Il cielo è poi così lontano

di LionConway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I. ***
Capitolo 2: *** Atto II. ***
Capitolo 3: *** Atto III. - Parte I. ***



Capitolo 1
*** Atto I. ***


NOTE D'AUTORE UTILI ALLA LETTURA.

Questa storia è ispirata al film Novecento di Bernardo Bertolucci, i cui protagonisti, Alfredo e Olmo mi sono rimasti nel cuore fin da subito proprio per via del loro legame trascendentale. Nella storia si fa riferimento al fatto che sono nati lo stesso giorno, su fronti differenti, ed è così anche nel film. Potevo quindi non pescare l'occasione per scrivere una soulmate!AU su questi due? Che sono già anime gemelle nel canon? Nossignore, no. 
So che avrei forse dovuto inserire la storia nella sezione Film > Altro, ma spero non sia comunque un problema: è una sezione morta e sepolta già fin quasi dal momento in cui è stata aperta e avrei un sacco paura possa scoraggiare la lettura a chi mi segue. Inoltre, trovo che sia giusto dare la possibilità a chiunque di conoscere questi personaggi, protagonisti di una pietra miliare del cinema italiano che andrebbe visto da chiunque. Credo sia il miglior film ad aver raccontato alcuni dei grandi orrori del Fascismo. 
La trama riprende molti eventi del film (ma non tutti. Ci manca solo scrivere tutto ciò che accade in cinque ore di pellicola!), ma sono tranquillamente comprensibili senza averlo visto. Alcune scene sono riportate quasi esattamente come sullo schermo, ma rielaborate a modo mio per rendere il tutto coerente con il tipo di AU e il prompt scelto per la challenge. E' una one shot, ma dal momento che mi stava venendo parecchio lunga ho deciso di tagliare in due atti, riprendendo la stessa suddivisione del film. Facendo le dovute premesse, spero che vi piaccia. 

La canzone che accompagna tutta la storia e da cui prende il titolo è Baciami, Alfredo de Il Banco del Mutuo Soccorso (che tutti i fan detestano, ma personalmente è una delle mie preferite), che io trovo assolutamente perfetta per la relazione tra questi due. 

 

 

 

Questa storia partecipa alla Soulmate Challenge indetta sul gruppo Facebook Il Giardino di EFP.

Prompt: Quando uno prova dolore, lo sente anche l'altro
 

1

Il mare era più grande e fatto con cento mari 

Ma son venute poi le navi dei corsari 

Che l'hanno fatto a pezzi e chiuso nei forzieri 

Quel poco che è rimasto l'hanno rubato ieri 

 

25 Aprile 1945

 

"Muoviti!" 

La canna della doppietta solleticò Alfredo tra le scapole. 

E lui si mosse, tenendo sempre le mani sollevate, ma non troppo in alto; come a schermarsi il petto, come se la sua prigionia fosse soltanto un gioco che lui e Leonida, il ragazzino che gli puntava un fucile addosso, si divertivano a emulare. Ah, Leonida, Leonida, cosa ti diverte dell'imbracciare un fucile? Perché giochi a fare la guerra? Probabilmente perché è stata vinta, la tua infanzia è salva. Per poco uccidevi il padrone, Leonida: non è roba con cui scherzare, quella. 

"Eccolo là, il padrone! Dove si era nascosto?" 

"Quasi ci eravamo dimenticati di arrestarlo!"

Mentre Alfredo veniva spinto fuori dalla stalla, nel cortile interno della cascina, una folla di contadini armati avanzava verso lui e il ragazzo. Se non si fosse sentito così stanco, così spossato da tutti gli avvenimenti susseguitesi negli anni, forse avrebbe trattenuto il respiro, per lo stupore, per lo spavento. Gli uomini imbracciavano fucili da caccia, inadatti alla guerra, le donne non erano state da meno nel fare la loro parte e brandivano rastrelli e forconi per il fieno. Ma i loro volti, in quel momento, non erano contratti in smorfie minacciose, bensì in sorrisi. Di vittoria ma anche di scherno. 

"Bravo, Leonida, tu sì che ne hai di inventiva." 

Qualcuno si complimentò con il ragazzo. "I giovani c'hanno più cognissione dei vecchi!" 

Tenne il capo basso, mentre Leonida e il suo fucile lo costringevano a sfilare tra i mezzadri e, per qualche strana ragione, adesso le braccia stavano molto più in alto della testa, come se davvero temesse che qualcuno potesse sparargli. Piano piano, le voci concitate dei suoi servi si affievolirono, sostituiti dallo scalpiccio di un paio di stivali sul terreno. Un passo che Alfredo avrebbe riconosciuto tra mille, che sempre avrebbe ovattato tutti gli altri suoni attorno a lui. Fu solo allora che trovò la forza di sollevare il mento. 

Aveva quarantaquattro anni, eppure ci vedeva già male senza gli occhiali. Li spinse indietro, ma non perché ne avesse particolarmente bisogno: avrebbe anche potuto essere cieco, ma mai la sagoma di Olmo di fronte a lui gli sarebbe apparsa sfocata. Olmo Dalcò era sempre stato sempre il punto più luminoso nel quadro della propria vita. 

Sentì Leonida dargli un ultimo colpetto con la canna del fucile. 

"Olmo!" esclamò "Ti consegno il mio prigioniero!" 

Una donna si congratulò con lui, mentre gli occhi di Alfredo si concentravano esclusivamente sulle labbra sottili del partigiano biondo di fronte a lui, che si schiudevano in un sorriso rivolto al ragazzo. Lo stesso sorriso che, anni prima, aveva più volte riservato ad Alfredo. 

Quest'ultimo non fece in tempo a dire qualcosa, qualsiasi cosa, che qualcuno lo spinse malamente e cadde in avanti, sulle proprie ginocchia. Gli occhiali gli scivolarono oltre la punta del naso, colpendo il terreno polveroso, e per un attimo quella fu la sua unica preoccupazione: che si fossero rotti, che fossero andati in frantumi. 

Come lui, come l'azienda agricola di famiglia, come i padroni, come i fascisti. 

Era finita. 

I partigiani avevano vinto. 

I padroni non avevano più alcun potere. 

Lui non aveva più alcun potere. Lo aveva mai avuto, in realtà? Sua moglie gli urlava sempre addosso che fosse un debole, un vigliacco terrorizzato dal pugno di ferro dei fascisti che avrebbe dovuto saper controllare. 

Forse aveva ragione. Alfredo era debole. Non aveva più nemmeno la forza di difendersi. 

"Scusi, padrone!" esclamò sarcasticamente l'uomo che lo aveva spintonato. "Ce l'avevo in mano da così tanto tempo che mi è scappato!" 

L'udito di Alfredo venne scosso da un coro di risate liberatorie e sguaiate. Aveva appena raccolto gli occhiali, cercando di pulirli nella maglia grigiastra che indossava, che avvertì un dolore lancinante al fondoschiena e si ritrovò disteso sulla pancia, la faccia sul terreno, colpito dal calcio di un altro uomo che gridava: "E io da tempo ce l'avevo sul piede!" 

Rimase in quella posizione per qualche secondo, attimi che a lui parvero eterni, attimi che gli diedero il tempo di pensare. Le sue ossa dolevano e, lo sapeva, anche Olmo stava provando la stessa cosa. Aveva provato lo stesso suo dolore nell'atterrare sulle proprie ginocchia spigolose, aveva sentito quel calcio nel sedere che lo aveva buttato completamente giù. In quel momento, Alfredo avrebbe voluto essere morto. Lo avrebbe preferito, avrebbe preferito sentire il proprio cadavere divorato da vermi e parassiti piuttosto che la voce di Olmo che rideva di lui nonostante avvertisse tutta la sofferenza provata da quel corpo e, forse, anche dallo spirito del padrone sconfitto e sbeffeggiato davanti a tutti. Davanti a lui. 

