Girasoli sotto la pioggia di Roma

di Elisewin Ci
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione. Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Introduzione. Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo Uno. VENTUN'ANNI. ***
Capitolo 4: *** INCONTRANDOSI. ***
Capitolo 5: *** Di notte. ***
Capitolo 6: *** Lei ***
Capitolo 7: *** Vivere. ***



Capitolo 1
*** Introduzione. Parte 1 ***


Aspetto che arrivi. Non lo posso negare. Sto guardando quella porta da non so quanto tempo, aspetto solo che si apra e che lui sorrida e mi ricordi quanto sono belli i suoi sorrisi su di me. E mentre metto su la mia espressione migliore, sento uno scroscio di applausi e urla di congratulazioni alle mie spalle.
È arrivato.
Dopo quattro giorni è tornato... vincitore.
Un pensiero lungo una frazione di secondo. Devo continuare a lavorare, velocemente carico la lavastoglie e asciugo gli ultimi bicchieri rimasti sul bancone.

"Un gin tonic, per favore".

Dovevo immaginarlo. Lui non si ferma, entra in scena e basta, sorride, saluta, abbraccia, è il suo modo silenzioso per scusarsi del ritardo.
Lo guardo e tentenno un attimo, accenno un sorriso e so che lui sa. Sa quanto sono felice per lui.

"Gin extra dry?" alzo appena la voce, cerco di farmi sentire tra gli schiamazzi dei suoi amici dentro al bar.
"No. Il solito. Tanqueray.”

E ogni volta che mi guarda così, col sopracciglio alzato e l’espressione stranita, un po’ sprezzante, non riesco a non chiedermi se dietro quello sguardo ci sia nascosta un po' di verità. Forse è davvero deluso, so bene quale gin beve, l’ho chiesto solo per rimarcare la distanza che sento, come se ricordare quello che beve un cliente abituale fosse una debolezza e non una parte del mio lavoro.

"Bravo Nic! Ebbravo!"

Sono tutti entusiasti, Niccolò è tornato da Milano dopo aver vinto un contratto con una casa discografica indipendente; Adriano mi ha detto che c’era un contest, che Nic era andato là per accompagnare un amico, che alla fine ha deciso di partecipare e ha vinto.

Ci credevano tutti, e un po’ anche io, anche se adesso, dietro il bancone di questo bar mentre osservo i ragazzi che vedo ogni giorno festeggiare felici il loro amico, mi sento un po’ estranea. Chi sono io? L’ultima arrivata che si è presa una cotta per il ragazzo sbagliato?

Niccolò si allontana dal gruppo, viene verso di me, gli immancabili occhiali scuri sulla testa, i capelli scompigliati e gli occhi stanchi. Per un attimo mi sembra di essere sola con lui nella stanza e me ne frego, non resisto, allungo una mano e sfioro la sua posata distratta sul bancone.
"Complimenti, davvero. I tuoi sogni stanno diventando realtà"
Glielo sussurro piano, in un orecchio, incurante del fatto che lui abbia ritratto appena la mano. Ma quando afferro il suo gin tonic e lo spingo verso di lui, i suoi occhi sono accesi e il sorriso incerto. Mi piace, mi piace tanto, la linea dritta del naso, gli occhi scuri e profondi, il labbro inferiore quando sorride, lo trovo bellissimo anche quando ha addosso giorni di stanchezza e entusiasmo.
"Vuoi vedere il premio?" - lo seguo con lo sguardo e mi indica una targa incorniciata posata su un tavolino del bar.
Deve averla posata lì appena entrato, non me ne ero neanche accorta.
Leggo il suo nome scritto in un corsivo elegantissimo.
"Sono così stupidamente felice Nina. È stato un finesettimana meraviglioso... credo di aver bisogno più spesso di momenti così"
Eccolo, il nostro problema. Riusciamo a parlare, ad aprirci come se nulla fosse successo, come se davvero ci conoscessimo da tempo. Come se tutti quei silenzi non facessero un male tremendo.
"Adriano mi ha fatto vedere qualche video che gli hai inviato. È stato... bello” in realtà sono in imbarazzo, non so più cosa posso o non posso dirgli. A tratti è schivo, poi si apre e io forse m’innamoro un po’, poi torna al suo posto come se non fossi mai esistita.
“Si, ancora non mi sembra vero”.
Un attimo di silenzio, prende il bicchiere e mi volta le spalle, torna dai suoi amici, alla sua vita, ai suoi traguardi, quelli che in realtà non mi riguardano.

Esce appena fuori dalla porta, si accende una sigaretta, un tiro alla Malboro e un sorso al gin tonic, intanto parla, scuote la testa, racconta... lo osservo cercando di non farmi vedere mentre loro festeggiano e io continuo a pulire, lavo bicchieri, spengo la macchina del caffè, strofino il bancone e tutto quello che mi capita sotto tiro. Voglio solo che questa serata finisca presto, sono esausta, esausta dentro, come quando trattieni la tensione per troppo tempo e alla fine ti senti sfinita.

Perché continuo a sentirmi così? E perché ho accettato questo lavoro? Mi fa male la testa da tutte le domande che continuo a farmi e alle quali non voglio darmi risposta.
Vengo distolta dai miei pensieri da Adriano che bussa sul vetro, sono ancora fuori, li sento ridere mentre brindano e si lasciano contagiare dalla gioia di Niccolò. Agita la mano e mi fa segno che stanno per andarsene, gli mando un bacio e riesco a leggergli il labiale “ci vediamo domani”, contraccambio con un sorriso quando Alessandro spinge la porta e si affaccia dentro “Nina ce ne andiamo, a che ora stacchi? Se vuoi passo a prenderti con la macchina e ti accompagno a casa più tardi”
Sono sempre così premurosi con me, ma stasera ho bisogno di camminare un po’, preferisco raggiungere il mio appartamento a piedi per rimettere un po’ a posto i pensieri.
“Grazie del pensiero Ale, ma torno da sola”
“Sicura? Inizia a far freddo”
“Stai tranquillo, non sono poi così distante”
Mi fa l’occhiolino e chiude definitivamente la porta, mi salutano tutti, solo Niccolò agita la mano dandomi la schiena.




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Spero possiate apprezzare.
Se vi va, lasciate un segno.
"Sogni appesi" a tutti voi.

Elise.

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Capitolo 2
*** Introduzione. Parte 2 ***


Infilo la felpa e con le mani che tremano riesco a malapena a tirare giù la serranda del bar; sono le 2 passate e anche stanotte riuscirò a dormire a malapena quattro ore se tutto va bene. Alle nove devo essere all’università, ho già saltato troppe lezioni negli ultimi giorni.
L’aria della notte è fresca, i giorni d’inizio Ottobre fanno sentire tutta la forza dell’autunno che è arrivato. Cammino, nel silenzio assordante del quartiere mentre cerco di ricordare perché mi sono trasferita a Roma.
Aria nuova, una vita diversa, persone che non sanno niente di me.
Quattro mesi fa sono salita sul treno che da Milano mi ha portata nella capitale con un dolore straziante nel cuore e la speranza di giorni più sereni.
E adesso mi trovo qui, a fare i conti con un sentimento che non so spiegarmi e qualche nuovo amico che sembra davvero tenere a me.

Milano sembra così lontana.

Il dolore, quello no, è sempre vivo, ma ha sfumato i contorni, non so più il vero motivo che mi porta a dormire poco la notte e ad ammazzarmi il cervello di paranoie durante il giorno.
La notte però mi piace, cammino per le vie di San Basilio e lascio che quello che vedo intorno a me mi attraversi tutta, sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio, il vento mi sta spettinando, è quasi freddo, stringo il collo della felpa intorno alla gola e accelero di poco il passo.
Sono quasi a casa, mancano meno di cinquecento metri quando il mio sguardo cade su una presenza poco distante da me.
Non mi spavento, so benissimo chi è, ho imparato a riconoscere i suoi contorni in così poco tempo che questa consapevolezza mi spiazza ogni volta, ma lui è lì, seduto su una panchina, da solo, la luce dei lampioni del parcheggio ad illuminargli il volto.
Decido di non farmi vedere, non saprei bene cosa dirgli, infondo non siamo più in buoni rapporti, o meglio... non so proprio in quali rapporti siamo mai stati.
“Nina...”
è un attimo ma sento la sua voce che mi chiama e quando guardo nella sua direzione, Niccolò è immobile sulla panchina con le braccia incrociate.
“Hai finito ora di lavorare?”
Annuisco mentre cammino appena verso di lui e accorcio la distanza che ci separa.
“Sembri stanca”
“Si un po’ lo sono, ma è normale va bene” rispondo così, perché infondo non so davvero cosa dire.
Si alza e mi viene incontro, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans e una felpa scura a proteggerlo dal freddo.
Mi si para davanti e non abbassa lo sguardo, vuole i miei occhi e io, la prepotenza del suo sguardo, la sento addosso in tutto il corpo.
“Come stai?”
me lo chiede davvero, un po’ sospirando, e io resto ancora in silenzio, nonostante abbia sperato ogni giorno  nelle ultime settimane che trovasse il coraggio di interessarsi ancora a me.
“Hai perso le parole?” sorride, le labbra che si increspano in una smorfia e devo trattenere l’istinto di sfiorargli il viso.

