Softer, Softest

di Ellie_x3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vicini di Banco ma non si sopportano ***
Capitolo 2: *** Scenata in Classe ***
Capitolo 3: *** Fumare di Nascosto ***
Capitolo 4: *** L'hai Mai Fatto Prima? ***
Capitolo 5: *** Non Sai Perdere ***



Capitolo 1
*** Vicini di Banco ma non si sopportano ***


 

Softer, Softest
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5 Times Dazai Disappointed Chuuya (and That One Time He Surpsiginly Didn’t)





5 + 1 
Vicini di banco ma non si sopportano 
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Alla soglia dei quindici anni, Nakahara Chuuya aveva imparato che l'esistenza di un adolescente si poteva riassumere in un intreccio di momenti che non sarebbero mai tornati indietro, test di fine trimestre, lividi che non svanivano mai abbastanza in fretta e di conoscenze di merda. Ora, entrambi i suoi genitori avevano abbassato le aspettative riguardo una futura carriera letteraria del loro unico figlio di fronte a tale, poco raffinata definizione, ma Chuuya aveva avuto la prova della verità di quello che aveva sempre sostenuto anche troppo presto.
Tutti i suoi problemi erano iniziati quando succitata esistenza era stata abbastanza impietosa da mettere sulla sua strada la peggiore imitazione di uno shinigami che la natura potesse abortire: con un paio d'occhi vuoti, un sorriso che poteva tagliare la carta ed una fastidiosa attitudine ad avere sempre ragione, il poster boy delle ‘conoscenze di merda’ gli si era presentato davanti senza che nessuno glielo avesse chiesto e non aveva mai smesso di far pentire Chuuya del momento in cui aveva avuto la sfortuna di conoscerlo (ugh. Pessima, pessima idea).
Tale shinigami si era appropriato del banco vicino alla finestra — il suo banco, aveva realizzato il ragazzo, che era stato in quella stessa classe l’anno prima — il primo giorno di terza media e si stava allentando la cravatta dell’uniforme come se lo stesse strangolando.
Più tardi avrebbe scoperto che Dazai Osamu aveva un debole per qualunque cosa lo strangolasse, a causa di un'inquietante predisposizione al suicido su cui Chuuya aveva preferito glissare, ma non per l’uniforme scolastica, né per i professori o qualunque cosa reputasse noiosa. Avrebbe anche scoperto (non che l’avesse chiesto) che bende bianche facevano capolino da sotto le maniche e gli avvolgevano il corpo, che Dazai aveva la brutta abitudine di commentare le lezioni ad alta voce e che era un insopportabile marmocchio so-tutto-io, rumoroso e con una vena di crudeltà che mal celava dietro la patina opaca che gli velava lo sguardo.
Ma in quel momento, prima di avere anche solo vagamente idea dell’orrore in cui si stava cacciando, Chuuya aveva agito senza pensare, calciando riottosamente la gamba del tavolo e sbattendo entrambe le mani su quello che era stato il suo banco.
“Oi, moccioso. Trovati un altro posto.”
Il ragazzo — lo riconobbe vagamente nella classe di Tachihara l’anno prima, ma il nome era uno spazio bianco nella sua mente— alzó su di lui due occhi spenti.
Per un secondo Chuuya dovette ricordarsi della propria reputazione per non indietreggiare; quello dopo, Dazai stava sorridendo.
“Ah, Nakahara Chuuya-kun, buongiorno.”
Un brivido lo attraversò da capo a piedi.
Questo tizio potrebbe tagliare la gola a qualcuno prima della fine dell’ora. 
E Chuuya ne sapeva qualcosa, di violenza: non si diventava capo di una gang vincendo a biglie e spacciando caramelle.
“Come sai il mio nome?”
Sbattendo le palpebre, Dazai lo fissò per qualche secondo prima di indicare la porta d’ingresso della classe e il foglio che vi era appeso. Aveva anche il coraggio di sembrare ingenuo.
“Ho letto l’appello. Non eri tu che venivi in classe a cercare Tachihara Michizou, l’anno scorso?”
Chuuya esitò. Maledizione, aveva una buona memoria.
E degli occhi vuoti come quelli di un pesce, aggiunse una vocina nella sua mente. Quegli occhi da pesce lesso, da sgombro, da shinigami gli facevano venire voglia di rinunciare al banco e scappare, eppure allo stesso tempo non aveva mai incontrato una persona che urlasse ‘picchiami’ come il ragazzino.
“E allora?!” replicò, più bruscamente di quanto avrebbe voluto.  
“Nulla,” replicò il ragazzo, con un sorrisetto e una scrollata di spalle “pensavo fosse chibi ad avermi parlato per primo. Cos’è che volevi?”
“Devi lev— Oi, chi stai chiamando chibi!?” 
Il ragazzo lo guardò, inclinando il capo; lentamente, deliberatamente.
“Dovresti bere più latte se vuoi crescere, o-chi-bi.”
“Levati dal mio cazzo di banco, spreco di bende!”
Tutti gli occhi erano su di lui, immobilizzando gli studenti che si stavano scegliendo i propri posti diligentemente e studiando in silenzio i compagni di classe con cui avrebbero trascorso l'ultimo anno di medie e riconoscendo in Chuuya il peggiore dei teppisti.
Ma lo sgombro no, lui non lo guardava nemmeno. 
“Non ne ho alcuna intenzione,” dichiaró, amabilmente. Chuuya sussultò nel discernere una punta di gelo in quel tono stranamente delicato, come se gli stesse allungando un regalo ma con dentro una bomba, “ma chibi è il benvenuto a sedersi nel banco accanto al mio, così non sentirà la mia mancanza.”
Un ragazzino pallido che stava per posare la propria borsa sul tavolo in questione scivoló via in fretta, bianco in viso e occupando l’ultimo posto libero nella classe. Fantastico.
Chuuya sbuffó, incrociando le braccia al petto. 
“Perché non ci vai tu?”
“Uh? Perché sono già seduto?” flautò il ragazzo, la nota dura di minaccia sotto il sorriso che gli arricciava le labbra, “non abbaiare tanto e fai il bravo, Chuuya-kun.”
“Bastardo,” masticò, la mascella serrata per l’orrore e la sorpresa che qualcuno avesse davvero il coraggio di rispondergli in quel modo, ma Dazai aveva posato il capo contro il vetro della finestra e lo guardava con un’espressione quieta, gelida.
“Su, chibi. Va’ al tuo posto.”
“Non finisce qui,” promise, nella vaga speranza che il dito accusatore che gli aveva puntato contro smuovesse la sicurezza di coso, mummia-troppo-cresciuta.

Non so neanche il suo nome.
Cazzo me ne frega del suo nome, è una macchina spreca bende.

Nella scuola in cui aleggiava la fama che il re della Pecora si era costruito in due anni di scorrerie con il suo gruppo di amici e compagni, chiunque avrebbe abbandonato la classe — no, la città, l’universo. Invece, lo sgombro troppo cresciuto rispose con un sorriso.
Era quel tipo di espressione che Chuuya semplicemente sapeva che l’avrebbe torturato nei suoi incubi. Era un sorriso vuoto, occhi vacui come quelli di una bambola in un film horror. 
“Me lo auguro, Chuuya-kun.”

 

*

“Chibi, buongiorno!” 
Sentendo qualcosa pesargli sul collo, Chuuya drizzò la schiena con abbastanza foga da sentire i muscoli intorpiditi schioccare. Irritato — lui stava studiando, stava decisamente srudiando con impegno e forza di volontà, non si era affatto appisolato — agitó con veemenza le braccia per allontanare l’insetto troppo cresciuto che aveva cominciato a ronzargli attorno.
Da quando erano vicini di banco, la vita di Chuuya era stata un inferno — ma non era quello il compito degli shinigami, rendere l’esistenza umana miserabile?
“Oi, non mi toccare, kuso Dazai,” abbaió mentre l’altro scivolava nel banco accanto alla finestra con una risata allegra, posando la borsa accanto alla sedia.
Chuuya gli lanciò una penna per il puro divertimenti di vederlo schivare oggetti senza quasi accorgersene, e come immaginava l’altro l’afferrò al volo prima che potesse colpirlo.
Prima che Dazai arrivasse, la classe era vuota e calma; solo Chuuya, corridoi ancora vuoti ed una stringa dopo l’altra di numeri e lettere che non avevano alcun senso logico. Prima che Dazai arrivasse, la testa di Chuuya era stata pesante e si era ritrovato più volte a scrollarsi di dosso un sonno pesante come un macigno e a sbattere le ciglia che parevano incollarsi l’una all’altra, senza sapersi spiegare come potevano già essere passati venti minuti quando era certo di aver chiuso gli occhi solo per qualche secondo.
Prima che Dazai arrivasse, aveva forse qualche speranza di finire in tempo.
“Così di cattivo umore di mattina presto, chibikko?”
“Non ho finito nessuno degli esercizi di algebra,” replicò Chuuya, aggrottando le sopracciglia e abbassando gli occhi sul libro aperto di fronte a sè, “Non ci capisco niente.”
Dazai sogghignó.
“Oh, qualcuno qui è stupido~?”
“Hah? Chi stai chiamando stupido?!”
“Non è colpa di chibikko, dopotutto non c’è tanto spazio per i neuroni in una testa così piccola…”
Chuuya trattenne un respiro, e ingoiò al contempo una valanga di insulti che gli premevano contro le labbra al solo pensiero di condividere lo spazio e la giornata con quella zecca di Dazai.
“…E poi, tutti sanno che le baby gang non sono particolarmente intelligenti!”
Chuuya decise di non sentirsi in colpa quando il libro che aveva lanciato colpí Dazai nel mezzo della fronte. 

 

*

 

“Chuuya, dovevi dirci che sarebbe rimasto un tuo amico a dormire.” 

Chuuya sentí le guance in fiamme nel momento in cui registrò l’orribile grembiule rosa che suo padre indossava sopra il completo elegante, una mano che sollevava la padella sopra un nuovo servizio di piatti (giallo? di nuovo?) e l’altra cristallizzata nell’atto di servire una piccola torre di pancakes. Se il profumo familiare del burro, della marmellata e del caffè che aleggiava nella cucina era stato sufficiente a fargli leccare le labbra secche, riempiendo la cucina dell'odore non dissimile da una di quelle panetterie francesi in cui i suoi genitori amavano trascorrere la mattinata nei weekend, quella vista gli fece rimpiangere di essere mai uscito dalla propria camera.
Era improvvisamente conscio di Dazai accanto a sè, dell’occhiata laterale che gli aveva lanciato e del sorriso che gli si era formato sulle labbra.
“Scusate, abbiamo fatto tardi,“ salutò, a denti stretti.

 

“Quindi i tuoi genitori sono scrittori?”
“Mh-h, poeti.”
“Questo spiega perchè Chibi non sa da dove partire con le materie scientifiche, eh~?” con il minimo movimento, Dazai aveva schivato il cuscino che Chuuya gli aveva lanciato.
“Kouyou-nee studiava medicina, sapientone.”
Si accorse di aver detto troppo nel momento in cui le pupille di Dazai si strinsero e le sue labbra si piegarono in una v rovesciata; la curiosità lo faceva assomigliare ad un gatto, in una maniera bizzarra che Chuuya non avrebbe saputo spiegare.
“Che sarebbe tua sorella?”
Facendo schioccare la lingua, infastidito dalla propria stupidità nel lasciarsi sfuggire particolari della propria storia personale con qualcuno che li avrebbe probabilmente divulgati per tutta la scuola per metterlo in imbarazzo, Chuuya si ritrasse sul letto e si abbracciò le ginocchia.
“Kouyou-nee non è mia sorella di sangue,
ovviamente,” spiegò, abbassando lo sguardo. Se si sforzava, riusciva a ricordare il profumo di fiori freschi nella stanza della donna, e il suo sorriso imperscrutabile, “è un’amica di famiglia. Si è sempre presa cura di me quando i miei erano in Europa.”
“Chuuya aveva una cotta per lei?” incalzò Dazai, lasciando cadere la domanda fra loro con delicatezza quando l’altro si sarebbe aspettato un atteggiamento diverso, più sfrontato. Sorpreso, sbattè le palpebre.
Kouyou-nee aveva abbandonato l’università per sposarsi. Non la vedeva più molto, da allora, ma era felice e a Chuuya non mancava così tanto se pensava che un giorno sarebbe potuto essere contento quanto lei.
“No, no,” si affrettò a spiegare, “è solo una persona importante nella mia vita. Quindi, idiota, il lavoro dei miei genitori non vuol dire niente.”
“Ah, quindi Chibi mi sta dicendo che non è colpa di nessuno se lui è stupido! Quanto altruismo~”

Un altro cuscino che mancava Dazai per un soffio, un’altra risata che riempiva la stanza.
“Bastardo!”
“Sì, sì, chibi, continua ad abbaiare finché non ti senti soddisfatto. Comunque ci mancano ancora tutti gli esercizi di algebra, quindi qui finiremo tardi.”
Chuuya aveva sbattuto gli occhi, sorpreso dal modo in cui lo sguardo di Dazai era volato alla finestra, lo sguardo che vagava in qualche angolo buio in cui Chuuya sentiva non poterlo seguire ed il tono piatto di chi non vuole tornare a casa.
Non perchè è troppo tardi, ma non vuole e basta; non c’era davvero molta scelta a quel punto, no?
“Vuoi restare?”