Avvertiva il peso di due guerre mai davvero combattute, di amori spezzati, di fallimenti, di persone care scomparse, di amicizie tradite. 

Avvertì la mano di Olmo sul suo capo brizzolato e capì che si era chinato su di lui. Quel tocco, troppo parsimonioso in un momento come quello, gli fece venir voglia di piangere. Di spingere indietro le lancette dell'orologio e riavvolgere il tempo, tornare a quegli anni spensierati in cui non vi era posto per la nostalgia e la sofferenza, anni in cui Olmo non lo odiava. 

"Ehi, stai dormendo?" 

Fu solo a quella domanda che trovò la forza e il coraggio di sollevare lo sguardo. 

"Sapevo che non eri morto." 

Si rimise in ginocchio. Un sorriso era fuori luogo sulle labbra di un padrone, lì in mezzo. Eppure, le labbra di Alfredo non riuscirono a fare a meno, se non altro, di accennarlo. 

No, non poteva essere morto. Non se l'era mai bevuta quella voce secondo la quale era stato ucciso in un'imboscata dei tedeschi, mentre combatteva sulle montagne. Non Olmo, no. Alfredo lo avrebbe saputo. Alfredo lo avrebbe sentito, esattamente come aveva sentito ogni singola ferita inflitta sul corpo di Olmo nel corso della vita. Ogni colpo, ogni taglio, ogni bruciatura. 

Alfredo sapeva perfettamente che se gli avessero sparato, uccidendolo, avrebbe avvertito l'atroce dolore provocato dal proiettile, sia che si fosse bloccato tra le costole o che gli avesse trapassato il cranio da parte a parte. 

Forse sarebbe addirittura morto anche lui. 

Chi poteva dirlo? D'altronde erano nati insieme, nello stesso istante, in quella stessa azienda agricola di proprietà della sua famiglia, quella notte di fine gennaio di tanti anni fa. Alfredo nella stanza da letto di sua madre, Olmo negli appartamenti dei villani. Ogni strillo valeva per entrambi, respiravano per due: un doppio dolore a quei minuscoli polmoni che iniziavano a funzionare. 

Avevano condiviso il primo, traumatico respiro. 

Forse avrebbero condiviso anche l'ultimo. 

Nonostante la guerra, Olmo sembrava molto meno vecchio e spossato di lui, non così diverso dall'ultima volta che Alfredo lo aveva visto. Fuggiva dai fascisti che desideravano ardentemente la sua testa di comunista, di agitatore delle folle. All'epoca aveva i capelli più corti, ricci bronzei che, in quel momento, riflettevano la luce del sole nel tardo pomeriggio di aprile. I suoi occhi scuri, vispi e penetranti, lo scrutavano come mai aveva fatto in vita sua: vuoti, inespressivi. Fu quello sguardo a stringere il cuore di Alfredo in una morsa. Avrebbe preferito di gran lunga vederlo arrabbiato, infuriato. Sapeva che erano ormai lontani i tempi in cui Olmo gli riservava un sorriso, un'occhiata colma di affetto e parole troppo pericolose da essere espresse ad alta voce, ma che lui comprendeva lo stesso, perché era sempre stato così tra loro: bastava uno sguardo, un gesto, e tutto era chiaro, tutto era sistemato. 

Non lì. 

Non adesso. 

Non c'erano più il bambino ricco e viziato dei Berlinghieri e il marmocchio scapestrato vestito di stracci cresciuto dai contadini. Non c'era più la pesca alle rane e la gara a chi si sporcava di più rotolandosi nel terreno. Non c'erano nemmeno più le giornate piovose passate a nutrire i bachi da seta in soffitta o a baciarsi sui sacchi di frumento una volta cresciuti e ritrovati dopo la Grande Guerra. Non c'era più l'estate calda trascorsa a nascondersi in mezzo alle più alte spighe di grano, lontano da occhi indiscreti che avrebbero potuto separarli. 

Non vi era più nulla di tutto ciò, si erano separati da soli. 

Il servo e il padrone. 

Il proletario e il borghese. 

Il comunista e il fascista

No. Alfredo non era un fascista. Potevano chiamarlo in qualunque modo: porco, bastardo, infame, ma fascista mai. 

"Forse l'avresti preferito, non è così?" 

Quando Olmo proferì parola, perfino la sua voce rauca gli parve estranea nella sua familiarità. O forse, quella durezza vi era sempre stata nel suo tono: era lui, era Alfredo che non aveva più la forza di tenergli testa. Era iniziato come un gioco, era finito con uno scontro tra fazioni opposte. Eppure, si ritrovavano sempre, costantemente: erano, in qualche modo, legati, destinati a incontrarsi ancora e ancora fino a quando non sarebbe giunta la fine, e nemmeno la guerra sarebbe riuscita a dividerli, anzi, li aveva riportati a quel punto. Alfredo avrebbe voluto essere in grado di scappare. Avrebbe voluto avere il potere di lasciarlo andare. 

Ma non aveva più potere, non contro il popolo che Olmo rappresentava: la gente comune che chiedeva la testa del padrone su una picca, su uno dei forconi usati per spostare il fieno. 

Olmo allungò una mano e, con il dorso, gli pulì il volto, rimuovendo la terra. Quel breve contatto, così familiare ed estraneo a un tempo, scatenò in Alfredo brividi e sensazioni che pensava di aver dimenticato da molto tempo. Per un misero attimo, Alfredo s'illuse che lo avrebbe abbracciato. Che lo avrebbe perdonato. Ma il suo vecchio amico si limitò ad aiutarlo a rimettersi in piedi. I due si scambiarono uno sguardo penetrante, poi Olmo gli restituì gli occhiali e si voltò, dandogli le spalle. 

In pochi minuti, fu istituito un processo contro di lui. All'aperto, tra il suono di una fisarmonica, tra canti e danze popolari e sotto un'enorme, immensa bandiera rossa. 

"L'ho cucita io anni fa con Rosina!" esclamò una vecchia. 

Rosina. La madre di Olmo. In piedi al centro del piazzale, tra lui e Leonida, gli occhi di Alfredo si spostarono sui presenti nel tentativo di scorgere il viso familiare della donna che molte volte gli aveva preparato da mangiare quando era piccolo. Solo in quel momento, si rese conto di come chiunque, intorno a lui, gli risultasse un viso sconosciuto. Invece doveva pur conoscerle, erano le donne dell'azienda: erano le madri e le mogli della sua forza lavoro, erano le ragazze che servivano dentro casa sua, allora perché non ricordava neanche un volto, neanche un nome? Perché aveva in mente soltanto la faccia e il nome di Olmo, di cui Alfredo avvertiva gli occhi piantati su di sé più di tutti gli altri, mentre uno ad uno gli si avvicinavano e lo accusavano di malefatte, gli puntavano addosso il dito per incolparlo di ogni loro sofferenza? 

"Lui pulito, noi sporchi. Lui a mangiare, noi a patire la fame. A lui tutto, a noi niente."

"Te sei un delinquente, ma tuo nonno era anche peggio!" 

"Sì, appena era arrivato voleva licenziare tutti i braccianti!" 

"Ma no, quello era suo papà, il signor Giovanni!" 

