Peter Pankow e il segreto di Ypa'u Oiyva di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Gli antefatti ***
Capitolo 2: *** II - Peter Pankow è famoso ***
Capitolo 3: *** III - Si cerca nuovo personale ***
Capitolo 4: *** IV - Problemi di convivenza ***
Capitolo 5: *** V - Si parte per la missione ***
Capitolo 6: *** VI - Si ritrovano vecchie conoscenze ***
Capitolo 7: *** VII - Incontri ***
Capitolo 8: *** VIII - In missione di salvataggio ***
Capitolo 9: *** IX - In vino veritas ***
Capitolo 10: *** X - Tutto è bene quel che finisce bene ***
Capitolo 1 *** I - Gli antefatti ***
Carissimi
lettori, ecco qui un altro mappazzone, stavolta bello grosso, che
rivisita in chiave moderna la favola di Peter Pan. Siccome ho scelto
di privilegiare l’atmosfera del cartone animato, scanzonata e
leggera, aspettatevi che qualche volta il realismo ceda un po’ il
passo all’effetto scenico. Ovviamente ho cercato di ridurre al
minimo la cosa, ma ho voluto avvisare perché magari non tutti
gradiscono questa scelta ed è bene che lo sappiano prima di leggere.
PETER
PANKOW E IL SEGRETO DI YPA’U OIYVA
I
– Gli antefatti
In
cielo non c'era una nuvola, l'aria era talmente immobile che le
foglie di palma della tettoia sembravano dipinte.
Da
qualche parte un insetto friniva eroico nonostante la calura. Per il
resto, l'unico suono che si udiva era una debole risacca, come se
anche il mare fosse troppo spossato per generare onde.
La
canna del Bofors 40, che sporgeva dal riparo puntata verso il largo,
dava l'idea di volersi afflosciare esausta sui sacchi di sabbia.
All'interno
della postazione, sotto l'approssimativa ombra di una rete mimetica e
qualche frasca, il soldato Matthews voltò la pagina di una rivista
che aveva l'aria di essere stata sfogliata altre centinaia di volte.
Comparve una ragazza seminuda e in posa provocante. “Ciao, Betty,”
la salutò.
“Che
fai?” gli chiese il soldato Fulton, dall'amaca su cui era sdraiato.
“Parli da solo?”
Raccolse
un bastoncino di bambù, lo puntò contro la culatta del cannone e si
diede una spinta per dondolarsi.
“Ormai
l'ho vista così tante volte che siamo quasi amici,” rispose
l'altro.
Di
nuovo calò il silenzio. Ancora più profondo, dal momento che nel
frattempo anche l'insetto si era zittito. Rimanevano solo il rumore
ipnotico della risacca e qualche raro cigolio quando Fulton si
muoveva.
Il
soldato Harlow, seduto su un'improvvisata sdraio, con i piedi
appoggiati alla barriera di sacchi di sabbia e il cappello calato
sugli occhi, brontolò: “Non succede mai niente.”
“Ringrazia,”
esalò il caporale Clifton, steso su una stuoia in mutande e
scarponi. “Adesso potremmo essere in Europa a farci sparare nel
culo dai crauti.” Fece una pausa, che utilizzò per grattarsi
accuratamente l'addome, poi soggiunse: “Qui è molto meglio,
nessuno ci rompe le palle.”
“Io
vorrei il cambio,” sospirò Matthews. Girò un'altra pagina,
comparve una nuova ragazza, questa volta con un succinto costume alla
marinara. “Ciao, Kate.”
“Nah,”
Fulton scosse la testa, provocando un cigolio della sua amaca, “che
cambio e cambio: molto meglio starsene qui, dove il rischio maggiore
è quello di morire di noia.”
La
conversazione si esaurì, l'insetto lontano riprese a frinire. Lo
sciabordio della risacca invitava all'abbandono.
D'un
tratto cominciò a farsi udire il ronzio lontano di un aereo.
“Avete
sentito?” chiese Matthews. Abbandonò da una parte la rivista e
prese a scrutare il cielo schermandosi dal sole con la mano.
“Sarà
quello della posta,” disse Fulton alle sue spalle.
Dalla
stuoia provenne: “A quest'ora?”
Senza
togliersi il cappello dalla faccia, Harlow chiese: “Perché, che
ore sono?”
Il
ronzio si fece più intenso, nel cielo comparve un puntino nero.
Matthews si alzò e andò ad affacciarsi sul mare. “Viene verso di
noi,” annunciò.
“E
certo,” replicò Fulton, col tono di ribadire l'ovvio, “deve
portarci la posta.”
L'altro
andò alla ricerca del binocolo, quindi lo inforcò e cominciò a
scrutare il cielo. “Ragazzi!” esclamò dopo un po', col tono del
cercatore d'oro che ha appena trovato una pepita grossa come la sua
testa. “Ragazzi, venite a vedere!”
Il
puntino nero continuava imperterrito a muoversi avanti e indietro.
“Ragazzi,
che mi venga un colpo secco se quello là non è un mangiacrauti!”
L'affermazione
fu seguita da un silenzio carico di perplessità.
“Un
mangiacrauti?” fece eco dopo un po' Harlow. “Qui?”
“Come
ce le abbiamo noi, delle navi da queste parti, ce le hanno anche
loro,” disse Matthews col tono che avrebbe usato parlando con un
bambino non troppo sveglio. “E anche loro sulle navi hanno gli
idrovolanti da ricognizione.” Andò alla ricerca dell'opuscolo con
i profili degli aerei e lo sfogliò rapidamente. “Ecco qui,”
disse alla fine, mostrando una sagoma nera. “Arado 196. Più crucco
dell'Oktoberfest.”
Fulton
dedicò all'immagine un'occhiata svogliata. “Preferisco Betty,”
sentenziò poi.
“Ragazzi!”
Matthews cominciò a togliere freneticamente tutto ciò che nel tempo
si era accumulato sul Bofors 40: armi individuali, canne di bambù
più o meno intagliate, un paio di calzini stesi ad asciugare.
“Ragazzi, datevi una mossa o ci scappa!”
“Che
palle,” brontolò Harlow abbandonando la sua sedia.
“Se
mi hai fatto alzare per il nostro postale, giuro che ti prendo a
calci nel culo,” promise il caporale Clifton in tono sinistro.
§
Il
tenente Pankow diede un'occhiata di lato: la sagoma frastagliata
della costa, di un bianco che sotto il sole costringeva a stringere
gli occhi, emergeva da un'acqua azzurro chiarissimo, che andando
verso il largo diventava di un intenso turchese e poi di un blu
profondo e misterioso.
Nell'entroterra,
quasi coperte da una vegetazione lussureggiante che aveva tutti i
toni del verde, si indovinavano sagome dalla vaga forma geometrica.
L'ufficiale
spinse in avanti la barra, l'aereo picchiò appena. “Davanti a noi,
Till,” disse, inclinando di lato il velivolo per avere una
prospettiva migliore, “vedi niente?”
“Nossignore,”
giunse la risposta.
“Per
me sono costruzioni,” insisté il pilota. Le indicò col dito.
“Forse
sono vecchie case coloniali, signor tenente,” azzardò cauta la
voce del radiotelegrafista, “edifici abbandonati.”
“E
se andassimo a dare un'occhiata?” propose l'ufficiale. Sembrava che
stesse invitando il subalterno a fare una gita da qualche parte.
“Siamo
fuori da parecchio, signore,” giunse la cauta replica. “La
benzina...”
“Ce
n'è sempre un po' di più,” lo interruppe il pilota con un'alzata
di spalle, “l'indicatore non è molto preciso. E poi al massimo
ammariamo e chiediamo via radio alla Schütze
di venirci a prendere.”
“Ma
signore...” la voce dell'osservatore suonava quasi imbarazzata.
“Signore, dubito che il comandante von Stauff devierebbe dalla
rotta per venire a raccoglierci in mezzo al Mar dei Caraibi.”
Disinvolto,
Pankow replicò: “Ma figurati! Vuoi che il Vecchio lasci il suo
unico pilota a mollo come un'anatra? E poi chi gliele fa le
ricognizioni aeree?”
Detto
questo, puntò verso l'entroterra e diede motore.
A
quel punto, un proiettile d'artiglieria passò così vicino che lo
spostamento d'aria fece sbandare l'aereo.
“Ehi!”
esclamò Pankow costernato. Rimise il velivolo in assetto, ma un
attimo arrivò dopo un secondo proiettile.
Nell'interfono
risuonò la voce preoccupata dell'osservatore: “Signor tenente,
andiamo via!”
“Aspetta,”
Pankow scartò per evitare un altro colpo. “Aspetta, voglio vedere
da dove sparano, voglio...”
Un
colpo perse in pieno il motore. L'Arado 196 sussultò, l'elica si
inchiodò, dalla capottatura cominciò a uscire un fumo nero e denso,
che faceva tossire e lacrimare gli occhi.
Il
velivolo cominciò a perdere quota.
“Signor
tenente!” esclamò l'osservatore inorridito. “Signore, stiamo
precipitando!”
“Accidenti,
avevo messo in fresco una bottiglia per stasera.”
La
terra si avvicinava con inquietante velocità. Man mano che i metri
di quota scemavano, la massa verde della giungla perdeva l'aspetto di
uno smeraldo screziato per assumere quello di un sinistro groviglio
di piante dal quale spuntavano rami secchi e liane.
Pankow
cercò di guardare fuori, ma le folate di fumo gli consentivano solo
brevi scorci dell'ambiente circostante. L'unica cosa che si vedeva
chiaramente era la terra sempre più vicina. Lavorando di barra e
pedali per tentare di mantenere l'assetto, filosoficamente recitò:
“Lo sai, Till? Ci sono tre cose inutili in aviazione: il carburante
lasciato a terra, i metri di pista dietro le spalle e i metri di
quota sopra la testa.” Fece una breve pausa, quindi in tono quasi
rassicurante soggiunse: “A noi però non interessano i metri di
pista: siamo un idrovolante.”
E
poi successe la fine del mondo: qualcosa agganciò uno degli scarponi
dell'aereo, il velivolo si rovesciò e cadde fracassando rami,
recidendo liane e sollevando nugoli di foglie. All'interno il
frastuono era tremendo: si udivano schianti, gemiti, scricchiolii e
boati, il rumore del metallo che si piegava e quello del legno che si
frantumava. Pankow provò anche a imprecare, ma nel chiasso non
riuscì nemmeno a udire la propria voce.
L'aereo
capitombolò rotolando come una specie di dado da gioco per un tempo
che parve infinito, precipitando sempre più a fondo nella foresta,
lasciandosi dietro un pezzo dopo l'altro. Infine, ridotto a poco più
di una fusoliera avvolta dalle liane, si fermò penzoloni come un
grottesco bozzolo.
Sulla
scena cadde un silenzio irreale.
Pankow
sbatté gli occhi: la luce verde che regnava ovunque faceva pensare
di essere sul fondo di uno stagno e l'umidità favoriva decisamente
l'illusione. “Ma che accidenti...” bofonchiò. Poi, a voce più
alta: “Schelle? Till? Tutto a posto?”
Da
dietro le sue spalle provenne: “Con il dovuto rispetto, signore:
tutto a posto un cazzo.”
Il
tenente rinunciò a rispondere. Si guardò invece lentamente intorno:
innanzitutto realizzò di essere ancora assicurato al sedile tramite
le cinture di sicurezza. La capottina era sparita, il muso dell'aereo
puntava verso il basso, per cui dalla posizione in cui si trovava
vedeva perfettamente il suolo, distante forse due o tre metri.
Tutt'intorno c'era uno sfacelo di rami spezzati, foglie e liane
contorte.
Al
suolo, per quel che poteva vedere, c'era uno spesso tappeto di
vegetali marcescenti, dal quale spuntavano arbusti sconosciuti.
“Sarà
meglio trovare il modo di scendere,” propose.
Alle
sue spalle, Till replicò: “Ma signore, come facciamo?”
“Preferisci
stare qui ad aspettare gli inglesi?”
“Nossignore.”
“Allora
cerchiamo di scendere.” Pankow cominciò ad armeggiare con le
cinghie di sicurezza.
Dopo
un po', in tono esitante, il radiotelegrafista disse:”Signore, ho
sentito dire che in questi posti ci sono insetti velenosi e
serpenti.”
“E
io invece ho sentito dire che ci sono gli inglesi, che non sono
velenosi, ma prendono i tedeschi come noi, li interrogano per vedere
se sanno qualcosa di interessante e poi li spediscono nei campi di
prigionia fino alla fine della guerra.” Fece una pausa che utilizzò
per imprecare contro la cintura che non si voleva aprire, quindi
concluse: “Io non ho nessuna intenzione di fare questa fine,
Schelle. A bordo della vecchia Schütze
ho una bottiglia che mi aspetta e ho tutte le intenzioni di berla
alla salute del Führer.”
“Sissignore,”
sospirò l'altro rassegnato.
“Quindi
ora diamoci da fare e...” La cintura cedette all'improvviso. Pankow
piombò giù con un grido e atterrò in un cumulo di fogliame
putrido.
Riemerse
dallo strato di vegetali soffiando e scrollandosi, poi alzò lo
sguardo a incontrare quello del suo subalterno. “Vieni?” gli
chiese. Sembrava che gli stesse proponendo di tuffarsi in una piscina
dall’acqua particolarmente gradevole.
“Ma
signore...”
“Tanto
lassù non ci puoi rimanere, Till.”
“Sissignore.”
Schelle
sbloccò la cintura di sicurezza, ma invece di lasciarsi cadere si
aggrappò a quel che rimaneva delle strutture dell’aereo e riuscì
a calarsi lentamente a terra.
Quando
i due furono di nuovo faccia a faccia, Pankow disse: “Sarà meglio
spostarci di qui.” Si guardò intorno con l’aria di aspettarsi
una strada asfaltata da qualche parte. “E poi potremmo dare
un’occhiata in giro, che ne dici?”
Il
radiotelegrafista quasi sbiancò. “Ma signore,” rispose, “l’isola
è controllata dagli inglesi. Posto che la radio sia ancora in
funzione, dobbiamo comunicare la nostra posizione alla Schütze
e poi nasconderci.
Il
tenente fece una risatina. “Sei diventato un gibbone, per caso,
Schelle?”
“Prego,
signore?”
Pankow
indicò il relitto, che penzolava a tre metri d’altezza e gli
chiese “Come conti di raggiungerlo, senza le doti di una scimmia?”
“Merda,”
sospirò Till dopo aver alzato gli occhi a sua volta.
“Una
barca devono averla per forza,” disse il tenente Pankow. “Come
fanno a non avere una barca in un posto del genere?” Si fermò e
rivolse un’occhiata a Till Schelle, che lo seguiva in silenzio. “Se
siamo fortunati c’è addirittura un idrovolante. Magari uno di quei
loro Swordfish.” Riprese a camminare di buon passo, apparentemente
incurante di caldo, insetti, serpenti ed eventuali presenze nemiche.
“È un po’ che non piloto un biplano,” considerò poi, come fra
sé e sé, “ma è come andare in bicicletta, no? Una volta
imparato, non si dimentica più.”
“Sissignore,”
sospirò il radiotelegrafista.
Si
terse il sudore dalla fronte, e poi dal collo. L’aveva fatto tre
minuti prima, ma di nuovo ritrasse la mano grondante come se l’avesse
immersa nell’acqua.
Strinse
i denti sforzandosi di tenere dietro al tenente. Peter Pankow era una
specie di folletto smilzo, dotato di energie apparentemente
inesauribili e della mentalità, oltre che dell’aspetto, di un
sedicenne. In quel momento, ad esempio, più che un ufficiale dietro
le linee nemiche, abbattuto su un’isola sconosciuta, con minime o
forse addirittura nulle possibilità di sfuggire alla cattura,
sembrava un ragazzino che stava giocando agli indiani.
Non
che fosse una cattiva persona, questo no, ed era anche un ottimo
pilota, però…
La
voce trionfante di Pankow interruppe il filo dei suoi pensieri:
“Guarda là, Till: te l’avevo detto che c’erano delle
costruzioni!”
Il
caporale si voltò verso ciò che il suo superiore stava indicando e
dovette reprimere un improperio: poco più avanti la vegetazione
sembrava essere stata abbattuta con mezzi efficaci ma frettolosi,
forse addirittura un bulldozer, o magari un paio di cariche
esplosive, e tra le fronde così sfoltite si intravedeva quello che
inequivocabilmente era un edificio vetusto, con l’intonaco un po’
scrostato e la poca pittura rimasta ormai coperta da inflorescenze di
muffa nera. La bandiera inglese che pendeva dal terrazzo, per contro,
era nuovissima.
Schelle
agguantò il suo noncurante superiore e lo spinse al riparo di un
tronco, quindi sussurrò: “Dobbiamo andarcene subito, signore.”
L’altro
lo fissò come se avesse appena parlato in cinese. “Perché?”
“Signore,
è pieno di inglesi.”
Pankow
alzò gli occhi al cielo. “Caporale Schelle,” replicò, con
l’aria del maestro che per la terza volta spiega a un alunno
un’operazione semplicissima, “i mezzi per andare via di qui non
sono mica parcheggiati nel mezzo della foresta: ce li hanno gli
inglesi.”
“Sì,
ma signore… non potremmo almeno aspettare il buio?”
“E
stare qui con questo caldo? In mezzo agli insetti? No no, io stasera
voglio essere già a bordo. E poi ti dirò di più: voglio proprio
vedere cosa c’è in questo posto. Se il Vecchio ci ha mandati a
fare una ricognizione, è segno che deve esserci qualcosa di
interessante.”
“Ma
signore,” tentò Schelle in extremis, “hanno visto l’aereo
cadere, ci staranno cercando ovunque.”
“Staremo
nascosti,” gli assicurò Pankow disinvolto, “Non ci vedrà
nessuno.” Si incamminò con risolutezza.
Till
scosse la testa come di fronte all’ineluttabilità del fato. Lo
lasciò allontanare di qualche decina di metri masticando improperi a
mezza voce, ma quando vide che scompariva nella vegetazione
assolutamente certo che lui fosse alle sue spalle, a malincuore si
risolse a seguirlo.
Il
tenente si decise a mettersi in copertura solo quando l’edificio
era così vicino che si riusciva a sentire una radio che trasmetteva
musica leggera.
Till
lo imitò e i due avanzarono strisciando sul terreno, tenendosi
quanto più possibile sotto gli arbusti.
Giunti
al limite della vegetazione, si rintanarono sotto un cespuglio e
rimasero a guardare: l’edificio dava l’idea di essere stato ai
suoi tempi una graziosa villa coloniale. Era difficile dire di che
epoca fosse, perché l’umidità e le piante che ancora gli
crescevano negli anfratti meno raggiungibili lo facevano sembrare una
specie di reperto archeologico disperso nella giungla.
Tutt’intorno
alla costruzione vi era appena lo spazio sufficiente a consentire la
manovra a un autocarro, tanto che i rami degli alberi più alti si
protendevano fin quasi a coprire la struttura.
Davanti
alla porta principale della villetta, due piantoni con il Lee-Enfield
in spalla camminavano lenti su e giù. Poco lontano un sottufficiale
segaligno, con lo swagger
stick sottobraccio,
fissava serio i dintorni, con l'aria di aspettarsi proprio l'arrivo
di due tedeschi dispersi dietro le linee.
“Di
là non si entra,” sussurrò Pankow. Scosse la testa deluso.
Schelle
si voltò a fissarlo stupefatto. “Scusi?” gli chiese, ancora non
ben certo di aver udito correttamente.
“Non
si entra,” fu la replica, proferita col tono di una banale
conversazione. “Troppa gente.”
Per
qualche secondo il caporale rimase senza parole. Infine, con la
pacata lentezza con cui si parlerebbe a un suicida su un cornicione,
disse: “Signore, noi non dobbiamo entrare. Dobbiamo procurarci un
mezzo per abbandonare quest'isola.”
Pankow
fece un gesto noncurante. “Dopo,” rispose. “Abbiamo tutto il
tempo per andarcene, ci sono ancora un sacco di ore prima delle
effemeridi.”
Till
emise un sospiro. Conosceva l'espressione che il suo superiore aveva
assunto: era quella che invariabilmente preludeva alle azioni più
avventate e irresponsabili. “Signore...” tentò un'ultima volta.
L'altro
alzò le spalle. “Un'occhiatina, che vuoi che sia? Saremo fuori
prima ancora che si accorgano che siamo entrati.”
“Ma
signore...”
Per
tutta risposta, Pankow si alzò e camminando piegato per mimetizzarsi
meglio prese a girare intorno all'edificio. “Ci sarà una finestra
aperta... una botola...” mormorava frattanto fra sé e sé.
Till
seguiva il superiore indeciso sul da farsi. Impuntarsi e farlo
proseguire da solo? Provare a fermarlo in qualche modo? Consegnarsi
spontaneamente agli inglesi, prima che qualche stupidaggine del
tenente li facesse passare da prigionieri di guerra a spie passibili
di fucilazione sul posto?
La
voce dell'ufficiale lo fece quasi sussultare: “Eccola!”
Il
caporale abbandonò le proprie elucubrazioni. “Che cosa, signore?”
Assunse l'espressione di chi sta per ricevere una secchiata di
liquami in faccia.
“Guarda
quella porta.” Il tenente indicò un'uscita di servizio socchiusa.
Accanto a essa, riverso sui sacchi di sabbia della postazione, un
soldato dormiva della grossa con una rivista aperta sulla faccia per
proteggersi dal sole.
“Non
vorrà passare accanto a quel tizio, signore,” tentò Schelle, ben
sapendo quale sarebbe stata la risposta.
Prevedibilmente,
Pankow rispose: “Se facciamo piano non se ne accorgerà nemmeno.”
§
Nello
stesso momento, a pochi metri in linea d'aria dai due tedeschi, un
capitano di fregata britannico stava tracciando una rotta su una
carta nautica. Usava squadra e compasso con una disinvoltura che
denotava una lunga pratica, interrompendosi di tanto in tanto per
scrivere cifre su un taccuino.
A
un certo punto, l'ufficiale abbandonò gli strumenti sul piano della
scrivania e volse lo sguardo verso la finestra. Attraverso le fronde
si intravedeva il turchese chiaro dell'acqua. Per quanto umida e
calda, appesantita dagli afrori della vegetazione tropicale, l'aria
conservava una traccia del profumo di salsedine del mare aperto. Egli
se ne beò socchiudendo gli occhi, quindi emise un sospiro che aveva
al tempo stesso il tono malinconico della nostalgia e quello
gagliardo di un anelito a stento trattenuto.
Si
udì bussare. Colpi poderosi, sonori, sotto i quali la porta tremò
come se dall'altra parte ci fosse un cavallo che scalciava.
Senza
scomporsi, il comandante si lisciò appena i sottili baffi neri,
raddrizzò di una frazione di millimetro il perfetto nodo Windsor
della cravatta e disse: “Avanti.”
L'anta
si spalancò, rivelando la figura massiccia di un sottufficiale.
Questi si mise più o meno sull’attenti, salutò e annunciò: “Con
il suo permesso, comandante, la Jolly
Roger è pronta a
salpare!”
Hook
annuì. “Molto bene, signor Soak,” apprezzò sobrio. Si alzò in
piedi, rivelando un’altezza decisamente superiore alla media. Fece
qualche passo nella stanza e si fermò accanto alla finestra. Da
quella posizione si vedeva bene uno snello incrociatore alla fonda
presso il limitare della laguna. Anche a distanza, la nave dava una
confortante impressione di ordine, pulizia ed efficienza.
“Molto
bene,” ripeté il comandante.
“Grazie,
signore,” rispose l'altro senza muoversi dalla soglia.
“Venga
avanti, nostromo,” lo invitò l'ufficiale, quindi tornò a
rivolgere lo sguardo all'incrociatore. “Abbiamo notizie di quel
velivolo?” domandò poi, col tono di chi chiede informazioni sul
prossimo torneo di bridge. “Mi consta che fosse nemico.”
“È
stato abbattuto, signore,” rispose prontamente il sottufficiale,
“ci ha pensato una delle nostre batterie costiere.”
Il
capitano sollevò un sopracciglio con l'aria di aspettarsi la seconda
metà – quella importante – della risposta. Soak deglutì.
Passò
qualche secondo, durante il quale l'unico rumore che si udì fu un
vago stormire di fronde agitate dalla brezza, poi l'ufficiale gli
venne in aiuto: “Che ne è stato dell'elemento umano, signor Soak?”
“L'elemento
umano...” ripeté l'altro, con l'aria di riflettere furiosamente
sul significato della locuzione, “ecco...” Infine gli si accese
la lampadina: “L'equipaggio! L'equipaggio, è chiaro.” A quel
punto, l'entusiasmo si esaurì come un fuoco malamente alimentato, il
sottufficiale emise un sospiro. “Li stanno cercando, signore.”
Il
sopracciglio si levò nuovamente, in un silenzio carico di
riprovazione. Il sottufficiale incurvò appena le ampie spalle.
“Signor
Soak,” disse infine il capitano, “È superfluo che io le rammenti
l'estrema importanza della nostra missione, non è vero?”
“Perfettamente
superfluo, signore,” confermò volenteroso l'altro.
L'ufficiale
annuì grave. Con andatura misurata tornò alla carta nautica, che
rappresentava il Mar dei Caraibi, vi fece scorrere sopra lo sguardo,
quindi proseguì: “La Jolly
Roger è chiamata a un
compito di fondamentale importanza.” Chino sulla mappa, fissò di
sottecchi il subalterno. “Un compito segreto,”
gli confidò, abbassando appena la voce.
“Sissignore,”
fu la risposta del sottufficiale.
Il
capitano si raddrizzò, di nuovo si lisciò i curatissimi baffi con
gesto elegante. “Le nostre spie in Europa hanno acquisito un'arma
sperimentale del Reich,” disse con aria di mistero, “e sarà
compito della Jolly
Roger piazzarla e
renderla operativa.” Puntò il dito sulla mappa, in una posizione
che sembrava perfettamente equidistante dalle coste di Nicaragua,
Giamaica, Panama e Colombia, e disse: “Proprio qui.”
Il
nostromo si protese a sua volta sulla mappa. La scrutò grattandosi
pensoso la testa, quindi chiese: “In mezzo al mare, comandante?”
L'altro
scosse il capo come se si fosse aspettato esattamente quella domanda,
e la considerasse anche piuttosto sciocca. “A Ypa'u
Oiyva,” rispose. “L'isola che non c'è, in lingua locale.”
§
Addossato
alla parete, Pankow scrutò il corridoio in penombra che gli si
apriva davanti. Diede appena di gomito al subalterno: in fondo c'era
una porta chiusa, contrassegnata da un cartello su cui a caratteri
cubitali e con molti punti esclamativi si vietava l'accesso a
chiunque non fosse addetto ai lavori. “Roba forte,” commentò,
con un brillio avido nello sguardo.
“Magari
c'è solo il quadro elettrico, signore,” replicò Till, ansioso
invece di abbandonare l'edificio.
“Macché
quadro elettrico,” fu la risposta, “sono sicuro che là dentro ci
sia qualcosa di interessante.”
“Signore,”
tentò Schelle, “non potremmo cercare di prendere quell'idrovolante
ormeggiato lungo il molo? Quando siamo passati davanti alla finestra
ho visto che lo stavano rifornendo.”
“Ma
sì, ma sì, dopo,” sussurrò Pankow sbrigativo, “ora voglio
vedere cosa c'è.” Rivolse alla porta lo sguardo che un ragazzino
avrebbe riservato ai regali ammucchiati sotto l'albero di Natale.
