Racconti da Lordran (e oltre)

di seavsalt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il pendente ***
Capitolo 2: *** Un semplice tocco ***
Capitolo 3: *** Diverso ***



Capitolo 1
*** Il pendente ***


Personaggi: Principessa Dusk, Nano Furtivo/Manus

Setting: Regno di Oolacile (antecedente a Dark Souls I), Abisso (accennato)

Pairing: Dusk/Manus (one sided)

Rating: Giallo

Tanto tempo fa c’era un regno dorato, in cui gli abitanti vivevano in pace e in armonia tra loro. Molti di loro erano dei maghi e creavano degli incantesimi totalmente non offensivi, in modo da migliorare la vita all’interno del regno. Il re e la regina governavano in modo tranquillo, senza attuare alcun tipo di ingiustizia o sopruso sui loro sudditi, che trattavano come loro pari. Avevano una figlia bellissima, una creatura delicata e dolce, dal volto semplice, ma splendido nella sua sobrietà. La principessa era cara a tutti gli abitanti del regno e ogni volta che usciva dal castello veniva gioiosamente accolta, mentre lei, con dei sorrisi gentili, salutava tutti i popolani, senza distinzione alcuna. Nacque nella calda alba di un giorno come gli altri, in cui le nuvole dorate si mescolavano con lo splendido cielo arancione; per questo motivo, fu chiamata Dusk dai suoi genitori. Al suo decimo compleanno, inoltre, le fu regalato un pendente, una sorta di portafortuna, che da quel momento in poi avrebbe portato sempre al collo, appeso a una catenina. Quando era ancora una giovane fanciulla, dedita a raccogliere fiori nei giardini che circondavano il castello, si imbatté in un passaggio che non aveva mai visto prima. Era una ragazza molto curiosa e anche molto coraggiosa, per questo motivo decise subito di entrarvi, e subito si ritrovò in un cunicolo buio e umido, scavato nella roccia, che scendeva nelle profondità della terra. Niente a illuminare la strada della principessa, che teneva stretto a sé il cestino di vimini pieno di fiori di ogni tipo, eccetto la calda luce del sole che stava tramontando al di fuori del passaggio e che vi penetrava soltanto grazie al buco nella roccia che aveva permesso a Dusk di accedervi. Ogni tanto la giovane aveva dei sussulti a causa dello svolazzare di qualche pipistrello che passava proprio sopra la sua testa, sfiorando i morbidi capelli castani raccolti in una crocchia. Camminò per molto tempo, in quelli che sembravano minuti interminabili, fino a giungere in un antro buio, ma molto spazioso. In mezzo ad esso un piccolo essere se ne stava rannicchiato su sé stesso e teneva tra le mani l’unica fonte di luce del luogo: il frammento di un’anima, che splendeva di una chiara luce e illuminava lo spazio intorno a sé, come una piccola fiamma. Dusk si avvicinò con cautela alla creatura, osservava la sua pelle completamente raggrinzita, coperta solo da uno straccio strappato, la sua corporatura esile e fragile, la sua nuca priva di capelli, gli occhi, ormai ridotti a semplici punti luminosi all’interno delle orbite fin troppo scavate, che la scrutavano impauriti. Suo padre le aveva raccontato di creature come lui, che chiamavano “nani”, esseri minuti e dalle sembianze di bambini invecchiati senza essere cresciuti nemmeno un po’ fisicamente, eccezione fatta per il loro volto o la loro pelle. I racconti tramandati nel regno li descrivevano come malvagi, capaci di far tutto per rubare qualcosa di prezioso, rapire dolci fanciulle e piccoli bambini, o addirittura in grado di usare incantesimi malvagi molto potenti, diversi in tutto e per tutto da quelli usati dai maghi a cui Dusk era abituata. Eppure, quel piccolo non sembrava assolutamente aderire alla descrizione. Tremava, stringendo tra le mani la sua cara anima, inginocchiato, indietreggiando a ogni passo che la principessa faceva in avanti. La fanciulla tese un braccio verso di lui, abbassandosi un po’ per poterlo vedere bene in volto e sorridergli amichevolmente. < Non aver paura, non voglio farti del male > lo rassicurò, la sua voce come una dolce melodia. L’espressione impaurita del piccolo essere cambiò in un attimo in una più rilassata, mentre con la sua piccola ed esile mano raggiungeva il palmo delicato della principessa, allentando la presa dalla brillante e pura anima. Dusk si sedette accanto a lui, e, accorgendosi che non poteva - o forse non sapeva - parlare, cominciò a tirare fuori qualche bel fiore dal suo cestino, mostrandoglielo e spiegandogli perché l’avesse raccolto. L’altro osservava ogni suo gesto e ascoltava ogni sua parola, come se non avesse mai visto qualcosa del genere prima d’ora. Chissà, si chiedeva la principessa, da quanto viveva all’interno di quella caverna, tutto solo, aspettando