"Cosa c'entra? Padre o figlio, il padrone è sempre il padrone!" 

Alfredo inspirò profondamente, il cuore che ormai doleva e bruciava. Era il suo cuore o quello di Olmo a essere spezzato? Se era il suo, Olmo lo percepiva a sua volta? 

"Io posso dire soltanto una cosa." sospirò. "Non ho mai fatto del male a nessuno. Mai fatto del male a nessuno." 

"Questo lo dicono tutti i padroni, adesso." 

Alfredo credeva che, se avesse spostato gli occhi su Olmo, avrebbe incontrato un sorriso beffardo sulle sue labbra sottili, le stesse labbra che aveva baciato tanti anni prima. Ma si sbagliava: non vi era l'ombra di nessun sorriso sul volto del partigiano. Si mosse e prese a camminargli intorno, il suo sguardo vigile costantemente fisso su di lui. 

"E sono così ipocriti che quasi ci credono." 

"Non ho mai fatto del male a nessuno." ripeté Alfredo, deciso, perché Olmo adesso giocava d'astuzia ed era bravo, maledettamente bravo a far leva sul suo senso di colpa. Era vero, Alfredo non aveva mai fatto male a nessuno. Ma non aveva mai nemmeno alzato un dito per impedire che qualcun altro lo facesse. Se n'era rimasto chiuso nella sua villa, a compiangere la partenza di Olmo, a soffrire dell'abbandono di sua moglie, quel giorno in cui i fascisti avevano massacrato un numero indefinito di braccianti, colpevoli di essersi ribellati al fattore. 

"Per questo avete tirato fuori di prigione i delinquenti e sbattuto dentro i comunisti, eh?" 

Alfredo avvertì il respiro di Olmo solleticargli la base della nuca. Strano come, in quel momento, fosse ancora una sensazione che gli piaceva. Triste. 

"Sì, è così, compagni!" 

Olmo si mosse in avanti e lo superò, rivolgendosi adesso a tutti gli altri, ai contadini e ai sempliciotti che pendevano dalle sue labbra. 

"I fascisti non sono mica come i funghi, che nascono così, in una notte." disse Olmo. "I fascisti sono stati i padroni a seminarli. Li hanno voluti, li hanno pagati! E con i fascisti i padroni hanno guadagnato sempre di più, al punto che non sapevano più dove metterli i soldi. Così hanno inventato la guerra! Ci hanno mandato in Africa, in Russia, in Grecia, in Albania, in Spagna! Ma chi paga siamo sempre noi, chi paga. Il proletariato, gli operai, i contadini, i poveri!" 

Si levò un coro colmo di rabbia e di protesta, di chi invocava la morte del padrone, la sua dipartita. 

"Ecco, li senti, Alfredo Berlinghieri?" 

Olmo si voltò di scatto verso di lui. "La senti la voce del popolo? Noi siamo la canaglia pezzente, i morti di fame. E l'esempio verrà da qui, da questo paese nel buco del culo del mondo che ha il coraggio di condannarti a morte. E con te, condanna a morte tutto il passato." 

Con Alfredo si fronteggiarono viso a viso, la spossatezza di uno contrapposta alla fiamma rivoluzionaria dell'altro. Poi gli occhi di Olmo si spostarono su Leonida, con il fucile ancora stretto tra le braccia, e allungò una mano per farsi passare l'arma. 

Olmo lo imbracciò e puntò la canna proprio tra gli occhi di Alfredo, che si incrociarono per fissare i fori scuri. Lo stesso colore delle proprie iridi colme di tristezza e malinconia. 

"Fallo." Alfredo lo incoraggiò. "Io muoio... e a te vediamo che succede." 

"Credi che abbia paura di morire?" ribatté Olmo. 

"Mai pensato." Alfredo sorrise. "Vedo che non hai ancora smesso di sdraiarti sui binari con il treno in corsa." 

 

Hanno circondato il prato e la collina 

Prendendoli alle spalle presto di mattina 

Non fare quella faccia, dai, non fare il fesso 

È stato sempre così, vuoi che cambi adesso?

 

2. 

Quando Olmo Dalcò aveva sette anni si divertiva a sdraiarsi sui binari dietro i campi e lasciare che il treno gli passasse sopra. Si copriva il volto con le mani per non rimanere accecato dai lampi di luce che filtravano negli spazi tra i vagoni e, quando tutto finiva, sorrideva al cielo e pensava di aver sconfitto la morte ogni singola volta. Non si era mai fatto niente, tranne una volta che un pezzo di ferro sporgente lo aveva ferito sul dorso di una mano. 
Quando questo era successo, Alfredo non lo conosceva ancora. Eppure, un pomeriggio in cui stava giocando sull'altalena con sua cugina Regina, avvertì un forte bruciore sulla mano destra e, quando la sollevò per controllare, vide un taglio netto lungo tutto il dorso della manina tozza che zampillava sangue vermiglio. All'epoca diede la colpa a qualche ramo o alla corda dell'altalena, suo padre, invece, diede la colpa a lui, intimandogli di smetterla di andare a sporcarsi in giro per i campi e i boschi che circondavano l'azienda. 
Alfredo riservò una linguaccia alla schiena di Giovanni Berlinghieri e l'unico a coglierlo in flagrante fu suo zio Ottavio. Ma non gli disse niente, anzi: gli sorrise, divertito, e poi si premurò di medicargli il taglio, mentre gli raccontava un sacco di balle su tutte le volte che si era ferito in combattimento, quando era imbarcato su una nave pirata. Neanche allora Alfredo vi credette, però il tatuaggio che gli mostrò, che rappresentava un'ancora, quello era vero. Secondo le storie di Ottavio, glielo avevano fatto durante lo sbarco in un porto dei Caraibi. Dovettero trascorrere una decina di anni prima che Alfredo scoprisse che suo zio era stato mandato in prigione perché lo avevano beccato a stantuffarsi con un altro uomo. 
Adorava suo zio. Era pittore, scultore, fotografo e girovago per il mondo -anche se su transatlantici e non navi pirata. Era la persona che più gli piaceva della famiglia insieme al nonno, che si chiamava Alfredo Berlinghieri pure lui e gli aveva donato il proprio nome il giorno della sua nascita. Giovanni avrebbe voluto chiamarlo Giuseppe, in onore di Verdi, morto qualche ora prima della sua nascita, ma nonno Alfredo non ci aveva sentito.

Il giorno in cui conobbe Olmo, mentre pescava le rane che i Berlinghieri avrebbero mangiato quella sera stessa, si azzuffarono, si rotolarono nella terra, si presero continuamente in giro. Poi Olmo lo sfidò a sdraiarsi con lui su quei maledetti binari, uno sopra l'altro, ma Alfredo si rifiutò, togliendosi di lì giusto in tempo. Il suo cuore perse un battito quando vide il treno passare sopra quel corpicino emaciato. 
"Sei vivo?" gli chiese, giusto per assicurarsene perché sapeva che non poteva essere morto. Per qualche strana ragione, si sentiva un po' come se il treno fosse passato pure addosso a lui. Per tutta risposta, Olmo gli riservò un ghigno e gli sputò in faccia. 
"Codardo!" esclamò, con quella "erre" arrotolata tipica delle campagne parmensi, la stessa che i genitori di Alfredo tentavano disperatamente di correggergli. 
"Non sono un codardo." 
Alfredo si pulì la faccia con la manica del giacchetto, ormai fattosi molto più grigio che bianco: si sarebbe preso una bella strigliata, per quello. "Sei tu che sei tutto matto!" 
Entrambi risero. 
Poi avevano giocato insieme per il resto dell'estate, con il sommo fastidio di Regina, piantata lì per un villano qualsiasi.

