserto non erano rari, i megalosauri vagabondi. Per sicurezza, tolse la carne dal fuoco e prese un arco. Mandò un terizinosauro a controllare. Prima che il terizinosauro si avvicinasse alla parete, il megalosauro si mostrò sul bordo della sporgenza, ruggì e corse via. Allora molte delle creature lì vicine, spontaneamente, scalarono quel crinale e lo inseguirono, allontanandosi.

«Ma che fate? Tornate qui!» Odranreb le richiamò con un fischio.

Ma, contemporaneamente, altri due megalosauri avevano fatto lo stesso scherzo anche alle altre cavalcature su fronti diversi, ingannandoli a loro volta. Rimasero solo Anitteb e qualche animale più sonnecchioso di tutti gli altri. Per fortuna, Odranreb riuscì a bloccarli e ad imporre loro di tonare. Ma ormai erano sparsi e non più concentrati lì dentro… il che permise al proprietario dei tre megalosauri di fare la sua mossa. Uno alla volta, avvolti dalla più totale oscurità perché il cielo era velato e la Luna non faceva luce, gli animali furono assaltati e massacrati da figure che si erano avvicinate inosservate dopo averli circondati, seguendo i megalosauri.

“Oh, no!” pensò Odranreb.

Iniziò a correre verso lo yutiranno ma, prima che gli ordinasse di lanciare l’allarme, un dardo sparato dal cielo lo colpì sul muso. Il dinosauro piumato barcollò, intontito, poi pestò la testa contro la parete e perse i sensi. Ci voleva tanta, ma davvero tanta biotossina per stendere una creatura della sua taglia così in fretta. Intanto, la carneficina continuava: un triceratopo fu ucciso in pochi secondi da una muta di metalupi senza che potesse fare niente per difendersi, un mammut fu atterrato e soffocato dalla mascella di ferro di un tirannosauro, due kaprosuchi furono schiacciati da un paraceraterio, uno pteranodonte fu sbattuto a terra e squartato ad artigliate da un argentavis… era un vero scempio e il problema era che nessuna delle cavalcature riusciva ad avviare un contrattacco. Odranreb, assolutamente deciso a rovesciare le sorti della battaglia, corse da Anitteb e montò in sella. Il giganotosauro ruggì e si avviò verso una delle uscite dello spiazzo, con l’intenzione di arrampicarsi oltre le pareti dov’erano meno alte per unirsi alla battaglia e fare una carneficina. Ma il nemico aveva un piano anche per quello: prima che varcasse il passaggio, passò un tapejiara che stringeva qualcosa fra le zampe. Odranreb strizzò gli occhi per vedere bene cos’era e riconobbe un barile da cui stava rovesciando una sostanza biancastra e densa come melassa. Poi Gnul-Iat, che cavalcava il tapejara, accese una torcia e la buttò a terra. Un muro di fiamme si alzò da terra, bloccando il passaggio e facendo indietreggiare Anitteb con un ruggito di sorpresa. Odranreb capì: era grasso di basilosauro, una delle sostanze organiche più infiammabili sull’isola. Un argentavis versò il combustibile a sua volta sull’altro varco e Gnul-Iat volò ad incendiare anche quello. Aveva allenato i suoi volatili per anni per fare quella specifica azione.

Le creature rimaste dentro erano bloccate, ma il fuoco diede anche un vantaggio al loro contingente: con la luce delle fiamme, poterono finalmente vedere con più chiarezza intorno a loro e presero a rispondere agli attacchi. Ora anche Gnul-Iat cominciava a perdere delle creature, lo scontro si fece più equilibrato. Improvvisamente, un tirannosauro e uno spinosauro scesero dal crinale e sfidarono Anitteb: il primo le si avvicinò alle spalle, il secondo da davanti. Anitteb, ruggendo, caricò e afferrò subito il collo dello spinosauro, sbattendolo a terra. Ma il tirannosauro le afferrò la caviglia e strattonò all’indietro, facendole perdere l’equilibrio e la presa. Lo spinosauro si rialzò e le azzannò il collo, graffiandole il petto con gli artigli nel mentre. Anitteb si liberò del tirannosauro colpendogli il muso con la coda e si voltò di scatto per scrollarsi lo spinosauro di dosso, ma quello resisté. Odranreb si reggeva alle redini e le manipolava  con maestria, ma all’improvviso fu colpito in testa da un sasso. Cadde a terra e sentì alcune ossa scricchiolare, la testa gli fischiò. Si alzò molto lentamente e sempre con l’arco pronto, guardando Anitteb che continuava a tenere testa senza cedere ai due predatori. Poi sentì una voce familiare dietro di sé: era molto più seria delle due volte che l’aveva già sentita, più fredda.

«Zio Odranreb, ci rivediamo…»

Si voltò e mirò alla testa di Gnul-Iat, che lo fissava immobile a tre metri di distanza. Era sceso dal tapejara e lo fissava con aria spaventosamente seria; stava impugnando una lancia. Odranreb scoccò ma, proprio come temeva, la freccia fu schivata. Ma, in compenso, trapassò la gola del tapejara dietro di lui e lo uccise. Gnul, con gli occhi sgranati, si voltò e lo fissò dissanguarsi.

«Ma che… diamine! L’ho domato appena un mese fa!»

«Quella freccia era per te»

«Torniamo a noi. Speravo che mio padre fosse assente: se uccidessi lui, risolverei un problema. Ma se invece uccido te… sarà ancora più profondo passare a lui una volta che sarà stato consumato dal senso di colpa»

«Non contarci!»

Odranreb fischiò e chiamò un metaorso e il mammifero attaccò Gnul da sinistra. Ma il Ladro di Innesti rotolò all’indietro per schivare la sua potente zampata; rialzatosi, prese anche il suo fidato falcetto, che gli pendeva alla cintura, e rispose all’assalto: prendendo la rincorsa, ferì una zampa del metaorso affondandovi la punta della lancia e lo fece cadere. Quindi, mentre il plantigrado era a terra, gli infilzò un occhio con il falcetto, arrivando al cervello. Odranreb era senza parole: la prontezza di riflessi di suo nipote sembrava quasi sovrumana. Vedendo il suo stupore, il ragazzo spiegò che era tutto merito di Drof, che aveva allenato lui e Acceber nella natura selvaggia con gli animali più letali fin quando erano piccoli. Un gemito e il fragore di molte ossa rotte attirò la loro attenzione ed entrambi si voltarono a guardare: Anitteb era riuscita ad uccidere il tirannosauro; gli aveva afferrato la testa e spezzato il collo. Lo spinosauro, invece, era stato ferito alle zampe. Odranreb si riscosse e scoccò un’altra freccia, ma Gnul cominciò a correre agilmente intorno a lui per impedirgli di mirare bene e poi si avvicinò, provando a trafiggerlo con un affondo della lancia. Odranreb schivò il colpo saltando di lato e scoccò un’altra freccia. Con grande soddisfazione, riuscì a ferire di striscio il fianco destro del nipote, che non fu abbastanza rapido. Gnul guardò le gocce di sangue sporcare lentamente la sua veste in tessuto leggero e Odranreb ne approfittò per cercare di colpirlo ancora, ma l’avversario partì di scatto con un fendente del falcetto che gli sfregiò la faccia: ed ecco una nuova cicatrice che andava ad aggiungersi a quelle che aveva in viso. Mentre Anitteb tirava una codata allo spinosauro, Gnul si preparò a partire alla carica con la lancia, ma entrambi furono interrotti da un grido: era la voce di Drof, che era stato messo in allarme dalla luce delle fiamme vista in lontananza.

«Gnul-Iat!»

Drof, in piedi in equilibrio sulla sella di Onracoel, prese una lancia e la tirò verso Gnul, che la evitò tuffandosi di lato. Drof si rimise seduto e fece partire il carnotauro alla carica. Raggiunsero l’avversario in un lampo, ma lui rotolò via all’ultimo. Il carnotauro inchiodò, si girò e provò ancora, ma Gnul-Iat frugò in un sacchetto che aveva alla cintura, gettò della polvere arancione spargendola nell’aria e, velocissimo, prese un acciarino e lo sfregò contro la lama del falcetto. Ci furono delle scintille e un’esplosione abbagliò e assordò Onracoel: polvere pirica preparata con mortaio e pestello, spesso usata in quel modo dai cacciatori arkiani più tattici per disorientare gli animali. Il carnotauro tentennò e scosse la testa, per cui Gnul ne approfittò e gli punse la zampa con la lancia. Dal dolore, il dinosauro indietreggiò e, come se non bastasse, un calicoterio intervenne e gli tirò una spallata. Drof cadde a terra, mentre le due creature cominciavano a combattere fra loro. Il calicoterio finse di correre via, facendosi seguire da Onracoel, raggiunse un sasso e glielo lanciò in testa. Mentre il carnotauro era stordito, il mammifero lo graffiò al collo, lasciando delle rigature. Onracoel si infuriò e, abbassata la testa, lo investì e lo spinse a forza fino a fargli sbattere la schiena contro il muro, poi gli afferrò la gola e la tagliò coi denti. Per un attimo, tutti gli animali presenti sobbalzarono, spaventati da un tonfo, e guardarono cos'era stato: Anitteb era riuscita a scaraventare lo spinosauro a terra; quindi gli calpestò la testa con forza, sfondandola. Ma fu attaccata da un nuovo tirannosauro...

Gnul-Iat sapeva bene che sarebbe venuta a difendere il padrone, se avesse ucciso anche quello. Inoltre, vedere che le sue creature cominciavano a venire ammazzate una ad una lo preoccupava: decise di farla finita. Drof prese un’ascia e iniziò a sferrare una serie di colpi con l’aiuto del cugino. Gnul ebbe difficoltà a schivare e deflettere tutti gli attacchi e, alla fine, suo padre riuscì a rompere in due il falcetto, con cui si stava facendo scudo. Gnul sudò freddo quando perse l’equilibrio: era stato esposto. Drof vide l’apertura e preparò il colpo di grazia, ma mentre sollevava l’ascia Gnul-Iat fischiò. Drof gracchiare e, improvvisamente, fu investito da un ciclone di piume, artigli e calci in faccia: un microraptor gli era saltato in testa. Spontaneamente, mollò l’ascia e cominciò a ripararsi il viso con le mani per non farsi cavare gli occhi, mentre il piccolo dinosauro piumato schizzava da tutte le parti: ora era a terra, ora sulla sua faccia, ora dietro di lui, ora affondava gli artigli nella sua schiena, ora gli mordeva una caviglia… proprio a quel punto, Drof ne approfittò per scuotere la gamba e calciarlo via. Il microraptor rotolò nella polvere e, prima che si alzasse, lui gli saltò letteralmente addosso, lo afferrò per il collo e glielo tirò, come se fosse un dodo da arrostire. Si tolse piume, polvere e sangue dalla faccia e corse a recuperare la sua ascia.

Ma, quando la prese in mano, sentì un gemito alle sue spalle. Terrorizzato all’idea di cosa potesse essere accaduto, si girò e vide Odranreb, inginocchiato… e impalato dalla lancia di Gnul-Iat. Muovendo con odio lo sguardo sul volto del figlio, si soprese di vederlo fissare la vittima con serietà gelida, anziché con le sue solite smorfie provocatorie. Era l’occasione perfetta per attaccare, ma no: l’orrore l’aveva pietrificato e ora stava immobile come una statua, coi lineamenti contratti in un’espressione disgustata e inorridita, mentre la battaglia infuriava intorno a lui. Gnul-Iat sfilò l’alabarda e un getto di sangue piovve dalla bocca e dal petto di Odranreb. A quel punto, Gnul sollevò il falcetto e, con un colpo preciso, gli recise la gola. Tutte le creature di Odranreb, vedendolo cadere a terra senza vita, si voltarono per un secondo per guadarlo, interrompendo lo scontro. Anche Anitteb, che stava per uccidere il tirannosauro, si girò a fissarla. In tutti loro, per quanto fossero animali, si poteva vedere che erano sconvolti. Questo riportò Drof alla realtà e sentì un fuoco ardergli nell’anima: aveva fallito di nuovo. Non aveva saputo impedire che suo figlio diventasse un mostro otto anni prima, non aveva potuto fare niente per le dozzine di persone che erano morte per la follia del Ladro di Innesti, aveva fallito più e più volte cercando di proteggere Acceber, tutto quello che gli rimaneva, e adesso non aveva salvato suo cugino. E il peggio era che Odranreb era morto anche per colpa sua: era lui che, cercando aiuto, l’aveva trascinato in tutta questa faccenda. E adesso era stato ucciso. Tutti questi pensieri lo fecero impazzire. Gridando, partì di corsa all’impazzata e, con una foga che avrebbe fatto invidia ad un rinoceronte lanoso alla carica, placcò Gnul e lo buttò a terra, facendogli perdere le armi.

«Ti ammazzo! Ti ammazzo! Dannato mostro! Io ti ho generato, io ti distruggerò!» gridò, con le lacrime agli occhi per la disperazione e la rabbia.

Tenendolo fermo a terra, con la mano sinistra gli strinse la gola e con la destra lo tempestò di pugni, i più forti che avesse mai tirato in tutta la sua vita. Ad ogni colpo, metteva più energia nel successivo. Lo colpì in faccia una, due, tre, quattro, cinque volte… Gnul-Iat cercò di liberarsi rotolando e invertendo le posizioni, ma prima che potesse bloccarlo a terra Drof lo respinse con un calcio nello stomaco; gli afferrò le spalle e lo stordì con una testata. Guardò dove aveva lasciato l’accetta, desideroso più che mai di tagliargli la testa, ma l’arma non c’era più: qualche creatura doveva averla scalciata via lottando, facendola finire tra la mischia.

«D’accordo, lo farò con le mie mani!» esclamò.

Ma si voltò appena in tempo per vedere suo figlio che, di nuovo armato di lancia, provava a trafiggerlo. Con un balzo e tirando all’interno l’addome, riuscì a schivare e l’affondo andò a vuoto. Così Drof afferrò la punta e i due iniziarono a contendersela.

«Non ti permetterò di uccidermi, padre! Non finché lei è ancora viva!» esclamò Gnul, digrignando i denti, con lo sguardo che traboccava di follia.

«Tu non le farai niente!»

Con un ultimo strattone, Drof riuscì a prendere la lancia e tirò una ginocchiata sul naso di Gnul-Iat. Si rigirò l’arma tra le mani e, mentre Gnul cadeva in ginocchio, rivolse la punta in bassò e la sollevò per infilzarlo. Ma Gnul-Iat rotolò di lato e l’asta si conficcò nel terreno; Drof non riuscì più a liberarla. Allora si gettò di nuovo sul figlio e, dopo aver serrato tutte e dieci le dita sulla sua gola, iniziò a stringere con tutte le sue forze. La fronte gli sudava, le braccia tremavano, i tendini sporgevano a fior di pelle, le nocche sbiancavano. Lentamente, Gnul cominciò a perdere il respiro e ad opporre sempre meno resistenza. Ce la stava facendo… era vicinissimo alla vittoria… ancora pochi secondi… ma la sorte decise ancora una volta di rovinargli tutto: sentì dei dolori atroci alla schiena, come se una decina di coltelli l’avesse punto, fu sollevato per aria e buttato più lontano. Si schiantò al suolo, perdendo il fiato per un secondo. Molto a fatica, si mise seduto e capì: la femmina di allosauro di Gnul era intervenuta a salvare il suo padrone; l’aveva afferrato con la punta della bocca e buttato via. Sempre quel dannato allosauro… e adesso, per giunta, gli stava correndo incontro a bocca spalancata.

Drof vide tutto come al rallentatore e, nel mentre, pensò con amarezza a tutte le promesse che non era riuscito a mantenere. La bocca rossa dell’allosauro era a pochi metri, ormai. Ma un’ombra imponente si scagliò sull’allosauro, gli afferrò il collo e glielo ruppe con una semplice stretta: Anitteb. Il giganotosauro, più rabbioso e inarrestabile che mai, tenne in bocca l’allosauro e cominciò ad usarlo come mazza per spazzare via tutto e tutti. Tutte le creature alleate tornarono nello spazio per farsi proteggere da lei, mentre i nemici venivano massacrati e sbattuti via in pochi secondi. Gnul-Iat, ancora una volta, cedette e decise di interrompere tutto. Drof sentì la sua voce:

«Stupenda battaglia, padre! Stupenda! Non vedo l'ora della prossima volta… e presto o tardi toccherà a lei!»

Chiamò uno pteranodonte con una sella piena di sacche e borse e, balzato agilmente sul suo dorso, si librò in volo. Fischiò, ordinando la ritirata collettiva. Drof, infuriato, corse sotto lo pteranodonte e fece per chiamare un altro volatile… ma Gnul tirò fuori una cerbottana da una delle bisacce e soffiò un altro dardo alla biotossina, lo centrò al collo. Se prima si sentiva come se avesse potuto abbattere i muri a pugni, ora Drof era fiacchissimo e non si reggeva in piedi. Era frustrante: ancora una volta, Gnul-Iat si era dileguato coi suoi sporchi trucchi.

«No… non la ucciderai… non puoi…» riuscì a biascicare, prima di addormentarsi.

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Quando si svegliò, era l’alba e aveva mal di testa. Era circondato dalle creature del suo contingente, mentre le cavalcature di Odranreb mancavano stranamente all’appello. Si alzò e guardò in giro: non era più nello spiazzo. Era in una zona più vasta e piena di edifici, il terreno era zeppo di impronte di animali. C’era odore di morte. Ci volle poco a capire che si trattava della base di Gnul-Iat, che però ormai era abbandonata. Con tristezza, diede dei buffetti al muso di Onracoel e iniziò a guardarsi in giro. Non trovò niente di particolare in quelle che prima erano le stalle, ma alle radici di un baobab con una casetta vide un oggetto particolare. Si avvicinò, spinto da un’insolita curiosità, e si portò una mano alla bocca dall’angoscia. Era il ritratto fatto col sangue di un viso che avrebbe distinto fra mille: il viso della sua amata Yram. Notò che accanto al disegno c’erano due oggetti: una statuetta che ricordava Acceber, il che aumentò ancora di più l’angoscia, e una lettera. Prese il pezzo di carta straccia e lesse:

 

“Lurida bestia!” pensò Drof, resistendo per poco all’impulso di accartocciare il messaggio.

Prossimo a piangere, guardò il volto sorridente di Yram. Si inginocchiò e passò le dita sulle sue guance, su cui Gnul aveva appoggiato più volte le nocche insanguinate per rappresentare il rossore delle gote.

“Non lascerò che torca un capello a nostra figlia, Yram. Lo giuro! Lui morirà. È nostro figlio, ma non ho scelta: Acceber non uscirà mai da quest’incubo finché lui respira” pensò, rialzandosi.

Mise via la lettera e la statuina di Acceber, quindi tornò da Onracoel a passo deciso.

«Coraggio, amico mio: ci attende un altro lungo viaggio. Ma prima seppelliamo Odranreb: se lo merita» disse.

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Capitolo 27
*** Il cospiratore (storia vecchia) ***


Dopo essersi persi e aver spopolato il Paradiso di Santi per quanti ne avevano scagliati a Vicky a suon di buone bestemmie, i documentaristi avevano cominciato un lungo viaggio alla cieca giù per la montagna, fino al bosco di querce e faggi che si trovava a valle. I tre cercavano disperatamente Mike o qualunque traccia di vita umana, alla ricerca di soccorsi. I dimorfodonti non si erano più fatti vedere, ma la foresta era comunque piena di vita: almeno due volte ogni ora, trovavano impronte, graffi su rocce e alberi, peli, piume, scaglie e altre tracce. E tutte le volte Vicky doveva giustamente fare un’accurata descrizione di cos’aveva lasciato la traccia, più tutti i modi in cui avrebbe potuto squartarli e dissanguarli, per la gioia di Phil e Allan. Come se non bastasse, non si passava un istante senza che qualcosa emettesse uno spaventoso richiamo in lontananza o fra i rami ci fosse un lugubre fruscio: la tensione era alle stelle. Arrivò la notte e, per orientarsi, Phil andò davanti e guidò i due compagni con la visione ad infrarossi. Per loro fortuna, trovarono un accampamento abbandonato in una zona piuttosto riparata: da un lato c’era un albero caduto e dagli altri qualche roccia a fare da barriera. Decisero di sostare lì. Montarono le tende e, per accendere il fuoco, riattizzarono le braci di chi era stato lì per primo. Per distrarsi dalla paura, decisero di raccontarsi barzellette… ma non funzionò perché facevano tutte schifo. Andò a finire che si addormentarono a forza, dopo aver ingollato le pillole soporifere che Allan prendeva ogni sera perché era insonne. La mattina dopo, quando Phil e Allan si svegliarono, il fuoco era spento da un pezzo e gli orologi segnavano le sei e mezza, ma il Sole si intravedeva già fra i rami degli alberi.

«Dormito bene?» chiese Phil, stirandosi il collo.

«No, da schifo – rispose Allan, massaggiandosi l’osso sacro – Devo essermi sdraiato per sbaglio su una pietra aguzza e ora non riesco più a sedermi…»

«Quella non è una pietra!» sobbalzò Phil, guardando dove gli era stato indicato.

Allan, stranito, si girò e scoprì che si trattava di un pezzo di metallo arrugginito.

«Oddio! Che schifo! Mi sono graffiato? Controllami la schiena! Non ho graffi, vero? Non ho mai fatto il richiamo dell’anti-tetanica… tutto, ma non il tetano!» farfugliò, nel panico.

«Calmati, non c’è niente sulla tua schiena! Sai, a parte foglie, fango e altre schifezze» lo rassicurò Phil.

«Ah, grazie a Dio… ma da dove viene?»

Alzarono lo sguardo sopra le loro teste e cacciarono un urlo di spavento quando videro, a due metri dalle loro facce, lo scheletro di un paracadutista ingarbugliato nell’imbracatura. Più in alto, incastrato fra i rami e ormai inghiottito dal verde, c’era il suo aereo. Dalla divisa dello scheletro e dal modello, intuirono che risaliva ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

«Porca miseria… che morte di merda! Come abbiamo fatto a non vederlo prima?» chiese Phil.

«Ah, non so, eri tu quello con gli infrarossi. Ehi, quel disegno sulla sua giacca è una svastica? Era un nazista, il povero diavolo!»

«Ah, allora meno male che è crepato da stronzo. Ma, in tutto questo… dov’è Vicky?»

Allan si guardò intorno e si rese improvvisamente conto che erano soli.

«Oddio, è vero! Vicky? Vicky!»

«Sono qui dietro, venite!» rispose subito la sua voce, da oltre le rocce.

I due, straniti, obbedirono e trovarono Vicky che osservava con un ampio sorriso una mappa di ARK appoggiata su un masso alto come un tavolino. Loro due le chiesero perché non aveva avvisato che era lì e lei, facendo spallucce, disse che tanto era dietro l’angolo. Poi indicò con fierezza la mappa, dicendo che il problema con l’orientamento era risolto.

«Dove l’hai presa?» chiese Phil.

«Era già qui, io l’ho solo trovata» rispose lei.

«Ah…»

«Comunque, guardate qui: ci sono segnati tutti i punti di interesse per un nativo dell’isola! Noi siamo per forza qui, sotto la montagna più a Sud delle due in riva al mare a Est – spiegò, indicando le pendici del monte Allics – E qui, accanto a questo rivolo d’acqua, ci dovrebbe essere una… mah, sembra una specie di bus, solo che è un diplodoco. Prendiamo quello, ci facciamo portare in un villaggio e siamo salvi! Da lì, possiamo pure trovare terreno fertilissimo per delle succose interviste cariche di dettagli…»

«Meraviglioso!» esclamò Allan.

«Già, abbiamo solo un problema…» accennò Phil.

In quel momento, un fragoroso ruggito fece eco nella boscaglia, anche se era lontanissimo.

«Parli del diavolo… ecco, stavo per dire che è pieno di mostri sanguinari, qui. Come facciamo a superare solo un altro giorno fra loro? Con tutte quelle tracce, è impossibile non beccarne almeno uno!» si lamentò.

Ma Vicky ridacchiò:

«Ho già rimediato. Nel corso dei miei studi universitari, ho fatto svariate ricerche sull’ecologia di rettili e uccelli carnivori di cui i dinosauri fanno parte»

«E questo è opinabile» replicò Allan.

«Sta’ zitto. Dunque, anche se avrei preferito usarla per delle analisi dopo il ritorno a casa, credo sia saggio cospargerci di questa… - prese qualcosa da terra dietro il masso e lo sollevò per farlo vedere ai due colleghi – Urina di anchilosauro!»

In mano teneva un bottiglione in plastica mezzo pieno di liquido giallo scuro. Phil e Allan erano increduli:

«Cosa?!» chiesero.

«Urina di anchilosauro! Volevo portarmela a casa ed esaminarla, per poi scrivere una relazione sulle funzioni renali degli ornitischi, invece la useremo per nascondere il nostro odo…»

«Aspetta, aspetta, scusa se ti fermo – si intromise Allan – Quella è… pipì?»

«Certo. Perché?»

«Tu… sei andata in giro a prendere pipì di dinosauro? Come? Quando?»

«Mentre dormivate, ho dato un’occhiata nei dintorni e ho raccolto dei campioni per le mie ricerche genetiche. La applicheremo ai nostri vestiti e…»

«No, ora devo assolutamente saperlo… tu sei stata tutta la notte sotto il pisello di un dinosauro col bottiglione in mano?»

«Non pisello, patata: era una femmina. E se… se davvero vuoi essere tecnico e ridurre tutto al suo elemento di base… sì, ho fatto così»

«Come ti sei sentita?» chiese Allan, mentre Phil rideva a crepapelle.

«Me lo stai chiedendo sul serio?»

«Sì!»

«Be’… è rilassante. È come pescare: stai lì, immobile, paziente, sola, con la lenza in mano… poi, all’improvviso, zing! Ecco che arriva. Stavo dicendo, ci bagneremo con questa e saremo irrintracciabili per qualsasi forma di vita animale nel raggio di kilometri»

Uno strano richiamo cinguettante e acuto risuonò per la foresta, portandoli a guardarsi in giro nervosi. Pareva vicinissimo…

«Avrei dovuto pensarci molto prima» commentò Vicky.

Quindi, di fronte a dei disgustati Phil e Allan, alzò il bottiglione sopra la sua testa e si rovesciò parte del liquido giallastro in testa e sui vestiti. Si strizzò i capelli e strofinò gli occhi, quindi tentò un sorriso incoraggiante:

«È rinfrescante! E adesso ingeritene un po’, per farla entrare in circolo…»

Si portò il collo del recipiente alle labbra e ingollò un sorso di urina come se fosse acqua. Phil dovette sforzarsi per non vomitare, vedendoglielo fare. Com’era facile da prevedere, Vicky strabuzzò subito gli occhi, sbiancò e sputò tutta l’urina per terra.

«No, non ingeritela! Sa di acqua di mare mista a vomito alla verdura! Che schifo… allora, chi è il prossimo?» chiese, porgendo il bottiglione.

«Io no!»

«Neanch’io!»

«Oh, andiamo! Non è così male…»

In quel momento, iniziò a strizzare continuamente gli occhi, che si stavano arrossando tutti, e a rigirarli su, giù, qua e là.

«Mi sbagliavo: iniziano a bruciarmi gli occhi, non era previsto… ah! Ora mi è entrata nel naso e non è affatto piacevole… forse una seconda doccia ridurrà gli effetti»

Se ne rovesciò altra dritta in faccia e iniziò subito a stringersi le narici con due dita:

«Li peggiora subito! Ah… uno di voi ha un asciugamano? Bah, non importa. Quindi, in teoria dovremo ripetere il processo ogni sei o sette ore per… ah, che male! Si capisce che è quella della mattina: è forte! Avrei dovuto usare degli escrementi. Errore mio, ragazzi, scusate»

«Scusa? E di cosa? È uno spasso vedere come ti torturi da sola col piscio!» scherzò Phil.

«Peccato che non abbiamo registrato questa parte: avremmo avuto uno sproposito di visualizzazioni per questa! Non che i dinosauri in carne ed ossa siano da meno, eh?» aggiunse Allan.

«Sapete cosa? Lasciamo perdere e andiamo, succederà quel che deve succedere» sbuffò Vicky, umiliata.

I tre quindi presero la mappa e, riaccesa la telecamera, ricominciarono il tragitto. Vicky fece un monologo per riassumere la situazione al pubblico:

«Signore e signori, questa notte è stata molto lunga e decisamente poco riposante per la sottoscritta, siccome l’ho trascorsa setacciando questa suggestiva foresta di latifoglie alla ricerca di campioni di acido urico deposto da un gruppo familiare di Ankylosaurus crassacutis al fine di…»

«Perché fai tanto la complessa? Dì che volevi farti una doccia di pipì e ammetti la tua idiozia!» protestò Phil, mentre aggiustava la messa a fuoco dell’obiettivo.

«Non è professionale. E non mi interessa se metteremo il documentario su YouTube, preferisco fare come se fossimo in onda! E ricorda di tagliare eventuali frasi poco ortodosse, in fase di montaggio»

«Certo, certo…»

«Stavo dicendo, gente, al momento ci stiamo orientando con questa accuratissima cartina dell’isola che io e la troupe abbiamo trovato in un accampamento vuoto. Non abbiamo più notizie della nostra guida Mike e della sua bombetta tecnologica dallo scorso episodio…»

«Grazie a te» la interruppe Allan, tirando indietro il microfono a ponte per un secondo.

«...dopo la fuga dalla colonia di dimorfodonti. Dunque, come vedete qui a schermo – si voltò verso l’obiettivo e piazzò la mappa davanti ad esso tenendola come se fosse una bandiera, lasciando che Phil adattasse da sé l’ingrandimento – Più ad Ovest c’è un punto in cui gli indigeni usano dei diplodochi addestrati come mezzo di trasporto pubblico. Con un po’ di fortuna, ce ne serviremo anche noi per raggiungere un posto più sicuro. Mi raccomando, supportateci con un bel pollice in su da casa vostra, condividete le nostre riprese per mostrare al mondo che esiste questo posto incredibile e… augurateci buona fortuna! Puoi spegnere, Phil»

«Non hai detto a quanti “mi piace” vogliamo arrivare» le fece notare lui, spegendo la telecamera.

«Mi sono resa conto che non ha senso, visto che loro non ci vedranno ad episodi ma in un unico lungometraggio montato» rispose lei.

«In effetti…» bofonchiò Allan.

I tre proseguirono fino ad un lago con un fiume che entrava e un altro che usciva, le sponde erano poco vaste e ghiaiose. Era come una chiazza turchese in mezzo al verde delle querce e dei faggi. Vicky disse che da lì dovevano andare a destra e seguire il fiume emissario, e il gioco era fatto. Incoraggiati da queste istruzioni a dir poco facili, accelerarono il passo. Andarono avanti dieci minuti senza problemi, quando d’un tratto accadde la cosa più inaspettata e stupefacente che potesse capitare: un incontro ravvicinato con Kong. Tutto cominciò quando videro gli alberi alla loro detra scuotersi e scricchiolare, poi la terra iniziò a vibrare. Allan stava già per girare i tacchi e correre via veloce come il vento strillando “al tirannosauro” come una donnicciola. Invece, dal bosco, non emerse nessun dinosauro: apparve un imponente gorilla di quindici metri, segnato da numerose cicatrici e dallo sguardo assorto. I tre si congelarono sul posto ad occhi sgranati, quasi facendo cadere gli zaini e l’attrezzatura. Kong camminava lentamente, trascinando dietro di sé un tronco tutto marcio tenendolo per le radici: era così putrefatto che si sfrugugliava ogni secondo di più. Non accorgendosi di loro, che erano a venti metri da lui, il Megapiteco si sedette a zampe posteriori incrociate davanti al lago e appoggiò il tronco di fronte a sé. Con una smorfia che somigliava al sorriso di un affamato che sta per ingozzarsi, infilò le dita nel legno e lo aprì in due, come se fosse un baule. Dentro l’albero morto, in migliaia di buchi e cavità, si agitavano larve e crisalidi di specie assortite di insetti arkiani: larve di scarabeo skua, una colonia di titanomirme, piccole acatine e altro. Kong iniziò ad afferrarne grosse manciate e a gettarsele in bocca, masticando con foga. Gocce di fluidi corporei delle larve colavano dalle sue labbra mentre se le rigirava sulla lingua.

«Oh… mio… Dio!» sussurrò Vicky, così piano che nemmeno lei si sentì.

«Io suggerisco di filarcela lo stesso» subilò Allan.

«No! Assolutamente no! Dobbiamo immortalarlo!» protestò Vicky, non accorgendosi di aver alzato un poco la voce.

«Sei scema? Io non mi metto a fare un video di quel bestione, ci vedrà!» disse Phil.

«Allora facciamogli delle foto!»

«Fagliele tu! Tieni» e Phil le passò la fotocamera che aveva appesa al collo.

Fatto questo, i due corsero all’albero più vicino e vi si nascosero dietro. Vicky rimase confusa e indecisa sul da farsi per un attimo, poi si ricompose e si rigirò la fotocamera tra le mani. La accese e si accertò che Kong fosse ancora impegnato a mangiare. Quindi, volendo a tutti i costi inquadrare bene il suo muso, provò a girare intorno a lui passando inosservata, cioè gattonando come un moccioso sul terreno; raggiunta l’acqua, riuscì a fare una foto mentre il gorilla, guardando in alto, succhiava un’acatina fuori dal guscio tenendolo fra due dita. Allora, eccitata come mai prima di allora, Vicky tornò di corsa dai suoi colleghi, non accorgendosi di star facendo un gran fracasso e che Kong si era voltato di scatto verso di lei, sorpreso. Quando arrivò all’albero, però, Vicky non trovò Phil e Allan: li vide correre di nuovo nella foresta, a perdifiato. Subito, iniziò a seguirli, ritrovandosi in mezzo al verde come poco prima. Li chiamava a gran voce, ma loro non si fermavano. Così, tutto quello che le rimaneva da fare era correre dietro di loro, sperando di non perderli. I due, finalmente, si fermarono quando arrivarono ad un’altra uscita della foresta che dava sul fiume che usciva dal lago: per fortuna, invece di perdersi erano andati avanti per una scorciatoia.

«Ehi, ma che vi prende? Mi stavate abbandonando!»

«Sei tu che hai rovinato tutto!»

«Cosa? Al contrario! Guardate che scatto fantastico…»

Accese il rullino della fotocamera e, mettendosi davanti ai due colleghi, iniziò a descrivere nei minimi dettagli la foto di Kong. Ma, quando sollevò lo sguardo dallo schermo, vide che i due non stavano guardando lei, ma un punto in alto dietro di lei, pallidi e a bocca spalancata. Vicky sentì dei pesanti passi e un respiro profondo dietro di sé.

«Oh… ci ha visti e seguiti, vero?» chiese, rassegnata.

I due annuirono, senza muoversi né spostare lo sguardo. Vicky guardò con terrore sopra di sé e vide il muso a testa in giù dello scimmione, che la fissava con aria interrogativa. Le gambe le tremarono e sentì che le stava venendo un mancamento. Prima di svenire, emise un verso ridicolo che sembrava un misto fra una risatina e il miagolio di un gatto. Kong, sentendo quel rumore, fece un passettino all’indietro dalla sopresa, con una faccia stralunata. Ad Allan scappò da ridere in automatico, ma Phil lo fece smettere con una gomitata e i due tornarono immobili come statue. Kong allora guardò anche loro e si avvicinò. Ora fece una sorta di “sorriso” abbastanza ampio: sembrava parecchio divertito da quei tre umani. Superò Vicky e si fermò a pochi passi da loro, fissandoli dall’alto dei suoi quindici metri. Si abbassò piegando le braccia per guardarli più da vicino: non capiva perché stavano così fermi, la cosa sembrava molto divertente per lui. Sbuffò con le narici e Phil inizò a sudare freddo. Kong si concentrò su Allan e, per vedere se a stuzzicarlo si smuoveva, lo spinse con l’indice. Il fonico, perdendo il fiato e rovesciandosi pancia all’aria, si coprì la faccia e si rannicchiò in posizione fetale, mugugnando. 

«Phil? Sei ancora con me, amico? Sono morto?»

«No… forse!»

A quel punto, Kong scoppiò letteralmente a ridere. La sua era una risata scimmiesca, cioè parecchio grave e gutturale, ma si capiva cos’era dal sorrisone a trentadue denti che si era dipinto sulla sua faccia: faceva paura e ridere nello stesso momento.

HO-HO-HO-HO-HO-HO-HAAA-HAAA-HAAA-HAAA!!! HA-HA… HOHO!!!

Intanto, iniziò a saltellare sul posto e pestare le mani per terra. I due non avrebbero mai pensato che una simile creatura potesse essere così facile da “intrattenere”. Quello che non sapevano, infatti, era che Kong era sì, un bestione letale e combattente, dall’aggressione facile, ma solo se si invadeva il monte Opmilo o lo si provocava. Se decideva che un umano o qualunque altra cosa era interessante o insolito, bastava pochissimo a divertirlo come un cucciolo di scimpanzè. Vicky, in quel momento, si svegliò e si mise seduta. Ma, vedendo Kong che le dava le spalle e dava spettacolo, svenne di nuovo. Kong stava per fare lo scherzo della spinta anche a Phil, ma fu interrotto di colpo da un ruggito che rimbombò dal profondo della foresta. Si bloccò e girò verso il rumore, poi rivolse ai tre uno sguardo dispiaciuto, come per dire “scusate, ci stavamo divertendo, ma devo scappare”, e si buttò a capofitto nella foresta per indagare. Rimasti soli, Phil e Allan si scambiarono un’occhiata confusa, quindi svennero a loro volta.

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CINQUE MINUTI DOPO…

Mike Yagoobian, che finalmente aveva sia Doris che Doris-B nuovamente in funzione, atterrò accanto a loro con Girodue: li aveva finalmente ritrovati con la scansione termica della bombetta, dopo che lei aveva finito l’auto-riparazione.

«Oh, eccoci qui, Doris! I nostri preziosi alleati nella raccolta di prove sono vivi e illesi… meno male! E per fortuna ho notato quel maledetto gorilla prima di scendere a terra, se no sarebbero stati guai. Mi fa ancora pensare al nostro povero girocottero… riposa in rottami, intramontabile compagno di viaggi e di fughe da paesi in cui sono ricercato! Forza, portiamoli in un posto sicuro e rivediamo il piano, dobbiamo vendicarci di Laura Hamilton!»

Ma Doris la pensava diversamente:

«Mike, ho fatto un’analisi della situazione. Lo sospettavo dall’inizio, ma ora ho confermato in via definitiva che non è la decisione migliore interrompere le ricerche sui Pre-Arkiani dei nostri concorrenti»

«Perché? Così arrivano per primi al Teso… oooooh! Ma certo! Doris, sei geniale!»

«Sono semplicemente logica»

«Se lasciamo che risolvano gli enigmi rischiando la vita al posto nostro finché arrivano alla fine, possiamo molto astutamente sgusciare davanti a loro e fregare il Tesoro prima di loro senza che nemmeno se ne accorgano! Muhuhuhaha! Allora sai cosa faremo intanto?»

«Cosa?»