solo un po’ di compagnia, terrorizzato di uscire all’esterno. Dusk, effettivamente, era stata forse l’unica, fino ad allora, a scendere fino a lui senza fuggire impaurita, o senza cercare di ucciderlo a prima vista, e il piccolo essere non capiva come potesse starsene lì a sorridergli tranquilla, quando lui era così brutto e sgradevole. La fanciulla prese uno dei fiori che non gli aveva ancora mostrato e glielo porse. < Questo è un fiordaliso, simbolo di amicizia sincera. Tieni, te lo voglio regalare > spiegò, con un gentile sorriso che aveva il potere di scaldare anche il più freddo dei cuori. Sul volto del nano spuntò un sorriso senza denti, ma che trasmetteva pura felicità, mentre con una mano prendeva il delicato fiore, rigirandoselo tra le dita. Nel frattempo Dusk si alzò, mostrandogli un altro sorriso. < Purtroppo adesso devo andare, o i miei genitori si arrabbieranno con me. Tornerò a trovarti, lo prometto! > si scusò, mentre risaliva di nuovo verso l’uscita. Il nano strinse il fiordaliso in una mano, mentre con tristezza la guardava allontanarsi. La gentile principessa, però, mantenne la propria promessa e tornò a trovarlo, non solo il giorno dopo, ma quasi tutti i giorni a seguire, eccetto quelli in cui aveva impegni che le impedivano a malapena di uscire dal castello. Si sedeva accanto a lui e, ogni volta, gli parlava del più e del meno, del regno, della sua vita e dei suoi genitori, di quanto i racconti sui nani, i suoi simili, si sbagliassero. Ogni volta, il nano se ne stava lì, raggomitolato accanto a lei, la ascoltava parlare, la guardava nei bellissimi occhi verdi, tenendo in una mano il fiordaliso, nell’altra l’anima. Un giorno, però, quando Dusk entrò di nuovo nel buio antro dove viveva il nano, lo trovò che urlava e piangeva, piegato su sé stesso. Gli chiese cosa fosse successo e il suo piccolo amico, in risposta, le mostrò il fiordaliso che gli aveva donato ormai un bel po’ di giorni prima. Il fiore era disteso nel piccolo palmo della sua mano, quasi senza petali, morto. La fanciulla sorrise dolcemente e appoggiò una mano sulla sua nuca per confortarlo, accarezzandolo delicatamente. < Senza acqua e luce solare i fiori non possono vivere, sai? > spiegò pazientemente, mentre l’altro, gradualmente, cessava di piangere e urlare, calmandosi al gentile tocco della sua cara principessa. Continuava, però, a guardarla dispiaciuto, come se le sue parole non bastassero a eliminare la tristezza che aveva. Dopotutto, quel fiore era l’unica cosa che aveva di lei e che gliel’avrebbe ricordata anche quando non era lì assieme a lui. Dusk riuscì a intendere subito i suoi pensieri semplicemente dal suo sguardo e gli disse, calma e dolce come sempre: < Non preoccuparti, ho qualcos’altro da darti >. Così dicendo si portò le mani al collo, facendo scivolare via la catenina che portava da quasi sei anni ormai, staccandone il pendente e donandoglielo. < Questo me lo hanno regalato quando ho compiuto dieci anni, come un portafortuna, ma io credo che non mi serva qualcosa del genere. Tienilo tu, come simbolo della nostra amicizia > gli disse, con aria felice. Il piccolo essere la guardava stupito, come se non si aspettasse un dono tanto grande, ma subito dopo lo prese con una mano, stringendolo delicatamente nel palmo, facendo attenzione a non romperlo. < Quel pendente di certo non può morire! > esclamò la fanciulla ridendo gioiosamente, mentre il nano le sorrideva con felicità. Quel pendente sarebbe diventato l’oggetto più prezioso che avesse mai avuto, quasi più importante dell’anima che stringeva sempre in una mano, senza mai lasciarla andare. Passarono sempre più settimane e ad un certo punto il nano si accorse di sentirsi in dovere di fare anche lui un regalo alla principessa Dusk, la sua amica più grande, per la quale provava un sentimento che forse andava anche al di là dell’amicizia, una sensazione che sentiva bruciare nel petto ogni volta che la vedeva o la sentiva parlare, ma che non sapeva descrivere, non avendola mai provata prima di allora. Egli provò a pensare a cosa poterle regalare come simbolo di ciò che sentiva per lei, ma all’interno della sua caverna non c’era molto, a parte oscurità e l’anima che teneva con sé; ma quella era una cosa che non poteva assolutamente donarle. Un giorno, quando Dusk tornò a fargli visita, il nano le fece dei gesti con le braccia, per farle capire che aveva qualcosa di importante da mostrarle. La fanciulla capì subito cosa intendeva dire, e si mise seduta a guardare in silenzio. Lui le mostrò il pendente che aveva in mano e che lei gli aveva donato, per poi spezzarlo in due con la sola forza delle mani. Per un attimo la fanciulla