Arthur alzò a malapena lo sguardo dalla propria tazza fumante, già con indosso il cappotto e pronto per uscire, lanciando un’occhiata veloce prima al figlio e poi al marito; Arthur Rimbaud sapeva di aver sposato una macchina programmata per viziare il loro unico figlio e insegnarli qualsiasi canzone di Édith Piaf reperibile nel vasto, oscuro mondo dell’internet, lo sapeva. Sapeva anche che Paul Verlaine era una drama queen e che la sua malsana passione per i vini pregiati avrebbe educato Chuuya ad una raffinata ma precoce tendenza all'alcolismo -- come se il ragazzo avesse bisogno di ulteriori spinte verso l'illegalità.
Lo sapeva: questo non voleva dire che non se ne pentisse giornalmente.
“Paul, quando abbiamo permesso a Chuuya di portare amici per la notte?” domandò, in quel tono laconico che aveva modulato negli anni in cui era venuto a patti con il fatto che educare un ragazzino non sarebbe stato semplice come gli avevano sempre detto.
Paul si scrollò la domanda di dosso.
“Non l’abbiamo fatto.”
“Appunto,” gli lanciò un’occhiata e Chuuya sentí le guance diventare ancor più bollenti, se possibile. Maledizione.
“Posso spiegare.”
“Dopo la scuola, mon cher. Ora tutto quello che serve ora è un piatto in più,” decretò Paul, semplicemente.
Chuuya avrebbe voluto trascinare Dazai fuori di casa ben prima di dover sottostare ad altre scene imbarazzanti, o ancor peggio dovendo spiegare ai genitori il motivo per cui lo spreco di bende si era fermato a casa sua prima che potesse avvertirli, ma il suddetto shinigami era al suo fianco con un sorriso dipinto sul volto e le guance tinte di una delicata sfumatura di rosa che Chuuya non sapeva se definire imbarazzo o gioia.
Era una novità — una novità orribile, considerato che ora entrambi i suoi padri erano convinti che stesse nascondendo loro una cotta, ma pur sempre qualcosa di nuovo.
Eppure era innegabile che, con il colletto della camicia dell’uniforme spiegazzato e i capelli a malapena pettinati che gli cadevano in ciocche disordinate sul volto, Dazai sembrava una persona normale. Chuuya sentí un nodo stringergli lo stomaco.

Con uno sbuffo, aveva lanciato la coperta sulle spalle di Dazai e gli si era accoccolato accanto sul letto. Si era sorpreso di trovare calore dove si era aspettato solo gelo e spalle ossute.
Da quanto l’idiota non dormiva, per crollare sul fottuto libro di francese?

“Dormi, stupido mackerel,” aveva brontolato, affondando un sospiro esasperato nel cuscino che condividevano. 
Ho finito gli esercizi di algebra, aveva pensato prima di scivolare nel sonno, e tutto per questo sgombro maledetto.

“—mu, piacere di fare la vostra conoscenza. Io e Chuuya siamo compagni di banco!” 
Gli occhi di Arthur si posarono sul figlio, poi su Dazai; il ragazzo vi scorse una scintilla di sorpresa.
“Credevo i banchi fossero separati?” mormorò, cercando il sostegno del marito con un’occhiata laterale.
“La sanguisuga qui è accanto al mio banco,” replicò Chuuya, inarcando un sopracciglio in direzione di Dazai, che aveva il sorriso di un bambino il giorno di Natale come se non fosse una minaccia per la società ambulante e il principale assassino dei neuroni dell’intero corpo insegnanti.
“Oh. Piacere, Dazai-kun.”
“Siediti, siediti! Non stare lì, fai come se fossi a casa tua,” lo invitò energicamente Paul, ignorando il fatto che il ragazzino non aveva atteso altro e fosse già praticamente incollato alla tavola come se ne avesse sempre fatto parte. Chuuya lo conosceva abbastanza da cogliere la ritrosia sotto la maschera allegra, a questo punto, ma non si sarebbe mai aspettato che l’offerta di suo padre fosse accompagnata da tutto quell’entusiasmo e da un inchino appena accennato, ma ricco di gratitudine. Ogni stilla di educazione e gioia sincera da parte di Dazai lo colpiva come un pugno allo stomaco.
“Grazie per l’ospitalità. Mi dispiace di intromettermi così, abbiamo studiato per i test di fine trimestre.”
“Questa sí che è una novità,” Replicò Arthur, arricciando il naso in direzione di Dazai. Un leggero sorriso che gli addolciva i lineamenti, “è bello vedere che Chuuya si è fatto degli amici in classe così presto.”
“Siamo molto amici~” sostenne il ragazzo, con una disinvoltura che sembrò gelare l'intero mondo attorno a Chuuya.
Il bastardo mentiva come un adulto. Che odio.
“Oi, Daza—”
“Aspetta un momento…” un gasp leggero, le sopracciglia bionde di Paul Verlaine che si univano sulla sua fronte aggrottata, “Chuuya! Non ti abbiamo cresciuto per nasconderci certe cose!”
“Papà! No!”
Arthur arricciò il naso.
“Non è un po’ presto per questo genere di...?”
“Papà!!!”
“Io e Chuuya siamo solo amici,” assicurò Dazai, con una punta di malizia che un pre-adolescente non avrebbe dovuto conoscere e che, di nuovo, costrinse Chuuya ad abbassare lo sguardo sin troppo cosciente del bollore delle proprie guance.
“Se le cose stanno così, Dazai-kun, sei il benvenuto tutte le volte che vuoi.”
Imbarazzante, pensò Chuuya, tutta questa situazione è imbarazzante.
Uccidetemi ora.
“Chuuya, non ci hai detto di avere un amico così beneducato.”
“Arthur, non tutti gli amici di tuo figlio sono dei teppisti.”
Dazai è il più teppista di tutti, papà.
“Paul, tuo figlio è il capetto dei teppisti.”
Le labbra di Arthur erano già socchiuse per aggiungere qualcosa, la fronte aggrottata come per ricordare che la situazione non era ottimale nonostante la presenza del soggetto delle lamentele di fronte a loro, ma entrambi vennero catturati dall’espressione estatica di Dazai. Con la bocca piena di pancake e le guance gonfie come quelle di un criceto, il ragazzino rivolse a Chuuya due occhi luccicanti. 
“Chuuya!"
Chuuya si odiò per il modo in cui il suo corpo aveva reagito.
"COSA?!"
"Nee, chibi mi aveva mai detto di avere un padre così bravo in cucina! Aaaa, ora ti invidio ancora di più~”
“Invidiarmi?! Che diavolo stai dicendo, kuso Dazai?”
“Chuuya,” lo riprese Arthur, a mezza voce, in quella che sapeva essere una battaglia già persa contro le imprecazioni del figlio; Chuuya sussultò, mordendosi le labbra, “Dazai-kun, grazie per avere pazienza con Chuuya ed aiutarlo a a studiare.”
“Niente, niente! È un mutuo beneficio~ Ehy, Chuu~ya, non fai colazione?”
Non l’aveva mai visto così…infantile. Normalmente, il solo accostare quel particolare aggettivo agli occhi vuoti di Dazai gli faceva correre un brivido lungo il corpo.
La sera prima, con le ciglia che gli sfioravano le guance e il respiro regolare che muoveva l’angolo della pagina su cui si era addormentato, e quando conversava con i suoi genitori come se fosse di casa da una vita Dazai sembrava un ragazzino qualsiasi. Contro ogni fibra di buonsenso che gli era rimasta, Chuuya sentí il nodo allo stomaco stringersi e il volto sereno dello spreco di bende addormentato gli sfarfallò di fronte agli occhi, sovrapponendosi all’orribile Shinigami che aveva imparato a conoscere.
Peccato che il risveglio fosse stato fastidioso come ci si poteva aspettare, con Chuuya che lo buttava giù dal letto (“Chuuya~ ~ Non ti pare un modo troppo violento per svegliare Biancaneve?”, “Hah?! E da quando saresti Biancaneve, kuso Dazai? Muoviti, stupida principessa, siamo in ritardo!”) quando si rendeva conto che lo sgombro maledetto si era addormentato prima di aver impostato la sveglia e l’aveva distratto abbastanza con la sua stupida faccia — e la sua stupida bava, e lo stupido respiro e lo stupido modo con cui brontolava di granchio nel sonno — per ricordarsi di caricare il cellulare.
Sedendosi a tavola senza una parola, si disse di non farci l’abitudine. Erano solo vicini di banco che non si sopportavano, persone (quasi) adulte che dovevano respirare la stessa aria per qualche ora ogni giorno.
I ragazzi della Pecora erano i suoi veri amici, il suo gruppo e la sua famiglia; erano i compagni che lo apprezzavano, e che avevano bisogno di lui. Quel fastidio ambulante di Dazai Osamu, lo shinigami con gli stessi occhi morti di un pesce, non sarebbe rimasto nella sua vita abbastanza a lungo da permettergli di abituarsi a quell’espressione fastidiosamente umana sul suo viso.



Note:

Come da titolo, il prompt di questo capitolo è: "Vicini di banco, ma non si sopportano." 

Devo smetterla di pubblicare a nastro, sono una rompipalle LOL con questa vado piano, giuro, è finita e la aggiorno con calma. Ma ho colto l'occasione dell'iniziativa estiva del Giardino per sviluppare un trope che adoro, ovvero Verlaine e Rimbaud che adottano Chuuya in una Modern!AU, e dovevo necessariamente agire prima della fine dell'estate. 
Nonostante sia 10/10 una Soukoku ci saranno altre coppie oltre ai SKK, in particolare Tachuu che adoro e si meritano amore, quindi be mindful <3 

Come sempre, un grazie enorme e un biscotto a chi legge, a chi commenta, a chi inserisce nelle liste e anche solo a chi sopporta il modo in cui sto intasando il fandom in questo periodo 🖤 Vi si vuole bene!

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Capitolo 2
*** Scenata in Classe ***


5+1
Scenata in Classe
-

From: Chuuya

Dazai?
Oi, mi vuoi rispondere?
OI. 