«Ci faremo aiutare da questi tre esimi signori a mettere in piedi il più grandioso e memorabile documentario su dinosauri e indigeni poliglotti della Storia! E sarà reso tutto più magico dalla performance unica del sottoscritto! Sì, vedo già le cifre a nove zeri che guadagneremo al botteghino! Con questo, il Tesoro ci farà ricavare ancora di più e nessuno potrà mai smentirci! – Poi, pensando ad un buon titolo, balzò su una roccia e iniziò a guardare in alto con aria fiera e coi pugni ai fianchi, come Indiana Jones su una locandina – Il mitico viaggio di Mike Yagoobian e DOR-15 sull’isola preistorica… mi piace!»

«Trovo che sia la decisione più saggia e vantaggiosa che abbia preso finora» commentò Doris.

«Lo so, Doris, non è colpa mia se sono nato con la zucca così piena di sale! Muhuhuhaha!»

Poi, guardando i corpi svenuti dei tre, chiese a Girodue se ce la faceva a trasportarli con aria imbarazzata. Lo pteranodonte, capendo le sue intenzioni quando iniziò a trascinare Vicky da lui, si spaventò all’idea dello sforzo e volò via strillando.

«No! Aspetta, Girodue! Non puoi tradirmi così! Aspetta!»

Per sua fortuna, Doris gli ricordò di Doris-B, così lui la indirizzò dal volatile a mezz’aria, lo ipnotizzò e lo fece tornare indietro.

«Forza, non ti pago per sfuggire al lavoro, sciagurato! Aspetta, perché dovrei pagarti? Sei un animale... domande per dopo»

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L’umore di Jack non era cambiato affatto, ore di marcia dopo all’inseguimento della coccatrice. Era furioso con Rockwell per aver messo a rischio la propria vita e la sua solo per dimostrare a Diana che era dispiaciuto coi fatti. Le orecchie gli ribollivano e aveva continuamente la tentazione di saltargli addosso e menare le mani. Il farmacista, per imbarazzo, non disse la verità ad Helena quando si trattò di chiamarla per spiegare un ritardo nel loro ritorno dall’URE. Accennò solo ad un “incidente di percorso” che avrebbe preso qualche tempo. Jack non aveva idea di come avesse resistito all’impulso di strappargli la ricetrasmittente e gridare a squarciagola la verità, solo per il gusto di prendersi una ripicca. E lo fece arrabbiare ancora di più il pochissimo buonsenso che Edmund dimostrò con questo breve scambio di parole:

«Almeno possiamo prenderci qualche animale? Io non voglio buttarmi contro quella cosa senza aiuto!»

«Purtroppo non c’è tempo da perdere, ragazzo: più aspettiamo, più la coccatrice causa danni. Dovremo saper batterla solo col nostro ingegno, come ho già fatto molte volte in passato! Credi che la specie umana sia salita in cima all’ecosistema con la forza fisica? No, ci è riuscita grazie alla sua intelligenza»

“Sai dove ti puoi ficcare l’intelligenza?” aveva pensato Jack, coi pugni tremanti.

Erano spacciati. Non ne sarebbero usciti vivi solo con quei ridicoli bastoncini che Rockwell chiamava “lance”, se il vecchio non si decideva a domare o farsi prestare una creatura da qualche parte. Gli insulti e le maledizioni che gli lanciò a mente furono troppi per contarli. Rockwell parlò molte volte mentre seguivano le tracce, facendo speculazioni sulle possibili abitudini territoriali e predatorie della coccatrice (battezzata anche Raphus timendus come nome scientifico), su quale strategia avrebbero potuto adottare per combatterla a seconda di dove lei si fosse stabilita, se aveva intenzione di stabilirsi da qualche parte, come prevedere le sue mosse eccetera. Erano dettagli utili da tenere a mente, ma ormai Jack non ascoltava più: era troppo arrabbiato, troppo colmo di odio. Quindi fece solo finta di annuire, quando in realtà si limitava a guardare davanti a sé e stare distratto. Ormai era notte, ma per fortuna non sembrava che ci fossero predatori nelle vicinanze. Camminavano serenamente, usando le lance come bastoni da passeggio, come se stessero facendo una scampagnata in montagna. Gli alberi si fecero un po’ più fitti, segno che la prateria stava finendo per cedere il posto alla boscaglia man mano che procedevano verso Sud-Ovest, la direzione presa dalla coccatrice. Arrivarono in riva ad un fiume molto grande, ma tranquillo. Davanti a loro apparve una casetta a due piani, circondata da torce e illuminata anche dentro, con un vialetto di sassi levigati che conduceva all’ingresso. Era in riva al fiume e, sul lato sinistro, si trovava un mulino che girava abbastanza in fretta. Sul lato opposto, illuminata dai fuochi, pendeva un’insegna in legno, che Rockwell seppe tradurre ad alta voce grazie ad Ellebasi che gli aveva insegnato l’arkiano:

IL PANE E LE FOCACCE DI ONINROC

APERTO TUTTO IL GIORNO E TUTTA LA NOTTE, VENDO ANCHE DURANTE LA LIEVITAZIONE!!!

«Oh, un panettiere…» Jack non se l’aspettava, anche se avrebbe dovuto.

«Le tracce si avvicinano alla bottega, ma poi continuano… forse non ha ancora il coraggio di attaccare prede più grosse delle bestiole in fondo alla catena alimentare» rimuginò Rockwell.

«Già, non ancora…» sottolineò Jack, preoccupato e irritato.

«Che ne dici di prendere qualcosa da mangiare e portare via, così riposiamo un po’? Ho dei ciottoli con me e mi sembra di notare che le nostre scorte cominciano ad essere poche per due persone…» suggerì Edmund.

«Perché no?»

I due entrarono, ma Jack aveva semplicemente voglia di isolarsi e tentare di sbollire. Così salutò distrattamente il panettiere Oninroc, che a pensarci bene era anche un tipo piuttosto simpatico e giulivo, nonostante le ore piccole a cui lavorava, e andò ad accostarsi ad una finestra, guardando il paesaggio notturno. Rockwell, invece, intraprese una breve conversazione col fornaio, chiedendogli se aveva notato una strana creatura che pareva un uccello misto ad un velociraptor, ma gli fu detto di no: era passata del tutto inosservata. Jack, stranamente, si sentì osservato. Si voltò verso destra e vide l’uomo più inquietante che avesse mai visto: un tizio all’incirca sulla quarantina, molto alto e grasso, con la pancia che gli avanzava molto fuori dalla maglia in cotone. Aveva barba e capelli alla Karl Marx ed era malandatissimo: gli mancava il braccio sinistro e aveva un pezzo di legno al posto di tutta la gamba destra per aiutarsi a camminare, come il capitano Achab. Una benda di iuta gli copriva l’occhio destro, il che faceva sospettare che gliel’avessero cavato. Lo fissava con sguardo arcigno e, tutt’attorno a lui, una fitta banda di mesopitechi domati guardava Jack con la stessa espressione, quasi fossero in sincronia telepatica col padrone. Jack cercò supporto da Rockwell, ma vide che il medico era troppo impegnato a conversare col panettiere, girato di spalle e con la pala nel forno per girare delle focacce. Lo spaventoso sconosciuto, con la mano, fece segno a Jack di stare zitto e seguirlo giù per le scale, in cantina. Il giovane scosse la testa con risolutezza e occhi strabuzzati: non ci pensava neanche, a seguire un tipo così! A questo punto, il grassone diede un ordine muto ai mesopitechi: due di essi andarono dal panettiere e presero a scimmiottare e fare acrobazie sul posto, attirando la sua attenzione.

«Avete ancora fame? Va bene, vado a vedere se restano delle nocciole…» disse lui, sbuffando e abbassandosi sotto il bancone, mentre Rockwell si sporgeva guardando giù per poter continuare a parlargli.

Ad un certo punto, dopo aver soddisfatto i mesopitechi, Oninroc chiese a Rockwell se gli poteva interessare comprare dei gambi essiccati di grano da usare come pagliuzze per accendere il fuoco da campo, cosa che era un’offerta unica di quel panificio. Rockwell ci rifletté un attimo, dopodiché accettò dicendo che una comodità in più non faceva mai male in un ambiente ostile. Dunque, il panettiere si fece seguire in una stanza nel retrobottega ed entrambi sparirono nella stanza adiacente… e fu allora che, di colpo, tutte le scimmiette si avventarono su Jack. Una lo imbavagliò con uno straccio, mentre le altre gli fecero perdere l’equilibrio. Lo fermarono prima che cadesse sul pavimento, tutte insieme, quindi lo trascinarono a forza nel seminterrato. Il loro padrone chiuse a chiave la porta e scese le scale, dopo che Jack fu gettato per terra.

«Argh! Lasciami stare! Chi sei? Che diamine vuoi da me?» chiese, terrorizzato, raggomitolandosi in un angolo.

Lo sconosciuto gli si avvicinò e, fissandolo col suo sguardo penetrante, parlò con una voce cavernosa:

«Il mio nome è Ottosir Nopuorg. Sono l’addetto alle consegne del panettiere»

«E io sono Jack… perché mi stai rapendo? Io non ho niente!»

«Non ti sto rapendo. Ti ho portato qui per farti una proposta, da uomo a uomo»

«…proposta?» Jack non capiva.

«Ho deciso di chiederti di farmi un piacere per saldare un conto aperto due anni fa»

«E sarebbe?»

«La mia donna e le mie meravigliose bambine sono morte tra le mie braccia e fra atroci sofferenze. Ed è tutta colpa dell’arroganza e dell’incompetenza del vecchio bastardo con cui stai»

«Rockwell?! Sul serio?»

«Sì. È da quando ho saputo del suo ritorno che cerco un modo per dargli una lezione che non dimenticherà mai, ma purtroppo l’ho sempre visto in mezzo alla gente o protetto dagli Uomini dal Cielo… fino ad ora»

«Tu… ci spiavi? Da quanto?» chiese Jack, meravigliato.

«Da quando tu e la tua combriccola avete avuto un incidente all’Etnorehca, il giorno in cui diluviava. Ogni tanto, fra una consegna e l'altra, andavo a tenervi d'occhio in attesa di opportunità»

«Ah…»

«Guarda caso, ora ho avuto l’immensa fortuna di trovare quel maledetto al mio posto di lavoro… con te»

«Non mi hai ancora detto perché vuoi chiedermi un favore»

«Nei tuoi occhi ho visto la mia stessa rabbia per lui. Non negarlo: sono ferratissimo nel capire i sentimenti con gli occhi. Cos’ha fatto a te?»

«Con una sostanza che aveva l’URE abbiamo trasformato un dodo in un mostro per sbaglio, ora vuole che lo uccidiamo a mani nude senza che io possa dire la mia. Mi tocca morire senza poterlo evitare solo perché lui vuole riparare ad un errore! Potrei scappare, ma cosa cambierebbe? Qualcosa mi mangerebbe lo stesso…»

«Allora possiamo capirci! Dunque ha creato il mostro che ho visto avvicinarsi alla bottega, eh? Lo sapevo: da uno come lui non possono venire che disgrazie. E dimmi… non ti sei mai chiesto quanto le cose migliorerebbero senza Rockwell?»

«Nelle ultime ore, sì»

«La vostra creatura ha attraversato il fiume ed è andata alla Sorgente di Artsa, la fonte più pura dell’isola. Per arrivarci, si può seguire il fiume o un giro più largo che passa da alcune pozze di zolfo, pieni di comodi punti da cui fare imboscate… voglio che tu lo conduca lì»

A questo punto, Jack rimase interdetto:

«Vuoi che ti aiuti ad ucciderlo?»

«Ti sto chiedendo di andare alle pozze con Rockwell, lasciare le pozze senza Rockwell e tornare alla tua vita. Nulla di più facile»

Jack scosse subito la testa:

«No, signore, hai sbagliato persona. Io non sono il tipo a cui chiedere queste cose! Sono arrabbiato con lui, ma non a questo punto! Mi spiace per la tua famiglia, ma se lo uccidi non sarai tanto meglio di…»

Si alzò e fece per uscire dalla cantina, ma Ottosir gli afferrò la collottola, lo sbatté al muro e lo tenne premuto contro i blocchi di pietra:

«Allora non te lo chiedo, te lo ordino» disse, dieci volte più minaccioso.

«Non lo farò! Non voglio una morte sulla coscienza!»

«Non c’è nessuno da avere sulla coscienza, lui non merita compassione»

«Non mi interessa!»

Ottosir lo sbatté sul pavimento, lo sollevò ancora con l’incredibile forza del suo unico braccio e fece un cenno ai mesopitechi. Loro andarono in un angolo pieno di sacchi di farina, li spostarono e rivelarono un grosso catino di legno pieno d’acqua. Lo trascinarono al centro del seminterrato e Ottosir portò la faccia di Jack sopra i bordi: nell’acqua si agitava una grossa anguilla mista ad una murena, un elettroforo. Da tutto il corpo uscivano delle scariche elettriche dal bagliore quasi accecante e così forti da far ribollire il liquido.

«Appena ti mollerò, farai più luce tu di una stella cadente e friggerai come olio. Se oserai ancora paragonarmi a Rockwell, lo sperimenterai adesso – ringhiò Ottosir – Ti sconsiglio di mettermi alla prova»

«Scusa! Perdonami! Mettimi giù!»

Ottosir lo tirò ancora su e lo girò per costringerlo a fissarlo:

«Se non farai come ti ho detto, ti rintraccerò dovunque e ti butterò in una vasca piena di elettrofori, rimpiangerai questo catino elettrificato»

«Lo farò! Giuro!»

Fu mollato per terra e corse di nuovo alla parete.

«Ma perché Rockwell deve andare proprio lì? Non puoi ucciderlo e basta?» chiese, perplesso.

«Silenzio e fa’ come ti è stato detto! Lo voglio alle pozze perché ho programmato tutto nei minimi dettagli, questo è quanto. Fila!»

Jack, terrorizzato, corse su per le scale, rigirò la chiave nella toppa e uscì in fretta e furia. Rockwell stava ad aspettarlo sulla soglia:

«Eccoti, finalmente! Dov’eri?»

Jack pensò in fretta ad una giustificazione:

«Volevo vedere quanti sacchi di farina ci sono qui. Già, è strano che ci abbia pensato, ma ci ho pensato»

Il panettiere rise, soddisfatto:

«Sono ben ottantacinque! Niente male, vero? Non sono tanto i lavoratori attivi come me, qui! Grazie per esserti interessato alla mia attività, straniero»

Per fortuna, Oninroc era stupido come una capra. Dunque i due salutarono e ripartirono. Jack ebbe degli istanti di esitazione. Ma, quando si voltò e vide Ottosir che lo fissava dalla finestra, non indugiò oltre: disse a Rockwell che l’addetto alle consegne del panettiere gli aveva anticipato dov’era diretta la coccatrice. Raccontò di questa “Fonte di Artsa” e delle pozze di zolfo da cui si doveva passare per arrivarci. Rockwell disse di sapere di quella fonte, ma che c’era una strada più rapida per raggiungerla. Spaesato, Jack pensò un attimo e, preso dal panico, ebbe il forte impulso di rivelargli tutta la verità sul ricatto che gli era appena stato fatto. Ma al pensiero della voce terrificante di Ottosir e dell’elettroforo, l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e si inventò un’altra scusa: disse che Ottosir gli aveva spiegato che negli ultimi mesi la scorciatoia si era riempita di predatori ferocissimi e che era una follia percorrerla. Rockwell sembrò poco convinto per un attimo e Jack ebbe paura che non ci cascase… ma alla fine si convinse e decise di andare alle pozze sulfuree per non correre rischi. Il ragazzo fece un sospiro di sollievo nascosto e continuarono il viaggio.

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Ora Jack non sapeva più cosa provare, il suo animo era un tripudio di emozioni contrastanti: paura della nuova “minaccia” che si era appena unita a quella della coccatrice, vergogna per aver ceduto alla paura ed essere stato al gioco di quel deforme, sempre la rabbia per la sconsideratezza di Rockwell che, però, andava man mano sgretolandosi lasciando il posto ai nuovi sentimenti… non era mai stato peggio. E, addirittura, la cosa peggiorò quando Rockwell lo guardò e fece quello che prima sperava si ricordasse di fare: gli chiese scusa.

«Giovanotto, io so che in questo momento sei arrabbiato con me»

«Lo sa?» fece Jack, giusto per dire qualcosa.

«Sì, è naturale che lo sia. Comprendo che avresti voluto contestare la mia decisione alla base di quei soldati, e mi scuso sinceramente per non avertelo concesso»

«Oh…»

«Quindi ora ti faccio una promessa: mi accerterò con assoluta precisione che ideerò la soluzione perfetta per risolvere il problema della coccatrice senza che a nessuno di noi due sia torto un capello! Sarebbe ingiusto che un ragazzo dalla mente brillante come te perda ogni occasione di farsi una vita degna del suo potenziale per un atto di “eroismo” improvvisato da questo vecchio pazzo»

«Uh... certo, grazie! Mi fido?»

«Ovvio che ti devi fidare! Anzi, se non riesco a mantenere la parola e ti succede qualcosa di grave, farò tutto quello che mi chiederai per scusarmi»

A questo punto, vedendo che Rockwell in realtà capiva perfettamente il suo stato d’animo, Jack sprofondò in un mare di vergogna assoluta. Come aveva potuto vendere la sua lealtà con un semplice “sì” perché se l’era fatta addosso con qualche minaccia, quando Edmund ora prometteva di proteggerlo come meglio poteva e di sdebitarsi se le cose fossero andate male? Ebbe la forte tentazione di confessare, ma la paura ebbe ancora il sopravvento. Era bloccato, pietrificato all’idea di cosa avebbe potuto succedergli se fosse fuggito dal ricatto di Ottosir… che fare?

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Capitolo 28
*** Il villaggio sul mare e la valanga (storia vecchia) ***


«Edmund, ci sei?» chiese Helena, mentre il gruppo continuava a seguire la linea costiera.

«Sì, sono qui. Hai qualcosa di importante da raccontare?»

«Parecchio importante! Potremmo aver fatto la scoperta più rivoluzionaria e sconvolgente di sempre!»

«Riguardo i misteri dell’isola, giusto?»

«Sì! Abbiamo incontrato un uomo che dice di venire da tutto un altro mondo, di aver raggiunto ARK attraverso un passaggio segreto che in qualche modo l’ha trasportato in questa dimensione. Rockwell, ti rendi conto?!»

«Aspetta un momento, mi stai forse dicendo che esistono altre realtà oltre alla nostra?»

«Esattamente! Edmund, questo è straordinario! I Pre-Arkiani erano avanzati oltre ogni limite che avremmo mai potuto immaginare! E se lo erano grazie al Tesoro…»

«Perdonami se mi trovi scettico, Helena, ma quello che dici mi sembra troppo assurdo per essere vero»

«No, Edmund, quel tizio non mentiva affatto! Glielo leggevo in faccia! E le prove sono troppe…»

«Bene, allora elencamele e dimostrami che ho torto»

«Innanzitutto, era il padrone di una creatura, come gli Arkiani… ma questa creatura per noi è un personaggio immaginario. Da lui, invece, quel mostro e tutte le specie della sua serie di film sono reali e convivono con gli umani su tutto il pianeta! E poi era un Britanno dall’età classica, ma ha fatto riferimenti a luoghi e civiltà che nel nostro mondo sono state scoperte dagli Europei solo nel tardo Medioevo e nel Rinascimento, perché queste creature hanno accelerato i progressi. Rockwell, è tutto vero! ARK è collegata a questo e a chissà quanti altri mondi paralleli da passaggi che possiamo benissimo trovare esplorando meglio!»

«Io… questo è… va al di là dello straordinario!»

«Lo so! Neanch’io sono mai stata così emozionata…»

«Ehi, io sono Jack. Posso sentire i ragazzi?»

«Oh, certo! Ragazzi, il vostro amico vuole salutarvi»

Quindi passò la radio a Laura e i tre salutarono l’amico avvicinandosi al microfono. Gli chiesero come andava, e lui si limitò ad un “non mi lamento”, anche se in realtà c’era parecchio da lamentarsi. Quindi chiese qual era la creatura immaginaria di cui Helena parlava e, quando glielo rivelarono, credette che gli stessero facendo uno scherzo.

«Col cavolo che è uno scherzo! L’abbiamo visto per ben due volte, ha pure salvato noi e Acceber da uno squalo gigante!» rispose Chloe.

«Diglielo anche tu, Acceber!» esortò Laura.

«Non ho neanche idea di cosa sia quel mostro, ma se dite che si chiama Godzilla… a proposito, qualcuno mi potrebbe dire come funzionano questi oggetti per parlare da lontano? Sono fantastici!» rispose l’Arkiana.

«Magari dopo. Comunque, era davvero lui! Solo molto più basso che nei film… quando ci rivediamo, ti mostro la foto!» disse Chloe.

«Quando l’avresti fotografato?» chiese Sam.

«Gli ho fatto una foto col cellulare mentre andava via, l’ho beccato in una posa epica prima che si tuffasse in mare… tranquilla, non la faccio vedere a nessuno! Scusa, c’era Helena che mi guardava storto»

«Ragazzo, penso che dobbiamo andare, ora: non c’è tempo da perdere!» Rockwell lo riportò alla realtà.

Allora Jack, anche se un po’ triste per dover salutare di nuovo i suoi amici, chiuse la comunicazione e riprese il cammino con Rockwell, tornando anche a meditare sul suo dissidio interiore a causa di Ottosir e il suo ricatto.

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Per il resto del tragitto, non accadde nulla di particolare. Helena si limitò ad informare i ragazzi che si stavano dirigendo ad un’isola di proprietà degli Squali Dipinti per prendere il nuovo manufatto. Ci arrivarono in completa serenità, senza incidenti né imprevisti: quel tratto di costa, oltre che bellissimo, era anche pacifico. I ragazzi lo guardarono attentamente, sospirando, quando vedevano macchie variopinte di barriera corallina sotto le acque trasparenti: era davvero troppo simile alla costa di casa loro per non suscitare nostalgia. Come promesso nella camminata dal deserto all’isolotto di prima, Laura lasciò che Chloe e Sam provassero a cavalcare Cupcake e ci si divertirono parecchio. E poi lui era parecchio socievole, non gli diede fastidio avere fantini diversi. Dopo un po’, a Laura tornarono in mente le allusioni di Helena ad Atena. Sperando che non la rattristasse troppo, le chiese:

«Helena, secondo te Atena è ancora viva?»

La biologa rimase interdetta per un secondo, poi rispose:

«Non saprei, sono passati due anni… è volata via spaventata quando Kong ha attaccato il contingente di Mei al “Partenone”, è stata l’ultima volta che l’ho vista. Da allora, potrebbe esserle successo davvero di tutto. Nella migliore delle ipotesi, ha voltato pagina ed è tornata a vivere come da selvatica»

«Capisco… spero che la ritroverai!»

«Be’, grazie»

Mei, sentendole, sospirò con tristezza. Nerva immaginava per cosa lo stesse facendo, ed ebbe una breve fitta di senso di colpa: due anni prima, l’inimicizia fra Mei e la Nuova Legione era diventata qualcosa di personale dopo che i suoi uomini avevano ucciso Wuzhui, il suo primo velociraptor, il suo defunto migliore amico su ARK. Molto tempo dopo, a Sidney, una volta che avevano avuto modo di conoscersi meglio e diventare quasi amici, Mei aveva deciso di perdonarlo. Comunque, a lui dispiaceva in ogni caso. Alla fine, giunsero in vista dell’avamposto degli Squali Dipinti: era più vicina alla costa dell’isoletta con le rovine indiane, e decisamente più grande. Era piuttosto alberata e collinare, oltre la linea della battigia. Il villaggio si poteva intravedere da lì.

«Non sembra male!» commentò Sam, con le mani sui fianchi.

«Già, è fantastica! Gli Squali Dipinti sono una tribù dal carattere allegro, ve ne accorgerete. E poi è estate, per cui forse stanno organizzando la corsa delle mantinache di quest’anno!» spiegò Helena.

«Cosa sono le… queste cose che fanno la corsa?» chiese Chloe.

«Mantinache, l’antenato comune di mante e pastinache. Infatti il nome è un misto fra le due» le rispose Laura.

«Uao, quindi questi fanno come le corse dei cavalli, ma con le mante?»

«Sì, esattamente! Io sono andata a guardarla, una volta. È davvero emozionante... almeno quanto il modo in cui andremo su quell’isola» ammiccò Helena, indicando un porto di fronte a loro.

I ragazzi guardarono e rimasero a bocca aperta: in fondo al pontile, proprio come se fosse un traghetto, c’era un mosasauro con una sella-piattaforma molto simile alla cabina del quezalcoatlo che avevano preso coi tre pescatori, accostato al molo mentre una fila di persone provenienti dalla strada pubblica che veniva dal deserto entravano dopo aver pagato il traghettatore. Era fantastico il fatto che, per quanto la creatura era immersa, si vedesse solo la struttura e si capisse che era un mosasauro quando tirava fuori la testa per cercare di capire quando il padrone sarebbe venuto a farlo partire. Inoltre, il tetto era piatto e largo e se i passeggeri avevano cavalcature piccole potevano stare lì, visto che il mosasauro non si sarebbe mai immerso. Così Rexar, Cuppy (che sembrava spaventato dall’acqua) e i velociraptor salirono lassù con una rampa apposita, mentre il gruppo pagò e salì. Purtroppo per Nerva, anche questa volta dovette rimanere abbandonato e lontano dalla folla di Arkiani per non farsi riconoscere: li avrebbe aspettati lì. La traversata fu tranquilla e piacevole, anche se Sam ricordò comunque che a Jack sarebbe venuto il mal di mare in ogni caso. In più o meno dieci minuti, furono sull’altra sponda.

«Benvenuti dagli Squali Dipinti! Ah, è sempre adorabile vedere questo posto…» sorrise Acceber, scendendo dal pontile di corsa e stirandosi.

Rexar balzò subito giù e la raggiunse per farsi accarezzare: aveva l’aria tutta scombussolata. Lei gli diede un pezzo di carne essiccata e gli arruffò la testa. Chloe respirava aria di villaggio turistico, per quanto era briosa l’atmosfera di quella comunità. Gruppetti di gente conversavano tra loro mentre lavoravano o passeggiavano molto più vivacemente che negli altri villaggi e, quando passarono al mercato, non trovarono modo migliore di descriverlo se non “un’esplosione di vita”. Era pieno di profumi, sapori e persone non solo arkiane, ma anche straniere. I ragazzi si promisero di dare un’occhiata più approfondita, visto che Helena disse che si sarebbero fermati lì per la notte. Però non in taverna, sulla spiaggia all’entroterra per non lasciare Gaius da solo tutto il tempo (anche se ad Acceber l’idea piaceva, con una nota di cinismo). Mei, con sua grande sorpresa, trovò al bancone di un armaiolo anche uno scudo e una picca da soldato romano e decise di fare qualche domanda più tardi. Alla fine andarono alla casa del capovillaggio. Com’era tipico degli avamposti, si trattava di un parente del capo del villaggio principale, in questo caso il fratello. Laura chiese del manufatto, ma lui la lasciò di stucco dicendo che non era più a casa sua. Terrorizzata, Laura pensò subito che l’uomo con la bombetta avesse colpito ancora e fosse già pronto a vendicarsi di lei, ma per fortuna il capo l’aveva voluto affidare all’abitante di cui si fidava di più, dopo la sconfitta della Nuova Legione. Laura chiese di chi si trattava e, una volta che le fu indicato il posto, ringraziò e andò con Sam e Chloe, mentre Helena e Mei furono lasciate ad aspettare.

«Torno al mercato a vedere una cosa» disse la Regina delle Bestie, incamminandosi.

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Acceber e i ragazzi andarono ad una casetta in pietra bianca un po’ distante dal centro del villaggio, a ridosso del bagnasciuga. A pochi metri da lì, in mare, un atollo circondava un bacino d’acqua bassa in cui parecchie mantinache sellate e i loro padroni sfrecciavano in cerchio a velocità incredibili.

«Si stanno allenando per la gara» spiegò Acceber, guardandole a braccia incrociate.

«Sono uno spettacolo già adesso! Chissà quando faranno la corsa…» immaginò Laura.

Alla figlia di Drof venne un’idea:

«Quanto pensate di stare qui ancora dopo che avrete trovato il Tesoro? Andrete via subito aprendo la barriera coi manufatti o vi prenderete una pausa?» chiese.

I ragazzi si guardarono un po’ straniti, non avendoci ancora pensato, e Laura si strinse nelle spalle:

«Non so, tecnicamente abbiamo tutto il tempo del mondo perché torneremo a un secondo dopo il nostro arrivo, stando a come dice l’enciclopedia, quindi forse… una piccola vacanza ce la possiamo concedere! Voi che dite, ragazzi?»

«Io aspetto il parere di Jack e di tutti gli altri, poi mi va bene di tutto» rispose Chloe, sistemandosi i capelli.

«Per me non è un’idea malvagia: almeno vediamo bene il bello di questo posto senza più rischiare di crepare mentre viaggiamo… giusto?» disse invece Sam.

Laura ci rifletté un attimo, poi disse che in effetti si poteva benissimo fare. A questo punto, si avvicinarono alla casetta. Su una lastra di pietra conficcata nella sabbia davanti all’ingresso c’era incisa un’insegna che Acceber tradusse per i ragazzi: il padrone di casa era un venditore di mappe nautiche, ma era anche quello che teneva d’occhio l’atollo per le mantinache e si accertava che nessuna creatura marina pericolosa la invadesse, visto che non aveva palizzate. Accanto alla casetta, c’era la statua di un sarcosuco dormiente. Entrarono sollevando la tenda che faceva da porta e furono travolti da un’ondata di aromi, provenienti da bastoncini di incenso che fumavano in un braciere. Dal soffitto, legate a degli spaghi, pendevano innumerevoli cartine che segnavano in rosso le varie rotte e approdi dell’arcipelago arkiano: alcune ritraevano tutto, altre solo un tratto di costa, altre ancora le isole minori… poi, su una mensola sul muro a sinistra, erano collezionate diverse sculture in pietra a forma di mantinaca e Acceber disse che erano i premi della corsa: chi viveva lì aveva fatto parecchie volte la gara. Poi una voce roca attirarono la loro attenzione:

«Vlut, vluditamjv! Volete comprare una cartina o siete qui solo per guardare la mia bottega?»

Guardarono in fondo alla stanza e videro un vecchio con una fascia da pirata in testa e una barba scompigliata, stravaccato su una poltrona foderata in cuoio di rettile e con le gambe orribilmente tumefatte, piene di infezioni cicatrizzate e gonfie. I piedi erano immersi in una bacinella in legno piena d’acqua mischiata a muco di acatina, sangue di ementeria e altri disinfettanti. Laura, dopo un attimo di ribrezzo nascosto alla vista di quelle gambe, si schiarì la gola e disse:

«Non ci serve una cartina, cerchiamo il manufatto in ossidiana. Il capo di questo posto ha detto che ce l’hai tu»

Il venditore sembrò sorpreso:

«Però, non avrei mai pensato di sentirlo mai più nominare! Perché lo volete?»

«Cercano il Tesoro di ARK» rispose Acceber, quasi d’istinto.

Il vecchio, quasi subito, iniziò a ridere fragorosamente e continuò finché gli venne il singhiozzo. Ogni volta che rideva, agitava i piedi nella bacinella e schizzava qualche goccia d’acqua sul pavimento. Alla fine, come riuscì a fermarsi, scosse la testa sempre con aria divertita e spiegò semplicemente che trovava buffissimo che degli stranieri sulla ventina gli avessero detto con aria tanto seria quello che, di solito, su ARK quello era solo il fantasioso sogno dei bambini quando sentivano la storia del Tesoro la prima volta. Laura trovò abbastanza imbarazzante farsi paragonare ad un moccioso per voler fare la scoperta del millennio, mentre Sam e Chloe ne furono così offesi che ebbero la tentazione di dargli un pugno.

«Va bene, se il capo è d’accordo non vedo perché io dovrei essere contrario… venite»

Con uno sforzo tremendo, si alzò dalla poltrona poggiandosi ai braccioli. Prese un bastone appoggiato al muro, mise i piedi in un paio di sandali in giunco e si avviò a passo pesante verso la tenda d’ingresso. Guardandolo, Chloe non resisté alla tentazione di chiedergli come si fosse ridotto le gambe così.

«Quando non sfrecciavo in acqua con la mia mantinaca, facevo immersioni per raccogliere perle nere – spiegò, mentre si passava la mano libera dal bastone sui suoi polpacci rigonfi – Sapete com’è?»

«Sì, ho provato io» rispose Sam, ripensando alla frazione di secondo in cui aveva visto i tentacoli nel buio.

«Allora tu conosci gli euripteridi. Quei piccoli bastardi sono infidi… mi capitava spesso che, mentre risalivo, uno o due che non avevo sventrato attaccassero di sorpresa e mi pizzicassero le gambe. Troppo spesso. Così, dopo cinquant’anni di immersioni, a forza di pungiglioni e veleno il risultato è questo. Ed ecco perché ora faccio qualcosa di molto più sicuro»

«Mi spiace…» disse Chloe.

Il vecchio uscì dal negozio e loro lo seguirono. Si fermò accanto alla statua del sarcosuco e le picchiettò il muso con la punta del bastone. Allora, quello che avevano creduto una statua aprì gli occhi e sollevò la testa. La loro reazione improvvisa lasciò di stucco Acceber, poiché lei avendo più occhio aveva capito dall’inizio che era un sarcosuco vero.

«Forza, Tumma, va’ a poltrire più in là!» ordinò il negoziante.

Il sarcosuco emise un brontolio infastidito, poi riabbassò la testa e fece finta di niente. Il padrone, allora, insisté a punzecchiargli il muso. Allora aprì la bocca, facendo brillare i tantissimi denti al Sole.

«Oh, certo, certo… prendi, scroccone! Mi costi più tu della carta…» borbottò il venditore.

Tornò dentro un minuto e uscì con un grosso filetto di salmone-vampiro sotto sale in mano. Lo lanciò verso il mare e Tumma si precipitò subito sulla carne: afferrò il trancio, se lo rigirò qualche secondo in bocca e corse in acqua per mangiarlo in pace. Spostandosi, rivelò che stava coprendo una botola nella sabbia. Il vecchio li invitò ad aprirla. Sam spostò il lucchetto e sollevò il coperchio: nella buca poco profonda c’era il manufatto. Lo prese e lo passò a Laura.

«Grazie tante, signore! Le diremo se troviamo il Tesoro!» salutò Laura, scherzando sullo scetticismo che aveva mostrato lui poco prima.

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Quando tornarono nell’entroterra, Mei aveva una sorpresa per Gaius: aveva comprato, a quaranta ciottoli, lo scudo e la picca romani. Sospettava che venissero dai resti del vascello con cui era naufragato su ARK due anni prima e aveva pensato che l’avrebbero fatto sentire un po’ a casa.

«Dove li hai trovati?» chiese lui.

«Al mercato» rispose Mei.

«Fammi vedere dietro…»

Nerva si fece dare lo scudo e guardò il lato interno: era interamente ricoperto di firme, incise con delle limette. Sembrò commuoversi, incredibilmente. Rivelò che era lo scudo che aveva ricevuto da Augusto in persona per il successo a dirigere la conquista della Dacia. I nomi erano quelli della sua decuria primaria, i cui membri erano passati da suoi semplici sottoposti a migliori amici col passare degli anni. Erano stati gli ultimi rimasti in vita nel corso della loro traversata del Pacifico, prima che lui si ritrovasse da solo e finisse su ARK.  

«Li conoscevi tutti?» gli chiese Acceber, incuriosita e un po’ meno rigida del solito nei suoi confronti.

«Tutti e dieci. Marius, Lucius, Titus, Marcus… se li è presi l’oceano. E fino ad oggi credevo che lo scudo della nostra decuria avesse fatto la stessa fine. Ti ringrazio, Mei»

La Regina delle Bestie non rispose, si limitò ad annuire con un vaghissimo abbozzo di sorriso. Ora che avevano il manufatto, si potevano dirigere al bioma più freddo dell’isola: il Dente Ghiacciato.

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Il Dente Ghiacciato era solo a qualche kilometro più a Sud, dovettero seguire la costa solo per un’ora e mezza, prima che apparisse al largo. Era un’isola decisamente grande, quasi un piccolo mondo a sé nel microcosmo dell’arcipelago. Nella sua parte più settentrionale, un fiordo penetrava da uno stretto e formava una grandissima conca profonda, accanto alla quale iniziavano le pendici dell’altissima montagna al centro di quelle terre gelide. Centinaia di piccoli iceberg galleggiavano in tondo attorno alle sue coste. La vetta della montagna era nascosta, circondata da una fitta coltre di nebbia grigia. Acceber disse allegramente che erano a mezz’ora dalla casa di suo zio Odranreb. Se solo avesse saputo di quello che era successo… questa volta, trovarono un traghettatore privato che aveva un grande zatterone trainato da due ittiosauri. Per loro fortuna, grazie ad una domanda di precauzione di Helena camuffata da normale chiacchierata, scoprirono che non aveva mai visto la faccia di Gaius Marcellus Nerva, per cui il centurione poté tornare ad usare per una volta il nome di Cesare, anche non avendo la maschera. Li portò ad una spiaggia sassosa piena di kairuku che passeggiavano avanti e indietro.

«Che carini!» esclamò Chloe, andando ad accarezzarne uno.

Mentre Laura la guardava con sguardo tenero e Acceber dava i ciottoli al barcaiolo, Chloe iniziò a coccolare il kairuku più vicino che, dopo un secondo di esitazione, si rilassò e iniziò ad incollarsi a lei per farsi accarezzare di più. Poi starnazzò per chiamare gli altri e un’intera colonia di pinguini preistorici corse da Chloe tenendo il becco in alto e agitando le ali per le coccole.

«Simpatici, vero?» rise Helena, mentre Mei cercava di nascondere che stava scappando una risatina anche a lei.

«Di certo più di quegli scrocconi da spiaggia che trovavamo sempre alle vacanze in Tasmania» commentò Sam.

«Possiamo tenerli? Ne prendiamo uno per ciascuno, anche per Jack! Li chiamiamo Skipper, Rico, Kowalskij e Soldato! Carini e coccolosi…» scherzò Chloe, accarezzandone il più possibile.

«Spiacente, ma se in giro per Sidney vedono dei pinguini estinti si chiederanno da dove vengono» scosse la testa Helena.

Questo ricordò a Laura che non poteva portare con sé Cupcake, e quello le fece male. Però si sforzò di non pensarci e passare oltre. Il barcaiolo, al prezzo di soli cinque ciottoli per tutti, fornì loro degli abiti pesanti in peliccia di rinoceronte lanoso. A quel punto, salutarono il barcaiolo e iniziarono la scalata della montagna. Le rovine pre-arkiane erano molto in alto, in un crepaccio vicino alla cima: Helena disse che si prospettava una camminata difficile.

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Helena aveva ragione: salire su quella montagna, in mezzo a quei pini sepolti e soffocati dalla neve, non era per niente facile. I velociraptor e Cupcake facevano fatica a muoversi nella neve alta, mentre Rexar sembrava cavarsela un po’ meglio. Acceber diceva continuamente ai ragazzi di tenere duro, che prima o poi alla cima si arrivava, e poi la discesa era ancora più veloce. Promise pure di offrire una zuppa di radici bollente come solo i Lupi Bianchi sapevano cucinarla, quando sarebbero scesi al villaggio sul fiordo.

«Senza equiseto, per piacere» scherzò Sam.