rimase sbigottita, pensando che fosse accaduto qualcosa che aveva offeso il suo piccolo amico, ma, quando quest’ultimo le offrì una metà del pendente ormai spezzato in due, intese il gesto che l’altro aveva appena compiuto. < Ho capito. È il simbolo della nostra amicizia, qualcosa che possiamo avere entrambi l’uno dell’altro > osservò, sperando in un’approvazione del proprio pensiero. Il nano sorrise, annuendo, e poi strinse l’altra metà del pendente nella mano, portandoselo al petto. Dusk, dolcemente, sorrise a sua volta e infilò la propria metà alla catenina che aveva ancora al collo. < Grazie. Hai reso questo pendente ancora più prezioso, con il tuo gesto. Grazie di cuore > gli disse commossa, tanto da avere quasi le lacrime agli occhi. Il nano, al sentire quelle parole, era al settimo cielo, ma la sua felicità non sarebbe durata molto. Dopo quel giorno, Dusk non tornò più nella sua caverna. Non lo andò più a trovare, a parlare con lui, a mostrargli con orgoglio la metà di pendente che portava al collo. Dapprima si sentì profondamente tradito, come una pugnalata alla schiena. Poi cominciò a crescere in lui un sentimento forte, che aumentava di giorno in giorno, gli lacerava il petto, lo rendeva pesante. Uscì all’aria aperta, sotto la volta celeste, a cercare la sua amata principessa. Non poteva averlo abbandonato, non dopo ciò che gli aveva detto. Non era colpa sua, lo sapeva. Vide il fantastico regno in cui lei viveva, le alte mura del castello dorato, gli splendidi giardini, le maestose fontane; vide tutte quelle meraviglie, ma niente di ciò lo interessava. Camminava, a quattro zampe, lungo le strade nascoste agli occhi dei cittadini, fino a che non sentì delle voci. < Non è possibile, non ci credo >, dicevano, < non possono aver davvero rapito la principessa Dusk, come faremo senza di lei? >. Quelle parole furono come un fulmine a ciel sereno, per il nano. Un’altra sensazione, forte quasi come l’altra, ma che per quel momento riuscì a sovrastarla, lo accecò, impedendogli di rendersi conto delle proprie azioni. La creatura si scagliò sui due cittadini che stavano parlando tra loro, disperati per la scomparsa della principessa, affondando i suoi artigli nelle loro carni, fino a lasciarli cadere a terra, distesi senza vita come il fiordaliso che Dusk gli aveva donato tanto tempo prima. Corse via, tornò nella sua caverna, di nuovo dominato da quella sensazione lacerante, urlando e piangendo disperatamente, graffiandosi il petto senza sentire alcun dolore, perché quello che già provava era molto più grande. Le sue lacrime si fecero scure, caddero nell’anima che stringeva a sé assieme alla sua metà di pendente. Le tre cose si fusero insieme, in una massa scura, nera, che si insinuò all’interno del suo petto sfigurato. Egli crebbe, diventò sempre più grande, diventando un mostro ancora più orrendo e terrificante di quanto fosse prima. Gli spuntarono delle corna, venne ricoperto da del pelo nero, i suoi due occhi si moltiplicarono in molti piccoli punti di colore rosso, che risaltavano nell’oscurità che lo circondava, i suoi arti si allungarono sempre di più e, alla fine di essi, c’erano due enormi mani, una più grande dell’altra. Ringhiò, pieno di ira e di disperazione, tanto da far tremare tutto il sottosuolo. Emanava un’aura oscura, che fluiva in tutta la caverna e si espandeva anche nei cunicoli, dando vita a dei piccoli ammassi di pura oscurità, privi di qualsiasi forma, su di loro si potevano notare solo due piccoli occhietti bianchi. Fluttuavano, ammassandosi tra di loro e poi tornando a dividersi, alcuni più piccoli, altri più grandi. Il nano avrebbe raggiunto il suo desiderio più grande, ciò che aveva causato alla sua rabbia e alla sua tristezza di trasformarsi in un’oscurità abissale, che presto avrebbe raggiunto tutto il regno, che, privo della principessa Dusk, era caduto nella stessa disperazione. Quei sentimenti, quell’ira accecante e quell’avvilimento straziante, vennero chiamati “Abisso” dai regni vicini. Molti guerrieri valorosi e impavidi tentarono di sconfiggerlo, ma nessuno di essi avrebbe fatto ritorno alle proprie terre d’origine. E prima o poi, il nano, ormai divenuto una terrificante mostruosità, si sarebbe impossessato di nuovo della sua cara principessa, e non l’avrebbe più lasciata andare. Manca soltanto una cosa, l’altra metà del pendente. Chiunque la trovi, è avvisato: la vendetta dell’Abisso lo trascinerà in quelle terre desolate e straziate dalla disperazione dei suoi stessi abitanti, un tempo luogo di gioia e benessere, origine di incantesimi pacifici e dorati, e casa della dolce principessa Dusk e dei suoi genitori, il re e la regina.