 

Naturalmente, Dazai non aveva risposto.
Visualizzava e lasciava perdere. Lascia stare, lasciami stare.  
Ma era una richiesta che sembrava irrazionale dopo un anno in cui Chuuya aveva avuto a che fare con il costante trillo dei messaggi di Dazai, delle conversazioni su qualsiasi social esistente, oltre ad una decente collezione di biglietti lanciati alle spalle dei docenti nel poco spazio che separava i due banchi. Quel moccioso era la personificazione del fastidio, e Chuuya l’aveva eletto proprio demone personale dopo che aveva scoperto la passione di Dazai per il nascondergli penne, astucci e cellulare, ma per qualche motivo era diventato normale mangiare sulla terrazza della scuola seduti l’uno accanto all’altro, tornare a casa insieme dopo i rispettivi club e sentire la voce piagnucolosa di Dazai implorare Tanizaki Naomi, "Rappresentante, per favore! Chuuya non arriva alle mensole~" ogni volta che era il turno di Chuuya di prendersi cura della classe. Sfortunatamente per Chuuya, Naomi era sensibile al potere che le dava essere chiamata 'rappresentante', come se fosse una carica ufficiale voluta da qualche divinità, e Dazai lo sapeva.
In quei mesi, Dazai lo aveva aiutato in algebra e Chuuya, incredibilmente, era riuscito a spiegargli qualcosa di economia domestica e storia occidentale: non che avesse bisogno di aiuto, ma Dazai non si impegnava mai abbastanza e viveva come se tutto fosse destinato a scivolarsi di dosso.
Quello degli ultimi due giorni era stato un brusco cambio di rotta: un silenzio tormentato, all’inizio, fatto di sbuffi e di occhiate lanciate allo schermo del cellulare per controllare che ci fosse campo, che ci fosse una ragione oggettiva per quello che stava accadendo. Perché non era normale che Dazai non rispondesse nè lo seppellisse sotto una montagna di meme e foto di gatti (“Ah! Questo gatto sembra Atsushi-kun!” “E allora mandalo a Nakajima, cretino!”) e commenti su quanto bello e bravo fosse il suo kohai.
Niente.
Silenzio.
Nessun messaggio da quel pomeriggio di due giorni prima, quando Chuuya si era offerto di aiutare Dazai nelle pulizie dopo le lezioni nonostante non fosse il suo turno. Lo stomaco gli aveva fatto una capriola nel cogliere una punta di onestà nel sorriso che gli aveva rivolto Dazai, un senso di timore e rabbia e vergogna che non s'era alleggerito neanche quando Naomi li aveva accusati di utilizzare le responsabilità scolastiche in modo inappropriato.
No, era un senso di timore reverenziale che gli aveva afferrato le viscere e non le aveva più lasciate andare; non quando avevano spostato i banchi, non quando Dazai aveva lanciato qualche commento riguardo i piani per la Golden Week dato che Marzo e Aprile sarebbero stati impegnati con la cerimonia dei diplomi e l'inizio delle superiori, nè quando Chuuya aveva afferrato una spugna, stringendola fra le mani finché le nocche non erano diventate rosse.
“Che c’è, chibikko si vuole dichiarare?” l’aveva pungolato Dazai. Nel dirlo gli aveva rivolto un sorrisetto illuminato dalla luce del sole che iniziava a sparire oltre i grattacieli che Chuuya non ricambiò, ma non parve preoccuparsene.
E dire che Chuuya aveva rinunciato a una delle ultime sere che poteva passare con i suoi amici pur di dare a quel cretino la notizia di persona.
I ragazzi della Pecora avrebbero capito, si era detto, ma a posteriori iniziava a nutrire dei dubbi riguardo la propria capacità decisionale.
“Dazai, c’è una cosa che ti devo dire.”

 

Da allora, lo sgombro idiota si era serrato nel silenzio stampa.
La cosa allucinante, quella che aveva davvero dato uno scossone al mondo di Chuuya, era che la reazione di Dazai non era nemmeno stata la peggiore, né la più veemente riguardo quello che ci si aspettava da lui. Il ragazzino si sfioró il braccialetto blu che gli cingeva il polso sinistro, infastidito e sorpreso da quanto stretto sembrasse tutto ad un tratto. 

 

“Chuuya! E noi come faremo?”
“Io—“
Che diavolo ne so, Yuacchan. Inventatevi qualcosa.
Si era umettato le labbra, lasciando uno sguardo disperato alla ragazza. ciocche rosa le cadevano sul viso, ma erano i suoi occhi — tondi, lucidi, come se la notizia l’avesse ferita fisicamente — che Chuuya non riusciva a guardare direttamente. E dire che si era ripromesso di smettere di delude Yuan, di farle de male calpestando proprio malgrado le richieste che gli venivano deposte ai piedi; i sentimenti non ricambiati, le speranze mal riposte, le chiamate senza risposta.
“Non puoi!” aveva insistito la ragazza, la voce come un pezzo di vetro che tagliava nell’autocontrollo di Chuuya.
“Sapete come vanno queste cose. Non è una mia scelta,” replicò, nascondendo istintivamente le mani nelle tasche.
Li avrebbe implorati di smetterla se Shirase non avesse scelto quel momento per avvicinarsi e parlare, la voce roca di rabbia.
“Non puoi!”
“Shirase…”
“Scappiamo insieme,” aveva proposto Yuan, in un sussurro, “c’è un deposito vicino al fiume. Potremmo vivere lì.”
“Non dire cazzate, Yuacchin,” la interruppe Chuuya, in un sibilo. Non sapevano cosa volesse dire vivere davvero, davvero soli; Chuuya non lo ricordava, fortunato nell'aver trovato una famiglia prima di capire, ma Kouyou-nee gli aveva raccontato la propria esperienza anni prima. Come risultato, Chuuya si era barricato in casa per una settimana, attanagliato dalla paura di tornare e trovare la casa vuota ed essere di nuovo solo.
“A che ti serve una famiglia? Dovremmo essere noi la tua priorità, Chuuya!”
Shirase lo aveva spintonato, mani tremanti che premevano contro le spalle di Chuuya, ed il ragazzo aveva mosso un passo indietro più per rispetto nei confronti dell’onore dell’amico che per vera necessità.
“Dacci un taglio.”
“Sei il nostro capo! Dove pensi di andare?!” aveva ringhiato l’altro, con alle spalle un coro di ragazzi che avevano annuito stringendo fra le mani il braccialetto della gang. Chuuya, di fronte agli occhi tristi, al broncio incorniciato da ciocche rosa di Yuan e al bagliore simile a lacrime che aveva iniziato a rendere liquidi gli occhi di Shirase, aveva sentito una gelida secchiata di stanchezza e frustrazione crollargli sul capo.
Yuan gli si attaccó al braccio, tirando la felpa.
“Neeee Chuuya! Vero che non ci lascerai? Vero?”
Come se fosse colpa mia, avrebbe voluto urlare, ma si limitò a scrollarsi la ragazza di dosso e inforcare la porta prima che qualcuno potesse fermarlo ed insistere ancora.

Con quello spirito, sentendosi chiuso ed intrappolato ed abbandonato da chiunque gli fosse stato accanto in quell’anno, Chuuya era marciato in classe con le mani nelle tasche e la sensazione d’essere sul punto d’esplodere. Mentre proseguiva a testa bassa attraverso il cortile aveva quasi urtato Oda-sensei e il presidente del consiglio studentesco delle superiori, ma non s’era scusato e l’eco di una protesta da parte di Sakaguchi Ango l’aveva seguito mentre spariva nella scuola.
Dazai era seduto nel posto vicino alla finestra, il cellulare svergognatamente sul tavolo.
Lasciami in pace, non mi interessa.
La prima cosa che sentí Chuuya— e lo sentí chiaramente, come se fosse stato risvegliato da un sogno o risollevato dall’acqua— fu il suono delle sue mani che colpivano la superficie liscia del banco.
“Ehi.”
Nessuna risposta. Chuuya registró appena Dazai che voltava il capo per guardare deliberatamente fuori dalla finestra prima di rendersi conto che il suo pugno era volato in direzione del compagno. Prima che potesse pentirsene o pensare di fermarsi, il suo corpo aveva agito da solo e Dazai l’aveva schivato, spingendosi indietro senza nemmeno prendersi la briga di alzarsi. Lo stridere delle gambe della sedia costrinse il ragazzo a serrare la mascella, immaginando che il suono brusco avesse obbligato tutti i loro compagni di classe a voltarsi e stringere i denti, ma non era nulla in confronto al momento in cui la sua mano era entrata in collisione contro la finestra. La sensazione delle nocche che colpivano il vetro aveva fatto esplodere nella visuale di Chuuya un mondo di scintille bianche.
Una singola crepa percorreva la superficie, ma non era nulla in confronto allo sguardo di Dazai —venato di rosso e più adulto della sua età, tagliente.
“Credevo di non doverti fare lo spelling di ‘lasciami in pace’, Chuuya,” dichiaró, abbastanza sibillino che il ragazzo giuró di sentire i compagni di classe — e i ragazzini degli altri anni attirati dal baccano —  sobbalzare alle sue spalle.
Si morse così forte il labbro da sentire il sangue sulla punta della lingua.
“Che problemi hai, kuso Dazai?”

Che problemi hanno tutti quanti?
Non è colpa mia se i miei genitori hanno—

Vogliono—

 

“Chuuya è un tale bambino. È semplice: se non hai intenzione di restare, interagire con te è una perdita di tempo.”
“Una perdita di tempo un cazzo! Ma come ragioni, mackerel? Esistono i telefoni!”
“Chibi dà per scontato che abbia voglia e tempo da investire per cose fastidiose come i messaggi o Skype,” Dazai strinse gli occhi. “Che cosa triste.”
“Tu sei triste, kuso Dazai! Sei davvero—”
“Mi spiace di averti dato l’errata impressione che mi interessasse quello che pensi.”
Triste. 
La cosa davvero triste era che un ragazzino dovesse cambiare scuola e Stato e continente alla fine delle medie, si disse Chuuya, e che quel cretino che si sbracciava in grandi gesti d'amicizia non lo capisse, non si mettesse nei suoi panni.
Cosa doveva dire?
‘Papà, ascoltate, non mi va. Tornateci voi in Francia.’
Poteva praticamente sentire il dramma nella sua testa, viverlo come se fosse legato ad una poltroncina in prima fila in un film che non voleva vedere: “Paul, tuo figlio sta dicendo cose senza senso,” e “Arthur, sei tu che l’hai viziato. Chuuya, mon cher, lo sappiamo che è un momento delicato per te, ma è lavoro. Lo capisci, no?”
Lo capiva, ma non capiva perchè non potesse stare con Kouyou-nee…ma, dopotutto, ci voleva stare davvero? Amava i suoi genitori, la sua famiglia era la cosa migliore che aveva. Non era cresciuto per chiedere di essere abbandonato un’altra volta, non quando ancora nel fondo del suo subconscio credeva di percepire i sussurri di una voce che lo accusava di non essere abbastanza per una ragazza madre che non l’aveva cercato, figurarsi per due persone intelligenti come coloro che l'avevano accolto.
Non c’era modo di fermarli, comunque, anche se ci aveva tentato.
No, la cosa davvero triste era che nessuno fosse in grado di pensare che il lavoro degli adulti gli legava le mani, eppure non gli sembrava un ragionamento così difficile — non per un bastardo intelligente come Dazai.
Un paio di ragazzi alle sue spalle sussurrarono fra di loro.
“Credevo fossimo amici,” ringhiò, fra i denti.
Il sorriso che ricevette grondava veleno.
“Solo perché ogni tanto ti rivolgo la parola, chibi?”
“Quanto sei stronzo.”
“E dimmi, come l’hanno presa i tuoi amichetti della gang? Ora che non hanno più modo di sfruttarti, probabilmente ti rivolgono a stento la parola...”
Chuuya rabbrividì, stringendo i pugni.
Come te.
“Non sono affari tuoi,” sussurró. La consapevolezza che avesse ragione illuminò il mondo di un bagliore rosso sangue, odio e gelo che lo intrappolavano nonostante una voce gli urlasse di lasciar perdere, di andarsene prima che arrivasse il peggio.
“Francamente sono sollevato,” Dazai si strinse nelle spalle, ignaro o disinteressato della furia che stava montando nella testa dell’altro, “questa tua cotta per me stava iniziando a mettermi in difficoltà.”

Il secondo gancio era andato a buon fine e, se il bruciore alle nocche era abbastanza forte da farlo lacrimare, Chuuya aveva ricacciato indietro il disagio di sentire un grumo di cotone in gola, serrandosi dietro una maschera d’odio.
Ancora una volta aveva visto bianco e poi rosso e poi bianco di nuovo. Il dolore sordo si unì al calore e al formicolio e che gli avvolgevano le dita ed il polso, ma almeno questa volta aveva la ruggente soddisfazione di aver sentito le ossa scricchiolare e di avere la mente ferma al momento in cui il suo pugno si era schiantanto contro la pelle di Dazai, nocche che incontravano la mascella affilata di quel bastardo del suo migliore amico.
Era solo lui che stava colpendo? Se chiudeva gli occhi, vedeva Shirase. E il sogghigno crudele di Dazai, e l’espressione stanca dei suoi genitori e Kouyou-nee che lo invitava ad essere ragionevole.
La Pecora era stata la sua famiglia fino al giorno prima e Chuuya aveva la sensazione che la scheggia di violenza sarebbe sempre rimasta lì, dove poteva trarre piacere dalla sensazione della giustizia ristabilita, dalla sensazione viva del dolore e della vendetta, dal suono della sedia di Dazai che cadeva a terra e travolgeva il banco retrostante.
Dazai era volato pesantemente all’indietro tra le urla soffocate delle ragazze e gli “ah!” e “Una rissa? É una rissa quella in 3-A?!” dei ragazzi dai corridoi. 