«Senza, senza, tranquilli»

«Ah, non facevo un iter nella neve come questo da quando ho attraversato le Alpi con la mia centuria per un incontro con il generale provinciale dell’Elvezia. L’imperatore mi disse di aver condotto una spedizione modello: nessuna perdita strada facendo, nessun miles sopraffatto dal gelo o caduto in un crepaccio» raccontò Nerva, con tono nostalgico.

«È una sventura che non avessimo generali come te, dalle mie parti. Ogni battaglia in montagna era una strage, peggio dei Turbanti Gialli» commentò Mei, togliendosi la neve dalle gambe.

«Accidenti… sembra che tenessi molto ai tuoi soldati!» esclamò Acceber, basita.

«Certo, è la prima regola per ogni dux» rispose Nerva.

«Accidenti… sei completamente diverso da come tutti raccontano di te. Sai, dopo tutta la storia delle regole forzate che imponevate ai nostri villaggi, tutte quegli dèi che volevate che venerassimo... se non sapessi chi sei, non lo sospetterei mai!»

Gaius le fece segno di non sorprendersi: spiegò che anche quando aveva conquistato la Dacia, i Daci l’avevano visto come un demone per anni. Ma poi, quando le innovazioni portate dai Romani avevano migliorato la loro condizione di vita, avevano cambiato opinione. Lui non voleva propriamente fare del male agli Arkiani, infatti in battaglia ordinava di fare meno vittime possibile; il suo scopo era apportare i miglioramenti che Roma dava spesso alle civiltà meno avanzate. Ma era comunque pentito del disastro che stava commettendo, Mei aveva fatto bene a fermarlo.

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Arrivarono al limite della foresta, molto in alto. Guardando indietro, ci si accorgeva di quanta strada avessero fatto: il mare sembrava così lontano, la spiaggia dei kairuku così minuscola… il paesaggio cambiò: non c’era altro che neve e ghiaccio, ora. Inoltre, il pendio era meno inclinato: ora che avevano raggiunto il nevaio, pareva quasi pianeggiante. Helena spiegò che questo era il pezzo finale, più facile ma più pericoloso, prima di arrivare alle rovine: dovevano semplicemente seguire la conformazione della montagna e girare a spirale attorno alle pareti, fino ad arrivarci. Acceber avvertì di tastare bene la neve col piede prima di affondarcelo del tutto: c’erano dei punti in cui si richiava di causare un cedimento e venire trascinati di nuovo a fondo con tutta la slavina, con il conseguente pericolo di finire sepolti o sbattere contro alberi e rocce e morire sul colpo. I ragazzi ebbero dei brividi d’orrore, uniti a quelli di freddo, all’idea e promisero di stare attenti. Ad aprire la fila stava l’Arkiana, che era già stata tre volte al Dente Ghiacciato, e accettò anche di farsi affiancare da Nerva, volenteroso di aiutare basandosi sulle sue traversate alpine. I primi quattro giri della spirale andarono a meraviglia: a parte la scarsa visibilità per le nuvole che attraversavano, la neve non mostrava la friabilità di cui Acceber li aveva avvertiti. Eppure, dentro di sé, Chloe aveva la nettissima sensazione che prima o poi sarebbe successo, anche se odiava portarsi sfortuna da sola. Al quinto tornante, incrociarono la carcassa di un cucciolo di mammut e Laura chiese com’era finito lassù. Helena ipotizzò che ce l’avesse portato un argentavis. Finalmente, poi, videro le rovine: sopra di loro, alcuni pezzi di edifici sporgevano dal bordo di una sporgenza, solo a due tornanti di distanza. Ed ecco che, puntuale come le tasse, arrivò una disfatta: da diversi kilometri sotto di loro, dal profondo della pineta, provenne un rombante ruggito. Era fievole a sufficienza da far capire che veniva da lontano, ma ciononostante l’eco era forte e definitissima. Sam, con un fischio, constatò che qualunque cosa avesse gridato così doveva avere dei polmoni degni di un cantante. Helena stava per spiegare che creatura fosse, riconoscendo il ruggito, ma accadde qualcosa di imprevisto: un grave rombo salì da sottoterra e la neve sotto i loro piedi cominciò a sfrugugliarsi e a scivolare giù per il pendio.

«Goupì!» imprecò Mei in mandarino, mentre il suo raptor saltellava nervosamente sentendo il terreno cedere.

«L’eco ha scatenato una valanga! Correte!» esclamò Nerva.

Tutti, senza esitare, spronarono le cavalcature o iniziarono a correre mentre un intero blocco di nevaio iniziava a staccarsi dalla montagna e a seppellire gli abeti sotto di loro, facendo più fragore di un tuono. In quel momento Chloe era l’unica a piedi, poiché Laura era su Cupcake e per Sam era il turno di stare su Ippocrate. La ragazza fece di tutto per tenere il passo con gli altri, ma era in seria difficoltà. Laura, la più vicina a lei, riuscì con una forza di volontà incredibile a convincere il pachicefalosauro a rallentare per aiutare Chloe a salire in sella dietro di lei.

«Che fate? Tornate subito qui!» sentirono il grido di Acceber.

«Corri, Cuppy!»

Cupcake andò più veloce che poté verso gli altri, che avevano appena raggiunto la parte di neve stabile che non era crollata. Gli altri, terrorizzati, lo incitavano a gran voce e gli facevano segno di correre più veloce che poteva. Sembrava che ci stesse riuscendo, ma all’improvviso… trovò un blocco di neve sofficissima che non resse il suo peso e ci sprofondò fino ai fianchi. Lui e le due ragazze sulla sua groppa iniziarono a muoversi con tutta la slavina dapprima lentamente, poi accelerando sempre di più man mano che la pendenza aumentava.

«Trattieni il fiato e reggiti!» Laura non seppe dire altro a Chloe, saldamente abbracciata a lei.

“E prega!” rispose mentalmente l’amica.

Scivolarono così per centinaia di metri, poi Cupcake si rovesciò e Chloe non vide più niente: cadde nella neve e il mondo si fece movimentato e confuso. Rotolava in continuazione nella frana di neve, il sopra e il sotto si mescolavano ogni secondo, si sentiva lo stomaco all’altezza delle caviglie, le girava tantissimo la testa per il gran rotolare, le ossa si piegavano e comprimevano a seconda di come si ribaltava, il freddo era insopportabile, la neve le entrava in bocca e nelle narici e non riusciva a respirare: orribile, da incubo. Per un attimo, Chloe si sentì disposta anche a morire, purché quella tortura finisse. Ed ecco che, di colpo, finì. Chloe rimase stordita per un secondo, poi si riscosse e, resa forte dal bisogno di respirare, iniziò a scavare con tutta l’energia che aveva nella neve, sperando di star andando in alto e non verso il fondo. Andò avanti a scavare per un minuto, iniziava a soffocare, i polmoni bruciavano… quand’ecco che, finalmente, tornò in superficie, illuminata dal Sole e circondata da silenzio, neve fresca, alberi e… nient’altro.

«Laura? Laura?!» chiamò, terrorizzata.

Si alzò in piedi e iniziò a cercare dappertutto, correndo avanti e indietro in cerca dell’amica. Finalmente, dopo cinque minuti, vide qualcosa semi-sepolto. Lo tirò fuori: la giacca in pelliccia di Laura. A quel punto, le venne in mente la peggiore delle ipotesi. Sentì le lacrime salirle agli occhi e si inginocchiò, disperata:

«Oh, Laura… perché? Perché, cazzo?!»

In realtà, c’era una parte di lei che le imponeva di aspettare una conferma, prima di dare la sua migliore amica per morta, ma dopo tutto il casino e il terrore di morire per la valanga non riusciva per niente a stare calma: la tensione era troppa, era disperata.

«Colpa nostra, tutta colpa nostra… avremmo dovuto convincerti che l’isola non esisteva! Avremmo avuto torto, ma almeno saremmo rimasti a casa al sicuro! Tu hai sempre ascoltato me più di tutti, avrei dovuto aiutare Sam a farti capire che non dovevi fartene una fissa… e ora sei morta per salvarmi! Colpa mia… cosa diremo alla tua famiglia? Anzi, perché me lo sto chiedendo? Non torneremo mai a casa… moriremo qui e nessuno saprà mai cosa ci è successo…»

Ormai piangeva a dirotto, ma più per isteria che per lutto. Ma si interruppe all’improvviso quando quel silenzio di tomba fu squarciato da un rumore di passi. Dapprima, sperò che fosse Laura e fece per voltarsi emozionata e sollevata. Ma quando realizzò la pensantezza di quei passi, capì che non poteva essere una ragazza. Sentì un ringhio e allora non ci furono più dubbi: qualunque cosa fosse, era pericolosa e doveva salvarsi. Per cui, senza voltarsi per vedere cos’era, iniziò a correre a perdifiato e alla cieca nella foresta. Tanto, ormai, aveva perso i compagni e la strada: peggio di così non poteva andare. Mentre fuggiva, passò accanto ad uno stranissimo rottame bruciato e arrugginito, che sembrava un robot a forma di orso con una cisterna per pancia. In condizioni normali, si sarebbe fermata a chiedersi cosa potesse essere, ma dal momento che era inseguita proseguì. Corse come una lepre per dieci minuti, senza sentire un minimo di stanchezza, ma si fermò di colpo quando, superata una collinetta, vide davanti a sé uno smilodonte. Dandole le spalle, stava camminando circospetto fra gli alberi: forse stava cacciando. E, appena Chloe fu in cima al rilievo, sentì i suoi passi nella neve e si voltò, a occhi sbarrati e bocca spalancata. Alla vista di quei lunghissimi canini sporchi di sangue rappreso, Chloe si sentì venire a mancare.

“Oddio…” pensò.

Lo smilodonte ruggì, stringendo le pupille. Chloe tornò a correre, svoltando a destra. Non sarebbe servito, ma l’istinto le comandava di provarci. Poi, però, vide un tronco marcio e cavo e, con la forza della disperazione, lo raggiunse e ci si tuffò di testa dentro. Lo smilodonte ficcò la zampa dentro per artigliarla, ma non fece in tempo. Chloe, allora, strisciò fino al centro del tronco lungo e snello per accertarsi di essere fuori portata. Ma il felino dai denti a sciabola balzò su di esso e iniziò a colpire la corteccia con potenti artigliate. Terrorizzata, Chloe si girò sul dorso e vide la zampa del felino aprire uno squarcio nel legno. I loro sguardi si incrociarono e la ragazza ebbe l’impressione di morire di paura. Facendo le fusa dall’appetito, lo smilodonte fece per allargare il buco, ma poi si bloccò e tornò il silenzio. Il mammifero si guardò intorno con aria sospettosa, annusando l’aria. Tornò a fare le fusa per un secondo, poi scappò, con grande costernazione di Chloe. Non fidandosi, la ragazza attese ancora per diversi minuti stando immobile nel tronco, fissando il cielo azzurro che si vedeva dal buco nella dura corteccia. Ma poi, visto che non succedeva niente, decise che non poteva stare lì per sempre e strisciò fuori. Tuttavia, appena si alzò e si scrollò le schegge di dosso, capì di aver fatto una stupidaggine: sentì lo stesso, lugubre ringhio di prima dietro di sé. Col cuore sul punto di avere un infarto, si voltò e rimase a bocca aperta: di fronte a lei, a guardarla con aria affamata, c’era un enorme teropode dal muso affusolato, piccole corna simili a quelle del carnotauro e la pelle grigia ricoperta quasi del tutto da un soffice piumaggio bianco,che era rosso sulla testa e sulla coda e nero lungo la spina dorsale. Era uno yutiranno, il dinosauro piumato che con il suo assordante ruggito era capace di imitare il richiamo di altre specie e di terrorizzare qualunque creatura. Dopo un secondo, lo yutiranno emise un urlo così forte che la ragazza dovette tapparsi le orecchie: lo stesso dannato ruggito che aveva provocato la valanga facendo eco.

“Merda!” pensò Chloe, prima di rimettersi a correre.

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Capitolo 29
*** Fare i conti coi propri demoni (storia vecchia) ***


Si rimise subito a correre, questa volta anche più veloce. Le venne da chiedersi da dove avesse mai tirato fuori tutta quell’atleticità, visto che non si era mai tenuta allenata come Sam. Ma che importanza aveva? Più in fretta scappava dallo yutiranno, meglio era. Tuttavia, sentiva di non essere abbastanza rapida: sentiva i passi del suo inseguitore nella neve avvicinarsi sempre di più e percepiva il suo respiro sul collo, anche se non era tanto sicura se fosse vero o solo una sensazione. Quando arrivò in prossimità di uno strano albero che si divideva a forbice in due piante gemelle, ebbe il coraggio di voltarsi e le si gelò il sangue: la grande bocca rossa e bavosa dello yutiranno era abbassata e spalancata a nemmeno due metri da lei e si avvicinava sempre di più. Per puro istinto, si tuffò di testa nella biforcazione dell’albero, sperando che ci rimanesse incastrato. Essendo snella a sufficienza, ci passò in mezzo senza problemi e si schiantò di pancia nella neve, lasciando un fosso di mezzo metro. Si coprì la testa con le mani, preparandosi al peggio, ma non successe niente. Sentiva lo yutiranno che ruggiva e si agitava infuriato, ma era ancora viva. Si alzò, guardò e, meravigliata, scoprì che aveva funzionato: il dinosauro aveva infilato la testa nela biforcazione, ma poi il collo era rimasto incastrato e ora strattonava con violenza all’indietro per liberarsi. Facendo presa con le zampe, scalciava via la neve e scavava profondi solchi.

Chloe non si trattenne oltre e riprese la fuga, notando di aver cominciato ad andare sempre più in discesa. Non smise mai di correre, anche se il terreno inclinato ora la costringeva a mettere i piedi di traverso e a frenare per non scivolare e inciampare nella neve. Ma si interruppe all’improvviso quando, inaspettatamente, la pineta si interruppe e davanti a lei apparve un vastissimo, spettacolare lago ghiacciato. Le rive erano basse banchine di neve, mentre tutto lo specchio d’acqua era una lastra di ghiaccio duro come cemento, più blu del cielo e così liscio da sembrare quasi tirato a lucido con la cera. Il primo istinto di Chloe fu aggirarlo per non farsi rallentare dagli scivoloni, ma poi si ricordò all’improvviso di un dettaglio importante: gli stivali della sua pelliccia avevano dei chiodini sulla suola proprio per camminare sul ghiaccio. Esitò lo stesso, ma quando sentì ancora il ruggito e i passi dello yutiranno non ebbe più modo di pensare: saltò sulla lastra di ghiaccio e vide che i chiodi sotto gli stivali erano semplicemente perfetti: si incastravano nel ghiaccio spesso abbastanza da impedirle di slittare, ma non al punto di non staccarsi più.

Procedendo ad ampie falcate, arrivò in fretta al centro del lago, ma sentì ancora il ruggito dello yutiranno: l’aveva inseguita anche lì, ma faceva più fatica di lei. Le sue grosse zampe scivolavano di lato sulla lastra appena le appoggiava e lui perdeva l’equilibrio. Nonostante ciò, anche se con più goffaggine e lentezza di prima, stava recuperando terreno e si avvicinava. Disperata, Chloe si guardò intorno e vide, in lontananza, un rinoceronte lanoso che guadava il lago come lei. Sperando di poterlo usare come diversivo, svoltò e iniziò ad avvicinarglisi, seguita a ruota dallo yutiranno. Quando fu a dieci metri, capì di aver scelto bene: lo yutiranno, potendo scegliere fra l’acciuga e l’aragosta, si dimenticò completamente di lei e attaccò il rinoceronte lanoso al suo posto. Chloe si allontanò di almeno quindici metri per stare sicura, poi non resisté alla tentazione di guardarli: lo yutiranno azzannò il rinoceronte al garrese, ma il mammifero muggì, si impennò e gli fece mollare la presa. Ferì il petto del teropode con una cornata, ma Chloe non stette a vedere come sarebbe finita: tornò a correre e, finalmente, raggiunse la sponda opposta. Ora, anziché proseguire in discesa, il paesaggio era piatto e la foresta più fitta di prima. Tornò a camminare solo quando smise di sentire i versi di entrambe le creature.

A questo punto, si fermò appoggiando la schiena ad un albero e, stremata, si coprì la faccia con le mani. Fece il punto della situazione: era sola, si era persa, era in mezzo alla neve e alle creature preistoriche assetate di sangue, Laura era morta e degli altri non c’era traccia. Era semplicemente spacciata. Ma poi, in lontananza, le parve di sentire qualcosa. Era così lontana da sembrarle quasi un’illusione, eppure le fece venire un’irresistibile tentazione di seguirla. Col cuore in gola e con tutti i sensi all’erta per non rischiare altri incontri spiacevoli, iniziò ad avvicinarsi lentamente. Seguiva quella fievole voce quasi ipnotizzata, non notando che la stava riportando al lago. Quando fra gli alberi la lastra di ghiaccio tornò visibile, notò una sagoma scura nel bianco. Era troppo piccola per essere lo yutiranno, quindi cos’era? Corse dietro un albero e spiò da dietro quello per vedere meglio. Rimase a bocca aperta e quasi morì di gioia: quello era Cupcake. E lo sapeva perché accanto a lui c’era…

«Oddio… Laura!»

Senza più pensare, si precipitò dall’amica e si fiondò su di lei, abbracciandola così forte che poteva. Pure Laura iniziò a stringersi a lei, ma per un altro motivo: senza la pelliccia, aveva così freddo che era diventata viola e aveva lo sguardo perso e vuoto, come uno zombi. Sentendo il calore di Chloe, ci si era incollata d’istinto.

«Oddio… sei viva! Sei viva!» farfugliava Chloe, con le lacrime agli occhi.

«…v-v-viva? Certo!» rispose Laura, con aria abbastanza stordita e coi denti che battevano.

«Oddio, sei gelida… tieni!»

Chloe, allora, si sfilò la pelliccia e gliela fece mettere, iniziando subito a stringersi e strofinarsi le braccia per la botta di gelo improvvisa.

«Facciamo a turno, va bene?»

«S-s-sì…»

«Cerchiamo di capire dove siamo…»

Chloe tirò fuori la sua fotocopia della cartina di ARK e osservò bene il Dente Ghiacciato. C’era un solo lago, a quanto pare, ovvero quello che aveva appena guadato. Quindi, se la montagna era ad Ovest e loro le stavano dando le spalle, stavano guardando verso Est, mentre il fiordo col villaggio dei Lupi Bianchi era a Nord.

«Forza, Laura, andiamo a Nord! Sperando di non incontrare mostri affamati…»

«D-d-d’accordo…»

Poi, per alleggerire il morale, Chloe fece una battutaccia su di sé che aveva imparato da Sam:

«Ti prometto che se succede e qualcosa va storto mentre scappiamo, io mi sacrifico per te: sono più appetitosa, vista tutta la polpa che ho davanti e dietro!»

«Eh... d-d-ai... c-carina, qu-questa!»

«Coraggio, andiamo!»

Si rimisero in viaggio, stando insieme sulla sella di Cupcake e facendosi regolarmente il cambio con la pelliccia. Chloe si maledisse per non aver pensato di portare quella di Laura con sé… peccato che fosse arrivato quello yutiranno a distrarla. Usavano principalmente la montagna e la posizione del Sole per capire se erano davvero dirette a Nord e, per una buona ora e mezza, tutto sembrò filare liscio, a parte il rischio di ipotermia. Ed ecco che giunsero ad un punto dove c’era stata un’altra valanga, molto tempo prima. Alla loro sinistra, tutto era completamente sepolto da tonnellate di neve compatta che formava un cumulo simile al versante di un colle. Ne spuntavano a malapena radici o cime di alberi travolti. Proseguirono stando sul fondo finché, in lontananza, iniziarono a sentire un gran fracasso di animali che combattevano.

«Ehi senti questo casino?» chiese Chloe.

«C-cosa pensi che s-s-sia?»

«Non lo so, ma è meglio se passiamo standone il più lontano possibile!»

«Concordo»

Quindi, iniziarono a fare un giro largo a Est, con l’intenzione di tornare a dirigersi in linea retta verso Nord dopo un pezzo.

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DIVERSI MINUTI PRIMA…

Dopo la valanga, Acceber si era offerta immediatamente di andare a cercare Laura e Chloe, in caso si fossero miracolosamente salvate. Mei-Yin e Nerva le avevano chiesto se voleva che la seguissero, ma lei rifiutò: tanto, pensò, era solo una ricerca, se avessero incontrato una creatura aggressiva Rexar l’avrebbe potuta benissimo aiutare o portarla via. Sam, invece, aveva insistito per venire perché voleva assolutamente aiutare a ritrovare le due amiche. Helena e gli altri gliel’avevano severamente proibito e intimarono di lasciar fare Acceber, che se ne intendeva di più, ma questa volta Sam rispose a testa alta che non gliene sbatteva niente. Più per panico che per rabbia, sbatté in faccia ad Helena di chiudere la bocca e andare a mettere il manufatto a posto. Lui andava, punto. Quindi, spronando Ippocrate, lo mandò a seguire Rexar, anche se era già svanito alla vista.

«Ma… uff!» sospirò Helena, sconsolata.

«Vuoi che lo trascini indietro?» le chiese Mei.

«No, farebbe peggio… stagli vicino. Lo si deve anche capire, in fondo…»

«Capito»

Quando Sam se la ritrovò dietro, le disse che non voleva tornare indietro. Si ammorbidì subito quando lei gli disse che lo stava solo seguendo in caso succedesse qualcosa. Intanto, a qualche decina di metri, Acceber aveva trovato la pelliccia di Laura. Chloe aveva dimenticato di prenderla, ma almeno così avevano dato modo al tilacoleo di cercarle. Rexar correva attraverso la pineta a passo spedito. Con la neve, faceva più fatica del solito a seguire gli odori, ma siccome quello di Laura era fresco riusciva comunque a stare sulla pista senza troppe difficoltà. A un certo punto, giunto ai pressi del grande lago congelato dell’isola nevosa, si fermò e prese ad annusare l’aria a testa alta, apparentemente irritato o spaventato da qualcosa. Acceber si allertò, ma quando scoprirono che l’odore estraneo era la carcassa di uno yutiranno che aveva avuto la peggio con un rinoceronte lanoso, si rilassò ancora. Quando attraversò il lago, sembrò perdersi; intanto, Sam e Mei iniziavano a loro volta a guadare. Il marsupiale, titubante, svoltò a destra. Il silenzio era assoluto… e lo fu finché la ragazza sentì uno strano fischio in lontananza che si avvicinava sempre di più. Quando il fischio finì, si trasformò in un tintinnio: il tintinnio di una freccia in ossidiana che era scesa dal cielo alla velocità della luce e si era conficcata nell’albero accanto al quale Rexar stava passando… a pochi centimetri dalla testa di Acceber.

“Cosa?!” pensò lei, terrorizzata, mentre il tilacoleo irrigidiva i muscoli e scopriva i denti al cielo, tenendo basse le orecchie.

Mei, invece, fece segno a Sam di fermarsi, siccome vide diverse sagome che, come se fossero apparse dal nulla, avevano cominciato all’improvviso a muoversi tra gli alberi. Era un branco di creature domate, e parevano avercela proprio con loro.

«Corri, tu! Credo che Ippocrate abbia sentito l’odore come la pantera rossa, quindi può provare a trovare le tue amiche. Penserò io a questi e ad assistere Acceber…»

«Sicura?»

«Sì. Sbrigati, prima che ci circondino!»

Sam, allora, spronò Ippocrate senza perdere altro tempo e si allontanò fra gli alberi dove non c’era nessuna di quelle creature ostili. Presto, sia la guerriera che Acceber furono accerchiate, ognuna a quaranta metri dall’altra e nel fitto del bosco. La figlia di Drof, che ormai era a sua volta nei pressi della slavina vecchia, impallidì e si sentì sprofondare in un incubo quando capì di chi erano. Rexar si girava continuamente e ringhiava alle bestie nemiche per tenerle a distanza. Si abbassò, tendendo gli arti, pronto a balzare all’attacco. Acceber, ancora in preda allo stordimento da panico, sentì con qualche secondo di ritardo il grido di un argentavis che piombava su di lei ad artigli protesi. Prima che Rexar potesse fare qualcosa, il rapace afferrò la ragazza al volo e la portò fino ad un pinnacolo roccioso che spuntava dalla slavina e lì la depositò. Acceber rotolò nella neve, ma si alzò di scatto e osservò l’argentavis far scendere suo fratello, che lo stava cavalcando.

«Vola!» ordinò Gnul all’uccello.

L’argentavis stridé e li lasciò soli, tornando dal resto del contingente. Quel branco non era il solito, non era per nulla possibile fargli attraversare il mare. Per questo ne aveva uno minore nascosto al Dente Ghiacciato. E ora che i dimorfodonti avevano ritrovato Acceber, l’aveva recuperato.

«Ci risiamo, sorellina» disse.

Acceber fu sconvolta dal cambio radicale nel modo di fare di Gnul: era passato da scherzoso e provocatorio a serio e freddo, tre volte più spaventoso.

«Non puoi farmi questo! Non ce la posso fare!» supplicò lei, tremante.

«Lo so. Neanche nostra madre ce la poteva fare. E io l’ho guardata morire… ma tu no»

«Senti, io capisco…»

«Invece no! Puoi dire che hai sofferto come me quanto vuoi, non sarà mai vero! Hai idea di come ci si senta? Quella bestia l’ha smembrata, l’ha dissanguata, ha cominciato a mangiarla mentre era ancora viva e urlava… e lei mi fissava mentre moriva! Riesci ad immaginare la sensazione?»

«Be’… io…»

«Visto? Nessuno potrà mai capirmi. Non ci è mai riuscito nessuno, non mi è mai servito a niente farli soffrire come lei e anche di più… ed è per questo che meriti di provarlo anche tu»

Quando disse questo, prese un coltello da macellaio dalla cintura e si avvicinò a piccoli passi. Al contempo, lei provò ad indietreggiare, ma si ritrovò presto sul bordo del pinnacolo. Gnul continuò il suo discorso, mentre in fondo al pendio Rexar e Mei affrontavano le creature come meglio potevano, anche se si stavano ritrovando in difficoltà:

«Quando ho organizzato la tua morte al Labirinto di Gole, ho deciso di non parlare di questo perché credevo che farti sapere cosa mi ha rovinato non avrebbe cambiato niente»

«Ma…»

«Ci ho pensato e ho deciso che, invece, tu meriti di sapere»

Continuò ad avanzare, mentre Acceber iniziò lentamente a rannicchiarsi in un disperato tentativo di sentirsi più riparata.

«So che non ho visto la stessa atrocità che è successa a te, ma puoi stare certo che la morte di nostra madre mi ha distrutta! Io facevo finta che tutto fosse sempre stato normale perché… odiavo l’idea che si vedesse che stavo male come non mi era mai successo!» esclamò lei, ormai piangente e isterica.

«Ah, quindi non solo ti illudi che soffrire e basta sia il peggio, lo nascondi pure! L’unico modo per mostrarti come mi sento io è farti morire come lei… e quello che hai al collo avrebbe dovuto essere un anticipo. Sei stata tu a creare questi otto anni di ritardo!»

Ormai erano a pochi centimetri di distanza…

«Credevo che fossi annegato! Ti ho avuto sulla coscienza per otto anni, anche se mi hai ferita più dentro che fuori!»

«Invece non solo non mi hai ucciso… hai condannato a morte più di ottanta persone»

«Cosa?»

Gnul-Iat si accucciò per fissarla ancora più da vicino. Il suo sguardo era ai limiti della follia e della rabbia repressa sul punto di essere buttata fuori, era terrorizzante.

«Sì! Io volevo solo te. Eri tu che dovevi imparare la lezione. Ma hai rovinato tutto… e siccome per diciotto anni non ho avuto il coraggio di riprovare, ho cercato di sfogarmi sugli altri. Non è servito a niente»

«Io non ho ucciso nessuno! Sei stato tu! Tu! Sei tu che hai perso la testa! Io non ho mai fatto del male!» strillò Acceber.

«Vedila come ti pare… sappi solo che grazie a questo ritardo io ho ucciso anche zio Odranreb! E per poco non sono riuscito a fare lo stesso a nostro padre»

Sentendo questo, Acceber si sentì morire dentro. Le lacrime iniziarono a scorrere ancora più abbondanti. Una piccola parte di lei, in fondo alla sua mente, sperava che Gnul la uccidesse da un momento all’altro, purché la sofferenza e la paura cessassero. Gnul prese qualcos’altro dalla sua cintura: un sacchetto di cuoio. Lo aprì e mostrò il suo interno alla sorella: Innesti della Maturità. Parecchi. Più di ottanta. Con ancora i pezzetti di carne delle vittime attaccati. A lei venne da vomitare. Vedendola così, Gnul strinse gli occhi:

«E con questo, siamo all'ultimo passaggio...»

Ma Acceber, all’improvviso, si sentì pervadere da una voglia irrefrenabile di ribellarsi, di opporsi a tutta quella sofferenza immeritata, di uscire da quell’incubo durato otto lunghissimi anni. Si rialzò coi muscoli di colpo pieni di energie e si fiondò sul fratello, cercando di investirlo… ma lui si alzò a sua volta, chiuse il pugno sinistro e la colpì sul petto con tutta la forza che aveva nel braccio, tutto in meno di un secondo. Acceber ebbe un singhiozzo convulso e cadde, coi polmoni che bruciavano e il respiro bloccato. Gnul le appoggiò un piede sulla spalla e la spinse all’indietro, facendola finire supina sulla neve. Girando il coltello verso il basso, la sovrastò e disse:

«Addio, Acceber. Sto finalmente per tornare in pace!»

«No!»

Gul-Iat, fulmineo, calò la lama e la affondò nel cuore della sorella. Acceber chiuse gli occhi e diede per certo di essere morta. E invece non le accadde nulla: la lama si spezzò in due appena toccò il suo petto e Gnul fu sbalzato all’indietro da una forza invisibile, finendo a gambe all’aria.

«Cosa?» farfugliò lei, confusa.

«Cosa?!» ringhiò lui, frustrato.

Guardò la lama. Com’era successo? Perché? Non importava: in un modo o nell’altro, Acceber doveva morire. Tornò subito da lei, che era ancora a terra, e abbatté un poderoso cazzotto al suo viso. Ma le sue nocche si scontrarono con qualcosa di duro come la pietra e rimbalzarono. Con un’esclamazione di dolore, Gnul se le guardò: sanguinavano. Acceber lo stava fissando da terra, a occhi sgranati, disorientata quanto lui.

«Ma che succede?!» gridò lui, furioso.

La colpì ancora, ancora, ancora e ancora, le tirò anche un calcio, ma dovette fermarsi perché si stava rompendo le ossa da solo. Acceber notò un luccichio insolito sotto i suoi occhi. Guardò: la piccola pietra rossa della sua collana in Elemento a forma di astronave che Diana le aveva regalato due anni prima brillava. Non capiva: non era mai successo. C’entrava qualcosa con quello che stava succedendo? Prima che si facesse altre domande, Gnul gridò di furia e, afferratole il cappuccio della pelliccia, la buttò giù dal pinnacolo, poi saltò giù a sua volta. Caduti sulla neve fresca della frana, l’inutile pestaggio continuò, mentre Acceber cercava invano di scappare.

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Per fortuna, pochi degli esemplari di quel contingente erano dinosauri: per almeno due terzi erano mammiferi e uccelli. Dunque Mei non faceva tanta fatica a ferirli con la spada e poteva aiutare Hei a tener loro testa senza ritrovarsi da solo contro tutti. Tagliò la zampa ad uno smilodonte, trafisse il cuore di un diatrima, tagliò la gola di un metalupo dopo che questi era riuscito ad atterrarla… il velociraptor nero, da parte sua, saltava sulle bestie nemiche, le mordeva e graffiava per sfiancarle e poi le finiva con un potente morso alla gola. A un certo punto, però, fu colpito alle spalle e ferito di striscio da un metaorso, ma la padrona venne a soccorrerlo quasi subito e infilzò il cranio del plantigrado. Collaborarono per abbattere un carnotauro, dopodiché fecero in modo che un mammut trafiggesse un deodonte con le zanne per sbaglio, mentre cercava di colpire loro. Ma, all’improvviso, un pegomastax che si era intrufolato nel campo di battaglia inosservato le saltò addosso e le morse la mano, costringendola a mollare la spada, e gliela portò via. La combattente stava per inseguirlo, ma sentì una voce familiare:

«Abbiamo un combattimento in sospeso, Regina delle Bestie!»

Mei si voltò, mentre d’un tratto le creature cessarono l’attacco in seguito ad un fischio. Si misero in cerchio ed ecco che apparve Sotark, in sella ad un barionice e con una clava chiodata in mano.

«Sarebbe uno scontro impari…» lo provocò Mei.

Il gigante scese a terra e gettò l’arma. Alzò le mani e affermò che ora non lo era più. Se voleva proprio lottare, pensò la Regina delle Bestie, per lei andava bene. Era questione di sopravvivenza, in fondo.

«D’accordo. Era da tanto che non mostravo le mie vere capacità senza armi…» lo punzecchiò.

Avrebbe usato la differenza di agilità fra lei e l’avversario per uscirne vincitrice: aveva già provato altre volte, in Cina e anche su ARK. Quindi si mise in posa difensiva e lui pure, mentre si avvicinava. Sotark iniziò con un paio di finte, ma Mei non fece una piega: voleva abituarsi al suo stile, prima di esporsi. Avanzando, il socio di Gnul-Iat provò a convincerla ad attaccare, ma lei era impassibile. Sotark perse la pazienza e attaccò per davvero; Mei schivò scivolando via. Sotark colpì ancora, costringendola ad abbassarsi per non farsi toccare: l’imponenza di Sotark era ingannevole, perché nonostante l’aspetto goffo e rigido era agilissimo. Continuò con una raffica di pugni; Mei si fece portare al limite del cerchio, mettendosi in modo che un colpo l’avrebbe spinta in bocca alle creature affamate, che non aspettavano altro. Sotark ci cascò e la guerriera gli diede un assaggio di quello che sapeva fare: invece di schivarlo, si scagliò su di lui, scivolò sotto il suo braccio ancora teso e gli colpì il lato della coscia tre volte, destro-sinistro-destro. A quel punto, balzò via prima del contrattacco. Per quanto soddisfatta, decise di non godersi troppo quel piccolo successo e di rimanere concentrata. Sotark si massaggiò la gamba, che era stata colpita a tre nervi diversi, e la fissò ringhiando come un cane. Ora muoveva l’arto un po’ male… Mei aveva fatto pratica per anni per imparare quali punti facevano davvero male, e aveva centrato in pieno. Sotark avanzò cautamente, la guardia alta, pronto a scattare. Sarebbe stato tutto più facile se fosse stato spavaldo come prima… attaccò all’improvviso e Mei sentì lo spostamento d’aria del suo pugno due volte, prima di rispondere con un gancio alle costole. Sotark si allontanò premendosi il petto, dolorante. I suoi colpi successivi furono più misurati, quasi timorosi: si teneva pronto a difendersi. Mei-Yin capì che toccava a lei prendere iniziative: fece tre finte ambigue, l’ultima lo mise in difficoltà. A quel punto, la Cinese corse da lui e sferrò una raffica di colpi… stomaco, stomaco, gamba, fianco, schivata, stomaco, costole, schivata, schivata, ginocchio. Si allontanò roteando su se stessa con una grazia incantevole: era fluida e snodata come una vera ballerina.

«Unngh…» grugnì Sotark, con una smorfia.

L’ultimo colpo al ginocchio era stato micidiale e le schivate dell’avversaria lo frustravano molto. Lui era molto più forte, ma lei era brava nel prendere la mira e colpire i punti giusti con la massima precisione. In una sfuriata improvvisa, si gettò a peso morto su di lei, ma ottenne solo un pugno in mezzo agli occhi, che lo rintronò. Ora era troppo. Mandò al diavolo la lealtà e fischiò, ordinando al barionice di attaccare Mei e mangiarle la testa. La guerriera, colta alle spalle, stava per essere finita, ma Hei si accorse di tutto in tempo e si gettò ad artigli tesi sul teropode anfibio, placcandolo. I due dinosauri rotolarono nella neve, verso il margine del cerchio. Il barionice provò ad azzannare Hei da sdraiato, ma mancò e il velociraptor gli bloccò la testa con le zampe anteriori, prima di tagliargli la gola coi denti. Questa piccola distrazione costò caro a Mei: Sotark riuscì finalmente a colpirla in faccia appena si voltò. Il colpo fu così potente da farle sputare sangue e farle scricchiolare la mandibola. Cadde in ginocchio sulla neve, con la vista annebbiata e guardando le gocce di sangue che macchiavano la neve. Si rialzò subito, per evitare altre sviste.

«Sei disgustoso! Non hai onore!» esclamò, oltraggiata.

«Non mi interessa, non più!» sibilò Sotark, infuriato.

Mei schivò un colpo per miracolo e provò a rispondere, ma era più lenta a causa del colpo. Sotark bloccò il suo pugno e strinse la presa sulla sua piccola mano.

“Oh, no!” pensò Mei, capendo di essere intrappolata.

Sotark alzò il pugno libero e, mettendoci tutta la sua forza, lo abbatté sul gomito della Regina delle Bestie come un martello. Il dolore fu immediato e devastante e le strappò un grido. Le ossa scricchiolarono molto forte. Un altro colpo le avrebbe rotto il braccio… Hei non poteva aiutarla, perché le creature erano tornate a combattere…

«Sei stata sconfitta, Regina delle…» iniziò ad annunciare Sotark.

Ma, prima che finisse la frase… una lancia in metallo piovve dal cielo e gli infilzò il costato, perforò il suo dorso e si incastrò nel suolo. Mei fu lasciata andare e si allontanò, massaggiandosi il braccio martoriato. Sotark fissò la lancia con sguardo perso, pronunciò flebilmente un nome femminile... e si spense. Mei guardò dietro di sé, allibita, e vide che altri due velociraptor erano venuti ad aiutare Hei: Alba e Usain. Di lì a poco, dalla foresta arrivò Nerva, che la aiutò ad alzarsi: la lancia era la sua ritrovata picca romana.

«Gaius… sei venuto anche tu?»

«Quel miserabile è stato sleale con te perché non tollerava la sconfitta. Meritava una morte vergognosa come quella che gli ho dato» affermò il centurione, poggiandole una mano sulla spalla.

«Mei! Stai bene?» chiese Helena, apparsa a sua volta, controllandole il braccio.

«Sì, mi fa solo male questo e mi gira la testa… non dovevate sistemare il manufatto?»

«L’abbiamo fatto, più in fretta che potevamo. Poi abbiamo deciso di tornare da voi, per non perdervi!»

Mentre i tre parlavano, gli animali nemici smisero di combattere e si radunarono attorno al corpo del padrone deceduto. A quel punto, si guardarono perplessi e, pur esitando, si dispersero: svanirono nella foresta, ciascuno prendendo la sua strada.

«Se il gigante era qui, vuol dire che c’è anche il fratello omicida dell’indigena. Dobbiamo trovare subito lei e i ragazzi!» affermò Nerva.

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Ippocrate corse un po’ arrancando, un po’ scivolando, lungo il pendio della vecchia valanga per seguire l’odore ed evitare il contingente nemico allo stesso tempo. La neve fresca era cedevole e rallentava, il velociraptor aveva perdite d’equilibrio tali che Sam doveva tenere le gambe strette sui suoi fianchi e le redini tirate fino a farsi venire i crampi. Ma entrambi perseverarono a denti stretti e, alla fine, trovarono Laura e Chloe, a cavallo di Cupcake.