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Capitolo 2
*** Un semplice tocco ***


Personaggi: Creighton di Mirrah, Pate

Setting: Drangleic, Cava Pietralucente di Tseldora (Dark Souls II)

Pairing: Creighton/Pate (one sided, accennata)

Rating: Arancione

Ogni volta che si accampava, in fuga da Mirrah, Creighton si sentiva terribilmente solo. Una sensazione che agiva lentamente, pian piano gli lacerava il cuore e lo rendeva ancora più vulnerabile all’avanzare della maledizione che si portava sulle spalle, opprimendolo. Viaggiava, in terre lontane e sconosciute, vagando come un pellegrino in cerca di aiuto. Eppure, nessuna mano gli sarebbe stata amica: desiderava molto che qualcuno, almeno uno di tutti i viaggiatori che avevano incrociato la sua strada, gli porgesse la propria mano, piuttosto che avvolgerla saldamente attorno all’elsa di una spada, o al bastone di una mazza. Invece era quasi costretto a fare stragi, massacri, senza un briciolo di pietà. Avrebbe pagato cara la minima esitazione. Non c’era spazio per i sentimenti, nella vita Creighton, e come poteva essere altrimenti? Chi si sarebbe fidato di uno come lui, uno sporco assassino, il cui viso era anche coperto da una maschera che nascondeva ogni dettaglio, eccetto gli occhi? Creighton aveva imparato a convivere con tutto questo, o almeno così pensava. Tuttavia, ogniqualvolta si sedesse davanti a un falò, solo con sé stesso, si sentiva corrodere all’interno da qualcosa che, più che una sensazione, era una vera e propria malattia, per lui incurabile. Camminava, senza una meta, con i piedi doloranti e la mente da tutt’altra parte. Era vicino al nulla assoluto, alla perdita di ogni facoltà mentale gli fosse ancora rimasta: adesso un non-morto, presto sarebbe diventato vuoto. Eppure lì, sotto il sole cocente, qualcuno gli porse la mano, pronto ad aiutarlo, a salvarlo dall’ormai prossima follia. I raggi del sole lo illuminavano troppo, la sua figura era quasi indistinguibile. Creighton lo fissò dalla maschera, con le sue pupille di un azzurro quasi trasparente, e afferrò la mano guantata che gli veniva tesa. Il falò, quella notte, bruciava più intensamente del solito. Una fiamma alta, di un rosso vivo, ardeva vivace, riscaldava le membra del non-morto seduto davanti ad essa. La buia notte di un cielo senza stelle veniva illuminata da quel singolo fuoco, in mezzo a una distesa di erba alta. Un fruscio bastò a fargli capire che qualcuno si stava avvicinando a lui. < Come pensavo, siamo molto vicini a Tseldora. Ci aspettano una montagna di minerali preziosi, Creighton >. Il non-morto si voltò, lentamente, facendo ondeggiare alcune ciocche degli argentei capelli, e guardò verso l’alto. < Pate >, lo chiamò, con voce flebile, quasi inaudibile. Il compagno cambiò improvvisamente espressione, facendosi più severo. < Togliti la maschera, per favore >. Una richiesta tanto improvvisa quanto prevedibile. Creighton eseguì l’ordine senza proferir parola, portando lentamente le dita a contatto con il metallo della maschera, che, nonostante fosse rimasta a contatto con il calore del fuoco per un gran lasso di tempo, risultava sempre fredda al tatto. Lasciò che scivolasse via, scoprendo il suo volto: un volto emaciato, di un colorito verdognolo. Le orbite, contornate da un paio di occhiaie nere come la pece, erano così incavate che si faceva fatica a distinguere i bulbi oculari, una volta ornati dall’iride di un azzurro splendente, adesso spenti, vuoti, bianchi. < Perché… Perché non me lo hai detto prima? >, Pate sembrava più arrabbiato che preoccupato. Creighton non lo guardava negli occhi, teneva la testa bassa, perso nel vuoto. < Ho finito le effigi >. Il compagno appoggiò a terra la lancia con cui era armato, poi si inginocchiò accanto a lui, scrutandolo con le pupille nere. Fece schioccare la lingua, mentre le sue mani andavano a tastare all’interno della sacca che teneva a tracolla, cercando qualcosa di indefinito, fino a che non tirò fuori da essa un ninnolo familiare, a prima vista un semplice intreccio di fili neri a formare una sagoma curiosa, ma quando la si guardava più a lungo era possibile vedersi rispecchiati in essa, ritrovare il proprio aspetto perduto a causa della maledizione. Pate la teneva sicuro nel palmo della mano destra, mentre sospirava. < Non devi buttarne una per me > si affrettò a fermarlo Creighton, senza successo. Pate scosse la testa. < Ho bisogno di te >, parole dette con una semplicità disarmante, che perforarono il cuore senza battiti di Creighton. Ormai era da un bel po’ di tempo che si ritrovavano a viaggiare insieme per le terre di Drangleic come soci, compagni di furti dei più noti tesori del regno. Aveva bisogno di lui per continuare a rubare oggetti preziosi senza rischiare di venire ucciso nel processo. Lo sapeva, ma non poteva fare a meno di pensare diversamente. Pate avvicinò la mano con l’effige al suo petto e la sagoma cominciò ad emettere una soffusa luce biancastra, sgretolandosi pian piano, mentre Creighton sentiva qualcosa di caldo fluire dentro di lui, avvolgendogli il cuore. La pelle tornò al suo pallido colorito originario, gli occhi erano di nuovo splendidamente azzurri. Persino i capelli, che prima assomigliavano più a paglia bianca, assunsero una consistenza morbida e soffice al tocco, e il loro colore argenteo fu più brillante. Il palmo della mano destra di Pate, che adesso non teneva più nulla, era completamente appoggiato sul petto del compagno, che riprese ad alzarsi e ad abbassarsi conformemente al suo respiro. Per un momento i due rimasero in silenzio, a guardarsi vicendevolmente, mentre Pate poteva percepire il battito cardiaco di Creighton. Il volto di quest’ultimo si fece improvvisamente di un colorito più roseo, mentre l’altro sollevava piano la mano dalla sua cassa toracica. Entrambi tornarono a guardare da un’altra parte, come se nulla fosse accaduto. < Grazie, Pate > furono le ultime parole di Creighton per quella notte, soffocate in una mano che aveva posto sulla propria bocca. Tuttavia, Pate le udì lo stesso. < Cerca di non diventare vuoto > disse, con le mani sui fianchi, senza guardarlo negli occhi. Creighton aveva desiderato quel tocco per molto tempo. Il tocco di una mano amica, che lo avrebbe consolato nei momenti più difficili e salvato dai pericoli. Era tutto ciò che aveva sempre sognato ed era tutto ciò che Pate gli aveva sempre dato, dissipando la sensazione di solitudine che gli sfiancava l’anima. Avrebbe voluto fare lo stesso con lui, tenere quella mano nella propria, ripagarlo per il bene che gli aveva fatto. Non ci riusciva, c’era sempre qualcosa a bloccarlo, qualcosa di misterioso, mai provato prima. E quando credeva che tutto il suo dolore fosse scomparso, che nulla lo avrebbe più fermato da quel momento in poi, la mano che fino ad allora lo aveva sollevato quel giorno stringeva una lancia contro di lui, alle sue spalle, mentre era impegnato ad aprire il pesante coperchio di un baule pieno di minerali preziosi. < Perché? Perché, Pate? > continuava a chiedere, senza ricevere risposta, con voce spezzata. < Ti do la possibilità di combattere, invece di conferirti la morte di un bastardo, ma la scelta è tua >, parole colme di veleno dalla bocca di Pate, scagliate con forza addosso a Creighton. < Morirai qui senza opporre resistenza, o avrai il coraggio di impugnare le armi contro un compagno? >. Creighton non si accorse neanche di cosa fosse accaduto fin quando non si ritrovò a piantare la propria ascia dritta nel cranio di Pate, dividendolo a metà. Estrasse con forza l’arma, provocando uno spruzzo di sangue che piovve addosso a lui, mentre ansimava rumorosamente, guardando un punto non ben definito nello spazio. Lentamente e a grandi passi si diresse barcollando fuori dall’edificio in cui avevano trovato il tesoro, che neanche si ricordò di raccogliere dalla cassa. Un nuovo dolore si faceva strada in lui, una nuova malattia, stavolta veramente incurabile. La disperazione lo consumò completamente, prendendo il controllo su di lui. Vagava per le terre di Drangleic, senza meta e senza provare più nulla, continuando a uccidere chi gli bloccava la strada senza un briciolo di rimorso, senza più alcuna speranza. Camminava in eterno, vuoto.

