HE'S MORE FRAGILE THAN WHAT YOU THINK

di Alicat_Barbix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO UNO ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO DUE ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO TRE ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO
 
 
C’era un unicorno di fronte a lui. Il suo manto era argenteo, paragonabile alla cristallinità di una fonte d’acqua pura, una di quelle che in spalla a suo padre aveva spesso osservato con occhi grandi di meraviglia, prima che quello morisse. Ora, di fronte a lui c’era un meraviglioso unicorno bianco, avvolto da una calda aura dorata. E aveva gli occhi di suo padre. A quegli occhi, improvvisamente si sovrapposero quelli che aveva scorto il fatidico giorno, quello in cui la sua intera esistenza era stata stravolta. Come intrappolato nei suoi stessi ricordi, rivide il buio, il caos, e poi udì le urla, i singhiozzi di sua sorella piccola, ancora nella culla… E poi pum. Il tonfo di un corpo che crolla a terra. E gli occhi. Gli occhi di suo padre. Vitrei. Cristalli di porcellana. Una bambola. Urlò.
 
 
Scattò a sedere, le labbra spalancate in un grido muto. Pericolosi brividi gli percorrevano la schiena, goccioline di sudore gli imperlavano la fronte. C’era luce. Troppa luce. Davvero, davvero troppa. Strinse gli occhi, infastidito.
“John? Ehi! John!”
Quella voce sembrò risollevarlo dal baratro in cui gli pareva d’essere appena sprofondato. A fatica, riaprì gli occhi, uno alla volta, e nel suo campo visivo comparve il volto delicato del suo migliore amico, contorto in un’espressione turbata dalla preoccupazione leggibile nei suoi occhi profondi.
“Ehi…” ripeté di nuovo il ragazzo, accarezzandogli amorevolmente la testa.
“Ehi.” lo salutò allora, in un sospiro.
“Mi hai fatto crepare dallo spavento. Hai iniziato ad agitarti come un ossesso così, di punto in bianco, mentre cercavo di svegliarti.”
“Che ore sono?” chiese scostando a fatica le coperte, cercando di sviare il discorso da quell’incubo tremendo.
“Le otto e mezza.”
Si alzò di scatto, sfilandosi boccheggiando, quasi, il maglioncino vecchio di suo padre con cui dormiva, e affrettandosi verso il suo armadio. “Come sarebbe a dire le otto e mezza!?”
L’amico non si scompose e si sdraiò con un sospiro rilassato sul proprio letto, le mani dietro la testa e un sorriso serafico in volto. “Io te l’ho detto che cercavo di svegliarti.”
Indossò i primi abiti che gli si presentarono davanti, ignorando i commenti sarcastici dell’altro sulla sua impossibilità di trovarsi una ragazza agghindato in quel modo orribile, e, insieme, si precipitarono giù dalle scale del dormitorio deserto di Grifondoro.
La Sala Grande cominciava già a svuotarsi con studenti che sciamavano via in un coacervo frettoloso e indaffarato. John si accomodò al suo solito posto, sospirando di sollievo nel trovare ancora i vassoi imbastiti delle squisitezze che ci volevano decisamente per incominciare bene la giornata. Soprattutto dopo quegli incubi. Il ricordo gli procurò una morsa al cuore, ma ostentò freddezza sotto lo sguardo ancora non totalmente sollevato dell’amico, servendosi di bacon e uova, come la sua tradizione babbana lo aveva influenzato.
“Ehi, ragazzi!” esclamò improvvisamente la voce di Greg, affiancato da Molly.
“Che fine avete fatto? Stavamo per venire a controllare che fosse tutto okay.” intervenne la ragazza scrutando i volti colpevoli degli amici.
“O che non steste facendo sesso sul mio letto.”
John alzò di scatto la testa dal suo piatto, rivolgendogli un’occhiata di brace: l’ultima cosa di cui aveva bisogno erano le battute di Greg.
“Grazie dell’idea, caro il mio portiere. Quando si renderà necessario non vedremo l’ora di cospargere le tue lenzuola col nostro sperma.” replicò con un sorrisetto malizioso l’amico accanto a lui, rischiando di farlo strozzare con la mollica del pane tostato che aveva in bocca e provocando l’immediato rossore fuoco sulle guance di Molly, mentre Greg indossava la sua espressione più schifata.
“E dopo questa, direi che possiamo anche andarcene, Molly.” esclamò platealmente Lestrade, prendendo la ragazza per le spalle. “Meglio non avere a che fare con certi soggetti.”
John sospirò, mentre l’amico si sbracciava in un falsissimo saluto caloroso. “Vediamoci al campo da quidditch fra mezz’ora, Lestrade! E vedi come ti sparecchio via dalla porta!”
“Contaci, stronzetto arrogante!”
Sollevò, finalmente, gli occhi dal suo piatto, lo stomaco improvvisamente bloccato. “C’era bisogno?”
“Di che cosa?”
“Di quell’uscita su… noi?”
L’amico sbuffò, roteando gli occhi. “Sei sempre così noioso, Johnny. Sei sicuro che la tua scopa sia nel tuo baule? Non è che durante l’ultima partita ti è rimasta attaccata al sedere? O peggio?”
“E’ una cosa seria!” ribatté però lui, facendo correre lo sguardo intorno. “E’ già abbastanza umiliante il fatto che tutti ci prendano per una coppia.”
“Scusa? Ho sentito bene, umiliante?”
Si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore, colpito improvvisamente dal tono adirato dell’altro. La verità era che due anni prima qualche genio, durante il prestigiosissimo ballo di Halloween, li aveva proclamati la coppia più bella della scuola intera, e da allora era stato praticamente impossibile sedare le voci sul loro conto. John aveva davvero avuto difficoltà anche solo a convincere la sua attuale ragazza, Sarah, una brunetta della sua Casa perennemente gelosa del suo rapporto con l’amico, che non era affatto gay.
“Sai cosa intendo.”
“No, John, non lo so. Spiegami.”
Ma lui sfuggì allo sguardo dell’altro, sperando di venire risucchiato dalla sua porzione di bacon. Il resto della colazione lo trascorsero in religioso silenzio, attorniati dai chiacchiericci concitati di alcuni ragazzini del primo anno che stavano sfogliando febbrilmente un giornalino sul quidditch. Una volta concluso il pasto, entrambi si alzarono e si affrettarono verso lo stadio, dove avevano appuntamento con Greg.
Ebbero un’oretta scarsa per la loro partitella amichevole. John se ne rimase in disparte, accanto ad una Molly con gli occhi sognanti fissi sul fidanzato, mentre i due amici si sfidavano in un scontro tra titani. Rimuginava sul sogno. Non era il primo e di certo non sarebbe stato neanche l’ultimo. Aveva vaghi ricordi di quella lontana notte, eppure, alcune volte, sembrava che nel sonno particolari che neanche credeva di conservare nella sua memoria tornassero a galla e lo investissero con efferatezza. E poi… c’era l’unicorno. C’era sempre l’unicorno. Che cosa significava?
“TERRA CHIAMA WATSON!”
Si ridestò dai suoi pensieri con un sussulto, trovandosi a poca distanza dal volto lievemente sudato del suo migliore amico. Si guardò intorno confuso, cercando Greg e Molly, ma i due sembravano essersi volatilizzati.
“Cosa… Dove…”
“L’hai fatto di nuovo.”
“Che?”
L’amico gli sventolò davanti alla faccia una mano. “La cosa dell’incantarti… E’ inquietante anche se è il quinto anno che passo con te.”
Gli succedeva spesso, effettivamente. Si chiudeva nei ricordi e ripercorreva gli anni più teneri della sua infanzia, quando ancora c’era suo padre, e poi vedeva le montagne e le foreste e le spiagge che esplorava mano nella mano con lui.
“Muoviti che siamo già in ritardo per Incantesimi.”
“In ritardo…”
“Sì, Johnny, alza il culo e muoviti.”
Corsero a perdifiato dentro il castello, percorrendo l’immenso atrio deserto. Le scale, ovviamente, non giocarono in loro aiuto e si rivelarono piuttosto difficili da persuadere nel fermarsi nel punto giusto. Una volta arrivati al terzo piano, sgattaiolarono lungo l’infinito corridoio che conduceva all’aula di Incantesimi. Poi, improvvisamente, delle voci.
“Ripetilo se hai il coraggio!”
Si fermarono in mezzo allo svicolo per un corridoio secondario e, incuriositi nonostante la fretta, si sporsero appena per intercettare la fonte di quegli strepiti. John sgranò gli occhi quando scorse tre ragazzi dell’ultimo anno Grifondoro accerchiare un poveretto con la divisa di Corvonero. Li riconobbe immediatamente come Carl Powers e i suoi due sgherri. Deglutì a vuoto un paio di volte: era risaputo che Powers non si facesse troppo pregare per tirare fuori dalle tasche i pugni e menare duro, lui stesso aveva rischiato di attirare su di sé la sua ira pestandogli accidentalmente un piede quando si era ubriacato alla festa per la vittoria del Torneo di quidditch l’anno precedente.
Afferrò la manica della divisa dell’amico e prese a tirarla, incoraggiandolo a muoversi, ma l’altro non diede segno di volersene andare, il corpo proteso in avanti per studiare la scena.
“Avanti, sporco mezzosangue!” abbaiò ancora Powers. “Ripetilo!”
John udì nitidamente il rumore del corpo del ragazzo di Corvonero che piombava a terra e solo in quel momento riuscì a scorgere il sangue che, copioso, gli fiottava dal naso. Osservò quel volto freddo, calmo – apparentemente – nonostante le urla di Carl, le botte e il dolore.
Si accorse troppo tardi del movimento. Intravide a malapena lo svolazzare del mantello. Quando capì che cosa stava succedendo, il suo amico si era già frapposto fra Powers e il Corvonero. Soffocò un Dio, no, e si limitò a farsi avanti a sua volta, con passo tentennante.
“Direi che avete dato abbastanza scena.” intervenne la voce ferma dell’amico. “E oserei anche dire, se mi è concesso, che mi toccherà togliervi diversi punti. Ciascuno. Perciò, ecco la questione, ragazzi: voi ora prendete e vi levate cortesemente di torno… altrimenti mi vedrò costretto a fare rapporto alla McGonagall. E voi sapete quanto sia intransigente verso gli studenti più grandi della sua Casa.”
Powers ringhiò come una vera e propria bestia selvatica, chiudendo i pugni e serrandoli così forte che John ebbe quasi l’impressione di sentirli stridere. Infine, tutti e tre gli studenti del settimo anno si dileguarono masticando un paio di insulti verso loro e spintonando John senza complimenti.
Troppo impegnato nell’osservarli sparire dietro la prima svolta, il biondo non si accorse che l’amico si era inginocchiato sul Corvonero, porgendogli il proprio fazzoletto di seta, quello che portava sempre dietro per l’allergia.
“Ti hanno ridotto proprio male, eh?”
“Avevo tutto sotto controllo.”
La risata dell’amico invase l’intero ambiente. “Oh, sì, sì… Infatti sono intervenuto per scopi puramente personali. Sai, mi devo ancora abituare al mio compito di prefetto e esercitare il potere sugli studenti più grandi è davvero soddisfacente, non trovi?”
Il ragazzo mugugnò qualcosa, prima di alzarsi, tamponandosi il naso sanguinante col fazzoletto offertogli. John lo squadrò con curiosità, ricevendo, in cambio, a malapena un’occhiata infastidita. Quel tipo, effettivamente, sembrava troppo concentrato nello studiare il suo amico, indugiando parecchio coi suoi occhi cristallini e dal colore indefinibile in quelli nocciola dell’altro.
John, improvvisamente, si sentì di troppo e un sinistro fastidio s’impossessò del suo stomaco. “John Watson.” esordì con voce seccata.
“Sherlock Holmes.” si presentò a sua volta il Corvonero la cui mano si protese verso il secondo Grifondoro che si affrettò a stringergliela con un sorriso entusiasta.
“Victor Trevor.”
 
 
Fortunatamente, scamparono per poco la punizione. Victor accompagnò Sherlock in infermeria, lasciando John solo a gestire quella testa calda di Flitwick che – tanto per cambiare – già ce l’aveva a morte con lui per aver dato fuoco all’aula con l’incantesimo del Fuoco, durante il suo primo anno. Come se fosse capitato solamente a lui nell’arco della lunga carriera d’insegnante di quel nanetto.
La mattinata, senza Victor, si srotolò con un’infinitamente piatta e noiosa lentezza. Durante le lezioni non faceva che guardare fuori dalla finestra e lasciar correre la sua mente a briglie sciolte, permettendole di spiccare il volo e tuffarsi nel candore delle nuvole mentre la voce della McGonagall o quella di Hagrid lo cullavano dolcemente.
La testa riccioluta dell’amico ricomparve solo all’ora di pranzo, quando si lasciò cadere sul posto libero accanto a lui con un sospiro e si avventò senza complimenti sul piatto che John gli aveva gentilmente riempito.
“Che fame!” borbottò Victor tra un boccone e l’altro, senza degnarlo del minimo ringraziamento per averlo aspettato e avergli tenute calde le cibarie.
Sospirò, iniziando, a sua volta, a portarsi la forchetta alle labbra e masticando silenziosamente, al contrario dell’altro. “Ti ho preso i libri di Erbologia per questo pomeriggio.” esordì a un certo punto, desideroso di liberarsi di quel silenzio così insolito per loro. “Ho immaginato che non avresti avuto tempo per tornare ai dormitori e recuperarli.”
“Oh, grazie, Johnny, ma temo che salterò anche questo pomeriggio.”
Il biondo inarcò un sopracciglio, abbandonando la sua porzione di carne a metà. “Non verrai a lezione?”
“No, amico. Ho già promesso a Sherlock che gli avrei tenuto compagnia. Ha minacciato Madama Chips di lanciare incantesimi contro il muro per combattere la noia.”
“E tu saresti il suo passatempo?” chiese senza celare la punta di disprezzo che provava, inspiegabilmente, in quel momento, ma Trevor non sembrò coglierla.
“A quanto pare… Scusa, Johnny, devo scappare. Il dovere mi chiama.”
John osservò sbigottito l’amico balzare in piedi con un sorriso che mai gli aveva visto in volto. “Te ne vai già?”
“Sì, devo passare per i dormitori per prendere qualche scemenza per fargli passare il tempo.”
“Sei consapevole che non hai più obblighi verso di lui? L’hai tirato fuori dai guai, non capisco tutto questo desiderio di fargli compagnia, adesso.”
Victor fece spallucce, visibilmente disinteressato alle sue parole. “Mi piace la sua compagnia, tutto qui.”
“O magari hai sviluppato il complesso della crocerossina.”
Ma l’amico, di nuovo, non colse la punta d’acidità di cui la sua voce era intrisa e si limitò a scoppiare a ridere, scompigliandogli i capelli. “Ci vediamo stasera alla fine delle lezioni, okay? Sento proprio il bisogno di stracciarti ad una partita di scacchi.”
“Sì, contaci.” rispose lui al vuoto, perché Victor, già, se n’era andato.
John rimase lì, con lo sguardo perso nella sua porzione ancora mezza intonsa. Non capiva da dove provenisse, adesso, tutto quell’interesse e quella gioia per vedere un semplicissimo Corvonero vittima di bullismo. Se ne vedevano talmente tanti di bulli e bullizzati per le mura di Hogwarts e non era la prima volta che il suo amico interveniva in difesa di qualcuno – in fondo era un Grifondoro modello e non a caso era un prefetto – ma sentiva, percepiva che quel ragazzo dai ricci scuri fosse di più. E il solo contemplare quell’idea, provocò a John un fastidio repellente alla bocca dello stomaco che gli impedì di mandar giù qualunque altro boccone.
 