«Ragazze! Siete vive!» esclamò, al settimo cielo.

Fregandosene della neve friabile, scese da Cupcake e le raggiunse per abbracciarle. Le abbracciò alla vita, perché loro erano sulla schiena del pachicefalosauro, ma sempre di un abbraccio si trattava.

«Sì, ce l’abbiamo fatta, Sam! Ammettilo, ti sei spaventato per noi, eh?» lo punzecchiò Chloe.

«Certo! Parecchio!»

«Cavolo… se lo ammetti, vuol dire che ti è quasi venuto un infarto!» commentò Laura, che stava iniziando a scaldarsi.

Chloe stava per confessare di essere scoppiata a piangere prima di ritrovarsi inseguita dallo yutiranno, però furono interrotti: dei mucchietti di neve più dura iniziarono a scendere dall’alto e li sorpassarono, solleticando le loro gambe. I tre ragazzi impallidirono all’idea di una nuova valanga, visto che erano in un campo minato da quel punto di vista, ma successe altro. Ad un tratto, rotolando, scalciando e urlando, due palle di pelliccia che si contorcevano finirono in mezzo a loro. Quando si alzarono, una li riconobbe e corse dietro di loro quasi come se cercasse protezione, l’altra rimase ferma e strinse i pugni, con una faccia pregna di follia.

«Acceber!» esclamarono loro.

«State attenti! Quello è Gnul-Iat!» avvertì la ragazza.

I tre lo fissarono, a occhi sbarrati.

«Quindi tu sei il malato di mente che fa le firme sui colli, eh?» chiese Sam, con finto sarcasmo per nascondere la paura.

«Sì, sono io… bel nome che mi hai trovato, sorellina – ringhiò Gnul, a denti stretti – Voi dovete essere alcuni degli stranieri con cui l’ho vista tempo fa… state a sentire, sto avendo un momento piuttosto snervante, quindi fatevi subito da parte e potrei anche pensare di uccidervi per ultimi!»

Il velociraptor si mise accanto a Sam, scoprì i denti e fece ondeggiare le penne con fare minaccioso, mentre Cupcake muggì con tono di sfida. Sam, incoraggiato dal supporto delle due bestie, lo provocò:

«Tsk, chiunque saprebbe fare quella minaccia! Come penseresti di fare? Sei disarmato... e tra l’altro sei pure un grissino! Ti facevo più alto…»

Effettivamente, nonostante il fisico definito e asciutto e la pelliccia che lo “ingrossava”, Gnul era notevolmente più minuto di lui, a momenti lo era quanto le ragazze.

«E poi non mi puoi toccare, Gnul! Sono diventata invincibile, anche se non so come sia successo!» aggiunse Acceber, superando in parte la paura e facendosi avanti, mostrandogli la collana TEK.

Gnul-Iat, sempre più furioso, non ci vide più. Urlò e si gettò su di lei, ma Sam si mise in mezzo e lo sorprese con un destro sul naso. A scuola aveva fatto tanti di quei pestaggi che ormai era temprato… Gnul-Iat sussultò, ma si riprese subito e rispose con una ginocchiata allo stomaco così rapida che nessuno la vide arrivare. Sam, colto alla sprovvista, cadde in ginocchio mentre Gnul camminava lentamente verso la sorella. Ippocrate emise un verso intimidatorio e gli si scagliò addosso. Il Ladro di Impianti, però, gli cavò un occhio con due dita prima che lo raggiungesse e fermò l’assalto. Cupcake provò una testata, ma fece la stessa fine: Laura e Chloe finirono a terra.

«Aspetta! Aspetta…» esclamò Acceber.

«Vediamo se sei al sicuro anche dalla neve…» ammiccò il pazzo.

Avendo capito che i suoi attacchi rimbalzavano solo se erano dei violenti impatti, le afferrò con calma ma alla svelta le caviglie e strattonò, facendola finire pancia all’aria. La girò prima che si alzasse e… le premé la faccia nella neve, iniziando a soffocarla. Acceber si opponeva e scalciava, ma lui la sovrastava e bloccava.

«Fermo!»

Chloe prese un bastone incastrato nella slavina e glielo sbatté in testa. Gnul allentò la presa, Acceber si liberò e lo respinse. Ai limiti della pazzia, Gnul gridò che li avrebbe uccisi tutti a mani nude e stordì Chloe con una testata, lasciandole un livido in mezzo alla fronte. Sam tornò alla carica e lo placcò. Gli avvolse il torso con le braccia e iniziò a stringere, tenendolo fermo. Mentre erano ancora a terra, Ippocrate volle approfittarne per attaccare con un’artigliata… ma Gnul-Iat si sforzò di rotolare e si fece scudo con Sam, a cui fu quindi graffiata la schiena. Urlando, il rosso lasciò andare Gnul per il dolore e gli fu tirato un calcio alle costole. Laura, volendo rendersi utile, fece una palla di neve e, pur sentendosi una stupida, gliela tirò in faccia appena i loro sguardi si incrociarono. Mentre Gnul era accecato, Acceber gli venne incontro e lo colpì in faccia in un improvviso lampo di coraggio: era il momento di affrontare i suoi demoni. Guardò Laura con gratitudine, mentre Cupcake atterrava Gnul con una spallata. A quel punto, a Laura venne un’idea: ad ogni passo che facevano, venivano giù mucchi di neve in quantità allarmanti, quindi forse se avessero esagerato…

«Trovate un albero e aggrappatevi!» ordinò.

«Cosa?»

«Fatelo e basta!»

Quindi, titubanti, tutti si abbracciarono ad un pino lì accanto che sporgeva dalla slavina e Laura iniziò a pestare con forza i piedi per terra e saltellare, invitando Cuppy ad imitarla. La neve che scivolava si triplicò e capirono il suo intento: voleva seppellire Gnul con un’altra valanga. Quando il fratello di Acceber si alzò, la ragazza e il dinosauro ottennero quello che volevano: si sentì una sorta di tuono nelle profondità del pendio e un enorme blocco di slavina si staccò dal resto, com’era successo in cima alla montagna. Laura corse al pino, Ippocrate ci saltò sopra e Cupcake lo afferrò col becco. Gnul-Iat, prima che potesse fare qualsiasi cosa, sentì il terreno venire a mancare sotto i suoi piedi e iniziò a venire giù con tutto il resto.

«No! Non vale! La mia uccisione... me la paghere...» urlò, prima di scomparire sotto quintali su quintali di neve.

La valanga scese ancora di più di dov’era prima e finì con l’estendersi fino al lago ghiacciato. Fu uno sforzo tremendo stare aggrappati al pino, specialmente per Sam che aveva la schiena ferita, ma sopravvissero. Erano immersi nella neve fino alla vita, ma riuscirono a districarsi senza problemi. Stremati e col cuore a mille, tutti si sedettero e si guardarono.

«Uao… c’è mancato poco, eh?» commentò Chloe.

«A chi lo dici…» disse Sam.

«Voi… mi avete protetta! Avete rischiato per me! Grazie, grazie infinite!» mormorò Acceber, commossa.

«Era il minimo che potessimo fare per la nostra fantastica guida… e amica» rispose Laura a nome di tutti, sorridendo.

Pochi minuti dopo, furono raggiunti da Helena e gli altri, alquanto sorpresi e preoccupati per la valanga. Quando gli fu raccontato tutto, rimasero stupiti e si complimentarono sinceramente per la bravura dei ragazzi a salvarsi da soli da una minaccia come Gnul-Iat… certo, la cosa era resa più facile dalle opportunità date dal territorio e dall’assenza del contingente, ma era comunque cosa non da poco. E per Acceber fu il massimo avere la franca ammirazione della Regina delle Bestie, così come per Laura lo fu averla da Helena. Dunque, ora che il nuovo manufatto era sul piedistallo, il tassello di mosaico era stato preso e si erano pure salvati, restava solo una cosa da fare: chiedere il prossimo manufatto ai Lupi Bianchi. Come promesso, si sarebbero riposati e ripresi dal freddo con una bollente zuppa di radici tipica del Dente Ghiacciato… senza equiseto, ovviamente.

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«Ehi, guarda quanta roba interessante che hanno qui, Doris! È meglio delle raccolte da mercatino delle pulci di quello stupido collezionista in Germania!» commentò Mike, passeggiando nel mercato con le mani dietro la schiena e Doris che osservava tutto stando in modalità furtiva sulla sua testa.

Dopo le nuove decisioni che avevano preso sulla strategia, avevano accompagnato i documentaristi al villaggio delle Frecce Dorate, il primo in cui erano stati, perché a Mike sembrava il posto più sereno in cui rilassarsi e aspettare che i loro concorrenti finissero di sgobbare coi manufatti per loro. Così, mentre Vicky e i suoi colleghi facevano delle preziosissime interviste agli Arkiani, molto utili per dare ancora più autenticità alla loro opera, l’uomo con la bombetta dava un’occhiata più da turista al villaggio. Ad alcune bancarelle si vendevano oggetti ornamentali che somigliavano ai braccialetti e collanine arabi, ad altre degli attrezzi agricoli e da lavoro, armi, selle… quello che emozionava di più Mike era il fatto che erano tutte cose normali, però adattate alla vita su ARK: gli aratri erano enormi perché dovevano trainarli dei dinosauri, le selle avevano forme molto specifiche per adattarsi ale varie specie… sembrava di stare in un museo. Ma ciò che che lo soddisfaceva davero era pregustare tutta la fama che avrebbe ottenuto presentando ARK al mondo. Ad un certo punto si fomentò e, come tutte le volte in cui si fomentava, iniziò a recitare un monologo da teatro perdendosi nei suoi sogni:

«Immagina tutto quello che creeremo, Doris! La televisione impazzirà per l’isola preistorica, Internet impazzirà per questo! Diventerà il più grande distributore di soldi di sempre, per noi e chiunque saprà approfittarne!»

«Mike…» provò a richiamarlo Doris.

«Vedo già tutti gli alberghi, i ristoranti, i safari, i fiumi di turisti, i parchi naturali, i musei, i film a tema…»

«Mike…»

«È una gallina dalle uova d’oro, Doris! Anzi, è la gallina dalle uova d’oro! Ci basta solo raggiungere quello che cerchiamo, andare via da qui e…»

«Mike, stai attirando parecchia attenzione sconveniente» riuscì finalmente a dire la bombetta.

Mike, tornato coi piedi per terra, si rese conto che tutti i presenti lo stavano guardando con delle espressioni confuse e imbarazzate. Allora, impallidendo, si aggiustò il cappello giusto per fare qualcosa, si schiarì la voce e disse con fare altezzoso:

«Be’? Che avete da guardare? Sono un attore, ho un pezzo importante che non ho modo di interpretare perché sono finito qui, ma voglio allenarmi lo stesso per quando tornerò a casa! Sì, io un giorno tornerò a casa, anche se c’è una barriera invisibile in mare! Non è che ho scoperto dei passaggi alternativi in mezzo a delle rovine, proprio no… eh, nella vita non si può avere tutto, che ci volete fare? Buona giornata, non avete visto né sentito niente!»

Quindi, morendo dall’imbarazzo, si allontanò dal mercato camminando veloce e, raggiunte le prime case, andò in riva al lago. Si sedette su una panchina sulla sponda e si calmò.

«Dannazione, ho fatto un discorso appassionato da cattivo dei film ad alta voce… l’ultima volta è stata a Mosca, ma è passata una vita! Come ho potuto riprendere? Che vergogna…»

Poggiò Doris accanto a sé sulla panca e si mise a osservare mugugnando il lago. La bombetta estrasse visore e zampe da ragno e rimase ferma accanto a lui per qualche minuto. Mike non si accorse che stava eseguendo una scansione chimica dei paraggi… alla fine, rilevò qualcosa di inaspettato, molto interessante.

«Mike, ho appena rilevato una traccia chimica mai trovata prima…» avvertì.

«In che senso?» chiese lui, incuriosito.

«È molto simile ai segnali che ho rintracciato fino ad adesso»

«Oh! Allora c’è un manufatto? Dove?»

«A poche decine di metri da noi. Triangolando meglio le coordinate… a non più di trenta metri»

«Cosa? Anche se i mocciosi hanno già portato via quello di questo villaggio? Ma che strano…»

«Infatti non può essere uno dei manufatti: la traccia è altamente più concentrata e distinta. È indubbiamente qualcosa di diverso. Suggerisco di indagare, fintanto che i nostri collaboratori documentaristi sono assenti e noi siamo liberi di agire»

«Oh, buona idea! Ogni indizio guadagnato è un passo che ci avvicina al Tesoro!»

Così, facendosi guidare dalla bombetta, Mike seguì il lungolago fino ad una semplice casetta in legno con una rimessa di barche accanto, probabilmente l’abitazione di un pescatore. Doris gli indicò che la fonte della traccia proveniva dalla stanza che si vedeva dalla finestra più a destra, a ridosso del lago. Stando basso, Mike riuscì ad avvicinarsi furtivamente (anche se era in bella vista) al davanzale, appiattì la schiena al muro come nei film d’azione e, sempre credendosi silenzioso e quatto come un ninja quando era l’esatto opposto, sbirciò dentro: sembrava la normalissima camera di un bambino. Chiese a Doris dove fosse la traccia e la bombetta gli indicò un oggetto sul comodino, accanto ad una candela. Mike non aveva mai visto niente di simile: sembrava era una strana sfera di rame, grande poco più di una palla da tennis, ormai ossidata e verde, ma non arrugginita. Era più pesante di quello che sembrava e un solco la divideva in due parti uguali. Attraverso una sorta di piccolo oblò di vetro su uno dei lati si poteva vedere che all’interno della sfera c’era un bizzarro liquido denso come miele e azzurro, addirittura fluorescente.

«Pare che il segnale provenga da quella sostanza sconosciuta» analizzò Doris.

«Interessante… prendiamola!»

Mike, senza pensarci due volte, si tuffò di testa nella stanza dalla finestra aperta, schiantandosi a peso morto sulle assi di legno del pavimento. Con un gemito, si alzò e si spolverò la giacca, sentendo la voce di Doris che lo avvertiva per qualcosa, ma era troppo concentrato sull’obiettivo per darle retta.

“Oh, vieni da papà!” pensò, ridacchiando, mentre afferrava il globo di rame.

Ma, appena si voltò, capì cosa stava dicendo Doris: nella stanza era appena entrato un ragazzino di cinque anni che adesso fissava Mike con aria confusa. Non spaventata, non sconvolta per l’apparizione improvvisa di uno sconosciuto straniero in camera sua, no: confusa. L’aspetto goffo e comico di Mike contribuiva a non fare paura come effetto immediato, c’era da dirlo. Mike, rimasto pietrificato, a bocca aperta e a occhi sbarrati, mosse gli occhi un po’ a destra e un po’ a manca, prima di fare un sorriso imbarazzato e azzardare un:

«Ehm… ciao»

A quel punto, si aspettava che il bamboccio corresse fuori urlando in preda al panico per allertare i genitori. In tal caso Doris, già pronta e nascosta dietro la finestra, avrebbe provveduto a controllargli il sistema nervoso e indurlo a lasciare perdere. Ma il ragazzino non fece assolutamente nulla, non si preoccupò per niente. Anzi, con un tono molto educato e gentile, più una punta di curiosità e ingenuità, domandò:

«Allora quella palla strana è tua, straniero coi baffi?»

Mike, lì per lì, rimase interdetto e balbettò qualche sillaba senza senso. Ma poi, capendo l’occasione, la colse e rispose:

«Sì! Certo, è mia! Oh, quanto ero preoccupato, credevo di averla persa per sempre! Grazie per averne avuto cura, ragazzino indigeno, scusa se sono entrato senza chiedere… ma sai, è importantissima per me!»

«Allora sai a che serve?»

L’uomo con la bombetta rimase ancora interdetto:

«Oh… no, quello no. Però ci sto lavorando!»

«Va bene. La porta è di là» concluse allora il bimbo, facendo per andarsene.

Mike, non resistendo, chiese:

«Ma tu non hai dei genitori che vengano qui a… non so, farmi la pelle perché sono entrato all’improvviso?»

«Sono dagli Squali Dipinti a pesca, torneranno fra due giorni» spiegò serenamente il ragazzino.

Mike era spiazzato da come gli parlava tranquillamente, come se fosse un vecchio amico, anche se non si erano mai visti: non se l’aspettava. Sorrise: l’ingenuità e la semplicità dei bambini sapeva sempre meravigliare. Ma poi si accorse di un’altra cosa che cambiò tutto: il bimbo parlava con tono apatico e depresso, distaccato, e soprattutto aveva un occhio nero. Qualcosa dentro Mike fu toccato, gli tornò alla mente la sua dura infanzia da strada di Seattle: non poté fare a meno di intenerirsi…

«Senti, io non sono un tipo a cui piace impicciarsi, ma… che hai fatto all’occhio? I bambini non dovrebbero mai essere violenti!» chiese, con un sorriso per una volta cordiale e non provocatorio.

«Ho litigato con un amico perché mi prendeva in giro, diceva che faccio pena a non voler diventare un pescatore come i miei genitori e io gli ho detto che i suoi fanno schifo perché fanno i calzolai, allora mi ha picchiato. Poi è arrivata la sua mamma e ha detto che aveva ragione lui…»

Mike sentì una lacrimuccia che gli saliva, mentre Doris continuava a fissare con pazienza e di nascosto dietro la finestra.

«Pensavo di fare il cacciatore da grande – continuò il ragazzino – Ma se faccio così schifo… forse dovrei fare come diceva la mamma del mio amico, lasciar perdere e fare il pescatore anch’io…»

A sentire questo, Mike non si trattenne e, balzando di fronte al bambino e fissandolo negli occhi, gli escamò:

«No! Io lo so bene, ti diranno tutti di “lasciar perdere”, ma tu non lo fare! Al contrario, lascia che la tua rabbia ribollisca dentro di te tutta la vita e ti faccia fermentare bene bene tutto il potenziale da malandrino che hai! L’odio è la guida migliore: è quello che faccio io mentre cerco di diventare più ricco di tutti, infatti il giorno in cui lo sarò la farò vedere a tutti quanti! Ascolta le mie parole, ragazzino: non lasciar perdere!»

Infine, per fare il misterioso, si avvolse nella sua giacca di pelle, fissò il bambino ancora un secondo con un sopracciglio inarcato e il volto coperto a metà… e uscì dalla casa alla velocità della luce, lasciando il ragazzo con un’espressione disorientata.

«…eh?» biascicò, rimasto da solo.

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«Ti sei esposto ad un grosso rischio» lo rimproverò Doris, mentre andavano verso l’uscita del villaggio per non avere più occhi indiscreti addosso.

«Pffff, era un marmocchio, niente di pericoloso»

Uscirono dal cancello meridionale, sotto lo sguardo incuriosito delle guardie, e si addentrarono in una macchia alberata per nascondersi. Quindi Mike iniziò a rigirarsi la palla di rame tra le mani e si chiese cosa potesse essere, con quell’inquietate liquido dentro. DOR-15, allora, si offrì di fare una scansione più precisa per poter ricostruire la “storia” dell’oggetto, ovvero la storia di tutti i suoi utilizzi fino a quel momento.

«Cosa? Sai fare questo?» chiese Mike, sorpreso.

«Sì»

«Un’altra cosa che il tuo creatore non mi ha detto… questa cosa comincia a farsi stressante!»

«A dire la verità questo te l’ha detto»

«Ah, sì?»

«Sì, quando mi ha presentata a te. Ma tu hai scambiato il dettaglio per una battuta e l’hai dimenticato»

«Aaaaah, adesso sì che mi ricordo! Fa comunque strano, però»

Doris estrasse le braccia meccaniche e cominciò a rigirare freneticamente la sfera tra le dita di metallo, mentre la scandagliava muovendo il visore su e giù.

«Per curiosità… esattamente com’è che fai a ricostruire… qualunque cosa abbia detto?» chiese Mike, fissando il cappello come ipnotizzato.

«Esaminando la disposizione e il livello di decadimento delle impronte digitali su un oggetto non identificato, posso ricostruire il modo con cui viene usato, ma lo scopo può essere supposto» spiegò Doris, interrompendosi un secondo.

«Sembra fenomenale! Ma scusa, perché il professor Melville ti ha dato questa funzione? Mi sembra un po’ troppo da spionaggio per un cappello-domestico…»

«Durante la mia progettazione, ha considerato anche l’opzione di mettermi al servizio delle forze di polizia»

«Uh, ho capito»

«E questo è anche il motivo per cui io e DOR-15-B siamo in grado di manipolare il sistema nervoso centrale: poteva tornare utile a tirare fuori la verità negli interrogatori e a rendere i cani da fiuto più facili da comprendere»

«Geniale! Ma torniamo a noi… cos’è questa palla?»

«Ci sono quasi»

Finalmente, terminò la scansione ed espose il resoconto:

«L’ultimo utilizzo di questo oggetto risale ad almeno tre mesi fa. Le impronte digitali più recenti sono quelle del ragazzino di poco fa, ma lui non ha scoperto il modo in cui il vecchio proprietario, nella fattispecie un maschio di etnia non identificata di circa quarant’anni, lo usava. E, a quanto pare, per utilizzarla occorre fare questo...»

Spinse qualcosa che Mike non vide e la sfera si divise in due parti uguali, rivelando una boccetta di vetro in cui c’era il liquido. Poi si aprì e, costringendo Mike a sobbalzare all’indietro con un’esclamazione da donnicciola, riversò il fluido per terra, facendolo diventare una pozzanghera blu in pochi secondi.

«Argh! Ma che roba è? La melma radioattiva di qualche film di fantascienza?» farfugliò Mike, sconvolto.

Doris esaminò la pozza:

«Ha la traccia chimica dei manufatti, non ho mai percepito questo segnale in modo così nitido. Tuttavia, la sua struttura molecolare ricorda più una sostanza aeriforme che una liquida. In parole semplici, se la toccassimo la attraverseremmo come se fosse aria»

«Davvero? Voglio provare…»

«Mike, sei consigliato di prestare attenzione, potrebbe rivelarsi…»

Fu interrotta da uno stridulo grido effeminato e terrorizzato: Mike, mettendo il piede nella pozza con troppa decisione, ci precipitò dentro come un pozzo, lasciando senza parole entrambi. Prontamente, Doris lo seguì, dopo aver messo la sfera al sicuro dentro di sé.

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Mike aveva fatto una caduta di tre metri e ora era lungo disteso in una prateria di erba gialla e secca che si estendeva a perdita d’occhio da tutte le parti, fino all’orizzonte. Il Sole splendeva alto nel cielo, rovente, il clima era molto secco. La pozzanghera, ora dalle fattezze di un portale a mezz’aria sopra le loro teste, svanì in un baleno, evaporando come la pozza che era. Mike, stupefatto, si guardò in torno a occhi e bocca spalancati:

«Dove… dove diamine siamo, Doris? Non è più l’isola… oddio! Il teletrasporto esiste! Che razza di scoperta! Ti rendi conto di quanti soldi ci faremo a presentarlo al mondo? È fatta! Però... che posto è questo, dicevo?»

«Concedimi un istante»

Doris si alzò in aria ed eseguì una scansione geografica dell’ambiente, facendovi quindi dei calcoli satellitari per triangolare la loro posizione. Per avere un quadro completo, verificò anche la distanza della Luna dalla Terra e della Terra rispetto al Sole per determinare la data. Il risultato lasciò Mike di nuovo senza parole:

«Ci troviamo in Africa centrale, nella Rift Valley. È il 10.000.000 avanti Cristo circa, il che significa che siamo nella zona di origine dell'Australopithecus africanus»

«La culla dell’umanità, eh? Quindi è un… viaggio nel tempo?»

«Non è un'ipotesi da escludere»

«Davvero? Allora… accidenti! È la scoperta del millennio… l’ennesima!»

«Esamino di nuovo la sfera… a quanto pare, presenta una tastiera che serve a manipolare la pozza del fluido. A quanto pare, la sostanza ha la capacità di collegare due luoghi, ma non dello stesso universo… ciò che il proprietario scriveva con la tastiera indica chiaramente che abbiamo fatto un viaggio fra dimensioni parallele. L’ho potuto dedurre dalle citazioni e i riferimenti eseguiti coi tasti, che non lasciano alcun dubbio, in quanto si nominano caratteristiche che sulla Terra come la conosciamo non ci sarebbero mai»

«Non ci credo…»

«È così, i dati non possono che dire la verità»

«Ma allora… cos’ha questa dimensione? È tutta Africa ed è il passato? Non ho capito bene…»

Ma, prima che Doris rispondesse, sentirono delle vocette acute e dei versi striduli in lontananza. Guardarono nella direzione del rumore e, a venti metri di distanza…Videro delle creature che non avrebbero mai saputo nemmeno lontanamente immaginare. E ora li stavano osservando, in un piccolo gruppo, che gridavano e gesticolavano a tutto spiano. Erano così bizzarre, grottesche e surreali che potevano essere scambiate per degli alieni, anche se a prima vista Mike non li avrebbe comunque definiti tali. Cos’erano? Che intenzioni avevano nei loro confronti? In che versione della Terra erano capitati? Cos’era quella sfera, per essere accomunata ai manufatti dei Pre-Arkiani? Chi poteva mai essere il suo proprietario?

«Oh, mio Dio!» esclamò Mike, puntando il dito contro le creature e tremando dalla testa ai piedi, facendo ondeggiare i baffi come giunchi al vento.
 

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ANGOLO AUTORE

Un sincero ringraziamento a Rickypedia04, che ha disegnato la fanart dello scontro tra lo yutiranno e il rinoceronte lanoso che avete visto all'inizio del capitolo.

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Capitolo 30
*** Un servizio memorabile (storia vecchia) ***


Phil e Allan speravano che a Vicky bastasse intervistare gli abitanti del villaggio chiedendo le piccolezze più superflue, dalle loro abitudini alimentari all’età a cui cominciavano a lavare i panni da soli, roba imbarazzante che solo il più squallido giornalista di qualche rivista scandalistica di paesino sarebbe mai stato capace di chiedere. Per il cameraman era quasi una vergogna dover registrare le facce confuse e imbarazzate degli Arkiani che interpellavano, specialmente perché Vicky li “forzava” a risponderle o insistendo, o addirittura rispondendosi da sola. Però, tutto sommato, non era che stessero rischiando la vita, come gli fece notare Phil. Fu così fino al momento in cui Vicky origliò una conversazione (malauguratamente nella loro lingua) tra un cacciatore e una naufraga americana riguardante uno spinosauro avvistato in un lago collegato a quello del villaggio dal fiume. La presentatrice, ricordandosi che non avevano ancora fatto un servizio sugli spinosauri, scattò subito sull’attenti e andò a chiedere. L’Americana, alla vista delle telecamere, sembrò avere un mancamento:

«Giornalisti?! Quindi quest’isola è stata scoperta?» chiese, spiritata, confondendo il cacciatore.

«No, veramente siamo solo documentaristi: siamo capitati qui da Machu Picchu… non ci chieda come sia mai possibile, perché non ci abbiamo capito un accidente» rispose Allan.

La sconosciuta, sentendo una storia così paradossale, credé che la stessero prendendo in giro e sospirò, con uno sguardo depresso: aveva sperato per un attimo che la barriera fosse sparita e che la civiltà fosse venuta a conoscenza di tutto, che avesse finalmente la possibilità di tornare a casa, dalla sua famiglia… invece no: erano solo dei dispersi come lei, che credevano di avere un modo per tornare per far vedere a tutti le loro riprese, impazziti al punto da dire scemenze. Era un vero peccato che non avesse creduto al portale nelle rovine… comunque, il cacciatore arkiano rispose a Vicky che, da qualche giorno, uno spinosauro era venuto a vivere nel lago vicino al villaggio, quindi tutti stavano denunciando il fatto al capovillaggio: Yasnet, l’indomani, avrebbe indetto un’assemblea pubblica per chiedere alla tribù se volevano che l’esemplare fosse ucciso, che venisse allontanato o se erano disposti ad aspettare che se ne andasse da solo. Vicky chiese come andarci e il cacciatore, pur sconsigliandole di avvicinarsi, le spiegò che non doveva fare altro che seguire il fiume che usciva dalla palizzata del villaggio, a Sud. Lei, con un ampio sorriso, lo ringraziò e si voltò per fissare i due colleghi, che ora avevano uno sguardo a metà tra l’infuriato e il disperato.

«Che c’è? Lo spinosauro è l’icona di Jurassic Park 3: fare un servizio su un esemplare vero ci frutterebbe come minimo centinaia di migliaia di visualizzazioni!»

«Peccato che il terzo film sia il peggiore della trilogia» ribatté Allan.

«Perché, non consideri i Jurassic World?» chiese Phil.

«No, mi rifiuto»

«Ti preoccupa più questo che farti divorare?»

«Su, forza! Muovetevi, ragazzi!» esortò Vicky, entusiasta.

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Phil e Allan erano fermamente convinti di star commettendo una stupidaggine. Per questo si mantennero ad almeno dieci passi di distanza da lei, mentre seguivano il fiume: almeno così, se fosse stata mangiata, loro due sarebbero stati abbastanza lontani per scappare. Il fiume li condusse in un boschetto, ad un paio di kilometri dal villaggio delle Frecce Dorate. Nonostante avesse un’aria da foresta incantata, ai due faceva una paura incredibile tornare negli spazi selvaggi, dopo la sicurezza di un centro abitato. Erano ancora in tempo per far cambiare idea a Vicky, ma lei fu irremovibile: sembrava davvero decisa ad andare incontro alla morte. Dopo un’ora, finalmente, arrivarono al lago. Era un posto placidissimo, in apparenza sicuro e ospitale. Ma loro sapevano bene che in quelle acque si aggirava qualcosa di enorme e zannuto. Phil si guardò un attimo attorno, teso come una corda di violino, e fece un maldestro tentativo di andarsene:

«Dunque… il lago c’è, ma lo spinosauro no: tutta una bufala. Torniamo indietro!»

«Eh, no! Ora facciamo il nostro lavoro e… aspettiamo» lo fermò Vicky.

«Come? Dove?»

«Non so, ci sarà un punto nascosto… ecco! Lassù!»

La bionda indicò un crinale di fango sulla sponda a Est dello specchio d’acqua, la cui cima era coperta di fitti cespugli. Dunque, tenendo gli occhi e le orecchie aperte, ne raggiunsero la sommità facendo il giro largo, si nascosero meglio che poterono in mezzo alle foglie e gli steli e prepararono l’attrezzatura. Stare accucciati lì non era il massimo della comodità, ma loro non avevano di che lamentarsi: nel loro lavoro, l’avevano già fatto innumerevoli volte, per filmare da lontano mandrie di gnu, tigri, aquile e quant’altro. Sapevano pazientare. E così trascorsero le due ore successive in silenzio e immobili, in attesa che succedesse qualcosa. Ormai le loro gambe erano tutte un formicolio e Phil aveva un disperato bisogno di andare in bagno. Ad un certo punto, però, accadde finalmente qualcosa… ma non era quello per cui erano venuti. Alla riva del lago giunse, circospetto, un procoptodonte, un grosso canguro preistorico.

«Ehi, guardate quello…» mormorò Allan.

«Oh, che emozione! Una forma primitiva di canguro! State filmando, vero?»

«Sì»

«A quanto pare non ha percepito lo spinosauro… o forse lo farà presto, se avrà fortuna»

Il procoptodonte, appena emerso dal fronte boscoso, si guardò in giro un paio di secondi. Poi raggiunse la riva in tre salti e si mise a quattro zampe, abbassando il muso per bere. Poco dopo, alle sue spalle, apparve un gruppetto di compsognati, che iniziarono a fissare il marsupiale mentre saltellavano e si scambiavano dei versi allegri. Sembrava che stessero aspettando qualcosa.

«Eh, lo sospettavo… ci siamo!» sussurrò Vicky, emozionata.

«Come, scusa?»

«Quei compsognati sono lì perché sanno»

«Sanno cosa?»

«Il pranzo è servito»

La superficie dell’acqua a pochi metri di distanza dal canguro ribollì e, all’improvviso, si levò un enorme schizzo che sommerse il marsupiale. Confuso e disorientato dalla schiuma, il marsupiale si scosse e si guardò intorno invece di saltare via all’istante e fuggire veloce come il vento. Fu un errore: lo spinosauro saltò agilmente fuori dall’acqua e lo ghermì tra le fauci, schiacchiadogli le ossa con una presa d’acciaio. Il canguro preistorico emise un gemito rauco, prima di morire. Allan fece un rapido segno della croce per il procoptodonte. Lo spinosauro cominciò a rigirarsi la preda in bocca per farla a pezzi prima di ingoiare i bocconi. Alcuni lembi di carne caddero per terra e i compsognati ne approfittarono per accorrere e ripulire gli avanzi. Vicky, sforzandosi di sussurrare per non farsi sentire dalle creature, eseguiva il commentario della scena e paragonava i compsognati agli avvoltoi che si gettavano sui resti delle prede di un leone. Ma Phil, mentre regolava la messa a fuoco della telecamera, si sentì come osservato… si girò e impallidì alla vista di un secondo gruppo di compsognati che, silenziosi e furtivi, erano sgattaiolati dietro di loro e li stavano fissando con aria incuriosita e giocosa; erano a pochissimi passi.

«Argh!» sobbalzò.

«Cosa... ah!» esclamarono Allan e Vicky.

Colti alla sprovvista da quelle visite inaspettate, scattarono in piedi e indietreggiarono. Purtroppo, quest’impulso costò loro caro: Vicky mise un piede in fallo oltre il bordo del crinale e, con un grido di terrore, rotolò malamente fino in fondo.

«Vicky!»

Pochi secondi dopo, anche loro precipitarono giù dal pendio, costretti a indietreggiare dai compsognati che iniziarono a mordicchiare le loro gambe e a saltargli addosso. Per loro fortuna, non era né troppo alto, né troppo ripido: non si fecero tanto male, a parte lividi e ammaccature, e la loro attrezzatura non andò in pezzi. Allan, imprecando e urlando, iniziò a girare in cerchio e a “danzare” cercando di tenere a freno un compsognato che gli era saltato in faccia. La scena era piuttosto ridicola: sembrava un papà che cercava goffamente di far dormire un bambino (o farlo vomitare) facendo delle giravolte da ballerino, solo che al posto del bambino c’era un piccolo dinosauro che voleva strappargli la faccia a graffi e morsi.

«Buttalo, idiota!» esclamò Phil, sforzandosi di non ridere.

«Ci provo, ma non ci riesco! Merda!»

Il compi gli morse il naso e lui, finalmente, lo lasciò cadere dal dolore. In uno scatto di rabbia, gli tirò una pedata e lo scaraventò lontano, ai piedi dello spinosauro… che li stava fissando perplesso. Per il panico, non si erano accorti di aver gettato la loro copertura alle ortiche e, adesso, stavano fermi come statue e pallidi come stracci a fissare il teropode acquatico. Aveva finito il procoptodonte, ma a quanto pareva non era ancora sazio, visto che cominciò ad avvicinarsi ai tre con uno sguardo spaventosamente interessato. Avrebbero potuto correre via ai lati, ma avevano troppa paura per muovere le gambe, quindi rimasero semplicemente fermi con le spalle al muro.

«Vicky, se ci versiamo della pipì di anchilosauro addosso smettiamo di piacergli?» chiese Phil.

«Non lo so…» balbettò lei, terrorizzata.

Lo spinosauro li aveva quasi raggiunti, quando sentì un odore estraneo e un ruggito alle sue spalle. Lui si voltò, i tre documentaristi si sporsero di lato per guardare oltre la sua enorme sagoma e videro un tirannosauro. Era venuto al laghetto per bere, ma quando aveva visto lo spinosauro non aveva potuto fare a meno di lanciare un verso minaccioso. Lo spinosauro raccolse la sfida e ruggì in risposta, quindi corse a pararglisi di fronte per difendere il territorio.

«Correre!» esclanmò Vicky.

I suoi colleghi non se lo fecero ripetere due volte, recuperarono l’attrezzatura da terra e si precipitarono insieme a lei nella direzione da cui erano venuti. Corsero come lepri inseguite dai segugi, senza rallentare né guardarsi indietro, finché la macchia finì e tornarono nella prateria. A quel punto, paonazzi per la paura e la fatica, si fermarono e cercarono di riprendersi dalla corsa pazza e dalla scarica di emozioni. Guardando il suo orologio digitale per curiosità, Phil scoprì con meraviglia che avevano corso per un quarto d’ora di fila, praticamente un miracolo per la loro media. Gli venne quasi voglia di iscriversi alla maratona di New York, una volta finite le riprese su ARK.

«Fiuuuuu, ci è mancato poco… Vicky, uno di quei due bestioni non ci seguirà, vero?» chiese Allan, asciugandosi il sudore con la manica della camicia.

Vicky sollevò la mano e gli fece segno di stare tranquillo:

«No, lo escludo: questi predatori all’apice della catena alimentare sono molto territoriali e testardi quando si affrontano. In pratica, niente li distrarrà l’uno dall’altro»

Tuttavia, dopo due minuti di pausa per riprendersi, sentirono dei passi pesanti che scossero la terra e le cime degli alberi tremarono. Dalla boscaglia, guidato dal suo olfatto, riapparve il tirannosauro. Appena li vide, schiuse la bocca e li guardò negli occhi sbavando.

«Oh-oh…» mormorò Vicky.

«Prima il secchio di piscio, ora i bestioni testardi… stai facendo un po’ troppe falle, ultimamente!» protestò Phil.

«Non posso farci niente! Sono creature estinte, posso fare solo proiezioni e…» iniziò a replicare lei.

«Correte, non parlate!» gridò Allan, che era già ripartito a razzo.

I tre si rimisero a correre e il tirannosauro partì all’inseguimento. In pochi secondi, fu così vicino che iniziarono a sentire il suo fiato sulle spalle. Quando ruggiva, spruzzava saliva caldissima sulle loro schiene e le loro gambe si mettevano a muoversi ancora più veloce.

«Sparpagliatevi, lo confonderà! È incapace di concentrarsi su tre prede distinte!» esortò Vicky.

«Ah, quindi uno di noi è il capretto sacrificale?» si indignò Allan.

«Una sorta!»

«Ti odio, Vicky!»

All’improvviso, il ruggito del tirannosauro si fece mostruosamente vicino e Vicky sentì una stretta sul suo zaino. Il sangue le si gelò nelle vene, quando si ritrovò a sei metri da terra di punto in bianco. Vide i suoi colleghi, rimasti a terra, che si fermarono giusto un attimo per guardarla a occhi sbarrati, per poi riprendere a correre. Il tirannosauro l’aveva afferrata per lo zaino e cominciò a scuoterla freneticamente, credendo di star strappando i pezzi di carne. Cercando di resistere alla nausea e di concentrarsi, Vicky riuscì a sfilare le braccia dalle bretelle e si schiantò al suolo, pestando la faccia. Ci vide doppio per dei secondi che le sembrarono ore, poi si girò sulla schiena e vide il dinosauro buttare via lo zaino, accortosi dell’errore. La fissò con la bocca spalancata e gocciolante per un po’, quindi fece per abbattere le fauci su di lei e divorarla. Ma ecco che, d’un tratto, qualcosa di velocissimo gli volò in bocca e gli infilzò la lingua: una freccia. Il tirannosauro si irrigidì, sbarrò gli occhi… e stramazzò a terra. Morto.