Till
ebbe la tentazione di agguantare il suo superiore, metterselo in
spalla e andare via così. Lo trattenne solo la certezza che quella
specie di folletto si sarebbe divincolato e liberato nel breve
volgere di pochi secondi. Considerando che era lui il pilota, non
sarebbe stata una buona idea farselo scappare, o peggio permettere
che finisse in mani nemiche. Emise un sospiro, quindi aprì la bocca
per dire qualcosa, ma il rumore di passi in avvicinamento lo convinse
invece a tacere. Tirandosi dietro il tenente arretrò fino al vano di
una porta e da lì rimase a osservare lo svolgersi degli eventi.
Da
un corridoio laterale sbucarono alcuni uomini. Il primo era un
ufficiale di marina alto, elegante, che esibiva una distaccata
albagia. Accanto a lui camminava un uomo più basso, con gli occhiali
e i capelli brizzolati, che portava un camice bianco sull'uniforme e
aveva in mano un mazzo di chiavi. Seguivano un sottufficiale grande e
grosso e un paio di marinai. Tutti si stavano dirigendo verso la
famosa porta col cartello.
I
due si scambiarono uno sguardo.
Il
gruppetto si fermò, ufficiale e militare in camice bianco
confabularono un po' a bassa voce, poi il secondo infilò una chiave
nella toppa e la fece girare, producendo lo scrocchiare di una
pesante serratura. La porta si schiuse, rivelando uno scorcio di
scaffali ingombri di oggetti.
A
quel punto sopraggiunse un altro marinaio, che si mise sull'attenti e
riferì qualcosa. Il gruppetto, che stava per entrare nella stanza,
si mosse compatto per seguire il nuovo arrivato. L'ufficiale in
camice bianco si tirò dietro la porta, ma non fece scattare la
serratura. I passi si allontanarono fino a scomparire.
“Io
vado a vedere,” annunciò Pankow.
“Oh,
no,” gemette Till. “Signore, la prego, andiamocene. Là fuori c'è
l'idrovolante, nessuno ci ha visti. Non si ripeterà più
un'occasione del genere.”
“Solo
un'occhiatina,” ribatté disinvolto l'ufficiale, e senza attendere
risposta si diresse risolutamente verso la porta chiusa.
Schelle
si passò una mano sul volto con fare esasperato. “Signore Iddio,”
sospirò. Si vide già legato a un palo, con la benda sugli occhi e
l'ultima sigaretta fra le labbra.
Pankow
frattanto aveva raggiunto la porta, e dopo essersi guardato intorno
con l'aria di un furetto che scopre un nido incustodito, stava
abbassando la maniglia.
Till
si appiattì maggiormente contro il muro, l'altro scivolò nella
stanza e si chiuse la porta alle spalle.
“Ecco
fatto,” sospirò tra sé e sé il radiotelegrafista.
Rimase
a fissare la porta chiusa, dalla quale non proveniva il minimo
rumore. Col cazzo che
entro, si disse. Non
sono mica stupido, io.
Arretrò di qualche passo, raggiunse una finestra che dava
sull’esterno: al di là si vedeva una spianata che terminava in un
molo. Ormeggiato a una bitta, un bellissimo Swordfish ondeggiava
appena, spinto dal movimento dolce della risacca.
“Ooh!”
fece Pankow, guardandosi intorno meravigliato. La stanza sembrava una
via di mezzo tra un laboratorio e un magazzino ed era piena di cose
strane. Da una parte c'era un siluro mezzo smontato, con il sistema
propulsivo collegato a quella che sembrava una grossa batteria da
camion. Lungo le pareti c'erano scaffali su cui si trovava qualsiasi
cosa, dai remi ai fari da segnalazione, passando per oggetti pieni di
lenti e di antenne, di cui nemmeno immaginava la funzione. Da una
parte era appoggiata una semiala verniciata di uno strano colore
iridescente, che sotto la luce prendeva sfumature azzurre e violacee.
In
fondo alla stanza c’era una porta aperta.
Il
tenente la raggiunse e guardò dentro: c’erano un ponteggio, una
fossa d’ispezione e un paranco che pendeva dal soffitto, ma tutto
era immacolato, senza la più piccola traccia di sporcizia.
Su
uno dei banchi da lavoro c’era una grossa sfera nera e lucida, dal
diametro di circa mezzo metro, irta di aculei. Pankow la raggiunse e
dapprima la fissò incuriosito, poi toccò una delle protuberanze che
la ricoprivano ed essa emise un breve, sinistro ticchettio.
Il
tenente si ritrasse aggrottando le sopracciglia, e così facendo urtò
col piede contro un carrello che si spostò cigolando.
Abbassò
lo sguardo e gli occhi gli si dilatarono per la sorpresa: sulla
piattaforma mobile era posato un contenitore che aveva più o meno le
dimensioni di una cassetta da vino, a tenuta stagna, contrassegnato
con l’aquila del Reich.
Sul
coperchio c'era la scritta in rosso GeKaDoS[1].
“Merda,”
mormorò tra sé e sé.
Senza
staccare gli occhi dalla misteriosa cassa, come se smettendo di
guardarla avesse potuto scomparire, si chiese come fosse capitata lì,
e naturalmente cosa ci fosse dentro. Doveva esserci roba segreta,
ovviamente. Forse armi, magari documenti. La afferrò per i manici
che aveva sui lati, cercò di sollevarla: non doveva contenere
lingotti d’oro, anche se di sicuro non era leggera.
Sollevò
lo sguardo verso la porta, poi di nuovo lo rivolse alla cassetta.
GeKaDoS: quella era roba che scottava, roba segreta. Roba che non
avrebbe assolutamente dovuto trovarsi in mano agli inglesi.
Senza
pensarci due volte, agguantò il contenitore per i manici e fece per
correre fuori.
A
quel punto, la porta che dava sul corridoio si aprì ed egli vide
entrare il gruppetto che se n’era allontanato poco prima:
l’ufficiale con la scopa nel culo, il tizio col camice e i tre
marinai.
Senza
mollare la preziosa cassa, il tenente spinse il carrello sotto uno
dei tavoli da lavoro, poi saltò dentro la fossa d’ispezione e si
rannicchiò nell’angolo più buio di essa.
Sentì
dei passi avvicinarsi. Una voce impostata e vagamente sussiegosa
chiese: “Cosa sarebbe questo oggetto?”
“Una
mina navale sperimentale,” rispose un’altra voce, più sollecita,
col tono dello scolaro che vuole mostrare le proprie conoscenze al
professore. “La Crocodile. No capitano, prego, non la tocchi: basta
una pressione di qualche secondo per attivarla.”
Di
nuovo la voce impostata: “Che cosa accadrebbe in tal caso?”
“Beh…
il suo potenziale esplosivo è enorme, potrebbe squarciare senza
fatica il fianco di una corazzata.”
“Interessante.”
L’apprezzamento
conferì alla voce sollecita una vibrante nota di entusiasmo: “Una
volta attivata, la mina scompare al di sotto della nave,
posizionandosi esattamente in corrispondenza della chiglia. Nessuno
si accorge della sua presenza.” Il tono si abbassò di un’ottava,
facendosi cospiratorio. “Al momento buono, l’ordigno abbandona la
sua posizione, riemerge e comincia a ticchettare. Se a quel punto i
suoi sensori incontrano una superficie solida… Boom!”
“Quale
sarebbe il momento buono?” domandò la prima voce, cui la
pittoresca spiegazione non aveva conferito sostanziali variazioni.
Si
udì un sospiro. “È questo il problema: non siamo ancora riusciti
a scoprirlo. Per ora, la Crocodile abbandona la sua posizione sotto
la chiglia in maniera apparentemente casuale e...”
Una
terza voce, forte, rude e arrochita da una lunga consuetudine a rum e
sigari, interruppe la spiegazione: “Signore, dov’è la cassa che
dobbiamo portare a bordo?”
Seguirono
non meno di cinque secondi di un silenzio che aveva la connotazione
della tregenda.
Pankow
a quel punto immaginò il gioco di sguardi fra i tizi, e poi le
occhiate che sempre più ansiose dardeggiavano in giro per la stanza.
Pensò
che non ci avrebbero messo molto a cominciare a guardare in giro.
Cercò
di appiattirsi maggiormente contro la parete della fossa d’ispezione,
ma per quanto fosse magro, neppure lui sarebbe riuscito a nascondersi
in un buco vuoto.
Sentì
una goccia di sudore scendergli lungo la tempia, i pensieri
cominciarono a saettargli in giro per il cranio come vespe intorno a
un favo molestato.
Pensò
a Till, si chiese dove fosse finito, se l’avessero già preso.
Pensò alla Germania, alla Schütze
che lo aspettava e – perché no – pensò anche alla sua personale
pelle, cui in fin dei conti era discretamente affezionato.
Si
decise in un attimo: reggendo la cassa fra le mani balzò fuori dalla
fossa come un tappo di champagne e cominciò a correre verso la porta
con tutta la velocità che le gambe gli consentivano.
Ci
furono una cacofonia di interiezioni, un tramestio e infine passi di
corsa alle sue spalle. Poi si sentì afferrare per la collottola,
capitombolò all’indietro, si raddrizzò con un colpo di reni. Il
tizio enorme fece per strappargli la cassa di mano, lui balzò
indietro, perse l’equilibrio finendo addosso all’ufficiale
azzimato, che senza un attimo di esitazione cercò di abbrancarlo.
Pankow
si svincolò rapido, si fece indietro, ma il sottufficiale,
spalleggiato dai due marinai, gli si stava inesorabilmente
avvicinando.
Senza
abbandonare la cassa indietreggiò di un altro passo, finendo a
ridosso di uno dei tavoli da lavoro, proprio accanto all’incombente
massa nera della mina Crocodile.
L’ufficiale
gli rivolse un’occhiata di degnazione, e in un tedesco che non
avrebbe sfigurato in una sessione universitaria gli disse: “Sia
gentile, tenente, smetta di crearci problemi.”
Vagamente
ansante, Pankow fece saettare lo sguardo dall’uno all’altro degli
uomini che lo circondavano, quindi fece un sorrisetto e rispose:
“Spiacente, comandante…?”
“James
Hook,” si presentò l’altro con sussiego.
“In
tal caso, spiacente, comandante Hook: creare problemi è la mia
specialità.” Gli tirò addosso la cassetta con un gesto repentino,
quindi cercò di schizzare via, solo per essere nuovamente acciuffato
dall’erculeo sottufficiale, che subito dopo lo sollevò per la
collottola come se fosse stato un gatto.
In
quel momento si udirono un colpo e un grido, il sottufficiale mollò
la presa e si accasciò al suolo.
Alle
sue spalle comparve Schelle, con un remo in mano. “Andiamo, signor
tenente!” esclamò il caporale. Qualcuno cercò di colpirlo, ma
Till roteò l’improvvisata arma una seconda volta, spargendo in
giro meccanismi e attrezzi, ma anche abbattendo uno dei marinai. Hook
si chinò per recuperare la cassetta, ma a quel punto Pankow diede
una spinta alla mina Crocodile, che cadde dal tavolo sui cui era
posata, finendo direttamente sulla mano del comandante. A dispetto di
tutto il suo aplomb, questi gettò un grido e lasciò andare il
contenitore per stringersi al petto l’arto sanguinante.
Ticchettando in modo sinistro, l’ordigno prese a rotolare adagio
verso la parete.
A
quella vista, il tizio col camice bianco strabuzzò gli occhi e saltò
a pesce nella fossa d’ispezione.
“Oh,
cazzo...” cominciò Pankow, ma non riuscì nemmeno a finire la
frase: un’esplosione mostruosa fece saltare il muro come se fosse
stato di cartone, lo spostamento d’aria ribaltò gli scaffali con
tutto il loro contenuto e spedì oggetti a spiaccicarsi contro le
pareti come pillacchere di fango. Polvere e fumo invasero la stanza,
da qualche parte cominciò a suonare un allarme aereo. Si sentivano
delle urla, la contraerea sparò qualche colpo.
Il
tenente saltò in piedi, si scrollò e individuò la cassa sotto un
mucchio di detriti. La afferrò per una maniglia. “Till, ci sei?”
chiamò, guardandosi intorno. C’erano sagome umane in giro, ma
erano talmente coperte di polvere che non si distingueva più il
colore delle uniformi. “Till?”
Un
cumulo di pietrisco si sollevò con un acciottolio. “Qui, signore,”
disse il radiotelegrafista.
“Bene,
andiamo.”
Corsero
fuori. Nella confusione che regnava ovunque nessuno fece caso a loro,
tanto che prima di essere notati da qualcuno erano già riusciti a
togliere gli ormeggi dello Swordfish, a salire a bordo con la
preziosa cassa e a iniziare la procedura di decollo.
L’elica
si mise in movimento, l'aereo prese velocità sul pelo dell’acqua e
s’involò noncurante, mentre a terra crepitavano salve di fucileria
e i Bofors 40 cercavano di piazzare qualche colpo prima che finisse
fuori tiro.
Quando
si furono allontananti a sufficienza, Pankow scrollò la testa e
disse: “Sono ancora mezzo rintronato, Till. quell’aggeggio era
veramente potente.”
“Ne
abbiamo uno sotto, signore,” disse il caporale per tutta risposta.
Il
tenente si voltò a fissarlo inorridito. “Tu vuoi dire che noi qui
sotto abbiamo uno di quei cosi che non si sa quando possono
esplodere?”
“Signorsì.”
“Beh,
non ci tengo a trasformarmi in un fuoco d’artificio dopo tutto
questo casino,” rispose Pankow. Inclinò appena l’aereo per
scrutare i dintorni e individuò una nave al limitare della laguna.
“Lo regaliamo a quelli là,” annunciò. Tolse motore, diede una
tacca di flap e scese di quota. Quando fu quasi sul pelo dell’acqua
premette il pulsante di sgancio e la minacciosa palla nera cadde giù,
rimbalzò un paio di volte sulle onde, quindi si inabissò proprio
accanto alla nave.
Il
tenente tolse i flap e ridiede motore, lo Swordfish si alzò di quota
e in breve scomparve all’orizzonte.
[1]
Abbreviazione di Geheime Kommandosache, corrisponde a Top Secret
Una
piccola precisazione: i nomi degli “indiani” (che qui diventano
indios) che si incontreranno col progredire della storia non sono
inventati, ma tradotti in una lingua ormai morta del Centroamerica
che la moglie di un amico, originaria del luogo, ha la fortuna di
conoscere. Aggiungo qui sotto le traduzioni:
Toro
in Piedi = Vaka Ména Oñembo Ýva
Giglio
tigrato = Yvoty Jaguarete
Aquila
volante = Taguató
Ovevéva
Isola
Inesistente (che non c'è) = Ypa'u Oiyva
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Capitolo 2 *** II - Peter Pankow è famoso ***
II
– Peter Pankow è famoso
L'aviere semplice Hans Liefke si
appoggiò con gli avambracci all'impavesata del cacciatorpediniere
Walküre
e lasciò vagare lo sguardo sulla superficie dell'acqua. Anche se il
cielo era azzurro e senza una nuvola, le onde dell'Atlantico
rimanevano di un blu cupo, a tratti quasi nero. Solo quando si
sollevava qualche cresta di spuma, l'acqua prendeva una trasparenza
vetrosa, blu-verdastra come certi mostri marini dei giornaletti della
sua infanzia.
Si girò e alzò lo sguardo verso
il motivo della sua presenza a bordo, ovvero un idrovolante Arado
196, che in quel momento oscillava adagio assicurato alla catapulta,
solidale con il rollio della nave.
Si chiese come fosse essere
lanciati da quel meccanismo, e da una parte si trovò a non invidiare
il pilota, ma dall'altra il brivido dell'avventura e dell'azione lo
pungolò facendogli emettere un sospiro come di nostalgia.
Mentre era immerso in quelle
considerazioni sopraggiunse un altro aviere, coi gradi di aviere
scelto. Questi lo fissò critico e disse: “Hansi, non stare al sole
senza berretto. Poi ti bruci come l'ultima volta.”
“Mamma e papà li abbiamo
lasciati a Berlino, mi pare” fu la piccata protesta.
“Appunto, quindi adesso sono io
che devo preoccuparmi di te e Michael.”
Hans sbuffò infastidito e
brontolò: “So badare a me stesso, Wendel.”
L'altro fece una risatina. “Con
quel naso rosso? Scommetto la decade che tra un po' ti spelli come un
serpente.”
“Senti, ma perché non sei
andato a lavorare in un nido d’infanzia, invece di arruolarti nella
Luftwaffe?”
La domanda cadde nel vuoto. Anche
il nuovo arrivato si appoggiò all'impavesata, socchiudendo gli occhi
per il riverbero del sole. Piegò appena la testa all'indietro,
lasciando che la brezza gli scompigliasse i capelli. “Che caldo,”
disse dopo un po'. “Si stenta a credere che sia autunno, vero?”
“Da noi starà già cadendo la
prima neve.”
“Se fossimo a Berlino, mamma
comincerebbe a tirare fuori i cappotti pesanti,” disse Wendel. Fece
una breve pausa, durante la quale fissò lo sguardo sull'ombra mobile
che la semiala dell'Arado disegnava sulla coperta, poi chiese: “Ti
manca qualche volta?”
Hans scosse la testa. “No, non
direi.” Strinse appena gli occhi, con l'aria soddisfatta di un
gatto davanti al focolare. “Mi manca solo Nana.”
“Il cane?”
“Sì, ma per il resto mi piace
qui, si sta bene. E poi pensa: adesso siamo nel mezzo dell'Atlantico,
a bordo di una nave da guerra. L'avresti mai pensato tu di capitare
su una nave da guerra?”
Wendel scosse la testa.
“Ti ricordi quando papà ci
portò a Kiel?”
“Michael non smetteva più di
fare domande.”
“Beh, direi che fu un'ottima
cosa: per farlo stare zitto, papà ci portò a comprare lo zucchero
filato.”
La conversazione si esaurì
nuovamente, i due rimasero assorti a fissare le onde.
Fu Wendel dopo un po' a rompere
il silenzio: “Ora è meglio che tu vada all'ombra, Hans. Non vorrai
prenderti un colpo di sole.”
“Oh, che palle!” sbottò
l'altro.
“Io mi preoccupo per te e
Michael.”
“Io e Michael siamo soldati.
Siamo uomini.”
L'altro fece una risatina. “A
diciassette anni e mezzo tu e quasi diciannove lui? Ma per piacere.”
Hans strinse le labbra. “Io
scommetto che Peter Pankow non ne ha molti di più.”
“Chi?”
L'altro sollevò le sopracciglia
come se si fosse sentito chiedere una cosa perfettamente nota a
chiunque, tipo quante gambe hanno i cani. “Il tenente Pankow è
quello che ha recuperato un'importante arma segreta del Reich caduta
in mani nemiche e poi è sfuggito alla cattura appropriandosi di un
aereo inglese.”
Wendel scosse la testa. “Mai
sentito.”
“Perché tu hai sempre il naso
nei tuoi libri e non leggi mai le riviste di attualità.”
“Beh, io almeno ho un
obiettivo,” replicò l'altro piccato. “Diventare
radiotelegrafista. E poi magari, chissà, potrei anche passare alla
scuola di volo.”
Hans gli rispose con una
sghignazzata. “Tu che piloti un aereo? Ma se non sei nemmeno capace
di andare dritto con la bicicletta.”
“La navigazione e la fonia le
ho già studiate e poi conosco a menadito tutta la meccanica, date le
mie mansioni.”
“Certo, ma pilotare
è tutta un'altra cosa. Ci vuole il fegato, per pilotare. Bisogna
essere come il tenente Pankow.”
“Il nostro pilota ha detto che
quando c'è un po' di calma mi fa fare qualche volo con lui.”
Hans alzò lo sguardo
sull'idrovolante, aggrottò le sopracciglia e rispose: “Allora
voglio farlo anch'io.”
“Eh no, tu hai detto che non ti
interessa diventare pilota.”
“Non l'ho mai
detto!”
Mentre stavano discutendo, si
avvicinò una terza uniforme kaki. “Ciao, Michael,” disse Wendel
al nuovo arrivato.
“Il tenente vuole che tu vada
da lui,” annunciò questi per tutta risposta. “C'è da far
funzionare il coso.” Indicò la catapulta.
“Ma non ci pensano Möller e
Brandt di solito?”
“Dice che devi andare.”
Hans lo fissò diffidente. “Non
andrai a volare,
spero.”
“A volare?” intervenne
Michael. “Wendel va a volare?”
L'altro annuì. “Dice che il
tenente lo porta a fare un giro.”
“Cosa? Adesso? Allora voglio
andarci anch'io!”
“L'ho detto prima io.”
“Ma io non c'ero!”
“Insomma, basta!” esclamò
Wendel. “Possibile che dobbiate sempre fare i bambini?”
Gli altri due gli opposero un
silenzio risentito.
“Non vado a volare,” continuò
il primo. “Non lo so cosa voglia il tenente. Ha detto che devo
andare e io vado, d'accordo? Me lo dirà lui cosa vuole.”
“Allora veniamo anche noi,”
dichiarò Hans, con tono che non ammetteva repliche.
§
Il ronzio dei motorini elettrici
aumentò di un'ottava, la catapulta si girò lentamente verso il
mare. Il caporale Möller bloccò il movimento quando essa fu in
posizione, controllò l'inclinazione dello scivolo con l'apposita
manopola e aprì le valvole dell'aria compressa. Rivolse al moto
ondoso l'occhiata dell'esperto, quindi alzò un braccio in un segnale
positivo.
Da dentro la cabina, il tenente
rispose alzando a sua volta la mano, quindi si sporse dal finestrino
e gridò: “Elica!”
Subito dopo diede il contatto, il
motore partì e le pale si misero in movimento. In breve, la corrente
d'aria e il rumore furono così forti da impedire a tutti di parlare.
Möller alzò lo sguardo verso la cabina di pilotaggio, ci fu un
nuovo scambio di gesti.
Il caporale regolò a questo
punto l'inclinazione della rampa, controllò sul manometro che la
pressione dell'aria fosse corretta, quindi sollevò ancora la mano.
Il motore dell'aereo andò lentamente al massimo dei giri. Il
caporale annuì e premette il pulsante di sgancio.
Come una gigantesca fionda, la
catapulta lanciò l'idrovolante verso il mare aperto. L'aereo perse
qualche metro di quota, arrivando a sfiorare le onde con gli
scarponi, ma subito dopo si riprese, si rimise in assetto e
riguadagnò la quota perduta. Virò per mettersi in rotta e in breve
non fu che un puntino nero nel cielo.
Wendel si voltò verso i due
fratelli, che appoggiati al parapetto della piattaforma operativa
stavano ancora scrutando l'aereo che si allontanava, e in tono severo
disse: “E così, secondo voi dovevo andare a volare con il tenente?
C'era un contatto, ecco cosa c'era. Uno stupido contatto. E siccome
io sono il capo meccanico, ecco che il tenente mi ha chiamato per
sistemarlo prima di andare in volo.”
Gli altri due mugugnarono
qualcosa di inintelligibile.
“Che ne dite di: scusa,
Wendel, abbiamo sbagliato?”
propose il maggiore.
“Fanculo,” fu la risposta di
Hans.
“Non si dicono le parolacce,”
lo rampognò l'altro.
“Merda,” fu il contributo di
Michael.
“Ah, perfetto. Sentivamo
proprio il bisogno di un'osservazione intelligente.”
Hans a quel punto sollevò il
coperchio di una cassetta di servizio che si trovava accanto alla
centralina dei comandi e ne trasse una copia di Signal. “Guardate
qua!” esclamò.
Sulla copertina della rivista
c'era nientemeno che Peter Pankow, negligentemente appoggiato al
fianco di un idrovolante Arado. Il tenente portava il berretto sulle
ventitré come i divi del cinema e sulla fronte gli ricadeva un
irriverente ciuffo color carota. Gli occhi celesti avevano uno
sguardo brillante, furbetto, come di chi sta ridendo sotto i baffi
per qualche birbonata di cui nessuno si è ancora accorto. Sfida
agli Inglesi, recitava
una scritta rossa con tanto di punto esclamativo e sottolineatura.
“Eccolo,” sospirò Hans.
Fissò i presenti uno per uno e lentamente scandì: “Il tenente
Pankow è sopravvissuto all'abbattimento del suo aereo, si è
introdotto di nascosto in una base segreta inglese e dopo aspri
combattimenti ha recuperato un'arma segreta del Reich che era caduta
in mani nemiche.” Picchiettò un paio di volte l'indice sulla
copertina. “Qui c'è tutto, se non mi credete. Ci sono anche le
fotografie.”
“Ha fatto le fotografie della
base inglese?” chiese Möller in tono canzonatorio.
Intervenne a quel punto Michael:
“Se anche le avesse fatte – cosa che potrebbe benissimo essere
accaduta, visto che Peter Pankow sa fare tutto – di certo non le
metterebbero su Signal. Quella è roba GeKaDoS.”
“E che arma avrebbe
recuperato?”
“Non dicono nemmeno quello,
ovviamente. È GeKaDoS.”
Möller alzò le spalle
ostentando noncuranza. “Per me è un mare di balle,” sentenziò.
“Non è vero!” fu l'indignata
replica.
“Mah, GeKaDoS qui, GeKaDoS
là... secondo me si sono inventati tutto perché avevano un paio di
pagine da riempire.”
A quel punto, Hans gli rivolse
uno sguardo di degnazione e replicò: “Mi meraviglio di te. Peter
Pankow è famosissimo,
lo conoscono tutti, persino gli inglesi.”
§
In piedi davanti alla scrivania,
le grosse braccia allacciate dietro la schiena, il signor Soak
fissava il suo capitano.
Il comandante Hook sollevò lo
sguardo dalla carta nautica, e invece di fissarlo su di lui lo volse
verso gli oblò, dai quali si vedeva l'oceano blu scuro sormontato
dal cielo di un azzurro limpido. Emise un sospiro e disse: “Io ero
un eccellente pianista, signor Soak.”
“Certo, signore,” rispose
volenteroso il nostromo. Non che da quando conosceva Hook l'avesse
mai sentito produrre una sola nota, tuttavia sapeva che spesso gli
ufficiali facevano stranezze, e suonare strumenti musicali era una
delle più frequenti.
Hook abbassò lo sguardo sulla
propria manica sinistra, dalla quale spuntava un lustro uncino di
metallo, e in tono amaro soggiunse: “Sarebbe più esatto dire che
amavo
suonare, oppure che suonare era la mia stessa vita, ma quell'infame
moccioso teutonico non mi ha lasciato nemmeno la consolazione di
suonare Ravel.”
“Domando scusa, signore?”
“Il concerto per la mano
sinistra. Le dice nulla, signor Soak?”
“Ecco, veramente no, signore.”
Pensò che non fosse il caso di spiegare al capitano quale fosse il
suo personale concetto di concerto per la mano sinistra.
“Nossignore,” ripeté. Tossicchiò un paio di volte.
“Anche Prokofiev ne scrisse
uno,” disse il comandante, senza nemmeno fare caso al suo
imbarazzo. “Per Paul Wittgenstein.”
“Sissignore.”
“Il fratello del filosofo,”
precisò Hook.
Soak annuì con impegno. “Ah,
ma certo, signore,” rispose volenteroso. “Il fratello.”
Il comandante volse gli occhi
verso di lui, sollevò un sopracciglio e si lisciò i baffi. Tornò
alla scrivania. “Venga qui, nostromo,” ordinò poi.
Il sottufficiale fece un passo
avanti.
Con l'uncino, Hook agganciò la
maniglia di un cassetto e lo aprì. Ne trasse una rivista che posò
solennemente sul piano del mobile. Fissò serio il sottufficiale e
gli chiese: “Che ne pensa, signor Soak?”
L'altro si chinò sul periodico.
“È in tedesco, signore,” disse raddrizzandosi.
“Il suo spirito d’osservazione
è encomiabile, signor Soak.”