 
Se ne stava seduto a gambe incrociate sul letto dell’amico. Accanto a se, la tavola degli scacchi magici abbandonata tristemente, allestita di tutte le pedine ma priva del secondo sfidante. John guardava un punto non definito nel buio della stanza e attendeva. Erano passate le otto di sera e di Victor nessun segno. Non era neanche riuscito a sollevarsi per andare a cena, tanta era l’amarezza e la conseguente spossatezza che gli intorpidivano le membra.
Non seppe dopo quanto la porta della stanza si aprì, rivelando la figura pimpante dell’amico che, con gesti rapidi, si liberava del mantello, lanciandolo totalmente a caso.
“Accidenti che buio, qua dentro.” esclamò la voce allegra del rossino. “Lumos.”
La bacchetta di Victor rischiarò l’ambiente, conferendo a quello la possibilità di avventurarsi nel groviglio di tenebre per accendere la luce. Quando ogni cosa fu avvolta dal chiarore, Trevor si prese alcuni istanti per contemplare la sua espressione a metà tra il ferito e l’indignato e solo quando quegli occhi scuri si puntarono sugli scacchi accanto a lui sembrò comprendere.
“Oh.” sussurrò, infatti, quello, un’improvvisa colpevolezza dipinta in volto. “John… Oddio, scusami: mi sono completamente dimenticato. Che grandissimo coglione…”
“Non fa niente.” borbottò lui distogliendo lo sguardo. “Quel tipo come sta?”
Sherlock.” lo corresse immediatamente Victor, rivolgendogli un’occhiata accusatoria. “Domani potrà tornare al dormitorio.”
“E immagino che a questo punto la vita di Sherlock non sarà più un tuo problema.”
L’amico si sedette di fronte a lui, sul suo letto, e lo guardò con qualcosa di simile alla delusione. “Sherlock Holmes.” ripeté quel nome come se fosse stato fatto d’oro. “Hai mai sentito parlare di lui?”
“No.” mentì lui.
“E’ un genio. Il migliore del suo anno, anzi no, di tutta Hogwarts intera, probabilmente. E’ dannatamente intelligente e… è riuscito a dedurre la mia infanzia dal nodo della mia cravatta.”
“Impossibile. Avrà usato un trucco per impressionarti.”
“No, invece. Non è solo un grande mago, è anche un grande intellettuale. Mi è bastato trascorrerci una giornata per capire che ha il cervello di uno scienziato o di un filosofo… E’ incredibile!”
John si lasciò andare ad una risata sprezzante, mentre si alzava in piedi, volgendosi verso la finestra che dava sull’immenso cortile del castello. “Parli come una quattordicenne innamorata.”
“John, mi spieghi qual è il tuo problema, esattamente?” ribatté Victor, finalmente consapevole dell’ostilità che l’altro gli stava rivolgendo.
“Non ho nessun problema, Victor. Perché dovrei avere qualche problema nel sentire che il mio miglior amico ha intenzione di frequentarsi col peggiore psicopatico della scuola?”
“Allora non è vero che non sapevi niente su di lui.”
Sbuffò, portandosi le mani ai fianchi. “Mi è giunta qualche notizia. E guarda caso, nessuna di queste è minimamente positiva! Mi domando che cosa possa mai voler dire.”
“Che è solo! E che ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino!”
“Se è solo un motivo ci sarà, no?! La verità è che è soltanto uno fuori di testa a cui è bastato pavoneggiarsi un po’ per le sue straordinarie abilità per farti crollare ai suoi piedi come uno stupido! E sai che ti dico? Almeno adesso smetteranno di prenderci per una coppia, visto che i tuoi interessi verso quello sono più che chiari.”
Le guance di Victor si tinsero di un violento rosso per l’imbarazzo. “I-io… Ma che stai dicendo, idiota che non sei altro?”
“Dico che puoi anche andartene quando vuoi. Non vorrei trattenerti ulteriormente dallo scopartelo in infermeria. Mi raccomando, segnati tutti i dettagli, così mi farai sapere quanto è soddisfacente andare a letto per due froci!”
Si rese conto troppo tardi di quello che gli era sfuggito di bocca. L’amico lo osservava col volto mascherato da una completa imperscrutabilità. Che cosa celavano quegli occhi? John provò a cercare le parole per scusarsi o forse è meglio dire che cercò le palle per farlo, ma quando aprì le labbra per spiegarsi o… fare chissà che altra cazzata, Victor aveva già lasciato la stanza.
 
 
Le cose fra loro, in qualche modo, si appianarono col passare dei giorni… O forse, semplicemente, successe perché il tempo che condividevano era stato ridotto ad un semplice risvegliarsi, scendere a colazione, frequentare quelle orette di lezione e infine coricarsi. Le loro lunghe chiacchierate sulle rive del Lago Nero erano state ridotte ad uno scambio di opinioni sugli argomenti delle lezioni, sui G.U.F.O. imminenti, sulla prossima edizione del Torneo di Quidditch. E Dio solo sapeva quanto a John quei momenti d’intimità col suo migliore amico gli mancassero. Ora, accanto al rossino, non faceva che gironzolare l’ombra di Sherlock Holmes e, com’era da aspettarsi, le malelingue non si fecero attendere troppo e si scatenarono su di loro in brevissimo tempo, ma a nessuno dei due sembrava importare. Ad ogni modo, dire che fosse Sherlock Holmes a girare attorno a Victor sarebbe stato sbagliato: effettivamente, era Victor il cagnolino stupidamente fedele della situazione.
Accadde due settimane dopo quell’infelice incontro che aveva sovvertito le sorti della quotidianità di John. Si era appena infilato sotto le coperte, imitato dall’amico, quando quello gli rivelò la tanto attesa notizia:
“Stiamo insieme.”
Quella notte, John non dormì.
 
 
Odiava le lezioni d’Incantesimi. Le odiava davvero con tutto se stesso. E non era solo per Flitwick, no… O meglio, sì, la sua voce petulante e i continui rimproveri che gli rivolgeva erano decisamente irritanti, ma c’era un altro fattore a scatenare la sua, ormai, totale repulsione nei confronti di quella materia: Sherlock Holmes. Per cinque anni non si era mai accorto di quel moretto arrogante che lavorava silenziosamente per conto suo, mentre adesso non faceva che osservarlo di sbieco, stringendo i pugni ogni volta che Victor, accanto a sé, mormorava qualcosa su quanto fosse brillante il suo ragazzo. E John, puntualmente, avvertiva l’impellente bisogno di vomitare la colazione o il pranzo giù dalla torre di astronomia.
Quella mattina, Victor si era trascinato in infermeria, vittima di una brutta influenza, e così John si era dovuto recare alla lezione per conto suo, incontrando la figura trepidante d’attesa di Sherlock Holmes sull’uscio dell’aula. Non si rivolgevano quasi mai la parola, neanche quando uscivano insieme – ovviamente sempre in rigorosa compagnia di Victor – ma quella mattina, di fronte all’assenza del ragazzo, Sherlock gli domandò dove fosse.
“In infermeria. Credevo che essendo il suo ragazzo sapessi sempre tutto.”
Ma l’altro si limitò ad un’occhiata gelida e a voltargli le spalle, entrando in classe. La triste realtà dei fatti era che gli unici posti a disposizione erano due banchi vicini, in prima fila, che furono costretti ad occupare con un sospiro esasperato. La lezione del giorno era incentrata sullo Stunning Charm, incantesimo utilizzato per colpire oggetti o persone facendo perdere loro i sensi.
“Noioso.” borbottò Sherlock al suo fianco, giocherellando con la bacchetta. “Sarebbe roba da quarto anno, ma a quanto pare il caro Flitwick non è riuscito a stare al passo col programma. E dire che io l’ho imparato al primo anno.”
John ricacciò indietro qualsiasi insulto volesse rivolgere all’altro e si limitò a concentrarsi sulle istruzioni del professore, ignorando la sensazione di fastidio nel sapere che Holmes sapeva già padroneggiare quell’incantesimo.
“Non mi sopporti.” osservò dopo una buona mezz’ora di lezione Sherlock, rompendo il continuo iterare di John della formula.
“Però, Holmes! Quindi è vero quello che si dice su di te a proposito delle tue doti deduttive.” Sherlock non rispose e si limitò a storcere appena le labbra, infastidito. “Non ci vuole una grande abilità nel dedurre per capire che nemmeno io ti sto troppo simpatico.”
“Errato, Watson.” ribatté prontamente il moro. “Non è che non mi stai troppo simpatico, il fatto è che a malapena tollero la tua presenza. Credevo che non ci fosse nessun altro, a parte Anderson, capace di abbassare il quoziente intellettivo dell’intera scuola, ma a quanto pare mi sbagliavo.”
“Se è il tuo modo di dirmi che non mi puoi vedere, ti consiglio di risparmiare il fiato, la prossima volta: non c’è bisogno di fare il drama queen per dire ad una persona che la detesti.”
“Hai di nuovo sbagliato, Watson: la mia difficoltà nel tollerare, appunto, la tua presenza sta nel fatto che – di solito – non amo condividere ciò che è mio.”
John voltò la testa di scatto, un’espressione minacciosa a deturpargli il volto. “Ho sentito bene? Stai dicendo che Victor è una tua proprietà?”
“Se non l’hai capito prima vuol dire che sei davvero un perfetto idiota. Mi è parso che la cosa fosse sufficientemente chiara.” replicò Sherlock, sinceramente stupito dalla sua risposta.
“Solo perché state insieme non vuol dire che lui ti appartenga!” ringhiò allora lui, stringendo così forte le dita sulla bacchetta che avrebbe anche potuto spezzarla, non fosse stata altro che un pezzo di legno.
“E’ probabile che tu non sia esattamente al corrente di alcuni dettagli nelle… procedure di una relazione.”
“Se ti riferisci al sesso, Holmes, credo di avere molte più esperienze di te.”
“No.” ribatté tranquillamente il moro facendo correre lo sguardo su di lui. “L’anno scorso, al Ballo di Halloween, tu e Victor siete stati proclamati – erroneamente – la coppia più bella della scuola. Questo ti ha causato non poche difficoltà a trovarti una ragazza. Frequenti dall’inizio dell’anno scolastico una della tua Casa ma lei sta con te solo perché ti sbava dietro dal primo anno. Ciononostante avete fatto solo una volta sesso, lasciando entrambi piuttosto insoddisfatti. Da quella volta, lei non fa altro che pensare che le voci su te e Victor possano essere vere. Infatti, fino a qualche settimana fa eri visibilmente insoddisfatto, con imbarazzanti polluzioni a cui dovevi pensare da solo. Invece, da quando si è sparsa la voce di me e Vic la tua fidanzata si è dimostrata più che felice di soddisfare i tuoi bisogni repressi, infatti hai dovuto ricorrere alla masturbazione solo in due occasioni da allora ed entrambe sono state per una scomoda situazione che si è creata fra te e Victor. E nonostante questo ritorno di fiamma nella tua ragazza, continui ad essere irascibile e di pessimo umore… Mi domando se non abbia a che fare con la relazione fra me e Victor, ma soprattutto se non debba cominciare a considerarti un eventuale erba cattiva da strappare. E comunque, credo di averti appena dato la conferma sul fatto che di sesso, ormai, sono piuttosto edotto. Di certo più di te. E a questo punto sì, Victor è decisamente una mia proprietà.”
John lo osservava con sbigottimento. Come diavolo faceva quello psicopatico a sapere tutte quelle cose? Non ne aveva fatto parola con nessuno, nemmeno con Victor. Come poteva…
“Mi limito ad osservare, Watson! Ovvio che non me l’ha detto nessuno! Non è che sia esattamente il mio passatempo preferito andare in giro a chiedere della tua situazione sessuale.”
“I-io…”
“Eccellente, a quanto pare hai appena perso l’uso della parola. Stupeficium!”
Il ritratto della madre di Flitwick, che quest’ultimo teneva sulla scrivania, volò contro la parete, scatenando l’indignazione della donna raffigurata, che si ritrovò con la faccia contro il pavimento.
“Oh cielo!” esclamò il professore accorrendo a salvare l’immagine della poveretta. “Holmes!”
“Ha visto, professore? Sono perfettamente in grado di maneggiare lo Stunning Charm. Ora, se non le dispiace, io andrei in infermeria a trovare il mio ragazzo. Non ho tempo da perdere con degli idioti che non sanno scagliare nemmeno un incantesimo così banale. Buona giornata.”
E senza neanche attendere la risposta dell’insegnante, Sherlock sparì dalla classe. John, dal canto suo, si ritrovò tremante di un’ira cieca. Mai in vita sua aveva odiato tanto qualcuno, mai. Provava un prurito indomabile alle mani, come se queste non aspettassero altro che gonfiare di botte quel damerino saccente.
“Bastardo.” ringhiò rafforzando ancora di più la presa sulla bacchetta, le nocche ormai totalmente esangui. “Stupeficium!” ruggì, infine, dando sfogo a tutta la sua rabbia e la cattedra di Flitwick venne scagliata contro una parete, sbalzando il professore di qualche metro. Un senso d’orgoglio gli invase le membra e si ritrovò ad assaporare la sensazione di potere che gli ristagnava in bocca.
“WATSON!” tuonò Flitwick, rialzandosi. “IN PUNIZIONE!!”
 
 
Da quel giorno, le settimane che seguirono, vacanze di Pasqua comprese, furono per John la cristallizzazione delle sue più grandi paure. Non seppe come, ma improvvisamente decise di isolarsi, di estraniarsi dalla sua stessa vita. Si svegliava prestissimo, la mattina, e si recava a colazione quando ancora la Sala Grande era mezza vuota, poi sgattaiolava in aula e attendeva l’inizio delle lezioni o, semplicemente, si chiudeva in camera a leggere la biografia di qualche giocatore di quidditch. La finale del Torneo si stava avvicinando e, come al solito, Grifondoro avrebbe dovuto fronteggiare Serpeverde per l’ottenimento della coppa. In campo, dava il massimo. I suoi occhi allenati a trovare il boccino d’oro si muovevano febbrilmente mentre tutto intorno a lui ruotava al ritmo della sua scopa. Greg e Molly erano estremamente preoccupati. Nonostante frequentassero il sesto anno e quindi avessero anche altri amici, non si erano persi il suo cambiamento radicale. Gli si facevano spesso vicini, anche durante gli allenamenti – lasciando gli anelli scoperti o un bolide libero di girare a proprio piacimento – e gli chiedevano se fosse tutto okay.
Victor, ormai, era solo un fantasma che gli appariva di rado. Era felice. Come mai lo aveva visto prima. Un dolore sordo scavava in lui ogniqualvolta si rendeva conto di quanto distanti si fossero fatti. Ma la colpa non era di Victor e neanche di quello stronzetto di Holmes. La colpa era sua. Sua e del suo orgoglio smisurato. Sua e della sua gelosia irrefrenabile. Sua e del suo egocentrismo. La verità era che Sherlock Holmes era più simile a lui di quanto John non volesse ammettere: fino ad allora, anche lui aveva considerato Victor un suo possesso, un diritto personale suo e solo suo. E il doverlo condividere con qualcun altro, ora, gli appariva quasi umiliante, come se avesse appena dimostrato a se stesso che non ce l’aveva fatta a tenerlo accanto a sé. Se Sherlock fosse stato una ragazza, la situazione sarebbe stata completamente diversa. Ed era così sciocco pensarlo che a volte si vergognava lui stesso per aver formulato un pensiero simile.
Infine, gli incubi. Ora erano cambiati. L’unicorno c’era, ma al posto degli occhi di suo padre, c’erano quelli di Victor. E le urla terribili erano quelle dell’amico. Una sera si era svegliato urlando e Victor era corso da lui, sdraiandosi accanto a lui e stringendolo in un abbraccio fraterno in cui John scoppiò in lacrime come un bambino. Quello, forse, era stato l’ultimo istante di pace condiviso con quello che, un tempo, era stato il suo migliore amico e tutto ciò che rimaneva della sua famiglia.
 
 
Una notte, mentre si rigirava nel letto, udì nitidamente Victor alzarsi dal proprio materasso e svestirsi in fretta per gettarsi addosso abiti puliti. Una volta che quello ebbe raggiunto in punta di piedi la porta, John si sporse verso l’interruttore della luce e la stanza venne rischiarata, rivelando un Victor con un’espressione colpevole in viso.
“Johnny… Non pensavo fossi sveglio.”
“Vai da lui?”
“John-”
“Cristo, Victor… E’ notte fonda! E se Filch ti beccasse…”
“Non mi beccherà.”
John ridacchiò, scuotendo con aria frustrata la testa. “Dev’essere davvero bravo a letto se hai intenzione di sgattaiolare fino alla parte opposta del castello per scopartelo. O farti scopare? Come funzionano le cose tra di voi?”
“John, per piacere-”
“No, Victor, hai ragione: non sono cose che mi riguardano. Anzi, sai cosa? Tutto quello che riguarda te ha smesso di riguardare me già da tempo.”
“Sei uno stronzo.”
“E tu un coglione! Ti sei fatto abbindolare da uno che non sta facendo altro che usare la tua reputazione per elevare la sua! E’ uno psicopatico che ti tradirà. Ti tradirà alla prima occasione e tu striscerai nella melma che tu stesso ti sei creato mettendoti con quello-”
Victor scattò in avanti e lo afferrò per il colletto della camicia del pigiama e lo avvicinò a sé con brutalità. Ma a dispetto delle aspettative di John, sul viso dell’amico non trovò rabbia, rancore, disgusto… Ma una sconfinata amarezza.
“Smettila, John. Sei meglio di così. E Sherlock… Sherlock non è la persona che pensi che sia. Spero che col tempo imparerai a rendertene conto.” La presa sulla stoffa si indebolì appena e gli occhi di Trevor si rivolsero nostalgicamente alla finestra. “E’ più fragile di quanto pensi… Lui ha bisogno di essere amato. E… beh, ricordalo.”
“Ricordarlo? Credo che riceva abbastanza amore da te, visto che ormai sembri aver dimenticato qualsiasi altra cosa che non sia lui.”
Victor assunse un’espressione ferita. “John…”
“Vattene. Vattene dal tuo fidanzatino e restaci. Sappi che, come varcherai quella porta, mi avrai perso per sempre, Victor Trevor.”
L’amico sospirò con fare rassegnato e un sorriso mesto si delineò sulle sue labbra a cuore. Si staccò da lui, passandosi una mano sul volto per poi allungarla verso il suo viso e lasciarvi una lunga e dolce carezza che John non riuscì a respingere. “Ti voglio bene, John. E mi spiace essere arrivati a questo punto.”
Improvvisamente, gli occhi di John si fecero grandi d’incomprensione, ma nonostante mille domande gli frullassero in testa non riuscì a dar voce a nessuna di queste, così si limitò a contemplare la figura stranamente ingobbita dell’amico sparire dietro la porta della loro stanza.
 