“Cosa?” pensò Vicky.

«Cosa?» sobbalzarono Phil e Allan, da lontano.

Poco dopo, quando la raggiunsero, videro un’ombra che planava verso di loro dal cielo, offuscata dal bagliore del Sole, e sentirono una voce familiare che li chiamava:

«Non temete, la vostra prode guida è venuta a soccorrervi!»

«Ma quello è Mike?» chiese Phil, riconoscendolo.

«Che diamine sta cavalcando?» domandò Allan.

«Non capisco… sembra un ungulato, ma provvisto di ali membranose e… oddio!» sobbalzò Vicky.

Subito dopo, davanti a loro atterrò un mostro che non avrebbero mai immaginato… era un essere simile ad un centauro, ricoperto da scaglie color smeraldo. La schiena era irta di punte e sulla coda, sottile e rigida, c’erano due aculei, così come sulle articolazioni degli arti. Aveva due ali da pipistrello sulle scapole, le cora da stambecco e una poderosa mandibola d’osso. Le dita delle zampe posteriori sembravano quelle di un dinosauro, quelle delle mani sembravano i polpastrelli di una rana. Indossava una rudimentale armatura fatta di ossa e usava arco e frecce. Sul suo dorso, adagiato tra gli spuntoni, c’era Mike, che li fissava con sguardo fiero, mentre la creatura si guardava in giro un po’ confusa. Doris era in stand by sulla testa di Mike.

«Piacere di rivedervi! Sono contento di aver fatto giusto in tempo, col mio fedele lacchè! Lui e Girodue saranno un’ottima scorta…» disse l’uomo con la bombetta, altezzoso.

«Ma cosa… che diamine è quella cosa?» chiesero i documentaristi, increduli.

«Lui? Vi presento la mia nuova guardia del corpo Crar, nobile guerriero e arciere infallibile della tribù dei Medentìn! In seguito agli enormi progressi che io e Doris abbiamo garantito alla loro specie con le nostre conoscenze, sono usciti dalla barbarie e hanno iniziato un processo di conquista e industrializzazione della loro patria! Hanno infatti scoperto, grazie a DOR-15, di avere la saliva velenosa e sono passati da vittime a conquistatori!» raccontò Mike.

«Gruar-gruar!» salutò Crar.

«E dove… dove l’hai trovato? Su quest’isola ci sono anche specie mai conosciute nel resto del mondo?!» Vicky era meravigliata.

«Uh…»

Mike stava per raccontare della sfera e della scoperta del viaggio interdimensionale, ma poi si ricredé: in un lampo di paranoia e sfiducia, ebbe paura che gli rubassero il segreto e lo facessero loro. No, meglio tenere per lui quel prezioso dettaglio: il documentario sarebbe andato avanti con una piccola bugia, poi al momento adatto avrebbe rivelato di Crar a tutto il mondo e sarebbe diventato ancora più popolare.

«Esatto! Lui è di qui, e ora la sua gente non sarà più vittima dei dinosauri, visto che sanno di essere letali armi velenose viventi!»

«Ma non conquisteranno anche noi, vero?» chiese Phil.

«No! Sono pacifici… o lo erano… comunque, ora siete ancora più al sicuro: io, Doris, Girodue e Crar vi terremo perfettamente al sicuro mentre filmate tutto per il mondo!»

Quindi, dopo aver concesso loro una mezz’ora abbondante per superare lo stupore, Mike suggerì di tornare al villaggio per un riposo e per prendere Girodue, dopodiché si sarebbero rimessi in viaggio. La "terrificante" minaccia di Mike Yagoobian stava per incombere di nuovo.

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Gnul-Iat si sforzò di resistere, di non soffocare e aggrapparsi a qualcosa mentre rotolava nella neve. A dargli la carica per continuare a provarci era l’ira funesta che quei quattro stranieri gli avevano fatto ribollire dentro per averlo fatto fallire nell’impresa… di nuovo. Lui voleva solo tagliare una volta per tutte col dolore del passato uccidendone il simbolo, Acceber… ma no, loro avevano voluto intervenire. Li avrebbe puniti, a tempo debito. La sua lotta per la sopravvivenza durò poco: ad un certo punto, sbatté la testa contro qualcosa e svenne. Da quel momento, per un’infinità, il mondo intorno a lui fu composto da buio e rabbia che riempiva l’oscurità. Ogni tanto, però, gli pareva di sentire una voce. Dapprima, credé che fosse sua madre e fu arso dal desiderio di correre ad abbracciarla, dovunque fosse. Riflettendoci bene, però, capì che non poteva essere lei: aveva un tono diverso. La sentì un paio di volte; alla terza, finalmente, riuscì ad aprire gli occhi.

«Oh, grazie agli spiriti sei vivo!» disse la voce.

Le immagini rimasero sfocate per alcuni secondi. Poi, quando si rese conto di essere in una casa, si prese un colpo e scattò sull’attenti. Era sdraiato su un letto dalle coperte in pelliccia di mammut. Si mise seduto e guardò bene la stanza: era una piccola baita monolocale in pietra e legno, con il camino acceso. Accorgendosi che era accanto alla finestra, si sporse e vide di essere ancora sul Dente Ghiacciato, però era notte fonda. Era rimasto addormentato per parecchie ore, prima che lo soccorressero, il che poteva dire solo che la preda aveva avuto tutto il tempo di fuggire e farsi più guardinga per la seconda volta.

“Maledizione…” pensò.

Guardò la persona che l’aveva salvato, chiaramente ignorando di chi si trattasse: era una donna dei Lupi Bianchi vicina alla mezza età, con un abito in pelle di metaorso. Stava seduta ad uno sgabello accanto al focolare per tenere d’occhio qualcosa che bolliva in una pentola di pietra. Quando alzò lo sguardo e lo vide seduto, gli rivolse un caldo sorriso. Gnul-Iat si guardò il polso e tirò un sospiro di sollievo: portandolo lì, non l’aveva spogliato, quindi non si era accorta che non aveva l’Innesto della Maturità e non l’aveva riconosciuto. Raccogliendo un attimo i pensieri, si andò a tastare la testa in preda al panico e si sentì morire dentro: aveva perso la bandana.

«Cerchi questa?» chiese la sua salvatrice, mostrandogliela.

«Ridammela subito! Era di mia madre!» esclamò lui, terrorizzato.

«Certo, certo, non ti scaldare! Ma ti capisco: sarei agitata anch’io, se fossi appena scampata ad una valanga»

Gliela lanciò e Gnul la afferrò al volo. Mentre se la legava alla testa, cominciò a guardare in giro per vedere se c’erano oggetti con cui avrebbe potuto ucciderla senza darle la possibilità di ribellarsi.

«Come ti chiami, ragazzo?» domandò la signora.

«Ehm…»

Rimase in silenzio per parecchio, in cerca di un nome da inventarsi. Siccome ci metteva così tanto, la donna si convinse che se lo fosse dimenticato e lo rassicurò raccontandogli che era successo anche a lei una volta, battendo la testa. Gnul colse la palla al balzo:

«Già, non ricordo niente, mi dispiace»

«Be’, passerà, non ti preoccupare. Vuoi lo stufato? È importante stare caldi!»

«No, non serve: me ne vado subito»

«Su, su! Non dai certo fastidio! Oh, ci vorrebbe altra legna…»

Si alzò e andò ad un angolo dove c’era una pila di tronchi, voltandogli le spalle. A quel punto, si accorse di un coltello per tagliare la verdura riposto sul tavolo al centro della stanza: era la sua occasione. Silenzioso come un troodonte, si alzò dal letto e prese la lama. Se la nascose dietro la schiena, camminò lentamente verso la sua soccorritrice e attese che si voltasse. Ritrovandoselo davanti, lei sobbalzò:

«Oh! Mi hai spaventata! Ti serve qualcosa?»

Fu un attimo. Veloce come un fulmine, Gnul-Iat scattò in avanti e le affondò il coltello nella gola. La donna gorgogliò e sbarrò gli occhi, un getto di sangue schizzò fuori dalla sua bocca e il respiro le si smorzò. Cadde in ginocchio e Gnul sfilò la lama, inzuppandosi la pelliccia di sangue.

«No» rispose lui, con tono fermo e secco.

Lei si accasciò sul pavimento, dove esalò il suo ultimo respiro. Quando fu certo che fosse andata, Gnul procedé a strapparle l’innesto e se lo mise in tasca. Fatto questo, osservò la stanza ancora una volta, zitto e immobile come una statua… e cominciò a rovesciare e rompere tutto, urlando. Sfogò tutta la rabbia cocente che covava per il fallimento. Ci era così vicino... e aveva fallito lo stesso. Non riusciva a perdonarselo. Aveva pure perso Sotark… di quello gli importava molto meno, ma gli faceva comunque rabbia. Buttava giù i mobili a calci, prendeva oggetti in ceramica e li frantumava contro i muri, prese un legno bruciato dal camino e lo usò per incendiare tutto. Quando il fumo rese l’aria irrespirabile, uscì e guardò ipnotizzato la casa che andava a fuoco, ignorando il contrasto tra le vampate bollenti e il freddo gelido del nevaio intorno a lui. Finalmente, riuscì a calmarsi. A quel punto, prendendo un bastone e accendendolo per fare una torcia, cominciò a scendere lungo il pendio per raggiungere la costa, dove lo attendeva l’argentavis di emergenza che l’avrebbe riportato sull’isola principale dell’arcipelago. Doveva essere rapido a pianificare il prossimo passo, ormai quella storia si stava dilungando fin troppo. Acceber sarebbe morta. Doveva morire, o il tormento non l’avrebbe mai abbandonato.

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ANGOLO AUTORE

Un sincero ringraziamento a Rickypedia04, che ha disegnato la fanart dello scontro tra il tirannosauro e lo spinosauro che avete visto in questa parte. 

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Capitolo 31
*** Amici di vecchia data (storia vecchia) ***


Avendo perso Odranreb e non vedendo alternative all’idea che aveva in mente fin dall’inizio, ma che aveva sempre scartato per paura di perdere dei cari, Drof decise di ricorrere all’ultima opzione: chiedere aiuto ai suoi amici. Non amici nel senso di colleghi cacciatori con cui aveva della confidenza, come quelli che Gnul aveva ucciso alla spiaggia la prima volta che si erano scontrati; i suoi veri, migliori amici, con cui aveva passato tutta la vita. Da quando si era sposato con Yram, era diventato rarissimo che passasse del tempo con loro. Un anno prima, quando l’avevano aiutato contro un mostro acido giunto da un posto detto “l’Aberrazione”, erano dieci anni che non li vedeva. Ora era il momento di rivogersi di nuovo al suo gruppo: sapeva bene che l’avrebbero aiutato sempre e comunque, il legame tra loro era forte.

“Se quel mostro porterà via anche solo uno di loro, possano gli dèi maledirmi a vita!” giurò a se stesso.

Ora stava cavalcando Onracoel lungo la pianura brulla a Sud-Ovest dell’isola, attraverso distese di olio nero e ribollente che caratterizzavano la regione. Aveva chiesto di loro in vari villaggi e, alla fine, i Teschi Ridenti gli avevano indicato che erano partiti per una caccia contro un giganotosauro. Quindi, tenendo Onracoel in testa al contingente come apripista, si sforzava di raggiungerli senza che nessuna delle creature cadesse nelle pozze di bitume. Non si girava molto spesso a guardare Anitteb, ma sentiva i suoi versi infastiditi: lei era troppo mastodontica per evitare di immergere almeno le zampe nel bitume, quindi doveva fare più fatica degli altri per sfilare le zampe da quella sostanza vischiosa e fare il passo successivo.

«Abbiate pazienza, dopo ci sarà più spazio» disse Drof.

Andando avanti, aggirarono lentamente tutto il versante occidentale del monte Opmilo, fino a raggiungere la carcassa marcia di un brontosauro con cui le meganeure e altri insetti stavano banchettando. Da lì, Drof vide un’alta colonna di fumo che saliva tra gli alberi secchi e sentì delle grida, oltre a dei ruggiti. Fece fermare un attimo il contingente per osservare la voluta.

«Devono essere loro. Secondo te che si sono inventati stavolta?» chiese a Onracoel.

Il carnotauro sbuffò e si rigirò il morso della sella in bocca.

«Non ci resta che scoprirlo» disse Drof.

Fece ripartire il contingente e attraversò quell’ultima macchia alberata. Quando furono dall’altra parte, giunsero sul bordo di una conca circolare, piena di pozze di bitume, e il padre di Acceber rimase a bocca aperta: laggiù si stava scatenando l’Inferno. Sull’altro lato, tutte le piante stavano andando a fuoco. In fondo alla conca, c’era un contingente di creature domate che correvano in tutte le direzioni in preda al panico o provavano a tenere testa… ad un giganotosauro che bruciava vivo. Rimase congelato sul posto per alcuni istanti e anche le sue bestie sobbalzarono impaurite, alla vista di quella gigantesca torcia vivente. Il teropode, completamente preso dalla collera, emetteva ruggiti assordanti per il dolore delle fiamme e decimava le creature avversarie ad ogni suo movimento: morsi, colpi di coda, testate… ogni volta, ne schiacciava almeno una o la faceva volare nel bitume, dove le vittime rimanevano tutte intrappolate. Nemmeno due tirannosauri insieme riuscivano a sfiancarlo. Guardando bene tutto quel finimondo, Drof li vide: sei Arkiani che, con le unghie e con i denti, cercavano di fare la loro parte per aiutare i loro animali. A quel punto, si riscosse e decise di intervenire. C’era solo un modo in cui avrebbe potuto sopraffare quella macchina di morte in fiamme ed era molto rischioso, quindi doveva stare certo di farlo in fretta. Scese da Onracoel e si avvicinò ad Anitteb, innervosita alla vista di un suo simile infuriato.

«Qui mi servi tu – le disse Drof – Spero che Odranreb ti abbia insegnato bene a stare calma…»

Con fare indeciso, Anitteb abbassò la testa per permettergli di montare in sella e lui prese posizione sul suo dorso. Per fortuna, sembrò diventare più sicura quando si ritrovò con qualcuno a guidarla. Drof aveva un’idea, però sapeva di dover attendere una buona occasione per attaccare, altrimenti il giganotosauro in fiamme avrebbe reagito, il combattimento si sarebbe prolungato troppo e anche Anitteb sarebbe impazzita. Osservò bene il combattimento, ma il giganotosauro aveva sempre la guardia alzata… finché, ad un certo punto, uno dei cacciatori gli tirò una freccia dritto in un occhio, con precisione millimetrica. Il teropode urlò e incespicò per alcuni momenti, poi si fermò a cercare il colpevole con lo sguardo. Era la sua occasione. Spronò Anitteb e lei partì alla carica a mandibola spalancata. Il giganotosauro, posto di traverso rispetto a lei, se ne accorse solo all’ultimo; Anitteb lo azzannò al collo e cominciò a spingerlo in avanti, verso una delle pozze più grandi. Alla fine, quando fu sul bordo, lo lasciò andare e, prima che avesse modo di respingerla, gli tirò una spallata che lo fece cadere nel bitume.

«Ma cosa…» sobbalzò uno dei suoi amici, che non l’aveva ancora riconosciuto.

Il bitume spense le fiamme, ma il giganotosauro si infuriò ancora di più. Ma, quando cercò di alzarsi, non ci riuscì: ormai era intrappolato in quella pozza appiccicosa, che lo teneva fermo come se fosse velcro. Per quanto scalciasse e spingesse con le zampe, ricadeva sempre sul fianco. Alla fine, easurì le forze. Anitteb, allora, gli si avvicinò ancora, afferrò la sua testa e, con un colpo secco, glielo torse fino a spezzargli il collo. Drof tirò un sospiro di sollievo e scese a terra, quindi salutò i suoi amici con un sorriso quando iniziarono a radunarsi di fronte a lui.

«Ciao, sono tornato! Scusate se non vi ho avvertiti, ma sapete…»

Loro lo fissarono increduli per qualche secondo, poi cominciarono ad esultare con gioia:

«Drof! Per gli spiriti, bello vederti!»

Uno ad uno, batté la mano e abbracciò rapidamente tutti loro: il muto Elehcim, ancora più imponente e muscoloso di Sotark, che aveva perso la lingua e la parola a causa di un velociraptor, poi l’allegro ed espansivo Odraccir, l’esile e timido cecchino Odraode, lo stratega pignolo Oilnats, lo scultore in sovrappeso Ynneb e, infine, l’agile e formosa domatrice Aisapsa, una delle donne più belle dell’isola, con cui tutti loro avevano dormito almeno una volta. Rivederli tutti insieme, per Drof, era sempre come tornare a casa dopo un viaggio durato anni.

«Ehi, sbaglio o sei più magro dell’anno scorso? Allora è vero: la vita da genitore è peggio che avere cinquanta ementerie sulla schiena!» scherzò Odraccir, battendogli un pugno sulla spalla.

«Non è divertente» replicò Drof, fingendosi offeso.

«Tsk tsk tsk… disorganizzato e buttato lì come al solito, vero? Ci sono molti modi più decenti per buttare a terra un giganotosauro!» polemizzò Oilnats.

Quella volta aveva un velo di ironia, ma in qualsiasi altra occasione quel puntiglioso l’avrebbe detto sul serio. Drof levò gli occhi al cielo e guardò Elehcim:

«Ti trovo bene! Ti sei fatto nuove cicatrici, a combattere sempre le bestie senza cavalcature?» gli chiese.

Il muto sorrise con fierezza e scosse la testa, rispondendo coi gesti che gli sfregi che gli solcavano la fronte e la bocca bastavano. Poi gli si avvicinò Aisapsa; vederla da vicino gli fece venire tanti ricordi: aveva perso il conto di quante volte gli erano venute le farfalle nella pancia per lei, da giovane. Poi, però, aveva incontrato Yram e si era lasciato qualsiasi attrazione per lei alle spalle. Aisapsa aveva sempre avuto un debole per lui, ma riconoscendo di non essere adatta alle relazioni serie aveva lasciato correre.

«Che sorpresa, Drof! Se solo avessi saputo che stavi venendo a trovarci, mi sarei fatta bella per l’occasione…» ammiccò.

«Tranquilla, non ti serve» le rispose lui, mentre si scambiavano un rapido abbraccio.

Odraode e Ynneb erano più lontani e arrivarono solo in quel momento, sudati e trafelati.

«Ehi, Drof! Non me l’aspettavo!» esclamò il cecchino.

«Neanch’io pensavo che sarei passato a trovarvi. Va tutto bene?»

Si strinsero la mano, ma non troppo forte, perché lui era molto gracile.

«Eh, non mi lamento» rispose Odraode.

«Ci lamentiamo noi! Drof, hai idea di quanto sia peggiorata questa mezza cartuccia? Stare con un vegetariano è una rottura tremenda!» si intromise Odraccir.

«Non è colpa mia se sono allergico alla carne…» mugugnò l’altro.

Drof si fece dare una pacca sulla spalla a Ynneb che, visto che era grasso e goffo e combatteva male, era sempre relegato a costruttore di trappole, data la sua passione per le costruzioni e l’arte scultorea.

«Meno male che l’hai fatta pagare a quel grosso bastardo, Drof! È camminato nella mia trappola incendiaria all’olio bollente, ma poi ha pensato bene di puntare proprio me… ho corso così tanto che ho perso qualche chilo!» sbuffò, asciugandosi il sudore sulla fronte.

«Sempre meglio che una dieta, per te» ridacchiò Drof.

«Eh…»

«Allora, qual buon vento ti riporta da noi, amico? Ti conosciamo: non vieni mai solo per cortesia. A proposito, come sta Acceber? Ha superato la Prova? Come passa, il tempo…» disse Aisapsa.

Drof tornò serio e, sentendo di nuovo il peso della situazione sulle spalle, sospirò:

«Sono qui proprio per lei. Sì, Acceber ora ha un tilacoleo, è una ragazza stupenda e non potrei essere più fiero di lei. Ma è in pericolo, così come può esserlo chiunque tra noi»

«Oh…» tutti rimasero di sasso.

Drof, allora, appoggiò la schiena ad una zampa di Anitteb e spiegò tutto, mentre i suoi amici ascoltavano assorti e increduli.

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«Allora quella notizia non era falsa: Gnul-Iat è davvero sopravvissuto al fiume! Che roba…» esclamò Ynneb, alla fine della storia.

Loro sei, quando avevano sentito la voce per la prima volta, non ci avevano creduto: erano sempre in giro per svolgere vari lavori e l’avevano scoperta al di fuori dei villaggi, dove le notizie erano spesso esagerate oppure distorte per sembrare più sconvolgenti, quindi non avevano dato tanto peso alla questione. Ma ora che avevano scoperto che era stato proprio Drof a rivelare l’identità del Ladro di Impianti a tutta ARK, non avevano più da ridire.

«Non riesco a credere che sia diventato così pazzo… ed è già stato un colpo quando abbiamo visto cos’ha fatto ad Acceber!» disse Aisapsa.

«Il mio vecchio aveva proprio ragione: lascia indisturbato un pazzo, e la pazzia gli fermenterà come l’uva!» ridacchiò Odraccir.

Elehcim gli tirò una manata in testa.

«Ah! Che vuoi, bestione?»

«È per la battuta di merda» spiegò Oilnats.

«Colpa mia, scusate»

«Ho provato a fermarlo quattro volte, ormai. Ho sempre fallito. Solo il pensiero che ogni volta che mi scappa, morirà altra gente, come negli ultimi otto anni…» mormorò Drof, umiliato.

«Non ti devi sentire in colpa, Drof! Almeno ci provi più che puoi! Io sarei morto al primo incontro…» provò a confortarlo Odraode.

Odraccir gli tirò una pacca che gli fece scricchiolare le spalle:

«Sei uno scheletro con la pelle, sapresti farti ammazzare da una titanomirma! Pensi davvero di fare testo?»

«Ma dai, poverino! E se fosse proprio lui a piantargli una freccia in testa?» sorrise Aisapsa.

Drof attirò di nuovo la loro attenzione e andò al punto:

«Dunque, penso che abbiate capito tutti perché sono venuto a cercarvi. Ho chiesto aiuto a mio cugino e questo gli è costato la vita. Non vorrei che la costi anche a voi, ma… mi aiuterete a fermare Gnul-Iat?» domandò.

I suoi amici si guardarono, poi gli sorrisero:

«Non devi nemmeno chiedercelo! Noi ci siamo sempre aiutati a vicenda, non ti lasceremo ad affrontarlo da solo» gli rispose Aisapsa, a nome di tutti.

«Questa volta farò tutto il possibile per tornare utile! Potrei fare anche qualcosa in più che fare il cecchino…» disse Odraode.

«Frena, frena! Dipende da che piano organizzeremo… be’, che organizzerò» lo interruppe Oilnats.

Tuttavia, Odraccir alzò la mano:

«Ehm… a costo di passare per bastardo, devo metterci un “ma”»

«Cioè? Tu non te la senti? Non vi giudico, se avete paura» disse Drof.

«No! Io ci sto! Ma vedi, dopo il giganotosauro, che era la taglia di quello sfigato di Odraode, avevamo la mia…»

Elehcim alzò gli occhi al cielo e si sbatté il palmo in faccia. Aisapsa sbuffò e si pasò davanti a Odraccir:

«Ti pare il caso? Drof ha appena detto di avere il groppo alla gola perché suo figlio è in giro ad ammazzare e tu metti la tua taglia del giorno davanti a questo?»

«Sapete come sono: se vi aiuto col pensiero di una taglia in sospeso, non potrò dare il massimo!» si giustificò Odraccir.

«Ah, e va bene… ma la prossima nottata me la spasserò con Elehcim!» ammiccò lei.

«Ehi! Toccava a me, non è giusto!»

«Già: ti toccava»

Drof scosse la testa e sospirò:

«Me ne farò una ragione. Vengo anch’io, di che si tratta?»

«Oh, grazie, Drof! Non ti preoccupare, è una cosa veloce, possiamo andare anche subito…»

«Oh, meno male! Sono stanco di questo posto lurido…» disse Oilnats, che aveva una fobia maniacale dello sporco.

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UN PAIO D’ORE DOPO…

«Ecco, siamo arrivati» annunciò Odraccir.

Dopo aver lasciato tutti i contingenti nella base di caccia costruita da loro diversi anni prima, avevano preso un volatile ciascuno che ed erano andati alla giungla delle Rocce Nere, vicino all’altopiano dell’isola volante. Atterrarono dove indicato da Odraccir, cioè in una piccola radura in mezzo alla foresta tropicale in cui si trovava quel poco che restava del carretto di un mercante di carne essiccata: era rovesciato su un fianco e il carico era tutto sparpagliato per terra. Ma, soprattutto, era mangiucchiato.

«Potete già capire da quello cosa dobbiamo fare, ma comunque ecco la taglia» disse Odraccir.

Prese un foglio piegato dalla sua sacca e lo fece vedere agli altri, radunati in cerchio attorno a lui per leggere:

Stavo trasportando dei pezzi di carne nella giungla, poi all’improvviso qualcosa mi ha attaccato di notte. Non ho visto bene cosa fosse, la torcia è caduta dal carretto e si è spenta. Sono saltato subito sul mio parasauro e sono fuggito. Non ho intenzione di tornare a recuperare il carro finché qualcuno non ucciderà la bestia che vive da quelle parti!
Onafets Idlab delle Rocce Nere

(300 ciottoli)

«Uhm…Magari dei velociraptor?» ipotizzò Odraode.

«Sicuramente ha lasciato delle tracce. Diamo un’occhiata…» suggerì Drof.

Dunque, i sette cacciatori cominciarono ad ispezionare la radura. All’inizio, guardarono i resti del carretto per vedere se c’erano segni di zanne o artigli, ma non trovarono niente di particolare. Poi, poco lontano dai pochi pezzi di carne che non erano stati mangiati, Drof trovò le impronte di un teropode e chiamò gli altri:

«Riconoscete la forma?» chiese.

«Sì: un megalosauro» rimuginò Oilnats.

«Oh, bene!» esultò Aisapsa.

«Eh?»

«Era da un po’ che avevo in mente di domarne uno nuovo, da quando ho perso Tòdev. Se ti va, posso pensarci io, Odraccir» spiegò.

«Lo sai, a me va bene qualuque cosa tu voglia, bella!» ammiccò lui.

«Bene, allora andiamo alla sua tana» affermò Drof.

Ognuno prese una boccetta di olezzo del cacciatore e se lo versarono addosso per nascondere l’odore. Le tracce risalivano sicuramente alla notte prima, quindi non erano complicate da seguire: nella giungla, il fogliame schiacciato e i legni calpestati, ad occhi esperti come i loro, apparivano più evidenti di una macchia di inchiostro su un foglio. Tenevano le armi sfoderate perché non si sapeva mai, ma non erano preoccupati per il megalosauro: era giorno, quindi stava sicuramente dormendo nella tana. Da quel che risultava ad Odraccir, non c’erano caverne in quella zona, per cui doveva essersi stabilito in qualche posto riparato nel sottobosco. Alla fine, dopo circa un’ora di ricerca, videro in lontananza quello che stavano cercando: giunsero ai margini di un fiume; lungo la riva, scavata in una collinetta d’argilla, c’era l’ingresso di una galleria e le impronte entravano lì dentro. Ce n’erano anche di più vecchie che ne uscivano in svariate direzioni.

«Eccoci» sussurrò Oilnats.

Non poteva essere stato il megalosauro a scavare la galleria: sicuramente era un deposito privato di una Roccia Nera rimasto inutilizzato da tempo, di cui il dinosauro si era approfittato.

«Allora ci nascondiamo, aspettiamo la notte e aiutiamo Aisapsa con le esche, giusto?» chiese Odraode.

Elehcim annuì.

«Grazie, maestro dell’ovvietà» disse Odraccir, imbarazzandolo.

«Be’, ci servirà la carne per fare le esche. Chi di voi vuole andare a caccia con me?» chiese Aisapsa.

«Io» risposero Drof, Odraccir e Elehcim, che alzò la mano per offrirsi.

«Va bene, noialtri restiamo qui a tenere d’occhio la tana» disse Oilnats.

Quindi, i due gruppi si separarono.

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Qualche ora dopo, quando mancava poco al tramonto, tornarono con dei compsognati morti. Drof chiese ad Aisapsa se voleva che la aiutassero, ma lei disse che potevano pure andare e iniziare a decidere cosa fare contro Gnul-Iat, lei li avrebbe raggiunti più tardi.

«Bene, e la mia taglia è a posto. Siamo tutti tuoi, Drof!» disse Odraccir, mentre tornavano dai volatili.

«Io potrei già suggerirti uno o due piani che di solito uso per le cacce grosse, ma mi servono i dettagli» aggiunse Oilnats.

«D’accordo, ne discuteremo bene alla vostra base. Intanto, vi spiego meglio che tipo di contingente e modo di combattere ha il nostro nemico…» rispose Drof.

Il nuovo contrattacco all’incubo di Acceber stava cominciando a prendere forma.

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Ogni volta che mi convinco che quest’isola abbia terminato di meravigliarmi, essa mi dimostra che ho enormemente torto. E così, stando alla nuova scoperta di Helena, esistono altri piani di realtà paralleli al nostro, in cui ci sono meraviglie dall’infinita varietà, e ARK è stata collegata ad alcuni di tali mondi con la misteriosa conoscenza dei primi abitanti di questo paradiso sperduto… in parte, mi dispiace averlo imparato per bocca di Helena, invece di scoprirlo di persona. Ad ogni modo, ho il forte sospetto che i Pre-Arkiani non sarebbero mai arrivati ad un tale livello, senza il Tesoro di ARK. A questo punto, ho delle aspettative a dir poco altissime sul più grande segreto custodito da quest’isola straordinaria.

Ma, per il momento, devo concentrarmi sull’eliminazione della coccatrice: devo assolutamente rimediare al torto coi soldati dal 2150. Inizierò ad elaborare una possibile strategia di abbattimento col ragazzo. A proposito di lui, da quando siamo stati da quel panettiere mi sembra alquanto agitato… sono pressoché sicuro che mi stia nascondendo qualcosa e intendo scoprirlo. L’ultima cosa di cui entrambi necessitiamo sono i segreti. E, a giudicare dalla sua ansia celata grossolanamente, deduco che non si tratta di qualcosa di superfluo.


Quella notte, Rockwell scrisse questo appunto davanti al fuoco da campo, seduto su un ceppo. Sulle tracce della coccatrice, si erano diretti alle pozze di zolfo che si frapponevano tra loro e le Sorgenti di Artsa. Sulla strada, lui e Jack avevano cominciato a pensare ad un piano per abbattere la coccatrice uscendone illesi. Jack, dopo qualche riserva, fu d’accordo con l’idea di tendere una trappola. L’alternativa migliore era chiedere aiuto a dei cacciatori arkiani, ma c’erano dei problemi: anzitutto, erano distanti da qualsiasi villaggio e non avevano tempo da perdere, prima che la coccatrice facesse troppi danni, e poi c’era il rischio che non li prendessero sul serio o che non credessero alla loro storia: la notizia della coccatrice era ancora sulla bocca di troppe poche persone per destare l’attenzione dei capivillaggio e, quindi, di tutta l’isola. Dunque, adesso il medico stava abbozzando varie idee sui tipi di trappole da costruire, sul tempo a disposizione, il possibile grado di intelligenza della creatura… ma Jack ascoltava poco o niente delle sue parole: si stava ancora tormentando per aver accettato di collaborare con Ottosir e per la sua omertà con Rockwell. Da una parte, si difendeva col fatto che non aveva avuto scelta, a causa delle minacce; dall’altra, si sentiva in colpa perché stava partecipando ad una cospirazione. Rockwell meritava qualunque cosa avesse in mente Ottosir? Fino a qualche tempo prima, non avrebbe avuto dubbi, arrabbiato com’era. Ma poi Edmund si era scusato e aveva promesso che avrebbe fatto il possibile per farli uscire vivi dalla faccenda, quindi…

«C’è qualcosa che ti turba, giovanotto?»

I suoi pensieri furono interrotti da Rockwell, che aveva deciso di indagare sulla sua ansia. Jack si maledisse: era sempre stato pessimo a nascondere quello che provava… ora cosa poteva dirgli? La verità, si disse. Sì, era giusto così: doveva dirgli di Ottosir. Così, fece un profondo sospiro e si preparò a parlare… ma, prima che rivelasse tutto, notò un dettaglio che lo fece impietrire: sugli alberi al margine del bosco a cui Rockwell stava dando le spalle, c’erano decine di mesopitechi che lo fissavano a denti scoperti. Capì subito che non erano selvatici: erano quelli di Ottosir. L’inquietante addetto alle consegne del panettiere lo stava tenendo d’occhio e, di certo, non sarebbe stato contento di scoprire che il suo complice aveva cambiato fazione. La paura lo fece rimanere bloccato per vari secondi e Rockwell, perplesso, si girò per vedere cosa stava guardando. Però, all’ultimo, i mesopitechi si tuffarono nel fitto della foresta e svanirono: il farmacista non li notò.

«Ragazzo, che ti succede? Ultimamente sei strano, è chiaro che qualcosa ti tormenta! Sarei troppo indiscreto se ti chiedessi di condividere le tue preoccupazioni con me?» insisté allora.

Jack guardò per terra e cominciò a sudare freddo, in cerca di una buona scusa con cui sostituire la confessione. Alla fine gli tornò in mente una cosa che lo fece arrossire, ma deglutì e decise di buttarsi:

«Ecco, io… non riesco a togliermi dalla testa quello che ho scoperto dopo il viaggio mentale! Sa… Laura…»

Rockwell fece l’espressione di uno che capisce tutto dopo aver unito i puntini e sorrise, divertito. Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli con uno straccio. Si schiarì la voce e rispose:

«I meccanismi della passione non sono per nulla la mia specialità, ma quando avevo ancora la barba scura e le articolazioni in forma ho avuto le mie esperienze…»

«E?»

«Non è insolito credere di aver scoperto all’improvviso di provare sentimenti forti per una ragazza, quando in realtà è iniziato tutto molto prima: eri solo troppo introverso per ammetterlo anche a te stesso. Vediamo se ci ho visto giusto… voi quattro vivete insieme, da quello che ho capito, vero?»

«Sì, da quando ci siamo laureati»

«Come ti comporti in sua presenza, di solito?»

«Be’… normalmente»

«Ti capita spesso di discutere dei tuoi impegni, delle tue occupazioni, con lei?»

«A pensarci bene… tutte le volte. Ma non solo con lei, anche con gli altri e con chiunque conosca. Mi viene naturale»

Rockwell si rimise gli occhiali e annuì, compiaciuto:

«Allora è proprio così: il tuo istinto sa da tanto tempo che lei ti piace, ma è sempre stato soffocato dalla tua ragione, che ti ha fatto pensare continuamente ai tuoi doveri per non fartelo notare. Ed è stato così finché lo stupefacente del 2150 non ha spalancato le porte ai segreti più intimi della tua mente, quindi ora ne sei del tutto consapevole!»

«Grazie per la diagnosi, ma io vorrei sapere… lei ha qualche idea di cosa dovrei fare con Laura? Devo dirglielo o è meglio se non…»

«Chi sono io, per dirti come relazionarti con la tua amica? Tutto quello che posso dirti è che devi sempre ricordare che, quando esprimi le tue emozioni con le donne, devi sempre essere garbato, onesto, aperto a risposte negative, reciproco… insomma, è come quando io e ogni altro gentiluomo che conoscevo avevamo incontri formali con nobildonne rispettabili»

Jack ridacchiò, aspettandosi un consiglio simile da uno come Sir Edmund Rockwell. Questo non gli aveva dato più sicurezza, anzi… aveva le idee ancora più confuse. Poi, però, una cosa detta da Edmund lo fece riflettere: doveva essere onesto con Laura. E doveva diventare più coraggioso, come si era promesso dopo l’incidente al fiume. Quindi decise che la prima cosa che avrebbe fatto al ricongiungimento sarebbe stato svelare tutto con lei, almeno in privato… se fosse sopravvissuto alla coccatrice e ad Ottosir. Ricordandosi di quell’omone inquietante, il terrore gelido ricominciò a perseguitarlo, sbriciolando l’ispirazione che gli stava venendo. Quella notte, Jack non chiuse occhio, mentre Rockwell sorvegliava il fuoco e continuava a pianificare per conto suo.

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Il terrore di Jack era alle stelle, ormai si sentiva come se nelle sue vene scorresse più adrenalina che sangue: dopo l’alba, giunsero alle pozze di zolfo. Non c’era nessun dubbio che sarebbe successo qualcosa di terribile a Rockwell, prima che passassero oltre quel maleodorante luogo da brividi. Le sorgenti termali si trovavano in un prato circondato da una fitta foresta di platani. Erano conche di calcare larghe e poco profonde in cui ribolliva dell’acqua blu zaffiro. I fumi che ne scaturivano avevano un disgustoso puzzo di uovo marcio che pizzicava le narici e faceva girare la testa. Rockwell stava a due passi di fronte a Jack e procedeva spedito e sicuro di sé, usando la lancia come bastone. Jack, invece, la teneva sollevata e la stringeva così forte da farsi sbiancare le nocche. Si guardava continuamente in giro, per vedere se all’improvviso apparivano dei mesopitechi dallo sguardo torvo o se saltava fuori la sagoma senza un braccio di Ottosir. Ad un certo punto, accanto ad una delle pozze le vide: impronte di scimmiette. Non era di certo una coincidenza. Alla fine, cedé: il senso di colpa prevalse sulla paura di Ottosir e Jack, di colpo, si parò davanti a Rockwell:

«Cambio di programma! Perché non usiamo quell’altra strada di cui aveva parlato lei?» suggerì, nel panico.

Edmund era molto perplesso:

«Che stai dicendo? Ormai abbiamo preso questa strada, allungheremmo solo i tempi. E perché sei così pallido? Sei allergico allo zolfo?» chiese, preoccupato.

Jack si sforzò di fingere una risata, ma l’effetto che fece lasciò Rockwell ancora più interdetto:

«Questa è buona! Allergia allo zolfo? Certo che no! È solo che ho fatto due più due e… se è vero non abbiamo tempo da perdere, perché continuare con la strada lunga? Prendiamo l’altra e ammazziamo l’uccellaccio?»

Rockwell inarcò un sopracciglio e si lisciò la barba, molto sospettoso. Jack continuò la sceneggiata patetica:

«Su, che aspettiamo? Corriamo!»

Fece per incamminarsi veloce come il vento, ma si accorse che Rockwell non si era mosso e lo stava fissando con sguardo diffidente:

«Tu mi nascondi qualcosa, ragazzo, non negarlo. Cosa c’è che non va? Hai detto che tale Ottosir ha spiegato che quel percorso è pieno di predatori…»

«Oh, sì, Ottosir! Lui stesso, però, ha detto che non è niente di impossibile, quindi ho pensato che con la sua esperienza potremmo…»

Rockwell si impuntò e, con grande sgomento del giovane, lo chiamò per nome per la prima volta:

«Jack, non sono stupido. Dimmi subito cosa sta succedendo, esigo spiegazioni concrete e sensate!»

Jack si sentì esplodere e non si trattenne più:

«Oh, e va bene! Lei è in pericolo, Ottosir è…»

TOC!!!