Mi manca.

Non so bene cosa, se non la sensazione di essere con lui, da sola, contro la confusione e il silenzio del mondo.

“Sono solo stanca” sospiro.
“Va bene” e con un piede tira un calcio a un sassolino, che rimbalza sull’asfalto e sembra un rumore assordante nel silenzio dello spazio ampio del parcheggio.
“Non volevo interrompere i tuoi pensieri” incalza.
“Non lo hai fatto, mi stavo solo godendo la notte. Non pensavo a niente”
“Non ti credo ma va bene” è dolce adesso il suo sguardo su di me, e sembra muoversi appena con l’intenzione di restarmi a fianco.
“Va bene, va bene, va bene. Quante volte ce lo siamo ripetuti nell’ultimo minuto?” mi agito e alzo la voce quel poco che basta per riscuotermi. 
“Ora ti riconosco... ma da dove sei uscita fuori tu?” scuote la testa, gli occhi che brillano nel buio mentre mi fa cenno di seguirlo “Andiamo ti accompagno a casa”
Non oso contraddirlo e lo seguo, in silenzio, resto un passo dietro di lui mentre mi conficco le unghie sul palmo della mano per cercare di mantenere la calma e non fidarmi di nuovo, come avevo fatto la prima volta.

“Sei distante” me lo fa notare continuando a guardare avanti, mi sembra così padrone di tutto quello che lo circonda, senza intoppi, senza tentennare mai.

“Niccolò...”

“Si?”

“Tu non dovresti essere qui”

“Io vivo qui”

“Qui con me, intendo” mi fermo e incrocio le braccia. Forse adesso voglio una risposta.

“Se vuoi me ne vado. È semplice” ribatte, continuando a sorridere, e in questo modo smorza la tensione e io non riesco più ad essere dura come vorrei.

“Cosa vuoi da me?” lo incalzo.

“Io...” lo vedo incerto per un attimo “rendi sempre tutto così difficile. Volevo solo raccontarti di questi giorni, del contratto discografico e... niente, sapere come stai.”

Allunga una mano verso di me e io mi ritraggo. Sono stanca di averlo per me solo quando c’è buio e silenzio intorno a noi, ma non posso dirglielo, non capirebbe. 
Mi prenderebbe per una sognatrice immatura ed io sono tutt’altro. 
Ma alla fine non resisto e afferro la sua mano, camminiamo in silenzio fino al portone di casa mia, e non lo lascio andare neanche dopo aver aperto la porta.

“Vieni qui” mi attira a sé, sugli scalini del portico e mi fa sedere tra le sue gambe, appoggio la schiena al suo petto e resto in silenzio, incastrata tra le sue braccia mentre gioco con il polsino della sua felpa “mi piace parlare con te di notte”

Lo so, Niccolò, lo so.

“Insomma hai vinto. Un contratto discografico... magari ti cambia la vita”, cambio argomento per evitare di sentirmi ulteriormente in imbarazzo.

Eppure sto bene tra le sue braccia, mi sembra di essere nata per questo.

“Non credo di averlo capito fino infondo... ma è quello che ho sempre sognato. Non ho mai pensato ad un’alternativa” appoggia la testa sulla mia spalla e sembra che mi stringa più forte “ e tu Nina, mi dirai mai perché sei finita qui a studiare e lavorare in un bar lontana da tutti i tuoi affetti? Scappare era il tuo piano B?”

Mi irrigidisco come se mi avesse schiaffeggiato, non voglio rispondere a queste domande, non voglio raccontare a nessuno chi ero prima di adesso. 

“Si è fatto tardi, devo andare” provo ad alzarmi ma lui mi trattiene, sfiora il mio orecchio con le labbra e inizia a cantare sottovoce:

Ma Giusy senti questo vento, tu lasciati portare
Giusy sai che sei diversa ed è per questo che sai amare...
e ogni cosa sembra grande, tu lasciali parlare
e ricorda è dal dolore che si può ricominciare...


Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare, a tal punto che sento le lacrime salire, mentre le dita di Niccolò mi accarezzano i capelli con dolcezza e io appoggio la testa sul suo ginocchio mentre continua a cantare e io mi sento parte di quelle parole come non mi sono mai sentita parte di qualcosa in tutta la mia vita.

“Ho vinto con questa canzone Nina. Ti ho pensata mentre la cantavo... questa canzone mi fa sempre pensare a te”

Inizio a singhiozzare così forte da non riuscire più a controllarmi come se il dolore di questi ultimi mesi venisse fuori tutto insieme e invadesse ogni più piccolo atomo di me.

“Andiamo a letto ragazzina... stasera non ti lascio sola” me lo sussurra piano, senza invadere i miei spazi, resta silenzioso accanto a me e con estremo rispetto lascia che entri in casa e mi disfi dei vestiti pesanti che ho addosso, mi siedo sul letto con le lacrime che continuano a scendere e lui si distende di fianco a me, mi attira contro di sé e porta via dal mio viso i segni del mio dolore con le dita.

“Va tutto bene Nina, quando ci sono io non dovrai avere più paura di niente.” 





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Così finisce l'introduzione.
Spero di ritrovarvi ancora qui.
Un abbraccio.

Elise

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Capitolo 3
*** Capitolo Uno. VENTUN'ANNI. ***


Cinque mesi prima.


NINA

Quando aprire la valigia significa iniziare una nuova vita tutto ha un altro sapore.
Nessun albergo cinque stelle, non c'è il mare a fare da sfondo e neanche la prospettiva della vita mondana milanese in cui mi ero buttata a capofitto.
Ho appena ventun'anni e mi sembra di averne quaranta sulle spalle. Avrei dovuto pensare all'università, a trovarmi un fidanzato come una qualsiasi ragazza della mia età, avrei dovuto coltivare qualche amicizia e viaggiare, spendere i soldi delle mia famiglia benestante ed essere orgogliosa di me stessa. 

Invece mi faccio schifo oggi giorno di più, e per scappare dai miei errori, sono finita in un appartamento minuscolo in un quartiere desolato di Roma, lontana da tutti, sola, dove nessuno sa chi sono, nè potrebbe scoprirlo.
Gli sbagli degli ultimi mesi bruciano addosso come sale su una ferita aperta. 

Come è potuto succedere tutto questo...

 

NICCOLÓ 

Li osservo tutti, uno per uno, seduto sul marciapiede del parcheggio di San Basilio mentre accendo un'altra Malboro.
Adriano, Alessandro, Gabriele, Giammarchino con l'occhio un po' spento dopo la terza birra alle cinque del pomeriggio, Tiziano che sta appena scendendo di macchina.
Sono loro la mia famiglia, loro che credono in me e nelle canzoni che continuo a scrivere davanti al mio pianoforte e che cerco di far ascoltare a chiunque, discografici e non, nella speranza che la mia vita possa essere quella: fare il cantante. 

"Bella Nì, come stai?" mi saluta Tiziano.
"Un'altra giornata di merda, a casa mia un delirio, se non trovo un lavoro mia mamma mi sbatte fuori di casa"
Ridono tutti, sanno che non lo farebbe mai, ma mia madre è fatta così, continua a chiedermi di pensare alla musica solo come una passione ma io non sono ancora pronto a farlo. Non c'è mai stata un'alternativa o un piano B, voglio vivere di musica, che sia sotto un ponte o allo stadio Olimpico, è quello che voglio dalla vita.
Sono nato per quello, me lo ripeto ogni giorno come un mantra, e ancora più forte, nei giorni in cui fa un male tremendo. 