Ed era così che tutti avevano saputo che Chuuya si sarebbe trasferito in poche settimane, seguendo i genitori in Francia subito dopo la cerimonia dei diplomi: Parigi sarebbe stata casa sua, tra la Shakespeare and Co. e il profilo di un vecchio mulino al cimitero di Montparnasse e un appartamento soppalcato a Montmartre, ed era un luogo dove Arthur Rimbaud e Paul Verlaine avevano sempre sperato di poter tornare. 
Quando aveva accettato la realtà della propria situazione, Chuuya aveva avuto intenzione di divertirsi, di godersi quegli ultimi momenti di una vita che non aveva avuto alcuna intenzione di lasciarsi alle spalle.
Ora Aprile non poteva mai arrivare abbastanza in fretta.

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Capitolo 3
*** Fumare di Nascosto ***


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Fumare di nascosto



 

Chuuya aveva fumato la sua ultima sigaretta su una panchina spazzata dal vento sulle rive della Senna, la testa gettata all’indietro per guardare il cielo e i raggi di un sole morente che gli ferivano gli occhi, un riflesso aranciato che si perdeva nelle onde del fiume.
Michizou doveva essere arrivato in aeroporto da poco, pronto a partire per tornare a casa dopo un mese — scortato da Kouyou-nee, che era stata così gentile da accompagnare il "nuovo" ragazzo di Chuuya lungo il tragitto, dato che entrambi dovevano tornare in Giappone con la fine delle vacanze estive. 
Tornare.
Dopo tutto questo tempo, hm?

Quella sera, sulle rive del fiume con l’odore del primo autunno nella testa e il chiacchiericcio dei turisti nelle orecchie, Chuuya aveva abbracciato il potere calmante della nicotina per occupare il vuoto lasciato da Michizou, lo spiraglio di vita che gli aveva ricordato e che entrambi non sapevano come riallacciare al loro presente. Doveva essere apparso più stanco ed irritabile del solito, forse (probabilmente) era dovuto al fatto che Arthur avesse accettato di tornare alla sua vecchia cattedra di letteratura occidentale all'università Nazionale di Yokohama, ma aveva la sensazione che l’odore del fumo impregnasse i vestiti, l’aria, la città intera.
Il pacchetto successivo che Chuuya comprò fu in aeroporto.


“Dunque è vero, chibikko è tornato.”
Prendendo una boccata di fumo, Chuuya si preparò mentalmente alla sfortuna di avere di nuovo a che fare con la persona peggiore che conoscesse. Non lo sorprese che un Atsushi-kun cresciuto di una mezza testa rispetto a quasi due anni prima tallonasse Dazai, che invece lo fissava con le mani affondate nelle tasche dell’uniforme blu scuro -- la stessa che lui stesso non aveva ancora avuto modo di procurarsi, costringendolo ad utilizzare l'uniforme dell'istituto privato che aveva frequentato fino a pochi mesi prima. Chuuya gli scoccò un’occhiata laterale.
“Hm. Vedo che sei la solita macchina spreca bende, Dazai. Nakajima.”
“Se Kunikida ti vedesse avrebbe un infarto,” mormorò Dazai, chinando il capo e ignorando il commento.
Chuuya sogghignó, la sigaretta che bruciava tra indice e medio. Shirase non gli parlava più e Yuan si era trasferita, ma certe cose in quell’inferno di complesso scolastico non cambiavano mai: Kunikida-senpai aveva ereditato la poltrona di presidente del consiglio studentesco lasciata vacante da Ango l’anno prima, una dittatura consolidata negli anni e giunta finalmente al termine.
“Per la sigaretta?”
“E per i pantaloni e la divisa,” lo corresse Dazai, lanciando uno sguardo alla parte di divisa che Chuuya non aveva avuto modo di cambiare. Il tartan verde dei pantaloni ed il rosso della giacca spiccavano in mezzo al blu delle altre divise. Paul aveva quasi pianto dalla gioia, “vedo che trasferirti non ha aiutato il tuo senso della moda.”
Senza rispondere, Chuuya aveva fissato Dazai per un lungo momento.
Quasi due anni.

La tua cotta per me stava diventando imbarazzante.

Stringendo i pugni, il ragazzo si obbligò a sorridere come se non gli importasse e guardare altrove — qualunque cosa era meno pericolosa del vuoto dipinto sul volto del ragazzo che aveva conosciuto. Era rimasta la stessa pietosa imitazione di spensieratezza dove Chuuya distingueva una mancanza d'emozione a cui non sapeva ancora dare nome: una punta dell’essere umano stanco e vuoto che Dazai pretendeva di non essere, ed era una mancanza che Chuuya aveva sperato di veder colmata al suo ritorno.
Anche se fosse stata preoccupazione quella che gli bloccava la gola, comunque, aveva la sensazione che non sarebbe stata apprezzata.
Fu Atsushi a rompere il silenzio con un sorriso incoraggiante. Il tentativo di raffreddare gli spiriti più maldestro che Chuuya avesse mai visto, ma il modo in cui Dazai guardava il ragazzo lo costrinse a fermarsi; ah, pensò, si è fatto degli amici finalmente.
“Chuuya-san, in che classe sei?”
“Hm? La stessa di Tanizaki-kun e sua sorella, a quanto pare. Sarà un’esperienza.”
Atsushi ridacchiò, grattandosi la nuca; l’imbarazzo era visibile sul suo volto come attraverso il cristallo, e anche quello non era mai cambiato.
“Di sicuro.”
“Non ti preoccupare, Atsushi-kun, credo che gli anticorpi di chibi contro le stranezze di Naomi siano ancora quelli di un tempo.”
Proprio malgrado Chuuya sorrise, liberando una boccata di fumo verso il cielo.
“Grazie di esserti preoccupato, Nakajima-kun, è bello essere tornati a casa,” rispose.


- - -

 

Molte cose erano cambiate.
Chuuya era venuto a sapere che Oda-sensei aveva adottato i fratelli Akutagawa, invitandoli a dormire sotto il suo tetto come tutore legale nel momento in cui aveva scoperto che i ragazzi avevano incontrato una serie di difficoltà a trovare una soluzione stabile. Si era persino occupato di Atsushi, assicurandosi che trovasse una buona sistemazione nel dormitorio maschile.
“Aah?! Ha adottato Ryūnosuke? Ma può farlo?” aveva chiesto Chuuya, sbattendo una mano sul banco per la sorpresa.
“In teoria no,” era stata la replica di Tanizaki, intrecciando le braccia dietro la testa e stiracchiandosi; a volte ricordava un gatto, un timido gatto rosso costantemente tallonato da quella pantera di sua sorella, “ma dovrebbe essere tutto okay finché Akutagawa-kun e gli altri sono ancora alle medie.”
“O l’anno prossimo finiranno semplicemente in una classe dove Oda-sensei non insegna,” aveva aggiunto Tachihara, con il capo posato fra le braccia conserte ed il pranzo ancora aperto abbandonato sul banco.
“Comunque, non credo che possa semplicemente prenderli e portarseli a casa.”
“Non sono randagi, sono persone.”
“E chissene importa, Oda-Sensei è così figo,” li interruppe Lucy. Nonostante fosse piacevole non essere l’unico sangue misto nella complesso scolastico, Chuuya si ritrovava in preda all’istinto di sollevare il sopracciglio la maggior parte delle volte che Lucy Maud Montgomery-chan, secondo anno, iniziava a parlare.
“Trovi?” le fece eco Naomi, dal fianco di suo fratello.
“Ma l’hai visto!?”
Lucy aveva gli occhi rivolti al cielo e le mani giunte. Un secondo dopo, Tanizaki si abbassò appena in tempo per evitare di essere colpito in piena faccia dal gesticolare appassionato della ragazza.
Paura, pensò Chuuya. Le fan di Oda facevano davvero paura.
“Oi, stai sempre parlando di un professore.” commentó, sentendo il sopracciglio incurvarsi.
Non che si aspettasse di essere ascoltato.
“Si prende cura degli orfani ed è super intelligente, è il miglior docente di letteratura della prefettura e poi non vi dá l’impressione di essere quel tipo d’uomo che sa prendersi cura di una donna?”
Tachihara si drizzó sul banco, gli occhi sgranati e la mascella a terra. Chuuya gli batte una pacca sulla spalla: credeva di aver visto la maggior parte delle stranezze a Parigi, ma le ragazze americane erano davvero su un altro livello.
“Lucy-chan!”
“Neh, neh, Montgomery-chan,” l’aveva interrotta Dazai, la voce priva di qualsiasi reale interessamento, “è sempre di Odasaku che stai parlando, non credo sarebbe in grado di occuparsi di una pianta di plastica.”
“Oi, Dazai, tornatene nella tua classe!”
Stiracchiandosi come un grosso felino sul banco di Tanizaki, Dazai si prese tutto il tempo di sbadigliare prima di rispondere. Idiota.
“Che ingiustizia. Chibi non ha detto a Tachihara-kun di tornare nella sua classe, no?”
“Perchè a differenza sua nessuno ti ha invitato!” sbottò Chuuya, aggrottando la fronte, “è la giornata peggiore della settimana, quella in cui vedo la tua faccia persino nel tempo libero.”
“Non che io sia felice di vederti, Chuu~ya.”
“Dazai-senpai, tu e Oda-Sensei siete amici, non è così?” domandò Lucy, puntandogli l’indice ad un centimetro dal naso con gli occhi che scintillavano come stelle. Sembrava una guerriera in un poster propagandistico, e Chuuya rabbrividì.
La sua ira era temibile, ma aveva la sensazione che averla come ammiratrice non fosse poi tanto diverso. Dazai annuì, un sommesso “hm” che gli sfuggí dalle labbra come se non vedesse nulla di speciale nell’amicizia con un professore: doveva aver previsto che Lucy lo avrebbe  tempestato di domande, prima o poi, eppure non pareva interessato a rispondere a nessuna di esse nè a darle alcuna soddisfazione.
Sempre il solito bastardo, pensò Chuuya, lasciandosi crollare sul banco e atterrando con il capo sul braccio di Tachihara con un flop leggero.
Aveva bisogno di una sigaretta.
Nel momento in cui si scusò, sgattaiolando in un angolo di buio del giardino dove avrebbe potuto starsene in pace senza paura che Kunikida-senpai lo sorprendesse a fumare e lo costringesse a gettare l’intero pacchetto, Chuuya sapeva già che qualcuno l’avrebbe seguito.
Sperava fosse Michizou, ma doveva immaginare che Dazai sarebbe stato più veloce: la macchina spreca bende era sempre lì pronta ad infastidirlo e Chuuya aveva fatto in tempo a malapena ad aspirare la prima boccata di fumo che il silenzio del cortile era stato interrotto dal suono di passi alle sue spalle. Le scarpe da interno che scricchiolavano sul ghiaino, l’eco delle voci nell’edificio, il suono del suo respiro mentre soffiava una boccata di fumo.

Non è davvero cambiato nulla.

Senza guardarsi indietro, schiavo della memoria meccanica che gli suggeriva già l’altezza e l’angolazione che avrebbe dovuto prendere, Chuuya sollevó il braccio che sorreggeva la sigaretta.
Non lo sorprese il fruscio degli abiti, il peso quasi irrespirabile del corpo che si piegava ad un soffio dalla sua schiena, il colletto del suo ex-migliore amico che gli sfiorava la spalla mentre si chinava per prendere la sigaretta fra le labbra e inspirare una boccata di fumo.
“Bastardo, comprati le tue la prossima volta.”
Una risata leggera; poteva sentirla vibrare alle spalle, un movimento d’aria fra le sue scapole mentre il respiro di Dazai gli sfiorava la mano.
“Chuuya è rimasto un teppistello, nee~”
“Solo perché non voglio farti da balia, macchina spreca bende,” brontoló, chiudendo gli occhi con un sospiro.
Anche alle medie Dazai non si era mai disturbato a comprarsi il proprio pacchetto e Chuuya sospettava che fumare non gli portasse alcun piacere al di fuori della possibilità di interromperlo. Per un momento, considerò la posizione in cui erano: piegato su di lui — sulla sigaretta fumante, su quel piccolo, stupido oggetto — e con entrambe le mani nelle tasche, Dazai restava in completa balia di quello che Chuuya voleva concedergli. Eppure, aveva la sensazione che fosse il contrario, e che Dazai lo stesse fissando con i quei suoi occhi vitrei.
Si scrolló di dosso il brivido che gli era corso lungo la schiena, abbassando la sigaretta per prendere un tiro a propria volta ed ignorando l’improvvisa tensione che aveva reso ogni gesto più rigido. La prima volta che avevano condiviso una bottiglia avevano quattordici anni, poco dopo l’inizio delle lezioni; a quindici era stata una sigaretta.
Poi avevano smesso di condividere qualunque cosa per anni ed era ridicolo che fosse così naturale, così semplice, percepire il fruscio alle proprie spalle e alzare il braccio istintivamente, capirsi ancora senza parlare.
“Mi era mancato infastidire chibi.”
Chuuya strinse le labbra.
“Non dire puttanate, kuso Dazai.”