Una pietra scagliata con una fionda colpì la tempia di Rockwell e il farmacista inglese collassò al suolo, privo di sensi. Jack ammutolì e rimase a fissarlo come uno stocafisso, incredulo. A quel punto, come dei ninja, il manipolo di mesopitechi di Ottosir apparve come dal nulla, rivelando di essere tutti nascosti nei radi cespugli del luogo o dietro le conche calcaree. Urlando e danzando come delle forsennate, le scimmiette si radunarono attorno a Rockwell, ignorando Jack. Poi, all’improvviso, dal cielo atterrò proprio lui: Ottosir, a cavallo di un pelagornite. Quando il suo sguardo incontrò quello di Jack, il ragazzo ebbe la netta impressione di essere sul punto di farsela addosso… l’omone sfregiato gli si avvicinò, mentre i mesopitechi iniziavano a danzare sul povero Rockwell, a tirargli sassi e rametti e prenderlo a calci mentre era svenuto.

«Gli stavi rivelando tutto, vero?» chiese Ottosir.

«Ehm… uh… ecco…» farfugliò Jack, in preda al panico.

Ottosir scosse la testa:

«Patetico… scommetto che se morissi, nessuno piangerebbe per te. Anzi, forse riderebbero»

A quel punto, alla paura di Jack si unì una cocente indignazione che lo fece riscuotere:

«Ehi! Ritira subito…»

Prima che finisse, Ottosir gli tirò un pugno sul naso così forte da fargli vedere le stelle. Il ragazzo cadde seduto e sentì il sangue che gli scendeva sulla bocca praticamente subito. L’indignazione sparì e tornò la paura, ora accompagnata dall’imbarazzo per essere così impotente.

«Sai, se questo fosse successo un paio di anni fa, ti avrei appeso ad uno scoglio e ti avrei lasciato lì a marcire, e gli ittiorniti avrebbero becchettato i tuoi resti. Ma ora mi rendo conto che se lo facessi, non sarei migliore di questo lurido essere – indicò Rockwell – Quindi, lascerò stare. Che sia la natura a fare il suo corso»

«Che vuol dire?»

«Che non durerai nemmeno un giorno qui, prima di raggiungere un villaggio: fai troppa pena per sopravvivere»

«Non mi accompagni tu?»

«Perché dovrei? Non mi servi più a niente»

Detto questo, Ottosir prese una lancia dalla sella del pelagornite e si avvicinò a Rockwell, ordinando ai suoi mesopitechi di farsi da parte. Rivolse la punta dell’arma verso il basso, la afferrò al centro e la sollevò, pronto a trafiggere i polmoni del medico. Jack non poteva lasciare che succedesse, non se lo sarebbe mai perdonato. Neanche gli altri gliel’avrebbero perdonato. Ebbe uno straordinario guizzo di coraggio e si alzò in piedi. Prima che la lancia infilzasse la schiena di Edmund, prese la rincorsa e si avvinghiò al collo di Ottosir con un salto.

«Oh? Ma che… e lasciami!»

Senza il minimo sforzo, Ottosir si scrollò Jack di dosso semplicemente sollevando il braccio di scatto. Tutti i mesopitechi lo fissarono, scoprendo i denti e scimmiottando.

«Sul serio? Ti sei coperto di ridicolo per salvare questo maledetto? – ringhiò Ottosir – Tu non fai pietà come penso, di più!»

«Smetti di dire che faccio pena!» gridò Jack, esasperato.

Ottosir stava per dire qualcosa, ma accadde una cosa inaspettata che paralizzò tutti i presenti dallo stupore: quasi in risposta all’urlo del ragazzo, dalla foresta di platani echeggiò un verso agghiacciante. L’orribile unione tra un canto di gallo e uno strillo d’aquila. Sia Jack che Ottosir la riconobbero.

“È lei… siamo finiti!” pensò il giovane.

Il pelagornite, terrorizzato, starnazzò e volò via.

«No!» esclamò Ottosir, vedendolo sparire all’orizzonte.

I mesopitechi si alzarono in piedi e iniziarono a fissare il fronte boscoso immobili e ad occhi sbarrati, come dei suricati. Sentirono dei passi, rumori di rametti spezzati… e la coccatrice apparve, più orrenda che mai. Facendo vibrare il suo collare di pelle come un dilofosauro, squadrò i presenti uno ad uno con aria minacciosa. E, alla fine, il suo sguardo si fermò su Ottosir, la preda più grossa. Fece schioccare il becco, i due canini a sciabola grondarono saliva e gli artigli delle zampe raschiarono la terra. Il dodo mutato partì all’attacco; raggiunse lo sfregiato in un lampo e lo atterrò con un calcio che lasciò dei solchi sulla sua pancia flaccida. Ottosir riuscì a mettere la lancia di traverso davanti a sé per fermare il becco della coccatrice prima che lo mordesse, mentre l’uccellaccio usava le sue robuste zampe per tenerlo a terra.

«Tjpip! Tjpip, veb vjzaz!» esclamò l’Arkiano.

I mesopitechi, sentendo l’ordine, urlarono come forsennati e si gettarono sulla coccatrice come uno sciame d’api. Ammassandosi su di lei, la costrinsero a lasciar andare Ottosir. Mentre lei era occupata a scrollarseli di dosso starnazzando e a decimarli a calci e beccate, l’omone si alzò a fatica, premendosi la ferita sulla pancia con l’unica mano, e sbarrò gli occhi: sia Jack che Rockwell erano spariti. Guardandosi in giro, vide il giovane biondo sparire nella foresta ai lati delle pozze di zolfo, trascinando Rockwell per le braccia.

«No! Non mi sfuggirai, Edmund Rockwell! Ti troverò!» gridò, furioso.

La coccatrice, però, si liberò per un attimo e lo scaraventò a terra con una codata ai fianchi, facendolo rotolare per terra. Per poco, non cadde in una delle sorgenti sulfuree. Prima che lo uccidesse, però, le scimmiette si ripresero e tornarono a saltarle addosso, mordicchiarla e lanciarle pietre; il massacro ricominciò. Jack, ignorando il terrificante trambusto che proveniva dalla radura delle pozze fetide, si sforzava di trascinare Rockwell in salvo, addentrandosi nella foresta più che poteva. Teneva un braccio del medico avvolto attorno alle sue spalle e gli reggeva l’altro con la mano libera. Purtroppo, così era molto goffo e la fatica gli faceva bruciare le gambe e i polmoni, la sua faccia era pregna di sudore e scottava come se avesse la febbre; si sentiva gli abiti appiccicati sulla schiena umida. Ma la paura e l’adrenalina erano dei carburanti potenti e gli bastavano per andare sempre avanti, senza mai rallentare né voltarsi indietro… ma avrebbe dovuto anche guardare in basso. Dopo svariati minuti che gli parvero un’eternità, la vegetazione davanti a lui si aprì e… sentì il vuoto sotto i suoi piedi. Non si era accorto di essersi trovato di fronte ad un pendio roccioso, in fondo al quale la foresta continuava.

«Dannazione!» fece in tempo ad esclamare.

I due cominciarono a rotolare a peso morto lungo la discesa pietrosa, graffiandosi dovunque e sbattendo le ossa contro le rocce. Per ripararsi la faccia, Jack fu costretto a coprirsela con le mani, mollando la presa su Rockwell. Alla fine, con un’ultima caduta, il ragazzo sbatté un fianco su una superficie piana. Con le orecchie che fischiavano, la vista annebbiata e le ossa doloranti, Jack si girò sul ventre e si guardò intorno: erano giunti sul fondo ed erano circondati da cespugli. Rockwell giaceva davanti a lui, immobile… Jack si sentì mancare per un attimo, ma tirò un sospiro di sollievo quando gli poggiò le dita sul collo: il cuore del farmacista batteva. Per fortuna, non ci avevano lasciato le penne, anche se non poteva capire se lui o Edmund avessero qualcosa di rotto… prima che verificasse anche quello, però, il giovane sentì qualcosa rotolare giù dal pendio. Si girò e… un sasso gli precipitò sulla tempia. Sentì una fitta tremenda alla testa e tutto, all’improvviso, diventò buio. Cadde un silenzio di tomba. Erano svenuti entrambi, soli nella foresta arkiana, abbandonati alla natura selvaggia.

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Capitolo 32
*** L'isola del fuoco (storia vecchia) ***


Jack si svegliò con la mente annebbiata. Gli ci volle parecchio per ricordare cos’era successo prima che tutto diventasse buio e perché la tempia gli faceva così male. Gli parve di vedere la sagoma di Rockwell davanti a sé e, una volta che si concentrò, vide che era effettivamente così. Il medico inglese lo stava fissando, ma la sua espressione era molto arrabbiata e lo stava fissando con uno sguardo deluso. Scuotendo la testa, Jack fece per alzarsi, ma ricadde flaccidamente subito dopo. Provò a muoversi, ma non ci riuscì: con stupore, si accorse che il farmacista gli aveva legato i polsi e le caviglie con delle robustissime fibre vegetali che aveva ricavato dai cespugli. Rockwell lo stava fissando con le mani congiunte, seduto su una roccia.

«Dottor Rockwell…» mormorò il giovane.

«Tu mi devi delle spiegazioni, Jack. Parecchie spiegazioni» disse Edmund.

Jack capì quindi che Rockwell, dal confuso scambio di parole che avevano avuto prima dell’imboscata, aveva intuito che il ragazzo aveva tramato qualcosa con Ottosir ai suoi danni. Tutto era venuto a galla, alla fine. Andò nel panico:

«Mi dispiace! Davvero, io non volevo che le succedesse qualcosa di male, ma…»

«Non voglio delle scuse, voglio dei chiarimenti» lo interruppe Rockwell, serio.

Jack rimase interdetto per alcuni attimi, poi sospirò maliconicamente: era ora di dire la verità, una volta per tutte. Senza il coraggio di guardarlo, spiegò nei minimi dettagli come era rimasto coinvolto contro la sua volontà nella cospirazione di Ottosir. Gli raccontò che era stato minacciato di morte e che non aveva avuto altra scelta se non accettare, dopodiché non aveva più saputo rivelare tutto in tempo perché aveva troppa paura. Specialmente quando vedeva che i mesopitechi di Ottosir li avevano spiati per tutto il tempo. Alla fine della storia, Rockwell si poggiò una mano sul volto e scosse la testa, con un sospiro sconsolato. Si avvicinò a Jack e, con la punta della lancia, tagliò i lacci e il ragazzo fu libero. Prima di alzarsi, si strofinò i polsi e finalmente guardò Rockwell negli occhi, dispiaciuto.

«Sono deluso, giovanotto» disse il farmacista.

«Lo so»

«Non perché ti sei reso complice di una cospirazione contro di me, ma perché non mi hai detto niente»

«Ma Ottosir mi avrebbe…»

«Infatti! Tu hai dato ascolto alle tue paure! Cosa ti avevo detto quando siamo usciti da quel panificio? Che avrei fatto del mio meglio per farci uscire illesi da questa caccia alla coccatrice. Avresti potuto contare sul mio aiuto, ma non hai saputo fidarti di me!»

«E se me l’avesse fatta pagare?»

«Io l’avrei impedito! Ti avrei aiutato, Jack. Se mi avessi avvertito, avrei potuto prevenire quest’imboscata. Ma per colpa tua, ora gli eventi hanno preso questa svolta»

Jack rimase interdetto, poi si sentì in colpa come poche volte prima di allora, perché si rese conto che Rockwell aveva ragione: avrebbe dovuto avere fede nella sua promessa, quando il medico aveva preso coscienza dei suoi sbagli e del rischio a cui stava esponendo il biondino, ma lui non gli aveva dato la possibilità di dimostrare che voleva davvero mantenere quella promessa. Ora non solo aveva ferito Rockwell, ma aveva portato delle conseguenze incredibilmente svantaggiose su entrambi. Era stato un vero idiota… si sentiva un incapace.

«Ma adesso non pensiamo a questo: dobbiamo riprenderci ed elaborare un piano per occuparci sia di lui, che della coccatrice! Due problemi in una volta? Niente che sir Edmund Rockwell non sappia gestire, te lo posso garantire!» lo incoraggiò poi Edmund, tendendogli la mano.

Un po’ rincuorato da quelle parole, Jack annuì con rinnovata convinzione e si fece aiutare ad alzarsi. Era ora di passare al contrattacco, in un modo o nell’altro.

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Dopo aver osservato quello che era successo col binocolo, Diana imprecò a denti stretti: quando aveva iniziato a seguire da lontano Jack e Rockwell in attesa di eliminare di persona la coccatrice approfittando del fatto che loro due si fossero resi delle esche ambulanti, non si aspettava che sarebbe saltato fuori anche un Arkiano ostile. Era sul punto di intervenire, quando il dodo mutato era apparso di colpo e lei era rimasta impietrita. Dopo la fuga di Jack e del medico svenuto, i mesopitechi del loro assalitore avevano attaccato in massa la coccatrice e l’avevano costretta a scappare. Poco dopo, ferito e malconcio, anche l’Arkiano si era allontanato dall’area delle sorgenti sulfuree. Preoccupata, Diana volò con lo zaino a razzo sopra la zona e scandagliò la foresta con la visuale termica: per fortuna, Jack e Rockwell erano vivi e stavano più o meno bene. Per un secondo, ebbe l’impulso di scendere ad aiutarli, ma poi vide anche la sagoma della coccatrice che correva tra gli alberi. Allora, la tentazione di eliminare la contaminazione di Elemento corrotto si fece troppo forte: non potevano permettere che ARK si riducesse come la Terra. Dunque, accese la radio del casco e chiamò Santiago:

«Santiago, ho contatto visivo con il dodo contaminato, ingaggio un combattimento per eliminarlo»

«Che ne è di quei due?» chiese Santiago, all’altro capo.

«A loro penserò dopo, dobbiamo stroncare la diffusione di Elemento fluido»

«Ricevuto. Buona fortuna»

Diana ringraziò e chiuse la chiamata. Allora, con uno scatto, sfrecciò sopra le fronde degli alberi finché non superò il punto dove la coccatrice si trovava in quel momento. Allora, dopo aver calcolato la traiettoria, prese la rincorsa sollevando il pugno destro, inclinò il suo corpo verso il basso e accese la fiamma del razzo dorsale al massimo. La soldatessa dal futuro partì verso il terreno come un proiettile, spinta dalla propulsione. Appena fu vicina alla coccatrice, sferrò il pugno e la travolse con tutte le sue forze. Il dodo mutante non la vide nemmeno arrivare e fu scaraventato a svariati metri di distanza, mentre Diana si schiantò al suolo e lasciò un piccolo cratere nel sottobosco. Protetta dall’urto dall’armatura TEK, la rossa si riprese senza problemi e si sciolse i muscoli, comunque scossi dall’impatto. La coccatrice, invece, rantolò a terra.

«Presa» mormorò Diana.

Imbracciando il fucile TEK, tenne d’occhio la creatura: era conciata malissimo. Aveva un’ala slogata, tre costole che sporgevano dai fianchi feriti e il collo storto…Ma si rialzò come se stesse benissimo. Diana, spiazzata, fece un paio di passi indietro e si tenne pronta a sparare. La coccatrice la fissò, furiosa, ed emise il suo urlo a pieni polmoni. Si precipitò di corsa verso di lei ignorando le ferite e le fratture, quindi Diana diede inizio alla raffica di sfere di plasma. I globi esplosero in rapidissima successione contro l’uccello mostruoso, sfigurandolo ancora di più. Di solito, Diana cercava di restare misurata e non esagerare, perché se si sparava troppo il fucile si surriscaldava e diventava inutilizzabile per vari secondi. Questa volta, però, voleva andare sul sicuro: sparò finché l’arma non fu rovente e aprì le valvole per far uscire il fumo.

«Muori!» esclamò Diana.

La coccatrice, ridotta ad un’orrenda maschera di sangue e carne bruciata, si accasciò a terra e imbrattò il fogliame di budella. Tirando un profondo sospiro, Diana lasciò che il fucile si raffreddasse e se lo riagganciò alla schiena. Osservò la carcassa per alcuni secondi, poi fece per accendere la radio e avvisare il suo intero squadrone che l’uccisione era stata eseguita con successo… ma un movimento improvviso della coccatrice la fermò.

“Ma che cazzo…” pensò.

In pochi secondi, la coccatrice tornò in piedi e le sue ferite più gravi guarirono: le interiora cadute fuori tornarono dentro come per magia. Rimasero ancora alcuni squarci e fratture, ma quella guarigione era stata comunque stupefacente.

«Un fattore rigenerante, eh? Tu giochi sporco!» esclamò Diana, a denti stretti.

Più furiosa che mai, la coccatrice allargò il suo cappuccio e sibilò, facendo ondeggiare la lingua. Raschiò il terreno con una zampa e partì alla carica. Diana schivò prontamente accendendo il razzo e decollando in verticale prima di essere colpita, quindi la coccatrice sferrò un calcio a vuoto e inciampò. Mentre era ancora in alto, Diana prese una granata TEK dalla sua cintura, la innescò e la gettò vicino alla creatura. L’esplosione azzurra incendiò molte piante e travolse in pieno la coccatrice, devastando quasi tutto il suo fianco sinistro. Il mostro strillò, si rialzò come se niente fosse e si rifugiò nella boscaglia.

«Non puoi nasconderti!» esclamò la donna.

Attivò ancora la visione termica e vide che l’animale stava sfrecciando con l’agilità di un acrobata sulle fronde degli alberi intorno a lei, girando in cerchio per tentare di confonderla. Era talmente veloce a saltare di albero in albero, a tornare per un attimo a terra e poi tornare subito dopo tra i rami, senza mai esitare, che sembrava una scheggia. Appena si soffermò su una frasca, Diana riprese il fucile e prese la mira… ma la coccatrice le balzò addosso prima che premesse il grilletto. Il razzo non resse il peso e la soldatessa precipitò a terra. Il fucile le cadde. La coccatrice la sovrastò, bloccandola a terra con una zampa, e cominciò a beccare con furia il petto di Diana per bucare l’armatura e ferirla. La corazza in Elemento resisteva, ma la forza dell’animale riuscì a creare delle ammaccature profonde. Diana riuscì ad afferrare il collo dell’uccellaccio con una mano, quindi con l’altro sferrò un poderoso pugno che lo stordì. Quindi, con un calcio, lo spinse via e prese a correre in direzione del fucile… ma la coccatrice le saltò ancora addosso e la bloccò.

«Merda!» imprecò Diana.

Adesso era distesa sulla pancia, non poteva colpire la coccatrice per liberarsi… cominciò ad avvertire fortissimi colpi sulla schiena, dove c’era il razzo. Poi sentì uno strattone così forte che per poco non si sollevò da terra e… si sentì improvvisamente più leggera. E adesso era libera. Senza pensare a voltarsi, strisciò verso il fucile e lo riprese. Si alzò di scatto, si girò e rimase senza parole: la coccatrice era così presa dalla foga che le aveva staccato il razzo dalla schiena e ora ne stava letteralmente staccando dei pezzi di Elemento da esso, per poi ingoiarli. Era convinta che quello fosse un pezzo di lei e quindi lo mangiava, nonostante non avesse il sapore della carne.

“Oh no! No, no, no!” pensò Diana, sconvolta.

Una creatura mutata dall’Elemento stava ingerendo ulteriore Elemento. All’accademia, quando i professori di chimica avevano insegnato loro le meccaniche della Corruzione e della sua diffusione, non avevano mai menzionato uno scenario simile… forse perché era talmente estremo che non lo consideravano. Non sapeva se ciò avesse conseguenze, ma una cosa era certa: doveva uccidere la coccatrice, ora o mai più. Quindi urlò e cominciò una seconda raffica… ma questa volta la coccatrice era pronta e si mise a correre in giro, schivando tutte le palle di plasma, che invece incenerirono gli alberi lì intorno. Alla fine, le munizioni TEK finirono.

“Cazzo!” pensò Diana.

Aveva solo un’ultima risorsa: le altre granate TEK. Ne prese subito un’altra e la lanciò… ma la coccatrice, con dei riflessi che la soldatessa non si sarebbe mai aspettata da qualunque animale, eseguì una giravolta e colpì la bomba con la coda, rispedendola a pochi passi da lei. Diana fece appena in tempo a sbarrare gli occhi, prima che la granata scoppiasse. Si sentì investire da un’ondata di calore bollente, sentì la sua pelle bruciare sotto l’armatura, e fu sbalzata via come un sasso preso a calci. Atterrò malamente e pestò la testa contro un tronco. Anche se era protetta dal casco, lo schianto fu troppo violento. L’unica cosa che sentì fu l’urlo della coccatrice, poi la sua vista si annebbiò.

“L’ho sottovalutata…” si disse, stordita, prima di svenire.

La coccatrice, trionfante, afferrò i resti del razzo e li portò con sé nel fitto della foresta, in cerca di un posto dove terminare quell’insolito pasto che le aveva conferito un’immensa botta di energia e vigore.

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Jack e Rokwell, dopo che si furono chiariti, furono attratti dai lontani rombi di esplosioni che avevano sentito giungere dall’altro capo della foresta. Non avevano nessuna prova che fossero correlate alla coccatrice, ma decisero comunque di andare a controllare. Guardandosi bene dal ripassare tra le pozze sulfuree, iniziarono ad attraversare la foresta tenendo sempre gli occhi aperti. Rockwell, ovviamente, fabbricò nuove lance di legno e pietra prima che partissero. Jack seguiva il medico a ruota e metteva i piedi esattamente dove li poggiava il vecchio. Quella zona di foresta non sembrava particolarmente popolata, ma era comunque meglio essere cauti. Dopo mezz’ora di cammino silenzioso, però, il ragazzo non poté più fare a meno di porre una domanda che si faceva da quando era iniziato quel casino dentro il casino:

«Dottor Rockwell, posso farle una domanda?» chiese, a bassa voce.

«Certo»

«Ottosir ha detto che sua moglie e le sue figlie sono morte perché non le hai aiutate… cos’è questa storia? Non è riuscito a curarle da una malattia troppo grave?»

Edmund si fermò di scatto e così fece Jack, un po’ stupito. Non poteva vederlo, perché il medico gli stava dando le spalle, ma i suoi occhi erano sbarrati. Pensò e rimuginò per una manciata di secondi, poi si voltò verso Jack con uno sguardo che lasciava trasparire un certo disagio:

«Cosa? Uhm… ti ricordi il nome completo di quel farabutto incivile? O almeno il suo aspetto?»

«Come no! Una faccia come la sua si rivede negli incubi! Il cognome è Nopuorg»

Rocwell meditò grattandosi la barba:

«Nopuorg… Nopuorg… è un uomo tarchiato, in sovrappeso, mezzo cieco e con due arti amputati?»

«Esattamente»

«Ma certo… ora capisco tutto»

«Chi è Ottosir, dottore? Cosa gli ha fatto per farsi odiare così?»

«Niente, giovanotto. Non ho fatto assolutamente nulla»

Il farmacista si tolse gli occhiali con un triste sospiro e, mentre se li puliva e si asciugava del sudore dalla fronte, raccontò in breve:

«Due anni fa si presentò alla mia clinica con la moglie e le figlie e mi chiese di diagnosticare una serie di gravi malesseri che le affliggevano da mesi e che diventavano sempre peggiori. Io le esaminai e scoprii che avevano un tumore maligno ad uno stadio piuttosto avanzato, ciascuna ad un organo diverso»

«Capisco…» annuì Jack, iniziando a comprendere.

«Già c’era ben poco che un medico potesse fare nel diciottesimo secolo da cui provenivo, al di fuori di tentare di asportare i tumori con conseguenze fatali, quindi immaginati qui su ARK! Qui ho scoperto medicinali che hanno salvato gli Arkiani da temibili malattie infettive, ma come sai i tumori sono tutt’altra cosa»

«Già…»

«Quindi dissi solo che mi dispiaceva e che non potevo salvare quelle tre sfortunate. A quanto pare, siccome non è riuscito a superare il lutto e non sa su chi altri sfogarsi, Ottosir ha dato la colpa a me perché non ho agito. È una reazione molto tipica» concluse Edmund.

Adesso che conosceva tutta la storia che aveva portato a quella cospirazione, a Jack dispiaceva più di prima per essersi fatto convincere da Ottosir ad aiutarlo: si era immaginato che Rockwell, per superbia o egoismo, avesse rifiutato di aiutarlo pur potendolo fare, invece no: avea solo preso coscienza di avere di fronte un caso al di fuori della sua portata e si era tirato indietro, perché era l’unica cosa che c’era da fare. Ora Ottosir appariva ancora più bastardo e inquietante ai suoi occhi. Doveva assolutamente stare attento, la prossima volta che si sarebbe fatto vivo, specialmente perché non sarebbe stato per niente contento con loro due.

Ad un certo punto, cominciarono a sentire odore di legno bruciato e si scambiarono un’occhiata di intesa: si avvicinavano al posto da cui le esplosioni erano venute. Oltretutto, stavano andando verso una grande cortina di fumo, quindi non c’era nessun dubbio. Dopo che attraversarono un’ultima barriera di cespugli spinosi, i due rimasero a bocca aperta: sembrava che avessero bombardato a tappeto il bosco. Era tutto carbonizzato, tutto annerito. Alcune foglie, sugli alberi più grossi e alti, non avevano ancora finito di bruciare. Jack e Rocwell si coprirono la bocca coi gomiti per il fumo e cominciarono a dare un’occhiata in giro.

«Mio Dio, cos’è successo?» chiese Jack, incredulo.

«Ecco la risposta» rispose Edmund, indicando un tronco.

Il ragazzo guardò e vide una soldatessa dell’URE distesa per terra, immobile. Aveva l’armatura danneggiata e piena di fuliggine e il razzo sulla schiena mancava. A parte una sorta di granata futuristica legata alla sua cintura, era disarmata. Jack e Rockwell le si avvicinarono di corsa, accucciandosi su di lei e mettendola seduta. Jack era molto perplesso:

«Che ci faceva senza nessun compagno di squadra? Non sembra una cosa che farebbero…»

«Lo scopriremo solo chiedendoglielo, a seconda di come sta. Controllo il battito»

Per poterle appoggiare le dita sul collo, le sfilò il casco e sobbalzarono quando scoprirono chi era. A causa dell’impatto, aveva una ferita superficiale alla tempia da cui colava del sangue che si stava già seccando.

«Oddio! Che ci faceva qui? Perché non si stava occupando dei suoi soldati?» domandò Jack, sconvolto.

Rockwell si accertò che il battito di Diana fosse regolare, poi si guardò in giro e capì quando vide delle tracce familiari sul terreno:

«Era qui per lo stesso motivo per cui lo siamo noi»

Jack guardò nella direzione in cui il farmacista stava puntando gli occhi e vide delle impronte simili a quelle di un uccello. Anche lui comprese: aveva trovato la coccatrice e aveva cercato di ucciderla con le sue armi TEK, incredibilmente fallendo. Questo lo fece rabbrividire, perché se neppure una militare dal 2150 armata di tutto punto era riuscita ad avere la meglio su quella creatura, cosa potevano sperare di fare loro con le lance? La coccatrice si stava rivelando un problema gravissimo. Furono riscossi da alcuni colpi di tosse di Diana: si stava riprendedo. Si allontanarono per concederle dello spazio, mentre lei si portava con fatica una mano al viso per strofinarsi gli occhi. Era stordita, ma si riprese lentamente.

«Scappata… sfuggita di mano…» biascicò.

Alla fine si riscosse del tutto e, quando mise a fuoco le immagini dei loro volti, scosse la testa e sbuffò:

«Voi due… nessuno mi ha mai portato più guai di voi, dico sul serio!»

Rockwell strinse gli occhi e si sistemò gli occhiali, indignato:

«Ascolti, signorina Altaras, è vero che è stata la mia ostinazione a portare alla nascita della coccatrice. Ma se l’ha affrontata da sola con queste conseguenze, non è colpa nostra! Perché non si è organizzata a dovere? Devo dire che dopo tutta la professionalità che ci avete mostrato, sono colpito in negativo da questo suo errore di strategia»

A Jack dispiacque un po’ per Diana per quella critica, ma ragioandoci doveva ammettere che era vero: quello di Diana sembrava uno scivolone a tutti gli effetti. La tenente dell’URE rimase a labbra serrate per l’imbarazzo per qualche secondo, poi sospirò:

«Sì, avete ragione… sono stata ingenua all’inizio e troppo frettolosa adesso. Quando vi siete offerti per questa caccia suicida al soggetto mutato, ho deciso di seguirvi per intervenire al momento giusto perché mi dispiaceva per voi. Ho lasciato gli altri a lavorare alle catture per non rischiare di causare ritardi sulla tabella di marcia. Mi aspettavo qualcosa di rapido e facile, visto che la specie di partenza era pur sempre un dodo… ma si è evoluto in modo molto più complesso del previsto. Ed ecco perché doveva stare lontano dal TEK fluido, Rockwell!»

«Aspetti, lei ci ha osservati per tutto questo tempo?» sobbalzò Jack.

«Sì»

«Allora perché non ci ha aiutati contro quell’energumeno mutilato?!»

«Stavo arrivando, per chi mi avete presa? Poi, però, ho avvistato il bersaglio e voi siete scappati, così non ci ho visto più e sono andata alla cieca… scusatemi, davvero. La fretta è una cattiva consigliera»

Rockwell scosse la testa:

«Be’, ormai abbiamo capito che nessuno dei presenti è neanche lontamanente perfetto, quindi accettiamo le sue scuse senza rammarico»

«Grazie – sorrise lei – Ora, se non vi dispiace, rimedio alla cazzata che ho fatto e chiamo gli altri…»

Si rimise il casco, premette un tasto sulla tempia per accendere la radio e chiamò Santiago. Ma non le rispose nessuno. Terrorizzata, Diana provò ancora svariate volte, agitandosi sempre di più. Alla fine, impallidendo, si rese conto che tutte le apparecchiature del casco erano danneggiate: non poteva né chiamare gli altri, né usare le visuali speciali della visiera. Infatti, Jack notò che poteva vedere il viso della donna, che non era nascosto da uno schermo a cellette grigio come le volte precedenti. Era chiaro che fosse successo per lo schianto.

«Merda!» esclamò.

Ci sarebbero volute come minimo ore, prima che il suo squadrone si insospettisse per il suo silenzio radio più lungo del solito e venissero a prenderla. Rockwell provò a sollevare il morale generale:

«Abbiamo decisamente molti vantaggi in meno. Ma comunque più di quando non c’era lei!»

«Ah sì?» chiese Jack.

«Certo! Ora siamo in tre e lei ha a disposizione un’ottima protezione fisica, nonostante i danni che ha subìto. Abbiamo delle possibilità in più di sopraffare la coccatrice, in attesa dei suoi compagni»

«Certo, come no… pensate davvero di potercela fare? Io sono venuta qui con armi TEK e guardate cosa mi ha fatto!» esclamò lei.

«Escogiteremo un piano. Le mie spedizioni in India e a Sumatra, nella mia gioventù, mi hanno insegnato che qualunque bestia può essere abbattuta, con una strategia ben orchestrata!» rispose il medico.

Dunque, dopo un sospiro, Jack aiutò Diana ad alzarsi ed entrambi cominciarono a seguire il farmacista, che si era subito incamminato lungo la pista di impronte lasciate dalla coccatrice. La resa dei conti forse si avvicinava, ma chi ci avrebbe rimesso?

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Dopo che si furono ripresi a dovere dall’assalto di Gnul-Iat, i ragazzi e Acceber fecero scorte di cibo al mercato dei Lupi Bianchi, prima di imbarcarsi direttamente per l’isola vulcanica, sede dell’insediamento secondario dei Teschi Ridenti. Questa volta, Helena riuscì finalmente a trovare una nuova falsa identità per Nerva: dopo averlo fatto aspettare nella pineta fuori dal villaggio sul fiordo ghiacciato, comprò al mercato un mantello nero e una fascia per coprirsi il volto, così che potesse indossarli e nascondere del tutto la faccia quando entravano nei luoghi pubblici. Come pretesto, Chloe propose di raccontare a chiunque chiedesse che era terribilmente sfregiato,una scusa molto credibile visto che su ARK era facilissimo ottenere segni indelebili. Il centurione fu molto contento di poterli finalmente seguire di nuovo ovunque, senza sentirsi tagliato fuori. Acceber, invece, iniziava a sentirsi dispiaciuta per il suo continuo disagio e rimorso, anche se si sforzava di continuare ad odiarlo come un nemico della sua isola.

«Bene, si passa dal luogo più freddo dell’arcipelago a quello più scottante!» annunciò Helena, alla fila al porto.

«Evvai, sarà come la nostra escursione sul Mauna Kea, quella volta alle Hawaii! Vi ricordate?» chiese Sam.

Laura ridacchiò:

«Altroché! Ricordo che Jack era così stanco per la scalata che ci siamo fermati una decina di volte per lui, e quando abbiamo visto il cratere si è disidratato per il caldo!» raccontò.

Dopo le risate nostalgiche, Acceber pagò la tariffa della traversata al padrone del plesiosauro pubblico che li avrebbe portati all’isola dei due vulcani. Andarono a prendere posto a due file di posti a ridosso del bordo sinistro della sella-piattaforma, da cui vedevano la sponda opposta del fiordo. Mei, in lontananza, vide un metaorso che dava la caccia ad una colonia di kairuku e lo osservò in silenzio. Partirono pochi minuti dopo: il plesiosauro nuotava remando con le quattro pinne, fendendo la superficie dell’oceano come un siluro e tenendo il collo alzato per guardare dove andava. Nel frattempo, tutti i passeggeri parlavano o fissavano il mare senza dirsi nulla.

«Il traghetto più figo che abbia mai preso» commentò Sam.

In mezz’ora, il rettile marino fu lontano dalla zona polare e notava spedito verso quella infuocata. Helena e Acceber cominciarono una fitta conversazione in cui la biologa raccontava i suoi incontri coi Teschi Ridenti nel suo periodo su ARK due anni prima e la figlia di Drof spiegava con molti dettagli la vita della tribù e i tratti unici della loro isola. Sam e Chloe ascoltavano ammirati, mentre Mei-Yin e Nerva discutevano sottovoce sul pericolo di Gnul-Iat. Laura, invece, si ritrovò distratta con un pensiero che non si aspettava in quel momento:

“Come starà Jack in questo momento? Sarà in pericolo? Sarà ancora vivo con Rockwell?” si domandava.

Era sempre stata un po’ in pensiero per lui, da quando si era separato da loro per stare con Edmund nella base dell’URE. Ma, da quando Helena aveva riferito loro che sarebbero tornati ancora più tardi del previsto perché dovevano rimediare ad un “incidente di percorso” menzionato senza fare precisazioni dal farmacista, aveva iniziato a provare qualcosa che andava oltre la preoccupazione: aveva paura. Dentro di sé, era terrorizzata all’idea di perdere Jack. Tuttavia, al pensiero di perderlo, si sentiva come se qualcosa le fosse stato strappato. Era più del timore che la attanagliava quando temeva che gli altri morissero per colpa del suo desiderio di visitare ARK: quando pensava a Jack, lo figurava come se le morisse un parente… o una persona che era più di un amico. Non riusciva a spiegarselo, ma in un certo senso sapeva di cosa si trattava… fin dai primi anni dell’adolescenza, in certe occasioni, Laura aveva sentito un certo attaccamento a Jack che era più intenso dell’affetto quasi fraterno che la legava a Chloe e Sam. Era forse… e se anche lui provasse lo stesso per lei? Magari entrambi avevano qualcosa da dirsi, ma non lo ritenevano sensato. Oppure…

“Bah, ma cosa sto pensando!” scosse la testa, imbarazzata.

Jack sarebbe stato bene, qualunque fosse il problema che stava affrontando: doveva fidarsi del suo amico e di Rockwell, che aveva già esperienza su ARK. Anche se per lei era difficile, cercò di non pensarci più fissando il mare o aggregandosi alle interessanti conversazioni tra Helena e Acceber, visto che l’argomento le pareva molto affascinante.

«E quindi coltivano la miglior frutta dell’arcipelago, grazie al terreno vulcanico» stava dicendo Acceber.

«Scusate, ero distratta, di cosa state parlando?» chiese Laura.

Chloe le fece un rapido riassunto:

«In due parole, hanno detto che l’isola ha due vulcani attivi che ogni tanto eruttano e buttano lapilli ovunque, però solo due terzi sono bruciati: il resto, che è dove c’è l’insediamento, non viene mai raggiuto dalle eruzioni ed è tutto rigoglioso, quindi ci coltivano un sacco di piante e viene tutto buonissimo»

«Giusto, perché il suolo dei vulcani è fertilissimo» annuì la bionda.

«Esatto! – sorrise Helena – Non vedo l’ora di rivedere l’isola infuocata… vi piacerà, vedrete!»

Mei-Yin, che come al solito si preoccupava prima di tutto di prepararsi agli eventuali rischi che la attendevano per affrontarli al meglio, smorzò l’aria allegra da escursione della loro chiacchierata:

«Ci sono creature aggressive? Animali contro cui i velociraptor avrebbero difficoltà?» domandò.

Helena ci rifletté bene, poi rispose:

«C’è un considerevole numero di predatori che si aggirano nella zona bruciata, di solito fanno pulizia dei resti degli animali che si lasciano sorprendere dalle eruzioni. Ci sono pulmonoscorpi, smilodonti, argentavis, più specie di teropodi…
sì, c’è sicuramente da stare attenti, ma niente che non si possa evitare o affrontare»

«Bene est, tum erimus parati» commentò Nerva.  

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Quando videro l’isola vulcanica, ai ragazzi fece un effetto particolare: ai lati e dietro il centro abitato era tutto piuttosto lussureggiante, con schiere di orti subito dopo la spiaggia, macchie di frutteti più all’interno e colli ricoperti da file di viti e ulivi coltivati a terrazza. Eppure, in lontananza, dall’orizzonte spiccavano due vette da cui saliva una grandissima voluta di fumo nero. Una era più bassa e più vicina, l’altra era più alta e appariva più distante. Sembrava quasi un paesaggio incantato.

«Che bella!» fischiò Chloe.

Quando raggiunsero la sponda, il padrone del plesiosauro fece scendere tutti i passeggeri, poi saltò sul pontile a sua volta e lasciò il suo animale libero di nuotare nei dintorni come gli pareva, per concedergli una pausa dal lavoro che lo costringeva a stare sempre in superficie. Il villaggio non era immediatamente dopo l’attracco: a separarlo dal mare, c’era un tratto di spiaggia che seguirono per un po’ con gli altri passeggeri, i ragazzi a piedi e gli autori dei diari in sella ai velociraptor, che erano ancora un tantino scossi per la traversata. Essendoci in zona due vulcani sempre attivi, la brezza marina trasportava un penetrante puzzo di zolfo. Chloe arricciò il naso ed emise un verso disgustato:

«Che schifo, l’odore di uovo marcio qui fa venire il capogiro!» esclamò, dopo aver preso una boccata d’aria.

«Naso delicato, eh?» la punzecchiò Sam.

«No, dopo quella palude piena di sanguisughe, serpentoni e altre schifezze, questo mi sembra chanel» gli ribatté lei.