Quando il nonno era morto, Alfredo aveva pianto. Aveva visto la salma ed era fuggito, terrorizzato. Si era nascosto sopra un ammasso di paglia e, sporgendosi, aveva visto Rigoletto, un contadino ritardato, che spulciava la testa bionda di Olmo alla ricerca dei pidocchi. Alfredo lo aveva supplicato di attaccarglieli, così non lo avrebbero più fatto entrare in casa: voleva vivere lì, tra i poveri, con il suo amico. 
"Perché non vuoi più tornare a casa?" gli chiese Olmo, mentre si arrampicavano su per l'attico dove lui si prendeva cura dei bachi da seta. Qualche volta ci dormiva pure, sopra uno dei materassi umidi e sgualciti abbandonati in un angolo. 
"Perché il nonno non c'è più" Alfredo sospirò e si lasciò cadere su uno di quei cosi, bagnandosi il culo. Non se ne lamentò, altrimenti Olmo lo avrebbe preso in giro da lì fino alla fine dei suoi giorni. "Chi si prenderà cura di me, adesso?" 
"La tua mamma e il tuo papà non ti vogliono bene?" 
Alfredo scosse la testa, sentendo le lacrime spingere agli angoli degli occhi. 
"C'è solo lo zio Ottavio che mi vuole bene, ma lui è alla Merica, adesso!" 
"Che cos'è la Merica?" 
"Un posto molto grande e molto lontano. Zio Ottavio dice che lì si può fare tutto quello che si vuole." 
"Sembra divertente. Un giorno ci andiamo insieme, va bene?" 
Alfredo tirò su col naso e guardò Olmo, accennando un debole sorriso: "Tu fai già sempre quello che vuoi." 
Olmo gongolò e si batté il pugno sul petto con fare orgoglioso: "È perché sono un socialista!" 
"Che cos'è un socialista?" 
"Non lo so bene, ma nonno Leo lo dice sempre. Sei un socialista, sei un Dalcò!" 
Nonno Leo era Leo Dalcò, il capofamiglia dei contadini a cui tutti facevano riferimento, che tutti ammiravano. Ed era anche un buon amico di nonno Alfredo. 
"Anche io voglio essere un socialista." 
"Non puoi. O sei il padrone o sei un socialista. Tipo, un giorno tutto questo sarà tuo. Basta che mi lasci i bruchi!" 
"Ma va là!" Alfredo sghignazzò. "Mi prendo tutto. Pure te sei mio!" 
"In culo!" esclamò Olmo. "Io me ne vado alla Merica, quando sono grande! Te stai qua a fare il bravo signorino."

Forse anche Leo Dalcò aveva pianto quando il padrone era morto. 
Tutti gli altri contadini piansero, perché c'era stima del vecchio Alfredo Berlinghieri, perché sapevano che era malato da tempo ma che era anche un buon padrone, un brav'uomo. Piansero, perché suo figlio Giovanni non fu come lui. Non aveva a cuore l'interesse degli agricoltori, ciò che contava per lui era sfruttarli per guadagnare sempre di più. E chi non considerava utile alle forze lavorative, veniva licenziato, sostituito da nuove idee e macchinari che aravano i campi molto più in fretta, e più tempo si risparmiava, più si produceva, più si guadagnava. 
I lavoratori all'azienda agricola Berlinghieri furono tra i primi a prendere parte allo sciopero agricolo che si estense per tutta la provincia di Parma. Non mungevano nemmeno più le vacche e, di notte, il sonno di Alfredo veniva disturbato dai loro muggiti doloranti. Un giorno, mentre bighellonava in giro in prossimità dei campi di grano, vide uno spettacolo degno del circo: suo padre, sua madre e qualche altro vecchio parente, tutti ben vestiti, che tiravano le tette alle mucche, Giovanni che urlava perché non sapeva come diavolo si facesse. 
Muovendosi più avanti, incontrò Olmo, intento a fare aria con una foglia al vecchio Leo, appoggiato con la schiena a un palo telegrafico -lo stesso palo su cui Olmo, ogni tanto, si chinava e diceva di ascoltare la voce del fantasma di suo padre che gli parlava dall'aldilà. 
Alfredo lo indicò con il mento: "Che cosa fa?" 
"Dorme." 
"Con gli occhi aperti?" 
Olmo si portò un dito alle labbra, indicandogli di fare silenzio. Per un po' si sentirono solo le imprecazioni di Giovanni Berlinghieri e le cicale che cantavano. 
Poi Olmo si stufò, lasciò lì la foglia e suo nonno, che non si mosse di un millimetro e quasi sembrava non respirare più. Si allontanarono con Alfredo, infilandosi tra le spighe di grano più alte. 
"Guarda!" 
Alfredo si slacciò i pantaloni e lo mostrò all'amico: Olmo gli aveva detto, qualche giorno prima, che se voleva diventare un socialista avrebbe dovuto farselo diventare più lungo, perché loro lo avevano tutti così. 
"Come hai fatto?" gli domandò Olmo, una punta d'invidia nella voce. 
"Ho tirato." 
Risero di gusto e Alfredo si richiuse le brache. Poi si buttarono in mezzo alle spighe, sdraiati sulla schiena a guardare il cielo azzurro sopra di loro. Sembrava così vicino, eppure era così lontano. 
Olmo prese un lungo stelo di grano, lo spezzò in due e ne diede un pezzo ad Alfredo. Se lo mise in bocca, poi incrociò le braccia dietro la testa. 
Alfredo lo guardò per un po'. Gli piaceva come la pelle di Olmo fosse più ambrata della sua per via di tutte le ore trascorse a giocare sotto il sole, in perfetto contrasto con i suoi riccioli dorati. 
Poi il suo amico piegò la testa per guardarlo a sua volta. 
"Io me ne vado a Genova." disse, semplicemente. 
Alfredo si tirò su, appoggiandosi sui gomiti, e sollevò le sopracciglia: "A fare che?" 
"Boh, vallo a sapere. Mandano via tutti i figli dei contadini, perché se quelli non lavorano noi non mangiamo, capisci?" 
"Allora vengo anch'io." 
"Non puoi. Non sei mica un contadino, tu." 
Alfredo abbassò lo sguardo, puntandolo su una formichina che zampettava lì intorno. "Ma poi torni, vero?" 
Si rese conto di provare una paura folle di non rivedere mai più il suo amico, il suo compagno di giochi. E quella paura gli stringeva il cuore, la consapevolezza di non poter essere più felice senza trascorrere il tempo con quel matto che si appendeva le rane al cappello di paglia. Chissà quanti altri bambini avrebbe incontrato lassù a Genova, chissà quanti di loro sarebbero divenuti i suoi nuovi migliori amici. A lui sarebbe rimasta solamente quella cavalletta di Regina. Non andava nemmeno a scuola, Alfredo, perché Giovanni aveva insistito a pagargli un tutore che lo istruisse in casa. 
Olmo si strinse nelle spalle. 
"Boh, non lo so" rispose. "Penso di sì. Lo sciopero non può mica durare per sempre."