“Faccio del mio meglio,
signore.”
Hook indicò l'immagine di
copertina, che rappresentava un pilota dall'aria simpatica e un po'
sfrontata, col berretto sulle ventitré, in posa accanto a un
idrovolante. “Riconosce questa sottospecie di catamite, nostromo?”
Giunse pronta la risposta: “È
quello là, signore.”
Con minacciosa lentezza, Hook
sollevò l'uncino, che scintillò biecamente sotto le luci della
cabina. “Quello che mi ha fatto questo.”
“Sissignore.”
L'uncino calò a strappare in due
la copertina, di fatto decapitando lo sfrontato pilota dell'immagine.
Hook sorrise fra sé e sé, poi chiese: “Lo sa cosa dicono i
cinesi, signor Soak?”
“Veramente no, signore.”
“Dicono: siediti sulla riva del
fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo
nemico.”
Il nostromo ruppe la posizione di
riposo per grattarsi la testa, quindi perplesso chiese: “Signore,
ma non è in India il fiume dove buttano i cadaveri?”
In tono tagliente, il capitano
replicò: “Non sia sempre così concreto, signor Soak: nel
linguaggio parlato esistono anche similitudini e metafore. Intendevo
semplicemente dire che il Fato prima o poi colpisce anche chi ci ha
fatto un torto, pagandolo con la stessa moneta.” Si alzò in piedi
con un movimento elegante, di nuovo raggiunse l’oblò. Sotto la
luce che proveniva dall’esterno, l’uncino ebbe un luccichio
sinistro. Hook strinse gli occhi, le labbra gli si stirarono in un
sorrisetto minaccioso. “Io so
che ci incontreremo di nuovo,” confidò al nostromo.
Soak mantenne un cauto silenzio.
“Non ho fretta,” spiegò
allora il capitano. “So aspettare. Potrà succedere fra un mese,
fra un anno o fra dieci, ma so che succederà, e quel giorno...”
Con un balzo che fece sussultare il nostromo si avventò sulla
rivista e vi piantò di nuovo l’uncino, passandola da parte a
parte.
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Capitolo 3 *** III - Si cerca nuovo personale ***
Salve
gente!
Eccomi
qui, non sono scomparso. Grazie come sempre a tutti quelli che sono
passati da queste parti!!
III
– Si cerca nuovo personale
Il
tenente Pankow aprì gli occhi con la sensazione che da qualche parte
ci fosse qualcosa di molto strano e probabilmente anche molto
sbagliato.
Fece
scorrere lo sguardo sulla cabina: la sua uniforme appesa a un chiodo,
un paio di fotografie di aerei appiccicate alle pareti, il tavolino
con sopra una lettera che gli era arrivata da casa e una copia di
Signal, il lavandino.
Tutto
nella norma, apparentemente.
Anche
i rumori erano a posto: il macinare cupo dei diesel qualche ponte più
in basso, la prua che tagliava le onde, il rubinetto che sgocciolava.
Si
passò una mano sul viso, strinse gli occhi infastidito dalla luce
che entrava dall’oblò e a quel punto gli fu chiaro quale fosse il
problema: il sole era già alto.
A
quell’ora avrebbe dovuto essere fuori per il primo giro di
ricognizione.
Si
mise a sedere, di nuovo tese l’orecchio alla ricerca di qualche
rumore sconosciuto al di là della porta.
Possibile
che durante la notte fossero arrivati gli inglesi e avessero preso la
nave? Scosse la testa: come avrebbero potuto, senza sparare nemmeno
un colpo di fucile?
Si
alzò in piedi, si avvicinò alla porta e la schiuse cauto: il
corridoio era vuoto.
Il
che non voleva dire nulla, naturalmente, in nessuna unità di
superficie della Kriegsmarine la gente bighellonava nei corridoi,
tuttavia la sensazione che da qualche parte ci fosse qualcosa di
sbagliato continuava a tormentarlo.
Si
vestì e uscì in coperta. Alzò gli occhi sulla catapulta e a quel
punto proferì con sentimento un’imprecazione che fece emettere un
fischio di meraviglia a un paio di marinai.
La
parte anteriore dell’aereo era coperta da un telone cerato. Sulla
piattaforma di servizio, due pezzi della capottatura del motore
rollavano solidali col movimento della nave.
Corse
su per la scaletta che conduceva alla catapulta, raggiunse
l’idrovolante, sollevò un lembo della copertura: metà del motore
giaceva sparsa in cassette sistemate tra gli scarponi del velivolo.
“Oh,
merda!” esalò disperato.
Si
guardò intorno: i meccanici non si vedevano da nessuna parte.
Eppure
avrebbero dovuto essere lì a lavorare come matti sull’aereo per la
revisione giornaliera, revisione che, peraltro, avrebbe dovuto essere
eseguita la sera prima. Perché era tutto smontato e sparso in giro?
A
quel punto giunse dal basso la voce del suo radiotelegrafista:
“Signor tenente! Meno male che l'ho trovata!”
Pankow
corse ad affacciarsi alla ringhiera. “Till! Che cosa sta
succedendo?”
“Venga,
signor tenente.” Poi, a voce più bassa: “Mi promette che non si
arrabbia?”
Quella
dove Schelle lo condusse era l'infermeria. Pankow si guardò intorno,
infastidito dall'odore di medicinali che vi regnava, e per prima cosa
ebbe la tentazione di girarsi e scappare via come faceva da ragazzino
quando sua madre lo portava dal dottore. A un più attento esame
prevalse però un barlume di senso del dovere ed egli perplesso
chiese: “Che cosa ci facciamo qui?” Nella sua mente si agitarono
fugacemente alcuni spettri: Punture.
Vaccinazioni. Cose brutte e dolorose.
Inconsapevolmente
rinculò verso la porta.
“Si
tratta di Pirchstaller e Lipczinski, signore,” spiegò Schelle
premuroso.
Pankow
interruppe la ritirata strategica. “Prego?”
“Hanno
avuto un incidente.”
L'ufficiale
aggrottò le sopracciglia. “I meccanici? Come sarebbe a dire che
hanno avuto un incidente?”
“Venga,”
lo invitò l'altro per tutta risposta.
Oltrepassarono
una porta ed entrarono nella camera di degenza, dove un dottore e due
infermieri stavano passando di letto in letto.
All'apparire
del tenente, il capitano medico abbandonò il giro visite e lo
raggiunse. Lo fissò con disapprovazione e lapidario proclamò:
“Queste sono le nefaste conseguenze dell'ebbrezza etilica.”
Indicò due letti, occupati da altrettanti corpi.
Il
tenente li raggiunse e si chinò sui degenti: Lipczinski giaceva in
apparenza stecchito, con una voluminosa fasciatura intorno alla
testa. Prichstaller era vigile e accettabilmente lucido, ma con una
gamba e un braccio ingessati. “Ci scusi tanto, signor tenente,”
disse questi in tono contrito.
“Che
cos'è successo?”
L’Aviere
assunse un'espressione di profondo imbarazzo. “Non volevamo fare
niente di male,” avvisò per prima cosa.
“Sarebbe
a dire?”
Intervenne
a quel punto il medico: “Tre bottiglie di Schnaps. Scolate fino
all'ultima goccia.”
Il
tenente fissò Pirchstaller, che si strinse nelle spalle e con aria
contrita spiegò: “Volevamo festeggiare l'articolo di Signal.”
“Oh,
merda,” sospirò Pankow. Meccanici fuori combattimento significava
aereo fuori combattimento. Si rivolse all'ufficiale medico e in tono
speranzoso chiese: “Ne avranno per due o tre giorni, vero?”
“Per
due o tre mesi, come minimo,” fu l'asciutta replica.
“Cosa?”
boccheggiò il tenente.
“Frattura
parietale con sospetta emorragia subaracnoidea e trauma cervicale per
il letto numero tre, frattura scomposta di tibia e perone, frattura
di radio e ulna in tre punti diversi al letto quattro. Dovranno
essere sbarcati quanto prima e inviati in un ospedale in Patria.”
Il
tenente, che di tutta la spiegazione aveva capito solo le ultime
cinque o sei parole, riabbassò gli occhi sul sempre più contrito
Pirchstaller, che con la sua larga parlata da tirolese,
volenterosamente spiegò: “Io e Franz avevamo messo da parte un po'
di bottiglie per le occasioni speciali, signore, e quando abbiamo
visto quell'articolo su Signal abbiamo pensato che fosse arrivato il
momento di stapparne una.”
“E
le altre due?”
Per
quanto glielo consentivano le medicazioni, il meccanico si strinse
nelle spalle. “Eravamo là fuori a lavorare... eravamo molto fieri
di lei...” Il resto della spiegazione si perse in un mormorio
inintelligibile.
“E
sono caduti dalla scala della piattaforma,” concluse severo il
medico.
E
mentre Pankow contemplava annichilito la tragedia, sopraggiunse un
marinaio che si mise sull'attenti, salutò e annunciò: “Signor
tenente, il signor comandante von Stauff la vuole vedere.”
Il
tenente Pankow considerò fra sé e sé che già l'anticamera
dell'ufficio di von Stauff era inquietante. L'unica nota di colore,
in effetti, era il ritratto del Führer. Per il resto, c'erano un
paio di fotografie di navi risalenti alla Grande Guerra, un ritratto
dell'Imperatore e una bacheca con disposizioni e fogli d'ordini. Da
un lato si trovava una piccola scrivania alla quale sedeva l'aiutante
di von Stauff, un segaligno giovanotto con gli occhiali cerchiati
d'oro e una scriminatura che sembrava un colpo di mannaia.
A
parte il sottofondo ovattato dei motori, l'unico suono che si udiva
nella stanza era il ticchettio della macchina da scrivere.
“Entri
pure senza bussare,” gli comunicò l'aiutante.
Sulle
prime Pankow ebbe la tentazione di girarsi e uscire, poi il solito
barlume di senso del dovere prevalse ed egli abbassò la maniglia.
Il
capitano di vascello Wilhelm von Stauff sedeva alla propria scrivania
ieratico come una statua del Duomo di Colonia. Rispose al suo saluto
con un sobrio cenno del capo, quindi disse: “Si avvicini, tenente.”
Pankow
coprì la distanza che lo separava dall'alto ufficiale elaborando
mentalmente scuse in grado di giustificare il mancato volo di
ricognizione.
Alla
fine tentò con: “Faccio rispettosamente presente al signor
capitano di vascello che i miei meccanici hanno avuto un grave
incidente, per cui...”
Von
Stauff sollevò su di lui uno sguardo che tagliava come una fiamma
ossidrica. Pankow ritirò appena la testa fra le spalle. “Per
cui...” ripeté, con voce già più incerta. Una seconda occhiata
dell'ufficiale lo convinse a tacere.
A
quel punto, von Stauff chiese: “Tenente Pankow, le è nota la
fondamentale importanza del dispositivo che ha recuperato nel corso
del suo atterraggio di fortuna dietro le linee inglesi?”
Il
più giovane fu pervaso dal pernicioso senso di inadeguatezza che
normalmente lo coglieva a scuola, quando lo sguardo implacabile del
professore sembrava leggere come su una pagina stampata quanto poco
avesse studiato. Deglutì e rispose: “Sissignore.”
Von
Stauff rimase impassibile. “L'oggetto di cui lei si è
fortunosamente impossessato è il dispositivo ombra,” dichiarò.
Alla
frase seguì un silenzio in cui si sarebbe sentito cadere uno spillo.
Pankow frattanto rifletteva furiosamente: avrebbe dovuto saperlo?
Forse era una cosa che insegnavano in ogni corso ufficiali? Sarebbe
stato tenuto a informarsi una volta riportato a bordo l'aggeggio?
L'altro
strinse appena le labbra, quindi si alzò e raggiunse una carta del
Mar dei Caraibi appesa alla parete dietro la scrivania. Raccolse una
canna d'India e la puntò verso quello che al tenente parve il bel
mezzo dell'oceano.
Questi
fece un passo avanti e aguzzando la vista al massimo si accorse che
nella posizione che von Stauff stava indicando c'era un puntino nero.
“Gli
indigeni la chiamano Ypa'u Oiyva, ovvero isola che non c'è, perché
prima della moderna cartografia veniva raggiunta perlopiù
casualmente. Essendo perfettamente equidistante dalle coste di
Nicaragua, Giamaica, Panama e Colombia, è stata valutata il luogo
ideale in cui installare il dispositivo ombra.”
Pankow
annuì con l'aria di trovare tutto ciò perfettamente logico. Più il
capitano di vascello parlava, più lui si convinceva che in realtà
conoscere a menadito il dispositivo ombra sarebbe stato un suo
preciso obbligo, al quale naturalmente non stava ottemperando; ma più
procedeva la conversazione, più diventava difficile ammettere che in
realtà non aveva idea di cosa fosse. Optò per mantenere un
circospetto silenzio, rimanendo in attesa di ulteriori sviluppi.
“Due
giorni fa è stata inviata sul posto una squadra,” riprese il
comandante, tornando a sedersi alla scrivania, “teoricamente
avrebbe dovuto piazzare il dispositivo ombra, accertarsi del suo
corretto funzionamento e comunicare sulla frequenza riservata
l'avvenuta installazione, ma sta mantenendo un completo silenzio
radio e non capiamo perché. I tentativi di contatto da parte della
Schütze
sono falliti, per cui non siamo in grado di capire se siano venuti in
contatto con unità nemiche o se abbiano avuto un'avaria di qualche
genere.” Fece una pausa, quindi concluse: “Allo stato attuale,
non siamo nemmeno in grado di sapere se sono vivi o morti.”
“È
increscioso, signore,” interloquì premuroso Pankow.
Sempre
impassibile, von Stauff proseguì: “Quindi lei andrà in
ricognizione con il suo velivolo, perlustrerà le coste alla ricerca
del natante o di un suo eventuale relitto e sorvolerà l'entroterra.
Qualora le condizioni lo richiedessero, è autorizzato ad ammarare
ove le condizioni ambientali e tattiche lo consentono per recuperare
i superstiti.”
“Ecco,
signore...” cominciò Pankow a disagio, ma l'altro soggiunse: “Il
tenente di vascello Rogge le darà tutte le informazioni del caso, le
fornirà le carte necessarie per la navigazione e tutto ciò che lei
riterrà utile per la missione.”
“Signore,
c'è un problema,” si decise a dire il più giovane.
Negli
occhi chiari di von Stauff si accese una luce gelida. “Che genere
di problema?”
Il
tenente Pankow deglutì. “Ecco, signore, l'aereo non è operativo.”
Di
nuovo calò nell'ambiente un silenzio siderale. “Come sarebbe a
dire che non è operativo?” chiese von Stauff con voce tagliente.
Il
tenente si strinse nelle spalle.
Seguì
un fuoco di fila di domande: “Da quando non è operativo? Per quale
ragione? Come mai ne vengo informato solo adesso?”
Pankow
rifletté velocemente. I
miei meccanici si sono ubriacati come scimmie, hanno smontato mezzo
motore, ne hanno distribuito i pezzi in cinque o sei cassette diverse
e poi sono rotolati giù dalla piattaforma fratturandosi anche ossa
che non pensavano di avere in corpo
gli parve una risposta decisamente fuori luogo. Optò per un più
neutro: “I miei meccanici non sono operativi, signore.”
“Per
quale motivo?”
Il
tenente aggirò con grazia la domanda: “Se i meccanici non sono
operativi, nemmeno l'aereo lo è. Allo stato attuale non posso
volare, signore.”
Von
Stauff aggrottò appena le sopracciglia. Rimase per qualche secondo
immobile in atteggiamento meditabondo, infine in tono neutro proferì:
“Si ritenga congedato, tenente.”
Pankow
non se lo fece dire due volte. Uscì dall'ufficio del comandante con
la velocità di un animale che abbandona una foresta in fiamme, e una
volta che fu a distanza di sicurezza si concesse anche un sospiro di
sollievo.
Tornò
in coperta. L'aereo era ancora sulla sua catapulta, con il telo che
pudicamente copriva lo sfacelo del motore e i pezzi della capottatura
che ondeggiavano lenti.
Seduto
sulla scala di ferro che conduceva alla piattaforma operativa, Till
Schelle aveva l'aria di chi ha appena subito un tremendo lutto. “Gli
volevo bene,
signore,” confidò al tenente quando lo vide comparire. Con fare
significativo alzò gli occhi verso la catapulta e il suo triste
carico.
Il
tenente sollevò a sua volta lo sguardo, quindi gli chiese: “Sai
mica dove quei due abbiano nascosto lo Schnaps rimasto? Adesso avrei
proprio bisogno di un goccetto.”
“Pirchstaller
conta di tornare a bordo dopo la convalescenza, quindi figurarsi se
lo dice, e Lipczinski è steso. Mi sa che dovremo rassegnarci
all’acqua, signore.”
“Se
fossimo inglesi, almeno avremmo il tot di rum tutti i giorni.”
“Sì,
ma poi saremmo inglesi, signore.”
“Ineccepibile,
direi.”
“Porteremmo
la bombetta e l’ombrello, signore.”
“Berremmo
il tè,” rincarò l’ufficiale.
“Parleremmo
del tempo.”
Pankow
ci pensò un po’ su. “Meglio l’acqua,” concluse.
§
Il
capitano di vascello Franz Albach, comandante del cacciatorpediniere
Walküre,
abbassò il foglio sui cui era stato riportato in chiaro il messaggio
cifrato giunto dalla corazzata tascabile Schütze.
“Chissà
cosa sta combinando il vecchio von Stauff,” disse rivolto al suo
secondo.
“Perché,
signore?” chiese l’ufficiale, un tenente di vascello alto, con le
spalle larghe e la croce di ferro di prima classe appuntata sul
petto.
Per
tutta risposta, il comandante fece scivolare verso di lui il
messaggio.
Questi
lo lesse, sollevò le sopracciglia e chiese: “Cosa diavolo sarebbe
successo ai meccanici del suo idrovolante?”
Albach
alzò le spalle. “Sembra che abbiano avuto un incidente.
Qualunque cosa significhi.”
Il
tenente scosse la testa. “I piccioni creano sempre problemi.”
“I
piccioni?”
“Quelli
della Luftwaffe. Piccioni. Se ne dovrebbero stare nei loro nidi sulla
terraferma, invece di venire a dar fastidio ai marinai.”
Il
comandante recuperò il foglio, lo scorse nuovamente, quindi chiese:
“Abbiamo qualcuno da mandargli?”
“I
fratelli Liefke,” fu la pronta risposta. “Tre mocciosi inutili di
Berlino, decisamente più adatti a un asilo infantile che alla
coperta di una nave da guerra. Noi ci teniamo gli altri due, Brandt
e Möller, che mi sembrano un po' meglio, più il pilota. Sono più
che sufficienti.”
|
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Capitolo 4 *** IV - Problemi di convivenza ***
Salve
gente, ecco qui un altro capitolo. Eravamo rimasti alla necessità di
nuovo personale per rimettere l’aereo in condizioni di volo, ma
spesso risolvere un problema significa crearne un altro…
Grazie
come sempre a tutti quelli che mi seguono, e un ringraziamento
speciale a chi mi lascia anche un commento!^^
IV
– Problemi di convivenza
In
piedi accanto ai loro zaini, facendo del loro meglio per mantenere
l’equilibrio nonostante il rollio, i tre fratelli Liefke tenevano
lo sguardo fisso su una lancia che dalla corazzata Schütze
si stava muovendo nella loro direzione.
Il
pur pesante battello, flagellato senza posa dal vento teso, saltava
come un guscio di noce sulle onde crestate di spuma. Spruzzi d'acqua
piovevano senza posa sull'equipaggio, facendo luccicare le cerate
sotto il sole dei Caraibi.
I
tre, che invece indossavano l'uniforme tropicale della Luftwaffe,
contemplavano afflitti la prospettiva di arrivare alla fine della
traversata completamente fradici.
La
lancia ebbe un sussulto, balzò su un'onda particolarmente alta come
una specie di cavallo selvaggio, poi ricadde imbarcando una secchiata
d'acqua salmastra. Uno dei marinai prese la sassola e cominciò
sgottare con l'aria placida del garzone che spazza il pavimento del
negozio.
Dei
due feriti che c'erano a bordo, quello incosciente se ne stava
immobile al centro del natante, coperto da una cerata che gli
lasciava fuori solo mezza faccia, l'altro a ogni ondata si
rannicchiava per quanto glielo consentivano gli arti ingessati, e da
come gli si muoveva la bocca sembrava intento a imprecare con
veemenza.
Sulla
coperta del Walküre
le cose non andavano meglio. Una volta lontani dall'egida dell'aereo
– un sinistro macchinario verso il quale i marinai nutrivano il
misto di meraviglia e diffidenza dei selvaggi che vedono il fuoco –
i tre fratelli Liefke erano inesorabilmente crollati al rango di
marmittoni idioti, per di più digiuni di qualsiasi conoscenza
nautica, ed erano ricoperti da ondate di disprezzo, più che d'acqua
salmastra.
“Via,
terrazzani,” disse passando un marinaio, “qui dobbiamo
manovrare.”
I
tre si fecero indietro e rimasero in piedi con la testa fra le
spalle, stretti l'uno all'altro come pinguini sul pack.
“Via,
ho detto!” ripeté l'altro. Strattonò una cima che si trovava
proprio sotto i loro piedi. “Se non sapete niente di manovre,
stupidi terrazzani, almeno statevene fuori dalle palle!”
I
Liefke si rifugiarono ai piedi della scaletta che portava alla
catapulta e da lì rimasero ad attendere lo svolgersi degli eventi.
La
lancia arrivò e fu assicurata al Walküre
da un paio di cime. Hans si sporse a guardare e si ritrasse
inorridito. Fece girare lo sguardo intorno, come aspettandosi che
qualcuno intervenisse dicendo che sarebbe stato umanamente
impossibile con quelle onde passare dal cacciatorpediniere al piccolo
natante, ma nessuno sembrava minimamente turbato dall'eventualità.
“Sbrigatevi,” disse anzi un graduato, muovendo la mano come per
dirigere il traffico, “non abbiamo tutto il giorno.”
Intervenne
Wendel, che col tono di chi affronta la morte chiese: “Dobbiamo
andare laggiù?”
“E
in fretta, anche. La Schütze
sta già segnalando di mollare gli ormeggi.”
Allineati
come salsicce, tra le sghignazzate dei marinai assiepati lungo
l'impavesata, i tre si trovarono a scendere lungo una scala a pioli
stretta, scivolosa e sempre più vicina a onde che ai loro occhi di
terrazzani sembravano quelle dell'Olandese Volante.
Nel
frattempo un bansigo stava issando l'aviere ingessato, che passando
li salutò con la mano sana.
Giunsero
infine a bordo. Dopo di loro piovvero, legati insieme da una sagola,
i tre zaini, che finirono con precisione nella pozza che si era
formata sul fondo della lancia.
Poi
il Walküre
virò e si allontanò, lasciandoli in balia delle onde.
“La
nostra casa va via,” pigolò Michael seguendo con lo sguardo il
cacciatorpediniere, che ormai mostrava sdegnosamente solo la poppa.
“Quella
non era la nostra casa,” replicò Wendel. “Era solo dove
prestavamo servizio. Un posto vale l'altro, per il servizio.”
“Non
ho salutato il tenente Voss.”
“Tanto
non ci distingueva nemmeno uno dall'altro, ci chiamava tutti
genericamente Liefke.”
“Non
ho finito di incidere le mie iniziali sulla catapulta.”
“Michael!”
protestò Wendel indignato, “Non
si fanno queste cose!”
“Le
ho incise anch'io,” intervenne Hans compiaciuto.
La
rivelazione coincise con l'arrivo della lancia presso la corazzata
tascabile.
I
tre guardarono in su: da quella posizione, la fiancata della Schütze
era una specie di bastione inviolabile, in cima al quale si era già
raccolta una temuta fila di giubbe bianche. La scala a pioli che si
perdeva verso l'alto dava le vertigini.
“Forza!”
li incitò genericamente uno dei marinai della lancia. Si accese una
sigaretta, schermandola con consumata abilità dagli spruzzi che
provenivano da ogni parte.
Giunse
ondeggiando un paranco, al quale furono assicurati gli zaini. Wendel
li fissò con nostalgia mentre salivano e poi scomparivano oltre
l'impavesata. Emise un sospiro.
“Forza,”
ripeté il marinaio, manovrando una gaffa per tenere la lancia
adeguatamente discosta dalla murata della Schütze.
“Vorrei anche tornarmene a bordo, se a lor signori non dispiace.”
Si
fece avanti a quel punto Hans. Si aggrappò alla bell'e meglio alla
scaletta e cominciò a salire. La nave si alzava e si abbassava con
un movimento poderoso, che ogni volta gli rimescolava tutte le
viscere in corpo. Quando andava in su, gli sembrava che volesse
schiacciarlo contro la volta celeste come una zanzara su un vetro;
quando andava in giù, gli dava l'idea di volerlo precipitare nelle
più cupe profondità dell'oceano.
Continuò
a salire. Ogni gradino maldestramente superato era salutato dai
marinai con lazzi e sghignazzate. Uno arrivò addirittura a sporgere
dall'impavesata il deretano nudo, consigliandogli di tenerlo come
punto di riferimento per l'ascensione.
Hans
raggiunse infine la coperta, adocchiò delle uniformi kaki e subito
le raggiunse, con l'istinto sicuro dell'animale che riconosce i suoi
simili.
A
quel punto si immobilizzò come se fosse andato a sbattere contro un
muro. “Peter Pankow!” esclamò.
Fece
un passo indietro senza riuscire a capacitarsi di quello che stava
vedendo: in piedi davanti a lui, con tanto di berretto sulle ventitré
ed espressione simpatica e un po' sfrontata, c'era il tenente Peter
Pankow, quello della sfida
agli inglesi, quello
che aveva recuperato dopo aspri combattimenti un'arma segreta del
Reich.
“Ciao,”
disse disinvolto l'oggetto della sua meraviglia. “Sei il nuovo
meccanico?”
“Peter
Pankow,” ripeté Hans. “oh mio Dio, Peter Pankow!”
“Sì,
è il mio nome,” fu la disinvolta risposta. “Sai anche aggiustare
gli aerei, oltre a ripetere come mi chiamo?”
“Io...”
Hans si ricordò improvvisamente della disciplina. Scattò
sull'attenti e a voce alta e chiara scandì: “Aviere semplice Hans
Liefke a rapporto, signore! Sono un meccanico, signore!”
Nel
frattempo erano sopraggiunti gli altri due, che a loro volta
assunsero la posizione prescritta e scandirono:
“Aviere
semplice Michael Liefke a rapporto, signore!”
“Aviere
scelto Wendel Liefke a rapporto, signore!”
L'ufficiale
parve perplesso. “Tutti Liefke?” chiese.
Vagamente
imbarazzati, i tre annuirono.
Con
noncuranza Pankow replicò: “Beh, vorrà dire che vi chiamerò per
nome. Dicevi che sei un meccanico, Hans?”
“Sissignore.”
“Qualcun
altro sa mettere le mani nel motore di un aereo?”
Michael
alzò la mano.
Il
tenente annuì soddisfatto, poi si rivolse a Wendel e gli chiese: “E
tu?”
“Sono
radiotelegrafista e mitragliere, signore.”
La
cosa parve fare un gran piacere all'ufficiale, che si puntò i pugni
sui fianchi e ripeté: “Radiotelegrafista e mitragliere? Allora
dovremo fare qualche voletto insieme, una volta o l'altra! Come hai
detto che ti chiami?”
“Wendel
Liefke, signore.”
“Ah,
Wendel. Un radiotelegrafista, nientemeno.” Si girò verso un
caporale che fino a quel momento non aveva aperto bocca e disse: “Un
radiotelegrafista, hai sentito?”