 
Il giorno dopo, Hogwarts si risvegliò violentemente, scossa fin dalle interiora di pietra e calce dai rintocchi forsennati delle campane. Tutti gli studenti vennero fatti riunire dai prefetti nella Sala Grande, come pecore guidate dai pastori. John, in mezzo a quella ressa, cercò Victor, ma non riuscì a scorgerne la figura.
Dumbledore si erse in tutta la sua regale statura sul salone e la sua voce, amplificata dall’incantesimo Sonorus, conquistò l’attenzione e il silenzio di qualunque studente.
“Cari studenti… Purtroppo quest’oggi ho una notizia… spiacevole da comunicarvi.”
Una presa salda al braccio fece sussultare John, che si affrettò a voltarsi, sperando di incappare nel viso di Victor, ma i suoi occhi si dipinsero di smarrimento e di delusione quando incontrò lo sguardo velatamente preoccupato di Sherlock Holmes.
“Dov’è Victor?” gli sibilò il moro, stringendo gli occhi.
John si divincolò con un ringhio basso dalla presa ferrea dell’altro. “Non ne ho idea. L’ultima volta che l’ho visto è stato ieri notte, quando ha deciso di rischiare di farsi espellere solo per venire da te.”
Il viso di Sherlock si dipinse di stupore a quelle parole. “Da me? Ma… Noi non… non avevamo appuntamento.”
John scrollò le spalle con indifferenza. “Magari voleva solo farti una sorpresa da buon fidanzatino.”
“Questo è impossibile… Per accedere ai dormitori di Corvonero bisogna rispondere all’indovinello del corvo e… non penso che Victor sia così stupido da attraversare tutta Hogwarts col rischio che il guardiano di Corvonero lo rispedisca indietro.” Fu la volta di John a sgranare gli occhi, mentre il Corvonero si passava nervosamente una mano tra i ricci troppo lunghi. “E’ stato lui a dirti che sarebbe venuto da me?”
“Sì… No. Non me lo ricordo.”
“Che significa che non te lo ricordi?”
“Io… l’ho sorpreso mentre stava per scendere le scale e ho subito pensato che sarebbe venuto da te… Però poi non so se abbia effettivamente confermato oppure…”
“Oppure se sia stato solo l’ennesimo film mentale che ti sei fatto in quella noce che ti ritrovi per cervello.”
Una ragazza di Grifondoro del sesto anno ordinò a entrambi di tacere, mentre il preside proseguiva col suo discorso.
“… Stamane, un gruppo di Selkie del Lago Nero ci ha riportato un drastico ritrovamento. Mi duole dirlo, ma sul fondo del lago si trovava il cadavere di uno studente.”
Gli occhi di Sherlock e di John si incontrarono quasi immediatamente a quelle parole, mentre un brivido percorreva l’aria. Il Grifondoro strabuzzò lo sguardo, cercando risposte in quello del Corvonero, ma sui visi di entrambi era dipinto uno sgomento cieco e incontrastato.
“Victor Trevor.”

ANGOLO AUTRICE
Ehi bella gente! Eccomi di nuovo in prima linea sul battlefield di EFP!!!! Per chi non mi conoscesse sono una delle due autrici di questa pagina e sono tornata quest'anno con una nuova long-fic (non ancora completa, non uccidetemi) sulla JOHNLOCK!!!! Per chi invece conosce me e la mia collega e si sta chiedendo perché stia parlando al singolare, ecco a voi la notizia bomba: sto facendo l'anno in Irlanda. *attende dai lettori uno stupore che però non arriva perché siamo nel 2019 e ormai è una cosa normale andare a studiare all'estero per pochi mesi o più*. Ecco, la verità è che non è che sia tutta vita e rock & roll da queste parti, sono letteralmente circondata da pecore e mucche... Ad ogni modo, questa long fic è stata pensata già dall'anno scorso, e l'abbiamo iniziata assieme i primi mesi di quest'anno, ma poi tra la scuola e tutto alla fine abbiamo rinunciato al progetto. Ora che l'estate è passata, io sono qui senza molto da fare e tanto tempo da riempire, abbiamo deciso di rispolverare questa storia e proporvela, nella speranza che possiate apprezzare questo crossover (non del tutto originale, ma che a noi piace tantissimo) fra Sherlock e HP. 

Bene, direi che è tutto. Fatemi/fateci sapere che ne pensate se avete voglia, tempo bla bla bla e vi rimando alla prossima settimana (non so ancora il giorno, chiedo venia) con il primo capitolo dopo questa... succulenta introduzione.

*kiss kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 2
*** CAPITOLO UNO ***


CAPITOLO UNO
 
 
Il suo sguardo rimaneva fisso nell’orizzonte, nel punto in cui cielo e lago si incontravano. Intorno, non vi era che silenzio. Era trascorso… quanto? Un anno? Due? Un’eternità? In realtà, pochissimi mesi. Dopo il… ritrovamento del corpo, Dumbledore aveva deciso di chiudere la scuola per far luce sulla tragica morte di Victor Trevor. L’estate era volata, consumata tra i manuali per la preparazione ai G.U.F.O. e sulle lenzuola madide di sudore a causa degli incubi. Non usciva, non dormiva, a malapena s’infilava qualcosa sotto i denti – lo stretto necessario per non morire di fame. Era calato di peso, due profonde occhiaie si erano impossessate del suo viso e non c’era giorno che trascorreva senza che i morsi del senso di colpa lo divorassero. A metà Luglio, era infine arrivata una lettera da Hogwarts dove la sua presenza era richiesta per il sostenimento dei G.U.F.O. che aveva superato senza eccessive difficoltà. Per il resto, il ritorno a scuola dopo tutto quello che era accaduto era stato – per usare un eufemismo – doloroso, tanto che, dopo che Dumbledore aveva annunciato lo svolgersi del Torneo Tremaghi proprio ad Hogwarts, era dovuto scappare dalla Sala Grande e correre fino al luogo che aveva sputato fuori il cadavere sfigurato di Victor.
Ora, quel lago che aveva solcato il suo primo anno, proprio a fianco di quel rossino dal carattere allegro ed eccentrico, gli sembrava ostile, nemico. Attaccato da una qualche creatura della Foresta Proibita. Così aveva annunciato la McGonagall al rientro dalle forzate vacanze prolungate. Solo una bestia che era stata lasciata gironzolare entro i confini sicuri della scuola e che si era avventata sulla prima ombra nella notte. Bastava davvero una cazzata così per morire a sedici anni? Una fottuta creatura sfuggita dal folto della Foresta Proibita?
Sospirò e si trovò a dover trattenere le lacrime, perché ora, ora che era lì, ora che si permetteva di abbandonarsi a quel lutto, ora che guardava dove il suo migliore amico era morto… ora non aveva più niente a reggerlo in piedi. Neanche lo scoprire cos’era accaduto.
“Guarda guarda che ironica coincidenza!”
Una voce… No, quella voce lo fece sussultare. Erano passati cinque mesi, eppure per lui era come essere tuttora bloccato a quel giorno, a quel corridoio, a quel ritardo per arrivare in aula Incantesimi. Si voltò con quanta calma riuscì a racimolare nonostante quello sgradevole fastidio non si fosse ancora esaurito del tutto da sé e puntò il suo sguardo cupo sulla fonte della voce alle sue spalle.
“Holmes.” sibilò senza celare l’acidume nella voce.
“Watson.” rispose quello, altrettanto sprezzante.
John si concesse diversi istanti per studiarlo e con non poco dispiacere si trovò a pensare che era bello. Cazzo se era bello. Non aveva niente di quell’anatroccolo che aveva conosciuto l’anno prima. Era diventato un cigno, Sherlock Holmes. La zazzera di ricci corvini sempre troppo lunghi era stata sapientemente domata con un taglio elegante e al contempo sobrio, il viso che a stento sopportava – tanto era irregolare e spigoloso – si era improvvisamente come ammorbidito con quegli zigomi pronunciati e quel naso incredibilmente regolare, e – ad un’occhiata più o meno attenta – era innegabile il fatto che anche la massa muscolare fosse incrementata.
“Finito la radiografia, dottor Watson?”
Sussultò e fece abbastanza fatica per frenare la colorazione rossastra che minacciava di chiazzargli la pelle. “I-io…”
“Perfetto, deduco che ti piaccia ciò che vedi. Sono sollevato, non vedevo l’ora di fare colpo su di te.”
“Che cosa vuoi, Holmes?”
Il Corvonero alzò le spalle. “Speravo di poter trovare la solitudine che cercavo qui… Ma a quanto pare ti ho sottovalutato.”
Senza aggiungere altro, il moro gli si affiancò e gli occhi si persero a contemplare la sommità del lago. Lo stesso lago che a entrambi aveva tolto tanto, troppo. Rimasero in silenzio per diversi istanti, senza che nessuno fosse in grado di spiccicare parola, infine John, colto da un improvviso e spasmodico desiderio di sfogare tutto quello che si era depositato in fondo al suo cuore, giorno dopo giorno, parlò: “E così, è stata solo una creatura della Foresta Proibita.”
Con la coda dell’occhio, notò un angolo delle labbra dell’altro guizzare verso l’alto. “Così ci vogliono far credere.”
Si volse immediatamente verso quello, gli occhi sgranati. “Che intendi?”
“Andiamo, Watson, è qualcosa di così ovvio che persino tu dovresti esserci arrivato.”
“Io non-”
“Tu guardi ma non osservi. Il corpo di Victor è stato ritrovato a largo, sul fondo del lago.”
John non celò un tremito a quelle parole così secche circa la morte di Trevor e si domandò come Sherlock potesse parlare in quel modo di una persona che aveva amato e che era scomparsa precocemente dalla sua vita. Possibile che Sherlock Holmes fosse davvero lo stronzo psicopatico arrogante che credeva? Possibile che avesse già superato la cosa? Possibile?
“Non farti tutte queste domande, ti verrà il mal di testa.” interruppe il filo dei suoi pensieri Sherlock, sorridendo sprezzantemente. “Ritornando, ora, al ritrovamento del cadavere… Perché una creatura della Foresta Proibita avrebbe dovuto attaccarlo, trasportarlo fin qui e… in qualche modo, trascinarlo al centro del lago, dove le acque sono più profonde?”
John ripercorse quelle parole dentro di sé, un’espressione confusa in volto. “Mi stai dicendo che-”
“Che è improbabile che un Lupo Mannaro o chissà cos’altro sia stato in grado di trasportarlo così lontano. Soprattutto considerato i calamari giganti e quelle palle al piede degli Avvincini.”
“E questo che cosa significa?”
Sherlock sospirò, ravviandosi i ricci con le lunghe dita pallide. “Non lo so ancora, ma una cosa è certa: non mi fermerò finché non l’avrò scoperto.”
“Ma Dumbledore… Come può essere così sprovveduto da non essersi fatto due domande?”
Un ghigno malizioso affiorò sulle labbra del Corvonero. “E chi ha detto che Dumbledore stesso non sia implicato?”
“Stai accusando il preside della nostra scuola di… c’entrare qualcosa con la morte di Victor?”
Ma il moro scrollò nuovamente le spalle. “Non ho detto questo. Ma non possiamo escludere alcuna ipotesi…” Sospirò e si lasciò cadere seduto a terra, dalla tasca estrasse un pacchetto di sigarette babbane. “Senti, Watson… Non fraintendermi: non è che non gradisca la tua compagnia, ma il continuo fluire dei tuoi pensieri senza senso è fastidioso, quindi potresti… lasciarmi solo?”
John spalancò gli occhi in una muta e altezzosa dimostrazione di stupore, ma poi scorse l’infinita tristezza che, granello dopo granello, stava calando negli occhi dell’altro. Sherlock soffriva. Se ne rendeva conto solo ora. Sherlock aveva rimuginato così tanto sulla morte del proprio fidanzato… che alla fine aveva persino deciso di ricercare la verità. Per un attimo, si chiese se non l’avesse giudicato male e, soprattutto, se Victor non avesse ragione: è molto più fragile di quello che pensi.
Si volse e ripercorse a ritroso la strada che aveva calcato per arrivare fin lì e solo quando fu certo di trovarsi ad una ragionevole distanza si guardò indietro e sorprese Sherlock Holmes accucciato su se stesso, scosso dai singhiozzi.
 
 
Louise non era certo una delle più belle ragazze su cui aveva messo gli occhi, ciononostante era divertente e il modo in cui si mordicchiava spesso il labbro inferiore o quello in cui – addirittura – se lo leccava erano chiari segni che non avrebbe fatto alcuna resistenza se John avesse tentato di portarsela a letto. Si erano seduti in un tavolino appartato de I Tre Manici di Scopa ed era sembrato ad entrambi così naturale sporgersi, a un certo punto, l’uno verso l’altro e iniziare a pomiciare senza alcuna inibizione. John fece scivolare la mano sotto la gonna della ragazza che si ritrovò a ridacchiare e proprio mentre lui si apprestava a proporle di spostarsi in un luogo più appartato accadde l’insospettabile.
“Non riuscirò mai ad abituarmi alla quantità di tempo che i comuni mortali spendono in simili frivolezze.”
Louise si staccò da lui boccheggiando e aggiustandosi la gonna, mentre John si trovò a sospirare profondamente. Quella voce era inconfondibile, così come il tono saccente racchiuso in essa.
“Che diavolo ci fai qui, Holmes?” ringhiò cercando di mantenere il controllo.
Sherlock, in piedi accanto a lui, scoccò un’occhiata di sufficienza alla ragazza e le si avvicinò, senza degnarlo di una risposta. “Spostati, devo sedermi.”
“C-cosa…”
“No, lui sta evidentemente scherzando, Louise.”
“No, invece. Allora? Sei ancora qui? Abbiamo di meglio di cui parlare, io e il tuo ragazzo… Oh, capisco. Quindi è per questo che sei così desiderosa di fare sesso con lui. C’entrano i tuoi genitori… Anzi, quelli che credevi essere i tuoi genitori. Una dimostrazione esplicita di ribellione, un tentativo di provare a te stessa che puoi avere tutto quello che vuoi, quando e come lo vuoi… Peccato che con l’amore materno non sia accaduto lo stesso. O forse paterno?”
Lei si alzò di scatto, completamente rossa in viso e con gli occhi gonfi di lacrime, e infine guadagnò la porta del pub senza nemmeno rivolgere a John un saluto. Quello sospirò e rivolse all’altro un’occhiata di fuoco. “Che diavolo ti dice la testa, eh!? Non hai visto che ero impegnato?”
“A scoparti una ragazzina del terzo anno in un pub pubblico? Sì, ho visto. Ma questo è più importante.”
“Questo cosa?” borbottò il Grifondoro passandosi una mano in volto e accettando la busta che l’altro gli stava porgendo. Mentre Sherlock ordinava una burrobirra, tirò fuori delle carte – al tatto lucide – e le sparse sul tavolo, ma appena gli occhi di John registrarono i dettagli di quelle immagini, il primo istinto fu quello di voltare i fogli e di vomitare. “Non è possibile…”
“Watson-”
“E’… è lui…”
Sherlock si sporse in avanti e, prendendogli con insolita delicatezza il mento, lo costrinse a distogliere lo sguardo da quelle foto e incrociarlo col proprio. “Lo so che è difficile. Non pensare a lui, ora… Fa finta che sia qualcun altro. Ma ho bisogno che guardi queste fotografie.”
Guardava il viso stranamente dolce del Corvonero e cercava di raccogliere le idee e la forza per contemplare quelle fotografie, ma gli sembrava di non avere le palle per farlo. Infine, dopo un lungo respiro, lasciò scivolare gli occhi sul soggetto delle immagini, abbandonato su un lettino dell’infermeria, il volto coperto da strisce nere decisamente lasciate da una penna d’oca.
“Il viso-”
“Ho pensato che sarebbe stato meglio coprirlo per non… soffermarcisi esageratamente, anche perché era completamente sfigurato.”
“Meglio per chi?”
Gli occhi di Sherlock si colmarono di tristezza. “Per entrambi.”
Era passata una ventina di giorni da quando si erano rincontrati sulle rive del Lago Nero e per la seconda volta John si chiese come non avesse mai notato tutta quell’umanità che trasudava da quel viso magro e bello. Possibile che solo Victor fosse stato in grado di scorgere quel suo aspetto? O magari, Victor c’entrava, sì, ma più che aver scorto l’umanità di Sherlock, l’aveva suscitata?
“Come hai avuto queste foto?”
“Mio fratello lavora al Ministero e ha grande influenza nella Squadra Speciale Magica. Non puoi neanche immaginare quanto mi sia costato chiedergli questo favore, ma ora non è importante come mi sono procurato le foto, ma che cosa dimostrano le foto.”
“Non ti seguo.”
“Guardale attentamente, John. Hanno detto che è stato l’attacco di una creatura della Foresta Proibita…”
“… Ma sul corpo non ci sono segni di aggressione di alcun animale.”
“Ho letto decine di tomi sulle creature della Foresta Proibita, ma nessuna di queste potrebbe uccidere senza lasciare traccia.”
“Ma hai detto che il viso era sfigurato.”
“Un ricordino che devono avergli lasciato gli Avvincini quando il corpo di Victor è stato buttato in mare.”
John intrecciò le mani davanti a lui mentre Madama Rosmerta poggiava sul loro tavolo la Burrobirra ordinata da Sherlock, il quale vi si avventò senza troppi complimenti.
“Com’è morto, Holmes?”
“Io direi piuttosto… Perché è morto?”
“Okay, quindi… Che cosa credi l’abbia ucciso?”
“Di nuovo domanda errata, Watson.” lo corresse ancora il Corvonero, pulendosi un residuo della bevanda dalle labbra piene sfregandovi elegantemente l’indice. Gesto che gli occhi di John, per qualche strana ragione, catturarono con un insolito interesse. “La domanda corretta è invece… Chi l’ha ucciso?”
A quelle parole, spalancò contemporaneamente occhi e labbra. “Vuoi dire che Victor è stato assassinato?”
Sherlock si piegò in avanti, lasciandogli intuire di fare altrettanto, in modo da creare una sorta di barriera col resto del mondo. “Non credi anche tu che sia l’unica spiegazione plausibile? Io credo… anzi, sono piuttosto convinto che la causa della morte sia… L’Anatema che uccide.”
“La terza maledizione senza perdono?” sussurrò John senza fiato.
Il moro annuì solennemente.
“Ma… Le maledizioni sono illegali. E poi chi potrebbe mai trarre guadagno dall’uccidere un semplice studente di Hogwarts?”
Un sorriso soddisfatto piegò le labbra di Sherlock. “Perfetto. Finalmente hai iniziato a porre le domande giuste.”
E detto questo, si alzò in tutta fretta, aggiustandosi i ricci ribelli con plateali gesti della mano, ma John lo bloccò prima che potesse muovere un passo, prendendolo per il colletto della divisa e tirandoselo vicino, così tanto che i loro nasi si sfiorarono.
“Se quello che dici è vero dobbiamo informare immediatamente Dumbledore.”
Sherlock sospirò con aria frustrata. “Che cosa avete tutti nei vostri piccoli cervelletti? Dev’essere rilassante non essere me. Watson, se Dumbledore stesso ha dichiarato che la morte di Vic è dovuta all’attacco di una creatura della Foresta Proibita, credi davvero che accoglierebbe le nostre ipotesi a braccia aperte? E’ ovvio che Dumbledore sa.”
“Ma allora perché-”
“Non ne ho idea, Watson. L’unica cosa che so è che non mi fermerò prima di aver fatto luce su questa storia.”
E John, nei suoi occhi, vide crepitare la fiamma della determinazione e della passione che stava mettendo nel cercare la verità. Chissà se quelli erano gli stessi occhi con cui guardava Victor… Non si era mai soffermato a guardare lui quando trascorreva del tempo con la coppietta di sposini, come aveva preso a chiamarli malignamente. Durante quelle uscite a tre, i suoi occhi erano troppo concentrati nell’osservare quella stupida felicità dipinta sul volto dell’amico. Magari, se avesse prestato maggiore attenzione a Sherlock, si sarebbe ricreduto e, forse – forse – avrebbe persino augurato loro tutta la felicità del mondo.
“Sei con me, Watson?” gli domandò con voce calda il moro, staccandosi appena dal suo viso per far sì che potessero contemplarsi meglio.
“Conta su di me, Holmes.”
Sherlock si esibì in un sorrisetto di vittoria, mentre si allontanava da lui, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. “Perfetto. Visto che è tutto chiarito, io andrei. Oh, non ti dispiace offrirmi quella Burrobirra, vero?”
Ma John non fece in tempo a replicare che l’altro era già sparito fuori dal locale, scoccandogli un occhiolino decisamente irritante. Sbuffò e lasciò sul tavolo il denaro per le tre Burrobirre, maledicendo quello sbruffone di un Corvonero per aver mandato a monte la sua scopata e il suo buon umore per il weekend.
 