Olmo se ne andò su un treno pieno zeppo di bambini. Strillavano, cantavano e sventolavano bandiere e fazzoletti rossi. 
Seduto sui binari dietro casa, Alfredo deglutì, quando sentì il fischio della locomotiva che cominciava ad avvicinarsi. 
"Non sono un codardo" mormorò, ma mentre se lo diceva avvertì una fitta allo stomaco, come se le viscere avessero preso a muoversi dentro di lui. Non sarebbe scappato, quella volta. Non avrebbe avuto paura. Quello era l'unico modo per salutare davvero Olmo. 
Così si sdraiò sulla schiena, le mani ben premute sugli occhi, e lasciò che il treno gli passasse addosso. 
Puzzava, lì sotto, e il rumore delle ruote che scorrevano a pochi centimetri dalle sue orecchie era assordante, ma Alfredo rimase pietrificato per tutto il tempo, al buio, immobile, come morto. 
Ma era vivo quando il treno passò del tutto. Alfredo tolse le mani dal viso e inspirò profondamente, gli occhi puntati sul cielo azzurro. Non era poi così lontano.


Chiudi gli occhi 
E non sognare, Alfredo.

 

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Capitolo 2
*** Atto II. ***


3.

E allora baciami, Alfredo 
Baciami, ti prego 
Amami, Alfredo 
Amami, ti prego 

 


Quando Olmo fece ritorno all'azienda, erano passati ormai dieci anni. La guerra era appena finita e lui vi aveva combattuto e ora era tornato, accolto festosamente dai Dalcò che riabbracciavano un figlio perduto, un eroe di guerra. 
Alfredo lo osservava prendersi le pacche sulle spalle di quegli amici che erano come suoi famigliari, gli abbracci e i baci di sua madre, Rosina, stretta al petto del figlio. Un petto fattosi ampio, con i muscoli tesi sotto l'uniforme da soldato, un petto adornato di medaglie al valore. Era diventato altissimo, Olmo, un bel giovanotto dalle spalle larghe che mostrava molto più dei suoi diciassette anni, ma i riccioli sulla sua testa erano rimasti gli stessi, come se rimuoverli fosse stato un affronto alla sua identità. 
Alfredo abbassò un attimo gli occhi sulla propria uniforme. Era finta, naturalmente: lui in guerra non ci era mica andato. Avrebbe voluto, ma suo padre si era opposto con tutte le sue forze, intimandogli di finire gli studi. Così se l'era fatta cucire per l'ultimo compleanno e suo zio Ottavio gli aveva perfino regalato una sciabola vera e affilata. Ogni tanto, Alfredo fantasticava di infilarla su per il culo di Attila, il dirigente dei braccianti che suo padre aveva assunto qualche mese prima. O a Regina, che da quando aveva raggiunto la pubertà si sarebbe lasciata infilare qualunque cosa dappertutto pur di soddisfare le proprie voglie. Oppure, direttamente a suo padre. 
Alfredo rimase un bel po' accucciato davanti alla finestra della soffitta. Si affacciava sul cortile interno dell'azienda, dove i nuovi macchinari lavoravano il grano raccolto. Guardò Olmo posare la propria baionetta. Lo vide togliersi il cappello e la giacca dell'uniforme, rimanendo solo con una maglia grigia e i pantaloni dello stesso colore. Si avvicinò a uno dei sacchi del grano, lo caricò sulle proprie spalle e si diresse verso l'edificio. Rosina lo seguì per qualche metro, le labbra che formavano parole che Alfredo non poteva udire, agitando concitatamente le braccia. Poi la donna si fermò, si lisciò le pieghe della gonna e tornò indietro, scomparendo oltre un carro. 
"Regina, va' via!" 
La cugina di Alfredo rotolò giù dalla montagna di sacchi accatastati in fondo alla stanza e si rialzò goffamente, riallacciandosi la camicetta e sistemandosi la gonna. Da quando Alfredo aveva ricevuto la propria uniforme, lei aveva insistito per farsene confezionare una da infermiera, nella speranza di rendere meno monotoni i loro giochetti pomeridiani chiusi in soffitta. Ma non facevano altro che guardarsi mentre si trastullavano, uno di fronte all'altra. Alfredo vomitava al solo pensiero di doversela scopare quando si sarebbero sposati. 
"Va' a toglierti quel travestimento, intanto la guerra è finita. Fuori!" 
"Sì, signor Tenente!" 
"E chiudi quella porta!" 
Regina corse via riservandogli una pernacchia. 
Alfredo si alzò in piedi, scrollandosi la polvere dai pantaloni. Si sistemò come meglio poteva e poggiò una mano sul cuore, ascoltando i battiti accelerati al pensiero che avrebbe di nuovo avuto Olmo con sé. Cosa avrebbe potuto dirgli? Come salutavi una persona cara quando non la vedevi da ben dieci anni? 
Non si era preparato un discorso né niente. Perciò, quando udì i passi di Olmo entrare dalla porta, sbucò da dietro una colonna urlando la prima cosa che gli venne in mente: "Aaaattenti!" 
Alfredo dovette combattere con tutte le forze di cui disponeva per non scoppiare a ridergli in faccia. Si era veramente messo sull'attenti, mentre trasportava un sacco di chissà quanti chili sulle spalle. 
"Riposo!" 
Le gambe snelle e muscolose di Olmo si allargarono nuovamente, il corpo fattosi meno rigido nonostante sopportasse tutto quel peso. 
Alfredo non riusciva a smettere di sorridere. 
"Ehi, soldato, non mi riconosci?" 
Si tolse il cappello e mosse qualche passo verso di lui, allargando le braccia in un gesto di benvenuto. "Sono io, stupido idiota, sono io!" 
Olmo prese ad avvicinarglisi con un'andatura incerta, ma che aumentò quando si rese finalmente conto di chi avesse davanti. Le sue labbra si arricciarono in un sorriso, rilasciando poi una risata vera e propria, una risata sorpresa ma felice
In men che non si dica, Alfredo se lo ritrovò addosso, spinto all'indietro da uno slancio entusiasta del suo vecchio amico. Caddero urlando sulla montagna di sacchi di grano dietro alle sue spalle, e subito ingaggiarono una lotta, come se non fossero mai cresciuti. Si rotolarono, ridendo, avvinghiati l'uno all'altro, ma le braccia di Olmo, segnate da esperienza militare, lo portarono ad avere la meglio: inchiodò Alfredo sotto di sé, spingendo una mano sul suo petto, mentre con l'altra si premurò di staccargli le stelline in rilievo sul colletto e sul cappello dell'uniforme. 
"Non ti voglio vedere con questa roba!" gridò, la voce molto più roca e profonda di come Alfredo se la ricordasse, ma altrettanto melodiosa. "La guerra è finita! Nessuno ci dà più ordini!" 
Alfredo rideva, mentre lui lanciava in aria le minuscole stelle di metallo. Quando entrambi si calmarono, rilassò la schiena contro i sacchi di iuta. Il suo petto si alzava e si riabbassava mentre riprendeva fiato, le sue mani mantenevano ancora saldamente la presa sulle braccia di Olmo, le proprie gambe che circondavano i fianchi dell'amico, altrettanto affaticato ma altrettanto sorridente. Rimasero così per qualche secondo, a guardarsi negli occhi e a sospirare, ritrovati, uniti dopo l'agonia della lontananza. 
"Adesso sì che mi piaci." sospirò Olmo. 
Alfredo ridacchiò. "E allora baciami, mio eroe!" esclamò, aprendo le braccia come per accoglierlo. 
Lo aveva detto per scherzare, ma Olmo la prese più seriamente di quanto lui avesse previsto. Si fiondò prima sulle sue guance, poi sulle sue labbra con uno slancio impressionante. Alfredo cercò di spingerlo via, ma non perché non gli piacesse. In effetti, fu in quei pochi secondi sulle labbra calde e sottili dell'altro che si rese conto che non avrebbe mai davvero voluto separarsene. Cercò semplicemente di toglierselo di dosso perché lo aveva preso alla sprovvista ed era rimasto, letteralmente, senza fiato. 
Olmo rotolò sulla schiena, ridendo a crepapelle, e Alfredo si pulì la bocca col dorso della mano, la stessa che aveva la cicatrice di quel taglio che gli era apparso tanti anni prima, nel tentativo di prendere aria e cercando di non far trasparire quanto gli fosse piaciuto. Quello era stato il suo primo bacio. E oh, faceva strano. Non era come se l'era sempre immaginato, nonostante avrebbe mentito se avesse detto che non pensava a Olmo quando vi fantasticava sopra. Solo, era una sensazione strana: un dolce tepore, ma anche... viscido. Umido
Alfredo scosse la testa, liberandosi di quei buffi pensieri, e si mise seduto sui sacchi. 
"Non ci sono più bachi da seta, qui sopra." sospirò, guardandosi intorno. Era la stessa soffitta in cui Olmo dormiva quando era bambino, lo stesso angolo dove una volta vi erano impilati i materassi sporchi su cui lui aveva pianto e l'altro lo aveva consolato. "Non c'era rimasto più nessuno a prendersene cura. Ci sono solo ratti, adesso." 
"Come nelle trincee." 
Anche Olmo si era tirato su. 
Alfredo si passò le dita sulle labbra, che ancora avvertivano quelle di Olmo sulle proprie, e guardò l'amico ritrovato accucciarsi di fronte alla finestra. Lui si sdraiò sul ventre, allungandosi sulla catasta. Sporgendosi verso l'angolo della feritoia, allungò una mano e indicò oltre il vetro sporco. 
"Ti ricordi quando nessuno credeva che potessimo vedere la città da quassù, ma noi riuscivamo a vederla comunque?" gli domandò, e in effetti non si vedeva un bel niente da lì, perché oltre il tetto della proprietà vi era solo un'alta collina che nascondeva l'orizzonte. Ma loro erano bambini e non avevano bisogno degli occhi per vedere. Le immagini erano sempre vivide nella loro mente, le fantasticherie galoppavano a gran velocità nelle loro teste. Un altro dei loro giochi d'infanzia. 
"Riuscivi a vedere anche tutto il mondo, da qui?" fece Olmo, senza muovere gli occhi dal panorama. 
Alfredo si rimise in piedi, piazzandosi al fianco opposto dell'altro. Aveva come la sensazione che Olmo fosse molto più interessato a perdersi nella bellezza delle campagne piuttosto che a lui. 
Si tolse la sciabola e gli diede un calcio sul sedere, pentendosene amaramente quando gli parve di riceverlo lui stesso. Avrebbero dovuto parlare anche di quello, prima o poi. 
Avrebbero dovuto parlare della bruciatura che entrambi avevano sul collo, o perlomeno della cicatrice sulla mano. 
Olmo sollevò gli occhi su di lui e il sorriso amichevole di Alfredo si spense quando si rese conto che l'altro lo guardava con espressione vacua. I suoi occhi verdi erano velati di malinconia e lui avrebbe voluto chiedergli se andasse tutto bene, ma non riuscì proferire parola. 
Olmo si alzò in piedi, sovrastandolo di un paio di centimetri, senza distogliere lo sguardo. Per un attimo, Alfredo credette che lo avrebbe baciato di nuovo. Per un attimo, ci sperò con tutto il cuore. Per un attimo, il suo labbro inferiore tremò. Ma Olmo si limitò a dargli un amichevole buffetto sul braccio e uscì dalla soffitta, lasciandolo solo in mezzo all'attico. 