Il
graduato grugnì qualcosa di inintelligibile, ma dal suono
indubbiamente poco entusiasta.
Il
tenente non se ne diede per inteso. Indicò la catapulta, sulla quale
l'aereo era ancora coperto dal telo come la vittima di un incidente
stradale, e disse: “Andate lassù, ragazzi miei, e fatemi vedere
quello che sapete fare. No, tu no Wendel. Tu ed io dobbiamo parlare
di cose molto importanti.”
Seduto
su una bitta un po' in disparte, Till scrutava torvo Peter Pankow che
parlava con quel tale Wendel Qualcosa.
Così
d'acchito gli pareva un ragazzetto senza nessuna esperienza, uno che
non sapeva distinguere un identificativo Morse da una segnalazione di
avaria, ma ormai conosceva bene il suo tenente e sapeva quanto lo
elettrizzassero le novità.
Un
nuovo radiotelegrafista, per esempio, era una cosa in grado di
accendere prepotentemente il suo entusiasmo.
Razionalmente
gli era ben noto che gli entusiasmi di Pankow si accendevano rapidi e
con la stessa velocità si spegnevano, ma a livello emotivo non
riusciva a convincersene del tutto.
Il
tenente era un ragazzino mai cresciuto, un irresponsabile, uno
sfrontato, uno che non sapeva comportarsi, che affrontava qualsiasi
cosa con una noncuranza disarmante, ma era pur sempre il suo
tenente.
Suo,
non del primo radiotelegrafista che si presentava a pavoneggiarsi
fresco di scuola.
E
non era la momentanea fama di Pankow a renderlo geloso, ma la
consuetudine che giocoforza, dopo mesi di guerra passati insieme, si
era instaurata fra loro. Era lui che sapeva come il tenente voleva la
fonia, era lui che sapeva tracciare le rotte sulla cartina nel modo
che il tenente preferiva, ed era sempre lui, quando c'era da
combattere, che sapeva brandeggiare la mitragliatrice in perfetta
sincronia con il suo volo erratico e velocissimo.
Lui,
non un moccioso qualsiasi di cui il Walküre
si era liberato senza rimpianti, come avrebbe fatto con uno scarto.
Si
puntò i gomiti sulle cosce e appoggiò il mento alle mani. Dalla
catapulta proveniva il rumore del lavorio frenetico degli altri due
mocciosi, che senza nemmeno appoggiare gli zaini sulle loro cuccette
si erano fiondati a sistemare il motore dell'Arado.
Si
augurò che sapessero cosa stavano facendo, e subito dopo si augurò
che non
lo sapessero e che Pankow decidesse di andare a fare il volo di prova
con il suo nuovo e bravissimo radiotelegrafista, così competente e
simpatico.
Rivolse
loro un’occhiata poco amichevole: stavano parlando fitto fitto di
faccende radiofoniche, li sentiva benissimo. Non poté fare a meno di
notare che per quanto lui si trovasse perfettamente nel campo visivo
di Pankow, egli evitava di chiamarlo. Anzi, gli pareva addirittura
che stesse facendo finta di non vederlo.
Evidentemente
non voleva essere disturbato, mentre si intratteneva con il suo nuovo
e bravissimo radiotelegrafista.
Si
alzò e si girò per andarsene, badando di farlo in un momento in cui
Pankow stava guardando nella sua direzione.
Il
tenente si limitò a fargli uno sbrigativo cenno di saluto con la
mano, quindi tornò a dedicare la sua attenzione al nuovo arrivato.
§
L’Arado
196 sembrava di nuovo un aereo. Non aveva più il telo che lo copriva
per metà e le cassette che avevano contenuto i pezzi di motore erano
tutte vuote e ordinatamente impilate da una parte. Le capottature
erano tornate al loro posto.
I
due ragazzotti, unti e macchiati fin sopra i capelli dopo aver
lavorato diverse ore, erano fermi sull’attenti. In quella posizione
avrebbero dovuto mantenere un’espressione impassibile,
possibilmente con lo sguardo fiero rivolto all’infinito, ma non
riuscivano a impedirsi di sorridere compiaciuti.
Pankow
si avvicinò sorridendo a sua volta da un orecchio all’altro.
Contemplò il velivolo redivivo e disse: “Magnifico, ottimo
lavoro! Non vedo l’ora di fare un giro di prova. C’è benzina?”
Si
fece avanti Schelle, che in tono vagamente ammonitore disse: “Ma
signore, sono quasi le effemeridi.”
“C’è
ancora un sacco di luce,” fu la disinvolta risposta, “e poi
staremo via poco.” Si rivolse a Wendel: “Giusto un giretto, che
ne dici?”
“Come
vuole lei, signore.”
Il
tenente si rivolse a Schelle: “Sai far funzionare la catapulta,
vero?”
“Io
sono un radiotelegrafista,” dichiarò Till piccato.
“Oh,
dai,” Pankow fece un gesto di noncuranza, “per premere due
bottoni non ci vuole certo la laurea.”
“Potrei
sbagliarmi e farla finire in acqua, signore,” fu la velenosa
risposta, che però non scalfì minimamente l’adamantino entusiasmo
dell’ufficiale.
“Siamo
ai Caraibi,” rispose infatti Pankow, “c’è gente che paga per
finire in acqua da queste parti.” Poi, a voce più alta: “Tutti a
bordo, ragazzi! Si fa un giretto di prova!”
“Come
vuole lei, signore,” ripeté Schelle facendo la vocina da
smorfiosa. Poi, in un ringhio cupo: “Specie di stronzetto.”
La
catapulta aveva funzionato correttamente, l’Arado si era involato e
stava diventando sempre più piccolo in un cielo che ormai andava
assumendo le sfumature rosa e viola del tramonto. Till immaginò il
volo sul Mar dei Caraibi blu cupo, la comparsa di Vespero
sull’orizzonte, il baluginio degli ultimi raggi di sole.
Pankow
non aveva mai volato con lui a quell’ora. Quando c’era da volare
con lui ci guardava eccome, alle effemeridi. Non ne sbagliava una.
Immaginò
il rientro: il tenente e gli stronzetti – lo erano diventati anche
gli altri due, per estensione – che parlavano fra di loro, che
rievocavano ridacchiando episodi da cui lui era escluso.
E
lui in un angolo come un povero scemo, a guardarli mentre si
divertivano.
Provò
di nuovo a ripetersi che Pankow era come una specie di cane da
caccia, che correva dietro a ogni pista però alla fine tornava
sempre indietro, che nonostante l’apparente spensieratezza era uno
che sapeva riconoscere il vero valore delle persone, ma di nuovo la
cosa non riuscì a convincerlo.
Si
chiese se esistesse qualcosa che Peter Pankow prendeva seriamente. La
guerra, ad esempio, non sembrava minimamente instillargli quel senso
di reverente timore che in generale suscitava nell’animo di
chiunque altro. L’autorità era il bersaglio di scherzi da scolaro
discolo, il nemico stesso era qualcosa come la banda di ragazzini del
quartiere vicino, con cui ci si picchiava furiosamente, ma così,
tanto per giocare, e poi ognuno tornava a casa propria.
Aveva
il coraggio di Sigfrido o l’irresponsabilità noncurante di un
bambino mai cresciuto? Un dubbio che probabilmente non sarebbe mai
riuscito a togliersi.
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Capitolo 5 *** V - Si parte per la missione ***
Gente mia, ecco un altro capitolo
del mappazzone. Con pazienza ci stiamo avvicinando all’obiettivo e
stiamo entrando nel vivo della vicenda.
Grazie
come sempre a tutti quelli che sono passati da queste parti e un
grazie particolarmente sentito a chi mi ha lasciato un commento!^^
V
– Si parte per la missione
A
oriente il cielo si stava colorando di arancione. Sotto la volta
celeste azzurro cupo, ancora punteggiata delle ultime stelle, l’acqua
era di un blu metallico, a tratti screziato d’oro laddove i primi
raggi danzavano sulle lievi increspature della superficie. L’aria
conservava il fresco della notte e portava con sé il profumo vago
della costa, suadente e carico di promesse.
La
lieve brezza faceva tintinnare appena le sagole contro i pennoni
delle bandiere, creando uno scampanellio lontano, vago, fatato in
quell’atmosfera sospesa.
D’un
tratto si udì un canto. Una voce giovane e vigorosa intonava una
vecchia canzone militare: Al
mattino presto, quando i galli cantano.
Un
gabbiano, che aveva scelto la torretta dei cannoni prodieri per
trascorrere la notte, si alzò in volo con uno strido di disappunto e
si allontanò con grandi battiti d’ala.
Comparve
il tenente Pankow, che evitando con eleganza i marinai intenti a
pulire il ponte di coperta, senza smettere di cantare, procedeva di
buon passo verso la catapulta.
Lo
seguivano, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi, i tre fratelli
Liefke. Buon ultimo, con le mani allacciate dietro la schiena e lo
sguardo torvo di Napoleone alla battaglia di Lipsia, camminava
Schelle.
“Oggi
è la giornata perfetta per volare!” esclamò Pankow interrompendo
i vocalizzi. Sottrasse con abile mossa la redazza a un marinaio, mimò
con essa qualche giro di valzer, quindi la rese al legittimo
proprietario. Divorò a due a due i gradini che portavano alla
piattaforma di servizio della catapulta, strappò via il telone che
copriva l’aereo col gesto elegante di un toreador che mulina il
capote
poi disse: “Eccolo qui, il mio Bucefalo! Il mio Balio, il mio
Xanto, il mio Sleipnir!”
“Il
mio Ronzinante,” ringhiò Till dal basso.
“Che
cosa?” chiese Pankow affacciandosi al parapetto.
“Niente, signore.”
“Il
nostro volo di ricognizione aspetta,” gli ricordò il tenente.
“Sissignore.”
Schelle
salì su per la scaletta che portava alla piattaforma, e prima ancora
di metterci spora il piede si sentì chiedere: “Puoi prestare le
tue carte a Wendel?”
Si
immobilizzò. “Cosa?”
“Le
carte,” replicò il tenente con la massima naturalezza. “Sai, lui
non ha ancora le sue...”
Till
rivolse al tenente uno sguardo che nelle sue intenzioni avrebbe
dovuto incenerire. L’ufficiale notò i suoi occhi semichiusi e
premurosamente gli disse: “Eh già, è una levataccia.” Gli diede una
pacca come di incoraggiamento sulla spalla. “Allora, queste
carte?” chiese poi.
“Quali
carte, signore?” chiese Schelle, stavolta ben deciso a non farsi
defraudare del suo ruolo.
“Le
carte con la navigazione verso quell’isola. Come si chiama?
Bula-Bula? Jonzondjupa?”
“Ypa'u
Oiyva, signore,” ringhiò il caporale.
“Insomma,
quella,” rispose disinvolto il tenente. “Ti spiacerebbe
dargliele?”
Schelle
assunse l’espressione stolida del mulo intenzionato a bloccare un
convoglio a metà di una salita e rispose: “Le carte mi servono per
navigare, signore.”
Il
tono di Pankow suonò addirittura rassicurante: “Ma no, ci penserà
lui, tranquillo. Gli bastano solo le tue carte.”
Di
nuovo scattò l’occhiata inceneritrice, al solito serenamente
ignorata dall’ufficiale, poi Till replicò: “Con tutto il dovuto
rispetto, signore, io ho molta più esperienza in contesti
operativi.”
L’altro
lo fissò quasi con un’ombra di riprovazione. “E non vuoi dare
anche a lui l’occasione di farsela?” Sembrava che stesse
rimproverando un bambino straricco, sazio e soddisfatto perché non
voleva regalare qualcuna delle sue caramelle a un bambino povero.
Schelle
non demorse: “Sempre con il dovuto rispetto, signore, questa è una
missione operativa, non un’esercitazione.”
“Ma
no, che missione operativa!” replicò il tenente. “Cioè sì,
teoricamente lo sarebbe, nel senso che siamo in guerra, ma è solo
una banale ricognizione, su un’isola piena di giungla. Al massimo
rischiamo che un tucano ci si infili nel parabrezza.”
“I
tucani stanno in Sud America, signore.”
“Ah.”
Pankow parve perplesso. “E qui dove siamo?”
“America
centrale, signore.”
“Tu
sì che conosci la geografia, Till,” apprezzò il tenente, poi
stabilì che la conversazione era finita e gli girò le spalle per
dedicarsi all’aereo, senza il minimo dubbio che lui avrebbe con
gioia dato allo stronzetto tutte le carte che si era comprato con i
soldi della sua prima decade e su cui aveva passato innumerevoli ore
di studio e fatica.
La
luce nel frattempo era aumentata, l’aria si era fatta più calda e
più carica di profumi misteriosi. In attesa di virare all’azzurro
intenso della tarda mattinata, il cielo conservava un colore
perlaceo, tenue, vagamente dorato intorno al disco solare, che da
poco aveva abbandonato l’orizzonte. Le tonalità rosate dell’alba
cedevano il posto al fulgore nitido del giorno, scompariva la sottile
foschia che durante la notte aveva ammantato il pelo dell’acqua.
Il
tenente strinse appena gli occhi per proteggersi dal riverbero della
luce sulle onde. L’aria era pulita come dopo un acquazzone
primaverile, c’era calma di vento. Piegò leggermente la testa
all’indietro e inspirò profondamente. Per un attimo desiderò di
poter essere lui stesso a spiegare le ali e a librarsi, poi il
momento di lirismo lo abbandonò rapido com’era giunto e il
pensiero successivo fu che gli sarebbe piaciuto scovare qualche
barattolo di latta vuoto da attaccare alla coda del gatto di bordo.
Volse
di nuovo lo sguardo all’orizzonte. Sulla base di quello che
ricordava della mappa cercò di calcolare i tempi della missione e
stabilì che sarebbero senz’altro tornati per l’ora del rancio,
dopo un breve volo comodo e facile intorno a un’isola deserta. Si
chiese dove fossero finiti i marinai e i tecnici che von Stauff aveva
inviato sul posto qualche giorno prima e stabilì che dovevano essere
spaparanzati da qualche parte all’ombra, a godersi cocchi e banane.
O
almeno, questo era ciò che avrebbe fatto lui se si fosse trovato
nella stessa situazione. La cosa gli fece venire in mente che in
effetti avrebbe potuto davvero fare una piccola sosta per un po’ di
cocchi e banane, tanto cosa ne poteva sapere un ufficiale di marina
di quanto durava una ricognizione aerea? Sarebbe bastato fare qualche
foto, magari ricordare alla squadra dispersa che a bordo avrebbero
avuto piacere di sapere che fine avevano fatto, e nessuno avrebbe
rotto le scatole con domande importune.
Captò
un’occhiata livida di Schelle e per qualche secondo si chiese anche
perché mai da un paio di giorni il suo radiotelegrafista fosse così
torvo, poi il pensiero venne soppiantato da quello, molto più
piacevole, di cocchi e banane sulla spiaggia. Il malumore di Till fu
liquidato con un’alzata di spalle.
Peter
Pankow, in combinazione di volo e giubbotto di salvataggio, osservò
soddisfatto l’aereo, già puntato verso il largo per il decollo,
quindi proclamò: “Molto bene, direi che possiamo partire.” Come
al solito, sembrava che stesse per andare in gita. Si girò verso
Hans e Michael Liefke: “Siete pronti?”
I
due si scambiarono un’occhiata, poi lo fissarono con l’aria di
chiedergli spiegazioni. Pankow fece un passo verso di loro e a bassa
voce rivelò: “Se le condizioni lo permettono, ci facciamo un bel
bagno.”
“Ma…”
interloquì Michael.
“Che
c’è, aviere?”
“Ecco…
dobbiamo venire anche noi, signore?” Lo sogguardò incerto,
l’espressione era di chi non sapeva se fosse meglio aspettarsi un
sì o un no.
Pankow
gli strizzò l’occhio con fare complice e rispose: “Se ci
stringiamo un po’ ci stiamo tutti. Lo sai che una volta caricammo
nella postazione di Schelle due casse di birra, un prosciutto lungo
come il mio braccio, un barile di crauti e mezzo quintale di
salsicce? Ah, e naturalmente pane e patate. Till ha fatto tutto il
volo con una cesta di Brezeln appesa alla culatta dell’MG34,
sembrava una massaia di ritorno dal mercato.” Poi, a voce più
alta: “Ti ricordi, Till?”
Dalla
postazione di comando della catapulta giunse un lugubre Sissignore.
Pankow
annuì soddisfatto, quindi disse: “Ora a bordo, ragazzi. Un
giubbotto di salvataggio per ciascuno, magari un bel telo da bagno se
ce l’avete, e si parte.” Si rivolse a Hans: “Tu che sei
piccoletto vieni in cabina con me. Ti faccio anche tenere la cloche,
se si mantiene questa calma di vento.”
“Grazie,
signore!” rispose felice il ragazzo.
Pankow
chiamò Wendel. “Hai dato un’occhiata alla navigazione?”
“Sissignore.”
“Hai
visto che belle carte? Devi ringraziare Till. Dì: grazie, Till, le
tue carte sono bellissime!”
Obbediente,
il ragazzo ripeté: “Grazie, Till, le tue carte sono bellissime.”
Dalla
postazione di comando provenne qualcosa che somigliava decisamente a
fanculo.
“E
tu non vieni?” gli chiese l’ufficiale, al solito serenamente
noncurante del suo umore plumbeo.
“Io
devo azionare la catapulta, signore, mentre lei se ne va in volo con
il suo nuovo radiotelegrafista.”
“Per
me va bene anche un marinaio,” considerò Pankow, con il tono con
cui un altro avrebbe detto per
me va bene anche una scimmia.
“In fin dei conti, basta uno che prema un bottone, il resto lo fa
tutto l’aereo.” Andò ad affacciarsi alla ringhiera, scrutò la
gente in coperta fino a che non trovò un tipo che gli pareva adatto
e gli disse: “Ehi, tu! Vieni qui!”
Pochi
minuti dopo, l’Arado 196 era in volo su un mare liscio come l’olio,
sotto un cielo nel quale non si vedeva una nuvola nemmeno
all’orizzonte. Un po’ impacciato dal ragazzo che gli sedeva quasi
in braccio, Pankow si godeva comunque la missione. Pilotare è una
serie di automatismi, era solito ripetergli il suo istruttore, finché
non ce li hai, ai comandi di un aereo non sai cosa fare; appena li
hai acquisiti, pilotare diventa facile come camminare.
Tutti
automatismi, niente di che. Roba che si faceva senza sprecarci un
minimo di materia grigia.
Una
volta imparato a sentire
l’aereo, una volta acquisite le reazioni istintive alle variazioni
d’assetto, manovrare la cloche era come muovere il manubrio della
bicicletta.
Buttò
giù il muso in una piccola picchiata. Niente di che, per lui,
tuttavia Wendel emise uno strillo nell’interfono e con voce
concitata chiese: “C’è il nemico, signore?”
Pankow
richiamò e fece una virata. Di nuovo niente di che, solo sessanta
miseri gradi, ma ugualmente un coro di esclamazioni preoccupate si
levò dai tre ragazzi. Quelle di Wendel le sentì bene attraverso
l’interfono, quelle degli altri due le immaginò, più che altro,
vedendo l’espressione preoccupata e la bocca aperta di Hans.
L’unico
muto come un trappista era Schelle, ma la cosa non lo stupì: in
fondo lui era abituato al suo modo di volare.
Diede
motore, cabrò puntando con decisione il muso verso l’alto. Hans
gli piombò addosso, roteò gli occhi, cercò di aggrapparsi da
qualche parte col movimento frenetico di un gatto che sta per essere
buttato in acqua, poi l’assetto inusuale lo disorientò ed egli
lasciò crollare la testa, che cominciò a muoversi solidale con gli
spostamenti dell’aeroplano.
Picchiò
di nuovo. Una cosetta di poco conto, non è che da un idrovolante a
scarponi si potessero pretendere le prestazioni di un Messerschmitt
109, tuttavia a un tratto nell’interfono la voce concitata di
Wendel fu sostituita da quella gelida di Till, che sobriamente
comunicò: “Il suo nuovo e bravissimo radiotelegrafista è svenuto,
signore. Sono autorizzato a prendere il suo posto?”
“Fa’
come se fossi a casa tua,” rispose sbrigativo il tenente,
riprendendo un volo livellato in linea retta. Hans gli si afflosciò
sulla spalla come una pianta senz’acqua.
Pankow
regolò giri e quota, controllò la bussola e infine sistemò il trim
in modo che l’aereo si mantenesse in assetto. Cercò di spostare
l’aviere, che nonostante tutto si ostinava a stragli addosso come
una specie di cataplasma.
“Tutto
a posto, là dietro?” chiese dopo un po’.
“Per
fortuna nessuno ha vomitato, signore.”
Trascorse
un altro po’ di tempo, poi il colore del mare passò dal blu al
turchese intenso. All’orizzonte comparve una striscia verde scuro.
“Mi
sa che ci siamo,” disse il tenente. Tolse un po’ di motore, scese
di quota. Man mano che si avvicinava, la striscia verde si
differenziava in palme, mangrovie, alberi ad alto fusto e arbusti.
L’acqua
si era fatta ancora più chiara e trasparente, si vedeva già la
spiaggia bianca. Lungo la costa lussureggiava magnifica la foresta
vergine, in tutto il suo primigenio splendore. Per quello che poteva
vedere, in giro non c’era nessuno.
Avranno
tirato in secco la barca, disse fra sé e sé, come sempre
immaginando il gruppetto di marinai intenti a godersi cocchi e banane
in qualche posticino all’ombra.
Percorse
con lo sguardo la linea della battigia, alla ricerca di un posto dove
fosse possibile ammarare. “Bagno per tutti!” annunciò deliziato
nell’interfono.
Poi
gli parve di notare un lampo arancione nella boscaglia,
immediatamente seguito da uno sbuffo di fumo.
“Merda!”
urlò.
Allungò
la mano per ridare tutta manetta, ma in quel momento la semiala
sinistra esplose. L’aereo cominciò a perdere quota, il motore su
di giri urlava, i tre fratelli Liefke urlavano ancora di più.
Privo
di portanza da un lato, l’Arado rischiava di ribaltarsi, i grossi
scarponi rendevano difficile compensare con la cloche e la pedaliera.
La
foresta si stava avvicinando con inquietante velocità.
Pankow
proferì una serie di sentite imprecazioni.
Si
udì la voce esasperata di Schelle: “No! Di nuovo!”
La
semiala superstite cominciò a falciare le cime degli alberi, uno
scarpone si agganciò a un ramo, l’aereo capitombolò pancia
all’aria, lasciò un pezzo degli impennaggi di coda sul tronco di
una palma, proseguì la sua caduta abbattendo rami con un fracasso da
fine del mondo.
All’interno
del velivolo tutti urlavano, chi imprecando e chi raccomandandosi
l’anima a Dio. Siccome perlopiù non erano legati con le cinture,
essendocene a disposizione solo due, ad ogni giravolta dell’areo
tutti finivano gli uni addosso agli altri, venendo a trovarsi
aggrovigliati in posizioni laocoontiche.
Dopo
una caduta che a tutti parve molto più lunga del tratto di volo che
l’aveva preceduta, quel che rimaneva dell’aereo finalmente
raggiunse il suolo e perlomeno smise di girare come il cestello di
una lavatrice.
“Niente
di rotto?” chiese Pankow non appena riuscì a recuperare le
funzioni cognitive di base. Si guardò intorno: erano nel bel mezzo
di una giungla, l’aereo sembrava non avere più nulla di intero, a
parte forse i seggiolini. Di Hans si vedevano solo i piedi, il resto
doveva essere sul pavimento della carlinga. “Ehi, ragazzo,”
biascicò con la sensazione di avere una patata in bocca. “Ragazzo,
mi senti?”
Dal
basso giunse un lamento.
“Ragazzo,
muoviti. Qui rischia di saltare tutto.”
“Cosa?”
“C’è
ancora benzina nel serbatoio,” spiegò il tenente. “No so tu, ma
io non ci tengo a finire arrosto.”
Quelle
parole, che secondo Pankow avrebbero dovuto convincere l’aviere ad
abbandonare senz’altro il relitto, scatenarono invece un parossismo
di eccitazione fine a se stessa in cui Hans prese a divincolarsi come
una specie di sardina presa all’amo, senza peraltro concludere
niente di utile.
L’altro
rimase per un po’ a osservarlo con cortese interesse, quindi gli
chiese: “Ti sembra il momento di mettersi a fare il
contorsionista?”
“Aiuto!”
provenne dalle profondità della carlinga.
“Hans,
non per farti fretta, ma qui tra un po’ salta tutto.”
Dopo
il sobrio ammonimento, il tenente si voltò verso la postazione del
radiotelegrafista: anche da quella parte era in corso un frenetico
abbandono del mezzo.
Afferrò
Hans per la cintura dei pantaloni, lo spinse fuori mentre ancora si
contorceva, poi si lasciò cadere a terra a sua volta.
Un’esplosione
assordante segnò la fine dell’Arado 196.
Pankow
osservò le fiamme che avvolgevano la fusoliera, prese un’aria
assorta e sospirò: “Peccato, un così bell’aereo…”
“Il
secondo in meno di due mesi,” gli fece notare Schelle.
“Dulce
et decorum est pro patria mori,”
replicò il tenente con solennità.
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Capitolo 6 *** VI - Si ritrovano vecchie conoscenze ***
Salve a tutti, eccomi qui con una
nuova puntata delle demenziali avventure del nostro Peter Pan(kow).
Come sempre un grandissimo ringraziamento a tutti quelli che passano
a dare un’occhiata al mappazzone, particolarmente sentito se nel
frattempo mi lasciano anche un parere^^
VI
– Si ritrovano vecchie conoscenze
“Perfetto,”
ringhiò Schelle, fermo a distanza di sicurezza dal rogo dell’aereo.
“Perfetto, davvero. Siamo di nuovo in una zona occupata dagli
inglesi, senza mezzo per rientrare né possibilità di comunicare con
la Schütze.”
Lungi
dal sentirsi chiamato in causa, il tenente gli restituì uno sguardo
serafico e disse: “Il tuo problema, Till, è che fai fatica a
vedere il lato positivo delle cose. In primo luogo, siamo tutti più
o meno incolumi, e poi gli inglesi penseranno che siamo morti nel
rogo e non ci cercheranno nemmeno.” Fece una pausa e compiaciuto
soggiunse: “Potremo trovarci un posticino tranquillo e mangiare
cocchi e banane in pace. Nessuno ci disturberà”
“E
come torneremo indietro, signore?”
Pankow
alzò le spalle. “Ci inventeremo qualcosa, anche Robinson Crusoe
alla fine riuscì a tornarsene a casa. Intanto però possiamo
divertirci un po’.” Si guardò intorno e si chiese: “Chissà da
che parte è la spiaggia?”
Schelle
si limitò ad alzare gli occhi al cielo.
Il
tenente nel frattempo stava continuando a guardarsi intorno.
Dappertutto c’era una giungla intricata e inospitale, con
rampicanti, liane che pendevano dagli alberi e un fondo di foglie
marce nel quale si affondava fino alle caviglie. Salì su un albero
con la velocità di una bertuccia che ha visto arrivare un leone,
rimase per qualche tempo ad agitarsi fra i rami con gran frusciare di
foglie, poi tornò giù deluso. “Non si vede niente,” brontolò.
I
tre fratelli Liefke gli gettarono un’occhiata, quindi si strinsero
l’uno all’altro a disagio. Schelle era pronto a scommettere che
stessero alquanto ridimensionando le proporzioni della loro
ammirazione per Pankow.
“Di
qua,” concluse infine il tenente. Si incamminò con fare risoluto,
inoltrandosi fra gli arbusti come un bufalo di palude, e in breve
scomparve alla vista, lasciandosi dietro solo una scia di frasche
calpestate.