- - -

 

“Chuu~ya! Non sai che non si dovrebbe bere alla tua età?”
Duh. È arrivata la polizia del vino,” sbottó l'interessato, facendo roteare il liquido nel bicchiere come aveva fatto mille volte prima di ingollarlo in un solo sorso e infilarsi una mano in tasca con una smorfia. Ne estrasse un pacchetto vuoto, con puro disappunto dipinto su ogni minuscola linea della fronte aggrottata.
“Michizooou, ho finito le sigarette!”
Tachihara, accanto a Dazai, prese un respiro passandosi una mano sul volto.
“Ho visto, ho visto,” mormorò “dovevi smettere di fumare, Chuuya.”
Il ragazzo fece schioccare la lingua con disappunto e posò il bicchiere, dita leggermente tremanti che scivolavano sul vetro del calice.
“Bah.”
“Chi ti ha fatto entrare? Non dovresti nemmeno poter bere.”
“Ho i miei metodi,” rispose, sobbalzando come se il suono strascicato delle sue stesse parole lo colpisse.
“Sei ubriaco.”
“Non dire stupidaggini.”
Chuuya strinse il pacchetto vuoto nel pugno come se potesse esplodere e farne apparire magicamente uno nuovo. Quando lanciò l’oggetto verso di loro e barcollò come un pupazzo a molla, così esile eppure appesantito dall’alcool, Dazai temette che stesse per cadere dallo sgabello. Tuttavia, prima di poter tendere troppo in avanti e cadere, il ragazzo si aggrappò ciecamente al legno del bancone.
Peccato.
Tachihara non sembrava della stessa idea, perchè sospirò nuovamente.
“Ver-San vorrà la mia testa,” commentó fra sè e sè, spostandosi per primo per raggiungere Chuuya mentre Dazai si stava ancora chiedendo se non fosse un’idea migliore lasciare la lumaca ubriaca al proprio destino. Sorpreso, cercó lo sguardo di Tachihara.
Poteva sentire la malizia sulla punta della propria lingua quando chiese:
“Ver-San?”
“Verlaine-San.” Tachihara inarcó un sopracciglio, “il padre di Chuuya?”
“Non dire quel nome mentre sono ubriaco, che schifo, ora avró la sensazione che il vecchio possa arrivare da un momento all’altro, ew,” Replicò l’altro con forza, agitando un pugno in aria e allungandosi per assestare una leggera spinta a Tachihara.
Dazai si chiese se fosse cosciente che il poveraccio era lì per afferrarlo al volo prima che chibi, in tutto il suo metro e sessanta di mancata grazia e senso della moda, crollasse da uno sgabello e si sfracellasse a terra come una frittata troppo cresciuta. Gamberetto idiota. 
Per un momento, tuttavia, faticò a registrare le braccia di Tachihara che avvolgevano Chuuya, il modo in cui il ragazzo si era rilassato e adagiato contro il suo petto. Una sensazione pungente gli pizzicò il dorso delle mani, e si rese conto d'essere passato in secondo piano: era lì ma non lo era, e non avrebbe voluto essere in quel bar in quel momento, non quando la consapevolezza di ciò che stava accadendo lo colpì come uno schiaffo.
“Maledizione, voi passare di nuovo dei guai?”
“Hm, ma credevo che potessimo bere insieme, Mi-chi-zou!”
“Io non posso bere, ancora,” ricordó, alzando gli occhi al cielo. C’era una certa indulgenza, un’intimità che fece sentire Dazai un intruso in un bar, uno spettatore non voluto in un luogo pubblico.
Chuuya ridacchió, puntellando il capo contro lo sterno di Tachihara e cercando di guardarlo in viso.
“È questo il bello.”
“Chuuya-kun—”
“Michizou,” gli occhi di Chuuya scintillarono, illuminati dalle luci del locale e umidi a causa dell’ebrezza. Dazai deglutì, rendendosi conto che era difficile guardarli, “Ero in una gang e ti preoccupi del vino e delle sigarette?”
Con quel commento, pronunciato con una voce che il ragazzo non aveva mai sentito prima, roca ed onesta come un segreto, come se il mondo intero avesse abbassato il sipario su di loro e Dazai stesse ancora osservando qualcosa di non destinato ad occhi indiscreti — chi sei? Cosa ne hai fatto di Chuuya? — Chuuya aveva afferrato una delle mani di Tachihara, intrecciando le loro dita con la scioltezza di chi l’ha fatto mille volte. Quando si portò quella stessa mano alle labbra, sfiorandone il dorso, Dazai sentí un peso gelido alla bocca dello stomaco.
Battè le palpebre, incapace di fare altro. Erano rare le volte in cui lo stupore ingrandiva i suoi occhi e lo obbligava a socchiudere le labbra, perdendo per un istante la presa sulla propria maschera. L’autocontrollo che crollava a terra, si infrangeva con un rumore sordo.
“Ah?”
“Chuuya-kun?” Tachihara gli lanciò uno sguardo, gli occhi stretti in un sorrisetto che sembrava trattenere il bisogno di sparire per la vergogna “mi spiace per lo spettacolo, Dazai-kun.”
“HAH?! Non ti scusare, Michizou! L’avrebbe saputo, se un certo Mackerel puzzolente avesse risposto almeno ad uno dei miei messaggi,” ringhiò Chuuya, a denti stretti, prima di ruggire “STUPIDO MACKEREL!” 

 

Stupido davvero.
E cosa, ora, Dazai aveva il diritto di stupirsi perché non parlavano? Perchè non avevano mai parlato?
Ricordava forse un solo momento in cui Chuuya l’aveva trattato come se fosse qualcosa di diverso— qualcosa di speciale? No. Naturalmente no.
Perché Chuuya ovviamente non aveva mai pensato che Dazai fosse serio quando l’accusava con il sorriso sulle labbra di avere un cotta per lui, nonostante fosse una delle poche cose che Dazai aveva reputato immutabili fra di loro. Non gli aveva mai detto nulla e Dazai non aveva mai chiesto, ed ora aveva la sensazione di essersi lasciato scivolare qualcosa fra le dita, ma non avrebbe saputo dire cosa.
Era troppo tardi, in ogni caso.

 

- - -

 

To: Mackerel

Oi, kuso Dazai.

 

Il cellulare si illuminó pochi secondi dopo, costringendolo a battere le palpebre. Chuuya inaló una boccata di fumo.
Ah, si formò nella sua mente, incerto se permettersi di considerarlo un buon segno o un ridicolo tentativo della vita di farlo cadere nelle vecchie abitudini. L’unica cosa di cui era sicuro era che, dopo una lunga fila di messaggi blu che mai avevano ricevuto risposta, che lo fissavano ricordandogli quanto idiota potesse essere, quello era un bel cambiamento. Passando il peso da un piede all’altro, sentendo l’aria tiepida della primavera sfiorargli le gambe e le braccia nude, il ragazzo soppesó le possibilità di finire all’inferno, fra gli insensibili e i traditori, ma troppo codardi per agire. Un bicchiere di vino, una scopata, una sigaretta o due o mille, un messaggio: era fenomenale la lista di cose che un diciottenne non avrebbe dovuto fare e di fronte alle quali Chuuya non riusciva a fermarsi.
Non riusciva mai a frenarsi.
Espiró, lentamente, liberando una nuvoletta grigia nel cielo di Yokohama.

 

From: Mackerel
Cosa.

 

Chuuya si lanciò un’occhiata alle spalle, al letto immerso nell’azzurro e al corpo mal illuminato dalla luce dei lampioni che filtrava dalle finestre. Il suono del respirare profondo e regolare di Michizou lo avvolse, insieme alla coscienza di avere la sveglia puntata ben prima di scuola per riuscire a farlo sgattaiolare fuori dal retro prima che i suoi genitori si accorgessero che il suo ragazzo passava la notte sotto il loro tetto a loro insaputa e senza permesso. Non che l’avrebbero impedito — non ne era certo — ma Chuuya era stanco. Era stanco di vivere secondo le aspettative altrui; non voleva che Arthur si sentisse in qualche modo responsabile di averlo influenzato, perché sapeva che sarebbe accaduto, e non aveva alcuna intenzione di fermare Paul dal minacciare Michizou di strappargli gli occhi con una stilografica se l’avesse mai fatto soffrire.
Non voleva avere quella conversazione, sedersi sul divano e lasciare che un fiume di parole gli si riversasse addosso.

Capiamo, Chuuya. Lo sappiamo, ci siamo passati anche noi e siamo qui per te, se lo vorrai. 
Ti capiamo.

Ma non avrebbero capito — perché come potevano? Se avessero saputo che quello che era non aveva niente a che fare con loro e con il modo meraviglioso in cui l’avevano cresciuto, li avrebbe delusi? L’avevano educato bene e lui cos’era diventato? Nakahara il teppista, Nakahara che aveva lasciato la Pecora, quello che aveva trovato il coraggio di baciare Michizou solo dopo in quinto bicchiere di vino, solo quando aveva chiuso gli occhi, solo quando era riuscito a far smettere al suo cervello di lanciargli immagini di bende e sakè ed un sogghigno familiare che lo derideva.
Ah, ma che idiota era. Cosa c’era da capire?
Era un fottuto masochista, ecco cosa. Per una qualche ragione, Nakahara Chuuya amava così tanto soffrire da non rimpiangere nemmeno il giorno in cui si era reso conto di essersi innamorato e che non sarebbe finita bene.
Cosa ne sapevano i suoi genitori?
Dunque, era diventato piuttosto bravo a rimangiarsi i gemiti e a scassinare le serrature e a convincere Michizou che prima o poi sarebbe riuscito a rimanere per colazione, ma che non era quello il giorno. Chuuya non l’avrebbe mai fatto, prima, ma Parigi gli aveva insegnato che era infinitamente più divertente sfidare la società piuttosto che obbedire come un cane.
Le sigarette che aveva rubato dietro il bancone del bar in cui Michizou e Dazai l'avevano recuperato erano senza filtro, gli facevano girare la testa e riempivano i polmoni di un sapore acre ma familiare.
‘Cosa.’
Che messaggio di merda; che persona orribile.
Con un sospiro, Chuuya chiuse il telefono senza rispondere e schiacciò la sigaretta sulla plastica impolverata della cornice della finestra, bianco che si macchiava di cenere nera. Aveva la sensazione che avrebbe dovuto spegnerla sulla propria mano, sentire l’odore di bruciato pungerlo e il dolore prenderlo a schiaffi e rimettere a posto le idee. Avrebbe dovuto farlo per espiare, per scacciare i pensieri che avevano ricominciato a tormentarlo, ma scosse le spalle e si obbligò a smaltire la sbornia e tornare a dormire prima di poter fare qualcosa di cui si sarebbe pentito.

 

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Capitolo 4
*** L'hai Mai Fatto Prima? ***


 

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“L’hai mai fatto prima?”

 


“Chuuya. L’hai mai fatto prima?”

 

Il sogghigno di Dazai era una falce di luna che contrastava con l’oscurità totale che albergava nel fondo dei suoi occhi.
La torcia del cellulare puntata su pavimento vuoto in mezzo al cerchio che avevano formato non faceva che peggiorare quell’immagine eterea: se la malizia avesse avuto un volto sarebbe stato quello del ragazzo, terribile ed inevitabile, una maledizione incombente dal sogghigno affilato e lo sguardo scarlatto. Tachihara si strinse più vicino a Chuuya, afferrandogli il braccio, ma l’altro non esitó un istante, sostenendo la tacita sfida dello spirito che aveva avuto la sfortuna di chiamare amico.
Sentì Atsushi trattenere un respiro e Tanizaki essere colpito fra le costole dalla sorella (non poi così dolcemente, pensò, Naomi doveva darsi una regolata se non voleva spedire l’amato ‘nii-sama' in ospedale) con fare cospiratorio.
Chi avrebbe mai detto che Obbligo o Verità si sarebbe trasformato in qualcosa di crudele? D’altra parte, ricordò, si parlava di Dazai.
Chuuya maledì mentalmente Lucy e la sua orribile idea, lanciandole un’occhiata laterale. Tra Nakajima ed Akutagawa, la ragazza lo fissava con occhi carichi di curiosità.
“Sí, ovviamente,” rispose, stringendo la presa sulla mano di Michizou con gentilezza.