Gabriele e Alessandro continuano a passarsi un vecchio pallone di piede in piede, io penso che il cielo di San Basilio alle diciotto e trenta di quel pomeriggio di maggio, mentre inizia a sfumare d'arancione sia lo spettacolo più bello del mondo.
Casa mia.
Sarà sempre casa mia. 

"Ma chi c'ammazza a noi, oggi se rilassamo proprio" affermo mentre distendo le gambe davanti a me e poggio i gomiti sul marciapiede, dimenticando la discussione con mia madre, come se fosse stata solo una nuvola passeggera in quel meraviglioso spettacolo arancio.
Sei bella Roma mia.
Sei più bella qui, sei più vera, sotto 'sto cielo, in questo parcheggio, in mezzo ai miei sogni, tra i tuoi vicoli e quartieri che i turisti non apprezzano, con i miei amici, questi veri e de core, di quelli che non ti abbandonano mai. 

"Ao, ce sta 'na ragazzetta nuova a San Basilio" ci informa Adriano "so due sere che se ne sta da sola a fa' l'aperitivo al baretto, mi ha detto Gigi che s'è trasferita qui da vicino Milano, ma parla poco, non se sa niente de lei" 

"Per lo meno è caruccia?" chiede Tiziano. 

"Annamo a controllà, no?" lo prende in giro Gianmarco spintonandolo piano. 

"Mah nun l'ho vista eh, ma m'ha detto sempre Giggi che se fa notà 'nsomma"
"Che sia la volta bóna che te nnamori Adrià, annamo su" ci fa segno di incamminarci Tiziano. 

Do un ultimo sguardo al cielo arancione di quella fresca serata di maggio, mentre la nuova arrivata è solo una scusa: l'aperitivo al baretto è un appuntamento fisso dai giorni immemori della nostra amicizia.
Che poi lo so, abbiamo appena ventun'anni, e siamo amici da sempre, ma è proprio l'età in cui pensi di essere adulto, in cui gli amori sono immensi e i dolori così profondi da lacerarti dentro, e credi di poter essere il padrone del mondo: custodisci gelosamente le tue convinzioni, credi di sapere tutto, di aver già amato come non amerai mai più, di aver toccato il fondo ed essere risalito e lo sai che la vita è una sorpresa, ma pensi di aver già scoperto abbastanza, che tanto noi siamo forti insieme e il resto chi se ne fotte... 

...e invece mi sbagliavo, e non sapevo quanto ancora avevo da conoscere e provare e tentare, recuperare... 


 

 

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Capitolo 4
*** INCONTRANDOSI. ***


Nina ha i capelli morbidi, scuri, scuri come i suoi occhi, le mani delicate e le unghie senza smalto, una felpa enorme sopra un paio di leggings neri, e gira e rigira una cannuccia in un cocktail che non si decide a bere, mentre fissa il vuoto - il vuoto e un po’ il cielo - seduta allo stesso tavolino dell’unico bar che è riuscita a trovare vicino casa sua.

Un piccolo appartamento affittato a una miseria, una camera, una cucina soggiorno e un piccolo bagno, ma c’è una finestra grande, da dove oltre ai palazzi e a qualche albero, in lontananza, lo smog della Nomentana le sembra davvero il mare. 

Quel mare che le piace tanto, che a Milano ha solo potuto sognare, ma a cui correva ogni estate perché è lì che riesce a lasciar andare, a volersi un po’ più bene, a sentirsi per un po’ la testa leggera. E in quelle estati fatte di acque limpide imparava ad accettarsi mentre desiderava che un’onda le entrasse dentro e la svuotasse di tutto quello che non riusciva a comprendere della sua sua vita, di sé stessa,  della sua famiglia fatta di apparenze e buone maniere.

 

Credo di essere pazza... questa solitudine forzata rende tutto ancora più difficile, riesco a calmarmi solo se sento la gente intorno a me parlare, schiamazzare, ridere di cose che non conosco, di vite lontane dalla mia...

 

E gira e rigira ancora la cannuccia, una due tre volte, fino a perdere il conto.

Il bar inizia ad affollarsi ma lei è persa nell’ansia che le morde la bocca dello stomaco, nella paura dei giorni che l’aspettano, nella solitudine che si è auto inflitta.

 

Il suono di un nuovo messaggio sul cellulare la distrae un attimo.

“Nina tutto bene? Dove diavolo sei finita? Fino a quando avrai intenzione di ignorarmi?”

Chicca.

La sua migliore amica, o presunta tale, che l’aveva spinta ad accompagnarla al Joy’s una sera di sei mesi prima senza dirle che da quel momento la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

 

“Sarà divertente, vedrai. Metti quel vestito corto che hai comprato in Corso Como la settimana scorsa e poi i tacchi, i più alti che hai. Le tue Louboutin nere sarebbero perfette. Il rossetto rosso e gli occhi scuri... quelli piacciono sempre” Chicca è un fiume in piena, da quella serata sembra dipenda tutta la sua vita.

 

“Ma vuoi spiegarmi perché ci tieni così tanto?”  chiede Nina mentre apre il suo armadio e cerca il vestito decantato dalla sua migliore amica.

“Dimmi che ci sarai.”

“Si, ci sarò. Ma andiamo nei locali di Milano ogni venerdì sera, perché oggi sei così eccitata?”

“Stasera lo vedrai. Mi hanno offerto il posto migliore”

“Ma cosa stai dicendo? Sei incorreggibile Chicca” sospira Nina prima di ricadere sul suo letto con tutto il suo peso.

“Stasera ci cambia la vita, Nina. Me lo sento.”

 

E nessuna delle due sapeva quanto quelle parole fossero vere in realtà.

 

***

 

“Il solito Giggì” chiede Gabriele appoggiandosi al bancone “Il solito per tutti”

“Aó ma che siete venuti tutti insieme oggi? Nun fate caciara eh che ce stanno tanti clienti” li canzona il loro barista di fiducia, che più che un semplice barista è un amico fidato che davanti a un bicchiere di troppo ascolta i dubbi e le speranze di quel gruppo di ragazzetti che ha visto crescere.

“Ma se nun ce fossimo noi come faresti eh?” lo canzona Giammarchino.

“Meglio, farei decisamente meglio!” scherza l’uomo, mentre davanti a sé dispone in ordine sei bicchieri e tra una bottiglia e l’altra prepara i soliti aperitivi di ogni sera, puntuali come un orologio svizzero.

 

“Giggi per me un gin tonic eh!” lo canzona Niccolò.

“Gin extra dry, lo so lo so”.

“Ebbravo il mio Giggetto su che sei contento de vedecce!”

“Annate a un tavolo e levateve de qua che c’ho da lavorà!”

 

Quella confusione improvvisa distoglie Nina dai suoi pensieri, si volta lentamente ad osservare quei sei ragazzi che ridono e scherzano tra loro, sono strani, è il suo primo pensiero. Due sono pieni di tatuaggi, tutti con felpa e pantaloni della tuta, scarpe da ginnastica, capelli scompigliati. Sembra che il vento si sia divertito a passarci le mani dentro.

Uno dei due pieni di tatuaggi non toglie gli occhiali scuri, li tiene sugli occhi, anche se il cielo comincia a scurirsi e l’aria fredda dei tavolini all’aperto inizia a farla rabbrividire.

Ha un bel sorriso però.

Non vedo i suoi occhi ma sa sorridere bene.

Pensa tra sé, mentre percepisce la loro serenità, nello stare lì tutti insieme.

Come se fossero a casa loro.

Niente di tutto quello a cui è abituata.

D’istinto porta la cannuccia alla bocca e inizia a bere il suo drink: le piacciono quei tipi, ridono a voce alta, parlano in dialetto, appaiono complici. Le sembrano liberi.

 

Poi come se niente fosse successo, torna ad immergersi nei suoi pensieri.

Fanno male, lo sa bene, ma è la pena che vuole infliggersi per essere caduta in un affare molto più grande di lei.

 

***

 

“È lei la ragazza nuova” sentenzia Adriano “quella seduta al tavolino da sola, mi ha fatto un cenno Gigi pe’ famme capì”

“Eh bè, che aspettiamo?” lo spintona Gianmarco “annamo a fà le presentazioni ufficiali”

“Eddai ragazzi, lasciamola in pace” cerca di farli ragionare Gabriele “non sembra che voglia compagnia”

“No è che tu c’hai la ragazzetta a casa che s’incazza se fai il cretino” lo redarguisce Tiziano “noi siamo single quindi dobbiamo farci avanti”

“Comunque è molto carina” sospira Alessandro.