 
C’era l’unicorno. Non era più un unicorno. Era sempre quello, sempre lo stesso. L’unica cosa che si differenziava, erano gli occhi. A volte aveva quelli di suo padre, a volte quelli di sua sorella, a volte quelli di Victor. Ma ora… ora l’unicorno non aveva occhi. Anzi, li aveva ma erano completamente ottenebrati, neri come la pece. John rimase, come al solito, incapace di compiere alcun movimento. Se ne stava lì, ad osservare quella creatura. D’improvviso, un lampo oscuro lo abbagliò, parandosi fra lui e l’unicorno. John urlò, ma dalle sue labbra non uscì suono, e il groviglio ti tenebre iniziò a prendere forma, addensandosi, rimestandosi, contorcendosi. John non fece in tempo a scorgere la forma assunta, perché un sibilo gli s’infilò nelle orecchie, malefico e serpentesco.
John Watson… L’erede del potere… Il piccolo Johnny… Il potere… La chiave… Il cuore di tutto… Mio…
 
 
Si svegliò gridando e muovendo confusamente le braccia nell’oscurità densa attorno a lui. Percepiva il cuore battere forsennatamente in lui e l’aria farsi sempre più calda e insufficiente a dare sollievo ai suoi polmoni.
“Watson? Watson, Cristo, ci sei?”
Una voce. Una voce che lo chiamava. Una voce che non riusciva a delineare. Strabuzzò gli occhi nelle tenebre, ma ogni cosa rimase di quel nero palpabile. Vedeva l’unicorno e il lampo nero e udiva ancora quella voce serpentesca. Prese a tremare e a farfugliare cose prive di senso, finché non avvertì un dolore alla guancia e non si ritrovò nuovamente sdraiato sul suo letto, ora oppresso da una presenza sconosciuta che gli percuoteva il viso con schiaffi poderosi.
“Svegliati, idiota!”
Con uno sforzo d’addominali, riuscì a sollevarsi a sedere, ribaltando la situazione instauratasi col suo aggressore e schiacciandolo sul materasso, un braccio premuto sul pomo d’Adamo.
“Watson! Sono io, per l’amor del cielo!”
Impiegò non pochi secondi a registrare quella voce. “Holmes?” borbottò mentre allungava la mano verso il suo comodino, dove teneva la bacchetta, e mormorava un Lumos frettoloso. In breve, la punta di questa rischiarò appena le tenebre e lui ringraziò interiormente le tende rosse che separavano i letti degli altri compagni di stanza. Quando il viso di Sherlock comparve nel suo campo visivo, rafforzò ancor di più la presa sulla sua gola anziché indebolirla. “Che diavolo ci fai qui? Come hai fatto ad entrare? E poi che diavolo di ore sarebbero?” sibilò per evitare di svegliare gli altri.
“Una domanda alla volta, Watson. Per prima cosa non ho idea di che ore siano, so soltanto che ti ho chiesto di passarmi un libro di Difesa contro le Arti Oscure un’ora fa e tu hai deciso di ignorarmi; poi, non stupirti del fatto che abbia impiegato meno di trenta secondi per indovinare la parola d’ordine dei dormitori, non è certo Fortnox; e infine, sono qui per chiederti una cosa a proposito di Victor. Tutto chiaro, finora? Ah, un’altra cosa, pensi di farmi parlare tutto il tempo con te sopra? Anche se come copertura non è per niente male, devo ammetterlo…”
John si affrettò a scattare in piedi e, con un gesto allusivo della mano, gli intimò di seguirlo fino alla sala comune senza emettere verbo. Una volta accomodati sulle due poltrone rosse di fronte al caminetto che Sherlock si premurò di accendere con un incantesimo Incendio, il Grifondoro prese un respiro profondo e incoraggiò l’altro a proseguire, ma nel frattempo prese a rimuginare sulle parole del moro.
“Dunque, come ti dicevo-”
“Aspetta, aspetta, aspetta… Mi hai chiesto di passarti un libro… un’ora fa?”
“Lieto che tu non sia diventato sordo o completamente stupido nel frattempo.”
“Ti rendi conto che un’ora fa ci eravamo già separati a Hogsmade e che un’ora fa io ero già sotto le coperte a dormire?”
“Oltre a non abituarmi mai alla quantità di tempo che i comuni mortali spendono in frivolezze come le relazioni, non mi abituerò mai alla quantità di tempo che i comuni mortali spendono per dormire o per mangiare.”
John gli rifilò un’occhiata dubbiosa. “Da quant’è che non dormi?”
Sherlock scrollò le spalle. “Non ne ho idea.”
“E da quant’è che non mangi?”
“Due giorni? Di più? Non ricordo, credo di essermelo dimenticato…”
Dimenticato? Come puoi essertene dimenticato?!”
“Calmati, adesso. Andrò a rubare qualcosa dalle cucine più tardi se mi ricorderò.”
“Stai scherzando, spero.”
Sherlock sbuffò e allungò le gambe snelle e toniche, arrivando ad appoggiarle sui braccioli della poltrona di John. “Tornando a noi, volevo chiederti se negli ultimi giorni, prima della scomparsa di Victor, hai mai avuto il sentore che si stesse comportando in modo strano.”
Il Grifondoro vi rifletté a lungo, ma la verità era che non ne aveva la minima idea. Come poteva? Era stato così assente nella vita del suo migliore amico proprio a causa di Sherlock. Anzi, a causa propria. Perché ora che lo conosceva, ora che conosceva quel Corvonero che aveva ripudiato così tanto, iniziava a capire che cosa Victor avesse visto in lui. Scorgeva il dolore, il lutto, l’amore in quelle iridi all’apparenza fredde. E John se ne sentiva sempre rapito, come se non fosse in grado di sostenere quella valanga di emozioni col solo sguardo.
“Non ne ho idea… Nell’ultimo periodo, ci siamo allontanati molto.” confessò a mezza voce.
Sherlock continuò a guardarlo senza scomporsi. “Infatti non te lo stavo chiedendo in qualità di amico, ma di compagno di stanza. Devi esserti reso conto di qualcosa.”
Indurì lo sguardo, improvvisamente colpito al centro del proprio orgoglio. “Non so se te ne sei reso conto, ma nell’ultimo periodo erano rari i giorni che passava al dormitorio.”
“Ancora questa stupida gelosia, Watson?”
La voce del moro era secca, lapidaria, e lui, nuovamente, avvertì un colpo poderoso all’altezza del petto. Aveva ragione: doveva smetterla con quello stupido passato che lo tormentava. Scaricava la colpa su Sherlock solo perché non riusciva ancora a perdonarsi la propria.
“Era nervoso.” rispose alla fine. “Mentre prima si svegliava sempre all’alba per sgattaiolare da te, negli ultimi tempi tendeva sempre a muoversi in gruppo. E poi… guardava spesso fuori dalla finestra, come se stesse cercando qualcosa.”
“O qualcuno.”
John annuì. I ricordi riaffioravano a mano a mano che le sue labbra pronunciavano quelle parole, e lui rivide Victor, fermo di fronte alla finestra, gli occhi che si muovevano come impazziti per il grande cortile. Ma allora, non vi aveva mai dato peso.
“Comunque, il tuo racconto coincide.”
“Con cosa?”
“Con quello che ho notato io. Nonostante le belle giornata, non voleva mai andare di fuori. Quando ci allontanavamo troppo dalle aree più popolate della scuola diventava nervoso, quasi nevrotico, e guardava sempre il suo orologio da taschino in un comportamento compulsivo che dimostrava la spasmodica attesa delle lezioni. Inoltre, aveva anche rinunciato alle apparenze – uniforme indossata per due settimane intere, bacchetta impolverata, capelli in disordine, persino un accenno di barba – quasi si dimenticasse… O magari non aveva aspettative verso il futuro.”
“Quindi sapeva che sarebbe morto. E’ questo che stai dicendo?”
Sherlock congiunse le mani sotto il mento e distolse gli occhi dai suoi, osservando il crepitio delle fiamme. “Era stato minacciato.” sentenziò infine il moro. “E se così è stato, deve per forza esserci una qualche traccia di tale minaccia. Gli effetti personali. Che fine hanno fatto gli effetti personali di Victor?”
John ci pensò su per qualche secondo e il suo volto si illuminò improvvisamente. “La famiglia. Ovviamente sono stati restituiti alla famiglia.”
“Babbani. Eccellente. Più predisposti a farsi raggirare rispetto ai maghi.”
“Che intendi fare?”
“Per ora niente. Ci sono ancora diversi fattori da prendere in considerazione.”
Sherlock si alzò in piedi, stirando le braccia dietro di lui e gemendo appena. John inarcò un sopracciglio mentre lo osservava dirigersi verso l’uscita.
“Bene, è arrivato il momento che io torni nei dormitori a riflettere.”
Ma John fu più rapido e con un balzo felino gli ghermì il braccio, tirandolo indietro. “Stammi a sentire, Holmes. Adesso io e te andiamo a recuperare qualcosa da farti mangiare.”
“Watson, per piacere! Mangiare rallenta i processi mentali. Capisco perché siete tutti così stupidi, visto che non fate altro che anestetizzare la mente con ore ed ore di sonno e imbottite il corpo con tutto quel-”
Il Grifondoro afferrò prontamente la bacchetta e con un ghigno malizioso sussurrò: “Silencio.”
Gli occhi di Sherlock si fecero grandi di stupore e fece per aprire la bocca, ma non vi uscì alcun suono. L’espressione assassina che si dipinse sul volto del moro distrusse ogni tentativo di John di trattenersi dal ridere.
“Si sta così in pace quando non parli.” osservò passandogli un braccio intorno alle spalle e trascinandolo fuori dai dormitori. “Ora che ci penso, come si accede alle cucine?”
Il moro gesticolò furiosamente, annaspando quasi, ma alla fine si rassegnò al suo mutismo forzato e incrociò le braccia al petto, in segno di sfida.
“No, non ti toglierò l’incantesimo. Durerà fin troppo poco e voglio godermi questi momenti il più possibile.”
Sherlock inarcò un sopracciglio, ma non diede segno di ribellione.
“Perfetto. Si trovano nei pressi della Sala Grande, vero?”
L’altro annuì.
“Ma ovviamente sono celate agli occhi degli studenti.”
Altro segno d’assenso.
“Ma tu sai come accedervi.”
E per la terza volta, Sherlock confermò col capo.
Si avventurarono insieme per i corridoi bui della scuola, scivolando furtivamente a ridosso delle pareti, timorosi che quella canaglia di Filch e della sua gatta potessero sbucare da un momento all’altro, cogliendoli in flagrante. Una volta nella Sala Grande, Sherlock gli indicò un immenso quadro raffigurante un mastodontico cesto di frutta e, senza degnarlo di ulteriori spiegazioni – come se effettivamente ne fosse in grado – solleticò la pera in primo piano che, dopo una risatina, prese a mutare forma, rivelando la maniglia di una porta.
“Wow.” sussurrò lui ammirato. “Non smetterò mai di sorprendermi delle stranezze di questo castello.”
Sherlock sorrise sornione e si infilò dietro la porta che conduceva, appunto, alle cucine, un salone enorme costellato di tavolate identiche a quelle della Sala Grande. Sulla parete direttamente opposta all’entrata, stavano ovviamente i banconi da lavoro su cui un centinaio di Elfi erano già indaffarati a preparare le pietanze per la mattina dopo.
“Sherlock caro!” cinguettò una vocetta.
Si volsero entrambi e, di fronte a loro, comparve la figura di un’anziana signora dal viso gioviale, ma severo, con le mani allacciate ai fianchi.
“Questa brutta abitudine di saltare i pasti per poi venire qui ad elemosinare contro le regole della scuola deve assolutamente andare corretta. Dovrei scambiare qualche parola con tua madre, giovanotto.”
Ma Sherlock indicò frettolosamente – e con aria parecchio infantile – il Grifondoro accanto a lui, che per tutta risposta rivolse un sorriso angelico alla signora, allungandole una mano. “Piacere, io sono John Watson. Sono stato io ad insistere per accompagnarlo qui visto che non tocca cibo da… tempo non specificato.”
La donna sospirò, scuotendo la testa, ma si affrettò a stringere calorosamente la mano del ragazzo. “E’ un piacere vedere che Sherlock ha finalmente trovato la forza di voltare pagina dopo… Oh, basta rivangare brutti ricordi. Io sono Mrs Hudson, comunque, e mi occupo di sovrintendere l’eccelso lavoro di questi piccoli cuochi. Venite, cari, venite! Abbiamo giusto qualche pasta appena sfornata.”
John non fece in tempo ad elaborare alcun pensiero, perché si ritrovò seduto accanto a Sherlock, davanti un piatto traboccante di dolci e una tazza fumante di latte caldo. Sebbene non fosse nei suoi piani mangiare a sua volta, alla sola vista di quelle leccornie percepì il suo stomaco brontolare e così si avventò sulle cibarie. A metà porzione, scoccò un’occhiata a Sherlock e, con sua immensa sorpresa, scoprì che aveva già spazzolato la sua razione.
“Si vede che non mangiavi da giorni.”
Il moro sbuffò e si avvicinò la scodella di latte alle labbra, ignorandolo completamente. Era strano, ma improvvisamente John sentiva il bisogno di rimuovere quello stupido incantesimo: contro ogni aspettativa immaginabile, cominciava quasi a sentire la mancanza di quella voce baritonale e calda, petulante e saccente, è vero, ma estremamente confortante. Più tempo trascorreva in compagnia di Sherlock e più si rendeva conto di quanto piacevoli fossero i momenti condivisi con lui. Era come essere entrato a far parte di un’avventura. La cosa più spericolata che aveva mai fatto in vita sua era stata lanciarsi dalla scopa per afferrare il boccino d’oro nella sua prima partita di quidditch contro Serpeverde, invece ora si ritrovava a gironzolare per la scuola di notte, sgattaiolando nelle cucine e arraffando dolci deliziosi appena sfornati, e ad indagare sul mistero della morte del suo migliore amico. A quel pensiero, provò un’istintiva stretta allo stomaco. La mancanza di Victor si stava via via affievolendo, come se Sherlock avesse riportato un equilibrio che aveva perso alla notizia della morte di Trevor. Gli scoccò un’occhiata furtiva. Probabilmente, Sherlock conservava una parte di Victor. Probabilmente, Sherlock era tutto ciò che gli rimaneva di lui. Si chiese se anche per l’altro fosse lo stesso.
“Non capitava da un po’.”
La voce del moro lo riscosse dai suoi pensieri, ma non fu affatto sorpreso di scoprire che l’incantesimo si fosse già esaurito. Era davvero bella la sua voce.
“Che cosa?”
“Che qualcuno si occupasse di me. L’ultima persona – e forse anche l’unica – è stato Victor.”
John lo guardò attentamente. “La tua famiglia? Hai detto di avere un fratello? Non si prendono cura di te?”
Sherlock ridacchiò. “Mio fratello è eternamente preoccupato. Se alla sua preoccupazione sommiamo la sua smania di grandezza e di controllo, ti lascio immaginare i risvolti del suo prendersi cura di me.”
“E i tuoi genitori?”
“Mio padre è sempre stato troppo impegnato col suo lavoro da Auror e mia madre… beh, mia madre è una babbana a cui è crollato il mondo addosso quando era già incinta del secondogenito – sono io per la precisione, salve – e ha scoperto che sia suo marito sia il primo figlio erano maghi. Se n’è andata dopo avermi messo al mondo e aver scoperto che anche io ero diverso da lei.”
John aprì e chiuse le labbra svariate volte, incapace di proferire parola. “Mi… mi dispiace.”
“Perché?” chiese Sherlock voltandosi e rivolgendogli un’occhiata profonda. “Perché ti dispiace? Non è colpa tua.”
“Mi dispiace per quello che avrai dovuto passare.”
“Non è così orribile come sembra.”
“Se fossi stato in te, avrei di certo avuto problemi ad accettare me stesso e mi sarei continuamente chiesto che cosa ci fosse di sbagliato in me. Alla fine, sarei semplicemente arrivato alla conclusione che se il mondo per primo non mi accettava, allora nessuno l’avrebbe mai fatto, e sarei cresciuto da solo e scorbutico.”
Si guardarono a lungo senza parlare, negli occhi del Corvonero, John vi scorse una solitudine immensa, che mai aveva intravisto in quelle iridi e provò l’impulso di abbracciarlo, ma ovviamente si trattenne.
“E tu? Sei un Purosangue, un Nato Babbano o un Mezzosangue come me?”
“Nato Babbano. O almeno credo. Neanche io ho conosciuto mia madre. E’ morta dando alla luce mia sorella minore, Harriet.”
“Deduco che sia una Babbana come i tuoi genitori, visto che non mi sembra che dal tuo modo di parlare sia qui ad Hogwarts.”
John sorrise tristemente, distogliendo lo sguardo e puntandolo sui resti del suo spuntino notturno. “E’ morta. Con mio padre. Un incidente stradale.”
“Oh.” mormorò solamente Sherlock e quelle parole caddero in un silenzio che si protrasse per diversi minuti.
“Ad ogni modo” esordì ad un certo punto il Grifondoro alzandosi in piedi. “d’ora in avanti considerati sotto il mio mirino, Sherlock. Ti trascinerò ad ogni singolo pasto, se serve, e ti imboccherò a forza quando ti rifiuterai di mangiare. E avrai una vita sociale, Sherlock, parola mia. Non puoi continuare a rintanarti Dio solo sa dove a fare Dio solo sa cosa… Perché mi guardi così?”
Sherlock lo stava fissando con occhi grandi di meraviglia e le labbra mezze schiuse. “E’… è la prima volta che mi chiami col mio nome.”
“Ah… Beh, direi che questo teatrino può anche smettere di esistere, no? Siamo amici e, in linea teorica, gli amici non si chiamano per cognome.”
“A-amici?”
“Sì, Sherlock, amici. In questo momento, lo stupido fra i due sei tu. Devo farti un disegnino?”
Il moro distolse lo sguardo, con aria offesa, ma bastarono pochi secondi perché quell’espressione si sciogliesse in una dolce e nostalgica. “Non ho mai avuto un amico prima d’ora. Cioè… c’è stato Victor, in un certo senso, ma con lui è stato diverso sin dal principio.”
“Non so se avere paura o sentirmi onorato, a questo punto.” ironizzò John dirigendosi verso l’uscita delle cucine, ringraziando Mrs Hudson per la sua ospitalità.
Una volta nell’atrio, si guardarono rapidamente intorno, per constatare che non vi fosse nessun segno di Filch, infine si salutarono sbrigativamente, dirigendosi ognuno verso il proprio dormitorio. John sorrideva. Non sapeva perché sorridesse, ma provava uno strano calore all’altezza del petto, come quando trascorreva serenamente il tempo con Victor.
“Ehi!” sibilò in lontananza la voce di Sherlock, costringendolo a voltarsi. “Occhio a non farti beccare… John.”
E il sorriso di quest’ultimo si allargò ancora di più.
 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO DUE ***


