Family business

di Darlene_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** BULL(ying)SHIT - Archie & Jughead ***
Capitolo 2: *** Sister, you're not alone - Cheryl/Jason ***
Capitolo 3: *** The nightmare - Archie/Fred ***
Capitolo 4: *** Ossa stanche e bolle di sapone - Cheryl/Nana ***
Capitolo 6: *** #febbre: Jug/FP ***



Capitolo 1
*** BULL(ying)SHIT - Archie & Jughead ***


Storia scritta per il gruppo
Hurt Comfort - fanfiction e fanart
 
#Summerbingochallenge2019
 
 


BULL(ying)SHIT
 


 
Personaggi: Jughead, Archie
Prompt: 78 bullismo





 
 
Nota: il personaggio di Jughead potrebbe risultare OOC, ma bisogna tener conto che in questa storia è più piccolo rispetto al periodo della serie televisiva.



 
 
 
 
 
All’apparenza, per un turista poco informato, Riverdale poteva sembrare un ridente luogo dove far crescere i propri figli, ma se si scavava un poco più a fondo si scopriva un mondo spaccato a metà: da un lato il Northside, ricco e accattivante, con quelle sue belle villette a schiera, l’ufficio del sindaco e delle scuole prestigiose, dall’altra parte il Southside, squassato da lotte intestine tra bande, povertà e abbandono.
Jughead Jones era preso esattamente a metà tra quei due mondi che non avevano nulla in comune e sapeva che, per sopravvivere, bisognava passare inosservati, tenere la testa bassa e non infastidire nessuno. Si potrebbe pensare che sia facile, ma non lo è quando sei un ragazzino smilzo che porta un buffo cappello e hai interessi diversi da tutti i tuoi coetanei.
Era una mattinata come le altre quando, al cambio dell’ora, l’undicenne Jughead si apprestava a posare il materiale dell’ora precedente nel suo armadietto. Fissava le sue scarpe sbiadite e fuori moda, cercando di non attirare troppo l’attenzione, quando qualcuno alle sue spalle lo spinse buttandolo a terra. Intorno a lui si levò un coro di risatine mentre i libri finivano a terra, lasciando sfuggire dalle loro pagine innumerevoli fogli scarabocchiati da una scrittura veloce e spesso incomprensibile.
Mike un ragazzone già completamente sviluppato (probabilmente frequentava l’ultimo anno), li raccolse, leggendo qualche breve frase per divertire il pubblico.
“Piccola principessa, ti piace raccontare favolette?” Schernì Jughead con un tono di superiorità, per mostrare a tutti la sua leadership.
L’altro si rialzò lentamente, pulendosi le ginocchia dei pantaloni e continuando a tenere gli occhi fissi su quelle piastrelle gialline del corridoio. Sapeva di dover ignorare quelle cattiverie gratuite, anche se voleva solo urlare e tirare un pugno su quel brutto muso.
Non ottenendo risposta Mike appallottolò la carta, strappandone alcuni pezzi.
“Se faccio così cosa fai? Ti metti a piangere, sfigato?”
A quel punto Jug non riuscì a trattenersi. Cercò di mantenere un tono pacato e noncurante, rispondendo: “Sai, dovevo proprio buttarli, mi hai fatto un favore. Se vuoi puoi leggerli, o forse no perché il mio lessico è troppo complicato per uno stupido come te.”
Nessuno, nel corso degli anni, aveva mai avuto il coraggio di provocare Micheal Smith e ciò lo lasciò di stucco.
Per un attimo il pubblico di studenti che si era radunato per assistere alla scena restò in silenzio. L’intero atrio sembrava congelato: da una parte facce stupite, dall’altra quelle arrabbiate dei bulli. Ci volle solo un secondo prima che tutto il branco, seguendo un comando di Mike, saltasse addosso a Jughead. Lo riempirono di calci e pugni, lo fecero cadere a terra, tirandogli i capelli e sedendosi a cavalcioni sul suo esile torace per il solo gusto di renderlo completamente sottomesso a loro.
La folla si accorse di quello che stava accadendo, ma nessuno dei presenti ebbe il coraggio di intervenire o, almeno, di chiedere aiuto. Restavano immobili ad osservare, chiedendosi come sarebbe andata a finire.
Vedendo che Jug non reagiva, ben presto gli aggressori si stufarono, disperdendosi in mezzo al gruppo di adolescenti che si dirigevano verso la lezione successiva.
Quando il corridoio fu finalmente svuotato, Jones si alzò, senza degnarsi dei libri o del berretto abbandonato a terra, e corse il più lontano possibile da quel tragico episodio.
 