“No, pure tu c’hai la fidanzata” gli punta il dito indice contro Adriano ma Alessandro ha già spostato lo sguardo verso Niccolò.

“Ho fatto solo un commento, che c’entra? Tu Nic che dici? Tu ce l’hai la fidanzatina?” 

“Ragazzi non ricominciamo con questa storia eh. Non vi devo dà spiegazioni” s’incupisce Niccolò.

“Che te sei rimesso con Federica?” sgrana gli occhi Adriano “e nun ce dici niente?”

“Ma non c’è niente da dire” si difende “ci siamo rivisti, ci riproviamo... così”

“E vabbè allora non lo comunichi agli amici tuoi? Sei un infame” lo pungola lo stesso Adriano.

“Va a parlà con la ragazzetta nuova va, nun me stressà” - ridono tutti, e Niccolò tira su gli occhiali sulla testa proprio nel momento in cui Nina si alza per andare a pagare il conto.

 

Si guardano per una frazione di secondo, e lei sorride appena, un gesto non voluto, impercettibile, di cui Niccolò neanche si cura, è già tornato ad osservare i suoi amici.

 

Passa tra i tavolini per raggiungere il bancone del bar quando viene richiamata da una voce alle sue spalle.

“Ehi.. scusami, hai perso questo”

Un ragazzo alto, con gli occhi buoni, le sta porgendo un foglio che deve esserle caduto dalla borsa.

Nina si avvicina al tavolo, e si sente arrossire un po’ le guance, non capita di avere spesso gli occhi di sei sconosciuti puntati addosso.

“Oh grazie... è solo l’orario dei corsi in facoltà” non sa perché l’ha detto, ma ormai è troppo tardi.

“Sei nuova da queste parti... ti sei trasferita qui per studiare?” le chiede dolcemente Alessandro.

“Mah diciamo di sì... sì, per studiare” afferma, risoluta, dopo un attimo di esitazione “ora devo.. devo andare” fa per voltarsi ma viene richiamata di nuovo.

“Vuoi sederti qui con noi?” le chiede Adriano con gentilezza.

“Grazie, davvero ma... si è fatto tardi per me” cerca una scusa plausibile mentre si accorge di avere la borsa aperta, ecco perché le è caduto l’orario dei corsi che non si è ancora decisa a leggere.

“Tanto ci trovi sempre qui, non puoi sbagliare”

ridono, e per un attimo anche Nina allenta la tensione che sente dentro.

“Va bene allora.. allora grazie”

“Ma il tuo nome ce lo dici?” la incalza Gianmarco.

“Mi chiamo Nina”

“Allora alla tua Nina” alza il boccale di birra nella direzione della ragazza imitando il gesto di un brindisi alla sua.

“Non sono sempre così scortesi” la rassicura di nuovo il ragazzo che le ha raccolto il foglio “io sono Alessandro, piacere di conoscerti Nina”.

“Adriano”

“Tiziano”

“Gianmarco”

“Gabriele”

 

Le sembra di sentire il nome di tutti tranne del ragazzo con gli occhiali e le mani tatuate, mi sarà sfuggito, si dice tra sé e sé.

 

•••••

Se passate di qua, lasciate un segno:)
E.

 

 

 

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Capitolo 5
*** Di notte. ***


 

Niccolò

 

Tre sere su tre che bevo fino a dimenticare chi sono. Non male.

Non c’è un motivo particolare, forse la noia o l’abitudine, o l’uscire di casa verso le cinque e raggiungere gli altri al solito marciapiede, farci un giro da Gigi e poi perdere il senso del tempo al  parcheggio, la chitarra e le mie canzoni appena abbozzate, sottovoce, con Adriano e Alessandro che restano fino all’alba e ascoltano, un poco commentano, sorridono.

 

“La nostra vita sembra un patto col diavolo. Tutto al contrario. In attesa del colpo di scena che ci salverà tutti.”

 

L’ho detto ad alta voce senza rendermene conto. Adriano mi spintona, barcollo e per fortuna riesco ad appoggiarmi allo sportello aperto della mia auto evitando di cadere.

 

“Vaffanculo Nic. Stasera hai esagerato. ‘Sti discorsi macabri alle 3 de’notte, ma come te viene in mente.”

 

“Adrià qua è sempre tutto uguale, non cambia mai niente” scivolo lento per terra, appoggiandomi alla ruota incurante di rischiare di sporcare la felpa pulita che mi sono messo prima di uscire. Scuoto la testa, una due tre volte. Fa male. Un indolenzimento che aumenta ogni volta che mi muovo.

 

“No regà così no.. me la state a mette’ male. Vado a casa.” Alessandro si alza di scatto dal sedile posteriore, mi sembra che faccia un salto ma credo che siano gli effetti dell’alcol che mi disturbano la vista “non possiamo finire così ogni volta. Vorrei...”

 

“Che vorresti? Eddai sbilanciate per una volta” lo pungola Adriano, che continua a giocare con le corde della mia chitarra.

Finirà per scordarla di nuovo, non mi arrabbio solo perché non ne avrei le forze.

 

Alessandro sposta il peso da una gamba all’altra, prende tempo, poi respira a pieni polmoni l’aria fresca della notte.

 

“Me pari un bronzo de Riace” lo canzona Adriano e scoppio a ridere, un sensazione liberatoria che allevia un po’ il peso che sento nel petto. Ansia, maledettissima ansia, compagna di sogni e paure.

 

“Non stiamo poi così male ragazzi. Ci siamo trovati, siamo amici. Non ci lasciamo mai soli. Le nostre famiglie ci vogliono bene. Non saremo pieni di soldi, ma chi se ne fotte. Siamo ricchi dentro...”

 

Alessandro parla lentamente, soppesa lo sguardo su di noi e lo sento forte, quelle parole sono tutte per me.

 

“Nic...” continua “arriverà il momento, qualcuno crederà nella tua schifosissima musica” e mentre mi lancia quelle parole addosso si siede su una panchina poco lontana da noi “il cielo de Roma ragazzi, è tutto nostro stasera”

 

È ubriaco, è decisamente ubriaco anche lui.

 

“È nostro tutte le sere” lo segue Adriano.

 

Restiamo in silenzio e apriamo l’ennesima birra, quella che abbiamo comprato al supermercato dietro al bar di Gigi perché finisce che ci butta sempre fuori urlandoci dietro che ha cura del nostro fegato.

 

“Ma voi... che volete fare un giorno? Quando smetteremo di venire qui, al parcheggio, quando ci saranno altri al posto nostro, quando la vita ci chiederà il conto... ce l’avete un sogno?” 

 

“Noi siamo i Miserabili Nic, ci sarà qualche bella notizia anche per noi” mi rassicura Adriano, stringendomi una spalla e sedendosi per terra anche lui.

 

Guardo le mie mani piene di tatuaggi e penso che da ubriaco, sporco dell’asfalto su cui mi piace tanto stare, nessuno crederebbe che nella mia vita niente conta come scrivere canzoni. 

Non mi crederebbe nessuno, potrebbero solo pensare che sono l’ennesimo ragazzo di San Basilio che ha perso la strada, ma io lo so - e loro lo sanno, Adriano Alessandro e tutti gli altri - che la vita che mi trascino dietro è solo una maschera con cui mi nascondo.

Oltre gli occhiali, quelli scuri, con cui mi proteggo sempre gli occhi, per fingere di non avere paura di tutto quello che potrebbe sconvolgermi.

 

“Se ci vedesse qualcuno ora penserebbe che siamo solo dei disperati” puntualizzo più a loro che a me stesso.

 

“Nic... smetti di sentirti così” è dura la voce di Alessandro “hai bevuto troppo. Domani cerca di evitare” poi si alza e senza aggiungere altro si allontana per raggiungere casa sua.

 

Non c’è mai bisogno di convenevoli tra noi, sono i fratelli che mi sono scelto nella vita, possono andare dritti al punto, rischiare di farmi male. A loro lo posso consentire, è dagli altri che cerco di proteggermi.

Mi lascio conoscere solo cantando, per il resto parlo poco, osservo molto, sono uno di quelli che va alle feste, ma resta in un angolo con la sua cerchia ristretta.

Mi stanno sul ca**o gli esibizionisti, i tipi di Roma Nord che non parlano d’altro che di soldi e profili Instagram in crescendo e quelli che tifano la Lazio, per quelli proprio non c’è speranza.

 

“Con Federica come va?” azzarda Adriano, andando a scavare nelle mie debolezze.