Till
si mise a sua volta in movimento – il tenente sarebbe stato capace
di scomparire chissà dove, se faceva tanto di perderlo di vista per
troppo tempo – e i ragazzi gli si accodarono in fila indiana,
immersi in un silenzio greve di preoccupazione.
§
Il
capitano Hook batté un paio di volte l’uncino sul sottomano della
scrivania, quindi andò all’oblò e rimase per un po’ a
contemplare il cielo azzurro tagliato verticalmente da una densa
colonna di fumo nero.
Si
rivolse al nostromo e lo squadrò con l’aria di considerare la
faccenda una sua precisa responsabilità.
“Un
altro aereo tedesco, signor Soak?” domandò tagliente.
Il
sottufficiale ritirò appena la testa fra le spalle. “Sì,
comandante.”
“Abbattuto
mentre curiosava?” Lo sguardo del comandante prese una sfumatura
ferina. “Mentre, novella Niobe, cercava i suoi figli perduti?”
Con
fare volenteroso, Soak rispose: “Mi risulta che la Niobe sia
attualmente nel Mare del Nord, signore, però se vuole posso
informarmi.”
Hook
alzò gli occhi al cielo. “Era un paragone mitologico, nostromo.”
“Mi
scusi, signore.”
“La
tendenza al mito è innata nella razza umana. È la protesta
romantica contro la banalità della vita quotidiana.”
Soak
fissò lo sguardo all’infinito. “Come dice lei, signore.”
“È
una frase di William Somerset Maugham, nostromo.”
“Sissignore,”
rispose il sottufficiale, chiedendosi frattanto su quale accidenti di
unità prestasse servizio quel dannato Maugham. E chi accidenti
fosse, soprattutto.
Hook
tornò a sedersi alla scrivania e riprese: “In ogni caso, nostromo,
sembra che nella foresta giaccia il relitto di un aereo del Reich,
non è così?”
Soak
si sentì pervadere dal sollievo per il ritorno ad argomenti
nuovamente di ambito militare. “Sissignore,” rispose con
entusiasmo, “è stato abbattuto da una delle batterie costiere.”
“Ci
sono superstiti?”
“È
bruciato tutto, signore,” rispose il nostromo, con l’aria di
voler chiudere con quella frase l’argomento.
“Peccato,”
disse invece il capitano. Sollevò l’uncino, che sotto la luce
della lampada da tavolo mandò un sinistro brillio metallico.
Aggrottò appena le sopracciglia e proseguì: “Io prego tutti i
giorni, nostromo.” Fissò lo sguardo sul lucido gancio d’acciaio
e gli occhi gli divennero due fessure. “Vuole sapere per cosa
prego?” soggiunse in un basso ringhio.
Soak
non poté impedirsi di deglutire. “Ho quasi paura di chiederlo,
signore,” confessò.
La
voce di Hook si abbassò ancora, diventando un sibilo carico di
minaccia: “Ebbene, a Dio o al Diavolo, chi dei due sarà disposto
ad ascoltarmi, io chiedo che quell’ignobile moccioso, quel
maledetto, disgustoso ragazzino che mi ha fatto questo mi capiti
ancora una volta davanti. Non desidero altro da questa vita.”
Strinse a pugno la mano superstite con tale forza che le giunture
scricchiolarono.
Detto
questo, recuperò l’abituale compostezza e chiese: “Ancora nulla
sugli occupanti della lancia?”
“Le
ricerche continuano, ma sembra che abbiano fatto perdere le loro
tracce, signore.”
“In
un’isola grande a malapena quanto un fazzoletto e per metà
controllata da noi? Senza dubbio sono stati nascosti dagli indigeni.
La ragazza ha detto qualcosa?”
“Finora
perlopiù parolacce, signore.”
“Un
comportamento decisamente inadatto a una giovane donna,” sentenziò
Hook. Poi, in tono più duro: “Continuate a tenerla prigioniera,
prima o poi o lei o suo padre si decideranno a parlare.”
“Sissignore,”
rispose Soak.
Nella
cabina calò un silenzio rotto solo dalla fioca eco di qualche ordine
gridato all’esterno.
Hook
aprì un cassetto e ne trasse alcuni messaggi cifrati, li sparse sul
sottomano e picchiettandoli con l’uncino disse: “Non è mio
costume infierire sule fanciulle, signor Soak, ma in guerra e in
amore tutto è lecito.” Scrutò l’espressione del nostromo,
impenetrabile e fissa all’infinito. “Qui siamo in guerra,” si
sentì in dovere di specificare. Raccolse uno dei documenti, lo
scorse brevemente, quindi proseguì: “Oltre ad avermi reso un
triste simulacro dell’uomo affascinante e mondano che ero un tempo,
oltre ad avermi privato per sempre della gioia di suonare il
pianoforte, quella specie di sottoprodotto di un postribolo in
fallimento si è anche appropriato di un’arma segreta di proprietà
della Corona britannica.”
“Signore,
ma non era un’arma del Reich?” interloquì zelante il nostromo.
Hook
aggrottò le sopracciglia e in tono tagliente replicò: “Nel
momento in cui la Corona britannica ne è venuta in possesso, ha
cessato di appartenere al Reich ed è diventata nostra. Primum
tollo, nominor quoniam leo.”
Disorientato
dalla massima in latino, Soak preferì mantenere un cauto silenzio.
Il
capitano abbandonò allora la scrivania, fece qualche passo, di nuovo
si fermò presso l’oblò e guardò fuori. La colonna di fumo
continuava imperterrita a innalzarsi verso il cielo. “Sa perché la
Jolly Roger è stata inviata qui a Ypa'u Oiyva, signor Soak?”
chiese, con tono apparentemente svagato ma in realtà carico di
oscura minaccia. “Siamo in missione segreta. Sappiamo che la
squadra di tecnici inviata dalla nave tedesca è in possesso del
nostro dispositivo ombra e ha il compito di installarlo e
collaudarlo.” Batté l’uncino sul tavolo, facendo sussultare il
nostromo. “Noi dobbiamo recuperarlo a qualsiasi costo. La Corona
conta su di noi per tornare in possesso del dispositivo ombra, ma
soprattutto per impedire che esso venga messo in opera dal Reich.”
“Sissignore.”
“E
io pregherò che quel maledetto Peter Pankow, quel luetico
ereditario, quel trovatello di una meretrice da cinque marchi, sia in
qualche modo coinvolto nella missione, così che io possa finalmente
restituirgli con gli interessi quello che mi ha fatto.”
“Intende
tagliargli una mano, signore?” s’informò cauto il nostromo,
disorientato da quel momento di ferocia.
Sul
volto liscio di Hook si dipinse un ghigno ferino. “Non mi interessa
la sua mano,” dichiarò minaccioso. “Io voglio la sua testa.”
§
Peter
Pankow si fermò di fronte a un groviglio di rampicanti così fitto
che non si vedeva al di là, saldamente avvinto ai rami delle piante
più grosse, ma soprattutto pieno di ragni larghi come il palmo di
una mano. “Accidenti,” borbottò grattandosi la testa. Di nuovo
cercò di scrutare al di là dell’intrico di rami, ma il contatto
ravvicinato con un aracnide lo spinse ad arretrare. “Eppure avrei
giurato che il mare fosse da quella parte,” protestò. Si girò
verso gli altri con l’aria di considerare tutta la faccenda uno
scherzo di pessimo gusto fatto specificamente a lui. “Beh, possiamo
almeno approfittarne per riposarci un po’,” disse alla fine, di
nuovo col suo sorrisetto noncurante sul volto. Cercò un posto
approssimativamente libero alla base di un albero e si sedette.
Wendel
strappò via qualche arbusto per creare un po’ di posto, poi chiamò
i fratelli: “Hans, Michael, venite a sedervi qui.”
“Fa
caldo,” protestò Hans.
“Fammi
vedere quel graffio che hai sulla fronte,” ordinò il più grande
per tutta risposta. “L’hai pulito bene?”
L’altro
non poté trattenersi da ridere: “ Wendel, siamo in mezzo alla
giungla. Con cosa vuoi che lo pulisca, con le foglie?”
“Potresti
usare il tuo fazzoletto.”
“E
dai, è solo un graffietto.”
“Con
questo clima, anche un graffietto può infettarsi,” sentenziò
l’altro.
Hans
emise un sospiro di esasperazione, quindi replicò: “Senti, perché
non vai da Michael? Scommetto che si è fatto più male di me
nell’atterraggio.”
“Non
è vero!” esclamò il chiamato.
“Sì,
invece,” replicò Hans, “giri zoppo come Long John Silver. Per me
ti sei come minimo rotto una gamba.”
“E
tu invece ti sei rotto il...”
“Michael!”
intervenne Wendel in tono tagliente. “Non si dicono le parolacce.”
“Che
palle.”
“Che
cosa ti ho detto?”
“Mi
hai detto che non si dicono le parolacce, e io ti ho risposto che
palle.”
L’altro,
che stava per ribattere, si appoggiò una mano sulla coscia e subito
assunse un’espressione preoccupata. Si palpò allora con più
urgenza, spostando la mano verso la tasca della combinazione di volo,
e l’espressione da preoccupata si fece sgomenta. “Oh no!”
esclamò.
Tutti
si voltarono nella sua direzione. “Cosa c’è?” chiese Pankow.
“Le
carte! Ero convinto di averle messe qui...” si interruppe.
A
quel punto, Till fu pervaso da un orribile presentimento. “E
invece…?” lo incoraggiò.
“Ecco...”
Gli
occhi di Schelle divennero due fessure. “Ecco, cosa?”
“Non
ho fatto apposta,” si affrettò ad assicurare Wendel, “non ci ho
pensato, e poi c’è stato l’atterraggio fuori campo… il
fuoco...”
“Sì,
poi le inondazioni, le cavallette e il terremoto,” lo interruppe il
caporale con l’aria di volergli saltare addosso da un momento
all’altro. “Dove sono le mie carte?”
“Io…
nell’aereo,” si decise a dire Wendel.
A
quel punto però si intromise Pankow, che col suo solito tono svagato
disse: “Eh, capirai! Ne comprerai delle altre, no?”
Till
gli rivolse uno sguardo omicida.
“Comprerai
delle carte nuove, più belle. E se devo dirti la mia opinione,
quelle vecchie avevano proprio bisogno di una bella rinnovata.”
“Le
avevo comprate con la mia prima decade,” ringhiò Schelle pallido
di rabbia, “ci ho studiato sopra giorno e notte, quando ho preso la
qualifica di radiotelegrafista. Perché io ho studiato per
andare in missione operativa, non mi ci sono trovato solo perché
qualche pilota era un po’ stanco della solita routine e voleva
volare con una persona nuova.”
Andò
a sedersi a qualche metro di distanza, avendo cura di dare le spalle
al gruppo.
§
Nello
stesso momento, il capitano di fregata James Hook stava passeggiando
lentamente sul ponte di coperta. Fedeli alle secolari tradizioni
della Royal Navy, marinai e ufficiali si tenevano scrupolosamente sul
lato sottovento rispetto a lui ed egli camminava, immerso nei suoi
pensieri, in una perfetta solitudine.
Sollevò
lo sguardo sulla colonna scura che si alzava dalla macchia. Il fumo
non era più denso e nero come all’inizio, ormai aveva una tonalità
grigio-biancastra, segno che non erano più gomma e olio – o
magari grasso organico – a bruciare, ma legno. Si augurò che il
fuoco non si estendesse troppo, perché pur non disprezzando
l’eventualità di contemplare un incendio e frattanto comporre
carmi, cosa che prima di lui poteva vantarsi di aver fatto solo
Nerone, nondimeno riteneva che la foresta avesse una sua selvaggia,
primigenia bellezza, e avrebbe trovato disdicevole che finisse in
cenere.
Mentre
stava passeggiando assorto, lo raggiunse il nostromo, unica persona,
in virtù della loro lunga consuetudine, che avesse il permesso di
avvicinarlo in simili frangenti.
Hook
interruppe il suo lento camminare e assunse una posa che ricordava
vagamente quella del re Sole. Si lisciò i baffetti neri, quindi
chiese: “Che cosa c’è, signor Soak?”
“Signore,
volevo solo riferirle che i sommozzatori non hanno ancora trovato
nulla.”
Hook
assunse uno sguardo di disappunto. “Eppure sono certo che il
dispositivo ombra sia sott’acqua. Sulla lancia hanno trovato una
mappa delle grotte subacquee che ci sono verso la scogliera. Questo
vorrà dire qualcosa, no?”
“Sissignore.”
“E
comunque,” replicò con sussiego Hook, “sott’acqua o
sottoterra, il dispositivo ombra è su quest’isola e non può
andarsene, quindi è solo questione di tempo, poi lo troveremo.”
In
quel momento cominciò a farsi udire un ticchettio. I due si
scambiarono un’occhiata perplessa e presero a guardarsi intorno per
scoprire la provenienza del rumore.
Infine
il nostromo disse: “Sembra che venga dall’acqua, signore.”
Hook
andò ad affacciarsi all’impavesata: poco lontano dalla murata
della nave galleggiava una sfera del diametro di circa mezzo metro,
nera e lucida, irta di aculei. Il ticchettio proveniva da lì.
Istintivamente,
il comandante si fece indietro come se la sfera avesse potuto
improvvisamente saltargli addosso. “Oh mio Dio,” disse.
“Che
cosa c’è, signore?” chiese Soak. “Cosa succede?”
“Quell’affare,”
rispose Hook, indicando genericamente la direzione in cui si trovava
l’ordigno. “La Crocodile.”
“Vuole
dire quella roba sperimentale, signore?”
La
mina continuava a ticchettare inesorabilmente.
“Proprio
lei,” rispose rapido Hook. “Prenda una gaffa, dobbiamo tenerla
lontana.”
“Una
gaffa?” Soak diede un’occhiata alla Crocodile, che continuava a
flottare con aria sorniona, emettendo il gaio rumore di una vecchia
sveglia. “Non c’è una gaffa così lunga su tutta la Jolly
Roger, signore.”
“Beh,
trovi il modo di tenerla lontana,” fu la concitata replica, “si
ricorda quello che una Crocodile è stata in grado di fare al
laboratorio, vero?”
La
mina continuava a ticchettare placida, andava lentamente su e giù
per effetto del moto ondoso, ogni tanto si avvicinava un po’ alla
murata, ma pigramente, come se in realtà non ne avesse tutta quella
voglia, poi si allontanava di nuovo.
Mentre
il comandante seguiva i suoi movimenti col fiato sospeso, arrivò di
corsa il signor Soak reggendo una lunga asta graduata. “Ecco qui,
signore!” esclamò facendolo sussultare. “È quella che usiamo
per vedere quanta nafta c’è nei serbatoi, può andare bene?”
In
quel momento, la mina smise di ticchettare. Hook trattenne il fiato
mentre gli episodi salienti della sua vita gli passavano davanti agli
occhi, ma non successe niente. Lui e il nostromo si scambiarono
un’occhiata, poi di comune accordo andarono a vedere: la Crocodile
non c’era più.
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Capitolo 7 *** VII - Incontri ***
Carissimi,
continuano le
improbabili avventure dei nostri eroi sull’isola che non c’è.
Grazie a tutti quelli che sono passati di qui, mi hanno letto e
magari si sono fatti due risate. Un grazie particolare va come sempre
a chi mi ha anche commentato^^
VII
- Incontri
Pankow
si girò verso il suo radiotelegrafista: il caporale Schelle sedeva
su una pietra a qualche metro di distanza, con le spalle ingobbite,
girando rigorosamente la schiena al resto del gruppo.
Per
un po' rimase semplicemente a scrutarlo in silenzio, poi stabilì che
molto probabilmente il caporale aveva qualcosa che non andava.
Si
alzò dunque premuroso, lo raggiunse e ostentando il tono allegro di
un vecchio amico – uno di quelli che scherzano sempre ma al momento
buono sanno anche ascoltare – gli chiese: “Qualcosa non va,
Till?”
Schelle
lo squadrò gelido. “Nossignore, è tutto a posto,” rispose
lapidario. Tornò a girarsi con la faccia verso la vegetazione.
Pankow
rimase interdetto. Aveva dato prova di empatia, si era dimostrato
premuroso, aveva addirittura offerto una spalla sui cui eventualmente
piangere. Cioè, non esplicitamente, ma nel caso non l'avrebbe certo
negata. Perché allora Till non ne voleva approfittare?
Fece
un altro tentativo: “Sicuro che sia tutto a posto?”
Questa
volta Schelle non si girò nemmeno. “Non vedo perché le dovrebbe
interessare, signore,” rispose.
Il
tenente trasecolò. Per quanto si sforzasse, non riusciva a spiegarsi
il suo strano atteggiamento, così diverso da quello che aveva di
solito: forse aveva ricevuto brutte notizie da casa? La sua fidanzata
lo aveva lasciato?
“A
me interessa che tu stia bene,” gli assicurò con calore.
Fu
come aver avvicinato un fiammifero a un fusto di benzina: Schelle si
girò di scatto e lo fissò con occhi spiritati, poi in tono
minacciosamente basso ringhiò: “Non si direbbe proprio, signore.
Perché se le interessasse qualcosa del sottoscritto, forse adesso lo
capirebbe da solo cosa c'è che non va.”
Pur
con tutta la sua buona volontà, a quel punto Pankow alzò gli occhi
al cielo e sbuffò: “Cosa fai, Till, la fidanzata acida?”
“Io
non sono una fidanzata acida,” rispose Schelle con insospettata
violenza, “però sono uno che ne ha piene le palle! Wendel di qua,
Wendel di là, e com'è bravo Wendel, e com'è simpatico Wendel, e
dagli le tue carte, e dagli il tuo posto di radiotelegrafista... io
ho sudato sangue per avere quella qualifica, ho passato notti in
bianco, ho trascorso intere domeniche chiuso nella mia stanza a
studiare... E questo è il risultato?”
Pankow
sbatté gli occhi come se gli fosse appena arrivato in faccia un
secchio d'acqua. Fissò Till, che stava ansimando paonazzo d'ira, e
gli chiese: “Ma non sarai mica geloso?”
“Strano,
vero?” replicò sarcastico l'altro. “Vengo relegato in un angolo,
costretto a subirmi i panegirici su quell'impiastro, costretto
addirittura a cedergli le mie carte, che per inciso sono anche finite
in cenere, e pensa un po': la cosa non mi fa piacere.” Scosse la
testa e concluse: “Sono proprio strano, vero?”
A
quel punto, anche l'allegro, svagato e noncurante Pankow aggrottò le
sopracciglia e in tono duro replicò: “Beh, allora vedi di
normalizzarti in fretta, Schelle, perché non hai proprio motivo di
comportarti come un bambino!”
“Ah,
adesso sarei io
che mi comporto come un bambino?”
“Perché,
sarebbe un comportamento da adulti stare seduto qui girandoci il culo
come stai facendo? Hai qualcosa da dire? Dilla e facciamola finita!”
“Ma
certo, visto che ci tiene tanto, facciamo gli uomini adulti,
scommetto che sarà un'esperienza nuova anche per lei: io sono
incazzato a morte perché ha fatto stare quel moccioso nel mio posto,
perché gli ha concesso tutto quello che era mio e perché non si è
nemmeno preoccupato di sapere se la cosa mi andava a genio o no.
Vorrei tirargli il collo come si fa con i polli!”
A
quel punto si fissarono ansimanti, scambiandosi occhiate di fuoco.
Infine Pankow inspirò come per calmarsi, poi disse: “Va bene,
Till, sai che ti dico? Che di fidanzate rompicoglioni ne ho già una
in Germania e mi basta. Ora tu te ne stai qui con Hans e Michael e io
vado con Wendel a fare una ricognizione nei dintorni.”
“Beh,
sarà un piacere non avere fra i piedi quel moccioso.”
“E
per me sarà un piacere maggiore non avere più dietro al culo un
rompicoglioni acido che brontola in continuazione.”
Detto
questo si girò: i fratelli Liefke, muti e immobili, si stavano
fissando con estremo interesse la punta delle scarpe.
“Wendel,
vieni qui,” ordinò.
“Sissignore.”
Il chiamato si alzò in piedi e lo raggiunse. Schelle, che nel
frattempo si era di nuovo girato con la faccia verso la macchia,
mantenne ostinatamente la sua sdegnosa posizione.
Wendel
faceva del suo meglio per tenere dietro al tenente Pankow, del quale
però vedeva ormai solo la nuca di un vivido color carota che
appariva e scompariva in mezzo al fogliame. “Aspetti, signore,”
sussurrò.
“Cosa?”
“Aspetti,
per favore. Non riesco a starle dietro se va così veloce.”
L'altro
rallentò il passo lasciando che l'aviere lo raggiungesse, quindi gli
domandò: “Perché ti sei messo a parlare come se fossimo in
chiesa, Wendel?”
Il
ragazzo si guardò intorno con circospezione poi, senza modificare il
tono di voce, rispose: “Per precauzione, signore. Ormai cominciamo
ad avvicinarci al relitto.”
Pankow
corrugò la fronte, l'aviere si sentì in dovere di specificare:
“Potrebbero esserci pattuglie nemiche alla ricerca di superstiti.”
A
quelle parole, al tenente parve accendersi la metaforica lampadina
sopra la testa. “Ah, certo,” approvò, “molto acuto. In effetti
penso anch'io che sia meglio non attirare troppo l'attenzione.”
Ripresero
la marcia con la silenziosa cautela di felini in cerca di preda.
Raggiunsero
quel che rimaneva dell'aereo, ovvero qualche lamiera annerita al
centro di un cratere fumigante. Wendel fissò il relitto, quindi in
tono esitante chiese: “Immagino non ci sia speranza, vero,
signore?”
Il
tenente si voltò a guardarlo. “Per cosa?”
“Quelle
carte, signore.”
Pankow
fece un gesto di noncuranza. “Ah, lascia stare. Schelle abbaia come
un vecchio cagnaccio bisbetico, ma vedrai che gli è già passata.”
Wendel
non rispose. Pur concentrato nello sforzo di fissarsi le scarpe,
aveva sentito tutta la lite – sarebbe stato difficile non sentirla,
del resto – ma soprattutto aveva visto lo sguardo di Till, e non
gli era affatto sembrato lo sguardo della persona a cui l'incazzatura
sarebbe passata in fretta.
Proseguirono
la marcia. Il terreno era in leggera ma costante salita, qua e là
affioravano rocce. Seguendo una scia di rami rotti e foglie smosse
cominciarono a un certo punto a intravedere attraverso l'intrico
della vegetazione il baluginare azzurro del mare. Man mano che
avanzavano, si udiva sempre più forte il rumore di frangenti.
Sbucarono
dalle frasche alla sommità di una bassa scogliera. L'acqua era di un
turchese intenso, che si faceva color smeraldo nei punti più
profondi. Qua e là affioravano rocce che le onde coprivano e
ricoprivano di schiuma candida.
Dal
basso una voce urlò qualcosa, un'altra le rispose. Si udì il rumore
di un corpo che si buttava in acqua.
I
due si scambiarono un'occhiata e di comune accordo rincularono verso
la foresta.
“Erano
voci inglesi, signore,” sussurrò Wendel in tono appena udibile.
“Più
inglesi del tè al bergamotto,” confermò Pankow. “Andiamo a
vedere.”
L'altro
lo fissò sgomento. “A vedere?” balbettò.
“Piano
piano, strisciando.” Pankow mimò il gesto. “Ci affacciamo in
silenzio e diamo un'occhiatina.”
Senza
attendere risposta, il tenente si allungò su gomiti e ginocchia e
cominciò a procedere verso il bordo della scogliera. Wendel dapprima
si limitò a fissarlo da lontano mentre avanzava in un disinvolto
passo del leopardo, poi di malavoglia lo raggiunse e si appiattì a
terra accanto a lui.
Poco
più in basso c'erano degli uomini con la muta di gomma e le pinne,
che in continuazione si buttavano, stavano sott’acqua un po' e poi
riemergevano.
L'aviere
rimase a fissarli affascinato: sotto i raggi del sole, le lucide mute
di gomma facevano pensare ai corpi di mostri mitologici e le lunghe
pinne completavano l'illusione. Coperti dalle maschere, i volti
perdevano ogni connotazione umana e diventavano qualcosa di deforme e
spaventoso.
Pankow
gli diede di gomito e a bassa voce disse: “Non gran che come
sirene, vero?”
Il
ragazzo annuì zelante, poi chiese: “Cosa staranno facendo,
signore?”
L’ufficiale
strisciò un po’ più avanti e rispose: “È quello che intendo
scoprire.”
Uno
degli uomini con la muta ripescò una cassetta di legno. La cosa
sembrò generare negli altri una certa soddisfazione, tanto che tutti
si riunirono intorno al reperto. A Wendel parve di sentire qualcosa a
proposito di un’ombra.
Poi
arrivò un altro uomo, al quale tutti gli altri sembravano
rapportarsi con estremo rispetto. Questi esaminò la cassetta, quindi
scosse la testa e se ne andò.
La
cassetta fu ributtata in acqua, e lì rimase a galleggiare.
A
quel punto, Wendel vide in faccia al tenente un’espressione che non
gli piacque per nulla: era un misto di curiosità, audacia, sfida e
noncuranza. Lo fissò sgomento e scosse la testa come per invitarlo a
non muoversi dalla già esposta posizione che occupava, ma
l’ufficiale gli fece cenno di non preoccuparsi. Strisciò un po’
più avanti, ma così facendo spinse un sasso giù dalla scogliera.
Immediatamente
i sommozzatori si animarono, se lo indicarono l’un l’altro.
Alcuni saltarono in acqua, altri raccolsero delle armi individuali
che si trovavano su un telone in una zona asciutta e fecero fuoco
nella loro direzione.
Wendel
saltò indietro come una molla mentre schegge di pietra e forse
proiettili gli fischiavano tutt’intorno, si girò, raggiunse di
corsa la foresta e ci si buttò a pesce.
Poco
dopo lo raggiunse Pankow, che lungi dal manifestare preoccupazione
ridacchiava come il discolo del quartiere dopo aver suonato tutti i
campanelli di una bottoniera.
“Gli
abbiamo fatto prendere un accidente,” disse allegro.
“Veramente
l’hanno fatto prendere loro a me, signore,” protestò Wendel.
Rallentò per guardarsi alle spalle e chiese: “Ci inseguono,
signore?”
Il
tenente fece una risata. “Chi, le sirene? Prima che riescano a
togliersi quella roba e a infilarsi un paio di scarponi, noi abbiamo
già fatto il giro dell’isola tre volte!”
Continuarono
a correre col ritmo della ginnastica mattutina di una caserma delle
retrovie.
§
Hans
si terse per l’ennesima volta il sudore dalla faccia, quindi
chiese: “Qualcuno ha un orologio?”
Per
tutta risposta, Michael gli fece vedere il polso sinistro nudo.
L’altro
scosse la testa e indicò Schelle, ancora di spalle, con i gomiti
puntati sulle cosce e il mento appoggiato alle mani. Ripeté con aria
da nulla la domanda. “È un po’ che quei due sono via,”
soggiunse poi.
Passò
qualche secondo, poi il caporale grugnì: “Chi se ne frega. Per
quanto mi riguarda, possono starsene via anche un mese. Non mi
interessa minimamente.” Si girò a squadrare i due. “Io ho altro
da fare che preoccuparmi di quello là, è chiaro?”
I
ragazzi si scambiarono un’occhiata, poi Michael rispose: “Certo,
è chiaro. Però è un po’ che sono via, non vorrei che li avessero
catturati.”
“E
chi se ne...” cominciò Till, poi si immobilizzò in ascolto.
“Stanno
tornando?” azzardò Hans.
Schelle
gli fece segno di tacere.