Il solaio era un luogo sconosciuto a molti, dominato da strati di polvere ed insetti, ma Jug aveva scoperto quel posto dopo solo due settimane dalla sua iscrizione a scuola, lo considerava il suo rifugio sicuro, lontano dalle occhiate e dai pregiudizi altrui, inviolabile da parte di chiunque.
Si asciugò il rivoletto di sangue che scendeva dal suo naso, pulendosi con la camicia. Seduto conto delle travi di legno raccolse le gambe al petto e cominciò a piangere. Era lì da parecchio tempo quando udì dei passi leggere in avvicinamento. Si asciugò gli occhi, cercando di darsi un contegno.
“Jug stai bene?” La chioma rossa di Archie comparve, seguita dal corpo del suo migliore, nonché unico, amico.
Lui annuì, non voleva farsi vedere in quelle condizioni, anche se sapeva che l’altro non lo avrebbe mai raccontato a nessuno, né lo avrebbe preso in giro.
Archie trasse delle bende e del disinfettante dalle tasche della felpa e si sedette accanto al moro.
“Le ho rubate in infermeria, non se ne è accorto nessuno.”
Jug sorrise appena, apprezzava molto il gesto, ma non aveva voglia di parlare.
Archie lo fece voltare per averlo di fronte e gli prese il viso tra le mani. Non aveva mai curato nessuno, ma suo papà Fred gli medicava spesso le sbucciature sulle ginocchia e mimò i suoi gesti. Prese il disinfettante e ne impregnò un batuffolo di cotone, avvisando l’amico che avrebbe sentito un po’ di bruciore. Strofinò leggermente il graffio sullo zigomo e il labbro spaccato. Pensò che forse necessitava di punti di sutura, ma non sapeva come fare e poi non usciva così tanto sangue. Ripetè lo stesso trattamento anche sul gomito e sul ginocchio, avvolgendoli in una benda pulita. I suoi gesti, sebbene insicuri erano delicati, accompagnati da piccole spiegazioni o incitazioni a tenere duro. Quando finalmente ebbe terminato si mise a gambe incociate e asciugò una lacrima non ancora seccata che colava lungo il naso di Jug.
“Chi è stato a farti questo? Potremmo parlarne al preside oppure a mio padre…”
L’altro scosse la testa.
“Devi denunciarli, altrimenti continueranno a farti del male!” Già all’epoca Archie Andrews aveva un senso della giustizia decisamente spiccato.
“Non servirà a nulla, se non a farli arrabbiare ancora di più, e poi non sono messo così male, posso sopportare.”
“Jug…” Cercò di convincerlo il rosso, ma fu subito fermato.
“Sono abituato. Qualche volta anche mio padre…” Non completò la frase. “Non è cattivo, è solo che beve tanto e arriva a casa arrabbiato.”
Archie gli circondò le esili spalle con un braccio, come a volerlo proteggere.
“Per questo stavi piangendo?”
Come risposta ottenne solo un cenno negativo con il capo. Restarono in silenzio ad ascoltare i rumori provenienti dalle classi sottostanti. Probabilmente li stavano cercando, forse li avrebbero puniti, ma in quel momento nulla contava.
La campana del convento delle sorelle silenti battè dodici rintocchi: presto sarebbero potuti uscire da scuola e fuggire, almeno per quel pomeriggio, dai problemi ad essa legati.
“Mamma se ne è andata.” Lo disse a bassa voce, era la prima volta che lo faceva, perché per diversi giorni era rimasto nella convinzione che tenersi dentro quelle parole le avrebbe rese meno reali.
Archie strabuzzò gli occhi. Sapeva che Gladys e FP avevano dei problemi, ma non pensava fino a quel punto.
“Ha preso JB ed se ne è andata senza nemmeno salutarmi.”
Il rosso si sporse in avanti, abbracciando il suo compagno di scuola.
“Oh, Jug, mi dispiace tanto!”
“Non è colpa tua.” Rispose secco Jones.
A quel punto Archie capì il motivo del pianto e l’essersi rifugiato in soffitta: Jughead si sentiva colpevole.
“Nemmeno tua. Gladys ed FP hanno i loro problemi. Anche i miei genitori litigano spesso.” Il suo tono era rassicurante, anche se incerto: anche lui temeva che sua madre e suo padre avrebbero chiesto il divorzio e ne era spaventato.
“Lei mi ha abbandonato! Mi ha lasciato qui, con un post it in cui mi chiedeva scusa, ma non poteva portarmi con lei!”
A quel punto tutti i muri che Jug si era costruito caddero e cominciò a piangere. Pianse per la perdita di Gladys e della sua amata sorella, per il dolore causatogli dal padre e per tutte le volte che si sentiva strano ed inadeguato. Archie rimase accanto a lui, senza parlare, tra loro non c’era mai stato bisogno di dialoghi per comprendersi.
La campanella decretò la fine della giornata scolastica, ma loro restarono ancora in quel solaio polveroso, uno abbracciato all’altro, in quella che sarebbe diventata la loro eterna promessa di amicizia.
Quella notte Jug dormì a casa di Archie e nessuno, nemmeno FP, ebbe nulla da contestare. In quel triste giorno Jug e Archie erano diventati fratelli.