Va tutto bene, voleva rassicurarlo, non c’è bisogno di vergognarsi.
Tanto non è che non lo immaginino, questo branco di pervertiti.

Il sorriso di Dazai esitò e Chuuya giurò di poter distinguere l’esatto momento in cui si era sciolto, incrinandosi con il rumore di un pezzo di vetro che cade a terra.
La consapevolezza di aver zittito Dazai Osamu gli incollò un sogghigno sul volto. Finalmente quel cazzo di sorriso spariva perché Chuuya aveva una vita normale e Dazai no, Chuuya era felice e Dazai era un casino, Chuuya era tornato e tutto andava bene, meravigliosamente bene, che Dazai lo volesse o meno.
“Che c’è, spreco di bende? Il gatto ti ha mangiato la lingua?”
“Hm, mi domandavo solo come fossero gli intercorsi dei gamberetti, neee, Tachihara-kun?”
Michizou aggrottó la fronte, ma Chuuya non mancò di notare la minaccia di una rissa, o di un vero e proprio accoltellamento, prima che il rosso si facesse strada sul suo volto.
“Vaffanculo, Dazai.”
“Oi, Dazai, lascialo in pace. Se vuoi morire prenditela con chi è abituato.”
“Chuuya-kun, mi posso difendere da solo,” aveva sibilato Tachihara, ma il ragazzo scosse le spalle.
Non voleva che Michizou finisse nel mirino di un idiota solo perchè loro non andavano d’accordo — non era giusto e l’idea di gettare proprio lui nelle fauci di qualcuno come Dazai gli rimestava lo stomaco. Non avrebbe rilasciato neanche il suo peggior nemico in balia del suo gelido senso dell’umorismo.
“Non con questo stronzo,” aveva risposto, esitando un momento.
“Lo so. Non ne vale la pena,” assicuró Michizou, posando la fronte contro la spalla di Chuuya con un sospiro.
Il ragazzo vi riconobbe la rigidità dell'imbarazzo e della frustrazione piuttosto che il desiderio di abbandonarsi ad un gesto intimo di fronte ai compagni. Quando Chuuya iniziava a discutere poteva buttar giù la scuola: lo sapevano loro e di certo lo sapeva Dazai, e tutti e tre avrebbero mentito se avessero detto che non era uno spettacolo frequente sin dalle medie.
Ano ne, Chuu
~ya, non cambi mai. Sempre il principe azzurro.”

Muoviti, stupida principessa.

“Dazai, stessa domanda,” rilanciò Tachihara, sollevando un sopracciglio.
Per un istante, Dazai sostenne il peso dei suoi occhi verdi, quasi neri alla luce della torcia.
“Che domande,” il ragazzo si strinse nelle spalle; “mi pare ovvio.” 

Bugiardo! avrebbe voluto urlare Chuuya, ma per qualche motivo strinse le labbra e non lo smascherò.
Sarebbe stato crudele e quel genere di azioni Chuuya preferiva lasciarle ad altri, ma anche perchè la sorpresa aveva un sapore amaro ed inaspettato. Solo, lanció uno sguardo perplesso all’amico: Dazai era quel genere di rivale e migliore amico che l’avrebbe felicemente pugnalato alle spalle, chiuso come una cassaforte ed emotivamente costipato, ma se c’era una cosa che Chuuya sapeva per certo era che lo spreco di bende da sempre si destreggiava tra più flirt di quanti potesse contarne.
Com’era possibile che stesse mentendo?
Forse era la pessima luce.
“Che c’è da fissare, Chibi, sei geloso?”
“Ah?! Ti piacerebbe! Sto pensando a quante poverine hai illuso e poi spaventato con quel tuo carattere orrendo, mummia maledetta.”
“Chuuya pensa che io sia carino, quindi~”
“Dazai, dacci un taglio, non stai divertendo nessuno,” abbaió Michizou.
Dazai sorrise, ignorando la spina che gli aveva perforato lo stomaco nel momento in cui Chuuya strinse il braccio dell’altro ragazzo con un broncio leggero, lanciando un’occhiataccia verso di lui.

Oh, i due cagnolini da salotto si sono trovati. 

Akutagawa, laconicamente, alzó una mano.
“Io lo sto trovando abbastanza divertente,” ammise, seguito immediatamente da Tanizaki, costretto però ad abbassare la mano dalla sorella.
Per la prima volta, Lucy si schiarí la voce.
“Ragazzi, è tutto molto tenero qui, ma possiamo andare avanti?” sbottó, guadagnandosi un coro di assensi.
Chuuya registró a malapena Akutagawa alzare gli occhi al cielo, dato che il suo spirito emo era troppo tormentato per un intrattenimento del genere. Si prendeva molto sul serio, Ryūnosuke, nonostante fosse solo alla fine delle medie: era una grande sfortuna che Gin fosse praticamente dipendente dal tipo di adrenalina data dallo sgattaiolare nella scuola deserta con un gruppo di amici altrettanto scavezzacollo, e che si lasciasse convincere da Michizou trascinandosi dietro anche il fratello.
Da quando aveva tagliato i legami con i ragazzi della Pecora, anche Chuuya trovava più piacevole quel tipo di divertimento.
“Atsushi-kun?” chiamó Dazai, dolcemente, passandogli la torcia.
Chuuya giuró di vedere il ragazzo inghiottire un bolo di saliva prima di afferrare con mani tremanti l’oggetto, rischiando di puntare la luce direttamente negli occhi di Lucy e guadagnandosi un ‘che stai facendo, sceeeemo?’ dalla ragazza.
Atsushi si morse le labbra.
“A—Akutagawa-kun, obbligo o verità?”
Chuuya sospirò, sperando che almeno quel giro non finisse in una rissa.

Ovviamente, come sempre più spesso gli capitava, aveva riposto le proprie speranze nelle persone sbagliate.

 

 

- - - 

 

“Ci hai trovato Narnia in quell’armadietto o sei solo stupido?”
“Cosa vuole da me Chibikko? Ti avverto, sono di cattivo umore.”
Chuuya sollevó un sopracciglio riservando una lunga occhiata la figura del ragazzo di fronte a sè, che era rimasto immobile a pochi centimetri dal proprio armadietto da almeno dieci minuti.
“È per questo che stai imbambolato in mezzo al fottuto corridoio come uno zombie?”
“Forse,” replicò, scoccandogli un sogghigno.
Chuuya sospiró profondamente, sentendo di aver bisogno di chiamare a sè tutta la propria pazienza per non lanciare in testa a quell’idiota il bento che teneva fra le mani. L’uniforme scolastica faceva apparire Dazai più alto, più adulto; mesi o anni di separazione potevano davvero cambiare l’impressione sulle persone, oltre che far comportare Dazai come il peggior stronzo. Brutto idiota di uno sgombro.
“Ascolta mackerel, non farci l’abitudine ma ti ho preparato il pranzo; vedi di riguardarti, non puoi sopravvivere di sola caffeina.”
“Ah, chibi è una mamma pecora come si deve.”
Ma,” alzó la voce, ignorando il commento “ti darò il bento ad una condizione.”
“Che smetta di parlarti per sempre o che lasci in pace il tuo fidanzatino?”
“Perché hai detto quella cazzata?”
Il sorriso di Dazai si incrinó; di nuovo. Questa volta, nessun senso di soddisfazione ruggì nel corpo di Chuuya, nessuna vendetta sostituì il sangue nelle sue vene con un bizzarro senso di calore.
“Ah. Quella. Suppongo sia uscita in modo del tutto naturale.”
“Dazai, non devi provare nulla a— e comunque, esci con le ragazze tutto il tempo.”
“E allora?” domandó, inclinando il capo.
Per un secondo i suoi occhi castani apparvero grandi, tondi e vulnerabili, le labbra socchiuse piegate all’ingiù. Sembrava più giovane del giorno di tanti anni prima in cui l’aveva conosciuto, ed istintivamente Chuuya mosse un passo in avanti, spaventato che quell’idiota fosse di nuovo sveglio da più di tre giorni e potesse cadergli a pezzi davanti.
“O—oi, come sarebbe e allora?”
“Ultimamente ho pensato che forse non voglio una ragazza, chi lo sa,” Dazai si strinse nelle spalle, e l’immagine dello studente fragile, preso alla sprovvista, era retrocessa dietro il muro di gioia feroce che il ragazzo si ostinava ad imporre a tutti, “non tutti abbiamo la fortuna di avere le idee chiare, chibikko.”
Chuuya lo fissó, la mascella a terra ma incapace di dire qualsiasi cosa.

Che diavolo…?

L’armadietto si chiuse con un tonfo metallico. Echeggiava. Chuuya si rese a malapena conto del peso di cui Dazai l’aveva alleggerito sfilandogli il contenitore di plastica dalle mani.

 “Grazie per il pranzo, ci vediamo dopo.”



 - - -

 

Per Chuuya era sempre stato chiaro: non necessariamente semplice, spesso spaventoso, ma lineare. Sapeva cosa voleva e cosa non avrebbe mai potuto avere.
Tuttavia, il dubbio era un colore nuovo negli occhi di Dazai Osamu e li rendeva più umani, più spaventosi che mai.

E allora?’

- - -

 

La biblioteca era un luogo sin troppo intelligente per un bruto come Tachihara, secondo la modesta opinione di Dazai, mentre i fratelli Tanizaki erano spariti chissà dove e non era certo di voler sapere cosa stessero facendo. Akutagawa aveva probabilmente il club di ‘guardiamoci negli occhi e chi sorride per primo perde’, mentre Atsushi-kun era corso al lavoro part-time prima ancora che Kunikida potesse dire ‘riunione del consiglio studentesco’.
Questo lasciava solo lui e Chuuya liberi di appartarsi in un tavolo tranquillo della biblioteca, una marea di libri e quaderni aperti di fronte a loro e Dazai che invece di prendere posto di fronte all’altro gli si era seduto accanto.
“ChuuChuu non è mai stanco di leggere cose strane in una lingua dove tutto sembra un menù in un ristorante?”
“Tappati la bocca, kuso Dazai.”
“Ma mi annoio~”
“Non ti vergogni, tu?! E non dovresti essere con la rappresentanza studentesca a lavorare?”
Il ragazzo si aprí in un sorriso entusiasta, alzando veementemente un braccio bendato. La divisa estiva lasciava in vista gran parte delle garze che gli coprivano la pelle, attirando più occhiate del solito, ma Dazai non vi faceva più caso da anni.
“Paaaass~!”
“Giuro che non riesco a capire come Kunikida-senpai ti sopporti,” brontoló Chuuya, alzando gli occhi al cielo.
Senza offrire una spiegazione (non ne era certo lui stesso, solo tanta fortuna) Dazai allontanò dalla propria mente qualsiasi progetto di studio e si lasciò cadere con la testa sul grembo di Chuuya, allegramente, ignorando l’insulto che si era guadagnato con quell'invasione dello spazio personale di chibi.
Sciocco Chuuya, convinto di poterlo offendere con le parole.

 

(...Quando riusciva così facilmente a lasciare tagli con le azioni.)