I
due si zittirono e dopo un po’ cominciarono a sentire il rumore di
passi che si avvicinavano con circospezione. Erano decisamente più
di due persone.
I
tre si nascosero come meglio potevano nella vegetazione e rimasero in
attesa degli eventi. Schelle, che era l’unico armato del gruppo,
aprì la fondina della pistola e si tenne pronto a estrarre l’arma.
I
passi si avvicinarono, comparvero delle gambe rivestite di panno blu
scuro. Una voce chiese, in tedesco: “È qui che avevi sentito le
voci?”
Un’altra
rispose: “Sì.”
Intervenne
una terza: “Signore, quello sente le voci perché è matto, non gli
deve dare ascolto.”
“Non
è vero!”
Rannicchiati
sotto un cespuglio, i tre si scambiarono occhiate perplesse.
I
nuovi arrivati frattanto avevano ripreso a parlare: “Ancora niente
dalla Schütze,
ormai sono… quanti giorni?”
“Con
questo quattro, signore.”
“Sarà
meglio che si sbrighino, giocare a nascondino con gli inglesi diventa
sempre più difficile.”
A
quel punto, Schelle richiuse la fondina, poi a voce alta disse: “Non
sparate, siamo tedeschi.” Uscì tenendo le mani ben alzate.
Si
trovò davanti un guardiamarina della Schütze,
tre marinai e un paio di uomini di mezz’età con qualcosa che
somigliava a un'uniforme ma non aveva né gradi né distintivi.
Ad
ogni buon conto, si mise comunque sull’attenti.
L'ufficiale
lo riconobbe: “Lei è quello dell'aereo.” Si guardò intorno.
“Dov'è il pilota? Siete venuti a prenderci?”
Schelle
si strinse nelle spalle. “Ecco, signore, è una faccenda un po'
complicata...”
“Sarebbe
a dire?”
Il
radiotelegrafista riassunse brevemente gli ultimi avvenimenti. Man
mano che il racconto procedeva, l'espressione del guardiamarina si
faceva sempre più mesta. Alla fine l'ufficiale emise un sospiro e
disse: “Quindi l'aereo è distrutto?”
“Temo
di sì, signore.”
“Niente
radio?”
“Nossignore.”
Il
guardiamarina si rivolse a uno dei due uomini con gli abiti strani:
“Professor Dachs, oltre a essere docente di dialetti caraibici
all'Università di Heidelberg si intende per caso anche di segnali di
fumo?”
L'altro
si strinse nelle spalle. “Temo di no, signor Bär.”
L'ufficiale
si rivolse al secondo. “E lei, signor Hase?”
“Sono
solo un tecnico degli armamenti, signor Bär.”
Sul
gruppo calò un consapevole silenzio.
E
nel silenzio, d'un tratto, si udì il tramestio di decine di piedi:
tra le fronde comparvero, armati di archi e rudimentali lance, degli
uomini perlopiù nudi, dalla pelle color caramello, coi corpi dipinti
e monili al collo e alle orecchie.
“Indios,”
constatò il professore, “della zona mesoamericana, forse
addirittura discendenti degli antichi arawak. Molto interessante.”
Proferì qualcosa in una lingua incomprensibile e quello che sembrava
il capo del gruppo indigeno aggrottò le sopracciglia e rispose in
tono duro, verosimilmente nello stesso idioma. Agitò la lancia
ornata di piume e quelli che erano con lui fecero lo stesso. Tutti
dissero cose dal suono decisamente minaccioso.
Il
guardiamarina fissò Dachs in una muta richiesta di spiegazioni.
L'altro
si strinse nelle spalle e rispose: “Signore, in quanto bianchi, gli
indios ci ritengono responsabili del rapimento della figlia
del loro capotribù, Yvoty
Jaguarete.”
“Cosa?
Del rapimento di chi?”
“
Yvoty Jaguarete,” ripeté il
professore, “Giglio Tigrato. Un nome molto poetico, in verità.”
Il
guardiamarina aggrottò le sopracciglia e replicò: “Ma saranno
stati gli inglesi! Glielo dica, professore, che sono stati gli
inglesi.”
Il
docente annuì grave, quindi chiese: “Lei conosce le cinque
fondamentali differenze tra le pitture corporee di un arawak e quelle
di un cuna, signor Bär?”
“Eh?”
“Allora
come può pretendere che un selvaggio vissuto per tutta la vita nella
foresta distingua un tedesco da un inglese?”
“Beh,
glielo spieghi lei, professore,” rispose pronto il guardiamarina.
“Faccia capire loro che anche noi siamo nemici degli inglesi.”
Gli
indios frattanto apparivano sempre più innervositi dalla situazione.
Uno di essi disse qualcosa che suonò piuttosto aspro, quindi tese
l'arco puntando una freccia contro il gruppo di tedeschi. Il capo gli
fece un cenno e l'arco si riabbassò, ma l'indio continuò a fissarli
sospettoso.
Il
professore scambiò qualche altra frase con gli indios, quindi disse:
“Vogliono che andiamo al villaggio a parlare con il capo.”
Tra
i tedeschi passò un mormorio di disappunto e occhiate a metà tra la
preoccupazione e la rabbia dardeggiarono frenetiche.
“Io
non ci...” cominciò uno dei marinai, ma lo scricchiolio di un arco
che si tendeva lo convinse senz'altro a tacere.
“Prima
il capo vorrà parlare con noi civilmente,”
spiegò il professor Dachs con un tono che voleva essere
rassicurante, “le torture cominceranno solo dopo.”
Appiattiti
alla base di un cespuglio, Peter Pankow e Wendel osservavano muti la
scena. L'indio più autorevole – quello che aveva piume più
colorate sulla testa e monili più grandi – diede un ordine e gli
altri spogliarono i tedeschi di tutte le armi, poi le raccolsero e se
le spartirono. Successivamente si allontanarono nella boscaglia
spingendo i prigionieri davanti a loro.
In
breve, sulla piccola radura calò di nuovo il silenzio.
Pankow
e Wendel si scambiarono uno sguardo, poi il primo disse: “Sembra
che non ci abbiano visti.” Si alzò in piedi stiracchiandosi.
“Pare
di no, signore,” rispose l'altro.
“Molto
bene, allora seguiamoli.”
L'aviere
trasecolò. “Cosa?”
“Hai
sentito, no?” replicò Pankow, “Se non interveniamo, li
tortureranno.”
“Ma
signore... siamo solo in due, cosa possiamo fare?”
Il
tenente alzò le spalle. “Boh, qualcosa mi inventerò.” Si
incamminò risolutamente nella direzione che avevano preso gli
indios.
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Capitolo 8 *** VIII - In missione di salvataggio ***
Gente mia, ecco qui il pessimo
Pankow nelle vesti di salvatore di fanciulle in difficoltà…
Grazie
a tutti quelli che passeranno di qui a dare un’occhiata, e un
ringraziamento particolare a chi mi lascerà anche un commento
nonostante l’odiosità del protagonista^^
VIII
– In missione di salvataggio
Nascosto
nella vegetazione, protetto dalle incipienti ombre della sera, Pankow
scrutava con interesse il villaggio degli indios. “È come nei
film,” sussurrò al terrorizzato Wendel, che si trovava al suo
fianco rannicchiato in un'ottima imitazione dell'inoffensivo sasso.
“Guarda: quella là dev'essere la capanna del capo, con tutti
quegli ornamenti strani, e poi c'è il fuoco al centro dello
spiazzo.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Scommetto che tutti ci
ballano intorno, al momento giusto. Si fanno le pitture di guerra,
prendono i tomahawk e poi fanno la danza rituale.”
“Signore,
credo che quelli siano i pellerossa,” obiettò Wendel.
“Uhm,
forse hai ragione. Riesci a vedere i nostri?”
I
tedeschi sedevano con aria decisamente poco soddisfatta in un angolo
dello spiazzo, un gruppetto di indios armati di lance e archi faceva
loro la guardia.
Anche
se la luce andava scemando, si distinguevano bene le tre uniformi
kaki della Luftwaffe, le quattro blu della Kriegsmarine e i due
personaggi in abiti più o meno civili, genericamente vestiti di
scuro.
“Mi
chiedo perché non cerchino di sopraffarli,” considerò Pankow tra
sé e sé. Attinse alle proprie reminiscenze di fumetti d'avventura e
concluse: “Sicuramente le punte delle frecce saranno avvelenate,
ecco perché.”
Nel
villaggio frattanto alcuni indios stavano accendendo un falò.
Passarono delle donne con vasi e fagotti in testa, un gruppetto di
bambini attraversò lo spiazzo schiamazzando. Cominciarono a suonare
tamburi dalle varie tonalità, acute e legnose, ma anche profonde e
cupe, e i colpi si alternavano in un ritmo incalzante.
Quando
il battere degli strumenti divenne un frenetico parossismo, dalla
capanna più grande uscì un uomo imponente, autorevole, con un lungo
ornamento di piume colorate che dalla sommità del capo gli arrivava
fin quasi a terra. Il suo unico indumento era un gonnellino di rafia,
ma al collo, agli omeri e ai polsi portava monili di turchese e
giada. Ossa decorate gli perforavano naso e lobi, complicate pitture
gli coprivano il corpo.
L'uomo
– di certo il capo della tribù – si avvicinò solenne al
gruppetto dei prigionieri e in tono aspro disse loro qualcosa.
Uno
dei tedeschi si alzò in piedi, si inchinò e rispose evidentemente
nella stessa lingua dell'indigeno, perché fra i due cominciò un
dialogo. Pankow notò però che nonostante ogni apparente tentativo
da parte del tedesco di mantenere toni concilianti, l'altro sembrava
alterarsi sempre di più. Alla fine gridò qualcosa brandendo una
specie di bastone decorato di piume e feticci, e tre prigionieri
furono prelevati e legati a tre pali sinistramente allineati vicino
al falò.
“Qui
si mette male,” disse il tenente.
Wendel,
più che mai rannicchiato, gli chiese: “Ora che cosa faranno,
signore?”
Pankow
alzò le spalle. “Credo che li tortureranno, se non interveniamo.”
Dopodiché si alzò e si diresse di buon passo verso il villaggio.
Quando fu allo scoperto alzò le mani e a voce alta disse: “Vengo
in pace! Pace, capite? Siamo tutti amici, ci vogliamo tutti bene! Non
possiamo parlarne, prima di cominciare a seviziare gente per bene? Io
credo che il dialogo...”
Senza
nemmeno aspettare la fine del discorso, quattro guerrieri gli
saltarono addosso e lo atterrarono.
“Ehi,
che modi,” protestò Pankow in tono offeso. Uno degli indios gli
puntò un coltello di selce sotto il mento. “Scherzavo,” gli
assicurò in tono soave l'ufficiale.
Lo
trascinarono verso il gruppo dei prigionieri. L'uomo autorevole, che
aveva seguito immobile tutta la scena, a quel punto chiese qualcosa.
Il
professor Dachs tradusse: “Il grande capo Vaka Ména Oñembo Ýva –
Toro in Piedi, nella nostra lingua – chiede chi è lei, tenente.”
Pankow,
al quale sembrava di essere finito dritto dritto in uno dei fumetti
di avventura con cui si dilettava da ragazzino, assunse dapprima
un'aria assorta, infine proferì: “Io sono un vostro grande amico.
C'è un problema? Sono qui per risolverlo.” Distribuì a destra e a
manca sorrisi incoraggianti, come per far capire che non dovevano
preoccuparsi, che avrebbe sistemato tutto lui.
Il
professore gli spiegò la faccenda della figlia rapita. Pankow
ascoltò con attenzione, immaginando frattanto una graziosa fanciulla
india dalle forme flessuose e dagli occhi di cerbiatto, magari con un
succinto abitino dal bordo frangiato.
“Quindi
crede che siamo stati noi?” chiese alla fine del resoconto.
“Precisamente.
Come già spiegavo al guardiamarina Bär, questa gente non è in
grado di distinguere tra inglesi e tedeschi: per loro siamo tutti
genericamente uomini bianchi.”
“Non
avrebbe senso spiegare loro la differenza tra un salutare colorito
tedesco e un malsano colorito britannico, frutto dell'eccessivo
consumo di tè e del clima umido e freddo, vero?”
“Temo
di no, tenente.”
“Allora
dica che gliela andiamo a liberare noi, la sua bambina.”
Dachs
lo fissò stupefatto. “Prego?”
“Andiamo
dagli inglesi e ce la portiamo via. Come si chiama, a proposito, la
giovinetta?”
“Yvoty
Jaguarete, Giglio Tigrato.”
Pankow
emise un sospiro. “Bellissimo,” apprezzò. Poi, in tono deciso:
“Dica al tizio con le collane che non si deve preoccupare: gli
riporteremo la sua bambina prima di domani. Dov'è che la tengono, a
proposito?”
§
Appena
illuminata da un'esile falce di luna, la scogliera era scivolosa e
costantemente battuta dai frangenti.
Pankow
avanzò cauto, quindi si appiattì contro la parete di roccia.
“Attento,” sussurrò.
Alle
sue spalle, la voce di Wendel rispose: “Sissignore.”
Senza
muoversi, il tenente aggiunse: “Il tizio con le collane ha detto
che da queste parti ci dovrebbe essere un'apertura che conduce a una
grotta.”
“Sissignore.”
“È
lì che tengono la ragazza.” Emise un sospiro, poi in tono accurato
proseguì: “Poverina, chissà quanto sarà spaventata.”
Avanzarono
cauti un altro po', il rumore dei passi coperto dal frangersi delle
onde, e infine videro sui rivoli di schiuma che scorrevano verso il
basso il vago baluginare dorato di un riflesso di luce.
Subito
dopo si udirono una specie di ruggito da orco, un trambusto che
faceva pensare a oggetti pesanti lanciati a caso contro le pareti e
il tintinnio di vetri infranti. Una lanterna uscì in volo da quella
che doveva essere l'imboccatura della grotta, rimbalzò un paio di
volte sugli scogli e precipitò in acqua.
“Cazzo,”
commentò Pankow. “Che succede là dentro?”
I
rumori di colluttazione frattanto proseguivano. Ci furono un altro
paio di ruggiti da orco, nei quali parve ai due di indovinare
l'articolazione di una qualche forma di linguaggio.
Infine
una voce impostata e vagamente sussiegosa disse in inglese: “Suvvia,
signorina, le sembra un comportamento adatto a una giovane donna?”
Seguì
il rumore di oggetti infranti, quindi un’altra voce che esclamava:
“Stia attento, signore, calcia peggio di un mulo!”
Approfittando
della confusione, Pankow avanzò cauto e gettò un’occhiata
all’interno: sulle prime gli parve di vedere un gorilla inferocito
che si agitava. A un più attento esame, il gorilla si rivelò essere
una persona, più precisamente una donna sudata e scarmigliata, con
le mani legate dietro la schiena. Il tenente constatò che era alta
quattro dita buone più di lui e larga come lui e Wendel uno accanto
all’altro.
In
quel momento stava emettendo muggiti che avevano tutta l’aria di
essere imprecazioni nella sua lingua, mentre due o tre marinai
cercavano di ridurla all’impotenza con dei lazo avvolti intorno al
corpo massiccio.
Un
po’ discosto, un sopracciglio alzato in segno di sobrio disappunto,
il capitano di fregata James Hook osservava la scena.
“Cercate
di ricondurre all’obbedienza questa creatura,” disse, “sarebbe
disdicevole e indegno di un gentiluomo dover passare a vie di fatto
nei confronti di un’esponente del gentil sesso.”
Uno
dei marinai fu scaraventato urlante fuori dalla grotta, descrisse una
perfetta parabola davanti agli occhi attoniti dei due tedeschi e finì
in acqua con un tonfo.
Wendel,
che era alle spalle del tenente, chiese: “Cosa c’è là dentro,
signore, un orso inferocito?”
“Vorrei
sbagliarmi,” fu la cupa risposta, “ma temo di aver trovato la
leggiadra e flessuosa Yvoty
Jaguarete.”
“È
prigioniera dell’orso, signore?”
“No,
a quanto pare è lei
l’orso.”
Attesero
un po’ immobili nel buio. all’interno della grotta il trambusto
sembrava essersi placato, le imprecazioni indie avevano avuto un
deciso calo. Ora erano solo un brontolio cupo, come tuoni lontani in
un cielo che promette tempesta.
Pankow
fece un cauto passo avanti e scrutò all’interno della grotta: la
ragazza era seduta su una cassa rovesciata, aveva ancora le mani
legate dietro la schiena e tramite una robusta cima era assicurata a
una massiccia stalagmite. A rispettosa distanza, un paio di marinai
la tenevano d’occhio.
“È
il momento,” proclamò il tenente, poi impugnò la pistola ed entrò
risolutamente nella grotta. “Mani in alto, signori!” consigliò
ai due marinai, in un inglese che sembrava il rumore di una raspa su
un vecchio pezzo di legno.
Nonostante
la pronuncia non ineccepibile, l’arma spianata convinse senz’altro
i due a obbedire, ma mentre essi alzavano le mani, sopraggiunse
attraverso un’altra uscita della grotta, James Hook in persona.
Ci
fu un attimo di immobilità assoluta, nel quale persino la risacca
sembrò congelarsi, poi il capitano esibì un ghigno feroce e disse:
“Ma bene, sembra che dopotutto il demonio mi abbia ascoltato.”
Con gesto repentino sfoderò la pistola. “Mani in alto,” ordinò
brusco.
“Marameo!”
fu tutto ciò che Pankow si degnò di rispondergli, quindi schizzò
via con un agile balzo. Hook sparò, il rumore improvviso, che in
quell'ambiente chiuso rimbombò come una cannonata, fece sussultare
l’orchessa, che balzò in piedi e strillò: “Tu… merda! Tu
grossa merda!” Tentò di sferrare uno dei suoi temibili calci a
Hook, che però si era già portato a distanza di sicurezza.
Yvoty
Jaguarete si girò allora verso il tenente, lo squadrò con occhi di
fuoco e disse: “Tu… piccola merda!”
Hook
sparò di nuovo, e ancora una volta Pankow evitò il colpo, che
rimbalzò sulla parete di roccia con un minaccioso ronzio, quindi
aggirò la figlia del capotribù e segò con un pugnale la cima che
la assicurava alla stalagmite. “Tu piccola merda!” ripeté irosa
la ragazza. Cercò di tirargli un calcio, poi si accorse di essere
libera. Subito si disinteressò del tenente e partì a testa bassa
verso l’imboccatura della grotta, mandando al suo passaggio uno dei
due marinai a gambe all'aria. Scomparve nel buio con la velocità di
chi conosce alla perfezione i dintorni.
Pankow
valutò in un attimo la situazione: il marinaio abbattuto
dall’orchessa si stava alzando, l’altro aveva già raccolto da
terra il fucile, Hook aveva il dito sul grilletto.
“Marameo!”
gridò ancora una volta, quindi diede un calcio alla lanterna
superstite mandandola a fracassarsi contro la parete e si buttò
fuori a pesce. “Vieni, Wendel!” esclamò passando, “muoviamoci,
o quella arriva al villaggio da sola!”
“Io
la lascerei andare, signore!”
“No
di certo! Poi come facciamo a dimostrare che l’abbiamo liberata
noi?”
La
fiammella di un accendino scattò nel buio, traendo per prima cosa un
lampo sinistro dall’uncino d’acciaio di Hook. Successivamente, la
debole luce tratteggiò il volto del comandante, in quel momento
atteggiato a un ghigno astuto.
“Chi
si crede troppo furbo fa una brutta fine,” sentenziò l’ufficiale.
“Quell’irriverente macaco pensa di poter prendere in giro
chiunque con i suoi giochetti, ma questa volta si fa sul serio.”
Poi, a voce più alta: “Signor Soak!”
Comparve
il nostromo. “Signore?”
“Signor
Soak, mi mandi una squadra. Questa volta Pankow avrà quello che si
merita.”
“Sissignore.”
Poco
dopo, Hook procedeva sicuro nella foresta, con il debole chiarore
della luna come unica luce.
“Adagio,
uomini,” sussurrò ai marinai che armi alla mano lo seguivano. “Non
ci interessa arrivare presto, ci interessa non farci scoprire.”
Si
addentrarono silenziosi tra le fronde, seguendo la scia di rami
spezzati ed erba calpestata che Giglio Tigrato si era lasciata dietro
correndo.
§
A
Pankow sembrava di avere i polmoni in fiamme: quell’accidenti di
orchessa era sovrappeso, con le mani legate dietro la schiena e
scalza, eppure correva come una specie di cinghiale aizzato, evitando
ogni ramo troppo basso, tronco o radice con un’abilità che aveva
del soprannaturale.
Abilità
che lui non possedeva, peraltro: era già rovinato al suolo due o tre
volte, e altrettante era finito in mezzo a rovi o fango. Ormai si
augurava quasi che Hook lo acciuffasse, almeno avrebbe potuto
riposarsi un po’.
“Tutto
a posto, Wendel?” chiese, troppo stanco anche per abbassare la
voce.
“Sissignore,”
boccheggiò il ragazzo alle sue spalle. “Manca molto, signore?”
“Un
ultimo sforzo e ci siamo, almeno spero. Non facciamoci distaccare
proprio adesso, però.”
La
ragazza continuava a correre imperterrita, senza rallentare
minimamente l’andatura.
“Ehi,
tu!” ansimò Pankow, cercando di scorgere nel buio l’ampia
schiena di Yvoty Jaguarete. “Ehi! Aspetta, no?”
“Tu
piccola merda!” provenne dall’oscurità.
Proprio
quando Pankow aveva stabilito che si sarebbe sdraiato per terra e si
sarebbe lasciato morire, si intravide fra gli alberi un baluginio di
fiaccole.
L’ufficiale
ringraziò mentalmente – anche perché non avrebbe avuto fiato
sufficiente per farlo a voce – ogni divinità di sua conoscenza,
comprese quelle caldee e sumere, per non averlo fatto morire
d’infarto e si apprestò a coprire le ultime decine di metri che lo
separavano dal riposo.
All’apparire
di Yvoty Jaguarete, nel villaggio esplose un’ovazione. Il falò fu
rinfocolato, chi era legato ai pali fu liberato, e al suono di canti
e tamburi cominciò una danza sfrenata intorno alle fiamme che si
levavano sempre più alte.
Le
donne entrarono nelle capanne e ne uscirono portando vasi e cesti
colmi di cibi e bevande.
Pankow
raggiunse il gruppo dei tedeschi. Essi sedevano ancora dove li
avevano lasciati, ma ormai potevano considerarsi liberi, dal momento
che chi avrebbe dovuto sorvegliarli si stava dando a balli e
libagioni.
“Com’è
andata?” chiese il guardiamarina Bär. Si alzò in piedi e fece
qualche passo per sgranchirsi.
Ancora
ansante, Pankow rispose: “La parte più complicata è stata correre
dietro a quella là.”
L’altro
si voltò a fissarlo. “È sicuro che non vi abbia seguito nessuno?”
Il
tenente sbuffò infastidito: era stanco, aveva sete, si voleva
riposare e non vedeva l’ora di scoprire cosa c’era nelle anfore
che gli indios si stavano passando con gran soddisfazione di mano in
mano. “Si figuri se ci hanno seguiti,” replicò, “era buio
pesto.” Poi per evitare altre domande si alzò e fece per
allontanarsi, ma a quel punto venne raggiunto dal capo della tribù,
che aveva in mano un copricapo simile a quello che indossava.
Prima
che Pankow potesse realizzare quello che stava succedendo, l'uomo
glielo pose sulla testa, quindi solennemente proclamò: “Taguató
Ovevéva!”
Alla
frase seguì un’ovazione.
“Taguató
Ovevéva!” ripeté l’uomo, indicando il tenente col copricapo di
piume.
Alle
spalle di Pankow, il professor Dachs spiegò: “L’ha nominata
Aquila Volante. È un grande onore.”
“Beh,
allora bisognerà brindare, direi!” esclamò il tenente,
spostandosi con noncuranza il copricapo sulle ventitré. “Purché
la qualifica non comporti sposare la figlia del tizio con le
collane.”
Gettò
uno sguardo fugace a Yvoty Jaguarete, che finalmente libera, con le
trecce che le ballonzolavano sulla schiena e un abito discinto,
conduceva le danze intorno al fuoco. Distolse lo sguardo con un
brivido di orrore.
Si
girò poi a cercare i suoi: Wendel ce l'aveva di fianco, Hans e
Michael, a torso nudo e variamente imbrattati di pittura, stavano
saltellando assieme agli indigeni. I marinai erano riusciti ad
accaparrarsi una delle anfore e la stavano con gioia vuotando. Il
tizio che parlava la lingua locale era immerso in una fitta
conversazione con un indio, mentre quello che si era qualificato come
tecnico – il professor Hase, se ricordava bene – stava parlando
di fenomeni elettrostatici con il guardiamarina.
Non
vedeva Schelle da nessuna parte: magari il furbastro si era già
trovato qualche ragazza india e le stava facendo vedere le
costellazioni, per così dire.
Liquidò
la faccenda con un'alzata di spalle, si liberò della camicia e
gridò: “Ehi, ci sono anch'io!”
Corse
a raggiungere quelli che stavano ballando intorno al fuoco.
Appena
fuori dal villaggio, seduto su una pietra, Schelle emise un sospiro.
Da una parte si augurava che nessuno andasse a cercarlo, ma
dall’altra il fatto che tutti si stessero divertendo e a nessuno
interessasse sapere che fine aveva fatto lo metteva in uno stato
d’animo plumbeo.
Aggrottò
le sopracciglia. Chi aveva colpa di tutto era ovviamente il tenente
Pankow. Lui e la sua stupida noncuranza. In quel momento sentiva la
sua voce allegra, squillante, vagamente appesantita dall’alcol,
intonare maldestramente quello che doveva essere un canto indigeno,
chiaramente storpiato come un indio avrebbe potuto storpiare Die
Fahne hoch.
Le
strofe finirono in grandi risate, qualcuno urlò qualcosa e le risate
ebbero un parossismo.
Corrugò
la fronte: si stavano divertendo alla grande laggiù. Si stavano
ubriacando, magari, incuranti della guerra e dei nemici che senza
dubbio infestavano l’isola. “Un comportamento molto
responsabile,” borbottò, e poi non riuscì ad aggiungere altro,
perché una robusta mano lo afferrò per il collo togliendogli il
respiro e un’altra gli tappò la bocca.
D’istinto si divincolò, ma
altre mani lo immobilizzarono e lo trascinarono via.
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Capitolo 9 *** IX - In vino veritas ***
Gente
mia,
penultimo
capitolo del mappazzone, grazie a tutti coloro che con grande
abnegazione mi stanno seguendo, e grazie a chi mi ha lasciato un
commento.
Scusate
se stavolta non risponderò subito a eventuali recensioni, ma per un
po’ non avrò internet: non sono disinteressato, solo
impossibilitato!
Comunque
grazie in anticipo se passerete di qui^^
IX
– In vino veritas
Legato
e imbavagliato, Schelle veniva spinto lungo un sentiero dalla canna
di un'arma da fuoco puntata in mezzo alla schiena.
Che
non fosse uno scherzo di cattivo gusto di Pankow gli era purtroppo
chiaro, dal momento che chi lo stava tenendo sotto tiro parlava un
cockney strettissimo, con suoni che nessun tedesco, nemmeno
disperatamente ubriaco come in quel momento doveva essere il suo
tenente, sarebbe mai stato in grado di riprodurre.
Si
chiese cosa sarebbe successo. L'avrebbero interrogato sul tenente
Pankow?
Quel
pensiero ebbe il potere di fargli comparire sulle spalle la ben nota
accoppiata di angioletto e diavoletto.