 

4. 
 

Andò a da lui quella sera, trovandolo nel fienile che spostava la paglia. Infilzava rabbiosamente il forcone nel mucchio, tirandolo su, e lo lanciava dall'altra parte, apparentemente senza criterio. 
Se non fosse stato per una torcia che bruciava appesa a un muro, sarebbe stato buio da far paura, lì dentro. Ma, d'altronde, Olmo che ne sapeva della paura? Olmo era forte, era impavido. Era una testa calda che, appena messo giù il fucile in trincea, alzava l'ascia di guerra contro il padrone. Non aveva fatto nemmeno in tempo a sistemarsi nuovamente che già quel giorno aveva discusso caldamente con Giovanni per via dei macchinari che avevano tagliato di nuovo il lavoro ai contadini. 
Alfredo attirò la sua attenzione, facendo tintinnare un cavatappi contro la bottiglia di vino che aveva rubato dalla cantina di suo padre. 
Quando Olmo si voltò a guardarlo, il viso ancora contratto in un'espressione colma di rabbia, gliela mostrò, sollevandola contro la luce del fuoco: "Brindiamo al tuo ritorno!" 
Olmo fece roteare gli occhi, ma ripose comunque il forcone in mezzo alla montagna di fieno, sopra il quale si abbandonò con tutto il peso. Alfredo lo imitò, avvertendo un brivido di eccitazione all'idea di tornare a sporcarsi i vestiti puliti come una volta. Faticò per qualche minuto cercando di rimuovere il tappo di sughero e, una volta aperta la bottiglia, offrì il primo sorso all'amico, che non fece complimenti a mandarne giù un bel po' di entusiaste sorsate. 
"Ehi, ehi, non essere tirchio!" esclamò, afferrando la pancia di vetro e tirando per rubargliela. 
Mentre anche Alfredo ci dava dentro, Olmo si pulì la bocca con la manica della maglia. Aveva veramente dei modi di fare che un cinghiale, a confronto, era un lord inglese. Ma ad Alfredo era sempre piaciuto proprio per quelle sue maniere rozze, contrapposte a qualunque insegnamento con cui lui era cresciuto all'interno delle mura di casa. 
"Chi è quello spilungone di oggi?" 
Alfredo emise un ruttino, come a voler dimostrare il proprio apprezzamento nei confronti del soggetto di cui l'amico era appena andato a parlare. 
"Attila Melanchini" rispose, passando nuovamente la bottiglia a Olmo. "Il nuovo fattore di mio padre." 
Olmo si lasciò sfuggire un verso a metà tra una smorfia e un grugnito. "Mio nonno lo faceva meglio." 
"Tuo nonno è morto. E tu sei stato via per anni. Sono cambiate molte cose, da allora. Detesto quello che ti ha rinfacciato mio padre quest'oggi, sul fatto che siete andati a farvi ammazzare in guerra, ma... non posso biasimarlo per aver ripiegato sui macchinari." 
"Mmmh" mormorò l'altro al suo fianco. "Immagino li utilizzerai anche tu, prima o poi, eh?" 
"Ah, non stare a pensare a me!" 
Alfredo allungò una mano verso il vino e fece in modo di scolarsi tutto ciò che rimaneva. Quando ebbe finito, la testa aveva ormai cominciato a sembrare più leggera. 
"Mio padre ha ancora qualche anno in cui esercitare il suo potere. Risolvetela adesso, piuttosto, così sono sicuro che non darete noia a me!" 
Olmo scoppiò a ridere e quel suono riempì le orecchie di Alfredo come se fosse musica. 
"Sei proprio un bastardo egoista, sai?" fece Olmo, e Alfredo poté giurare che si fosse fatto più vicino. I loro fianchi si sfioravano e lui avrebbe tanto voluto allungare una gamba per incrociarla con quella dell'amico. Erano pensieri suoi o si trattava dei fumi dell'alcol che aveva ingurgitato così velocemente? "Probabilmente sarai anche peggio di tuo padre nel dirigere l'azienda." 
"Ma no. Sarà una cosa paritaria. Io aiuto te, tu aiuti me. O te ne vuoi ancora andare in America?" 
Olmo sorrise. Incrociò le braccia dietro la testa e puntò gli occhi al soffitto alto del granaio, e per un attimo Alfredo rivide il bambino con il cappello di paglia che prendeva il sole in mezzo ai campi. 
"Non è mica una brutta idea" ridacchiò, voltandosi verso di lui. "La tua fottuta Merica." 
"Ah, sta' zitto!" 
"Mi sei mancato, sai?" 
Il cuore di Alfredo fece qualche capriola all'indietro. 
Si distese su un fianco, gli occhi fissi in quelli di Olmo. Aveva la vista offuscata dall'alcol, eppure ogni contorno dell'amico era così nitido, così vivo, come un punto focale mentre si tenta di scorgere l'orizzonte. Avrebbe potuto rimanere disteso lì, a fissarlo, per il resto della sua vita. 
"Anche tu mi sei mancato." mormorò e trattenne il respiro quando una mano di Olmo si allungò a spostargli le ciocche di capelli che gli ricadevano sul viso. 
Bacialo, Alfredo
Bacialo, potrebbe non essere niente: magari lo desidera tanto quanto lo sospiri tu. 
O forse non è così? Forse rischieresti di perderlo di nuovo? D'altronde, siete così diversi. 
Il servo e il padrone
Basta così poco per averlo. 
Basta così poco per allontanarlo. 
"Perché mi hai baciato, oggi?" 
"Sei scemo? Mi hai detto tu di farlo." 
"Era solo uno scherzo!" 
"Oh beh, scusa! Non lo faccio più, mamma." 
Alfredo si tirò su, appoggiandosi di peso sul gomito che sprofondava nel fieno. "E se ti chiedessi di rifarlo?" 
Olmo gli riservò un'alzata di sopracciglia. Alfredo avrebbe voluto staccarsi la lingua a morsi quando il suo amico scosse la testa, ridacchiando: "Pervertito." 
Alfredo sbuffò e si lasciò ricadere sulla schiena. "Non sono un pervertito!" replicò. 
Che stupido. Come era potuto passargli anche solo per la testa un pensiero del genere? Era innaturale. Era disgustoso. No, non lo era. Non con Olmo. 
"Ah no? Chi è gioca al soldato e all'infermiera con sua cugina, al pomeriggio?" 
Scoppiarono a ridere e Alfredo si passò una mano sul viso. La testa gli girava e si sentiva così brillo che per un po' non riuscì a smettere. 
"Regina è diventata proprio brutta" rideva Olmo, provocandogli forti spasmi allo stomaco. "Sai con chi la vedrei bene? Con quell'Attila!" 
"Mio Dio, la coppia perfetta!" esclamò Alfredo, tirandosi su di scatto per mettersi seduto. "Organizziamo il matrimonio!" 
"Tu -tu come testimone di nozze di quel perticone!" 
Anche Olmo si rimise seduto. Si allungò su di lui, senza smettere di ridere, e gli poggiò entrambe le mani sulle spalle. "Mia madre prepara la torta!" 
"Mmmh, le torte di Rosina. Cosa ti sei perso, in questi anni!" 