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Capitolo 3
*** Diverso ***


Personaggi: Ledo, Havel la Roccia, Cavaliere Artorias, Ornstein l'Ammazzadraghi; Smough il Giustiziere, Lord Gwyn (menzionati)

Setting: Anor Londo (anteriore a Dark Souls I)

Pairing: Havel/Ledo

Rating: arancione

Trigger warning: tematica dell'omofobia

L’armatura d’argento scintillava sotto la luce del soffio infuocato, scaturito dalle enormi fauci della bestia colossale. Gli altri cavalieri trafiggevano con l’ausilio di lance e spade costantemente la dura pelle, cercando di abbattere il drago, mentre numerosi arcieri miravano dritti al centro delle sue iridi gialle. Ledo era l’unico a colpire con un enorme e pesante martello. Non l’unico in tutta Lordran: lo precedeva per fama il temibile giustiziere Smough, ma l’unico tra i cavalieri d’argento, soldati al servizio del Lord del Sole, il cui unico obiettivo era distrarre la bestia, farla cadere al suolo magari, ma nulla di più, poiché soltanto i fulmini, elemento padroneggiato da pochi, valorosi guerrieri, poteva realmente scalfire le resistenti scaglie dei veri draghi. Non c’era motivo che uno come loro adoperasse un’arma pesante e di conseguenza lenta. Eppure, quando venne arruolato, fu talmente coraggioso da pronunciare di fronte al leggendario Ornstein e a testa alta, le parole: < Desidero usare un martello, signore >. La reazione di chiunque fosse nella stanza in quell’esatto momento trasmetteva, per usare un eufemismo, grande sorpresa e sconvolgimento. Chi avrebbe mai detto che Ledo sarebbe diventato il primo cavaliere d’argento a brandire un grosso martello, forgiato su misura per lui dal miglior gigante fabbro di tutta Anor Londo -gigante che poi sarebbe divenuto uno dei suoi più grandi amici? Quella era la prima volta che lo usava in battaglia contro un vero drago, nemico acerrimo di Lord Gwyn e di tutta Lordran. Tuttavia, aveva ancora molto da imparare. Nonostante scagliasse dei colpi molto energici e distruttivi, erano anche estremamente lenti e difficilmente riuscivano a colpire con successo le dita artigliate della bestia, una volta costretta a terra dalle spesse frecce pensate appositamente per abbattere i draghi. Per caricare un singolo colpo necessitava di un grande sforzo e spesso veniva interrotto a metà. Si accorse che il suo impegno era vano quando il drago, stanco di essere colpito sulle zampe, localizzò la fonte del proprio disturbo e sollevò la zampa nel tentativo di schiacciarla a terra. Ledo si trovava impedito nella corsa dalla sua stessa arma, mentre l’enorme minaccia piombava su di lui a una velocità sempre più alta. Chiuse le palpebre, ormai era la sua fine, ma in quel momento qualcosa lo travolse, buttandolo fuori dall’area di pericolo appena in tempo. Riaprì gli occhi a fatica, a causa del contraccolpo: il grande Artorias era in piedi di fronte a lui, gli dava le spalle. In una mano teneva l’enorme scudo, nell’altra brandiva il pesante spadone. < Rialzati, cavaliere > gli ordinò, con voce ferma e severa. Ledo si mise a stento sui gomiti, tentando di tenere gli occhi aperti in qualsiasi modo. L’ultima cosa che vide, prima di collassare rovinosamente al suolo con un forte rumore metallico, fu la scintillante armatura dorata di Ornstein, che con un potente fulmine scagliato direttamente dalla punta della sua lancia perforò definitivamente le scaglie del drago, rendendolo vulnerabile a tutti quegli attacchi che in precedenza servivano soltanto a distrarlo.