L'angioletto
gli suggeriva di sopportare eroicamente ogni sevizia pur di non
rivelare nulla di ciò che gli inglesi gli avrebbero sicuramente
chiesto su Pankow, ma il diavoletto faceva con aria da nulla notare
che il comportamento di Pankow negli ultimi tempi non era certo stato
così rispettoso nei suoi confronti. Se n'era fregato di qualsiasi
cosa, con quella sua odiosa arietta noncurante, svagata, di ragazzino
che non ha una preoccupazione al mondo.
Sarebbe
opportuno che imparasse a prendere le cose con la dovuta serietà,
suggeriva il diavoletto, non può continuare a fare il bambino.
L'angioletto
però accorato interveniva: Pankow è pur sempre un ufficiale
tedesco. Tradirlo, e tradire con lui tutti gli altri, significherebbe
tradire la Patria.
Il
diavoletto però obiettava: sì, ma una piccola porcata, giusto per
fargli pagare le ultime cose, giusto per insegnargli a stare al
mondo. In fondo è solo un pilota di idrovolante qualsiasi, è un
pesce piccolo...
Angioletto:
No! Lui si fida di te!
Diavoletto:
sai che spettacolo la sua faccia?
Angioletto:
Sarebbe tradimento!
Diavoletto,
suadente: Però se lo meriterebbe, non è vero?
L'ideale
scambio fu interrotto dal diradarsi della vegetazione. Più avanti,
al limitare della laguna, comparve una nave da guerra ormeggiata,
visibile più che altro come una specie di macchia scura sugli
scintillii che la luna traeva dalle increspature dell’acqua.
Schelle
deglutì ed ebbe un momento di esitazione. La canna dell'arma gli fu
premuta con più forza contro la schiena, una voce rude lo incitò ad
andare avanti.
Poco
dopo si trovò seduto in una scialuppa mentre quattro marinai
vogavano di buona lena. La canna del Lee-Enfield era sempre puntata
contro di lui, ne coglieva di tanto in tanto il baluginio sinistro,
per cui ritenne più saggio non muoversi. Si voltò solo fugacemente
verso la giungla, nella direzione in cui riteneva si trovasse il
villaggio, e gli parve di scorgere il lucore dorato del falò.
Si
chiese se lo stessero già cercando. A quel pensiero, le spalle gli
si alzarono quasi involontariamente in un gesto di scetticismo:
Pankow doveva essere già ubriaco e gli altri probabilmente non si
ricordavano nemmeno della sua esistenza.
Gli
sfuggì un sospiro. Sollevò lo sguardo sul capitano inglese ed egli,
che era in piedi a prua e sembrava assorto nella contemplazione del
mare notturno, si girò a fissarlo con l’aria di essere
perfettamente al corrente dei suoi patimenti.
Schelle
tossicchiò a disagio e distolse lo sguardo.
Poco
dopo Schelle entrò vagamente imbarazzato nella cabina personale del
comandante Hook. Questi si sedette alla scrivania e gli fece cenno di
prendere posto su una sedia che si trovava davanti al mobile. “Si
accomodi, prego,” lo invitò in perfetto tedesco. “Caporale Till
Schelle, non è così?”
“Come
fa a…?”
Hook
alzò le spalle con fare noncurante. “Signal arriva anche da noi,
caporale.”
“Capisco.”
Il tedesco si accomodò come se si stesse sedendo sui carboni
ardenti.
“Inoltre
ci siamo già visti, non ricorda?” Sollevò lentamente l’uncino,
che brillò sinistro sotto la luce da tavolo.
Till
quasi sussultò sulla sedia quindi, in un empito di coraggio, disse:
“Io non parlerò mai!”
L’altro
annuì con indulgenza. “Ma certo, capisco. Del resto, il silenzio è
d’oro. Non è così che si dice?” Si piegò a fissarlo negli
occhi mentre con la mano sana si lisciava i curatissimi baffetti
neri.
Schelle
deglutì. “Sì… credo di sì.”
“Ma
certo. Del resto, per citare Buddha, prima di parlare domandati se
ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno,
se è utile, e infine se vale la pena di turbare il silenzio per ciò
che vuoi dire.”
Si
raddrizzò con signorile eleganza, consentendo a un erculeo
sottufficiale di posare sulla scrivania un vassoio d’argento con
sopra una bottiglia di Porto e due bicchieri.
“Grazie,
signor Soak,” disse compito.
“Dovere,
signore,” rispose l’altro, quindi salutò e uscì.
Hook
a questo punto stappò la bottiglia e riempì a metà i due
bicchieri, poi ne spinse uno verso Schelle. “Lo assaggi,” gli
consigliò. “È un’ottima annata.”
Nonostante
la paura, anzi forse proprio per quella, il caporale non si fece
pregare. Il Porto del resto aveva un cupo color rubino ed emanava un
profumo che ricordava legni preziosi, frutta e spezie. Bevve un lungo
sorso, quindi emise un sospiro.
“Niente
male, vero?” disse Hook.
“Nossignore.”
“Posso
chiederle cosa faceva tutto solo su quella roccia?”
Il
caporale strinse le labbra. “Niente. Avevo voglia di stare per
conto mio.”
Hook
assunse un’aria costernata. “Nessuno dei suoi camerati ha pensato
di trattenerla? Come ha visto lei stesso, sono zone pericolose.”
Il
più giovane si limitò ad alzare le spalle, il comandante annuì
come se la sua reazione fosse esattamente quella che si era
aspettato. Lasciò passare un po’ di tempo, in cui l’unico rumore
che si udì fu quello dell’orologio a parete che ticchettava, poi
chiese: “E del tenente Pankow cosa mi dice, caporale?”
Schelle
aggrottò le sopracciglia, posò il bicchiere come se scottasse e
ritirò la mano. “Niente,” rispose brusco.
L’altro
si concesse addirittura una risatina. “Quanto zelo,” commentò.
“Ma non voglio sapere faccende militari, ovviamente. Parlavo del
suo aspetto umano.”
Schelle
fece tanto d’occhi. “Umano?”
“Ma
certo. Qualche aneddoto, qualcosa sull’amicizia che vi lega.”
A
quelle parole il caporale si incupì. Hook sollevò con fare
sollecito le sopracciglia e chiese: “Ho detto qualcosa che non va,
forse?”
“No,
niente.” Till recuperò il bicchiere e bevve un altro lungo sorso.
Quando lo appoggiò, Hook provvide con aria da nulla a riempirlo
nuovamente.
Il
caporale bevve di nuovo.
“Qualche
aneddoto,” propose ancora Hook. “Qualcosa sulla sua vita
privata.”
Di
nuovo il porto nel bicchiere di Schelle calò fin quasi a esaurirsi e
fu riportato ai livelli iniziali. Till cominciò a trovare quel vino
molto buono e il suo interlocutore molto simpatico.
“Lei
non è come immaginavo,” gli scappò detto.
“Davvero?”
“E
neanche… Peter.”
“Oh,
mi rincresce sentirlo,” disse Hook. Riempì di nuovo il bicchiere,
gli fece cenno di bere un sorso.
Schelle
sbatté gli occhi con l’aria di un gufo finito in piena luce. “Lo
credevo diverso.”
Il
comandante si alzò, fece qualche passo nella stanza e si atteggiò
come se fosse stato in procinto di recitare il monologo dell’Amleto.
“È terribile quando la gente che stimiamo ci delude, non è vero?”
disse invece. Lo fissò di sottecchi.
Prima
di rispondere, Till vuotò di nuovo il bicchiere, quindi afferrò la
bottiglia e provvide autonomamente a riempirlo di nuovo. “È uno
stronzo,” proclamò infine apodittico.
Hook
si sedette di nuovo, lo fissò negli occhi. “Mi rincresce
sentirlo,” disse. “Dall’articolo pare una persona così
divertente, così coraggiosa...”
“È
un ragazzino irresponsabile. Uno che non capisce il vero valore delle
cose.”
Hook
appoggiò il gomito sul piano del mobile e il mento sul palmo.
“È
uno che ha dato la mia mansione di radiotelegrafista a un pivello
appena arrivato perché lo trovava più divertente di me.” Vuotò
un altro bicchiere. “Perché era una novità.”
“Questo
è increscioso,” considerò Hook.
“È
uno stronzo.”
“Non
posso che convenirne.”
A
quel punto, il ticchettio dell’orologio a parete parve farsi
decisamente più forte. Hook si voltò in quella direzione e realizzò
che il rumore proveniva in realtà dall’oblò aperto.
Corse
fuori con un’imprecazione, disinteressandosi momentaneamente
dell’attonito Schelle. Questi rimase per un po’ a fissare la
porta da cui l’ufficiale era uscito, quindi si riempì di nuovo il
bicchiere, borbottò Prosit e lo scolò.
Un
gruppetto di marinai riunito lungo l'impavesata di dritta diede corpo
ai peggiori sospetti di Hook. “Largo!” ordinò il comandante, e
si sporse a scrutare le acque scure: i contorni sinistramente
delineati dai raggi argentei della luna, irta di aculei, una sfera
larga circa mezzo metro flottava seguendo il moto ondoso e
ticchettando come una simpatica vecchia sveglia.
“Maledizione!”
ringhiò Hook, quindi, a voce più alta: “Signor Soak!”
Comparve
l'immancabile nostromo. “Signore?”
“Signor
Soak, c'è di nuovo quella cosa.”
“Cosa,
signore?”
Il
comandante ebbe un moto d'impazienza. “Quell'affare. La Crocodile!”
Il
sottufficiale si sporse a sua volta dall'impavesata, scrutò per
qualche tempo l'ordigno, quindi propose: “Vado a prendere l'asta
della nafta, signore?”
“Prenda
quello che vuole, basta che la tenga lontana.”
Soak
annuì grave, quindi propose: “Vado a chiamare un paio di tiratori,
signore?”
“Eh?
Per fare che?”
La
risposta del nostromo ebbe il tono dell'ovvio: “Per spararle,
signore. Così la coliamo a picco una volta per tutte.”
“Idiota!”
ringhiò Hook, “A questa distanza? Saremmo noi a colare a
picco, con tutta la Jolly Roger!” Di nuovo rivolse
un'occhiata torva alla mina, quindi ordinò: “Bisogna
allontanarla.”
Il
ticchettio cessò.
Nonostante
la presenza del comandante e le regole non scritte della Royal Navy,
tutti si assieparono lungo l'impavesata, i più vicini praticamente a
contatto di gomito con la sacra persona del comandante.
“Se
n'è andata?” chiese un marinaio.
“Cos'era?”
volle sapere un altro.
Ci
furono alcuni secondi di un silenzio denso, sotteso dai mormorii di
curiosità e preoccupazione della gente, quindi una voce gridò:
“Ehi! È qui!”
Tutti
si precipitarono all'impavesata di sinistra.
“Silenzio
a prua e a poppa!” gridò a quel punto Hook, infastidito dal
cicaleccio che la misteriosa apparizione aveva suscitato. “Ognuno
torni alle sue mansioni!”
Nella
quiete che come per incanto si diffuse ovunque, il ticchettio della
Crocodile parve ancora più forte.
Hook
si piegò a fissare l'acqua, poi disse: “È passata sotto la nave,
non c'è altra spiegazione.” Senza distogliere lo sguardo dalla
mina tese all'indietro il braccio sano e disse: “Mi dia un po'
quell'asta della nafta, signor Soak, e un fucile: voglio occuparmi di
questa cosa una volta per tutte.”
Come
se avesse potuto sentirlo, la Crocodile immediatamente s'inabissò.
Per un po' rimasero a fissare la superficie dell'acqua col fiato
sospeso, ma la mina non ricompariva.
“Mi
avvisi se torna,” ordinò brusco il comandante, quindi raggiunse la
sua cabina.
La
prima cosa che il comandante notò rientrando in cabina fu che nella
bottiglia di Porto era rimasto forse un dito di vino.
La
seconda fu che con ogni evidenza il caporale tedesco non era
precisamente un bevitore: giaceva sulla poltroncina in stato di
languido abbandono e l'unica parte del suo corpo che non aveva la
consistenza di una medusa morta era la mano destra, tenacemente
serrata intorno al bicchiere ormai vuoto.
Hook
lo scrutò con occhio clinico, quindi a bruciapelo gli chiese: “Dov'è
il tenente Pankow, caporale?”
Il
più giovane alzò lo sguardo su di lui e faticosamente gli chiese:
“Perché lo vuole sapere?”
“Per
fargli uno scherzo,” fu la risposta.
Schelle
rise con aria ebete. “Uno scherzo,” ripeté.
Mellifluo,
Hook buttò lì: “Se lo merita, non è vero?”
Il
caporale annuì cauto, come se stesse cercando di ricordarsi quali
muscoli si dovessero usare per far andare su e giù la testa. “Mi
gira tutto,” ridacchiò poi.
“Mi
dica solo dove posso trovare Pankow, poi la lascerò dormire
tranquillamente in questa bella cabina comoda e fresca.”
“Ha
presente il villaggio dei cosi... degli indiani?” borbottò Till
con voce incerta. “Ecco, sono tutti là. C'è lui, ci sono i
marinai, c'è lo stronzetto con i suoi fratellini...”
“Ma
guarda un po'. Tutti insieme?”
“Fratellini
di merda,” imprecò Schelle per tutta risposta. “Da quando sono
arrivati loro, è andato tutto a catafascio.”
“Ma
certo,” rispose Hook in tono conciliante. Gli vuotò nel bicchiere
l'ultimo dito di vino. “Allora, abbiamo detto che sono tutti al
villaggio, non è vero?”
“Tutti
là, a divertirsi come stupidi. Non gliene frega niente di me, non
gli importa se ho sudato sangue per avere la qualifica di raro...
radio... fonico... radiatore...”
“Certo,
certo. Ora pensi a dormire, eh?”
Non
ci fu bisogno di ripeterlo: con la testa penzoloni, Schelle stava già
russando.
§
Infastidito
da un pizzicore al naso, Pankow grugnì qualcosa e mosse dapprima la
mano in un maldestro tentativo di scacciare qualche insetto, poi
realizzò che il fastidio proveniva dal copricapo rituale, le cui
piume colorate gli si stavano infilando in ognuno dei ricettacoli che
la Natura aveva ritenuto di creare nella sua testa: naso, bocca,
orecchie e occhi.
Se
lo fece scivolare via con gesti incerti e si girò per voltarsi a
pancia sotto, ma a quel punto la vescica protestò vivacemente contro
tale risoluzione.
Stoicamente,
Pankow cercò di resistere, ma il disaccordo del viscere per la
posizione prona era di quelli con cui non si può venire a patti.
Si
sollevò quindi carponi, con la sensazione di essere un’incudine
nel cestello di una lavatrice – e di avere la stessa cosa anche
dentro il cranio – poi guadagnò faticosamente la stazione eretta.
A quel punto il suo stomaco si unì alle proteste della vescica ed
egli a passi incerti, barcollando peggio che col mare forza 9, si
inoltrò nella foresta alla ricerca di un luogo in cui lasciare ogni
suo più intimo contenuto.
Hook,
che aveva visto qualche fotografia di campi di battaglia dopo l'uso
di gas asfissianti, trovò lo spiazzo del villaggio non molto
dissimile da quelle immagini.
Del
fuoco rimanevano ormai solo poche braci, dappertutto vi erano vasi e
anfore rovesciati, alcuni su piccole pozze di quello che doveva
essere stato il loro contenuto. Sparsi qua e là c'erano piatti che
contenevano resti di frutta e altri cibi.
Lo
spettacolo che colpiva maggiormente era senza dubbio quello offerto
dalla componente umana: maschi e femmine giacevano riversi nella
posizione in cui l'ebbrezza li aveva fatti crollare, e se non fosse
stato per un diffuso russamento, davvero si sarebbero detti le
vittime di un'esposizione al sarin.
Il
comandante si avvicinò a un marinaio che giaceva supino e lo spinse
appena col piede. Questi emise un brontolio vago, poi ripiombò nel
torpore.
“Legate
tutti quelli che non sono indios e portateli via,” ordinò allora,
quasi deluso per la facilità dell'operazione.
Man
mano che i prigionieri incoscienti abbandonavano il villaggio per
essere trasportati verso la Jolly Roger, Hook sentiva crescere
in sé l'inquietudine: non vedeva, tra quei corpi ciondolanti e
inerti, nessuna zazzera rossa. Molti biondi, molti castani, ma
l'odiosa, sfacciata tonalità pel di carota che lui stava cercando si
ostinava a non comparire.
Chiamò
il nostromo. “Dov'è il maledetto Pankow, signor Soak?” volle
sapere.
Il
sottufficiale si strinse nelle spalle. “Forse l'hanno già portato
via, comandante.”
“Non
l'ho visto.”
A
quel punto, Hook estrasse la pistola e passò personalmente di
capanna in capanna alla ricerca dell'irriverente giovanotto.
S'imbatté
in dormienti di ogni età, però di razza rigorosamente india. Alla
fine trovò qualcosa che suscitò il suo interesse: in una delle
capanne, abbandonato in un angolo, c'era un vistoso copricapo di
piume colorate accanto al quale era posato un berretto da ufficiale
della Luftwaffe. Il comandante lo raccolse servendosi dell'uncino.
Dapprima lo scrutò stringendo gli occhi come se si fosse trovato
davanti Pankow in persona, quindi guardò al suo interno e un paio di
P ricamate sulla fascetta gli diedero la conferma che il berretto
fosse proprio suo.
“Signor
Soak!” chiamò.
Subito
si presentò il nostromo. “Comandante?”
“Signor
Soak, mi faccia avere una granata e un filo, presto. Le garantisco
che l'ignobile macaco avrà una bella sorpresa, quando proverà a
indossare il suo berretto.”
§
Quando
Schelle recuperò una parvenza di cognizione di sé, nella cabina si
stava diffondendo il chiarore dell'alba.
Fuori
c'era un certo trambusto, ma dalla sala macchine non giungeva alcun
rumore, quindi la nave doveva essere ancora ormeggiata. Si sentivano
però ordini gridati e gli parve di riconoscere anche qualche parola
in tedesco.
La
cosa gli diede una certa inquietudine. Per qualche motivo, quelle
voci nella sua madrelingua non gli sembravano foriere di novità
positive. Se ci fosse stato un assalto dei suoi alla nave, per
esempio, ci sarebbero anche stati i suoni di una lotta. E poi quale
assalto, se le uniche armi che avevano a disposizione erano i
moschetti dei tre marinai, la sua pistola e quelle dei due ufficiali?
Si
voltò verso l'oblò con l'intenzione di raggiungerlo per dare
un'occhiata fuori, ma in quel momento percepì dei passi in
avvicinamento.
Richiuse
gli occhi e lasciò ciondolare la testa come una carcassa in cella
frigorifera.
Nella
stanza attigua entrarono due persone, che presero poi a parlare fra
di loro.
Riconobbe
subito la voce del comandante Hook. Per quanto non capisse tutto
quello che diceva, gli fu comunque chiaro che erano stati catturati
dei tedeschi.
Nonostante
il mal di testa, nonostante lo stomaco sottosopra, la lingua felpata
e la vescica che gridava vendetta al cospetto di Dio, cercò di
concentrarsi al massimo per cogliere il maggior numero possibile di
particolari della faccenda.
A
un certo punto, l'ufficiale disse: “Un buon lavoro: tutti catturati
tranne Pankow. Ma gli ho lasciato una sorpresa che non dimenticherà
facilmente.” Ci fu un compiaciuto silenzio, quindi proseguì:
“Pagherei per vedere la faccia che farà quel dannato moccioso
quando proverà a raccattare il suo berretto.”
Un'altra
voce, più rude, appesantita da una lunga consuetudine con rum e
sigari, rispose: “La Mills farà davvero un bel botto, signore.
Secondo me la sentiremo anche da qui.”
Till
dovette farsi forza per non sussultare: la combinazione nello stesso
discorso di granata Mills, berretto e Pankow dipinse nella sua mente,
pur non ancora del tutto lucida, scenari dei più foschi.
Gli
fu chiaro che doveva cercare di raggiungere prima possibile il
tenente, ma come?
A
quel punto si udì un ticchettio, il comandante inglese proferì una
tremenda imprecazione, poi lui e l'altro uomo lasciarono in tutta
fretta la cabina per correre in coperta.
Appena
fu certo di essere solo, Schelle saltò in piedi e si avvicinò
all'oblò: lungo l'impavesata di sinistra, una frotta concitata di
marinai stava trafficando con un'asta graduata che gli parve quella
che si usava per misurare il livello della nafta. L'attenzione di
tutti era concentrata su quel lungo bastone.
Senza
esitare uscì dalla cabina e saltò in acqua dall'impavesata di
dritta, quindi si allontanò a nuoto più veloce che poteva, pregando
che il diversivo, qualunque cosa fosse, durasse abbastanza da
consentirgli di raggiungere la terraferma.
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Capitolo 10 *** X - Tutto è bene quel che finisce bene ***
Gente
mia,
almeno
un o dei tre mappazzoni in corso giunge oggi a compimento. Grazie di
cuore a tutti coloro che mi hanno seguito, che hanno letto, messo in
qualche lista o addirittura commentato.
Come
dico sempre, sono i lettori che rendono vive le storie, quindi grazie
ancora a tutti per aver reso vivi i miei personaggi e la mia storia!
X
– Tutto è bene quel che finisce bene
Quando
la mente di Pankow tornò in grado di elaborare pensieri coerenti, il
primo che formulò fu il fermo proponimento di non bere mai più
nulla che fosse stato preparato dagli indios.
Nonostante
nel corso di quell'infausta notte avesse vomitato anche quello che
aveva mangiato a Natale, la testa gli doleva come se dentro ci fosse
stato un troll inferocito, in bocca aveva un sapore che gli evocava
quello di un ossario sotterraneo e la sola idea di introdurre
qualcosa nello stomaco era in grado di provocargli i conati.
Si
alzò faticosamente in piedi e constatò che ormai era giorno.
Intorno
a lui c'erano degli alberi, gli unici rumori che si udivano erano
quelli della foresta che si stava svegliando. I primi raggi del sole
facevano brillare le perle di rugiada che durante la notte si erano
raccolte sulle foglie.
“Ragazzi?”
biascicò. “Wendel? Guardiamarina Bär? Dove siete?”
Si
passò una mano sulla fronte, se la fece scorrere tra i corti capelli
rossi, che gli passarono fra le dita come esili lingue di fiamma.
“Ragazzi?” riprovò.
Si
guardò intorno e intravide da una parte la sommità della capanna
del tizio con le collane.
Cominciò
a camminare in quella direzione.
Gli
abiti fradici, ansante, Schelle correva per la foresta con tutta la
velocità che la lunga nuotata e i postumi dell'alcol gli
consentivano.
Peter
Pankow è uno stronzo, si ripeteva correndo. Uno stronzo, un
irresponsabile e un superficiale. Uno che non ha rispetto. Uno che se
ne frega di qualsiasi cosa e fa solo quello che gli pare.
Saltò
un tronco caduto, si piegò per evitare una liana che pendeva di
traverso.
Una
persona inaffidabile, uno che non si preoccupa di ferire i sentimenti
altrui.
Mise
il piede in una pozzanghera fangosa, imprecò, barcollò e imprecò
di nuovo.
“Stronzo!”
ansimò, questa volta a voce alta. “Brutto stronzo. Uno meno buono
di me ti lascerebbe saltare in aria come lo stronzo che sei!”
Passò
a guado un torrentello, saltando di sasso in sasso.
“Ma
io sono troppo buono,” proseguì a denti stretti. “Anzi, talmente
buono che sono quasi coglione, per cui eccomi qui.”
Finalmente
comparvero in lontananza le capanne del villaggio. Schelle raggiunse
l'agglomerato e per prima cosa si imbatté in un indio riverso.
Si
immobilizzò stupefatto e mentre ansante si chinava ponderando il da
farsi, gli capitarono sotto gli occhi altri due o tre indigeni nelle
stesse condizioni. Adocchiò delle anfore vuote e a quel punto tutto
gli fu chiaro: né suicidi collettivi né epidemie fulminanti, ma
solo una sbronza generale, dalla quale, a quanto pareva, non erano
rimasti immuni neppure i bambini.
“Usanze
locali,” disse fra sé e sé alzando le spalle.
Si
guardò intorno alla ricerca del tenente Pankow.
Peter
Pankow abbandonò il protettivo abbraccio della foresta e subito il
sole caraibico gli ferì gli occhi.
“Maledizione,”
biascicò, sollevando una mano per ripararsi. Tra luce e caldo,
l'agitazione del troll che abitava il suo cranio ebbe un parossismo
ed egli si trovò a desiderare con intensità qualcosa da mettersi
sulla testa.
Si
guardò intorno e la prima cosa che lo colpì fu che nessuno dei suoi
era in vista. “Ma dove sono finiti tutti?” chiese. Di nuovo fece
scorrere lo sguardo in giro, poi a voce più alta chiamò: “Ehi,
dove siete? Non è che siete andati a mangiare cocchi e banane senza
di me?”
Tutt’intorno
c’erano solo indios in vari stadi di ebbrezza etilica.
Finalmente
adocchiò una capanna che aveva una vaga connotazione familiare. La
raggiunse e si affacciò all’interno. Riconobbe il copricapo di
piume, la cui vista gli procurò subito una sensazione di fastidio,
ma accanto a esso notò il suo berretto da ufficiale.
Un
involontario sorriso gli comparve sul volto: niente robaccia che si
infilava in naso o orecchie, niente puzza di selvatico, niente roba
ingombrante in testa.
Si
chinò a raccoglierlo.
Incontrò
una resistenza inaspettata, che con uno scatto metallico venne poi
improvvisamente meno. Abbassò lo sguardo e si rese conto che aveva
appena tolto la sicura di una granata Mills. I postumi della sbronza
lo abbandonarono all’istante. “Oh, mer...” cominciò.
Qualcosa
di pesante gli arrivò addosso e lo trascinò lontano giusto un
attimo prima che l’ordigno esplodesse. Ci fu una detonazione che
quasi gli sfondò i timpani. Seguirono il crollo delle assi del
soffitto e lo sfondamento delle pareti di stuoie, che si aprirono
come la buccia di una banana. Una nuvola di polvere e frammenti di
paglia rese l’aria praticamente irrespirabile.
Seguirono
alcuni secondi di silenzio irreale, poi si udì il rumore di legname
smosso. Qualcuno si sollevò facendo rotolare giù macerie e
frammenti.
“Tutto
bene, signore?” chiese una voce, tra un colpo di tosse e l’altro.
“Till!”
esclamò Pankow. “Till, dove sei, stai bene?” Individuò una
sagoma nella caligine, si precipitò ad abbracciarla, per ritrovarsi
con le braccia al collo di un feticcio di legno. Si scostò e riprese
a sondare i dintorni. “Till, dove sei?” ripeté.
“È
meglio che andiamo, signore,” si limitò a rispondere il caporale.
Si
alzò in piedi e finalmente Pankow riuscì a individuarlo attraverso
la nebbia. Ripeté il tentativo di abbraccio e stavolta riuscì ad
agguantarlo.
L’altro
cercò di farsi indietro, ma il tenente imperterrito rinsaldò la
presa. “Sei venuto a salvarmi!” esclamò.
“Sissignore.”
“Beh,
Till, sappi che non ti serbo rancore per quella lite. Fra noi è
tutto come prima.”
“Ma
veramente ero io che...” cominciò l’altro, che da alcuni minuti
stava rimuginando le poche ma sentite parole con cui gli avrebbe
nonostante tutto concesso il suo perdono. Incontrò il sorriso
disarmante di Pankow. “Va beh, è lo stesso,” concluse,
accompagnando la frase con un gesto di noncuranza.
“Dove
sono gli altri?” chiese il tenente.
“È
questo il problema, signore. Gli inglesi li hanno catturati.”
“Dobbiamo
liberarli,” rispose subito Pankow.