"Già." 
Era davvero bello quando sorrideva. Erano momenti in cui pareva finalmente scaricare tutto il peso di un mondo con cui sembrava prendersela in continuazione. Un mondo che lo aveva fatto nascere sfortunato e gli aveva mostrato gli orrori della povertà e della guerra, ma che, tuttavia, non gli aveva impedito di far continuare a brillare quegli occhi del colore dei prati che tanto amava. 
Alfredo non resistette più. 
Fu lui a baciarlo, quella sera. 
Inizialmente, sentì Olmo irrigidirsi, colto alla sprovvista, e Alfredo era già pronto a distaccarsene, buttarsi a terra e implorare perdono, supplicarlo di non andarsene di nuovo, di non lasciarlo un'altra volta. Invece, presto lo sentì rispondere a quel bacio incredibilmente goffo e inesperto. E fu proprio lui a prendere l'iniziativa e approfondirlo, andando oltre il semplice uso delle labbra. 
Alfredo accolse la sua lingua, i suoi morsi leggeri, si lasciò sfuggire sospiri estasiati quando lui lo circondò con le braccia, spingendolo sul fieno. Per la seconda volta in quella giornata, si ritrovò a cingergli i fianchi con le gambe, ma questa volta azzardò perfino a sollevare il proprio inguine, voglioso di farlo aderire contro il corpo dell'amico, che non smetteva di dedicargli l'attenzione della sua bocca, dei suoi baci roventi. 
Non erano morbide, le labbra di Olmo. Erano secche, rudi, sapevano di tabacco e sale. Eppure furono capaci di suscitare in Alfredo emozioni mai provate, pensieri che non aveva mai avuto il coraggio di lasciar scorrere nella propria mente. Com'era possibile che una cosa del genere fosse sbagliata, proibita? Si sentiva come se le sue labbra fossero finalmente unite alle uniche su cui avrebbero mai dovuto posarsi. In quel momento, gli sembrava così impensabile che potessero appartenere a qualcun altro, a una donna, piuttosto che a Olmo. 
"Aspetta!" 
Alfredo si divincolò un poco, quando il volto dell'amico premette nell'incavo tra la spalla e il collo, le sue dita che tiravano per disfargli il colletto della camicia. 
Olmo si sollevò su di lui, le mani affondate nel fieno, e inarcò le sopracciglia, confuso. "Cosa c'è?" 
Alfredo si morse il labbro inferiore, pensieroso, domandandosi se avesse fatto bene a interrompere quel momento di pura bellezza, di splendide e proibite sensazioni. Ma, alla fine, si disse che prima o poi l'avrebbe comunque scoperto. 
Così si sbottonò il colletto della camicia e scoprì la ferita che aveva sul collo. 
Olmo spalancò la bocca a quella visuale: la pelle di Alfredo era tirata su tutto il lato sinistro, bruciata, grumosa. Lo stesso identico punto dove era stato ferito di striscio da un proiettile volante, dove si era procurato le stesse, identiche abrasioni. 
Il contadino sollevò una mano, incerto. "Posso?" chiese, e Alfredo annuì, permettendogli di sfiorargli il collo con le dita. Rabbrividì al tocco dei suoi polpastrelli sulla propria pelle, prima che Olmo ritraesse la mano all'improvviso, come se si fosse scottato. 
"Non è possibile" mormorò, indietreggiando fino a rimettersi in piedi. "Non è possibile..." 
"So che hai le stesse ferite." 
Alfredo scivolò in avanti, poggiando i piedi a terra ma restando seduto sulla montagna di fieno. Sollevò la mano con la cicatrice, mostrando ad Olmo il segno del taglio sul dorso. "Quando ci siamo conosciuti, ho visto che ne hai una identica, esattamente nello stesso punto. Credevo fosse una coincidenza, credevo di essermi tagliato con la corda dell'altalena...." 
"Mi ero ferito una volta, sotto il treno" rispose Olmo, sollevando la stessa mano per ammirare la propria cicatrice. 
Alfredo notò che tremava. 
Istintivamente, si alzò, muovendosi verso di lui, e gli afferrò quella mano tremolante tra le sue. Era sudata, ma a lui importava solamente poterla stringere tra le dita, poterla accarezzare, avere quel tipo di contatto con lui, perché solo quando lo toccava Alfredo riusciva a sentirsi completo. Era un pensiero assurdo, l'idea che metà della sua anima fosse stata strappata via nel momento in cui Olmo se n'era andato, lasciandolo solo a metà tra due mondi: uno a cui non apparteneva, dove non era desiderato, e un altro a cui non aveva mai chiesto di appartenere, in cui veniva forzato a restare. Eppure, con Olmo lì con lui, con i suoi stessi dolori e le sue stesse cicatrici, tutto acquisiva nuovamente un senso e Alfredo trovava finalmente il suo posto nel mondo. Che fosse in una stalla o in una soffitta polverosa, gli bastava sapere che era con lui che doveva stare. 
"Va tutto bene." sussurrò, la voce che gli si faceva incrinata, le lacrime che minacciavano di graffiargli il volto. Si chinò e lasciò un dolce bacio sul dorso della mano di Olmo, e un altro bacio sul suo palmo, lo stesso palmo che si posò gentilmente su una delle sue guance ancora un po' paffutelle. 
Alfredo alzò nuovamente lo sguardo su di lui e, questa volta, riuscì perfino a inspirare abbastanza da lasciare che l'altro si appropriasse nuovamente della sua bocca. Si baciarono per un lasso di tempo che gli parve al tempo stesso interminabile e troppo breve, tanto che si aggrappò saldamente alla maglia di Olmo quando l'amico si separò da lui. 
"No" mugugnò Alfredo, avvertendo le lacrime scendergli inevitabilmente sul viso. "Non voglio che tu te ne vada di nuovo." 
"Non vado da nessuna parte, Alfredo Berlinghieri." 
Il ragazzo accennò a un sorriso divertito nell'udirlo pronunciare il suo nome completo. Non lo aveva ancora mai sentito, non con quella voce così diversa e matura da quella che aveva imparato a conoscere molti anni prima. "Promesso?" 
"Il mio posto è qui." 
Olmo si chinò su di lui e posò una mano dietro al collo del suo padroncino, unendo le loro fronti, respirando all'unisono. "Senti... fammi solo sistemare prima questa faccenda tra me e tuo padre. Poi ti prometto che ne riparliamo, va bene?" 
Alfredo annuì, sospirando e mordendosi il labbro inferiore, troppo vuoto quando non si scontrava con quello di Olmo. "Tu sei tutto matto." osservò, suscitando una risatina nell'amico. 
"Lo so. Me lo dissi quando ci siamo conosciuti." 
Alfredo si sollevò sulla punta dei piedi, rubandogli un altro bacio. 