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Capitolo 2
*** Sister, you're not alone - Cheryl/Jason ***


Storia scritta per il gruppo
Hurt Comfort - fanfiction e fanart
 
#Summerbingochallenge2019



 
SISTER YOU’RE NOT ALONE
 
 




 
Le sue scarpette rosse pestavano le foglie secche, producendo uno scricchiolio che mise in allarme tutti gli animali del sottobosco, facendo fuggire lucertole e piccoli insetti.
Cheryl correva nonostante le dolessero i polpacci, obbligando le sue gambe a non fermarsi mai, come se ne andasse della sua stessa vita e, in un certo senso, era proprio così. Sentiva l’impellente necessità di allontanarsi il più possibile da Thornhill, quel lugubre palazzo in cui le persone erano più gelide delle stanze dagli alti soffitti che i caminetti non riuscivano mai a scaldare del tutto. Scappava da quella donna che aveva imparato a chiamare madre, ma che, per lei, non aveva mai avuto premure o carezze e dalle sue parole che ferivano più di una lama affilata.
Mentre fuggiva attraverso i sentieri circondati da aceri, Cheryl sentiva ancora quei terribili vocaboli che le aveva detto Penelope con tono rabbioso: sbagliata, disonore, malata; ma anche impura, sporca, deludente. Aveva anche aggiunto una parola che Cheryl, con i suoi dieci anni appena compiuti, proprio non aveva capito: lesbica. Sua madre l’aveva pronunciata con disprezzo e orrore, come se si trattasse di una malattia contagiosa. L’unica cosa che la bambina dai capelli rossi aveva compreso era che non avrebbe mai più potuto incontrare Hetel, la sua migliore amica, con cui aveva condiviso momenti speciali.
Le lacrime ormai le inondavano il viso, offuscandole la vista e, proprio per questo motivo, Cheryl non notò l’intrico di rami caduti a terra e ci inciampò. Provò a rialzarsi, ma aveva il piede incastrato, così cominciò a scalciare e strattonare, ma ogni tentativo fu vano.
Urlò, chiedendo aiuto, nella vana speranza che qualcuno la salvasse, ma il bosco era deserto. Stremata si abbandonò sul terreno, piangendo le sue ultime lacrime mentre il freddo le si insinuava nelle ossa.
 
Passarono le ore e il cielo all’orizzonte cominciò ad imbrunire. La bambina sentì dei passi e una voce infantile, a lei ben nota, urlava il suo nome. Non aveva più forze per gridare, l’adrenalina le era ormai scivolata di dosso e riuscì a malapena a gemere un nome: Jason.
Il suo gemello si accovacciò accanto a lei, preoccupato. Si tolse immediatamente la giacchetta per posarla delicatamente sul corpo infreddolito di Cheryl. Le scostò i capelli dal viso, passandole i polpastrelli sulle guance.
“Va tutto bene, ci sono io adesso. Guardami, Cheryl.”
Lei teneva gli occhi bassi, non aveva il coraggio di vedere il viso di Jason. Temeva che vi avrebbe letto disgusto e orrore, ma quando lui le alzò il mento e si ritrovarono a guardarsi vi era solo dolcezza e dolore. Le districò la caviglia dall’intrico di rami e la strinse a sé per donarle calore.
Restarono abbracciati per molto tempo: solo loro potevano capire quanto fosse difficile vivere a Tornhill. Quando il cielo si dipinse di nero, Jason esortò la gemella ad alzarsi, sarebbero tornati a casa, ma le promise che avrebbe dormito con lei.
Cheryl provò a zoppicare verso il palazzo, sorreggendosi all’altro, ma era troppo scossa per camminare. Jason la prese in braccio, nonostante non fosse così facile per lui. Sgattaiolarono in casa.
Quella notta, coricato accanto alla sorella, Jason giurò a se stesso che avrebbe  sempre protetto la sua dolce e fragile Cheryl.
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** The nightmare - Archie/Fred ***