 

“Chi l’avrebbe mai detto? Chibi è comodo~”
Nel momento in cui aveva intravisto l’ombra di una mano calargli sul viso Dazai era già pronto a schivare una sberla — il Chuuya teppista ogni tanto rispuntava, nonostante i tentativi disperati dei suoi genitori e dei professori — ma si immobilizzò quando il ragazzo gli passò le dita fra i capelli, distrattamente, senza guardarlo in faccia.
Era gentile, come se sapesse esattamente cosa fare, come se non fosse passato nemmeno un giorno da quando si addormentavano insieme sui libri. Dazai trattenne a stento un sussulto, intrappolato nella tensione che gli aveva attraversato il corpo nel momento in cui aveva compreso cosa stesse per accadere un istante troppo tardi per impedirlo.
L’aria era pesante e gli bruciava nella gola, dove sembrava essersi incastrato un nocciolo di spine.
Si umettó le labbra con poco successo.
“Oi, Dazai.”
Senza parlare, Dazai gli lanciò uno sguardo dal basso, aspettando che proseguisse mentre assimilava ogni sfumatura del rosso squillante che aveva tinto il viso dell'altro fino alla punta delle orecchie.
Nel momento in cui la punta delle dita di Chuuya gli aveva sfiorato la fronte, quando erano inciampate in un nodo e l’avevano sciolto delicatamente passandovi i polpastrelli come se avesse fra le mani qualcosa di fragile, Dazai aveva sentito l’aria che veniva presa a pugni nel suo stomaco.
Quando Chuuya era diventato così bravo a farsi aspettare? E da quanto tempo lui lo stava rincorrendo?
“Non è sempre facile. Avere le idee chiare, intendo.”
Dazai si disse che non era affatto sobbalzato, che le dita di Chuuya non si erano fermate, che il sorriso sornione sulle sue labbra non sapeva di plastica e rimorso.
“Huh, e chibi cosa ne può sapere?”
“Hai chiesto se ho già fatto. E credo potrebbe aiutarti sapere che la mia prima volta non è—” esitó, e Dazai attese. Lasció che il vuoto riempisse lo spazio fra loro per un momento, fino a che Chuuya non sospiró, “la mia prima volta è stata una ragazza.”

Cosa?

La sensazione d’essere stato preso in giro gli strinse lo stomaco. Perchè non glielo aveva mai detto?
“Non essere disgustoso. L'ultima cosa che voglio immaginare è chibi in certe situazioni~” lo sbeffeggiò, ma la voce era animata da un punta di curiositá.
Chuuya ridacchiò, un suono che sembrava provenire da un altro mondo. Dazai immaginava fosse la ragazzina coi capelli rosa, sfrontata e sempre arpionata al braccio di chibi alle medie, ma la realtà era che poteva essere stato chiunque e lui non l’aveva mai, mai saputo.
“Per una volta concordiamo, mackerel, non è un ricordo a cui sono affezionato. E quello che intendo è che nessuno ha le idee chiare; non per sempre, quantomeno. E va bene così. Non hai bisogno di cazzate come quella che hai detto agli altri per farti accettare.”
Lo stomaco gli si torse e le dita di Chuuya esitarono sulla punta dei suoi capelli, gentilmente.
Accettazione. 
Aveva un suono minaccioso, qualcosa che prometteva di spogliarlo di ogni sua difesa in favore di qualcuno che nessuno conosceva né avrebbe potuto apprezzare: qualcuno i cui abissi erano così profondi e neri e scivolosi che a volte temeva di non riuscire a contenerli, né a scavarsi una via di fuga quando l’oscurità lo spingeva alla fine di un pozzo.
“Come ho detto, non ci ho pensato molto su,” replicò, spingendo ogni pensiero dove non poteva fare danni, “credo però di aver rubato il momento di gloria alla Tachuu~”
“Tachuu?”
Dazai mormorò un ‘hm’ sforzandosi di assicurare il sorriso lì, dove doveva stare.
“Non cercare di convincermi che non vi chiamate Tachuu e non fate stupide purikura piene di cuori, Chibikko, siete così ovvi~” canticchiò, sapendo che tutto quello che aveva detto l’avrebbe probabilmente allontanato.
Forse lo sperava. Era un tale disastro di emozioni, la sua testa, da sembrare un pavimento su cui qualcuno aveva fatto cadere un mare di frammenti di vetro e lui era a piedi nudi; doveva scappare, ma il pensiero del dolore che avrebbe provato camminando lo ripugnava. No, no. Lo terrorizzava.
Tuttavia, Chuuya rimase lì e le sue dita erano sempre tiepide, sempre intente ad accarezzargli i capelli.
“Se credi che di darò la soddisfazione di cambiare discorso, va' al diavolo. Seriamente, se hai bisogno…”
“Chibi fa già abbastanza,” replicò Dazai con un sorriso, come se non volesse dire nulla quando voleva dire tutto. In un certo senso, significava più di quanto Dazai meritasse.

Chiuse gli occhi, inalando il profumo di ammorbidente e nicotina degli orribili pantaloni tartan di Chuuya, della camicia, la delicatezza delle sue dita fatte per stringere una bottiglia di vino, un sigaretta, qualcun altro ma non lui. Immobile ed incapace di mettere in fila un solo pensiero coerente, rimase con la testa sul grembo dell’altro finché i corridoi della biblioteca non si fecero silenziosi.
Sentiva che avrebbe potuto perdere la presa sui frammenti malmessi del proprio autocontrollo se qualcuno li avesse interrotti, una bambola rotta, o si sarebbe ugualmente potuto spezzare sotto quelle dita che che sapevano esattamente come sciogliere nervi di tensione che il ragazzo non sapeva nemmeno di avere.
Stavano perdendo un’ora di lezione? O avevano tutti capito che non avevano diritto di esistere in un mondo perfetto in cui esisteva qualcuno come chibi, così perfetto e così idiota da sprecare quello che aveva con Tachihara?
Avrebbe voluto commentare qualcosa, ma ogni singola cellula del suo corpo si era fatta pesante.
Prima di potersi fermare sentí il sonno avvolgerlo e, per la prima volta nella sua vita, Dazai vi si abbandonò senza la speranza di non risvegliarsi.

 

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Capitolo 5
*** Non Sai Perdere ***


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"Non sai perdere"




La scelta era ricaduta sul laser tag un giorno in cui l’umidità si appiccicava alla pelle, un ozioso pomeriggio estivo che pregava di essere trasformato in qualcosa che valesse la pena di essere vissuto.
Agitando un vecchio ventaglio di carta che Paul aveva comprato a Kyoto nella vana speranza di non sciogliersi, Chuuya aveva guardato i giorni delle vacanze estive nascere e morire con il sole cocente, nascosto dietro un velo grigiastro di nuvole ed umidità che fondevano la baia di Yokohama con l’orizzonte.
In seguito, di quei mesi sarebbe rimasto il ricordo della calura che gli appesantiva le ossa la notte e le fughe verso il mare, Michizou che sorrideva e afferrava a volo il casco che Chuuya gli lanciava ancora in sella alla moto e le sue braccia strette attorno alla sua vita per non cadere, il vento che gli sferzava il volto. Parte di quell’estate era Michizou, come un’ombra: le mattine trascorse a studiare insieme, le guerre per il ventilatore che finivano invariabilmente in un tutt’altro tipo di lotta e l’oggetto che passava in secondo piano, il suo ronzio veniva dimenticato.
Ma di quel giorno, che gli sarebbe rimasto addosso per sempre, Chuuya rammentava il profumo del sale nell’aria.
Ricordava Akutagawa, pallido più che mai e in evidente carenza di sali minerali, e Nakajima che gli offriva il proprio gelato con un sorriso incoraggiante.
Aveva la sensazione che avrebbe vissuto per sempre con l’immagine stampata nella mente della brezza che scompigliava le ciocche scure di Sakaguchi Ango, ex presidente del consiglio studentesco ma ancora amico di Dazai, costretto ad una camicia a maniche corte dala temperatura troppo alta nonostante il suo tono non apparisse alleggerito dalla bella stagione. 
Chuuya si era ritrovato più volte a domandarsi come un universitario ligio alle regole come Sakaguchi-senpai fosse finito nel gruppetto di vittime e casi psichiatrici che Dazai chiamava amici.
Comunque fosse, Chuuya aveva una sola certezza: quella giornata, e i successivi tasselli che erano crollati nella sua vita uno dopo l’altro come un domino impazzito, era stata tutta colpa di Quattrocchi-senpai.

 

“Dazai-kun non è in grado di perdere,” aveva dichiarato Ango, aggiustandosi gli occhiali sulla punta del naso.
Dazai, appollaiato sullo schienale della panchina, si era irrigidito.
“Dazai non perde.”

“Dazai perde eccome,” l’aveva corretto Lucy, puntellandosi le mani sui fianchi scoperti dal crop-top, “Devo ricordare a senpai che mi deve ancora i Pocky che ha perso a poker?”
“Certo che potresti anche lasciar correre, Montgomery-chan~”
“Ora che ci penso, Dazai, è vero che non prendi bene le sconfitte.” 
“Odasaku! Prendi le parti dei miei aguzzini!? Sono davvero la persona più sfortunata della terra?”
“Ma è la verità,” si era scusato l’uomo, con un sospiro.
Incerto di cosa farsene di quel commento, in egual maniera casuale ed affezionato, Chuuya aveva sollevato un sopracciglio. Era piuttosto sicuro che Oda-sensei non fosse autorizzato a passare l’estate con i suoi allievi, o che quantomeno qualcuno avrebbe storto il naso, ma aveva portato il pranzo ad Ango, Dazai (guadagnandosi uno squittio da ragazzina da quest'ultimo, di fronte al quale Chuuya aveva finto di vomitare) ed ai fratelli Akutagawa, assicurandosi che anche gli altri non avessero bisogno di nulla. Dopo tale e tanto spettacolo edificante Lucy li avrebbe tormentati per ore, ma non aveva senso prendersela con Oda-sensei. E, comunque, il vero problema nasceva da Sakaguchi e dalla sua incapacità di tenere la boccaccia chiusa.
Era tutta colpa sua.
Dazai-san, quando abbiamo scommesso hai piagnucolato così tanto che ho rinunciato al Chazuke che mi spettava.
Tu quoque, Atsushi-kun!
Ma, Dazai-san...
Chuuya sbuffò; Avrebbe risposto, ma accanto a lui Michizou sollevò improvvisamente la testa dalla sua spalla, dove stava riposando con il naso premuto delicatamente contro il suo collo. La mancanza del peso del ragazzo, del suo profumo, lanciò attraverso il corpo un brivido freddo nonostante il clima.
“Giusto. Perchè non scommettiamo?

Hah?
Sarà divertente, dichiarò Michizou, cercando la mano dell'altro ragazzo per un momento prima di rivolgersi al gruppo, “a questo proposito, Chuuya ed io pensavamo di andare al laser tag.”
Chuuya gli lanciò un’occhiataccia, aggrottando le sopracciglia.
“Oi, Michizou—

“Mi spiace, mi spiace!” Il ragazzo alzò entrambe le mani, con una luce divertita negli occhi ambrati, “doveva essere un appuntamento, ma è il genere di cose che più siamo più è divertente, no? Vedremo davvero quanto Dazai-kun prende male una sconfitta.”

 

Mezz’ora di preparativi e discussioni più tardi, Akutagawa sfoggiava il broncio di chi sarebbe morto piuttosto che partecipare ad un appuntamento riciclato in uscita di gruppo e Chuuya si era, poco sorprendentemente, riscoperto della sua stessa idea. Gin e Michizou, lanciandosi un’occhiata complice, avevano rispettivamente afferrato il polso di fratello e fidanzato per trascinarli prima che potessero sparire con l'aiuto della moto di Chuuya.
Fedele a sé stesso, Dazai li aveva punzecchiati per tutto il tragitto, dichiarando che ormai i piccioncini nella comitiva non avevano il diritto di appartarsi dopo averli invitati (Ango e Kunikida avevano pregato tutti di non indulgere in atteggiamenti immorali in pubblico). Chuuya l’aveva minacciato di staccargli la testa con un sogghigno e Dazai aveva riso di cuore, rifugiandosi dietro la schiena di Oda prima che potesse andarsene.
Ugh; infantile. 
Tuttavia, Chuuya aveva sentito ogni protesta sciogliersi in silenzio nel suo petto nel momento in cui Michizou gli aveva rivolto un sorriso entusiasta, promettendogli che si sarebbero divertiti — ne dubitava — e che sarebbe andato tutto bene — con Dazai, Lucy e delle armi? Seriamente? -- e che avrebbero passato del tempo insieme, oltre che con i loro amici. Chuuya aveva sbuffato, ma ormai era troppo tardi.
Cosí, un vasto cielo lattiginoso era stato testimone della discussione che aveva portato il gruppo a sfidarsi in una gara a chi fosse più svelto (probabilmente Tanizaki), chi più entusiasta nella caccia altrui e chi più crudele (“Akutagawa, a mani basse” aveva dichiarato Atsushi, scrollando il capo. Nessuno lo aveva contraddetto).  

La realtà era che nessuno si trovava a proprio agio con la sconfitta, e nessuno aveva alcuna intenzione perdere senza una resistenza sanguinosa.