CAPITOLO DUE
 
Era un pigro Lunedì di Novembre. Hogwarts si portava ancora addosso gli strascichi di quel weekend freddo, per non dire gelido, che aveva fatto affacciare i primi nuvoloni gonfi di neve sulle torri del castello. La scuola sembrava come abbracciata da un clima ancora assopito, da quella sensazione di torpore che ti intirizziva il corpo, sussurrandoti soavemente di indugiare ancora un poco, la mattina presto, rannicchiato nelle coperte.
John si alitò sulle mani gelide, nonostante ammantate dai guanti. L’abitudine di Greg di fare qualche tiro a cavallo della scopa la mattina presto non era certo scomparsa con l’assenza di Victor, e John era ovviamente diventato la vittima sacrificale di quelle folli idee che s’insinuavano nel cervello dell’amico. Certo, poteva andargli peggio, poteva essere Molly e doversi sopportare le genialata di Greg non solo la mattina presto col quidditch, ma anche in contesti più rilevanti.
“JOHN! TI SEI ADDORMENTATO!? TIRA QUELLA PLUFFA, AVANTI!” gli urlò l’amico, un puntino a malapena visibile nella cappa di nebbia che avvolgeva il campo.
“ECCO!” gridò di rimando, sospirando subito dopo: non era bravo a fare il Cacciatore. Insomma, lui era un Cercatore, uno dei migliori dell’ultimo decennio, secondo l’opinione pubblica, ma il miglior Cacciatore di Grifondoro dell’ultimo decennio – e non solo secondo l’opinione pubblica, ma anche secondo quella dei critici esperti – era Victor. Victor che era morto. E ancora lui non riusciva davvero a farsene una ragione. Per altro, l’avere a che fare con Sherlock Holmes stava rendendo questa metabolizzazione del lutto ancora più difficoltosa. Come poteva dimenticare Victor quando la persona da lui amata non faceva che scoccargli occhiate di sfida e sorrisetti provocatori ogniqualvolta si incontravano per i corridoi?
“JOHN! NONNA LESTRADE SA ESSERE MOLTO PIU’ RAPIDA DI TE!”
Gli strepiti seccanti di Greg lo destarono dai suoi pensieri e lui digrignò i denti, infastidito, caricando il colpo. Prese lo slancio e scagliò la Pluffa in direzione degli anelli di fronte a cui stava un Lestrade trepidante ed eccitato come una matricola del primo anno appena salito sulla scopa. Un Lestrade che, colto di sorpresa, non si accorse dell’arrivo della palla e rimase spiazzato ad osservarla entrare con precisione millimetrica in un anello.
Molly, seduta accanto al baule delle palle, scattò in piedi applaudendo e lanciando gridolini di giubilo per aver appena vinto la scommessa col suo fidanzato. John, ancora sorpreso per quel fatto, si passò una mano fra i capelli, accennando un sorriso. Accade tutto nella frazione di un secondo. Il baule delle palle si spalancò improvvisamente, e da esso si riversò fuori il boccino d’oro che sfrecciò a tutta velocità a un palmo dal naso del Grifondoro.
“Che diavolo…” biascicò spalancando gli occhi e osservando il boccino innalzarsi sempre di più, fino a venire inghiottito dalla pesante cappa di nubi. Solo quando la voce di Molly gli gridò di recuperarlo, si riscosse dal suo stato interdetto e si affrettò all’inseguimento della minuscola pallina alata. Si fiondò nelle nuvole spumose e presto tutto assunse contorni distorti, grigiastri, i suoi occhi faticarono ad ambientarsi a quella luce particolare che gli feriva la retina. Improvvisamente, il suo sguardo allenato da anni di duri allenamenti intravide un movimento alla sua sinistra. Fece appena in tempo a voltarsi per vedere il boccino scattare verso di lui, colpendolo in pieno viso e sbalzandolo a diversi metri, senza però riuscire a disarcionarlo dalla scopa. John gemette appena, portandosi una mano al labbro sanguinante: non capiva. Non gli era mai successo nulla del genere prima d’ora. Che il boccino si rivelasse frustrante e inafferrabile era un conto, ma che si prendesse la briga di attaccarlo era un altro.
Una violenta folata di vento lo sospinse brutalmente verso l’alto e lui si ritrovò con le braccia avvolte attorno al manico di scopa, mentre cercava di combattere la forza dell’aria appiattendosi contro di esso. Per la seconda volta, il boccino lo tramortì in piena faccia. Con un ringhio esasperato si allungò verso la pallina alata che proprio in quel momento stava ripartendo alla carica, pronta a colpirlo per la terza volta, e riuscì a ghermirla con un verso vittorioso, i denti ancora scoperti, quasi animalescamente. Appena fu nelle sue mani, il boccino si acquietò, ma fu questione di pochi secondi, perché il suo corpo si spalancò in due, emettendo una luce talmente accecante da costringere John a serrare gli occhi. Non vedeva niente. Non vedeva davvero niente, dannazione. Dov’era? Dove diavolo… era? Un fischio lancinante gli squassò i timpani e il Grifondoro credette d’essersi portato le mani alle orecchie perché, fortunatamente, quel fastidiosissimo suono sembrò attenuarsi un poco.
Johnny? Johnny? Perché ti nascondi? Tanto sai che ti troverò, Johnny… E’ questione di tempo… Pochissimo tempo, Johnny… E sarai mio.
 