Storia scritta per il gruppo
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THE NIGHTMARE
 



L’urlo squarciò la notte come un tuono in una placida serata estiva. Fred si svegliò di soprassalto e subito si mise a sedere, cercando di capire cosa stesse accadendo. Si strofinò gli occhi ancora cisposi, lanciando uno sguardo alla sveglia posta sul comodino: era notte fonda. Dalla stanza accanto provenne un altro grido e, senza esitazioni, vi si precipitò. Con i piedi scalzi entrò nella camera di Archie dove il ragazzo dormiva sonni inquieti. Fred si sedette sul letto, carezzandogli dolcemente la schiena, ma il figlio continuava ad agitarsi, pronunciando frasi incomprensibili. Ripeteva che il gioco non era finito, il re grifone stava vincendo.
“Archie? Archie svegliati!” Suo padre lo scosse delicatamente.
Il ragazzo si svegliò di colpo, spalancando gli occhi colmi di terrore. Non si accorse subito di trovarsi nella sua stanza e cominciò a farfugliare: “Dobbiamo scappare Mad Dog. Joaquin è un traditore, lui è un servitore, ha un coltello!”
Fred gli posò entrambe le mani sulle spalle, per rassicurarlo.
“Sei a casa, adesso. Non ti devi preoccupare di nulla, ci sono io a proteggerti.”
“Papà?” Domandò con voce tremante. Era scosso dai brividi e gocce di sudore gli colavano sulla fronte, mentre il cuore continuava a martellare all’impazzata.
Lo sguardo di suo padre si addolcì e per un attimo a Fred sembrò di avere di fronte Archie bambino, quando, svegliatosi dopo un brutto sogno, chiedeva di poter dormire con i genitori. Lo strinse forte a sé, come se quell’abbraccio potesse, in qualche modo, cancellare tutte le sofferenze dell’ultimo anno.
Restarono immobili a lungo, osservati solo dalla luna. Archie annusò il profumo del padre, che da sempre gli ricordava casa. Quanto gli era mancato! Innumerevoli mattine si era svegliato nella sua cella sperando di sentire l’odore di pancake cosparsi di succo d’acero e la sera si era coricato immaginando di trovarsi nella sua stanza, preoccupato per una verifica. Quasi non gli sembrava vero di essere tornato e voleva godersi tutti quei momenti di familiare quotidianità.
Sapeva che la mattina successiva avrebbe dovuto nuovamente indossare la maschera da duro per affrontare le nuove difficoltà che si erano presentate, ma per quella notte voleva tornare un po’ bambino e godere del calore della famiglia.
Chiese a suo padre di restargli accanto ancora per un po’ e Fred acconsentì: nulla gli faceva più piacere che trascorrere del tempo con suo figlio. Gli rimboccò le coperte, permettendosi una carezza sui capelli umidicci.
L’indomani mattina Archie si svegliò a causa della luce proveniente dalla finestra; accanto a lui, seduto su una scomoda sedia, suo padre dormiva ancora. Il ragazzo sorrise, in fondo gli mancava essere solo un adolescente qualunque.




Finalmente sono al terzo capitolo di questa raccolta e mi sono resa conto di non aver mai scritto una nota autrice. 
Come avrete capito questa raccolta nasce per una challenge cui partecipo e il tema principale sono i rapporti tra i personaggi più amati della serie tv. Si alterneranno storie a se stanti con missing moment. Sono di varia lunghezza, ma tutte tra le 400 e le 1000 parole. La raccolta conterrà un numero di storia per ora non ancora definito e non seguiranno un ordine cronologico (ma potrebbero rispettarlo in futuro, a raccolta terminata). 
Questo è tutto! Spero che sia di vostro gradimento :)

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Capitolo 4
*** Ossa stanche e bolle di sapone - Cheryl/Nana ***


 
 
Storia scritta per il gruppo
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#Summerbingochallenge2019
 
 
 