Schelle
non poté trattenere un sospiro di esasperazione. “Signore, sono a
bordo di un incrociatore. Ha presente quanta gente c’è su un
incrociatore?”
“Qualcosa
ci inventeremo,” fu la disinvolta risposta.
“È
proprio quello che temevo.”
§
Sotto
i raggi del sole al tramonto, le acque della laguna sembravano
metallo liquido. Le palme erano nere sagome che si stagliavano contro
un cielo che in basso era color fiamma e salendo acquisiva man mano
un azzurro cupo, nel quale brillavano le prime stelle.
Il
comandante Hook si appoggiò all’impavesata e lasciò vagare lo
sguardo sull’isola. “Lo sa, signor Soak?” disse in tono
nostalgico, “Mi dispiacerà un po’ lasciare Ypa'u Oiyva.” Emise
un sospiro.
Il
nostromo lo fissò dubbioso. “Davvero, signore?”
L’altro
annuì. “La selvaggia bellezza di questo luogo incontaminato ha
finito per conquistarmi, signor Soak.” Sospirò di nuovo, quindi
concluse: “Ma ahimé, la vita del guerriero non concede nulla ad
agi e mollezze. Domattina salperemo per non tornare mai più e questo
luogo diverrà l’eterno custode del dispositivo ombra e dei suoi
foschi segreti.”
“Sissignore,”
si limitò a rispondere il nostromo.
Il
sole scomparve dietro l’orizzonte, la calma bellezza della notte
tropicale, con i suoi profumi e i suoi mille rumori, si sostituì
alla magnificenza del tramonto.
A
un tratto, a Hook parve di vedere baluginare qualcosa di dorato in
lontananza. Aggrottò le sopracciglia e si sporse in avanti. “Cos’è?”
chiese sospettoso.
Soak
guardò a sua volta e disse: “Sembra una zattera incendiata,
signore.”
“Una
zattera incendiata? Che significa?”
Dalla
costa se ne staccarono altre due, e poi ancora altre due. Dopo un po’
la laguna ne era piena.
“Un
faro,” ordinò Hook, senza distogliere gli occhi dall’insolito
spettacolo.
Lo
strumento fu portato in coperta, un potente fascio di luce spazzò il
pelo dell’acqua rivelando le strutture galleggianti per quello che
erano: piccole zattere di legno su cui era stato acceso un fuoco.
“Che
sia qualche rito di quelli là, signore?” ipotizzò Soak.
“Pescatene
una,” ordinò il comandante.
La
zattera fu issata a bordo, ma si confermò una piattaforma fatta di
pochi pali legati fra loro, con sopra foglie secche incendiate. Fu
ributtata a mare.
“Un'altra,”
ordinò Hook.
Di
nuovo la zattera fu esaminata e buttata a mare.
“Può
bastare,” disse a quel punto il comandante, ma il tono era poco
convinto, come se qualcosa si ostinasse a sfuggirgli.
“Speriamo
che non gli venga in mente di controllarle tutte, signore,”
sussurrò Schelle.
“Sta’
zitto e nuota.”
Pagaiando
cautamente con i piedi, attenti a non sporgere dalla sagoma della
loro zattera, Pankow e Schelle si dirigevano adagio, col moto casuale
di un legno affidato alle correnti, verso la Jolly Roger.
“E
se mi si appicca il fuoco ai capelli?” chiese il Radiotelegrafista.
“Metti
la testa sott’acqua e li spegni.”
“Come
faremo per salire a bordo?”
“Ci
sono un sacco di modi. Dalla scaletta laterale, per esempio.”
Schelle
rinunciò a insistere. Continuò a nuotare adagio, cercando di non
produrre alcun rumore. Se guardava la nave, vedeva la gente – un
sacco di gente – che si muoveva in coperta.
Tutti
sembravano interessati alle zattere su cui il fuoco brillava più
vivace: qualcuno stava addirittura togliendo la capottatura a un
cannoncino prodiero, con il chiaro intento di usare quegli
improvvisati bersagli per fare un po’ di esercitazione notturna.
“Hai
visto? Funzionano!” esclamò Pankow. “È valsa la pena di
lavorare tutto il pomeriggio.”
“Signor
tenente, ma se sparano a noi?” non poté fare a meno di chiedere
Schelle.
“Tanto
non ci sparano.”
Si
udì una detonazione, accanto a una delle zattere si sollevò una
fontana d’acqua. Dalla nave provennero risate e acclamazioni.
I
due continuarono a nuotare.
Ci
furono un secondo colpo e poi un terzo. Una zattera esplose lanciando
lapilli infuocati tutt’intorno.
Il
cannoncino brandeggiò.
Schelle
si girò in quella direzione e disse: “Signore, sta puntando verso
di noi!”
“Ma
no, a quella dietro.”
“No
no, a noi, signore!” rispose il caporale inorridito.
“Lascia
la zattera,” gli consigliò il tenente, “e non mettere la testa
sott’acqua, se no le esplosioni ti fanno scoppiare i timpani.”
“Ma
signore!”
L’impalcatura
di legno e paglia, lasciata a se stessa, fu colpita da un tiro teso e
si disintegrò, provocando la solita salva di acclamazioni sulla
coperta. I due continuarono a nuotare fino a che non raggiunsero una
delle scalette: i primi pioli erano corrosi, arrugginiti, incrostati
di alghe e concrezioni. Schelle la fissò sgomento, poi chiese:
“Signore, come facciamo a salire qui sopra?”
“Fa’
finta di essere in palestra.”
Il
caporale scosse la testa. “Ah, ma certo,” replicò cupo. “Stupido
io a non pensarci.”
Pankow
intanto, agile come un furetto, si stava già arrampicando. Di tanto
in tanto si fermava per guardarsi intorno, poi riprendeva come se
niente fosse. Sembrava che quell’esercizio non gli costasse il
minimo sforzo.
Schelle
proferì fra i denti un paio di imprecazioni, poi agguantò un piolo
e a forza di braccia cominciò a issarsi.
Raggiunsero
la coperta mentre ferveva il tiro al bersaglio, tanto che nessuno
fece caso ai due fagotti fradici e ansanti raggomitolati sul castello
di prua.
Pankow
fu il primo a rialzarsi. Si scrollò come un cane e disse: “E ora,
andiamo a cercare i nostri.”
Schelle
ormai aveva rinunciato anche ad arrabbiarsi. In quel momento, ad
esempio, Pankow stava camminando rasente a una parete su un
incrociatore nemico, a cinque metri dall'equipaggio, certissimo che
nessuno li avrebbe notati.
Per
l'ennesima volta rinunciò a chiedersi se al suo superiore mancasse
l'area del cervello che generava la paura o se fosse semplicemente
stupido. Si limitò a seguirlo rassegnato.
“Ora
dobbiamo solo trovare i nostri,” sussurrò il tenente, come se si
fosse trattato della cosa più semplice del mondo.
Il
caporale alzò gli occhi al cielo: ma certo, niente di più facile. E
poi come li avrebbero fatti evadere? Come si sarebbero difesi dagli
inglesi, ma soprattutto dai loro Lee-Enfield?
Tutto
ciò ovviamente non interessava a Pankow, che al momento sembrava un
ragazzino intento a una partita di guardie e ladri particolarmente
emozionante.
A
un tratto si accesero tutti i fari e la coperta venne illuminata a
giorno.
I
due rimasero congelati, Pankow addirittura non proferì parola per
quasi trenta secondi. Poi aprì la bocca per farlo, ma a quel punto
una voce impostata e un po' sussiegosa disse: “Lei è solo un
ostacolo sul mio cammino.”
Il
comandante Hook avanzò con la sua andatura misurata e si fermò a
debita distanza, con una posa degna del Re Sole e una pistola nella
mano sana.
Alle
sue spalle c'erano il sottufficiale corpulento e svariati marinai
armati.
Schelle
sentì il cuore piombargli nei pantaloni. Si vide già in un campo di
prigionia in Canada ad aspettare i pacchi viveri della Croce Rossa.
Pankow
fece un sorrisetto e tentò di nuovo di aprire bocca, ma Hook lo
prevenne: “No, tenente, si faccia un favore, non dica una delle sue
scempiaggini. Anzi, mantenga proprio il silenzio, già che c'è.”
L'altro
rimase sì immobile e muto, ma Schelle vedeva già il suo sguardo
guizzare alla ricerca di una via d'uscita da quella situazione. Via
d'uscita che non c'era ovviamente, ma che Pankow avrebbe continuato
pervicacemente a cercare, anche a costo di mettersi in guai più
grossi di quelli in cui si trovava già.
“Io
ero un abile pianista,” disse Hook, senza abbassare l'arma, “e
ora, per colpa sua non lo sarò mai più. Ero candidato a una
promozione, ma il fatto che lei si sia impadronito del dispositivo
ombra mentre era sotto la mia custodia l'ha fatta sfumare. Avevo
un'intensa vita mondana, ma questo,” sollevò con fare minaccioso
l'uncino, “questo l'ha resa un deserto.”
A
quel punto, Pankow intervenne: “Perché? Mi sembra un ottimo
argomento di conversazione.” Imitò la voce impostata dell'altro:
“Volete sapere come ho perso questa mano, signori? E poi racconta
qualche storia avventurosa.”
“Quindi,
a sentir lei, dovrei quasi ringraziarla,” ringhiò Hook
assottigliando lo sguardo.
Schelle
ritirò la testa fra le spalle. Gli spara, pensò, ora gli
spara, lo fa secco e poi alla faccia della Convenzione di Ginevra lo
butta ai pesci. E dopo tocca a me.
Pankow
sorrise spavaldo e disse: “Le faccio una proposta: lei lascia
andare tutti i tedeschi che ha catturato, ci dà una scialuppa e noi
ce ne torniamo alla nostra unità.” Tacque.
Passarono
alcuni secondi, poi Hook chiese: “E io cosa ci guadagnerei?”
“Che
conserverei un buon ricordo di lei.”
Il
capitano fece una breve risata di scherno e scosse la testa. “Mi
dispiace, tenente, ma temo di non poter accettare. Vede, io spero che
d'ora in poi lei mi ricorderà esattamente come io ricordo lei.”
“Come
un simpatico giocherellone?” propose Pankow.
“No,
come la persona che mi ha rovinato la vita. Nel pensare a lei in
futuro, tenente, avrò una sola e unica consolazione: che grazie a me
sarà finito nel campo di prigionia più orrendo, pericoloso,
violento e difficile di tutte le forze armate britanniche. Sto
pensando alla Tasmania, tanto per darle un'idea.”
“Speravo
l'India, comandante. È tanto che voglio visitarla.”
Schelle
di nuovo ritirò la testa fra le spalle, chiedendosi quanto sarebbe
venuta a costare, in termini di disagi e patimenti, la sfrontatezza
del tenente.
Si
voltò verso di lui, ma Pankow era concentrato sul comandante Hook e
sembrava che in quel momento nulla gli interessasse di più che
rendere colpo su colpo all'avversario.
Emise
un sospiro sconsolato.
A
quel punto si fece udire un ticchettio. Proveniva dal basso, sembrava
una simpatica vecchia sveglia.
Alla
comparsa del suono, il nostromo inglese rivolse uno sguardo
preoccupato al comandante Hook, ma questi non aveva occhi che per
Pankow.
Il
ticchettio frattanto continuava.
“Signore...”
tentò a un certo punto il sottufficiale.
Hook
fece un gesto come per allontanare un insetto.
“Signore,
c’è di nuovo la Crocodile,” tentò di nuovo l'altro.
Il
comandante strinse i denti e in tono tagliente replicò: “Cosa
vuole che me ne importi? Usate l'asta della nafta come al solito, io
ho da fare.” Rivolse di nuovo l'attenzione a Pankow. Con un ghigno
diabolico disse: “Torniamo a noi, tenente. Penso proprio che la
affiderò ai nostri servizi segreti, saranno molto curiosi di sapere
che fine ha fatto il dispositivo ombra.”
“Peccato
che io non lo sappia,” replicò l'altro.
Il
ghigno di Hook si accentuò. “Questo è del tutto irrilevante,”
gli assicurò. “L'importante è che loro siano convinti che lei lo
sappia, perché questo li spingerà a usare ogni sistema di
persuasione, anche e soprattutto il più drastico, nei suoi
confronti.” Emise un sospiro di nostalgia e concluse: “Peccato
solo non essere presente.”
Il
ticchettio si fermò.
Seguirono
alcuni istanti di un silenzio cristallizzato e gravido di minaccia,
in cui tutti parvero immobilizzarsi come in una sorta di grottesco
tableau vivant.
Poi
ci fu un’esplosione mostruosa. La detonazione fu talmente forte che
Schelle sentì una fitta di dolore irradiarsi dai timpani fin dentro
il cranio. Un’onda d’urto rovente sbatté a terra chiunque fosse
in piedi, dalla fiancata della nave si alzò un geyser di fiamme che
illuminò a giorno tutti i dintorni e si innalzò nel cielo come se
avesse voluto arrivare fino alla luna. Roventi schegge di metallo si
dispersero sibilando.
Il
caporale si rialzò disorientato, con le orecchie che fischiavano.
Gli sembrava di assistere alla proiezione di un film muto: vedeva la
gente agitarsi, vedeva il fumo che si alzava e il ponte di coperta
che assumeva un’inclinazione sempre più decisa, ma non sentiva
assolutamente nulla.
Qualcuno
lo afferrò per un braccio. Si girò bruscamente e si trovò di
fronte Pankow. Lo vide muovere le labbra e immaginò, più che
sentirlo, che gli stesse dicendo di muoversi.
Si
rialzò un po’ incerto, barcollò un paio di volte, poi si risolse
a seguirlo.
La
nave stava chiaramente affondando. Pankow, che si era sporto per
vedere l’entità del danno, si era trovato davanti una falla nella
quale sarebbe senza sforzo passato un Opel Blitz con tanto di cassone
rialzato. Non si intendeva molto di natanti, questo bisogna dirlo, ma
anche da neofita capiva che una voragine del genere non era
decisamente compatibile con il galleggiamento.
“Non
abbiamo molto tempo,” dichiarò.
Schelle,
che correva al suo fianco, brontolò: “Ma che scoperta.”
La
risposta fece supporre a Pankow che il caporale avesse già
recuperato l’udito. “Andiamo,” disse quindi, “dobbiamo
trovare i nostri.”
Adocchiò
un marinaio della Jolly Roger che stava tentando di srotolare
un naspo. Le pompe avevano già portato l’acqua in pressione,
quindi il poveretto sembrava alle prese con i serpenti di Laocoonte.
Lo raggiunse, agguantò il tubo, vigoroso e guizzante come una
creatura viva, e disse: “Ti aiutiamo a portarlo se ci dici dove
sono i prigionieri!”
Il
tizio lo fissò con aria sbigottita, Pankow realizzò di aver parlato
in tedesco. Ripeté la proposta in inglese, e nonostante la sua
pronuncia ricordasse una raspa sul legno, l’altro sembrò capirlo.
Accennò
di sì con la testa.
Il
naspo richiese gli sforzi congiunti del marinaio e dei due tedeschi,
soprattutto perché la coperta era ormai inclinata lateralmente di
venti gradi, scivolosa e ingombra di detriti. Dalla falla si levava
una colonna di fumo nero, di tanto in tanto salivano lingue di
fiamma.
Qualcosa
dentro la nave stava crepitando e sibilando.
Il
marinaio pronunciò quelli che probabilmente erano ringraziamenti,
quindi indicò un boccaporto che conduceva sottocoperta. Disse anche
qualcosa a proposito di corridoi e svolte, ma tra la confusione che
regnava ovunque e il suo cockney strettissimo, Pankow capì
praticamente una parola su ventidue.
In
ogni caso ringraziò compitamente e raggiunse il boccaporto. Appena
fu sottocoperta, a pieni polmoni cominciò a urlare: “Guardiamarina
Bär! Professor Hase! Professor Dachs! Mi sentite?”
Dopo
un po’ che sbraitava come un banditore in un giorno di mercato, dal
fondo di un corridoio provenne una voce: “Qui!” Qualcosa di
pesante cominciò a battere ritmicamente contro una parete, forse per
dare un’idea migliore della posizione.
Pankow
sorrise. “Eccoli, i bimbi sperduti!” esclamò.
Correndo
a braccia spalancate per bilanciarsi nel corridoio inclinato ormai di
trenta gradi, il tenente raggiunse una fila di porte chiuse.
dall’altra parte, qualcuno ci stava battendo contro con impegno.
In
tono apprensivo, la voce di Bär disse: “Faccia presto, tenente! La
nave sta per rovesciarsi.”
Ovunque
si udivano scricchiolii, gorgogli e gli sfiati di masse d’aria che
l’acqua spingeva fuori dai locali che man mano invadeva. La luce
andava e veniva, le ventole che si trovavano sul soffitto
funzionavano a intermittenza.
Pankow
individuò un armadio antincendio, lo aprì e ne estrasse l’ascia,
poi con la punta dello strumento colpì la porta, creando un buco
passante.
Guardò
di là e incontrò lo sguardo teso di Bär. “Ci siete tutti?” gli
chiese.
“Sì,
si sbrighi!”
Pankow
sfondò la prima porta, per la seconda gli diede una mano il
guardiamarina. Uscirono tutti: i fratelli Liefke, i due studiosi e i
marinai Murmeltier, Marder e Fuchs.
“Caliamo
una scialuppa, finché siamo in tempo,” disse Bär.
§
Ormai
era l’alba. Vista da lontano, la Jolly Roger era uno
spettacolo apocalittico. L’incrociatore era praticamente sdraiato
su un fianco e un denso fumo usciva da tutti i suoi boccaporti. Le
file di uomini che lo stavano abbandonando creavano uno spettacolo
degno dell’Inferno illustrato dal Dorè.
In
piedi a prora della piccola lancia, Bär osservò serio il relitto e
disse: “Spostiamoci in copertura dietro l’isola.”
“Perché?”
chiese Pankow, che stava seguendo la faccenda come avrebbe fatto un
ragazzino con le evoluzioni degli acrobati di un circo.
“Quel
fumo non mi piace. Per me tra un po’ salta la santabarbara.”
“Mi
ha convinto, Bär. Forse è meglio che ce ne andiamo.”
I
marinai si misero ai remi, la scialuppa si allontanò rapidamente.
Avevano appena doppiato un piccolo promontorio quando si udì
dapprima un’esplosione assordante e poi una serie di detonazioni
più piccole, raffiche, crepitii e fischi. Allo stesso tempo, dal
relitto ormai sventrato si levò una colonna di fiamme alta come un
palazzo a tre piani, sormontata da un nuvolone di fumo rosso
aranciato alla base e violaceo nella parte superiore.
Bär
emise un sospiro e disse: “È sempre un dolore vedere una nave che
affonda.” Rispettosamente si tolse il berretto e chinò il capo. I
tre marinai lo imitarono.
Pilota
e avieri si scambiarono un’occhiata poi, più che altro per non
fare brutta figura, assunsero a loro volta un atteggiamento di
compostezza grave. Chi era riuscito a conservare il berretto se lo
tolse, gli altri si limitarono a un silenzioso raccoglimento.
Nel
generale clima di mestizia, si fece udire la voce del professor Hase:
“Non sarebbe meglio recuperare il dispositivo ombra, prima di
lasciare l’isola? Costa un sacco di soldi.”
Bär
gli riservò l’occhiata che avrebbe rivolto a un mercante nel
tempio.
§
Sulla
coperta della Schütze erano state drappeggiate bandiere da
combattimento della marina e bandiere del Reich, inoltre erano stati
confezionati ornamenti di foglie per decorare un palco su cui era
posata una scatola a tenuta stagna, delle dimensioni di una cassa di
birra, con la scritta GeKaDoS stampigliata sopra in rosso.
Tutti
gli uomini che non erano impegnati in servizi indispensabili erano
schierati in attesa.
Si
fece avanti il comandante von Stauff, in uniforme di gala nonostante
il caldo, e tutti scattarono sull’attenti come un sol uomo.
L’ufficiale
diede il riposo, poi estrasse un foglio e si apprestò a leggerlo.
A
quel punto, nel silenzio perfetto della coperta si udì un gnaulare
infernale, accompagnato dal rumore fesso di barattoli di latta
percossi. Davanti ai piedi di von Stauff passò come un fulmine il
gatto di bordo, emettendo strida demoniache e trascinandosi dietro,
legate alla coda, un certo numero di lattine vuote.
Pankow
assunse l’aria innocente di un agnellino neonato.
Hans
Liefke alzò gli occhi verso il tenente Pankow, che momentaneamente
privo di un velivolo era sdraiato sulle guide della catapulta in
calzoncini corti e occhiali da sole, e disse: “Io voglio diventare
come lui.”
“Anch’io,”
disse Michael.
“Appena
possibile voglio fare domanda per la scuola di volo.”
“Anch’io!”
“No,
tu no.”
“E
perché io no?”
“Perché
l’ho detto prima io!”
“E
allora? Pensi che il Reich abbia bisogno di un solo pilota? E poi sai
che ti dico? Che io non vado a fare la scuola sugli idrovolanti: io
voglio diventare un pilota da caccia!”
Hans
si concesse addirittura una sghignazzata. “Anche tu vuoi andare
alla scuola di volo come Wendel? Ragazzi, ci vuole il fegato
per fare i piloti da caccia.”
“E
sentiamo, tu ce l’avresti?”
Hans
lo fissò con degnazione, “Certo.”
“Ma
figurati. Quando ci hanno catturati gli inglesi a momenti te la
facevi sotto.”
“Parla
quello che quasi quasi si metteva a piangere.”
“Non
è vero!”
A
quel punto intervenne Wendel dicendo: “Hans, Michael, andate a fare
i vostri bagagli, partiamo fra mezz’ora.”
I
due lo fissarono sgomenti. “Fra mezz’ora?” ripeterono
all’unisono. “Ma...” Partire significava niente più avventure
divertenti, niente più scherzi al gatto di bordo, niente più
risate. Solo serietà e dovere.
“Torniamo
sul Walküre,” spiegò il maggiore.
I
due si voltarono verso Pankow già con l’espressione di nostalgia.
Michael emise un sospiro e chiese: “Possiamo almeno andare a
salutarlo?”
Wendel
assentì.
I
due partirono festanti, fecero di corsa i gradini che portavano alla
piattaforma di servizio, poi Hans gridò: “Signor tenente!”
Svegliato
di soprassalto, Pankow sobbalzò e si girò come per scendere da un
immaginario letto, ma trovò sotto di sé solo il vuoto.
Freneticamente cercò di aggrapparsi da qualche parte, ma non ci
riuscì.
Si
udì il tonfo di un corpo che piombava in acqua.
“Uomo
in mare!” urlò qualcuno.
§
Sotto
una tettoia di foglie di banano, seduto a un tavolino recuperato
dagli arredi della Jolly Roger, Hook guardava pensoso
l’orizzonte parzialmente nascosto dalla mole dell’incrociatore
rovesciato.
Disseminati
lungo la spiaggia, o ai margini della foresta, vi erano i ricoveri di
fortuna che gli uomini avevano costruito e i depositi con quello che
era stato salvato. La cosa non lo preoccupava, sarebbe arrivata
presto un’altra nave di Sua Maestà a trarli d’impaccio.
“Quando
non c’è più rimedio è inutile addolorarsi,” prese a recitare
assorto, “perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato
alla speranza. Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro
per attirarsi nuovi mali. Quando la fortuna toglie ciò che non può
essere conservato, bisogna avere pazienza: essa muta in burla la sua
offesa. Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro, ma...” si
interruppe e tese l’orecchio: gli pareva di sentire tamburi,
cimbali e strumenti a fiato che suonavano tutti insieme in una
spaventosa cacofonia.
“Signor
Soak!” chiamò.
Comparve
il nostromo. “Signore?”
“Signor
Soak, dica agli uomini di smetterla con questo fracasso. Non riesco a
pensare.”
Il
sottufficiale lo fisso stupito. “Signore, nessuno degli uomini sta
facendo fracasso.”
I
clamori frattanto stavano aumentando di intensità. Ora di
distingueva anche un canto dissonante, che sembrava non aver nulla a
che fare col chiasso degli strumenti.
Comparve
infine una torma di indios festanti. Tutti indossavano abiti colorati
e monili, le donne erano adorne di cascate di fiori.
In
testa al corteo, sotto un tendale retto da quattro uomini, incedeva
l’imponente figlia del capo, agghindata da gran festa.
Sotto
gli occhi esterrefatti di Hook, la processione si arrestò e da essa
si staccò un uomo vecchissimo, dalla pelle incartapecorita, vestito
di una specie di stuoia di erbe, con una collana da cui pendevano
ossa e feticci. Costui si fece avanti reggendosi a un bastone,
pronunciò un discorso e fece gesti benedicenti verso la figlia del
capo e verso di lui.
Il
comandante continuava a fissare gli indios ammutolito.
Si
fece avanti a quel punto un altro indigeno, che con qualche fatica
proclamò: “Ecco moglie.” Indicò l’orchessa che aveva
abbattuto non meno di tre dei suoi marinai col solo ausilio dei
piedi.
“Prego?”
chiese Hook, più che mai stupito dalla piega che stava prendendo la
faccenda.
“Moglie,”
ripeté l’altro in tono ovvio. Prese per mano la ragazza e gliela
condusse davanti. Yvoty Jaguarete ebbe anche il coraggio di assumere
un’aria timida e virginale.
Ad
ogni buon conto, Hook si alzò dal tavolino e arretrò di un passo.
“Come sarebbe a dire, moglie?” chiese sospettoso.
L’indio
lo fissò come se si fosse sentito chiedere perché l’acqua messa
sul fuoco si scalda. “Tu portata caverna,” spiegò col tono di
ribadire l’ovvio. “Lei moglie.” Annuì per sottolineare il
concetto. “Caverna, moglie,” ribadì.
Alle
spalle di Hook, il nostromo intervenne: “Signore, forse questa
gente quando si vuole sposare ha l’usanza di rapire una donna e
portarsela da qualche parte.”
“Beh,
io no,” rispose precipitoso il comandante, arretrando ad ogni buon
conto di un altro paio di passi.
Yvoty
Jaguarete gli scoccò un’occhiata languida, l’indigeno che faceva
da interprete parve soddisfatto. “Lei moglie!” proclamò. Ripeté
verosimilmente la stessa cosa nella lingua della tribù e tutti
esplosero in un’ovazione.
Il
capo in persona si avvicinò e pronunciò solennemente un discorso di
cui nessuno degli inglesi capì una parola, quindi si girò e si
allontanò assieme al resto della tribù, mentre cimbali e tamburi
riprendevano a suonare e i canti si innalzavano verso il cielo.
Hook
alzò lo sguardo sull’orchessa: vestita in paramenti nuziali
sembrava ancora più alta e più grossa di come la ricordava. “Puoi
andartene,” le disse. Fece un gesto come per scacciare i polli.
“Puoi andare via, mi capisci? Sciò sciò.”
Yvoty
Jaguarete fece un passo verso di lui.
Il
comandante arretrò. “Signor Soak, me la tolga di dosso!” ordinò.
Il nostromo cercò di afferrarla, ma fu mandato con facilità gambe
all’aria.
L’orchessa
riprese la sua inesorabile avanzata.
“Signor
Soak!” tentò di nuovo Hook. Adocchiò una scialuppa che era stata
tirata in secca, la raggiunse, la spinse in acqua e saltò a bordo
giusto un attimo prima che Yvoty Jaguarete riuscisse a ghermirlo.
Infilò a quel punto i remi negli scalmi e prese a pagaiare verso il
largo con tutta la forza, mentre l’orchessa, ormai con l’acqua a
metà coscia, tendeva le braccia verso di lui ed emetteva muggiti che
di sicuro nella sua lingua dovevano essere struggenti dichiarazioni
d’amore.
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