 

“Sei proprio uno stronzo. Me lo chiedi perché sono ubriaco”

 

“No, te lo chiedo perché oggi hai bisogno di parlare” è il mio migliore amico, non ci sono mai stati dubbi su questo.

 

“Con Fede va” gli rispondo alzandomi in piedi e sfilandogli la chitarra dalle mani.

Accenno qualche accordo e lui mi ascolta in silenzio, suonare è il mio modo per estraniarmi e riprendere a respirare regolarmente, ma Adriano incalza, stasera non vogliono darmi tregua.

 

“Da quanto la rivedi, Nì? Non è una delle tante, è Federica: l’amore della tua vita, la protagonista di tutte le tue canzoni. Ci ricaschi sempre”

 

“Eh... quindi? Dove vuoi arrivare?” tento di tergiversare, ma so che sarà impossibile.

 

“Aó Nì li mortacci! Già me sento uno psicologo, risponneme! Che te devo togliè le parole de bocca?” poggia la testa all’indietro contro l’auto e Adriano guarda le stelle, l’ho fatto spazientire di nuovo; mi alzo in piedi, poggio la chitarra sui sedili posteriori dell’auto e faccio segno al mio amico di seguirmi. Camminiamo insieme, tra un sorso di birra e uno sguardo alla notte che rende tutto più placido.

 

“Mi ha chiamato la settimana scorsa, voleva parlarmi, forse scusarsi per essersi allontanata di nuovo, non so... poi non ce n’è stato bisogno. È sempre lei. Non riesco a dì de no” confesso sentendomi improvvisamente più leggero.

 

Adriano sorride, lo so che capisce.

 

“A Nì, la sai una cosa? Me vorrei proprio innamorà anch’io come te sei innamorato te de lei”

 

“Guarda che te registro.. poi la faccio ascoltà agli altri!” scoppiamo a ridere, e continuiamo a camminare senza meta - e senza paura - per le strade del nostro quartiere.

Casa mia.

Che bello il silenzio di casa e il respiro di un buon amico accanto.

Così, la vita sembra fare meno schifo.

Manca solo una canzone in sottofondo.

Magari Vasco, oppure... oppure una delle mie, una di quelle che ho appena scritto.

 

 

Nina

 

Leggo distratta il messaggio che la nonna mi ha inviato sul cellulare qualche ora prima mentre tento di finire di lavarmi i denti:

 

"Tesoro mi manchi tanto. Lo sai, quando vorrai tornare io ti aspetterò a braccia aperte. Com’è Roma?"

 

La mia nonna.

Lei che non so quanto abbia capito di quello che ho fatto, ma forse più di quanto io creda, ma sceglie di amarmi comunque.

Forse di perdonarmi, come nessuno è riuscito a fare e come non riesco a fare neanche io.

Sento ancora nelle orecchie il silenzio assordante prima del frastuono causato dalla scrivania rovesciata per terra da mio padre mentre il telegiornale nazionale continuava a passare la notizia alla tv, le urla di mia madre che invocava a ripetizione un Dio che non conosco.

 

“Una figlia disonorata. La nostra famiglia non può accettarlo... no, no, no. Mi sembra di spronfondare come quando Lorenzo ci ha lasciato.”

 

Mio fratello che è morto per un male incurabile. Mio fratello Lorenzo a cui ho tenuto la mano fino all’ultimo secondo.

Mio fratello che se ne è andato col sorriso, uccidendo completamente la felicità in casa nostra e dentro di me.

 

“La tv, ne parlano anche al telegiornale. Il Joy’s, quel locale maledetto, anche tu Nina, come hai potuto farci questo, come... come... come... sarebbe stato meglio perdere te!”

 

Le parole di mia mamma che mi rimbombano dentro senza darmi tregua.

La figlia sbagliata.

La figlia svergognata.

La poco di buono.

L’errore che è stato meglio allontanare.

 

Lascio lo spazzolino nel bicchiere vicino al lavandino e lego le scarpe da ginnastica più strette che posso. Sembra che con tutta la rabbia che sento dentro abbia deciso di rompere le stringhe delle mie Nike.

Mi lascio scivolare sul cuore il ricordo di Lorenzo, e penso ancora al messaggio di mia nonna. Dovrei risponderle, ma cosa potrei dirle.

 

Certo che è bella Roma, nonna.

Ma io vivo a San Basilio, dalla finestra vedo solo palazzi scoloriti e la Nomentana sullo sfondo, della Roma immensa che immagini tu non c'è traccia.

 

Qui non ci sono arte e fascino, ma solo palazzi di due o tre piani con i vestiti stesi alle finestre. Qui non ci sono prati e fiori, Villa Borghese è lontana. Qui c’è solo un parcheggio e un campetto per tirare due calcio ad un pallone. C’è un unico bar e nessun locale alla moda.

Ma forse è meglio sai, non voglio più pensare a quella vita. Le luci, le discoteche, la gente che balla, lustrini che brillano. 

Ho voglia di vomitare, nonna.

 

Nonna non so neanche da dove cominciare. Questa settimana lontano da te, è stata dura.

Ma come te lo spiego nonna?

Come te lo racconto?

 

Come ti dico che quella Roma che immagini tu non è casa mia. Che casa mia non esiste più, perché io non mi sentirò mai più a casa in nessun luogo. Casa mia, nonna, casa mia era Lorenzo. E Lorenzo se ne è andato via portando con sé tutta la mia ingenuità.

 

Questo però non voglio dirtelo, va tutto bene nonna, va tutto benissimo.

Ho la compagnia dei miei libri.

Ma non ti dico neanche questo, all’università non ci ho ancora messo piede. Ho paura di trovare persone, dover parlare, confrontarmi, fingermi qualcuno che non sono.

Ma sono partita per questo, no?

Per costruirmi una nuova me in mezzo a chi non sa niente di Nina.

 

Potrei dirti dei fiori che coltivo sul terrazzo, nonna. Ho messo anche delle margherite. Di loro, non so perché, ho voglia di prendermi cura.

E sai cosa c'è di simpatico?

La voce squillante della ragazza che abita nel palazzo accanto.

Ride e urla così tanto che ormai mi sembra di conoscerla.

A volte mi affaccio alla finestra e la guardo, ma riesco a vederla solo di schiena: è bionda. E suona la chitarra. 

Da casa sua esce una musica dolcissima che mi fa compagnia. A volte mi culla.

E poi ride, ride sempre.

Solo una volta l'ho vista piangere.

Ieri mattina, quando sono uscita dal portone insieme a lei. Aveva la testa bassa e una sciarpa nera piena di brillantini intorno al collo.

Si è asciugata una lacrima sbrigativa, poi è tornata a darmi le spalle.

Non lo so, nonna, non lo so come sto davvero.

E non so neanche se questa città sia così bella come dicono.

Dovrei scoprirla, forse, ma mi sento troppo piccola per riuscirci adesso.

O anche solo per tentare di farlo.

Scusami nonna, adesso devo andare davvero, sono in ritardo, non posso più parlarti nei miei pensieri: la mia corsa notturna mi aspetta.

Si, perché vado a correre di notte, così non rischio di incontrare nessuno e no, nonna, non ho paura. Non ho paura di niente perché ormai non ho più nulla da perdere, neanche me stessa. Mi sono persa ormai un bel po’ di tempo fa.

 

Digito veloce una risposta che sappia di gioia e amore, di entusiasmo e nuove avventure. La rassicuro, alla fine è l’unico contatto che ho scelto di mantenere con la mia vecchia vita, poi spengo il cellulare, afferro il marsupio dove ho messo le chiavi di casa e chiudo la porta con un tonfo sordo.

 

Corro veloce, incurante delle stringhe troppo strette e dei mattoncini delle case, quelli su cui mi soffermo quando esco di casa, quelli che conto per non pensare, mi passano accanto come un flash sfumato di rosso.

Non ho la testa per soffermarmi sui particolari. 

Mi stancano.

Mi sembrano futili e inutili.

Rincorrere un particolare: perché farlo quando il cuore non sente più niente?

 

Siamo solo io e il mio respiro che si fa pesante, ho l’affanno, ma continuo, un passo dopo l’altro, slancio dopo slancio, iniziano quasi a fischiarmi le orecchie dalla fatica ma il mio obiettivo è solo quello di tornare a casa sfinita e crollare in un sonno senza sogni.