OSSA STANCHE E
BOLLE DI SAPONE





 
Si tolse i guanti e li appoggiò sul mobile dell’ingresso, quindi abbassò il cappuccio liberando la rossa chioma. Cheryl rispose al messaggio della sua TT, già pregustando un bel bagno caldo e rigenerante.
“Sei tu?” Domandò una voce arrochita proveniente dalla cucina.
La ragazza entrò nella stanza e salutò Nana Rose con un bacio sulla guancia.
“Hai bisogno di qualcosa?”
L’anziana signora arricciò le labbra in quello che, con un po’ di fantasia, si sarebbe potuto definire un sorriso. “Mi porteresti dell’acqua?”
In un attimo Cheryl le porse un bicchiere, posandolo tra le dita nodose. Solo in quel momento si accorse che la coperta distesa sulle gambe della nonna era umida. Trattenne a stento un’espressione di disgusto, ancora non si era abituata a certe incombenze legate a Rose. Decise di non farglielo notare, era sempre stata una donna attenta alla sua igiene ed era si cura che le desse fastidio essere trattata come una bambina piccola, perciò le propose un bagno caldo che lei accettò volentieri.
Quando l’acqua fu pronta, profumata con aroma d’acero, la ragazza aiutò la nonna ad alzarsi dalla sedia a rotelle. Le tolse delicatamente i vestiti, alcuni di essi ormai zuppi, cercando di non graffiarla con le unghie fresche di manicure, quindi la fece entrare nella vasca.
Prese una spugna morbida, carezzandole la pelle con uno spesso strato di schiuma, poi passò ai capelli. Mentre massaggiava la testa si accorse che Nana Rose aveva poggiato la schiena contro le piastrelle e teneva gli occhi chiusi. La sua solita aria arcigna si era trasformata in un’espressione di rilassatezza. Cheryl si chiese a cosa stesse pensando: forse ad una gita allo Sweet Water River, oppure ad un viaggio in un paese lontano compiuto in gioventù. Rimase ad osservarla a lungo, non voleva spezzare l’incanto del momento.
Abbassò anche lei le palpebre, cercando di ricordare qualcosa di allegro e spensierato, eppure le fu davvero difficile trovare un momento di gioia, eppure c’erano, lo sapeva, ma riguardavano tutti il suo amato Jason e lei non voleva pensare al suo corpo pallido trafitto da un proiettile.
Non si accorse nemmeno che una lacrima solitaria le aveva solcato la guancia fino a che il polpastrello rugoso di Nana gliela asciugò.
La ragazza osservò quella donna ormai raggrinzita, chiedendosi se anche lei avesse dovuto affrontare innumerevoli pene.
Si tolse i vestiti, inumidita dalla pioggia di poco prima, e si accomodò anche lei nella vasca. Stavano strette, ma non le importava: Nana Rose era l’unico membro della famiglia che non suscitava il suo disgustoso e voleva proprio ricominciare lì, con lei.





Eccomi qui con un nuovo capitolo di questa storia, nella speranza che piaccia anche a voi :)

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Capitolo 6
*** #febbre: Jug/FP ***





 Storia scritta per il gruppo
Hurt Comfort - fanfiction e fanart
 
#Summerbingochallenge2019


FEBBRE




 
 