< Perché hai scelto proprio lui? Ti sei buttato in mezzo a un gran bel rischio > una voce squillante, lontana, giungeva ovattata fino alle proprie orecchie. < Non sono stato io a scegliere, Ornstein. Me lo ha ordinato Havel. Lo sai, mi avrebbe schiacciato entrambe le mani se non lo avessi fatto e a quel punto addio vita da cavaliere! > rispose un uomo, con tono irritato. Una voce che aveva sentito poco prima di svenire in combattimento: quella di Sir Artorias. Ledo si sollevò dal letto su cui era sdraiato, avvertendo dolori in tutto il corpo: anche soltanto rimanere seduto era un patimento. Si portò le mani alle tempie, su cui pareva che gli stessero tamburellando con una picca, notando che erano fasciate con una garza. < Fantastico > osservò a voce alta, mentre sul volto si creava una smorfia di dolore. Le voci cessarono, ora c’era solo il distante rumore dei cavalieri che conversavano, si allenavano o mettevano a punto le loro armi, al di fuori della tenda in cui si trovava e in cui qualcuno, all’improvviso, entrò. < Sei sveglio, finalmente. Diamine, ce ne hai messo di tempo >. < Non farmi la predica, Artorias, ti prego > rispose Ledo con tono implorante. Il leggendario cavaliere di fronte a lui rise di gusto. < Non solo fallisci nella tua prima missione, ma ti prendi anche la libertà di usare un tono colloquiale con il grande cavaliere Artorias >, parole che potevano sembrare di rimprovero, ma pronunciate con tono ironico dal cavaliere. < A proposito della missione… Il mio martello. Ce l’avete ancora, vero? > chiese con preoccupazione Ledo, come se non avesse udito tutto il resto delle parole. Dapprima Artorias lo guardò interdetto, ma ben presto un largo sorriso si fece spazio sul suo volto. < Non ti arrendi, eh? C’era da aspettarselo, da uno che ha insistito tanto per avere un’arma fuori dalla convenzione. Mi piace questo aspetto di te, Ledo, per questo ti ho salvato >. < Balle > lo interruppe svelto il cavaliere d’argento < ho sentito la tua conversazione con Ornstein, qua fuori >. Non accennò al fatto che il cuore gli battesse all’impazzata nel sentire che era stato Havel a decidere per la sua salvezza. Havel la Roccia, proprio quel famoso guerriero che lo aveva ispirato, che lo aveva convinto ad adoperare un’arma pesante in battaglia, come il suo Dente di Drago. Peccato che limitarsi ad osservarlo mentre si allenava non bastò a far sì che Ledo imparasse a combattere come lui. < Umpf. Mi rovini ogni divertimento > disse Artorias mentre gonfiava le guance, mettendo le mani sui fianchi. < A proposito, c’è qualcuno qui fuori che vuole parlare con te >. < Di chi si tratta? > chiese il cavaliere d’argento, ma l’altro non gli diede il tempo di formulare la domanda che già si era piombato fuori. Al suo posto, entrò nella tenda un uomo enorme, piazzato, i cui poderosi muscoli non venivano nascosti nemmeno dalla lunga tunica che indossava. Viso austero, solcato da qualche ruga qua e là, capelli neri, un po’ brizzolati, tirati all’indietro e lunghi fino all’attaccatura del collo. Gli occhi di un blu scuro scrutavano il giovanile volto di Ledo, consumato da qualche graffio qua e là. Il cavaliere d’argento rimase quasi a bocca aperta nel vedere quel colosso stagliarsi di fronte a lui. Havel. Havel la Roccia. Ledo si inchinò rapidamente - per quanto potesse farlo da seduto - con grande rispetto ed ammirazione. Avrebbe potuto piangere, se solo non fosse al suo cospetto. < Su la testa, cavaliere, non sono Lord Gwyn > ordinò l’uomo, con voce roca e ferma, per poi sistemarsi su una sedia accanto al letto. < Hai ferite gravi? > chiese, un leggero tono di preoccupazione. Ledo, in tutta risposta, scosse la testa, a indicare che non ne aveva. < Non puoi parlare? > domandò di nuovo Havel, inarcando un sopracciglio. Ledo deglutì. < No, signore. Sono solo emozionato. Insomma, io la rispetto moltissimo, è davvero da tanto tempo che- > < Lo so > lo interruppe bruscamente la Roccia, sorridendo leggermente. < So da quanto mi osservi mentre mi alleno. So anche chi sei. Ledo, primo cavaliere d’argento col martello. Sono stato io a ordinare a Sir Artorias di salvarti. Vuoi sapere perché? > continuò, senza battere ciglio. Ledo rimase colpito, quasi paralizzato, imbarazzato e lusingato nello stesso tempo sentendo che l’uomo che ammirava più di tutti sapeva tutte queste cose su di lui. Il cuore sembrava volergli uscire dal petto. < Sì signore, mi piacerebbe saperlo > furono le uniche parole che riuscì a dire il cavaliere d’argento. < Bene. Ho ordinato che tu rimanessi in vita perché voglio che ti alleni con me. Ti ho visto, là nel campo di battaglia, non desidero che tu sprechi il potenziale che hai > rivelò l’uomo, lasciando Ledo senza parole. Non si sarebbe mai tirato indietro, in fondo avrebbe potuto fare ciò che desiderava da tempo e che non aveva mai avuto il coraggio di chiedere. < Non so che dire, davvero, per me è un onore… Solo una curiosità, signore > disse improvvisamente Ledo, con tono interrogativo. Havel lo incitò a continuare a parlare con un gesto della mano. < Io ho fallito in battaglia, non ho dimostrato niente di niente, non ho potenziale… Allora perché? > chiese il cavaliere, curioso di sentire se Havel fosse serio o meno. < Il potenziale non si dimostra con il successo in battaglia, Ledo. Non ti sei arreso, mai, fino alla fine, nemmeno quando ti sei accorto di star solamente rallentando i tuoi compagni. Questo è quel che conta e che fa di te un cavaliere onorevole e unico, diverso da tutti gli altri >. Ledo lo guardava, arrossendo visibilmente. < Diverso? > < Sì, ma una diversità di cui dovresti vantarti >. Era vero, Ledo era sempre stato diverso, non amava seguire la massa. Non lo aveva mai visto come un qualcosa di positivo. < Se lo dice lei, le credo > rispose infine, con un sorriso sulle labbra. < Ottimo. Se puoi alzarti, seguimi > gli ordinò Havel, alzandosi in piedi. < E dammi pure del tu >.