 
Quando riaprì gli occhi, John era disteso e i suoi occhi impiegarono diversi istanti a mettere a fuoco il cielo plumbeo su di lui. Gli sembrava di sentire qualcosa… Voci. Delle voci. Erano voci? Tutto gli appariva distorto e confuso… Dove… dove si trovava? Ricordava di aver segnato con un tiro di fortuna e poi… e poi il boccino che si liberava indisturbatamente verso il cielo, lui che lo rincorreva e poi quella sorta di realtà distopica in cui era finito, con quella luce, quelle percosse da parte del boccino d’oro e… Johnny.
Fece per scattare in piedi, ma una fitta fulminante alla testa lo immobilizzò a terra, facendolo gemere.
“Piano, idiota.” sibilò una voce accanto a lui.
Gli bastò ruotare la testa di poco perché scorgesse il volto freddo di Sherlock. “Sherl… Sherlock?”
“Direi che le tue già di partenza scadenti facoltà mentali non abbiano riportato danni irreversibili.”
“Che è successo?”
Il moro sospirò, scuotendo la testa. “Sei caduto dalla scopa. Fortunatamente hai fatto un volo di appena tre metri, niente di che. Proprio come un pivellino.”
John decise di soprassedere a quell’ultimo commentino provocatorio. “E tu che diavolo ci fai qui?”
“Ho incontrato il tuo amico… Geoffry… Gavin…”
“Greg.” sussurrò una voce delicata alla sua destra che John riconobbe come quella di Molly, la cui presenza non era ancora stata registrata da lui.
“Lui. Insomma, l’ho incontrato che correva per i corridoi, pallido come un morto, e mi ha informato dello… spiacevole inconveniente. A quest’ora avrà già inutilmente avvisato Madama Chips.”
“Cos’era quell’esitazione prima di spiacevole inconveniente?” gracchiò John, cercando, per la seconda volta, di levarsi a sedere.
“Sarà stata solo una tua impressione.”
“A me non sembrava proprio…”
“Credo che tu abbia delle allucinazioni. Forse chiamare Madama Chips non è poi una così brutta idea.”
Allucinazioni. Quella parola cambiò tutto.
Tanto sai che ti troverò, Johnny… E’ questione di tempo…
“Io ho… Ho sentito una voce.”
“Perfetto, direi che siamo a cavallo.” replicò Sherlock acidamente.
“No, io ho…”
Ma le sue parole vennero interrotte dall’arrivo di Greg, completamente trafelato per la corsa, affiancato da Madama Chips, a sua volta accaldata e senza fiato. “Oh cielo…” mormorò la donna inginocchiandosi accanto a lui. “Ma che vi prende a voi benedetti ragazzi a quest’età… Ha dolori, signor Watson?”
“Alla testa…”
“Solo alla testa?”
John annuì.
“E’ stata una caduta insignificante, Madama Chips. Io non sarei così preoccupato fossi in lei…” osservò il Corvonero affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Non una parola di più, signor Holmes… Oh povera me, quando lo verrà a sapere il preside…”
John avvampò immediatamente, mentre, accanto a lui, Sherlock stringeva appena gli occhi. “N-non c’è bisogno che Dumbledore lo venga a sapere… Non stavo facendo niente di male…”
“No, ma certo che no, benedetto ragazzo… Coraggio, alzati. Signor Lestrade, può aiutarmi a…”
“Lasci, faccio io.” intervenne repentinamente il Corvonero, chinandosi su di John per caricarselo malamente addosso, sorreggendolo per un braccio.
Il Grifondoro rimase interdetto da quel gesto così scorbutico eppure così empatico. Che si stesse preoccupando per lui? John non sperava in tanto, forse neanche gli importava. Era vero che quella sera, nelle Cucine, aveva detto all’altro di essere suo amico, ciononostante il loro rapporto era ancora così strano e denso di tanti piccoli trascorsi risalenti a quella che sembrava una vita prima che lui non riusciva a ritenere Sherlock tale. Era diverso da Greg o da Molly, ma soprattutto era diverso da Victor.
“Vi accompagniamo…” pigolò la voce ancora mezza impaurita di Molly, che aveva da poco raggiunto Greg, stringendogli una mano.
“Non se ne parla.” rispose Madama Chips scoccandole un’occhiata tra il severo e il comprensivo. “Capisco la vostra preoccupazione, ma è orario di lezioni e anzi, se non vi sbrigate perderete l’inizio della prima ora.”
“Piton ci scuoierebbe vivi.” biascicò Greg deglutendo rumorosamente, probabilmente intento a figurarsi l’immagine del temibile professore di Pozioni mentre lanciava loro contro una maledizione crociatus o chissà quale altra diavoleria… “Effettivamente, credo proprio dovremmo muoverci, piccola.”
“Ma John…”
“Me la caverò, Molly.” la rassicurò il biondo con un sorriso forzato.
“Ti prometto che se proverà ad alzarsi dal letto prima di essere completamente apposto, gli darò una botta in testa.” rimarcò Sherlock indirizzando alla ragazza quello che si manifestò come un ghigno derisorio, ma in cui John riuscì a leggere un qualcosa di simile all’affetto. E Molly dovette essere dello stesso avviso, perché invece che rimpicciolirsi come soleva fare di fronti a sguardi provocatori come quello, si lasciò andare ad un sospiro sollevato.
“E va bene. Passeremo a trovarti alla fine delle lezioni del mattino, promesso.”
“Ci conto.”
John osservò i due amici inerpicarsi rapidamente verso il castello e si ritrovò a sospirare a sua volta, come se fosse finalmente libero di respirare. Madama Chips precedette lui e Sherlock, macinando ad ampie e inquiete falcate la strada che conduceva all’infermeria. Sorretto dalle braccia stranamente forti dell’altro e inondato del suo profumo gradevole, il Grifondoro chiuse gli occhi e lasciò vagare la mente a quell’irreale visione che non riusciva ancora a collocare in un contesto definito: sogno o realtà? Non ne era sicuro. L’impalpabilità e il candore accecante in cui si era trovato sospeso in quel breve – o lungo? – lasso di tempo sembrava quasi ispirare contorni onirici, eppure… Quella voce. Quella voce gli aveva sibilato all’orecchio in un modo così… così… Familiare? Gli sembrava di averla già sentita da qualche parte. Ma dove? E quando?
“John.”
La voce baritonale di Sherlock a così poca distanza dal suo padiglione oculare lo fece rabbrividire.
“Che c’è?”
“Dobbiamo parlare.”
John scrutò il viso dell’altro e lo trovò mascherato da un’espressione tesa, quasi apprensiva. “Immagino che non c’entri il mio imbarazzante incidente.”
“No… O meglio, non lo so… Ti spiegherò una volta soli.” si affrettò a concludere il Corvonero proprio mentre Madama Chips, immobile sulla soglia dell’infermeria, si voltava verso di loro stirando un debole sorriso e faceva loro cenno di entrare.
John lasciò che Sherlock lo sistemasse senza troppa grazia o riguardo su uno dei lettini più isolati dello stanzone, nonostante fosse completamente vuoto, mentre la donna era spirita nel suo ufficio a reperire tutto il necessario per occuparsi di lui.
“Sto ancora aspettando.”
“Dopo. Prima dobbiamo liberarci di quella spina nel fianco di Madama Chips.”
“Guarda che ti ho sentito, giovanotto!” insorse inviperita la donna in questione, arrivando con le mani strette attorno a due bicchieri, in uno dei quali vi era semplice acqua – probabilmente per aiutare a mandar giù qualche pasticca – e nell’alto un intruglio dall’odore per niente invitante. “E che cosa vorreste fare voi due senza questa spina nel fianco? Manda giù tutto d’un sorso, ragazzo, e non annusare.”
“Troppo tardi” pensò il biondo accettando il bicchiere con la mistura riluttante.
“Beh, credo che con uno sforzo d’ingegno potrebbe arrivarci anche lei… Sa, vorrei accertarmi che John non abbia riportato ulteriori lesioni. Operazione che richiederebbe un… controllo approfondito un po’ ovunque, molto da vicino…”
John per poco non sputò il beverone, tanto era il sapore nauseante e tanta era la sorpresa a quelle parole, ma riuscì a trattenersi all’ultimo solo immaginandosi la faccia e le urla isteriche di Madama Chips. Così, si limitò a colorarsi di un imbarazzante ed infuocato colore rosso a chiazze per tutta la faccia e anche oltre. Portò il suo sguardo sbarrato sull’altro che, completamente a suo agio, stava fissando un altrettanto sbigottita Madama Chips. Sherlock, resosi conto dei suoi occhi su di sé, si voltò verso di lui, cosa che provocò al biondo un’ulteriore eruzione rossastra per tutta la cute.
“Tutto bene, John? Sembri accaldato, vuoi che ti aiuti a toglierti la…”
“FUORI!” esplose la donna afferrando il moro per un orecchio e trascinandolo senza aggiungere altro fuori dalla stanza, lasciando John completamente perso a fissare il punto dove fino a poco prima si ergeva la figura longilinea dell’altro.
“Ma che razza gli è saltato in mente!?” si chiese ingoiando l’ultimo sorso dell’intruglio e poggiando il bicchiere sul comodino accanto al letto. Madama Chips tornò dopo poco, borbottando qualcosa di non esattamente troppo gentile nei confronti del ragazzo che si era appena eclissato dall’infermeria – o meglio, che era stato appena buttato fuori a calci.
“Quel benedetto ragazzo… Un giorno o l’altro passerà dei guai seri…”
“Perché dice così?” domandò John, la cui presenza era stata molto probabilmente rimossa momentaneamente dalla donna, che sussultò all’udire la sua voce.
“Non è forse il suo fidanzato? Dovrebbe saperle meglio di me certe cose…”
“N-non sono il suo ragazzo, io… Noi… Siamo amici, ecco tutto.” si affrettò a specificare il biondo, distogliendo lo sguardo.
“Certo, certo… Ad ogni modo, credo che dovrebbe stargli dietro.”
“A Sherlock?”
Lei annuì. “Insomma, è un ragazzo così forte all’apparenza, così libero e indipendente… Ma sotto sotto è più fragile di quel che voglia dare a vedere…”
“Sì, me l’ha… Me l’ha detto anche una persona che lo conosce… conosceva molto bene.”
Madama Chips sospirò, mentre gli porgeva il bicchiere con l’acqua e due pasticche per alleviare il mal di testa. “Il signor Trevor, già… Sono passati cinque mesi e ancora non sono riuscita a farmene una ragione… Un ragazzo così giovane, morire così nella scuola magica più sicura al mondo… E il povero Sherlock, quanto deve aver sofferto. Era una persona completamente diversa da quando il signor Trevor era entrato nella sua vita.”
“Perché, com’era prima?”
“Arrogante, scorbutico… Più di quanto sia ora, mi creda… Ma soprattutto, era debole. Si sarà reso conto anche lei che… insomma, non è un ragazzo facile, né uno che è solito circondarsi di amici… Ha passato così tanto tempo a fare avanti e indietro dai dormitori all’infermeria che non riesco a capacitarmene… Ogni volta aveva un livido diverso e una scusa diversa, ma io ho sempre saputo… Ma non si può aiutare qualcuno che non vuole essere aiutato, signor Watson, per questo alla fine mi sono limitata ad accoglierlo in silenzio, anche alle ore più fonde della notte, e a medicargli le sue ferite…”
Calò il silenzio. Madama Chips si era abbandonata sulla sedia di fianco al suo letto, gli occhi persi chissà su quale piega del lenzuolo, su quale pulviscolo di polvere…
“Ricordo ancora il giorno in cui è arrivato quel… Victor, se non vado errata. Quando l’ho visto in compagnia di quel ragazzo sono rimasta imbambolata per diversi secondi… E quando quel giovanotto mi ha raccontato di aver trovato Sherlock mentre veniva malmenato da due idioti di Grifondoro, non ci volevo credere… Non ero così ingenua da pensare che gli atti di bullismo nei confronti di Sherlock passassero inosservati a tutti e sinceramente il sapere che vi fosse chi vedesse ma non facesse nulla per intervenire mi rendeva ancora più amareggiata ogniqualvolta Sherlock mi si presentava davanti come un cucciolo indifeso… Ma quel giorno, c’era stato il signor Trevor e, a detta sua, ci sarebbe stato anche nei giorni avvenire… Chi avrebbe mai detto che fra quei due potesse nascere qualcosa!” L’espressione della donna, però, si adombrò in breve. “E devo rivelarle una cosa, signor Watson: credevo che con la morte del signor Trevor sarebbe tornato tutto com’era prima, invece… Invece ora c’è lei al suo fianco e grazie a lei Sherlock ha ritrovato la voglia e la forza di amare.”
“Non sono il suo ragazzo, gliel’ho detto...” ripeté con meno esasperazione di quanto avrebbe voluto John, stringendo i pugni sul lenzuolo.
“Statevi vicini, mi raccomando… Guardatevi le spalle a vicenda, perché potreste averne bisogno… Più di quanto possiate immaginare.”
Detto ciò, Madama Chips si alzò in piedi, esclamando un ma ora è meglio lasciarti riposare, e sgattaiolò velocemente nel suo studio, barricandosi dentro a fare chissà cosa. John cominciava a sentire una certa sonnolenza – forse opera degli antidolorifici ingurgitati – e così tirò le tende che separavano il suo letto dagli altri, rannicchiandosi subito dopo per bearsi di quell’apparente quiete che era riuscito a ritagliarsi. Ma bastò chiudere gli occhi per un frangente, uno solo, per rivedere quella massa informe di tenebre e udire nuovamente quel sibilo oscuro.
Scattò a sedere, la mano che era istintivamente corsa alla bacchetta. Un rumore. Gli era parso di avvertire un rumore. O magari stava solo impazzendo, magari lo stress gli stava giocando un brutto scherzo. Ma bastò affinare appena di più l’udito per sentire dei passi felpati che si susseguivano furtivamente, sempre più vicini, sempre di più, prossimi, così prossimi…
John lanciò un urlo nel momento stesso in cui una delle tende venne brutalmente scostata e protese in avanti la bacchetta, il primo incantesimo di difesa già pronto sulle labbra. Ma non fu abbastanza rapido, perché si ritrovò schiacciato contro il materasso, il polso della mano con cui reggeva la bacchetta serrato da un paio di lunghe dita affusolate e la bocca tappata da una mano gelida come la morte.
Provò a dimenarsi, di fronte a lui un’ombra che gli ottenebrava la vista, ma si sentiva impotente e quella voce continuava incessantemente a rimbombargli in testa, ancora e ancora, sempre più forte, sempre più insistente…
Johnny… Piccolo Johnny… Il tuo cuore… Il potere… Mio.
“JOHN, PER L’AMOR DI DIO!” urlò una voce in mezzo a quelle tenebre spumose.
E fu proprio quella voce a indurlo alla quiete. Il buio si diradò lentamente e non impiegò troppo tempo per scorgere il viso di Sherlock, pallido e deformato da una smorfia affaticata, probabilmente generata dallo strenuo forzo di contenere la sua impetuosità. Quando il moro si rese conto della consapevolezza che aveva appena acceso gli occhi dell’altro, scostò la mano e si limitò a ricambiare lo sguardo.
“Che è successo?” sussurrò il biondo.
“Non ne ho idea. Mi sono intrufolato qua dentro con l’intento di parlarti ora che Madama Chips è sgattaiolata da Dumbledore e quando ho scostato la tenda ti ho trovato in ginocchio, con la bacchetta in mano e gli occhi… Non erano i tuoi.”
“Com’erano?”
“Terrorizzati e rancorosi al tempo stesso… Ho fatto appena in tempo a neutralizzare il tuo Schiantesimo, e… beh, hai opposto un po’ di resistenza.”
John distolse lo sguardo, confuso. “Io non… non vedevo nulla, solo nero e… Non riuscivo a sentire nient’altro che quella voce…”
“La stessa di cui mi hai parlato prima?”
John annuì. “E’ anche la stessa che da un paio di notti a questa parte ritorna e… dice sempre le stesse cose… Cazzo, io non riesco a capire!”
“E’ strano, in effetti…”
Il Grifondoro puntò i suoi occhi in quelli apparentemente lontani dell’altro e un qualcosa, all’altezza dello stomaco, gli si rivoltò nel momento in cui realizzò di essere premuto contro il letto, il corpo del moro sul suo, tremendamente vicino e vivo e caldo…
“Sh-sherlock?”
“Mhm?”
“F-forse potremmo ragionare meglio se… sì, insomma, se non fossimo sdraiati sullo stesso letto, uno sull’altro?”
Il viso di Sherlock, inizialmente coloratosi di consapevolezza, si sciolse in un’espressione maliziosa. “Cos’è, ti senti esposto?”
“N-non mi sento esposto…”
“E allora perché continui a balbettare e ad arrossire come una tredicenne?”
“Non… non faccio così!”
“Se lo dici tu…” commentò infine il moro, scostandosi e scivolando a sedere sulla sedia su cui, fino a poco prima, era stata accomodata Madama Chips. Calò qualche momento di silenzio particolarmente denso per John e probabilmente insignificante per Sherlock, che si limitava a starsene con gli occhi chiusi e le mani giunte sotto il momento, perso in chissà quali pensieri. Il biondo si ritrovò stranamente affascinato da quella posa così singolare e non poté evitarsi di pensare a ciò che gli aveva detto Madama Chips: ma sotto sotto è più fragile di quel che voglia dare a vedere. Improvvisamente, alla voce della donna si sovrappose anche quella di Victor: è più fragile di quanto pensi… Lui ha bisogno di essere amato. E ci rifletté davvero, John, mentre era intento ad osservarlo: Sherlock Holmes, quel saccente, petulante, spocchioso, brillante e – innegabilmente – affascinante Corvonero poteva davvero aver bisogno di amore? Lui? Lui che sembrava avere tutto? Ricordò quel ragazzino gracile e spaurito che aveva conosciuto quel mattino di Gennaio, col viso imbrattato di sangue. Sembrava così lontano e diverso dallo Sherlock che aveva imparato a conoscere in quelle poche settimane. Era confuso. Non riusciva a capire dove iniziasse e finisse lo Sherlock che apparteneva a Victor, che aveva saggiato il suo amore, che gli aveva dato il proprio… Non sapeva neanche se ci fosse una parte di lui che non fosse di Victor. Come se fosse davvero importante.
“C’è qualcosa…”
La voce cupa dell’altro inondò il silenzio. “Qualcosa?”
“C’è qualcosa che mi sfugge… Qualcosa che ho sotto i miei occhi…”
Il Corvonero riaprì gli occhi per puntarli sull’amico. Trascorsi alcuni secondi silenti e carichi di tensione, finché il viso del moro non si accese: “Ma certo! Stupido, stupido, stupido! Come ho fatto a non capirlo prima! Sei straordinario, John, assolutamente straordinario. Non sarai il più brillante tra gli studenti a Hogwarts, ma come conduttore di luce sai il fatto tuo!”
“Ehm… grazie? No, forse no… Era un complimento? Non l’ho capito…”
“Tecnicamente sì e – tanto per mettere in chiaro l’enorme favore che mi devi – in un contesto diverso non ti avrei mai neanche degnato della mia attenzione, tanto è basso il tuo quoziente intellettivo.”
“Ti stavi complimentando, dannazione! Non rovinare tutto! Comunque, che ho fatto o detto di così illuminante?”
Sherlock si sporse avanti, gli occhi che gli brillavano d’eccitazione. “Non è tanto qualcosa che hai detto o fatto… Sei tu. Sei tu quel qualcosa che mi sfugge.”
“Io?” gli fece eco il Grifondoro inarcando un sopracciglio e cercando di contenere il rossore all’udire quella frase che per qualche motivo gli suonava esageratamente allusiva.
“Intorno a te, John Watson, orbita un mistero oscuro… Un mistero di cui il preside e i docenti sono però a conoscenza.”
“Non capisco…”
“Madama Chips era terrorizzata all’idea di dover riferire al preside che tu, John Watson, tu ti fossi ferito. E scommetto che poco fa, quando è uscita, si sia diretta proprio in presidenza. E il tuo sogno… Che cosa diceva quella voce?”
John rabbrividì nel ripensare a quel sibilo. “Qualcosa del tipo… Ti troverò o… sarai mio. Alludeva anche ad una specie di… potere e di… eredità? E’ tutto confuso e…”
Sherlock scattò in piedi e si inginocchiò sul materasso, sovrastandolo per la seconda volta quel giorno. “Dev’essere così… per forza di cose.”
“C-così? Ma perché devi per forza starmi così appiccicato ogni volta che ti vengono delle intuizioni!?”
“Il mio cervello lavora meglio… Ad ogni modo, John io… non so come o perché, ma tu c’entri. C’entri in una maniera quasi… totale.”
“C’entro con cosa?” Sherlock si morse nervosamente il labbro e distolse lo sguardo. “Sherlock?”
“Non ne sono sicuro… E non mi piace non sapere.”
John sospirò e si abbandonò a quella stanchezza che gl’infondeva una sorta di nebbia di fronte agli occhi già da prima dell’arrivo di Sherlock. Ma ora… ora gli sembrava come prosciugato di ogni energia, così serrò le palpebre, colto da un improvviso sbadiglio.
“Sherl…”
“Dormi un po’, adesso.”
“Avevi detto…”
“Parleremo, John, non preoccuparti… Adesso ti lascio riposare.”
Ma in un attimo di quasi blackout totale, John allungò la mano, afferrandogli un braccio per impedirgli di andarsene. Era così provato che non riuscì neanche a vergognarsene. “Potresti… Potresti restare qui? Solo cinque minuti?”
E la risposta dell’altro venne assorbita dal nero cupo dell’incoscienza.

SPAZIO AUTRICE
Salve gente! Scusate il ritardo ma è successo un casino: ho dovuto cambiare famiglia (quella host mum la odiavo troppo e lei mi ha cacciato di casa dall'oggi al domani quindi credo fosse reciproco), ora sono in una family stupendosissima ma ovviamente è temporanea quindi BOH. E niente, sì, non vi importa nulla della mia vita disagiata ma di questa storia, quindi eccovela qua. Speriamo per il prossimo capitolo di riuscire a pubblicarlo verso giovedì, venerdì ma non sono sicura (sabato parto e vado a manchester in gita per cinque giorni quindi o così o mi uccidete perché potrete avere il capitolo solo fra due settimane eheheheh).

E niente, fatemi sapere che ne pensate se avete voglia e tempo e per tenermi un po' di compagnia sono bene accetti gli scleri post inizio scuola. Sciau belli!