C’era stato un periodo, molto prima della morte di Jason Blossom, in cui FP Jones aveva deciso di diventare un buon padre. All’epoca Gladys era incinta di JB e Jug era un bimbetto che si apprestava ad iniziare le scuole elementari, perciò lui aveva deciso di cambiare stile di vita: smise di bere, trovò un lavoro rispettabile in un’officina e lasciò perdere le scorribande con i Serpents.
Una notte suo figlio si svegliò da un sonno popolato da incubi, con i capelli madidi di sudore e brividi che gli percorrevano la schiena. Come ogni bambino della sua età si diresse nella stanza dei genitori per trovare conforto.
FP era ancora sveglio e gli fece cenno di stare in silenzio per non destare Gladys, quindi lo seguì nella sua cameretta.
“Papà sto male!” Si lamentò con voce piagnucolosa Jughead.
“Dove ti fa male?”
“Dappertutto!” Esclamò un po’ indignato il piccolo (all’epoca era convinto che grandi dovessero sapere tutto senza bisogno di troppe spiegazioni).
FP gli tastò la fronte, constatando che molto probabilmente si trattava di influenza. Lo aiutò ad infilarsi nel letto, obbligandolo a tenere il termometro sotto l’ascella. Passarono pochi minuti, quindi Jug domandò: “Mi racconti una favola?”
L’uomo si passò una mano tra i capelli corvini, chiedendosi il motivo per cui i bambini non potessero trascorrere nemmeno un istante senza far niente. Provò a pensare ad un racconto, ma non gliene veniva in mente nessuno. Per fortuna il bip del termometro lo salvò da quell’arduo compito.
Quando lo estrasse dall’ascella sgranò gli occhi, preoccupato, il display segnava quaranta gradi. Corse in bagno a cercare dello sciroppo, sicuro che ce ne fosse ancora in casa, ma trovò solo una confezione di supposte di paracetamolo.
Tornò in camera pronto ad una lunga discussione con il figlio, quindi cercò di impostare un tono molto rilassato.
“Jughead hai la febbre molto alta e dobbiamo assolutamente abbassarla.”
Il piccolo non si scompose, ma dentro di lui qualcosa cominciò ad agitarsi: sapeva per esperienza che quando i grandi parlavano in quel modo c’era sempre un motivo per preoccuparsi.
“Purtroppo abbiamo finito lo sciroppo e, data l’ora tarda, ormai le farmacie sono chiuse, perciò…”
Ancor prima che FP finisse la frase il bambino si era messo a sedere, tirandosi le coperte sopra la testa e gridando: “No papà! Ti prego no, la supposta no! Non la voglio!”
“Jug.” Lo redarguì FP depositando il blister sul letto e sedendosi accanto a quella palla di coperte urlante. Sapeva che sarebbe stato difficile, ma non aveva nemmeno cominciato, dannazione!
“So che non ti piacciono, eppure se non mettiamo la supposta tra poco starai peggio e dovremo andare in ospedale. Ti assicuro che i dottori saranno molto meno delicati di me.”
Gli scostò il piumone dal viso, arrossato dalla malattia e dalla rabbia. Il bambino sollevò gli occhi sul suo carnefice: non aveva scampo.
“Mi prometti che non mi farai male?”
L’uomo sorrise, ringraziando mentalmente che suo figlio fosse così ragionevole.
“Te lo giuro, non sentirai nulla.”
Finalmente Jug allontanò da sé le coperte, restando solo con il pigiama addosso. Il padre gli tolse delicatamente pantaloni e slip, quindi provò a girarlo.
Veloce come una lepre il bambino artigliò il coprimaterasso, cominciando ad agitarsi.
“No, non voglio! Lasciami stare!”
FP gli staccò le dita dal tessuto, incurante dei calci che gli colpivano il petto. Prese il figlio dalle spalle, costringendolo a ruotare su se stesso.
“Jughead lamentarsi non serve a nulla.” Ormai il suo tono non era più amichevole, ma autoritario e fermo. “Prova a rilassarti e stai fermo!”
Per sicurezza gli posò un avambraccio sulla schiena per evitare movimenti repentini. Cercò di aprire il blister con una sola mano e la supposta cadde sul lenzuolo. Scostò le natiche e provò ad inserirvi il medicinale, ma Jug era troppo teso e la supposta faticava ad entrare, provocando una serie di lamenti.
FP contò fino a dieci, quindi a venti, cercando di mantenere la calma: la pazienza non era mai stata una sua dote. Avrebbe voluto spingere con forza per mettere fine a quel supplizio, ma non aveva intenzione di essere brutale. Per fortuna gli venne in mente un’idea brillante. Corse in camera da letto (stranamente Gladys dormiva ancora) e prese la confezione di lubrificante. Tornò al capezzale del figlio e cosparse il bianco nemico con quel liquido oleoso.
“Un ultimo sforzo, Jug, e abbiamo finito.” Non ottenne risposta e forse fu meglio così.
Scostò nuovamente le natiche e vi infilò la supposta senza troppa fatica. Si assicurò che fosse entrata bene ed emise un sospiro di sollievo: ce l’aveva fatta!
Jughead mormorò qualcosa di incomprensibile: la febbre si era alzata e probabilmente non si rendeva conto di cosa stava accadendo. FP lo rivestì ed immerse una pezza nell’acqua ghiacciata, quindi gliela pose sulla fronte rovente. Prese una sedia dalla stretta cucina e restò accanto al suo bambino per tutta la notte.







Ciao a tutti! Eccomi qui con un altro capitolo di questa raccolta. In questo caso si tratta di una storia senza un vero e proprio senso, ma solo con una valanga di h/c. Spero che vi siate divertiti a leggerla almeno tanto quanto io mi sono divertita a scriverla. 
Vorrei ringraziare Gin per le sue preziose recensioni, chi ha messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e tutti i lettori silenziosi!

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