 

Nelle ultime sere ho ripetuto sempre lo stesso tragitto allontanandomi poco dal mio palazzo, non avevo nessuna voglia di perdermi e passare poi troppo tempo a cercare il portone del mio appartamento, ma stasera ho definitivamente spento il cervello e continuo a correre senza una meta precisa.

 

“Nina... ma che sei tu? La ragazzetta del bar da Giggi. Ao ma che... te fermi?”

 

Una voce maschile mi riporta alla realtà, sfortunatamente non ho con me le mie cuffie, se avessi avuto la musica alta avrei potuto fingere di non aver sentito e non sentirmi in parte costretta a fermarmi.

 

Indietreggio di un passo ancora col fiatone e mi trovo davanti due dei ragazzi del bar. Uno sorride in modo gentile, l’altro... l’altro è il tipo pieno di tatuaggi, quello con gli occhiali da sole, resta un po’ indietro. Si guarda un po’ intorno. Sembra a suo agio.

 

“Ciao, sono Adriano, ti ricordi?” mi chiede, il primo, sempre lo stesso.  Resta fermo, sembra quasi che non voglia spaventarmi.

 

“Si, si ricordo. Scusatemi ma non credevo di trovare nessuno a quest’ora fuori” mi giustifico, in un modo o nell’altro, come se ne sentissi l’esigenza.

Mi porto dietro l’orecchio una ciocca di capelli sfuggita alla coda, un gesto veloce per mascherare un po’ l’imbarazzo.

 

“Non... non abbiamo cattive intenzioni. Puoi stare tranquilla” continua Adriano.

Mi piace.

In qualche modo i suoi occhi buoni mi fanno simpatia.

Resto comunque in silenzio.

Mi sono ripetuta un’infinità di volte negli ultimi giorni che non ho voglia di fare conoscenze, ma anche se esistesse dentro di me una remota possibilità non la sfrutterei di certo per parlare con degli sconosciuti in piena notte in un quartiere di Roma dimenticato da Dio.

 

“Diglielo Nic, dille che può stare tranquilla” 

Adriano tira una gomitata all’amico, che sembra restare chiuso nel suo mondo, incurante della mia presenza e dell’innegabile voglia del ragazzo di intraprendere una conversazione che in qualche modo superi i normali convenevoli.

 

Alza le mani e per la prima volta accenna un sorriso. Improvvisamente sembra che gli sorridano anche gli occhi.

 

“Non abbiamo mai fatto del male a nessuno” alzo un sopracciglio un po’ stupita, non mi aspettavo questo segno di resa, e quando prova a sorridere con più convinzione gli spunta fuori una fossetta sulla guancia destra “Lo giuro, siamo brave persone” aggiunge, probabilmente per colmare il vuoto dei miei silenzi.

 

Sono illuminati solo dalla luce di un lampione alle loro spalle, così diversi dalla gente che sono abituata a frequentare.

Sono... sono, sono semplici.

Normali.

Naturali.

 

I loro sguardi sono... rassicuranti.

È una sensazione che non provavo da un po’.

Forse mi mancano i contatti umani, o forse è solo la notte che accompagna i miei pensieri deliranti.

Soppeso ancora un po’ lo sguardo sulle loro figure, mi fermo sulla mano tatuata del secondo, non avevo mai conosciuto nessuno che avesse una mano completamente tatuata.

 

“Vi credo. Si... non sembrate avere cattive intenzioni” e improvvisamente scoppio a ridere, forse sembro pazza, ma è una risata liberatoria, di quelle che partono dalla stomaco e arrivano prima agli occhi che alla bocca “restate lì impalati, sembrate voi quelli impauriti”

 

Allora si guardano, scuotono appena la testa e camminano lenti verso di me.

 

“Voi che ci fate qua fuori a quest’ora?”

Ho fatto una domanda.

Ma non volevo farla davvero.

 

“Noi siamo sempre qua. A qualsiasi ora” mi racconta Andriano “viviamo qua e prendiamo sonno tardi”

 

“Allora abbiamo qualcosa in comune” solo dopo aver pronunciato queste parole mi accorgo che possono apparire come un segnale di apertura.

 

“Che fai nella vita Nina? Vuoi camminare con noi in mezzo alla notte di San Basilio e raccontarci un po’ di te?” incalza Adriano.

 

No.

Non voglio parlare di me.

Non saprei cosa dire.

Non mi sono ancora costruita abbastanza scuse per essere una nuova persona, del tutto credibile.

 

“Adesso vado a casa... domattina, domattina devo andare all’università” è l’unica cosa che sanno di me, l’unica cosa a cui ho accennato durante il nostro primo incontro “magari un’altra volta” aggiungo.

 

Adriano.

E il ragazzo con la mano tatuata. 

E il collo.

E un po’ le braccia.

Lo ricordo dall’incontro al bar.

Tatuaggi ovunque.

 

Con la stessa facilità con cui li ho incrociati in mezzo alla notte riprendo a correre nella direzione opposta.

 

Mi auguro solo di raggiungere casa velocemente.

 

Non so ancora il suo nome.

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Capitolo 6
*** Lei ***


Lo sai Nina, tu arrivi e scombini tutti i piani.

Forse no. Non lo sai.

Non lo puoi sapere che quando sorridi diventi una folata di vento al tramonto dopo una giornata passata nel traffico di Roma senza riuscire a respirare.

Per il caldo, lo smog, la noia.

Tu non lo sai, che mi sei entrata dentro, così infondo, da sentirti nella parte bassa dello stomaco. Quella che quando stringe non mi lascia respirare.

 

Tu non lo sai che io, con te, verrei ovunque.

Non lo sai che mi spaventi.

Tutto quello che non mi dici mi fa paura.

Non mi fai mai sentire alla tua altezza.

Hai gli occhi così profondi da farmi credere di aver vissuto chissà quale vita lontana da me.

Prima di me.

Qualcosa che non posso comprendere, del dolore che tieni per te e di cui io non sono degno.

Tu, Nina, non lo sai quale forza sprigioni.

Non lo sai che sei capace - sempre - di cambiarmi l’umore. Di stravolgermi i pensieri.

Tu non lo sai che se sono felice e arrivi, inizio a sentirmi inadeguato.

Tu non lo sai  che quando la vita sembra farmi schifo e arrivi, improvvisamente mi sembra degna di essere vissuta.

Non immaginata, Nina.

Proprio vissuta.

Perché tutto quello che tocchi è gioia.

Tutto quello che sfiori si anima e per me diventa musica.

Mi fai ridere, mi tieni la mano, mi rendi leggero. Mi fai credere che tutto è possibile poi in un attimo mi annienti.

Passo da essere necessario ad essere superfluo in un secondo quando ti chiudi in te stessa e nessuno sembra degno dei tuoi pensieri, dell’aria che respiri.

E io sono uno che pensa tanto, io mi arrovello il cervello: io immagino, sogno e scrivo musica.

E prima di te solo la mia immaginazione era un porto sicuro.

Sono sempre stato convinto che i sogni siano decisamente superiori alla realtà. Restavo deluso quando arrivavo a vivere quello che avevo immaginato. Non era mai intenso come nella mia testa. Questo mi ha sempre fregato.

E invece con te no. Tutto diventa più intenso, più vero, più reale.

 

Per me è reale l’odore dei tuoi capelli, la tua mano che impaurita sfiora la mia, il desiderio che ti leggo negli occhi e che poi scompare come una colpa.

Credi che non me ne accorga?

Che qualcosa di me ti attrae a tal punto da farti scappare. Eppure... eppure sono sempre stato corretto. E se ho sbagliato, ho sbagliato con ingenuità. Mai con cattiveria.

Se ho sbagliato, ho sbagliato solo perché tu sei arrivata, hai stravolto i miei piani, la mia vita senza chiedere permesso. E io, una forza così, non l’avevo mai incontrata prima.

Nessuno mi ha mai guardato come mi guardi tu. 

Tu fissi, i tuoi occhi scavano dentro, fanno male.

Eppure io resto, torno, quando scappo poi torno Nina, lo sai. Torno sempre da te.

Chiedo scusa a mio modo, ma io non ti lascio.

Tu invece si.

Tu mi lasci ogni volta che mi guardi delusa.

Ogni volta che scuoti la testa rassegnata come se io non potessi capirti davvero. Ogni volta che mi dici “lascia stare”. Ogni volta che “va bene. Va bene così”.

E sparisci, se scegli di non curarti di me, io non esisto per te anche se siamo a pochi metri di distanza, in mezzo alla gente. Mi fai sentire solo.