- - -


Sentendo la frustrazione stringersi attorno alle tempie in un principio di mal di testa, Chuuya strinse i denti.
Avrebbe preferito davvero avere almeno l’occasione di allearsi con Michizou e tenere alto il suo nome di ex leader della Pecora piuttosto che rincorrere Naomi-chan per evitare che li facesse buttare tutti fuori dalla struttura con l’accusa (meritata) di atti osceni in luogo pubblico, ma la ragazza sembrava intenzionata a rendere le cose difficili per tutti. Se solo fosse riuscito a sentirla, Chuuya non sarebbe stato costretto a brancolare nel buio e nel silenzio, con il solo suono delle sue scarpe sul pavimento coperto di gommapiuma e delle dita che picchiettavano contro la plastica della pistola.  
Stringendo gli occhi per distinguere meglio le sagome nell’ammasso di semi-oscurità è luci neon, il ragazzo lasciò che il nulla gli calasse attorno come una coperta.

Silenzio.
Qualcosa non andava.


Sobbalzò quando sentì qualcuno afferrarlo per l’avambraccio. Con una protesta soffocata, il ragazzo cercó di puntare i piedi a terra ma la mano lo spinse in un angolo prima che potesse replicare, senza dargli il tempo di reagire. 

La cosa successiva che Chuuya notò, dove prima c’erano buio e rumori, erano il respiro quieto e un paio di familiari occhi castani; bizzarro, pensò, distrattamente, quando sono così vicini non sembrano così rossi.
 

- - -

Chuuya era impossibile.
Aveva agito d’impulso, ma se si illudeva abbastanza poteva credere che fosse stato Chuuya ad avergli reso volutamente le cose più facili stando lontano da Ango e da Tachihara e, se c’era stata una vocina che gli aveva sussurrato che non era il caso di mettere tutti in una situazione del genere, Dazai l’aveva spinta nel silenzio.
Quando lo guardava negli occhi sembrava vedere solo blu e non era un esperto di primo soccorso — aveva passato la sua vita a desiderare di morire, dopotutto — ma era piuttosto sicuro che il modo in cui gli si fermava il respiro di fronte a Chuuya non fosse salutare nè per il suo corpo nè per la sua mente.

Dazai si prese un istante per scrutarlo, gli occhi socchiusi. Non serviva luce per riconoscere l’espressione sorpresa dell’altro, le sue iridi dilatate che si tingevano di viola e di verde e di giallo sotto le luci neon, la presa molle e priva di convinzione sull’arma abbassata.
“Mackerel?”
Il suo indice premette delicatamente contro il pulsante della pistola laser, la canna grigia che bloccava Chuuya fra lui ed il muro di gommapiuma.
“No sei bravo come dici, chibi.” Era un sussurro malevolo che era sfuggito al suo controllo, ma non era nulla rispetto a quello che stava per fare.

Cosa, cosa stai facendo?
Non lo so, avrebbe voluto urlare, ma era troppo tardi e si stava già muovendo.
Forse nel momento stesso in cui aveva visto Chuuya tanti anni prima aveva sempre saputo che sarebbe andata a finire così.

Dazai poteva giurare che il proprio cuore si fosse incrinato, fermandosi, quando si era chinato in avanti e l'altro non si era spostato, quando l’aveva baciato e aveva sentito le sue ciglia sfiorargli le guance. Poi, per un istante, aveva ripreso a battere così forte che il ragazzo aveva temuto che si liberasse dalle bende e dalle ossa che lo tenevano al suo posto, prima che il silenzio gli riempisse le orecchie come uno schiaffo, un meteorite, insieme alla sensazione di non aver mai atteso così tanto qualcosa e allo stesso tempo di aver agito contro ogni buonsenso.
Chuuya aveva lasciato cadere la pistola, immobilizzato, il tonfo dell’oggetto che copriva i loro respiri. Dazai sorrise contro le labbra di Chuuya prima di sentire le sue mani che gli afferravano il colletto della camicia per tirarlo contro di sè, di nuovo, con un’urgenza che lo fece sobbalzare e che l’aveva costretto ad abbassare l’arma che era stata fra loro.
Da quanto tempo? avrebbe voluto chiedere, ma l’abbandono con cui Chuuya si era lasciato affondare una mano fra i capelli era già una risposta.
‘Troppo, troppo, troppo.'
Lo stupido chibi che non s’era nemmeno accorto che gli altri se n’erano andati, immerso in una bolla di sapone in cui Dazai gli mordeva il labbro inferiore solo per sentire ancora il fantasma di un suono irripetibile, che gli risvegliava nelle viscere il desiderio di liberarsi di chiunque altro avesse mai visto Chuuya con le guance arrossate e le labbra umide o avesse sentito quei gemiti.
Era esattamente come Dazai si era immaginato in quei mesi — teneva gli occhi chiusi come se non potesse aprirli troppo presto, ciglia scure che disegnavano un’ombra delicata sulle guance, e si tendeva istintivamente verso di lui, incastrandosi perfettamente.
Aveva passato anni mesi tormentato da quell’immagine.

Il suono della pistola laser che sparava e la luce puntata contro il petto di Chuuya bucò il silenzio fra loro, facendo sobbalzare violentemente il ragazzo. Il sogghigno dipinto sulle labbra di Dazai si ampliò e dio quanto avrebbe voluto prenderlo per mano e portarlo fuori di lì, ma si limitò a tendersi in avanti, la bocca che sfiorava il lobo dell’altro.

“Punto per me, Chuu~ya.” 

 

 - - -

 

Quando tornò a casa, facendo scivolare una mano in tasca, le dita di Chuuya indugiarono su un pezzo di carta che ad inizio giornata era sicuro non esserci. Era Michizou quello che appallottolava gli scontrini e se li infilava nelle tasche dimenticandoseli per anni, era Michizou che guidava le mani di Chuuya nelle sue tasche, in inverno, e le dita del ragazzo sfioravano vecchi scontrini e biglietti dei mezzi pubblici spiegazzati.
Ma Michizou non lasciava biglietti.
Michizou.
Non era riuscito a guardarlo negli occhi per il resto del pomeriggio. 
Nel momento in cui riconobbe la grafia ordinata di Dazai, Chuuya sentí lo stomaco attorcigliarsi su sè stesso più e più volte, in un intricato gioco di nodi e di bolle d’aria che esplodevano nella sua mente man mano che gli occhi scorrevano sulle scritte accumulate.
Una nota su un pezzo di quaderno strappato. 

Chibi, vuoi uscire con me?, kanji ormai sbiaditi tracciati in una calligrafia frettolosa, accompagnati da due quadratini per rifiutare...no, si corresse, erano entrambi “sí”. Chuuya sorrise proprio malgrado.
Dazai non era in grado di accettare una sconfitta, e quel biglietto era solo una provocazione. Il tempismo era un'altra riprova che Dazai Osamu non sapeva perdere, non importa quale fosse il gioco ed il prezzo e cosa perdessero tutti gli altri, perchè non era quello il punto. La pellicola gelida che separava lo stupido Mackerel dagli altri ragazzi della sua età si era bucata nel momento in cui Dazai si era riscoperto lasciato indietro e sconfitto (da Michizou? O da qualcosa che non aveva voluto ammettere?) ed era stato costretto a mutare qualcosa, negli eventi, a mettere in moto un piano per ribaltare la situazione.
Comunque andasse, Chuuya aveva il sospetto che sarebbe stato lui quello a pagarne le conseguenze.

Collegato da una freccia, poco sotto, era stato aggiunto

Scappiamo insieme, Chuuya. 

Nessun quadratino e nessuna possibilità di risposta, perchè non gliel’avrebbe mai consegnato. La data era segnata frettolosamente. Gli ultimi giorni delle medie; all’epoca, Dazai stava frequentando una ragazza delle superiori che lavorava part-time nella caffetteria della scuola e Chuuya si sarebbe trasferito a breve.
Prendendo un respiro profondo, si sforzò di continuare. Appena sotto era tracciata una frase sbarrata, la penna calcata così forte che il foglio era concavo e sottile dove prima erano stati tracciati kanji ormai illeggibili. 

Mi manchi, vuoi tornare? Sembrava una cosa del genere, o forse era un brutto scherzo. 

La penna era azzurra, ora, ma la data lo riportava a poco tempo dopo il suo ritorno.

Ricominciamo daccapo.
Vuoi uscire con me?

Sì; sì.
‘Chuuya è un bullo!’ si lamentava Dazai, la voce che si faceva più profonda con gli anni e resa dolorosa dal silenzio che li aveva separati, ma la verità era che nessuno aveva mai avuto la forza, il coraggio e la lungimiranza di dirgli di no. 
Stringendo il pezzo di carta fra le mani, Chuuya fissò il pavimento cercando di calmare il respiro che gli si spezzava in gola, di placare la sensazione di ingiustizia e odio e delusione che gli avevano mandato a fuoco lo stomaco. Cosí tanti anni e non una parola. Dazai era drammatico nel suo essere disfunzionale, era feroce nel suo riversargli addosso così anni di sentimenti mai dichiarati senza nemmeno la cortesia di una spiegazione, o la gentilezza di lasciarsi prendere a pugni. Non era giusto. Non era giusto nei confronti di Chuuya, di tutte le volte che l'aveva portato a pensare di essere un idiota, e non era giusto nei confronti di Michizou. 

In un certo senso, crescendo con i suoi genitori, Chuuya si definiva un idealista.
Kouyou-nee aveva spostato l’uomo che amava ed era felice, mentre i suoi due padri erano le persone più differenti, stressate e innamorate che conoscesse: aveva sempre creduto che si sarebbe sposato con il suo primo amore 

 

…Non era mai stato Michizou? 

 

Credeva anche che avrebbe adottato un paio di bambini, salvato un gatto e comprato una grande casa con abbastanza spazio per organizzare una cantina per il vino costoso di Kouyou-nee e una libreria per i libri di poesia dei suoi genitori, oltre che un garage abbastanza spazioso per tenere almeno un paio di moto.

 

E un intero armadio di bende e dello spazio per il sakè e per quell’orribile, orribile granchio in scatola.

 

Ma quello che Chuuya aveva voluto in passato non lo giustificava per ciò che era accaduto al laser tag. 
Cosa faceva di lui quella decisione? Un burattino nelle mani di Dazai, un ingenuo o qualcuno a cui la fortuna aveva finalmente deciso di mandare un segno, e grazie tante per averci messo quasi tutti gli anni della sua adolescenza?
Non era giusto.
Vedere Dazai, parlare con Dazai, avere a che fare con Dazai era come sentire una foresta comprimergli in petto. All’inizio era stato letteralmente un fastidioso ciuffo di piante infestanti che il tempo aveva tramutato in un bel giardino, quieto come l’amicizia che avevano instaurato e occasionalmente feroce come il carattere esplosivo di entrambi. Quando se ne era andato, quel sentimento che credeva sarebbe avvizzito era cresciuto in un ammasso d’alberi che lo lasciava costantemente al freddo e al buio. Ma da quando era tornato… da quando era tornato aveva la sensazione di avere i polmoni bucati da spine e una manciata di petali che si accumulavano giorno dopo giorno, risalendo lungo la gola, soffocandolo.
Era  uno spettacolo decadente e doloroso che privava Chuuya dell’aria e della dignitá e del controllo su quello che avveniva nelle sue viscere. A volte erano rose che gli si arrampicavano lungo la trachea, altre erano camelie rosse che lo soffocavano. Quando l’aveva guardato e la confusione l’aveva fatto sembrare fragile, quando gli aveva risposto ‘e allora?’ come se non l’avesse mai capito, Chuuya aveva sentito il suo corpo fermarsi e la sensazione di dover vomitare tutto quello che si teneva dentro l’aveva sovrastato.
Ma quando Dazai sorrideva ad Atsushi come se non avesse un solo pensiero al mondo o abbracciava Oda, allora erano margherite a fiorire ed era quasi piacevole annaspare, valeva la pena sentire i petali riempirgli Il torace fino a farlo scoppiare. Si sentiva nauseato solo a guardarlo, come se quei fiori fantasma dovessero fargli provare fisicamente tutto il bizzarro dolore che il suo inconscio associava a Dazai. 
Con mano tremante, terrorizzato dalla porta di emozioni che stava per calciare senza alcun riguardo e con la sensazione che non sarebbe riuscito a convivere con sè stesso per un po’, Chuuya afferrò il cellulare.

“Pronto? Sí— ti devo parlare, possiamo vederci?”

 

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