Gli allenamenti con Havel erano decisamente intensi e tosti, soprattutto per un novellino come Ledo, che all’inizio faceva molta fatica a tenere il passo con il proprio maestro. Tutto ciò, però, lo portò senza dubbio a migliorare in combattimento, superando alcuni ostacoli non da poco. Inoltre, l’allenarsi sempre insieme ebbe l’inevitabile conseguenza di avvicinare i due, che impararono a conoscersi col tempo e addirittura a sviluppare un forte legame di amicizia e fedeltà. Allo stesso tempo ciò permise al sentimento di rispetto e ammirazione che Ledo aveva per Havel di crescere in maniera eccessiva, fino a diventare qualcosa di più, tanto che impediva al giovane cavaliere di chiudere occhio la notte o di concentrarsi al meglio negli allenamenti. Ovviamente questi furono cambiamenti difficili da passare inosservati sotto gli occhi della Roccia, che un giorno, subito dopo aver terminato la simulazione di un combattimento assieme al cavaliere d’argento, si avvicinò a lui, mentre sedeva con sguardo assente su di uno scalino di pietra, parte di una gradinata che si collegava direttamente con la cattedrale di Anor Londo, il fulcro della città degli dèi, dove risiedeva anche il Lord insieme agli amati figli. < Tutto bene? Ti vedo un po’ distratto > osservò Havel, senza troppi giri di parole, il proprio peculiare anello, inserito nell’anulare sinistro, scintillava sotto il caldo sole. < Sì, sto bene > rispose Ledo con noncuranza, come se non avesse ascoltato una parola di ciò che l’uomo gli aveva detto. Poi, quasi si fosse accorto in quel momento di aver mentito, scosse la testa rapidamente, sospirando. < Ecco, in realtà c’è una cosa che devo dirti, Havel >. < Ah, sì? Di che si tratta? > domandò l’altro, curioso di sapere cosa tormentasse tanto l’amico. Ledo si grattò la nuca, imbarazzato, mentre prendeva un grosso respiro. < Tu mi piaci, Havel > disse infine, rosso in volto, senza guardarlo direttamente in volto, ma notando con la coda dell’occhio l’espressione confusa che l’uomo aveva assunto. < Anche tu mi piaci, Ledo. Sei un ottimo amico > rispose l’altro, sorridendo lievemente. Aveva senza dubbio mal interpretato la dichiarazione fattagli da Ledo, ma ormai il cavaliere pensò che fosse troppo tardi per ripeterla di nuovo, non aveva più il coraggio. Sorrise, amareggiato, tentando di nascondere la propria delusione. < Scusami, forse era ovvio. Ora credo di dover andare >. Si alzò in piedi e si allontanò da solo, in silenzio, senza che Havel lo seguisse. Non nascondeva di esserci rimasto male, ma chissà, forse c’era una differenza d’età troppo grande o semplicemente non era davvero interessato a lui in quel senso. Mentre camminava lungo le strade dorate e desolate della mastodontica Anor Londo, un gruppo di cavalieri del suo stesso rango si avvicinarono a lui. Li riconobbe, molti erano suoi compagni nelle file dell’esercito di cavalieri d’argento, tuttavia gli sfuggiva il motivo per cui si fossero accostati a lui in tal modo, quasi accerchiandolo, così che non aveva più modo di fuggire nel caso la situazione si fosse fatta pericolosa, cosa che normalmente non sarebbe dovuta accadere. < Ricciolino > lo chiamò uno di loro, indicandolo, facendo riferimento ai suoi capelli mossi, molto particolari. < Adesso ci ascolterai, o finirai male senza nemmeno avere il tempo di opporti > ordinò quel cavaliere con tono arrogante. Ledo cominciò a sudare freddo, quella situazione non gli piaceva affatto. Non aprì bocca e lasciò che l’altro continuasse. < Ci hai ostacolati in battaglia. Per colpa tua, molti dei nostri compagni sono rimasti feriti, o addirittura morti >, a quelle parole si sollevò un vociferare da parte degli altri cavalieri, che incitavano il loro “capo” esaltando il suo discorso. Egli li zittì con un rapido gesto della mano. < Inoltre siamo appena venuti a sapere non solo che ti alleni segretamente con il capo di un altro esercito, il famoso Havel la Roccia, trascurando le normali esercitazioni, ma inoltre simpatizzi anche per lui a tal punto da provare sentimento? Disgustoso! Dico, si è mai vista una cosa del genere? Un uomo, un cavaliere d’onore, provare sentimento per un altro onorevole cavaliere, per giunta più anziano? Veramente disgustoso > continuò, con tono sprezzante, rivolgendosi al gruppo di cavalieri che in coro annuiva a tutte le sue constatazioni. Ledo impallidì in volto, mordendosi le labbra per evitare di urlare contro di loro: non sarebbe stato saggio, in quanto era in evidente minoranza numerica, anche se nessuno era armato. < Chi te lo ha detto? > si limitò a dire a denti stretti, facendo sanguinare il proprio labbro. < Non sono affari tuoi. Senti la nostra proposta, che sarai costretto ad accettare se hai cara la vita: tu prendi una normale arma, che si addice a un cavaliere del nostro rango, e smetti di frequentare quell’uomo per non portare più vergogna a noi onorevoli cavalieri. Oppure puoi sempre disertare e fuggire in terre lontane. A te la scelta > propose il cavaliere, guardandolo dall’alto al basso, mentre gli altri si irrigidirono, pronti ad agire in caso Ledo avesse fatto un passo falso. Ma il cavaliere col martello non si mosse, rimase fermo al proprio posto e pronunciò un chiaro e forte: < No >. Con lo sguardo fisso sul cavaliere che gli aveva parlato, continuò a negare la proposta, deciso. < Non farò come dite >. < Oh, avete sentito? Si rifiuta! Non hai diritto di decidere, Ledo. Sei diverso da noi. E i diversi non vengono accettati >. Sentire la parola “diverso”, pronunciata con tanto veleno, lo mandò su tutte le furie. Havel gli aveva insegnato che essere diverso non era qualcosa di cui vergognarsi. Perché, allora, i cavalieri gli avrebbero detto il contrario? In realtà quel mondo non accettava davvero chi era “diverso”? Perché Havel gli aveva mentito? < Bugiardi! Siete dei bugiardi! > urlò Ledo, in lacrime, coi pugni serrati. Il gruppo di cavalieri si gettò immediatamente su di lui, buttandolo a terra. Lo presero a calci, a schiaffi, a pugni, gli sputarono sopra, mentre lui se ne stava lì, inerme, con le guance bagnate di lacrime e sangue. Era allo stremo delle forze, pieno di lividi, botte, sangue, graffi, non poteva più muovere un muscolo, non ci vedeva più. Sentì la voce di qualcuno di noto urlare dalla distanza, fino a farsi sempre più vicina. < Fermi, vi ordino di fermarvi! > implorava Ornstein, con tono severo, ma preoccupato. Tuttavia i cavalieri fuggirono prima che egli li potesse vedere in volto, sfuggendo alla loro giusta e meritata punizione. L’Ammazzadraghi si inginocchiò al fianco di un ormai esanime Ledo, tanto vicino alla morte da non averne più timore. < Stai calmo, ora ti sollevo e ti porto al- > < No, per favore… > lo interruppe il cavaliere d’argento, con voce flebile, spezzata, quasi inaudibile, tanto che il cavaliere del leone dovette avvicinarsi ancora di più a lui per sentirlo. < Come? Che stai dicendo! Forza, aggrappati a me > lo rimproverò, tentando di sollevarlo delicatamente. < Se mi farai curare… io fuggirò… e mi ucciderò… non servirà a nulla… salvarmi… > parlava a stento, impiegando tutte le sue ultime forze a fermare Ornstein, il quale, capendo che non stava scherzando, smise di provare a sollevarlo da terra. < Perché, Ledo? Havel mi ucciderà! > urlava l’Ammazzadraghi, disperato. < Digli che mi dispiace… che lo amavo… fallo per me… ma non dirgli la verità… sulla mia morte… > continuò Ledo, un piccolo sorriso stampato sul volto. Ornstein non rispose, lo osservò fino a che non esalò il suo ultimo respiro, mentre gli occhi si facevano vitrei e il suo corpo si irrigidiva. Si chinò sul suo cadavere, colmo di rabbia.