*kiss kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 4
*** CAPITOLO TRE ***


CAPITOLO TRE
 
​Erano trascorsi circa dieci giorni da quella mattina e la vita di John in quanto studente di Hogwarts era andata avanti senza intoppi. Gli allenamenti di quidditch erano ripresi e lui e Greg non facevano che parlare della futura formazione per il Torneo, a differenza della maggior parte degli altri studenti, che invece si riempiva la bocca della vicina competizione del Torneo Tremaghi.
“Ho deciso.” esclamò un giorno Greg a colazione. “Ho intenzione di iscrivermi anche io.”
John se n’era uscito con una mezza risata. “Scusa se te lo dico, ma non credo tu abbia la minima speranza.”
Molly, dal canto suo, si era stretta al braccio di Lestrade, scuotendo forsennatamente la testa. “Non essere ridicolo! Il Torneo Tremaghi è troppo pericoloso!”
“Non se sei un mago dotato delle mie abilità.” la contradisse il ragazzo.
“Credo che il problema siano proprio le tue abilità, invece.”
I tre Grifondoro si voltarono all’unisono e gli occhi di tutti incontrarono lo sguardo di Sherlock, in piedi accanto alla loro tavolata con le mani affondate nelle tasche e un’espressione sogghignante dipinta in volto. John udì a malapena la risposta infervorata di un Greg colpito nel proprio orgoglio, troppo impegnato a studiare la figura del suo… amico immobile e fottutamente sicura di sé. Non lo vedeva da… circa una settimana, un tempo considerevolmente lungo se si considerava la loro presunta amicizia, ma ragionevolmente breve se invece si teneva conto che era sempre di Sherlock Holmes che si stava parlando. Sette giorni e quel tipetto spocchioso si era fatto ancora più bello – oggettivamente parlando, s’intende.
“John? John, mi stai ascoltando?”
Il ragazzo si volse in direzione di Lestrade, intento a fissarlo con un broncio a metà tra il ferito e l’indignato. “Cosa?”
“Ti ho chiesto se anche tu pensi che le mie abilità siano mediocri.”
“N-no, io…”
“Visto che mi dispiacerebbe oltremodo che tu mentissi a causa di una mia osservazione – ovviamente vera, s’intende – ti dispiace se mi accompagni fuori?”
“Io?” fece John indicandosi, come in trance.
“No, John, quell’insulso secchione Corvonero dell’ultimo anno alle tue spalle… Sì, proprio tu! Sbrigati.”
“Veramente io…”
Ma Sherlock non gli diede modo di ribattere, perché gli ghermì il polso trascinandoselo dietro, fuori dalla Sala Grande, dai suoi amici, ma soprattutto dalla sua colazione. Una volta sulla tromba delle scale, John si divincolò dalla presa dell’altro e incrociò le braccia al petto nello stesso momento i gradoni presero a muoversi guidandoli Dio solo sapeva dove.
“Che cosa significa?”
“Che cosa?”
“Questo rapimento.”
“Non ti ho rapito. E’ Sabato, non abbiamo le lezioni ed è arrivato il momento di-”
“Appunto, Sherlock, è SABATO! Scommetto che la tua mente eccezionale non abbia neanche lontanamente elaborato la possibilità che io potessi avere dei programmi.”
Sherlock sbuffò, roteando gli occhi con esasperazione. “Non sia mai che ti abbia scombinato i tuoi piani, per carità! Lungi da me!”
“E invece l’hai fatto, Sherlock. Anzi no, non stavolta. Ho un appuntamento.”
Il moro aggrottò la fronte, fissandolo con smarrimento. “Un che?”
“Quando due persone si piacciono, escono e si divertono, Sherlock. Ma tu hai avuto un fidanzato, dovresti saperle certe cose.”
Sherlock annuì un paio di volte, miracolosamente senza parole. “Va bene, okay… Sì, insomma, non pensavo ad un simile picco nella nostra relazione, non momentaneamente… Anzi, John, forse dovrei specificare, onde evitare possibili fraintendimenti: anche se Victor è morto, sono fermamente convinto che non possa esserci nessun altro nella mia vita dopo di lui. E sì, forse sto dicendo qualcosa che potrebbe risultarti stucchevole o deludente – o magari entrambe – ma la verità è che so che non amerò più nessuno come ho amato lui. Per questo e per il bene delle nostre indagini, nonostante sia onorato delle tue attenzioni, credo che sia meglio mantenere il nostro rapporto così com’è. Sai… senza complicazioni.”
John lo fissò stupito per alcuni secondi. “Pensi davvero questo di Victor e di quello che c’è stato tra voi?” Il silenzio dell’altro fu la conferma che aspettava. “Capisco, beh… Dovevi amarlo davvero tanto… Sono passati ormai cinque mesi e mi era sembrato che avessi assorbito il lutto con… Aspetta, cosa? Cos’hai detto?”
“Quando?”
“Prima, quando parlavi di te e Victor… Cos’hai detto riguardo… riguardo me?”
“Andiamo, John, sai quanto io detesti ripetermi.”
Nello stesso momento in cui il moro terminò la frase, le scale arrestarono il loro moto e il Corvonero si affrettò in una direzione che solo lui sapeva. John lo rincorse, deglutendo a fatica. “Hai detto… hai detto che sei onorato delle mie attenzioni…”
Sherlock sospirò. “Aveva ragione Victor quando diceva che nei rifiuti bisogna sempre mostrarsi fermi sulla propria posizione, altrimenti si rischia soltanto di illudere e ferire l’altro – anche se a mio parere è più la scocciatura da parte del poveretto che deve sorbirsi l’inutile cotta di un qualche adolescente… No, John, non dare alle mie parole un significato che non hanno. Era solo un modo gentile per dirti che non sono affatto interessato.”
“Non è questo il punto, idiota! Il punto è che non ci stavo provando!”
“Sì, John, certo, e io sono Salazar Serpeverde – in versione belloccio.”
“Non parlavo di te quando mi riferivo all’appuntamento! Mi riferivo ad una ragazza della mia casa che ieri sera mi ha chiesto di uscire!”
Il moro si immobilizzò improvvisamente nel bel mezzo del corridoio e gli lanciò un’occhiata curiosa. “Sul serio?”
“Sì.” sospirò John cercando di dissipare il rossore che gli era fluito in viso.
“Oh, okay… Meglio. Sarebbe stato imbarazzante.”
“Decisamente imbarazzante. E poi non sono gay.”
L’angolo destro delle labbra di Sherlock guizzarono verso l’alto. “Se lo dici tu…”
“No, Sherlock, non lo dico io, lo dice il mio DNA, non so se hai chiaro che cos’è.”
“Come sei esagerato, John. Dovrei presentarti a mio fratello, sono sicuro che andreste davvero d’accordo.” borbottò il Corvonero prima di infilarsi in una porta sulla destra e tenendola aperta dietro di sé per lasciar passare l’altro.
John si ritrovò in un’ampia stanza dalle pareti in marmo bianco, al centro della quale si ergeva una serie di lavandini – due dei quali rotti – e sulla destra una fila di porte in legno aperte che davano l’accesso nell’angusto spazio dei gabinetti.
“Siamo in un bagno?”
“Arguto, John. Siamo precisamente nel bagno delle ragazze del terzo piano.”
“Quello in cui non va mai nessuna perché si dice che sia infestato?”
“Tecnicamente è infestato, signor Watson.” gli rispose una voce femminile alle sue spalle.
Il Grifondoro si volse di scatto, sussultando appena nel trovarsi di fronte la figura diafana di una ragazza all’apparenza bellissima, dai morbidi ricci che le ricadevano sulle spalle semitrasparenti e gli occhi che sembravano brillare di luce propria.
“Chi sei?”
Lei sbuffò e lo superò, senza neanche degnarlo di ulteriori attenzioni, aprendosi in un sorriso radioso alla vista del Corvonero. “Finalmente ti degni di farti vivo, Mr Sherlock Holmes.”
“Irene. Sempre un piacere vederti morta ogni volta come ti avevo trovato quella prima.”
“Mi sto sbellicando.” ribatté lei senza però perdere il sorriso, anzi, accentuandolo ancor di più. “Allora, sei qui per far saltare tutto in aria come la volta scorsa oppure-”
“L’hai custodita come ti avevo chiesto?”
La ragazza – che a quanto pareva si chiamava Irene – sospirò. “Dovrei sentirmi fortemente offesa per questa domanda completamente inutile e idiota. Ad ogni modo, se può farti stare tranquillo: sì, Sherlock, l’ho custodita. Non che ce ne fosse bisogno. Come al solito non si è fatto vivo nessuno.”
John inarcò un sopracciglio in direzione della giovane. “Tu… tu sei il fantasma di cui si parla tanto a scuola? Quello che infesta il bagno delle ragazze…”
Finalmente, gli occhi di Irene si volsero nella sua direzione, un’espressione scocciata a dipingerle il viso diafano. Lo squadrò infastidita per pochi secondi, infine tornò a guardare Sherlock, l’accenno di un sorriso divertito a schiuderle le labbra. “No, fammi capire: prima di sceglierti il fidanzatino stili una lista in quanto a intelligenza e arguzia per caso? Perché questo è ancora più acuto del precedente.”
Sul viso del moro comparve un accenno di sorriso. “Una cosa del genere. Adesso, se non ti dispiace…”
Irene si scostò una ciocca di capelli dagli occhi vispi e fece loro segno – più a Sherlock in realtà – di seguirla. Quando furono davanti ad uno dei tanti specchi del bagno si fermò, lasciando che il Corvonero la superasse, parandosi di fronte ad esso. “Ben fatto Irene.”
“Sempre un piacere, Sherl.”
“Sherl?” le fece eco il biondo corrugando la fronte.
“Geloso, signor Watson?”
Il ragazzo percepì il viso avvampare d’imbarazzo a quelle parole. “N-no, noi non… non siamo una coppia.”
Lei assottigliò appena gli occhi, intensificando lo sguardo. C’era un che d’insolente e provocatorio in quelle iridi incolore e John se ne sentì trapassato. Gli parve quasi di venire messo a nudo, ma non era una sensazione elettrizzante come quando Sherlock deduceva gli aspetti più improbabili da cogliere della sua vita, no… Era disturbante, come se vi fosse qualcosa, in lui, che solo lei poteva scorgere, che forse John stesso non aveva ancora visto. Ma finì nel tempo stesso in cui lei distolse gli occhi e si affrettò ad affiancare Sherlock, scambiando con lui qualche parola sottovoce.
“Ti ringrazio, Irene.” concluse il moro rivolgendole un sorriso sincero, non uno di quelli ironici che soleva scoccare a chiunque – specialmente a John, quando gli lanciava una sfida di qualche genere – e, per un attimo, il Grifondoro se ne sentì quasi geloso.
“Dovere, mio caro.”
“Mio caro?” ripeté il biondo, stavolta completamente ignorato dagli altri due. Lei fece per andarsene quando, come colta da un improvviso ripensamento, si trattenne e, chinandosi sul Corvonero, gli scoccò un bacio sulla guancia.
“Fai buon viaggio, signor Sherlock Holmes.”
E con una capriola all’indietro, si catapultò in uno dei gabinetti, lasciando uno Sherlock sorridente e un John coi pugni stretti e gli occhi ostinatamente fissi sulle punte delle sue scarpe.
“Beh? Ti sei incantato?” lo richiamò l’amico chinandosi appena per far incrociare il loro sguardi.
“Mi spieghi che cosa hai in mente?” Sherlock sospirò e si limitò ad indicargli lo specchio di fronte a cui si era posizionato. “E’ uno specchio.”
“Non un semplice specchio, John. Tu guardi ma non osservi. Che cos’è realmente?”
John si concentrò, aggrottando la fronte e cercando di affinare la vista, ma il risultato che ottenne non fu che una smorfia infantile e completamente inutile. “Non ne ho idea, mi dispiace. Ora puoi smetterla di giocare al primo della classe e mi dici che stiamo facendo?”
“Quello specchio, John” cominciò con tono paziente il Corvonero. “è una Passaporta.”
Il biondo sgranò repentinamente gli occhi. “U-una Passaporta?” Al cenno affermativo dell’altro proseguì: “Ma che ci fa una Passaporta ad Hogwarts? In così bella vista, tra l’altro.”
“L’ho creata io.”
“T-tu!?”
“Non è così difficile come sembra. Basta pronunciare la formula, essere dotati di un discreto livello-”
“E’ PROIBITO!” sbottò John facendoglisi vicino e guardandosi intorno, come se qualcuno avesse potuto sentirli. “Tu… Tu lo sai che c’è bisogno di un’autorizzazione dal Ministero? Che se viene attivata una Passaporta senza il permesso del Primo Ministro viene mobilitata l’intera Squadra Speciale Magica?”
“Certo che sì.”
“E sai anche che dispongono di mezzi con cui ci troverebbero in un battito di ciglia?”
“Sì.”
“E deduco, a questo punto, che tu sappia anche che se ci beccano – cosa scontata – ci faranno a pezzetti o peggio?”
“Esattamente.”
“E ALLORA MI SPIEGHI PERCHE’ HAI CREATO UN’ACCIDENTI DI PASSAPORTA!?” tuonò esasperato il Grifondoro, abbandonando il suo tono fintamente calmo.
“Silenzio, John, non voglio che tutti sappiano che c’è una Passaporta disponibile all’utilizzo!”
“Ah, quindi è ancora un segreto nonostante la tua abitudine a pavoneggiarti per le imprese compiute!?”
“Sì, è ancora un segreto!” rispose con uno sbuffo il moro. “Mi prometti che ora mi starai a sentire tappando quella bocca larga che ti ritrovi?”
“Giuro su Dio!” urlò John esasperato, ma resosi conto di aver nuovamente alzato la voce distolse lo sguardo, lasciando la parola all’altro.
“Bene. Come ho già avuto modo di accennarti, mio fratello tiene in scacco il Ministero intero. Nessuno farà niente senza il suo permesso, dunque dubito fortemente che faranno anche solo in tempo a venire a sapere di questa Passaporta: mio fratello intercetterà l’avviso ancora prima che arrivi sulla scrivania di quel borioso Ministro.”
“Okay.” sospirò il Grifondoro passandosi una mano sul volto. “E mi spieghi che cosa ci facciamo di una Passaporta.”
“La usiamo per teletrasportarci, John. Mi sembra un concetto basilare persino per te.”
“No, idiota che non sei altro, intendo: dove?”
“Oh, questa è la parte difficile…” L’espressione di Sherlock assunse un carattere contrariato. “Io… Ecco, non sono sicuro che le mie abilità siano così buone da permettermi la massima precisione, però… Sì, insomma, l’idea era quella di raggiungere la casa di Victor.”
Le sue parole vennero inghiottite dal silenzio. John aprì e chiuse la bocca ripetutamente, senza trovare la forza di spiccicare parola. “Quindi… Tu…” borbottò poi con voce roca. “Tu vuoi… andare a casa sua?”
Sherlock annuì. “E’ lì che sono stati portati i suoi effetti personali. E se è come crediamo, se davvero è stato minacciato… Allora mi sembra il luogo più adatto per cercare la prova di tale minaccia.”
“E se non dovessimo trovare nulla?”
“Allora… Avremo fatto un viaggio a vuoto. Niente di irrecuperabile. E avremo… Sì, beh, avremo comunque rivisto una parte di Victor.” rispose il Corvonero fissando la pavimentazione quadrettata del bagno. “Sei con me?” biascicò poco dopo, rivolgendo all’altro uno sguardo speranzoso da cui John si sentì investito.
“Certo.”
 