Quando arrivarono ai portoni d’ingresso ed entrarono con tutta la comitiva, all’odore di zolfo si aggiunsero in un baleno svariati profumi di frutti e ortaggi vari, che venivano dal mercato. L’insediamento secondario della tribù dei Teschi Ridenti, stando alle parole di Acceber, era uno degli avamposti arkiani più vivaci e variopinti in assoluto e i ragazzi poterono constatare che aveva ragione: quel posto era pieno di colori. Questo perché le case erano tutte decorate con tinte naturali diverse e perché le bancarelle del mercato erano colme di prodotti della terra maturi e freschi di raccolto, tutto di stagione. Inoltre, il viavai di persone era notevole: notarono vari stranieri integrati nella società di ARK, in mezzo ai nativi di altre tribù venute lì in visita.

«Niente male davvero!» fischiò Laura.

«Che vi dicevo?» sorrisero Helena e Acceber.

Andarono alla stalla comune per lasciarci per qualche tempo i velociraptor, così sarebbero stati in forma quando si sarebbero rimessi in viaggio. Alla piazza centrale, che vantava un monumento in pietra scolpito a forma di teschio sorridente per simboleggiare la tribù, i ragazzi videro che anche l’insediamento sull’isola vulcanica era costruito in riva ad un lago, come il villaggio delle Frecce Dorate. Solo che quel lago non era usato per pescare, ma per irrigare: ne uscivano dozzine di intricatissimi tubi di pietra che uscivano oltre la palizzata in tutte le direzioni, per andare ad annaffiare costantemente le coltivazioni della facciata florida dell’isola. Uno spettacolo proprio affascinante.

«Bene, è ora di andare dal capo e chiedergli il Manufatto del Branco!» esclamò Helena, battendo le mani.

Dunque, si avvicinarono all’inconfondibile abitazione più importante delle altre, sul lato opposto della piazza. Gli autori dei diari rimasero indietro e lasciarono fare ai tre ragazzi. Quindi Laura bussò alla porta e sull’uscio apparve una giovane donna più o meno della loro età, forse con giusto un paio d’anni in più. Dopo averli squadrati, chiese se erano i giovani stranieri sulle tracce del Tesoro che ormai tutti i capivillaggio stavano aspettando, da quando Yasnet aveva sparso la voce. Laura annuì, con un sorriso, quindi la ragazza ricambiò e li accolse. Li accompagnò nella stanza del capovillaggio:

«Tludaf, ibutag vluditamjv edev izabimlup» disse in arkiano.

Allora entrarono e incontrarono Hsoorak Harrew, l’uomo a capo dell’avamposto sull’isola del fuoco. Chloe si fece sfuggire un sommesso fischio di ammirazione: era veramente un belloccio, in forma smagliante, uno sguardo acuto e ammiccante, un sorriso complice e un portamento da “fratello maggiore”. Le ricordava molto il giovane e ammaliante professore di greco che aveva avuto alle superiori, con cui aveva cercato di uscire a cena più volte, fallendo a causa di una serie di sabotaggi segreti da parte di un geloso Sam. Il tipo di uomo a cui avrebbe fatto un bel pensierino. Ora che ci pensava, Chloe si ricordò che da quando erano sull’isola non avevano mai avuto tempo per un certo tipo di “svago”... ma non era quello il motivo della visita, quindi la mora si ricompose.

«E così, siete venuti anche da me! – esclamò Hsoorak – Vi dirò, quando ho sentito di voi da Yasnet, ho creduto che sareste morti o che vi sareste solo arresi dopo due manufatti…»

«Ah, grazie tante per la fiducia, eh?» reagì sarcasticamente Sam, facendo l’offeso.

«Eppure siete arrivati fino a me, facendo un giro piuttosto largo dell’arcipelago prima. Devo ammettere che sono ammirato!»

Laura arrossì un po’ e si sistemò delle ciocche di capelli:

«Grazie. Anche noi, soprattutto me, siamo veramente colpiti di avercela fatta finora. Non che non abbiamo avuti difficoltà, anzi... merito delle nostre fantastiche guide»

Sam e Chloe annuirono a conferma delle sue parole. Hsorrak sembrava comprenderli:

«Non ne dubito. Ecco perché vi affido senza esitazione il Manufatto del Branco: Yasnet ha detto a tutti noi di avervi messi alla prova e che avete dimostrato sia di avere determinazione, sia di essere onesti nelle intenzioni e che non volete usare il Tesoro di ARK per scopi egoistici. A me basta sapere questo»

Andò ad un muro della stanza, rimosse un ritratto dei due vucani nel mezzo di un’eruzione e rivelò un buco nei blocchi di tufo da cui la casa era composta. Ne estrasse l’artefatto pre-arkiano, inconfondibile nel suo stile unico come tutti gli altri. Lo porse a Laura e spiegò che il suo piedistallo si trovava all’estremo opposto dell’isola, sulla spiaggia dell’area carbonizzata. Disse che avrebbero capito qual era il luogo giusto, perché lì c’era una città in rovina seppellita dalle eruzioni.

«Sulla spiaggia, eh? Io avrei scommesso che fosse in cima ad uno dei vulcani…» disse Chloe.

«Be’, immagino che nemmeno i nostri predecessori volessero correre il rischio che il manufatto cadesse nella lava» commentò Hsoorak.

I ragazzi si trovavano d’accordo: almeno, avrebbero evitato una scalata pericolosa in mezzo ai fiumi di magma, avrebbero solo dovuto seguire la linea costiera fino all’altro lato. Quindi ringraziarono cordialmente e uscirono. Lì fuori trovarono solo Helena. Quando chiesero dov’erano Mei e Gaius, la biologa spiegò che avevano voluto comprare frecce e lance in quantità, in vista del tragitto. Poi invitò Chloe e Sam a raggiungere Acceber alla locanda, dove la figlia di Drof stava prenotando delle camere per tutti loro. I due obbedirono volentieri e allora, rimasta sola con la bionda, Helena le si avvicinò e le suggerì:

«Laura, mentre ci sistemiamo e ci prepariamo, che ne dici se ci facciamo due passi qui in zona? Così possiamo discutere con calma delle scoperte sui Pre-Arkiani e ci godiamo anche il paesaggio! Sento che ne abbiamo bisogno, dopo le ultime svolte»

Laura reagì con un ampio sorriso:

«Oh! Molto volentieri, Helena!»

«Ottimo! Andiamo, allora!»

Dunque, le due donne si diressero verso il cancello a Nord della palizzata, da cui si andava verso le colline piene di vigneti, uliveti e frutteti.

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«Ah, che bella vista…» mormorò Laura, meravigliata.

Lei ed Helena stavano passeggiando lungo un sentiero che attraversava i frutteti, da cui si vedeva il mare da un lato e il confine dell’area carbonizzata dall’altro. Il contrasto con quella porzione florida era quasi surreale. Intanto, riflettevano per bene su tutte le informazioni che avevano a loro disposizione fino a quel momento sui Pre-Arkiani:

«Che dire… se due anni fa ero affascinata, ora sono incredula» disse Helena.

«Io sono sicura al cento per cento che, qualunque cosa li rendesse molto più avanzati di noi decine di millenni fa, è in qualche modo collegata al Tesoro, altrimenti Darwin non avrebbe scritto che si tratta di una cosa che cambierebbe il mondo» rimuginò Laura.

La biologa annuì, seria:

«Sono assolutamente d’accordo. Scoperte come il teletrasporto e il viaggio attraverso altre dimensioni sono qualcosa di a dir poco rivoluzionario… già solo il fatto di sapere che ci sono altre dimensioni mi ha fatta quasi impazzire, a dire il vero»

«Già. Ma perché le loro rovine hanno lo stile architettonico delle civiltà antiche? Le invitavano su ARK e hanno lasciato che costruissero edifici nei punti in cui vanno posati i manufatti e in cui ci sono quei portali? Li invitavano qui?»

Helena parve perplessa:

«È plausibile, ma io mi chiedo perché le testimonianze non siano mai state ricordate: mi sembra qualcosa di gigantesco. Eppure le civiltà hanno lasciato rappresentazioni di questo contatto in giro per il mondo, non è così che l’uomo con la bombetta ti ha detto?»

«Esatto»

«Ecco, ricordavo bene»

«Magari gli hanno ordinato o chiesto di non ricordare di loro alle generazioni future?»

«Considerando che poi sono scomparsi anche dalla loro patria, potrebbe essere: forse volevano a tutti i costi che il mondo li dimenticasse, o che dimenticasse qualcosa in particolare che hanno fatto… qualcosa come il Tesoro, forse?»

Laura fu della stessa opinione per un attimo, ma poi si ricordò di un importante rovescio della medaglia:

«Aspetta… questa è una contraddizione! Se volevano cancellarsi, perché hanno lasciato tutta questa scia di indizi per guidare gli interessati fino al Tesoro? Le rovine, le incisioni, i manufatti… e, guarda caso, i manufatti sono sia un modo per raggiungerlo, sia per uscire dall’isola! Cosa volevano ottenere?»

«Hai ragione! Come ho fatto a non pensarci? Sembra quasi che avessero due scopi opposti allo stesso tempo, senza un motivo chiaro… e c’è anche un’altra cosa che non riesco a spiegare»

«Cosa?»

«Le incisioni che io e gli altri abbiamo visto mentre tu non c’eri, a forma di fungo atomico. Così come i segni di una devastante guerra che io e Rockwell abbiamo scoperto due anni fa e con cui spiegammo la loro estinzione. Sono tutti avvenimenti che non dimostrano l’uso della tecnologia dei sotterranei delle rovine, dove ci sono i portali… perché? Di solito, ci si combatte coi migliori strumenti a disposizione»

«E se fosse semplicemente una guerra degli Arkiani attuali? Voglio dire, sono qui da sessantamila anni, non credo che ci siano stati solo tempi di pace» suggerì Laura.

Helena si morse le labbra:

«A questo punto, comincio a pensarlo anch’io, perché altrimenti non avrebbe senso. I Pre-Arkiani ci stanno nascondendo qualcosa… o forse ce la stanno suggerendo, ma in un modo molto distorto per confonderci»

«Immagino che lo scopriremo solo alla fine del viaggio» sospirò Laura.

«Molto probabile. Be’, anche questo fa parte del mondo della ricerca, in fondo»

A quel punto, si resero conto che la loro passeggiata le aveva portate fino ad una casupola di legno costruita in un crocevia tra quattro orti, due di patate e due di carote. Il padrone di casa, un Arkiano sulla cinquantina con ben cinque borse di cuoio piene di tutto appese alla cintura o a tracolla, stava portando una cassa piena di pezzi di carne al suo argentavis. Il rapace, placidamente appollaiato nel nido che aveva costruito sul tetto della casupola, stridé contento e scese con una planata per mangiare. Il padrone ridacchiò e gli diede una pacca sul collo, prima di lasciarlo mangiare. Le due ragazze sorrisero, a quella scena. L’Arkiano si voltò e le vide. Avendole sentite parlare, tradusse subito quando chiese se volevano che spedisse qualcosa. Disse, infatti, di essere un fattorino.

«Cosa? No, no, stiamo solo camminando. Tra poco andremo nella zona bruciata» rispose Laura.

«Capito. Buona fortuna, senza volatili sarà dura!»

«Ce la caveremo – lo rassicurò Helena – Bell’esemplare, comunque!»

«Sì… l’ho incontrata due anni fa, sola e spaventata, nei dintorni delle rovine vicino all’avamposto delle Frecce Dorate. Quando mi ha visto è stata molto docile, così ho deciso di adottarla»

“Si riferisce al Partenone” capì Laura.

«Se era docile, doveva aver perso il suo padrone…» ipotizzò Helena, interessata.

Il fattorino annuì:

«Infatti era sellata. C’era scritto il suo nome, così ho tenuto da parte la vecchia sella, ma in due anni nessuno l’ha mai cercata… - a quel punto, si rivolse all’argentavis – Sei stata proprio fortunata ad incontrarmi, eh, Atena? Con me voli tanto e mangi tanto. Doppia fortuna, ehehe!»

Laura era sopresa: Atena non era forse il nome di… e, infatti, quando si voltò vide che Helena aveva fatto dei passi indietro e si stava coprendo la bocca con le mani per lo stupore. I suoi occhi brillavano come stelle. La biologa da Sidney si sarebbe mai aspettata che quel momento fosse arrivato, anche se ci aveva sperato in parte quando era tornata su ARK. E adesso…

«Mio Dio… Atena… Atena!» esclamò.

Cominciò a singhiozzare: si stava commuovendo, nel ritrovare la sua fedelissima compagna di viaggi che Rockwell le aveva regalato per viaggiare sull’isola, due anni prima. Anche l’argentavis sollevò di scatto la testa dalla mangiatoia, quando si sentì chiamare da una voce che ricordava ancora, ma che non sentiva più da molto. Girò il capo di novanta gradi e vide il volto della sua vecchia padrona con l’occhio sinistro. In men che non si dica, iniziò a stridere e a sbattere le ali, gettando polvere dovunque, e le corse incontro. Helena fu quasi investita, ma era così felice e così emozionata che non poté fare altro che ridere e asciugarsi la lacrimuccia nostalgica. L’argentavis cominciò ad arruffarle affettuosamente i capelli col becco e a sfregare il muso contro di lei.

«Anche tu mi sei mancata, vecchia mia! Mi dispiace tanto se ci siamo divise senza un addio decente… eravamo tutti nel panico, il Megapiteco stava spaccando tutto…»

«Ah, allora eri tu la sua padrona? Che colpo di fortuna» commentò il fattorino arkiano.

«Oh, non sai quanto! Non sai quanto!»

Laura non diceva niente: si limitava ad osservare e sorridere, molto contenta per quel momento di gioia di cui la donna stava godendo. Anche lei si sarebbe commossa, se avesse avuto l’occasione di rivedere un amico che non incontrava da anni senza averlo potuto salutare a dovere. Quando, finalmente, Helena riuscì a far staccare l’argentavis, provò ad invitarla a seguirla per vedere se voleva tornare a stare con lei. Ma il suo sorriso si spense quando vide che il rapace preistorico non le veniva dietro: stava ferma dov’era.

«Oh…» sospirò, capendo la situazione.

«Sembra che ormai si sia abituata alla sua nuova routine. Be’, sono passati due anni» disse Laura, malinconica.

Il fattorino, profondamente imbarazzato, si grattò il collo con un’espressione colma di disagio:

«Ah, dannazione, adesso mi sento in colpa… che ne potevo sapere, io?»

Helena si fece passare meglio che poté il dispiacere e lo rassicurò con un cenno:

«No, figurati. Anzi, voglio davvero ringraziarti: grazie infinite per esserti preso cura di lei, ora mi sono tolta dalla coscienza un peso che mi rimaneva addosso da due anni! Sono contenta che abbia trovato un altro padrone che la sa gestire anche meglio di me»

Il fattorino si sentì sollevato:

«Ah, allora non c’è di che, alutidamjv

«E poi, dopo questo viaggio dovrò comunque lasciare ARK, quindi avrei dovuto dirle addio lo stesso. Continua a trattarla bene, per piacere! Sono molto affezionata ad Atena!»

«Ma certo, vedo molto bene che vi siete mancate. Farò del mio meglio»

«Grazie. Davvero, non so cos’altro dire… sono proprio contenta»

Dopo aver dato delle ultime carezze ad Atena e dopo averle concesso ancora di arruffarle la chioma, Helena tornò da Laura col viso di una persona in pace con se stessa e le disse che era il caso di tornare indietro, visto che ormai gli altri dovevano aver finito di organizzarsi ed erano pronti per cominciare il nuovo viaggio. Laura annuì sorridendo a sua volta, senza dire niente perché non voleva rovinarle il momento. Quindi si riavviarono verso l’avamposto osservate dal fattorino e dall’argentavis, ancora allegro per la visita a sorpresa di Helena.

«Oh, Atena… quanti ricordi, quanti voli che abbiamo fatto insieme…» mormorò lei, lungo la strada.

Nel frattempo, ritornando a pensare alla loro avventura, Laura gettò un rapido sguardo all’orizzonte annerito e incenerito dell’isola dei due vulcani: la loro prossima tappa era sicuramente ostica, da non sottovalutare. Come tutto l’arcipelago di ARK, in fondo. Erano pronti per tornare a rischiare la vita, per arrivare alla loro destinazione ultima…

“A noi, vulcano!” pensò Laura, per farsi coraggio.

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Capitolo 33
*** L'eruzione (storia vecchia) ***


Un dilofosauro e un branco di compsognati stavano setacciando il terreno incenerito annusandolo con molta attenzione, nella speranza di trovare dei pezzi di carne ancora commestibile da mangiare dalle carcasse degli animali rimasti vittime dell’eruzione più recente dei due vulcani. Molti dei fossili più vecchi erano ancora lì, in quella landa desolata, mummificati dopo essere stati seppelliti sotto la cenere. Erano rimasti perfettamente conservati e il vento, col tempo, faceva tornare allo scoperto quelle carcasse bloccate in pose sofferenti e in preda al panico. I tronchi rinsecchiti degli alberi che avevano avuto la sfortuna di nascere nella regione infuocata dell’isola facevano da inquietante decoro a quell’ambiente lugubre.

Quel giorno, il vulcano non era stato generoso con gli spazzini: il dilofosauro e i compsognati scavavano col muso da ore, starnutendo per la sottile polvere che puzzava di zolfo, ma nessun pezzo di carne a ricompensarli: solo corpi talmente carbonizzati che si polverizzavano appena li mordevano. Ad un certo punto, ormai stizzito e affamato, il dilofosauro guardò i compsognati ed essi cominciarono a sembrargli alquanto appetitosi… così rivolse loro un verso intimidatorio e allargò il collare, per spaventarli. I piccoli teropodi, che stavano pattugliando i dintorni della mummia di un diplodoco, si voltarono allarmati e si radunarono di fronte a lui, sperando che la forza del numero li aiutasse a scoraggiarlo. Il dilofosauro non si fece intimidire e sputò al compsognato più vicino, accecandolo. Tutti gli altri, spaventati, indietreggiarono e lasciarono che il dilofosauro sgozzasse il loro simile. Lo osservarono pigolando mentre lo sollevava con la bocca. Una volta conquistato il pasto del giorno, il dilofosauro si allontanò verso il sito in rovina lì vicino, il posto ideale per mangiare indisturbato… ma la sua strada si incrociò con quella di un gruppo di umani con tre velociraptor, un tilacoleo e un pachicefalosauro.

«Guardate, è lo stesso che ha sputato in faccia a Jack quando siamo arrivati!» lo indicò Sam.

«Voglio proprio vedere se avrà voglia di sputarci, ora che abbiamo le bestie» ridacchiò Chloe.

«No, infatti: ignoratelo, scapperà» li rassicurò Acceber.

Come aveva detto, il dilofosauro cominciò ad indietreggiare appena loro furono più vicini, poi si arrese quando Hei gli rivolse un verso minaccioso e scappò con la sua preda. Mei-Yin, guardandolo, ripensò per un attimo ai suoi primi giorni su ARK, quando vi era naufragata due anni prima: aveva passato un mucchio di tempo sulla spiaggia, dove le uniche creature che si vedevano spesso erano dodo, listrosauri e compsognati. I dilofosauri erano la minaccia più grande che credeva di poter trovare… quanta strada che aveva fatto, nei mesi che erano seguiti, quanti ricordi malinconici… le riflessioni della guerriera cinese furono interrotte da Helena:

«Eccoci qua: le rovine del vulcano»

Lasciarono le creature ai margini del sito in rovina e cominciarono ad esplorarlo in silenzio, alla ricerca del piedistallo. Di tutti i resti pre-arkiani che avevano visto fino ad allora, quelli erano i meno conservati: non c’era altro che alcuni muretti fatti di blocchi di pietra nera, così erosi e distrutti da arrivare alle ginocchia, e le ultime tracce di alcune travi di legno che dovevano fungere da sostegno per le abitazioni. Helena affermò che quel poco che si vedeva dello stile architettonico faceva pensare ad una comunità neolitica e Laura era d’accordo: sembravano alcuni siti archeologici della tarda età della pietra dell’Europa centrale.

«Certo che sono messe male…» commentò Chloe.

«Sicuramente c’entrano le eruzioni: come vedete da quegli animali mummificati, arrivano fin qui. Hanno sepolto gran parte delle costruzioni» spiegò Helena.

«Be’, almeno gli indigeni di adesso l’hanno capita: stanno sul lato verde a pigiare l’uva!» esclamò Sam.

«Forse in passato era verde anche qui» ipotizzò Acceber, interessata.

Nerva spostò alcuni blocchi di pietra caduti dai muretti con un piede, poi si mise ad osservare la sagoma di un allosauro seppellito dalla cenere, ancora in una posa che esprimeva panico e terrore, e gli venne spontaneo condividere un altro aneddoto della sua vita da centurione:

«Tito, uno dei miei fidati compagni e amici della prima decuria, veniva da Pompei. Cum iter facimus con le legioni per le expeditiones dell’imperatore Traiano, ogni volta che ci accampavamo ci raccontava di nuovo la historia di come era sopravvissuto al Vesuvio con sua uxor. Ho sempre avuto l’impressione di non poter mai capire fino in fondo… credo che questa bestia si sia sentita come lui»

«Immagino che sia terribile. Chiunque morirebbe di paura, che ne esca vivo o no…» pensò Laura, inquietata.

Mei lanciò un’occhiata sorpresa a Gaius:

«Curioso: tornare su quest’isola ti ha fatto rivelare più segreti sulla tua vita che vivere e lavorare con me per due anni nell’epoca di Helena»

Nerva annuì, rendendosene conto:

«Lo so. Tu invece dici sempre molto poco di te e basta, regina bestiarum»

Mei stava per rispondere qualcosa, ma poi la loro attenzione fu richiamata da Sam e Laura: avevano visto il piedistallo, al centro dei resti di quello che forse era stata una torre. Allora si avviarono per raggiungere gli altri; mentre camminavano, Acceber si accostò a Gaius e gli domandò, interessatissima:

«Cos’è Pompei? Cos’è questo… Vesuvio?»

Il suo fascino per tutto quello che riguardava il mondo al di fuori di ARK non aveva tardato ad emergere, sentendo il breve racconto del Romano. Nerva e Mei si scambiarono un’occhiata imbarazzata, poi lui cercò di uscirne promettendole che le avrebbe spiegato con calma quando sarebbero tornati all’avamposto. Acceber fu un po’ delusa, ma decise di lasciar correre e accettare, anche se non confidava che il centurione mantenesse la promessa. Intanto Laura e gli altri, raggiunto il piedistallo, ci poggiò sopra il manufatto. Anche il piedistallo era conciato veramente male, al confronto con gli altri: il vulcano l’aveva messo a dura prova, in quei millenni. Già era un enigma come fossero conservati così bene dopo tutto quel tempo, il fatto che dopo sessantamila anni di colate di lava e tempeste di pomice non fosse ancora andato in frantumi. Osservata in silenzio da tutti, Laura ripeté la solita procedura e prelevò il tassello del mosaico che li attendeva.

«Tra poco avremo il quadro completo! Ma ancora non vedo punti di quest’immagine che indichino dove possa essere il Tesoro…» disse Chloe, un po’ delusa.

«Be’, è chiaro: è senz’altro fatta in modo che lo capiremo solo alla fine del viaggio» spiegò Helena.

«Allora che aspettiamo? Torniamo indietro! Mi ero dimenticata di farvi vedere l’allevamento di scarabei skua dei Teschi Ridenti, e poi è meglio rientrare prima che la prossima eruzione…» cominciò Acceber, entusiasta.

L’Arkiana fu bruscamente interrotta da una serie di versi che fecero trasalire tutti e allarmarono i velociraptor, che avevano cominciato ad agitarsi già da quando i padroni li avevano lasciati fuori dal complesso di rovine. Spaventati, i ragazzi misero subito mano alle nuove picche di metallo che Mei aveva preso per loro al mercato dei Teschi Ridenti, mentre i due guerrieri dal passato sfoderarono le spade. Acceber si affiancò ai ragazzi, pronta ad aiutarli con la lancia tra le mani.

«Ehi, cosa sono questi urli? Mettono i brividi!» esclamò Chloe, pallida.

«Uccelli del terrore…» mormorò Helena, allarmata.

«Che?» chiese Sam.

«Grossi uccelli corridori carnivori del Paleocene, molto forti e feroci» spiegò Laura, deglutendo.

«Sì, e con una beccata vi aprono la pancia, quindi occhio!» li avvertì la figlia di Drof.

«Dio mio…» balbettò Chloe.

Nerva esortò subito tutti a correre dalle cavalcature, cosa che nessuno esitò a fare. Si precipitarono dalle loro bestie, ma appena uscirono dalle rovine videro sette orrendi uccelli alti più di un uomo che correvano verso di loro, lungo la spiaggia annerita dalla cenere. Sembravano grosso modo degli struzzi, ma più tozzi, con zampe robuste armate di artigli adunchi, le ali piccole, un corto collo nudo e una testa da rapace, con uno spaventoso becco da tucano. Sembravano degli avvoltoi con un corpo da pollo gigante assassino. Appena li raggiunsero, si fermarono solo grazie ai ruggiti di Rexar e ai fischi intimidatori dei velociraptor. Cupcake, dal canto suo, stava dietro i predatori e sbuffava, scuotendo la testa e sfregando le zampe a terra.

«Li affrontiamo» affermò Mei.

«D’accordo, io sono pronto… credo» rispose Sam, spavaldo.

«No – lo contraddisse Nerva – Noi li affrontiamo, è meglio se voi andate via: ricordo che questi aves feroces erano molto pericolosi, quando ne ho affrontati due anni fa»

Gli uccelli del terrore cercavano di partire all’attacco, ma le cavalcature riuscivano ancora a farli esitare… almeno per il momento. Laura non era molto sicura, voleva fare qualcosa per essere d’aiuto:

«Sicuri? Potremmo darvi una mano! Anche coi troodonti eravamo…»

Helena, che stava imbracciando la balestra, alzò la mano per rassicurarla:

«No, tranquilli! Questi sono molto più ostici, lasciateli a noi: non fate nessuna brutta figura!»

«Benissimo, scappiamo!» esclamò Chloe, sollevatissima.

Acceber, allora, si offrì di accompagnarli nella fuga. Quindi montò in sella a Rexar e fece salire Sam dietro di sé, mentre Laura e Chloe salirono insieme sulla groppa del pachicefalosauro. Dopo un rapido “buona fortuna”, Acceber disse a Laura di seguirla e spronò il tilacoleo a correre verso l’entroterra, in direzione del vulcano più alto. Gli autori dei diari raggiunsero i velociraptor poco prima che lo stormo di uccelli del terrore si spazientisse e, con un altro urlo, partirono all’assalto. Uno di loro, però, si accorse dei due animali in fuga e, pensando di isolarne uno per farne una preda facile, si separò dagli altri e si lanciò all’inseguimento, mentre i suoi compagni iniziavano la sanguinosa battaglia contro i tre velociraptor e i loro padroni…

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Cavalcando di corsa lungo gli stretti sentieri tra le formazioni di tufo sul versante marittimo del Gran Forno, il vulcano maggiore, Acceber e i ragazzi non si accorsero subito che uno dei diatrima li stava inseguendo. Fu dopo alcuni minuti, quando raggiunsero una vecchia frana da cui sporgevano le cime di alcuni alberi rinsecchiti, che Laura ebbe l’impressione che qualcos’altro stesse smuovendo i sassi oltre a loro, alle loro spalle. Si voltò e trasalì quando vide quel mostruoso uccello che li inseguiva senza battere la fiacca, col becco spalancato. Ovviamente stava prendendo di mira Cupcake, siccome era un erbivoro, un cucciolo e più lento di Rexar.

«Oh, merda! Corri, Cuppy!» esclamò.

Spronò il pachicefalosauro coi talloni, mentre anche gli altri si accorgevano dell’uccello predatore. Dall’altra parte della frana, di cui ormai avevano raggiunto il centro, il terreno diventava più regolare e ospitava più piante morte. Acceber, a labbra serrate, sperò che Cupcake riuscisse ad arrivare fin lì, così lei avrebbe potuto mandare Rexar a salvarlo senza causare un ulteriore crollo della frana. Ma purtroppo andò diversamente: prima di raggiungere gli altri, Laura sentì un forte gracchio dietro di sé, così vicino che se lo sentì quasi sulla pelle. Improvvisamente, sentì qualcosa urtare con violenza Cupcake e in un attimo si ritrovò a vorticare nel vuoto… poi le sue costole sbatterono contro la friabile superficie sassosa del pendio, strappandole un gemito di dolore. Tutto il mondo vorticava. Per un breve istante in cui i suoi occhi furono allineati col terreno, vide che anche Chloe stava rotolando giù dalla frana.

«No! Ragazze!» esclamò Sam, sconvolto.

Per sua fortuna, Laura finì in un punto meno ripido e smise di rotolare, rallentando. Per istinto e anche un po’ per disperazione, affondò le dita nella ghiaia e fece il possibile per frenare la scivolata. L’attrito le raschiò le unghie e la pelle, facendole un dolore atroce, ma resisté e, alla fine, riuscì a fermarsi. Ora era lunga distesa e aveva un capogiro terribile, oltre che dolori ovunque. Non sapeva per certo se era ancora tutta intera. Chloe si era fermata a sua volta, poco più in alto di lei, distesa su un fianco… e priva di sensi. La sua testa sanguinava.

«No… Chloe? Chloe!» rantolò Laura, terrorizzata.

Cercò di strisciare verso di lei per capire se respirava ancora, ma all’improvviso due corpi ammucchiati che rotolavano giù dalla frana, lasciandosi dietro una scarica di pietre, la sorvolò e per poco non la schiacciò. Laura impallidì per lo spavento e, quando iniziò a sentire un fracasso di versi, si voltò a controllare: erano Cupcake e il diatrima. Si erano appena fermati e l’uccello del terrore era subito riuscito a scaraventare il pachicefalosauro a terra con un calcio che gli ferì il fianco e lo sovrastò, cercando di squarciargli la pancia scoperta a beccate. Il piccolo dinosauro cercava in tutti i modi di difendersi spingendo via l’aggressore con entrambe le zampe e mimando delle testate per tenerlo lontano, ma non mancava molto prima che rimanesse abbastanza esposto per permettere all’uccellaccio di sferrare l’attacco decisivo.

«Lascialo stare, bastardo!» esclamò Laura.

Cercando di stare in equilibrio, si alzò sulle ginocchia; afferrò con entrambe le mani il sasso più grosso che trovò e lo lanciò con tutte le sue forze, finendo col cadere in avanti per la spinta. La pietra colpi il diatrima su un’ala, attirando la sua attenzione. Infastidito, le rivolse un irritato urlo di minaccia, ma non si distrasse dalla sua preda. Stava per sventrarlo con una beccata… ma ecco che fu interrotto dall’inconfondibile ruggito del leone marsupiale. Laura non fece nemmeno in tempo a sorridere dall’entusiasmo, una fulminea sagoma rossa sfrecciò sopra di lei e atterrò direttamente sul diatrima, placcandolo. Afferò con precisione incredibile il suo collo rosa e grinzoso e, quando atterrò, strinse gli artigli nel terreno per non scivolare. Il diatrima fece per respingerlo a zampate, ma Rexar fu più veloce: con una stretta della mandibola, gli recise la carotide. In pochi secondi, l’uccello predatore morì soffocato.

«Appena in tempo… non avrai pensato che vi abbandonassi, spero!» sorrise Acceber, per sdrammatizzare.

Laura, incapace di parlare per tutta l’ansia e il cuore che le batteva a mille, si limitò a ricambiare il sorriso e ad alzare un pollice. Poi si ricordò di Chloe e corse subito da lei per vedere come stava. Anche Sam, fregandosene del terreno friabile che scivolava ad ogni suo passo, derapò lungo il pendio fino a raggiungere le ragazze. Allora Acceber, senza sapere del tutto perché, ebbe l’impulso di unirsi a loro e scese a sua volta cautamente, raggiungendo Rexar.

«Chloe? Mi senti?» domandò Laura, sorreggendola.

«Ehi, sveglia! Non farci brutti scherzi!» esclamò Sam, cercando di nascondere la paura.

Laura la scosse gentilmente, sempre più in ansia. Finalmente, con loro immensa gioia, Chloe strinse gli occhi prima di aprirli a fatica e si portò lentamente una mano alla ferita che aveva tra la fronte e la tempia sinistra.

«Che… cosa? Dove sono?» biascicò.

«Chloe! Meno male! Ci riconosci?» chiese Sam.

«Certo che vi riconosco… che è successo? Ero sul dinosauro di Laura e poi non ho capito più niente»

Con l’aiuto di Laura, si mise seduta e si guardò intorno, ancora stordita. Si guardò intorno e, a vedere la frana, il paesaggio vulcanico e il mare in lontananza, cominciò a rimettere insieme i pezzi e a ricordare l’accaduto. Sam le spiegò del diatrima indicando la sua carcassa e Rexar, che si stava ancora leccando via il sangue dalle gengive.

«Oh, capisco… quindi torniamo dagli altri?» chiese Chloe.

Acceber annuì:

«Be’, ora che non siamo più inseguiti potremmo: sono certa che hanno già sistemato gli altri diatrima, visto quanto sono abili! Così potremo tornare indietro uniti»

Allora Sam aiutò Chloe a rialzarsi e, facendo attenzione a non far crollare troppi pezzi del pendio sassoso, tornarono al lato della frana da cui erano venuti e cominciarono la strada per il ritorno. Tuttavia, appena superarono il primo tornante in discesa… cominciò l’Inferno. La terra cominciò a vibrare sotto i loro piedi così forte che per poco non li fece cadere sulle ginocchia. Dalle più profonde viscere del sottosuolo dell’isola del fuoco provenne un rombante tuono che sentirono anche nelle ossa.

«Oh no…» mormorò Acceber, terrorizzata.

«Ehm… è forse quello che penso?» chiese Sam.

«Eruzione!» esclamò Laura.

Il tremore aumentò ulteriormente e, pochi secondi dopo, sentirono un’esplosione provenire dalla cima della montagna. Da lì non potevano vedere le vette, ma notarono comunque due enormi esplosioni di lava che schizzarono verso il cielo, prima di scomporsi in centinaia di gocce incandescenti e ricadere come pioggia. L’esplosione più lontana, che veniva dal cratere più alto e largo, era stata più imponente. Negli istanti successivi, ci furono altri schizzi di lava, seguiti però da grossi frammenti di roccia magmatica che presero a solcare il cielo come comete e a schiantarsi nell’area circostante come se fossero asteroidi. Uno di essi cadde a poco più di centinaia di passi da loro, più a valle, strappando un’imprecazione a Sam.

«Dobbiamo trovare un posto riparato e aspettare la fine dell’eruzione, non è sicuro qui» affermò Acceber.

«E gli altri?» chiese Laura, dubbiosa.

«Non c’è tempo, pensiamo a noi!» replicò l’Arkiana.

Quindi, cercando di sbrigarsi, montarono sulle cavalcature e cominciarono ad esplorare la zona in cerca di un punto dove i lapilli non potevano raggiungerli. Acceber li avvertì anche delle colate che, di lì a poco, avrebbero formato una rete di fiumi di lava in tutta la regione carbonizzata, che avrebbero impedito loro di attraversare gli avvallamenti scavati dal magma quando scendeva verso il mare. Sam osservò un lapillo volare così lontano da cadere in mare e gli venne spontaneo fare un sorrisetto, smorzando la propria tensione dicendo che per i pesci era l’ora della sauna…Anche se Laura gli ribatté che probabilmente non c’erano pesci lì, se dal fondale fuoriuscivano gas vulcanici.

«Era per dire, secchiona!» sbuffò lui.

«Guardate là!» esclamò Chloe.

Si voltarono nella direzione che stava indicando e videro un branco di ienodonti che scappavano lungo un sentiero in salita… verso l’entrata di una caverna. Era chiaro che fossero abituati a rifugiarsi lì dentro dalle eruzioni, visto che sembravano sapere dove stavano andando.

«Ben fatto! Corriamo lì dentro!» esultò Acceber.

Senza esitare, spronarono Rexar e Cupcake e cominciarono a seguire gli ienodonti. Il pachicefalosauro era meno agile a salire sul terreno aspro e irregolare, ma gli bastava seguire a ruota il tilacoleo per capire dove si passava più facilmente. Quando furono in prossimità della grotta, alla loro sinistra notarono uno dei profondi solchi che si riempivano di lava quando i vulcani si risvegliavano. Il punto in cui si trovavano era rialzato e il letto del “fiume” era così profondo che pareva quasi una gola o uno squarcio; proprio in quel momento, l’inizio della colata magmatica iniziava a comparire da dietro una curva e a riempire lentamente l’incavo. Era una vista davvero affascinante: i ragazzi si sarebbero fermati volentieri ad ammirarlo, se solo non stessero rischiando la vita. Un lapillo si schiantò ad una dozzina di metri da loro, sollevando una polverone che li travolse e fece tossire sia loro, che le bestie.

«Merda!» esclamò Chloe.

«Presto, tutti dentro!» gridò Acceber.

Dopo un’ultima, disperata corsa, riuscirono finalmente a varcare l’ingresso della grotta, seguendo quasi a ruota gli ienodonti. Non si vedeva ad un palmo dal naso, una volta dentro. A quel punto, tirando un sospiro di sollievo, i ragazzi si voltarono e presero ad ammirare il panorama dalla bocca della caverna, che si estendeva fino alla spiaggia. Continuarono a fissare la pioggia di lapilli che infuriava, spaventati e ammirati al contempo.

«Bene, adesso che si fa?» chiese Laura.

Acceber fece spallucce:

«Non possiamo fare molto, quindi vi consiglio di riposarvi un po’»

Scese da Rexar e frugò nelle sacche appese alla sua sella, in cerca di paglia e legnetti con cui accendere un fuoco da campo con cui illuminare la grotta. Laura, pensando agli ienodonti, domandò se era il caso di essere preoccupati per loro, perché nell’enciclopedia di Darwin aveva letto che attaccavano i feriti e, dunque, il taglio alla testa di Chloe avrebbe potuto tentarli. La figlia di Drof, però, li rassicurò ricordando loro che Rexar era più che sufficiente per intimidirli.

«D’accordo, allora si aspetta» sospirò Sam, continuando a guardare fuori.

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L’ultimo diatrima cercò di colpire Hei con un salto, ma il velociraptor nero schivò con uno scatto e la Regina delle Bestie ne approfittò per tirare la lancia che aveva preparato dritta fra le costole dell’uccello del terrore, che cadde a terra e si dissanguò gemendo. Gli altri erano già stati uccisi dall’unione tra gli attacchi di Alba, Ippocrate e Usain e i colpi di Helena e Gaius. E così, dopo uno scontro impegnativo, ma non tremendo, i tre autori dei diari riuscirono a liberarsi degli ospiti indesiderati. Non avevano riportato quasi nessuna ferita, tranne Usain che era stato colpito ad una spalla con la punta di un becco che aveva schivato solo in parte: niente di grave, però.

«Ecco fatto. Ora torniamo dagli altri, i vulcani potrebbero attivarsi da un momento all’altro…» sospirò Mei-Yin.

«Gli animalia di questa insula sono davvero aggressivi! Riuscivo quasi a sentire la loro ferocia nelle ossa» commentò Nerva, sorpreso.