Quando Havel venne a sapere della morte di Ledo, non parlò più se non per dare ordini e passava le giornate ad allenarsi da solo. Gli venne riferito, come voleva il suo defunto amico, che era morto in un incidente e gli furono rivelate le sue ultime volontà. Anche Havel avrebbe voluto morire, ascoltando quelle parole, ma invece doveva vivere proprio per lui. Finché un giorno non seppe la verità. La cruda verità, stavolta senza filtri, direttamente dalle labbra di uno degli assassini, che non riusciva più a vivere per i sensi di colpa. Subito dopo averlo fatto confessare, Havel lo uccise brutalmente, senza alcuna pietà, in silenzio. Radunò i suoi uomini e diede loro dei nuovi ordini. < Uccidete tutti i cavalieri d’argento. Tutti, senza eccezioni. Che gli dèi provino a fermarci, se vogliono. Annienteremo anche loro > comandò, con fermezza e impassibilità, rigirandosi tra le mani un’arma occulta, il famoso tallone d’Achille delle divinità che regnavano su Anor Londo. Il cavaliere d’argento che si consegnò direttamente nelle mani di Havel, smascherando tutta la verità sulla morte di Ledo, menzionò anche il motivo per cui lo assassinarono in quel modo. Al sentire la parola “diversità”, la Roccia si mise a ridere di gusto, poco prima di prendere il suo Dente di Drago e scaraventarglielo sul cranio con crudeltà. Come poteva Ledo essere diverso da loro, quando nemmeno gli dèi erano tanto diversi dai draghi, i loro acerrimi nemici, in quanto entrambi miravano a mantenere la supremazia su delle terre e potevano essere distrutti molto facilmente se si sfruttava il loro punto debole?

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