 
Sherlock non mentiva quando aveva fatto riferimento ad un probabile insuccesso nel materializzarsi precisamente di fronte alla casa di Victor. John dovette riconoscere che, anche in quell’occasione, Sherlock ci aveva visto giusto. Forse anche troppo. Un’ora e mezzo di camminata per le strade di Londra – e il conseguente dolore alle piante dei piedi – ne fu testimone.
Fu Sherlock a bussare alla porta di quella casetta di periferia, vicina al corso basso del Tamigi e fu sempre Sherlock a rispondere al saluto freddamente cortese della donna dal viso tondo e i capelli rossi sparati in tutte le direzioni che li accolse. John era come in trance. Osservava quella casa e immaginava un piccolo Victor crescere fra quelle quattro mura, giocare in quel piccolo cortile, imbracciare la gabbia col suo Gufo, Barbagialla, trascinandosi su quel vialetto pavimentato la valigia.
“… Ma certo, entrate pure.” sospirò infine la donna, scansandosi per lasciarli passare e conducendoli al piano di sopra, dove vi era la zona notte. La camera di Victor verteva in uno stato di disastroso disordine. C’erano vestiti buttati sul letto e scarpe lasciate in mezzo, un pallone da basket proprio di fronte all’ingresso e poi libri e libri di astronomia, il suo telescopio… John trattenne il fiato. Gli sembrava come se fosse ancora lì, il suo Victor. Il loro Victor. Victor che lasciava sempre la sua parte di camerata in completo disordine. Victor che ogni volta che doveva tirare fuori un libro buttava all’aria tutta la sua cassapanca. Victor che prima di decidere un vestiario adatto per uscire col suo fidanzato il Sabato o la Domenica impiegava un’infinità di tempo. Victor che non c’era più. Ma era come se ci fosse.
“Ho lasciato tutto come… Come lo aveva lasciato lui.” sussurrò la madre alle loro spalle, una mano a velarsi preventivamente la bocca. “E’ un’abitudine che ho adottato tutti gli anni: ogni volta che partiva per quella scuola strampalata col sorriso sulle labbra, entravo qua dentro e mi prendevo qualche minuto per immaginarmelo buttare tutto per aria com’era solito fare… E le cose non sono cambiate.”
Agatha tirò su col naso e, con grande sorpresa di John, Sherlock le strinse saldamente un braccio, rivolgendole un’occhiata di sostegno. La donna gli regalò un debole sorriso prima di voltarsi, comunicando loro che potevano fare con calma e che lei, nel frattempo, avrebbe preparato del tè.
I due ragazzi rimasero alcuni secondi immobili a fissare la camera intonsa dalla partenza di Victor dell’anno prima, come sospesi in un’ulteriore dimensione. Infine, Sherlock si riscosse. “Mettiamoci al lavoro.” John annuì.
Stando a quanto diceva Agatha, gli oggetti che Victor aveva portato con sé ad Hogwarts erano tutti racchiusi nel grande baule accanto al letto – anche quello intoccato ed inviolato in un muto rispetto nei confronti di un figlio perduto. John si sentì quasi un miserabile nel momento in cui si apprestò a distruggere quel precario equilibrio assemblato insieme da una povera donna, ancora ferma al giorno in cui suo figlio era morto.
“Non ci pensare.” gli sussurrò il Corvonero, accanto a lui, mentre girava la chiave ancora infilata nel lucchetto del baule, sollevandone il coperchio e alzando una consistente nube polverosa. John tossicchiò appena mentre Sherlock si sporgeva per poter studiare l’interno della cassa. Con una delicatezza ed un’amarezza così stonate nella sua figura altera e saccente, il moro prese a svuotare con estrema lentezza il baule, rivolgendo ad ogni singolo oggetto, persino alla penna d’oca e all’alambicco con l’inchiostro una dolce carezza.
John si perse nel fissare quel suo muto dolore che si era assopito ma non completamente svanito. E per l’ennesima volta, si diede dello stupido per aver giudicato affrettatamente quel ragazzino dagli spettinati ricci neri e l’aria arrogante.
E’ più fragile di quanto pensi… °
Chi era, realmente, Sherlock Holmes? Quante anime gli abitavano in quel corpo armonioso e dannatamente bello?
Lui ha bisogno di essere amato.
Amato. Se era quello di cui aveva bisogno, solo quello… Allora John ci sarebbe stato. Come amico, s’intende, ma l’avrebbe amato a modo suo, finché non fosse arrivato qualcun altro a scaldargli il cuore come solo Victor aveva saputo fare.
“E questo?” sentì dire a Sherlock.
“Cosa?”
“Guarda.”
Il biondo accettò con un sopracciglio incantato il pezzo di pergamena completamente bianco. “Non capisco.”
“Dovresti metterlo su una maglietta.” osservò sprezzante il moro.
“Cosa dovrei guardare, Sherlock? E’ bianco!”
“Appunto. Bianco. Che ci fa un pezzo di pergamena bianco nel baule di Victor? Tra l’altro, guarda queste pieghe… E’ come se fosse stato piegato…”
In breve, Sherlock, seguendo le piegature del foglio, fu in grado di ricostruire in maniera pressoché perfetta un uccellino di carta. John glielo prese di mano con delicatezza studiandolo con la fronte aggrottata, come se qualcosa stonasse in tutto quello.
Il Corvonero si scompigliò nervosamente i ricci. “Perché avrebbe dovuto tenere nel suo baule un fottuto uccello di carta? Aveva una passione per gli origami e non ne sapevo nulla?”
Quelle parole accesero un lumino nella mente del Grifondoro. “Non è suo.” Il moro gli rivolse un’occhiata inquisitrice. “Non è suo.” ripeté allora il biondo. “Victor non ha la minima idea di come si facciano gli origami. E’ sempre stato una frana, nonostante tutte le lezioni che gli ho dato.”
“L’hai fatto tu?” John scosse la testa. “E allora chi? Chi gliel’ha regalato?”
“Potrebbe non essere un regalo. Victor potrebbe averlo trovato e… che so, prenderlo?”
“Non dire assurdità. Perché Victor avrebbe dovuto conservare una simile… Che cos’è?”
John inarcò un sopracciglio. “Che cos’è cosa?”
Sherlock prese ad annusare la carta, gli occhi che si muovevano come impazziti, catturati da chissà quale indizio, infine infilò la mano nella tasca del mantello, estraendone la bacchetta. “Rivelo.”
L’amico contemplò allibito l’uccello di carta aprirsi, tornando allo stato di un semplice foglio, ma stavolta la sua superficie cominciò quasi a pulsare, come se fosse stata dominata di vita proprio.
Rivelo!” ripeté Sherlock stavolta a voce più alta e corrugando la fronte in una smorfia affaticata.
Sulla pergamena, cominciò lentamente a comparire un’immagine. La figura di un teschio nero, dalle cui orbite fuoriusciva un gigantesco ragno. John ebbe appena il tempo di registrare quell’icona che il braccio di Sherlock prese a tremare vistosamente e in breve una forza invisibile lo sbalzò contro una delle pareti della stanza di Victor, il foglio di carta, per terra, che tornava intonso.
John si precipitò sull’amico, invocando il suo nome con voce intrisa di preoccupazione, ma il moro lo scansò con gesto fermo, rimettendosi in piedi in pochi secondi.
“L’hai visto?” gli chiese con voce grave, gli occhi fissi sulla carta completamente bianca.
“Certo che l’ho visto.” rispose il Grifondoro. “Ma non capisco cosa-”
“Il Marchio Nero.” lo interruppe l’altro. “Era… era il Marchio Nero.”
 
Si svegliò come avvolto da uno stato catatonico. Un brivido gli percorse la schiena. Erano notti che l’immagine di quell’incomprensibile simbolo – così simile al tatuaggio di Justin, il figlio dei suoi vicini babbani – lo tormentava, comparendo e scomparendo in un cielo di tenebre, sempre alle spalle di quell’unicorno dagli occhi tristi. Tristi e mutevoli. Erano notti che si svegliava con l’angoscia ad attanagliargli le viscere… eppure quel giorno il suo intero essere era impregnato di una calma quasi surreale. Robotica.
Si alzò e con gesti meccanici si vestì lentamente, quasi solennemente. Mike e Greg non si accorsero del suo risveglio alle prime luci dell’alba, intenti a rigirarsi nei loro letti ancora addormentati. Una volta indossata la divisa, scese le scale con sguardo vacuo, percorrendo prima la Sala Comune e poi i corridoi completamente vuoti. Si lasciò trasportare dalle proprie gambe, dal proprio subconscio: sgattaiolò fuori dal castello, mentre l’aria gelida di Novembre lo pugnalava efferatamente. Il Lago Nero si spiegò sotto i suoi occhi nella sua tetra cupezza, eppure nella sua ingiusta bellezza. Il sole non era ancora sorto del tutto, appena un’aureola giallognola tra i versanti delle montagne che lo cingevano. Il cielo era chiaro, stranamente terso, fatta eccezione per qualche nuvola coraggiosa, contornata dagli accennati raggi solari.
John prese un respiro profondo, gli occhi chiusi, la testa reclinata all’indietro. Quella sensazione che gli abitava il petto, non avrebbe saputo descriverla. Pace? Tranquillità? Inquietudine? Solitudine? Abbandono?
“A quanto pare continuo a commettere sempre lo stesso identico errore.”
Non si sorprese di quella voce come la prima volta che l’aveva udita quell’anno, proprio su quella riva del lago, accanto a quella maestosa quercia. Non si scomodò neanche a girarsi: rimase immobile e della propria placidità si nutrì beatamente. “Quale? Se posso chiedere.”
I passi di Sherlock sull’erba gli giunsero a malapena alle orecchie, tanto era felpati e leggeri. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni, nel suo solito atteggiamento sprezzante. Quando era solito erigere una di quelle stupide facciate che calava per protezione. Come facesse, John, ad esserne così sicuro non lo sapeva… Però era come se si fossero conosciuti da sempre e non solo da un mese. “
“Quello di sottovalutarti. E sottovalutare il tuo sentimento per Victor.”
“Era il mio migliore amico.” sospirò John chinando lo sguardo. “E il minimo che posso fare è… venire qui il giorno del suo compleanno. Ricordarlo.”
Un sorriso amaro sfilò sulle labbra del Corvonero. “Io non ho avuto l’occasione di festeggiarlo neanche una volta.” sussurrò con quella che sembrava una voce incrinata. “Com’è… Com’era?”
“Bello. Molto bello. In realtà non facevamo mai niente di così speciale o di… diverso dal solito. Giocavamo a quidditch dopo colazione, andavamo a lezione… Trascorrevamo la giornata come al solito… L’unica differenza stava nel rimpinzarci di cioccorane e di altre schifezze… e la mattina: ci alzavamo prestissimo, ancor prima che il sole fosse sorto, e ci fermavamo a guardarlo salire in cielo… A Victor ricordava quando suo padre lo chiamava dall’Afghanistan la mattina prestissimo per fargli gli auguri e… tornare a combattere. E’ stato così per tre anni.”
Sherlock, accanto a lui, rabbrividì visibilmente, tanto che il biondo dovette voltarsi per squadrarlo. Lo trovò con le labbra serrate e gli occhi tristi, lontani. Una risata mesta e stonata gli sfuggì da quella barricata di denti e bocca che aveva creato. “Ecco un’altra cosa che non sapevo di lui… Un’altra cosa che non ho avuto il tempo di scoprire.”
John si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore. Era consapevole che una volta avrebbe gioito di quella rivelazione, del sapere che lui e solo lui aveva conosciuto alcuni lati di Victor, ma ora… Ora si sentiva quasi in colpa. Gli sembrava sbagliato che lui avesse avuto maggiori diritti su Trevor di quanti ne avesse avuto Sherlock – il suo fidanzato!
“E’ per questo… è per questo che ti ho sempre odiato, sai?” Il Grifondoro spalancò appena gli occhi, ma non proferì verbo. “Come ti dissi già in precedenza… non amo condividere con altri ciò che è mio. E Victor… Victor era quanto di più prezioso avessi mai avuto in tutta la mia vita. Eppure c’eri sempre tu. Il banale e ordinario John Watson, così insignificante e stupido… eppure l’unico che avrebbe avuto il potere di portarmi via tutto.” Tacque nuovamente e ancora John non riuscì a spiccicare parola, stavolta per lo stupore e la ferita che il discorso dell’altro aveva provocato. “Tu gli eri… così vicino anche quando eravate lontani. Quando cominciaste a litigare di brutto lui… lui correva da me, mi si rannicchiava tra le braccia e continuava a ripetere vorrei che tutto tornasse come prima. E sapevo che era per te. Capisci che intendeva? Lui avrebbe preferito non incontrarmi piuttosto che guardarti allontanarti da lui!”
“T-ti sbagli, ci deve essere un errore…”
“E invece no!” continuò Sherlock, la voce sempre più alta. “Per lui c’eri tu! Ci sei stato sempre e solo tu! E non importava quanto tenesse a me, io… io sarei sempre venuto dopo. E sai che c’è? Probabilmente se qualcuno non l’avesse ammazzato… sarebbe venuto da me nel giro di pochi giorni a dirmi che tra di noi era finita e sarebbe corso da te, per chiederti perdono per averti abbandonato e giurarti fedeltà eterna!”
John rimase immobile mentre Sherlock gesticolava furiosamente, dimenando le braccia a destra e a sinistra, il petto che si alzava rapidamente, il fiato caldo che gli sbatteva sul viso. Infine, reagì. Si mosse completamente dominato dall’istinto. Gli prese il viso tra le mani e bastò quel tocco, quell’unico, sconvolgente tocco, per farlo calmare. Il Corvonero lo fissava con occhi sgranati e velati di smarrimento e… lacrime?
A quel pensiero, il Grifondoro rafforzò ancora di più la stretta. “Sherlock… Lui ti amava.”
“No, invece…”
“Ero il suo migliore amico, nonostante negli ultimi tempi mi fossi allontanato… E ti giuro che non l’avevo mai visto così felice… Tu lo rendevi felice, mentre io… io ero buono solo a farlo soffrire e a-a rovinargli il tempo trascorso con te. Sherlock, tu eri tutto per lui e ti amava… Dio, se ti amava.”
Un’espressione dolente velò il viso del moro. “Chi potrebbe mai amare uno come me?”
“Victor. Victor poteva. E… E anche altri. Molti altri. E chi crede che tu sia solo uno psicopatico, strambo, senza cuore… Allora è un coglione.”
“Ti ricordo che lo pensavi anche tu…”
John si concesse un sorriso. “Appunto. Ero un coglione.”
Si fissarono per alcuni istanti, trattenendo il fiato, i riflessi dei loro occhi negli occhi dell’altro. John avvertiva qualcosa… Qualcosa di profondamente radicato attanagliargli lo stomaco, il cuore, i polmoni… Non avrebbe neanche saputo collocarlo. Forse era la sua intera anima ad essere imprigionata da catene invisibili. Aveva bisogno di liberarsi di quei ferri infuocati che gli marchiavano la coscienza e il suo essere dal giorno della morte di Victor. Aveva bisogno di tornare a respirare, finalmente dopo tanto tempo.
“Ero un coglione…” ripeté, a voce flebile. “Ero proprio un coglione… La verità, Sherlock, è che… che ero una merda. Una merda gelosa del suo migliore amico. Io… io-” Un groppo di lacrime gli spezzò la frase sul nascere, ma lui scosse rabbiosamente il capo, imponendosi di non sfuggire a quel mea culpa. Aveva rimandato anche troppo. “Io… io tenevo a lui… tenevo a lui così tanto che non volevo, non potevo accettare di essere messo in secondo piano… E invece che stargli accanto e guadagnarmi ogni giorno la sua amicizia così preziosa… gli ho voltato le spalle. Quella notte… Quella notte ha cercato di dirmelo, Sherlock… Lui… Lui stava cercando di farmelo capire, sapeva a che cosa stava andando incontro… Ed io non ho fatto altro che urlargli contro…” Un singhiozzo liberatorio lo costrinse al silenzio e lui si staccò finalmente dal viso dell’altro portando la mano sinistra di fronte agli occhi, in un infantilmente orgoglioso gesto di schermarsi dalla vista dell’altro. “Lo vedo ancora… Lì, fermo di fronte al mio letto, con… con gli occhi tristi per colpa mia… Avrebbe potuto mandarmi affanculo, augurarmi tutto il male del mondo, e invece sai che ha detto? Ti voglio bene, John. Ti voglio bene… Capisci? Lui mi ha voluto bene fino alla fine e io… Lui… Lui è morto senza che io abbia avuto… Abbia avuto il… Le palle di…”
Il suo febbrile e disperato farneticare venne interrotto dalla sensazione delle braccia di Sherlock attorno al suo corpo. Inspiegabilmente, non si vergognò della propria debolezza. Si lasciò cullare dal respiro dell’altro, si abbandonò alla percezione del mento del Corvonero poggiato sulla sua nuca, si concentrò sul battito cardiaco dell’amico appena accelerato.
“Dimmelo.” singhiozzò.
“Che cosa?”
“Dimmi che sono una merda.”
Una delle grandi mani di Sherlock scivolò tra i suoi capelli, le dita lunghe che presero a muoversi in ripetute e decise carezze. Non dolci come quelle che gli riservavano le ragazze con cui usciva, no… Erano autentiche… più vere delle stesse mani che gliele stavano regalando. “Non posso.”
“Perché?”
“Perché la persona che mi hai descritto… non è la stessa che ho imparato a conoscere io.”
I singulti di John si arrestarono improvvisamente a quelle parole. Contro il petto del Corvonero, il biondo sorrise mestamente. “E che persona hai conosciuto tu?”
“Una persona che è riuscita ad andare oltre i pregiudizi comuni… ma soprattutto i suoi. Una persona che è riuscita a trasformare l’odio in amicizia. Una persona che ha accettato di assecondare un sociopatico in questa folle indagine che non sappiamo se ci porterà mai da qualche parte solo perché vuole riscattarsi e fare giustizia per il suo migliore amico. Ma soprattutto… è la persona con cui ho condiviso il cuore del ragazzo che amavo e perciò… Non può essere così male, in fondo… No?”
Il Grifondoro ridacchiò, scuotendo la testa in risposta a quella domanda retorica. “Forse no…”
Non seppero dopo quanto sciolsero il loro abbraccio e si persero a contemplare il sole che ormai stava proseguendo il suo cammino verso la cima dei monti. Fu un riflesso avvicinare le loro mani a tal punto che si sfiorarono inaspettatamente. O almeno, inaspettatamente per Sherlock, il quale si volse con sguardo interrogativo in direzione dell’amico.
“John-”
“E’ per Victor.” si affrettò a dire il biondo. “Io credo… credo che se in questo momento ci stesse guardando, vorrebbe questo. Vederci uniti. Per lui.”
Il moro sembrò rifletterci su per un po’, ma alla fine si limitò ad annuire e a lasciare che le dita del Grifondoro si intrecciassero con le sue. John provò un istintivo calore all’altezza del petto, la stessa sensazione che percepiva ogni volta Victor lo guardava e sorrideva o semplicemente stavano insieme. Vicini… Uniti… Come non avrebbero più potuto esserlo.
Quel pensiero gli inumidì nuovamente gli occhi, ma stavolta non cedette al bisogno di piangere. Si limitò a tirare su col naso e a sfregarsi via i principi di lacrime con la mano libera. Infine, rimase immobile, la mano in quella di Sherlock, gli occhi rivolti verso quel pallido sole.
“Buon compleanno, Victor.”


SPAZIO AUTRICE
Eccomi qua, a poche ore dalla partenza per Manchester, ma ce l'ho fatta!!! Stavo provando a dormire per raccimolare un po' di forza prima di una splendida notte in bianco su pulmann e traghetto e ho pensato "o porca miseria, il capitolo!" E quindi, ta daaaan! Domani probabilmente dormirò in piedi, ma non importa, è per una giusta causa. Grazie mille a voi che, dopo questi difficili anni per la serie, ancora siete qui e ancora leggete queste ff per colmare la vostra vita con un pizzico di Johnlock nella speranza di una quinta stagione. E niente, grazie ancora amici, vi saluto con un bacione grande.

*kiss kiss*
Alicat_Barbix

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