Maledettamente solo.

E io te l’ho confessato che la solitudine mi fa paura.

Che la cerco ma mi spaventa.

Te l’ho detto che senza i miei amici non sono niente.

Ma ora... ora io sono niente senza di te.

Hai preso tutto.

Tutto di me.

E sei cattiva quando mi lasci ad aspettarti, a contare i giorni prima di sapere quando avrai ancora voglia di avermi tra le tue cose.

Le poche che condividi.

 

Poi mi spiazzi. Mi laceri e mi spiazzi.

Perché torni viva, arrabbiata, “mi fai male Nic ma io non ci so stare senza di te” e io non so che dirti, ti cammino solo accanto, senza lasciarti, e aspetto di capire che sei tornata davvero: viva, ferita, reale.

 

Perché sei reale quando torno a casa in piena notte e ti trovo a dormire nel mio letto.

Piccola, impaurita, così ripiegata su di te che prendi una minima parte di spazio, come se non volessi mai dare fastidio. 

E non chiedi mai, non mi domandi mai dove sono stato prima di tornare. Ti basta solo che io torni.

Resti lì immobile, fingi di dormire e aspetti solo che io mi distenda accanto a te, che ti passi un braccio intorno alla vita per iniziare a disegnare con due dita i contorni dell’occhio che ho tatuato su una mano.

“Mi piacciono i tuoi tatuaggi. Vorrei ridisegnarli tutti con le dita” - l’hai detto una sola volta, eri ubriaca, lo so, ma ho smesso di respirare per un attimo e non me lo posso scordare Nina, come mi hai fatto sentire quando l’hai detto.

Mi piace così tanto trovarti in casa mia che ho smesso anche di chiedermi come fai ad entrare, forse ti apre mia madre, forse hai ancora quel mazzo di chiavi che giuri di aver perso chissà dove.

È che tu entri... ti prendi i miei spazi e io inizio ad aspettarti. Quando non ci sei, aspetto.

Perché tanto alla fine torni sempre.

Ma quando non lo fai, tutto sembra più vuoto, anche la mia musica, anche i tasti del mio pianoforte, anche la chitarra che sto imparando a suonare sembra sempre scordata se tu non sei lì, alle mie spalle, seduta sul pavimento, in silenzio, ad ascoltarmi suonare senza chiedere nient’altro.

Nina... 

tu ti prendi il mio spazio, il mio fiato, la mia stanchezza e li porti con te quando decidi di essere mia, ma quando sparisci... scegli di ferirmi in modo così profondo che tra noi resta solo silenzio.

Di quello feroce che logora dentro.

 

Tu lo sai Nina tutto questo?

A volte credo di sì.

E penso che tu sia cattiva, che ti piaccia farmi del male per qualche tuo malsano divertimento. 

Come se fossi io a dover scontare le pene di chi ti ha fatto soffrire in passato.

Un passato di cui non so niente, perché lo tieni per te con una gelosia malata che mi ferisce.

 

Non sono degno di conoscere ogni parte di te?

Ogni tuo pensiero più profondo?

Eppure quando di notte ti stringi a me e mi chiedi solo di non parlare, di restare lì a calmarti col mio respiro, io non faccio altro che esaudire ogni tuo desiderio.

 

Poi mi accusi, dici che sono taciturno, che scelgo le parole da condividere, che parlo solo attraverso le mie canzoni, che mi chiudo in me stesso perché mi lascio mangiare dalla paura di non essere all’altezza dei miei sogni.

Ma tu Nina... quali sogni hai?

È vero, parlo poco e quando lo faccio sbaglio, ma Nina tu sei così feroce, così piena, così desiderosa di vita che mi prendi l’aria e a me basta solo guardarti. E quando mi cacci - si, perché tu mi cacci quando dici “non capiresti, non importa chi ero prima” - a volte vorrei davvero urlartelo 

“Nina, tu mi disprezzi perché non mi sento all’altezza del miei sogni, ma tu dannazione cosa vuoi dalla vita? Ce l’hai dei sogni Nina?”

 

Io lo so che sei piena di sogni. 

Io non ho dubbi. Perché ti muovi così bene anche quando stai ferma, anche quando ti metti in un angolo e l’attenzione cade comunque su di te, quando tutti ti vogliono e tu non te ne accorgi... quando ti tocchi i capelli e guardi il tramonto, quando sospiri piano e dici solo “vorrei tanto andare al mare” che io il mare te lo porterei qui, in questo parcheggio, in questa Roma desolata, te lo porterei al portone di casa, perché tu respiri sogni e desideri e acqua di mare e finisci sempre per annientarmi completamente.

 

Sono tutti innamorati di te e tu fingi di non saperlo. Io provo solo a restarti al passo, ad esserti amico e spalla, confidente non desiderato e compagno di silenzi in piena notte.

 

Poi mi sfuggi e non so più come prenderti, allora mi rintano tra le mie certezze - poche - e cerco di fare a meno di te.

Ma adesso mentre ti sto guardando, e tu fingi di non vedermi, continuo solo a chiedermi se stanotte ti farai viva di nuovo.

Parli, gesticoli, ridi con tutti tranne che con me.

 

Resti stasera? Nina stasera che fai? Torni da me?

Fuori piove e io non ho voglia di altro.

Solo di te.

Si, Nina, io non te lo dico, ma ho voglia di te.

Di te che giri per casa mia a piedi scalzi e mi arrivi da dietro, appoggi lenta il mento sulla mia spalla e sospiri.

Ho voglia di te quando smetti di essere arrabbiata con me.

Così. Quando lo decidi tu.

Perché sei sempre arrabbiata con me e io non so mai il motivo preciso.

Ti basta un niente e ti arrabbi.

Ma stasera resta.

Ti prego.

In silenzio.

Come piace a te.

Come piace a noi.

Non ti chiedo niente, non vorrò più sapere.

Accetterò tutto.

 

Anche se vorrei sapere, capire, smettere di detestarti quando scegli di non dirmi niente di te.

 

Mi fa paura quello che sento.

È un bisogno che non ho mai provato prima.

Ma stasera se vuoi, chiedimelo, chiedimelo di nuovo Nina.

Dimmelo.

“Nic portami al mare”.

Ti giuro che stasera lo faccio, ti porto ovunque.

Ovunque tu voglia.

Ovunque tu sia.

 

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Capitolo 7
*** Vivere. ***


 

“Niccolò. Mi chiamo Niccolò”

 

Guarda davanti a sé e io ho gli occhi puntati sulle mie scarpe da ginnastica: ha iniziato a piovere a vento e piccole raffiche d’acqua mi colpiscono il viso.

Un lampo illumina la strada e annuncia un tuono che mi fa sussultare più del dovuto.

Un frastuono improvviso che esplode che sembra rimbombare all’altezza del mio stomaco.

 

“Hai paura?”

 

Sento il suo sguardo su di me, il fiato che esce dalla bocca di questo sconosciuto sulle mie guance aumenta i miei brividi.

 

Eppure... eppure sono brava con gli uomini.

Non mi intimoriscono, ci vuole molto prima che uno di loro mi scuota.

Che stupida sei, Nina.

È il temporale e una ritrovata timidezza che ti scuotono, lui non c’entra niente.

 

Non lo guardo ma mi sembra che sorrida mentre aumenta la presa sulla mia schiena e cammina un poco più veloce.

 

“Stai tranquilla Nina.

Siamo quasi arrivati” mi rassicura gentile.

 

“Grazie. Io... io non so come avrei fatto se... se non ti avessi trovato.”

Ho cercato di formulare una frase che sembrasse meno disperata ma queste sono le uniche parole che sono uscite dalla mia bocca.

 

Il tragitto che ci separa dal mio portone è davvero breve ma per qualche strano motivo a me sconosciuto in quel momento mi sembra un percorso interminabile.

Sono abbracciata a uno sconosciuto sotto una pioggia senza fine, lui profuma di vino e il suo è il primo profumo che sento non so più da quanto tempo.

 

Niccolò inizia a canticchiare sottovoce una canzone che non conosco, una melodia dolce che mi porta ad alzare lo sguardo su di lui.

Il colletto del giubbotto di pelle è alzato e sul suo collo intravedo solo qualche macchia d’inchiostro, il volto è disteso, l’espressione serena, lo sguardo superbo mentre mi guida con maestria per le strade di casa sua.

 

Ha una bella voce.

 

Il suo profilo è intenso contro la notte di quel quartiere che adesso più che mai mi sembra dimenticato da Dio. 