«Non c’è da stupirsi, Gaius: è la fame. Le risorse sono difficili da trovare qui e la zona rigogliosa è quasi tutta occupata dall’insediamento, quindi esitano ad andare a caccia lì… - spiegò Helena – Comunque, è ora di andare»

Dunque, seguendo le impronte lasciate dalle cavalcature dei ragazzi e dal diatrima che li aveva inseguiti, si avviarono lungo il sentiero che saliva sul vulcano. Lo percorsero a passo svelto per alcuni minuti in silenzio. Ad un certo punto, però, cominciarono a sentirsi osservati… non riuscivano a capire perché, ma avevano la netta sensazione che qualcosa o qualcuno stesse tenendo gli occhi posati su di loro. Di lì a poco, cominciarono anche a sentire un fischio nell’aria, un suono crescente che due guerrieri come Mei e Nerva avrebbero saputo riconoscere dovunque; anche ad Helena sembrò familiare… prima che un brivido potesse percorrere la schiena della biologa, una freccia che veniva dall’alto si conficcò nel fianco di Hei… e il velociraptor crollò a terra, senza un alito di vita. Prima era vivo, adesso era morto. In una questione di secondi, la stessa sorte toccò anche agli altri velociraptor. I tre autori dei diari rotolavano malamente a terra. Quando si rialzarono, osservarono impietriti le carcasse esanimi dei teropodi, stentando a credere che fosse successo così all’improvviso e così in fretta. La più sconvolta di tutti era Mei: quella scena le era familiare, troppo familiare. Le ricordava il giorno in cui aveva perso Wuzhui, la sua prima bestia domata su ARK ed il suo inseparabile amico, finché la Nuova Legione l’aveva ferito a morte. E adesso, a due anni di distanza, era successo ancora: aveva perso il suo velociraptor e non aveva potuto fare niente per impedirlo.

«Ma cosa... come?» balbettò Helena, così incredula da non essersi ancora riazata.

Mei non la ascoltò: era troppo distratta dalla rabbia che stava cominciando a consumarla, facendola sentire bruciare più del magma che scorreva sotto di loro. Strinse i pugni e i denti, giurando che appena si fosse trovata davanti chiunque avesse tirato quella freccia…

«Ops! Sono stato io? Muhuhuhaha!»

Quando sentirono quella stupida risata, si alzarono e si voltarono di scatto verso l’alto macigno da cui veniva e lo rividero: Mike Yagoobian, l’uomo con la bombetta. Ma questa volta era a cavallo di un bizzarrissimo essere che non sapevano descrivere, una sorta di centauro verde col muso da coccodrillo, le corna da ariete e le ali da pipistrello.

«Tu!» urlò Mei, diventando paonazza.

«Già, sono tornato, seccatori! Credevate che vi avessi perdonati per l’umiliazione a Sidney? Potrete anche esservi salvati dal mio T-rex manipolato mentalmente, ma ora ho un nuovo alleato da un altro universo e voi avrete la giusta punizione! Vero, Doris?»

«Sei consigliato di ordinare a Crar di finirli senza dare loro il tempo di organizzare una difesa» rispose la bombetta, poggiata sulla sua testa.

Mike rise:

«Hahaha! Non vedi che sono spacciati? Ho tutto il tempo…»

«Muori!»

Alla velocità di un fulmine, la Regna delle Bestie prese una lancia dalla sella del povero Hei e lo scagliò verso l’uomo con la bombetta. Ma lo strano essere, rapidissimo, spiegò leali e spiccò un alto balzo: la lancia volò sotto di esso e si spezzò contro le rocce della parete alle sue spalle. Crar tornò a terra e Mike, che si era quasi preso un colpo, si aggiustò la bombetta sul capo con gli occhi strabuzzati.

«Oddio! Che spavento! – esclamò – D’accordo, ve la siete cercata…»

Allora scese dalla schiena del suo bizzarro alleato, che lanciò un buffo grido di battaglia e incoccò un’altra freccia, dopo averne intriso la punta con la sua saliva velenosa. I tre si tennero pronti ad evitare il colpo, coi muscoli tesi, in attesa di scoprire chi sarebbe stato il primo bersaglio. Mike, con la sua solita teatralità, si mise in una posa da militare: piedi coi tacchi uniti, schiena dritta e petto in fuori. Prese fiato, sollevò lentamente l’indice per puntarlo su Nerva e cominciò a formulare a gran voce:

«Crar, come tuo capo e padrone, io ti comando di tirare verso il…»

E fu in quell’esatto momento che il vulcano, interrompendo la sua pagliacciata, si attivò: il suolo prese a vibrare così forte che tutti persero l’equilibrio e dovettero poggiare una mano a terra per non cadere. Si sentirono due esplosioni assordanti, subito dopo le quali le due colonne di fumo dei vulcani diventarono cinque volte più dense, scure e alte. Tutti si voltarono, spaventati, e da quel poco che si vedeva della vetta del vulcano più alto dalla loro posizione poterono ammirare l’inizio della colata di lava che scendeva lungo le pendici, disegnando una rete di fiumiciattoli rossi in mezzo alla roccia grigia.

«Ah! Quest’isola ci vuole morti!» esclamò Mike, osservando lo spettacolo.

Approfittando della distrazione del senzatetto, Mei attirò l’attenzione di Nerva toccandogli un braccio e gli fece segno di passarle la sua lancia, perché lei si era allontanata da Hei quando era barcollata a causa del terremoto e non poteva rischiare di impiegare troppo tempo per riavvicinarglisi e sfilarne un’altra dalle sacche sulla sella. Il Romano, senza pensarci due volte, obbedì e le consegnò la sua arma, mentre Helena li guardava fiduciosa della sua amica. La Cinese cominciò a prendere la mira puntando Crar, sperando di riuscire ad infliggere un colpo mortale al momento giusto. Poco dopo, il visore di Doris lampeggiò di rosso: la bombetta meccanica si staccò dalla testa di Mike e fluttuò in alto, scansionando un punto lontano dell’isola. Quando finì, tornò dal suo proprietario e lo avvertì:

«Mike, si sta verificando un’emergenza»

«Cioè?» chiese lui, senza ricordarsi per nulla di voltarsi verso i suoi “ostaggi”.

«Vicky, Phil e Allan sono in pericolo di vita: sulla riva del lago dove li abbiamo lasciati è cominciata una serie di violenti getti di vapore che emergono del terreno, a causa del contatto tra il magma e la falda acquifera che alimenta il lago nel lato rigoglioso di questo bioma. Necessitano di soccorsi immediati, o potrebbero non essere in grado di sopravvivere»

Mike impallidì e si mise le mani nei pochi capelli che aveva:

«Oh no! Le mie prove viventi che quest’isola esiste! Allora non perdere tempo a spiegarmi come stanno per morire e salvali! Sbrigati!»

«Eseguo in mantinente»

Dunque, la bombetta si allontanò rapidamente, scomparendo oltre il pendio. Helena tirò un sospiro di sollievo: visto che l’ultima volta era stata la bombetta a salvare Mike dalla cattura, adesso che si era separata dal loro pedinatore avevano molte più possibilità di vincere contro quell’imbecille: l’ultimo ostacolo da superare era quel mostro da un altro universo, il quale stava facendo scattare vari campanelli di allarme nella testa della biologa al ricordo del Godzilla nano. Mike, improvvisamente ricordandosi di loro, si rimise nella posa di prima e riprese il suo teatrino:

«Stavo dicendo… ah, giusto. Crar, io ti ordino di…»

ZAC

Appena Crar si voltò assieme a lui, la lancia di Mei gli perforò il petto e fuoriuscì dalla schiena, imbrattando il terreno, i vestiti e la faccia di Mike di viscoso sangue color lavanda. La creatura fissò la guerriera sbarrando i suoi occhioni sporgenti, gorgogliando, lasciò cadere l’arco e si rovesciò su un fianco, dissanguandosi. Mike rimase impietrito, con gli occhi strabuzzati e la bocca paralizzata sul punto di proseguire la frase. Incredulo, si voltò lentamente verso i tre esploratori, senza cambiare espressione. Ora sul volto di Mei-Yin era apparso un abbozzo di sorriso soddisfatto, anche se la sua rabbia non era scemata per niente. Helena si rilassò e si portò le mani sui fianchi, sollevata:

«Sembra che la situazione si sia rovesciata, Yagoobian» affermò.

«Meno male che quell’assurdo equus volans uscito dall’Oltretomba era magis stultus quam te» commentò Nerva.

Mike si pulì la faccia dal sangue violaceo e digrignò i denti, avvolgendosi nella sua giacca di pelle come se fosse in cerca di protezione. Helena guardò gli occhi bramosi di vendetta della Regina delle Bestie e decise di lasciare a lei il compito di stenderlo:

«Adesso sei solo. Solo contro Mei» lo ammonì.

«Ricordati che non è ancora tempo per eum necare» precisò Nerva alla Cinese.

«Solo perché Helena lo vuole vivo non significa che non soffrirà» sibilò Mei.

E così, la guerriera si tolse tutte le armi di dosso e le lasciò a terra, si fece avanti e si sciolse i muscoli e le articolazioni, prima di mettersi in posa da combattimento. Senza un minimo di esitazione, colto da chissà quale illusione di invincibilità, Mike strinse gli occhi in uno sguardo di sfida e saltò giù dal macigno, ritrovandosi a pochi metri dalla sua sfidante. Si arrotolò le maniche della giacca e si sputò sui palmi, prima di sfregarsi le mani e stringere i pugni. Ovviamente, non poté mancare una sceneggiata da baraccone:

«Molto bene, allora combatteremo, uomo bianco contro donna gialla! Guardate come mi avete ridotto… questo è indegno di me! Voi siete indegni di me!»

A quel punto, assunse svariate pose ridicole prese da film di arti marziali di serie B degli anni ’80 e prese a studiare Mei, aspettando la sua prima mossa. La scena era spiazzante: era come se credesse davvero di avere anche solo una possibilità di vincere in un corpo a corpo con lei, come se avesse dimenticato con chi aveva a che fare. Nerva si sbatté una mano in faccia per l’imbarazzo, mentre Helena si coprì la bocca per soffocare una risata:

«Oh no! Stai attenta, Mei: il signor cinquanta chili pelle e ossa ti fa il solletico!» scherzò la biologa.

A Mike caddero le braccia contro i fianchi per la frustrazione:

«Che avete da ridere? Sono serio! Ti straccerò, Mei-Yin-Li, con le mie sole mani! A-ha, ah-hu, wa-chaaaa, ahiii wa-tang! Aiiiiiiiiiiiiiiiii-ya!»

«Certo. Mei, spacca la faccia di questo demente»

«Volentieri» mormorò la guerriera.

Mike scattò in avanti e tentò di tirare un fiacco e goffo sinistro; Mei lo bloccò senza il minimo sforzo afferrandolo con la mano destra e strinse la presa, torcendogli il polso e strappandogli un gemito da femminuccia. Quindi, la donna cinese iniziò una rapida serie di colpi col pugno libero: prima lo colpì ad un occhio, poi alla mandibola e alle costole, facendole scricchiolare, infine sferrò una testata in pieno naso. Lo strattonò per il pugno che teneva ancora stretto e, con una gomitata, gli storse il braccio al centro, facendolo urlare. A quel punto, per concludere quella brevissima lotta vinta in partenza, gli tirò un calcio allo stomaco che lo fece cadere lungo disteso. L’uomo con la bombetta non si mosse più, restando a terra come un sacco di patate: aveva un occhio gonfio, il naso rotto e insanguinato e sei denti in meno per un singolo pugno, perché erano già così cariati e fragili da rompersi con pochissimo. Non riuscì ad alzarsi, non faceva altro che muovere le braccia in modo abbastanza convulso e rantolare parole strascicate e insensate.

«Per favore, Helena, permettimi di continuare – supplicò Mei – Non riesco a sopportare di aver perso di nuovo tutte le cavalcature che ho domato con impegno e fatica per… per mano di questa nullità!»

Nonostante lo sfogo, la sua ira non si era ancora placata. La biologa iniziò a preoccuparsi e decise che era il caso di chiuderla lì: Mike aveva l’aria di essere fragile a livelli penosi, non era il caso di tirare troppo la corda con una tortura gratuita.

«Mei, capisco bene come ti senti, ma…»

«Secondo me non del tutto» protestò l’altra, a denti stretti.

«Nunc sufficit» la riprese Nerva, fissandola torvo e poggiandole una mano sulla spalla per un istante.

La guerriera sembrò in vena di ribattere ancora per qualche momento, ma alla fine tentò di reprimere il suo impulso di vendicarsi e di accontentarsi di quella vittoria: i suoi pugni, finora stretti con tanto vigore che tremavano, alla fine si aprirono e la guerriera smise di serrare i denti. Helena la ringraziò con un sorriso, quindi passò alla fase che aspettava con ansia da quando era approdata su ARK: catturare l’uomo con la bombetta e fargli un altro interrogatorio più fruttuoso. Lo afferrò per i lembi della giacca, gli appoggiò la schiena contro il macigno per farlo rimanere seduto e si accovacciò di fronte a lui per guardarlo in faccia. Lui, tuttavia, non ricambiava lo sguardo: stordito com’era dalle botte, la testa gli ricadeva di lato o in basso e sembrava sul punto di perdere i sensi. Mormorava cose senza senso, strascicando le parole così tanto che non le si distingueva.

«Guardate com’è ridotto! E faceva pure il gradasso…» ridacchiò Helena.

«Immagino che ci debba raccontare una historia interessante su quel centauro verde» ipotizzò Nerva.

«Già. Se non avessimo già scoperto che ARK è connessa in qualche modo ad un Multiverso, forse sarei rimasta traumatizzata… specialmente pensando che sarebbe stato lui a scoprirlo» rispose la biologa.

Pensò di provare a dargli dei ceffoni o di versargli dell’acqua della sua borraccia per farlo riprendere, ma ecco che un nuovo frastuono interruppe tutti: delle esplosioni. Ma quelle non erano il magma che ribolliva e veniva gettato fuori dai camini dei due vulcani in tutta la loro potenza devastante, quelli erano degli scoppi brevi e secchi… delle granate. E provenivano dalla direzione che i ragazzi ed Acceber avevano preso quando il diatrima li aveva inseguiti. Helena si voltò verso i suoi due compagni e ritrovò in loro il suo stesso sguardo preoccupato: che si fossero imbattuti in una minaccia ancora peggiore dei predatori e dell’eruzione? Il nome della possibile minaccia si fece subito largo nelle loro menti.

«Dobbiamo andare a controllare» affermò Nerva.

«Bene, allora andate voi due, io mi occuperò del nostro amico, qui: tanto è fuori gioco»

«D’accordo. Non dimenticare di colpirlo ancora, ogni tanto» rispose Mei-Yin.

Dunque, dopo che la Regina delle Bestie ebbe raccolto di nuovo tutte le sue armi, lei e il centurione partirono di corsa verso il punto da cui provenivano gli scoppi di granata, che continuavano ancora senza cessare. Una volta sola, Helena tornò a concentrarsi sull’uomo con la bombetta rintronato.

“Allora, Yagoobian, come faccio a svegliarti?” si chiese.

Passò diversi minuti cercando in ogni modo di aiutarlo a riprendere i sensi: gli bagnò la faccia, gli schioccò le dita davanti agli occhi, gli sollevò le gambe e le agitò per far circolare il sangue… niente, quei pochi colpi di Mei per lui erano stati così devastanti che sembrava che fosse uscito da una decina di incontri di lotta libera, una cosa di cui Helena non riusciva a capacitarsi. Senza la sua bombetta, quel tizio non valeva davvero un soldo. Le faceva quasi pena, se ci pensava bene. Ma la sicurezza di ARK e del mondo veniva prima e Mike la stava mettendo a rischio: dovevano accertarsi che diventasse innocuo. Finalmente, mentre le esplosioni continuavano, Mike sembrò aprire gli occhi e svegliarsi poco a poco. Helena tirò un sospiro di sollievo, pronta a rimetterlo in riga se gli fossero venute idee stupide mentre lei lo interrogava. Peccato, però, che la natura avesse deciso di mettersi contro di loro ancora una volta: il vulcano rilasciò una seconda colata lavica, la terra tremò ancora. Helena traballò, ma riuscì a mantenersi in equilibrio fino alla fine delle scosse sismiche. Pensò che fosse tutto finito, quando però le parve di sentire il rumore di qualcosa di duro e pesante che rotolava sulle rocce del pendio e si avvicinava sempre di più… levò lo sguardo e vide una scarica di pietre grosse come palle da tennis che rotolavano verso di loro.

«Oh cazzo…» mormorò.

Con tutta l’energia che aveva, cercò di scattare in avanti e mettersi al riparo contro il macigno, accanto a Mike, ma non fece in tempo: uno dei sassi la colpì in testa, stordendola all’istante. Con un gemito, Helena crollò a terra a peso morto, mentre le immagini cominciavano a sfocarsi e sdoppiarsi e tutto diventava nero. Le orecchie le fischiarono e la donna poté sentire il tepore del sangue che cominciava a colare lungo il suo viso dal taglio che la pietra aveva inciso nella sua fronte. Ad un certo punto, subito prima di cedere, riuscì ad udire la risata “malvagia” di Mike e intravide la sua sagoma incespicante che si stagliava di fronte a lei, prima di non poter reggere più e di svenire.

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«Presto, tutti fuori!» esortò Acceber.

Durante la prima fase dell’eruzione, i ragazzi e la figlia di Drof erano rimasti in attesa che il disastro passasse in quella caverna, in compagnia di quegli ienodonti. Inizialmente, tutti loro rimasero immobili e quasi del tutto in silenzio, a parte gli uggiolii degli ienodonti e le fusa nervose di Rexar. Dopo un po’, i tremori finirono e gli ienodonti, annusando l’aria con fare diffidente, uscirono lentamente dalla caverna ignorando il gruppo e scendendo verso la costa. Chloe chiese all’Arkiana se era il caso che lo facessero anche loro; tutti puntarono lo sguardo sulla figlia di Drof, la quale rifletté mordendosi le labbra e maneggiando la collana in TEK di Diana per alcuni secondi, poi si persuase a dire di sì: avrebbero potuto approfittare dell’intervallo di calma tra le varie eruzioni per tornare dagli altri e andare via. Quindi i ragazzi annuirono e, confortando le cavalcature, uscirono dalla grotta. Ma si trovarono di fronte un ostacolo: alcuni canali di lava più a monte erano esondati e adesso i nuovi rigagnoli avevano formato delle nuove ramificazioni superficiali che si univano in nuovi corsi, sbarrando loro la strada: gli ienodonti, spiazzati quando loro, stavano davanti ad un corso di lava tenendo le orecchie abbassate e uggiolando, timorosi.

«Magnifico… non ci voleva!» esclamò Chloe.

«Che ne dite di tornare indietro? Sciogliermi nella lava non è il modo in cui mi piacerebbe morire» disse Sam, asciugandosi il sudore dalla fronte.

«E chi vorrebbe morire così?» domandò la mora.

«Allora torniamo indietro: ho visto della luce in fondo alla caverna, magari c’è un’uscita dall’altro lato!» suggerì Acceber.

«Perché no?» rispose Laura, fiduciosa, accarezzando il collo di Cupcake.

«Qualunque cosa pur di salvarmi da questo Inferno di lava e fumo!» esclamò Chloe.

Così, i quattro rientrarono nella grotta e iniziarono a percorrerla. Si rivelò essere uno stretto corridoio alto e largo qualche paia di metri, senza bivi, che procedeva quasi in linea retta con lievi e dolci salite e discese. La luce menzionata da Acceber era in realtà il Sole (ormai quasi oscurato dalle ceneri che salivano in cielo) che entrava da un’apertura nel soffitto, ma la galleria continuava oltre quel punto e loro proseguirono. Dopo alcuni minuti, raggiunsero un “ponte” di tufo sospeso sopra un fiume di magma sotterraneo che faceva un sacco di luce e produceva ancora più calore, tanto che si sentivano soffocare. Laura ebbe per un attimo la tentazione di guardare giù, ma se ne pentì subito appena il caldo le scottò la faccia come se l’avesse immersa nell’acqua di un pentolino su un fornello acceso: meglio lasciar perdere la roccia fusa in tutti i modi possibili. Le pareti, in quella conca scavata dal magma, erano molto più larghe: si trovavano in una specie di stanza sferica al centro dello stretto corridoio. Guardando ai lati, videro che in dei ripiani scavati nei muri riposavano delle megalanie, enormi varani di caverna dalla saliva velenosa e con robustissimi artigli. Se ne stavano rintanate in quegli incavi, sia per ripararsi dall’eruzione che per godersi il calore della grotta.

«Se vi mordono, vi attaccano la megarabbia: se si avvicinano, scappate!» li mise in guardia Acceber.

«Ehm… megarabbia?» mormorò Sam, sconcertato.

«Ricordo di averla letta nell’enciclopedia! I sintomi sembrano davvero orribili…» commentò Laura.

«OK, non sapevo che esistesse una versione “mega” della rabbia, ma ora lo so e ho ancora più voglia di trovare un posto sicuro» disse Chloe, agitatissima.

Acceber annuì comprensiva, spronando il suo tilacoleo coi talloni per fargli accelerare il passo. Per loro fortuna, quando imboccarono di nuovo il corridoio, raggiunsero una via d’uscita dopo alcune curve, come sperato dalla figlia di Drof. Il paesaggio che videro li rassicurò molto: davanti a loro c’era una discesa poco ripida, coperta da uno strato di morbida cenere profondo tre dita e, in fondo… una distesa verde: prati, cespugli, alberi e stagni. Erano riusciti a tornare alla regione lussureggiante passando sotto l’eruzione, evitando colate di lava, fumate tossiche e piogge di lapilli. Da lì in poi, tornare al villaggio sarebbe stato una passeggiata. Inoltre, vedere il cielo azzurro senza volute di fumo rese il loro sollievo ancora più grande. Se la puzza di zolfo non fosse ancora più pungente che mai, avrebbero avuto voglia di inspirare a fondo e buttare fuori tutta la tensione con dei larghi sorrisi. Laura, però, si perse subito nei suoi pensieri, cominciando a rimuginare sui loro attuali problemi lasciati in sospeso:

“Spero che Helena, Mei-Yin e Nerva capiscano che siamo riusciti a tornare qui… avranno già sconfitto quegli uccellacci? Be’, suppongo di sì: non sembravano in difficoltà. Magari troveranno le nostre tracce e ci seguiranno? Speriamo. Forse ci ritroveremo al villaggio, ma se ci fossero degli imprevisti? Potrei chiedere ad Acceber di tornare a cercarli, se non li rivediamo per troppo tempo”

«Ehi, secchiona! Ti sei incantata? Sei presa a chiederti se i dinosauri si sono estinti a causa dei vulcani?»

La voce distante di Sam la riportò coi piedi per terra, assieme ad un muggito di Cupcake: mentre era distratta, gli altri si erano riavviati senza notare che lei stava ferma e ora erano ad una decina di metri più a valle di lei. Laura si riscosse e spronò il pachicefalosauro, con un sorrisetto imbarazzato mentre preparava la sua solita predica per Sam:

«Per la cronaca, i dinosauri si sono estinti a causa dell’asteroide! E ti dirò di più: in realtà non cadde sulla Terra sessantacinque milioni di anni fa, ma sessanta…»

Prima che finisse e che si ricongiungesse al gruppo, qualcosa di piccolo e rotondo cadde dall’alto e rotolò nella polvere, fermandosi tra lei e gli altri. Tutti lo guardarono, ad occhi sbarrati: sembrava una piccola palla, grande come una da tennis, fatta di legacci di cuoio intrecciati tra loro come elastici. Ma c’era un piccolo oggetto sulla cima della palla, qualcosa che sembrava spezzato, come… come una spoletta. Appena capirono, tutti si sentirono mancare: quella era una granata. Una versione primitiva, improvvisata e realizzata con materiali trovati in natura e lavorati alla meglio, ma restava sempre una bomba a mano. Ed era innescata.

«Merda!» gridò Sam, cercando di afferrare Chloe e gettarsi a terra assieme a lei.

La granata esplose, scaraventando via Sam e Chloe e disarcionando Acceber da Rexar. Sam era riuscito a proteggere Chloe dall’esplosione coprendola col proprio corpo e ora giaceva disteso su un fianco, ancora avvolto a lei. Aveva dolori su tutta la schiena e in una gamba e, quando provò ad alzarsi, ricadde colto di sopresa per le fitte. Chloe si tirò su e sbarrò gli occhi: Sam aveva delle piccole schegge della granata incastrate nella pelle. Non sembravano entrare in profondità nella sua carne, ma erano comunque delle ferite serie. Acceber, incredibilmente, non si era fatta nulla: era confusa e impolverata, ma ancora senza neanche un graffio. Rexar aveva delle schegge nei fianchi e scuoteva la testa perché gli fischiavano le orecchie. Laura era la più lontana, quindi non subì danni, ma Cupcak si spaventò comunque e rischiò di imbizzarrirsi.

«Io… sono… sto bene! Ma come?» farfugliò Acceber, incredula.

Cercando di raccogliere le idee, si ricordò all’improvviso di un dettaglio: la collana di Diana. Se la guardò e vide che la piccola pietra rossa che decorava il ciondolo in TEK era luminosa. L’aveva protetta dall’esplosione come aveva fatto coi pugni di fratello. Suo fratello…

«Oh no...» mormorò, impallidendo, quando capì da dove veniva quella granata.

Poco dopo, uno pterosauro che i ragazzi non avevano ancora visto sull’isola planò verso il basso e atterrò in mezzo a loro: un tropeognato, dal caratteristico becco e con una sorta di balista montata sulla sella. A cavalcarlo, come volevasi dimostrare, c’era Gnul-Iat, con indosso dei semplici abiti di tessuto e armato fino ai denti al punto che sembrava che le sue armi fossero un secondo strato di vestiti. Era insolito che fosse accompagnato solo da una creatura e non da un intero contingente, ma riflettendoci poterono capirne il motivo: inseguendoli in fretta da un’isola all’altra, non aveva avuto tempo di radunare altre bestie. Il Ladro di Innesti guardò prima i ragazzi e poi Acceber con aria di sufficienza:

«Sai, sorellina, dopo tutte le volte che mi sei sfuggita pensavo che non potessi cadere più in basso di così. Ma su quel ghiacciaio è saltato fuori pure che sei diventata invulnerabile all’improvviso! Forse sono talmente furioso che non sono caduto in basso, ma sono tornato al punto di partenza» disse, stizzito.

Sam, stringendo i denti, per il dolore, si mise seduto reggendosi a Chloe e si rivolse ad Acceber:

«Ehi, è normale che parli così tanto?»

Gnul-Iat reagì all’istante: sfilò un piccolo coltello di pietra da una cinghia al polpaccio sinistro e lo lanciò in un lampo, colpendo Sam alla spalla destra. Il rosso gridò e finì di nuovo disteso, stringendosi la spalla ferita senza però togliere la lama.

«Zitto, tu! Ne ho anche per voi tre» minacciò.

«Sam!» esclamò Laura.

Fece galoppare Cupcake dai suoi amici e scese in fretta quando li raggiunse, atterrita, accucciandosi per aiutare Chloe a soccorrere Sam.

La figlia di Drof si alzò in piedi, mentre Rexar si posizionò al suo fianco e si mise in posa offensiva, coi muscoli tesi, le zanne scoperte e le orecchie abbassate, fissando il tropeognato: era pronto a scattare all’attacco da un momento all’altro, attendeva solo un ordine della padrona.

«È me che vuoi, Gnul. Non coinvolgerli» supplicò Acceber.

«Cosa? Sei stata tu a coinvolgerli, viaggiando con loro! Dovresti sapere che chiunque io veda diventa una preda» replicò lui, sprezzante.

Nel frattempo, approfittando della sua distrazione, Laura e Chloe avevano cominciato a trattare le ferite di Sam: avevano tolto le schegge della bomba e il coltellino di pietra e ora stavano tamponando e coprendo e disinfettando le ferite con delle bende e del muco di acatina che Chloe aveva comprato nel villaggio dei Teschi Ridenti. Andavano di fretta a causa della situazione, il trattamento non era affatto perfetto, però era sempre meglio che lasciar perdere le ferite. Mentre loro lo medicavano, Sam teneva d’occhio i due fratelli per vedere se lo psicopatico cercava di attaccare. Appena finirono il trattamento, Gnul-Iat scese dal tropeognato ed emise un fischio: lo pterosauro si alzò in volo e stuzzicò Rexar graffiandogli il dorso con le zampe e beccandogli la testa. Il tilacoleo ruggì e tentò di attaccarlo balzando. Le due creature cominciarono ad allontanarsi, con Rexar che compiva alti salti per prendere il tropeognato e il volatile che saliva e scendeva per schivarlo. Ad un certo punto, raggiunsero la foresta della regione florida e Rexar cominciò ad arrampicarsi sugli alberi per fare salti più alti, continuando però a fallire…

«Acceber, attenta!» esclamò Sam.

La ragazza si era distratta ad osservare il suo leone marsupiale che combatteva, un errore fatale: Gnul-Iat prese altre due granate da una bisaccia che aveva a tracolla, le innescò e le gettò ai piedi della sorella. Lei non ebbe il tempo di fare nulla quando esplosero: fu scaraventata violentemente fino al margine della foresta e rotolò sulla polvere.

«Oddio, no!» gridò Laura, terrorizzata.

Tuttavia, si accorsero presto che ancora una volta le esplosioni non avevano fatto neanche un graffio alla figlia di Drof. L’Arkiana, con le orecchie che fischiavano e vedendoci doppio, si guardò le mani e si toccò i fianchi e le gambe per confermare a se stessa di non essersi fatta nulla, poi guardò la collana TEK: la pietra rossa stava lampeggiando. Dopo qualche secondo smise, ma rimase accesa. Non capiva perché avesse cominciato a proteggerla solo a partire dallo scontro sul Dente Ghiacciato, ma era comunque contenta di quell’invincibilità.

«A quanto pare ho scoperto il tuo trucco…» ghignò suo fratello, intuendo cosa significasse la luce intermittente.

Acceber, sentendosi improvvisamente al sicuro, ebbe un lampo di coraggio e lo fissò a testa alta, sfidandolo:

«Esatto: non puoi più farmi del male. Lanciami contro tutto quello che hai, perderai solo tempo! Qui non c’è neve in cui affondarmi la faccia e soffocarmi!»

«No, ma questo non significa che gli scoppi non ti danno fastidio»

Allora, Gnul si scatenò del tutto: cominciò a prendere rapidamente tutte le granate che aveva e a lanciargliele, anticipando il punto in cui lanciarle quando lei tentava di scappare in una direzione. La figlia di Drof veniva continuamente scaraventata da un punto all’altro con a malapena il tempo di rialzarsi ogni volta, mentre l’area si riempiva di buchi e il polverone si sollevava e si infittiva. Ad un certo punto, Acceber non si rialzò più, troppo stordita.

«Oh, è così che si strapazzerebbero le uova se fossero persone! Prendi queste, stupida allergica alla morte! Sì!» la canzonava Gnul, con gli occhi sgranati e un’espressione da maniaco.

Chloe, che aveva osservato terrorizzata coi suoi amici fino a quel momento, ebbe improvvisamente l’impulso di fare qualcosa: non potevano lasciare che quel sadico torturasse Acceber così. Inoltre, era solo ed era distratto… di colpo, la mora si alzò e iniziò a camminare risoluta verso Gnul-Iat, che le dava le spalle.

«Chloe, no! Che stai…» tentò di fermarla Laura.

L’amica la ignorò. La bionda stava per seguirla, ma Sam la trattenne per un braccio, scuotendo la testa. Gnul era così distratto ad insultare Acceber da non accorgersi della straniera alle sue spalle. Chloe lo toccò alla spalla con un dito per attirare la sua attenzione, per poi sferrare un destro con tutte le sue energie sul naso del pazzo appena si girò a controllare. Gnul sobbalzò, grugnì e fece un passo indietro, perdendo una goccia di sangue da una narice: non si era fatto praticamente nulla. Si pulì il naso e fissò Chloe, quasi stupito. Non ci volle nemmeno un istante perché Chloe fosse di nuovo pervasa dalla paura:

«Ehm…» mormorò.

Subito dopo, Gnul-Iat le tirò un fulmineo pugno alla gola, togliendole il respiro. Chloe sgranò gli occhi quando si sentì come annegare all’improvviso; cadde a terra, tenendosi le mani sul petto e sforzandosi di inspirare, annaspando per riprendersi dalla botta. Laura e Sam si precipitarono da lei, cercando di aiutarla. La misero seduta, poco prima che lei riuscisse finalmente a tornare a respirare normalmente, anche se aveva il fiatone.

«Che ti è saltato in mente?! Quello ti ammazza!» esclamò Sam.

«Infatti, stranieri, è stupido correre in faccia alla morte invece di scappare: così mi rovinate il divertimento» affermò Gnul-Iat, sghignazzando.

Acceber, col respiro ancora affannoso e le orecchie fischianti, strinse i pugni nella polvere e, faticando a causa degli acciacchi dovuti alle onde d'urto, si alzò e si mise in ginocchio, fissando il fratello con odio e amarezza; lasciò andare tutto il suo dolore, perché nonostante tutte le volte che si era già sfogata contro di lui affrontandolo nei giorni precedenti non era mai abbastanza per la sua anima devastata:

«Gnul, tu sei più mostruoso di qualunque animale che vive sull'isola, in confronto a te Zanna Rossa è docile come un mesopiteco... mi vergogno di essere tua sorella! Tu sei pazzo, malato, isterico e perfido!»

Gnul-Iat si strinse nelle spalle, con aria innocente:

«Grazie, ognuno fa quello che può»

Detto ciò, prese l'ultima granata che aveva, la innescò e la lanciò. L’onda d’urto la mandò a sbattere contro l’albero più vicino e la giovane arkiana rimase seduta con la schiena poggiata sul tronco, ad un passo dallo svenimento. A quel punto, con tutta calma, Gnul cominciò ad avvicinarsi a lei; a metà strada, l’attenzione di tutti fu attirata da un ruggito da pantera e si voltarono verso sinistra: Rexar era riuscito a sbranare il tropeognato e ora si stava avvicinando di corsa a Gnul-Iat, scoprendo le zanne. Ma lui aveva previsto che sarebbe successo, era pronto: prese la sua fidata pistola a pietra focaia da una fondina sul fianco e fece fuoco: sparò a terra, a pochi centimetri dal tilacoleo, in modo da spaventarlo. Funzionò, infatti il marsupiale sobbalzò rizzando il pelo sulla schiena, soffiò e si precipitò nella foresta per lo spavento, svanendo tra le piante.

«Rexar…» mormorò Acceber, tentando invano di fermare il tilacoleo.

«Perché non l’ha ucciso? Avrebbe potuto colpirlo da lì!» si domandò Laura, a bassa voce.

«Che ne so? È un malato di mente, a volte non c’è un motivo» le rispose Sam, sussurrando.

Gnul-Iat li sentì confabulare e li fissò minaccioso, prendendo il suo famigerato falcetto, e intimò loro di non osare interromperlo, altrimenti avrebbe aperto le loro pance una ad una dopo aver mozzato le loro mani. I tre restarono in silenzio, limitandosi a scambiarsi sguardi intimoriti nel tentativo di incoraggiarsi a vicenda. Gnul-Iat andò da Acceber, la afferrò per i capelli e la gettò a terra. A quel punto, col falcetto, tagliò la cordicella della collana e gliela sfilò, quindi la sbatté a terra e la pestò col piede in segno di disprezzo.

«Ora niente può salvarti da me, sorellina» sibilò, rigirandola sul dorso per costringerla a guardarlo.

«No!» gridò Laura, sentendosi impotente.

Fece per commettere lo stesso errore di Chloe, ma i suoi amici la bloccarono, ricordandole le minacce appena fatte dall’assassino. Gnul-Iat trascinò Acceber fino a loro, fermandosi a pochi passi dai tre, e tenne sua sorella sollevata per i capelli. La figlia di Drof cominciò a strillare, sia di paura che di dolore, e cominciò a sbracciarsi e scalciare per liberarsi, cercando di graffiarlo e colpirlo per farsi liberare, ma invano. Lui rivolse un sorriso di soddisfazione a Laura, Chloe e Sam e chiese:

«Ditemi, avete mai visto di persona quanto è lungo un intestino? Che ne dite se ve lo faccio scoprire? Dubito che a mia sorella serva obiettare…»

«Lasciami!» strillò lei, quasi piangendo.

«No! Non farlo!» urlarono invece le ragazze.

«Fottiti!» sbraitò Sam, esasperato.

Fu in quel momento, però, che Laura si ricordò di un dettaglio fondamentale: scattò in piedi, prese fiato e fischiò mettendosi due dita in bocca. Tutti si voltarono sgomenti verso di lei, compresi i due fratelli Ydorb. Prima che le chiedessero che diamine stava facendo, sentirono dei passi e un muggito: era Cupcake. Il pachicefalosauro obbedì all’istante all’ordine di attaccare, facendosi passare il panico delle esplosioni che l’aveva tenuto fermo finora, e puntò Gnul tenendo il cranio abbassato. Il Ladro di Innesti, imprecando a denti stretti, gettò di lato sua sorella e poi rotolò nella direzione opposta: il dinosauro passò in mezzo a loro, inchiodando con le zampe quando capì di averli mancati. Gnul-Iat inveì ancora e si sfilò un arco lungo di tracolla, incoccando una freccia in ossidiana e mirando al petto dell’erbivoro. Quando il pachicefalosauro sbuffò e partì di nuovo alla carica, tirò il dardo. A causa della fretta, però, sbagliò la mira e la freccia colpì il cranio a cupola, frantumandosi. Tuttavia, una scheggia entrò nell’occhio di Cupcake di rimbalzo: l’erbivoro gemé dal dolore e inciampò, rotolando goffamente sul terreno cosparso di cenere prima di fermarsi e rimanere disteso su un fianco, ancora confuso.

“Merda! C’era così vicino…!” pensò Laura.

Gnul-Iat si voltò di nuovo verso di loro, questa volta era davvero furioso:

«Adesso avete rotto sul serio, maledetti…» ringhiò.

Anche questa volta, però, fu interrotto… quando una freccia giunta da monte gli trafisse la parte molle della spalla sinistra, rimanendo incastrata nella carne. Gnul-Iat gridò a gran voce per il dolore, mollando l’arco lungo e stringendo la punta della freccia, che sporgeva dal lato anteriore della sua spalla. I tre ragazzi e Acceber seguirono la traiettoria della freccia con lo sguardo, increduli, e tirarono un sospiro di sollievo quando videro da dove veniva quel dardo: in cima al pendio, all’uscita della grotta da cui erano venuti, erano apparsi Mei-Yin-Li e Gaius Marcellus Nerva. La Regina delle Bestie imbracciava la balestra, mentre il centurione brandiva la spada e il suo scudo.

«Sono arrivati! Grandioso!» esultò Chloe, sollevata.

«Bene bene bene, arriva la cavalleria…» commentò Sam, con le mani sui fianchi.

Acceber, invece, mentre i loro due soccorritori scendevano di corsa verso di loro, sorrise e cominciò a fare delle specie di brevi preghiere di ringraziamento ai quattro dèi arkiani nella sua lingua: Laura poteva vedere nel suo sguardo l’immenso sollievo per essere scampata di nuovo, per un soffio, alla follia omicida di Gnul-Iat. Era stato difficile, ma grazie ai loro insistenti diversivi erano riusciti a prendere abbastanza tempo per consentire a Mei e Gaius di giungere sul posto prima che fosse troppo tardi: ora erano salvi e potevano contare su di loro, la ragazza se lo sentiva.

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