 

È bello toccare un corpo caldo.

Sembra naturale sentirlo addosso.

Forse sto impazzendo.

Si, decisamente.

 

Uno, due, tre.

Uno dietro l’altro conto i miei passi mentre questo sconosciuto che mi guida continua a canticchiare chiuso nel suo mondo.

 

“Niccolò ci siamo quasi. È la seconda porta a sinistra”

 

Quattro, cinque, sei.

Continuo a contare. 

Inganno l’attesa e il nostro incontro.

 

Sto dandogli più importanza di quella che ha.

Il cervello gioca brutti scherzi quando scegli la solitudine come unica compagna.

 

Ci siamo quasi, riconosco casa mia, la vernice scortecciata intorno al portone, i gerani della signora del secondo piano, i panni stesi ad asciugare anche adesso che piove.

La piccola finestra della mia cucina da cui immagino un mondo nuovo nascosto dai fumi della Nomentana, il viottolo che percorro ogni mattina per raggiungere la fermata dell’autobus. 

Il mio piccolo mondo racchiuso in pochi metri quadri; lo osservo, in questo buio fatto di pioggia, e mi sento finalmente al sicuro.

 

“Grazie. Adesso posso correre lungo il marciapiede e raggiungere il portone” - non vorrei disturbarlo ancora, chiuso com’è nel suo mondo e nella sua melodia abbozzata a labbra semichiuse.

 

Niccolò scuote la testa, lascia la presa lungo la mia schiena e chiude meglio il giubbotto posando lentamente i suoi occhi su di me per la prima volta da quando mi ha detto il suo nome.

 

“Stasera ti va di parlare?” mi prende in giro bonario.

 

Lo guardo interdetta, non capisco quello che vuole dirmi, non so a cosa allude.

Infondo, infondo ci siamo solo incrociati un paio di volte.

 

“Io... no. Pensavo di averti disturbato a sufficienza” balbetto un po’, mi sento stupida nell’apprendere che la solitudine forzata mi ha resa più timida di quanto sia mai stata.

 

“Scappi sempre. Ti ho incontrata due volte e sei fuggita via... Adriano c’è rimasto male” e adesso ride, non sorride, ride davvero mandando la testa indietro e lasciando scoperta ai miei occhi la curva del suo collo.

È poco più alto di me e così stretti, vicini, sotto quel piccolo ombrello arrossisco al pensiero di respirargli sulla pelle del corpo.

“Scusami è che sei un po’ l’attrazione delle ultime settimane. Nessuno si trasferisce a San Basilio a meno che non sia agli arresti domiciliari o sia senza un soldo. E tu, non sembri né l’uno né l’altro”

 

“E tu? Sei agli arresti domiciliari o sei senza soldi?” 

Io e il mio dannato caratteraccio. Mi ha messo in imbarazzo e la risposta acida mi è salita alle labbra prima che potessi controllarla.

 

“Io sono nato qui, straniera. Se vivi qui sei e sarai per sempre un po’ di entrambe le cose”

Guarda in lontananza, oltre il palazzo che stiamo fiancheggiando e oltre quello che ci para l’orizzonte, sembra che cerchi come un appiglio il fumo della Nomentana che distorce i contorni e chissà in quali pensieri ha scelto di nascondersi.

 

“Scusami”

Non so cos’altro aggiungere.

 

“Sei arrivata”

Sospira.

Sospiro dopo di lui.

Si è creata nell’aria una strana tensione, senza saperlo Niccolò ha toccato un nervo scoperto: sono una ragazza di buona famiglia, sono cresciuta piena di vizi e ho creduto di essere più grande e forte di quanto fossi in realtà finendo per bruciarmi con il fuoco.

Io, con questo posto, non ho niente da spartire.

San Basilio - e la sua gente così spontanea, naturale, vera - non ha niente da offrirmi.

Sono solo un’ospite indesiderata.

 

“Non volevo offenderti Niccolò”

È la prima volta che pronuncio il suo nome e suona bene tra le mie labbra.

C’è una strana chimica che mi lega a questo sconosciuto, per qualche assurdo motivo non mi decido ad avviarmi verso il portone di casa, ma si è fatto tardi, me lo ricordano i rintocchi delle campane: sono le undici.

 

“Non sono un tipo permaloso ma si è fatto tardi...”

 

“E vuoi che me ne vada. Tutto chiaro.

Buonanotte.”

Gli passo davanti e mi sento afferrare per un braccio, la sua presa è salda su di me.

Mi ritraggo come se mi avesse schiaffeggiata.

Lui non lo sa, non può saperlo ma io non accetterò mai più la presa ferrea di nessun uomo su di me.

Non voglio sentirmi mai più in balia della forza di un maschio, me lo sono ripromessa mentre chiudevo quella dannata valigia e salutavo la mia vecchia vita.

“Non farlo mai più”

Sono tagliente. 

Già immagino che il mio cambio repentino d’umore gli abbia dato un’occasione in più per etichettarmi come una pazza fuori di testa.

 

“Non girare per questo quartiere da sola di notte. Smettila. Con noi non avrai problemi, ma non sono tutti così. Sei sempre in un quartiere della capitale, qui Milano by night non esiste. Se urli, sappi che ci sarà chi farà finta di non sentirti”

 

Stringo forte i lembi della felpa in modo da coprirmi il più possibile, l’elastico scivola via dai miei capelli puliti e mi ritrovo a coprire i miei brividi con la chioma lasciata improvvisamente libera dal vento.

Rabbrividisco, e non so se la mia reazione è dovuta all’umidità, al vento o alle parole di questo sconosciuto che mi fissa come se fossi un alieno.

 

Ha le spalle larghe, il collo e le mani tatuate, è poco più alto di me, i capelli scuri sembrano avere vita propria, un ciuffo irriverente gli cade sugli occhi scuri, profondi.

È magro, forse un po’ troppo per i miei gusti eppure c’è qualcosa che mi incatena ai suoi occhi.

 

Stupida Nina.

Stupidissima.

Sei troppo emotiva.

 

“Va bene”.

Non so cos’altro aggiungere.

 

Niccolò muove appena le labbra in un sorriso sghembo che mi tranquillizza.

Forse si sta prendendo gioco di me.

 

“Non sto scherzando” sottolinea, come se potesse leggermi nel pensiero.

 

“Va bene”.

Ripeto, immobile accanto a lui.

Non mi muovo, resto al suo fianco, sotto lo stesso ombrello verde e continuo a tenere i miei occhi fissi nei suoi.

Non so cosa fare.

Lo vedo - e lo sento - sospirare.

“Fumi?” mi chiede mentre dalla tasca del giubbotto tira fuori un pacchetto di sigarette.

“Si, a volte si” mi guardo intorno per evitare il suo sguardo confuso, poso gli occhi su una pozzanghera, mi piacciono gli strani giochi di forme che le gocce di pioggia generano sull’asfalto.

“Ne vuoi una?”

“Va bene” rispondo mentre allungo le dita verso le sue per prendere la sigaretta che mi sta porgendo.

 

“Sei strana” 

“In che senso?” non mi aspettavo un’affermazione del genere. Sembra così convinto di quello che dice da sprigionare intorno una strana forza che calza a pennello con la pioggia che continua a scendere.

È a suo agio.

Lo si nota in modo così forte da obbligare il mio istinto a mettersi sulla difensiva.

“Stasera mi sembri più strana delle altre volte. Sei... docile. Non sfuggi più”

Sospiro.

Lo guardo e non proferisco parola.

“Nina” si ricorda il mio nome “sei arrivata a casa.”

Mi ha gentilmente dato il ben servito.

Non ha motivo di passare il suo tempo con una sconosciuta che ha già etichettato.

 

“Resti? Solo un po’“ abbasso gli occhi imbarazzata “solo il tempo di una sigaretta” azzardo portandomi i capelli dietro l’orecchio ma stando attenta ad evitare accuratamente il suo sguardo.

“Ti senti sola?”

“Io...” è un estraneo e mi rendo conto che sto decisamente esagerando. Gli ho chiesto aiuto, sono stata stupida a credere inconsciamente che volesse saziare il mio bisogno di calore umano. “Scusami, ti sto importunando. Me ne vado.”

 

E così come sono arrivata, corro lontana, a proteggermi dentro le mura familiari del mio appartamento.

 

 

••••

 

[ai lettori silenziosi... battete un colpo, mi farete felice]

 

 

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