 

Il cielo è poi così lontano, Alfredo? 
 


 

ANGOLO AUTRICE: 

Ma salve! Ci ho messo due mesi, DUE FOTTUTISSIMI MESI, per aggiornare ma alla fine ce l'ho fatta e spero vi siate goduti questa seconda parte. Beh, avevo detto che sarebbe stata suddivisa in soli due atti ma, alla fine, come al solito, ho finito per allungare il brodo quindi se tutto va bene dovrebbero esserci altri due o tre capitoli. Mi piace però l'idea di suddividerla in modo che ogni capitolo sembri quasi una one shot a sé stante -nonostante gli ovvi collegamenti- quindi continuerò sicuramente con quest'impostazione. L'unico avvertimento che mi sento di fare è questo: non aspettatevi aggiornamenti super-regolari. Ovviamente tengo a questa storia, ma la scrivo quando ho bisogno di prendermi una pausa dalle long, quindi quelle hanno assolutamente la precedenza (soprattutto BOTW). 

Le mie solite precisazioni: 

- la prima parte del capitolo è una scena del film, riportata di pari passo. Nessuna modifica, neanche il bacio <3 (tipo il famoso "Friendship Kiss" che sta girando su Facebook lmao) Ci tenevo molto a inserirla nella storia così com'è, elaborandone i pensieri di Alfredo, ma non c'era assolutamente nulla da modificare. E ringrazio YouTube per essermi venuto in aiuto con i dialoghi. La seconda parte è, invece, un missing moment inventato completamente da me e si colloca in seguito a un litigio tra Olmo, il padre di Alfredo e il fattore Attila. 

- Olmo e Alfredo scherzano sul matrimonio di Attila e Regina, ma i due si sposeranno sul serio e daranno vita al duo di villain più malvagio e terrificante che io abbia mai visto.

- non sono sicura al 100% che Olmo non sia mai tornato all'azienda, quando è stato mandato a Genova. Penso che fosse tornato in seguito allo sciopero fino a quando non è stato chiamato per andare in guerra, perché quando torna sembra aver avuto esperienza nel lavoro contadino. Questo però non ci è mostrato chiaramente nel film, quindi ho preferito il salto temporale diretto. Oltre il fatto che dieci anni separato dalla sua soulmate erano meravigliosamente angst come cosa *-* 

Credo di aver detto tutto e mi auguro che vi sia piaciuta anche questa seconda parte. Personalmente, trovo mi sia uscito molto meglio il primo capitolo e che manchi qualcosa in questo, un po' più d'introspezione. Anyway, fatemi sapere cosa ne pensate con un commento, ci terrei davvero molto. E ne approfitto per ringraziare ogni singola persona che ha speso un po' del suo tempo per recensire la prima parte, scusate se sono un culo flaccido e non riesco quasi mai a rispondere....

Anyway, ci si becca al prossimo aggiornamento di... qualcosa, I guess. 

 

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Capitolo 3
*** Atto III. - Parte I. ***


5.

Che roba, Contessa, all'industria di Aldo 
Han fatto uno sciopero, quei quattro ignoranti 
Volevano avere i salari aumentati, 
Dicevano, pensi, di essere sfruttati. 
E quando è arrivata la polizia 
Quei quattro straccioni han gridato più forte 
Di sangue han sporcato i cortili e le porte 
Chissà quanto tempo ci vorrà per pulire

Modena City Ramblers - "Contessa*" 
 

11 Novembre 1919 
 

 

I passi di Alfredo riecheggiavano tra le mura e gli alti soffitti di Villa Berlinghieri. Il mantello che indossava in occasione della caccia alle anitre di San Martino frusciava contro le sue cosce bardate dalle brache, e i tacchi dei suoi stivali schioccavano contro le piastrelle di marmo mentre, con passo risoluto, percorreva i corridoi del piano terra. 
"È vero che vuoi licenziare Oreste?" esclamò, piombando nello studio di suo padre. 
In piedi tra la scrivania e Attila Melanchini, Giovanni Berlinghieri era intento a caricare due fucili, prelevati da una teca in un angolo della stanza. 
Il fattore si era voltato in direzione di Alfredo, torcendo subito la bocca nel suo famigliare ghigno che ne metteva in mostra i larghi incisivi. Somigliavano a vere e proprie fauci, sposate con un paio d'occhi a palla dal colore gelido dei ghiacci. Alfredo alzò il mento, sostenendo quell'occhiata: Attila poteva fare lo sbruffone quanto voleva, ma prima o poi avrebbe potuto disporre di lui come più desiderava. Anzi, già stava pensando a come sbarazzarsi di lui. Non gli conveniva inimicarsi il figlio del padrone prima che ereditasse la proprietà. In quanto a Giovanni, si limitò a sollevare gli occhi sul figlio per mezzo secondo, prima di scuotere la testa e tornare a degnare d'attenzione la micidiale arma che avrebbe terrorizzato stormi d'anitre, riducendole a un pasto succulento da consumare in casa. 
"Vedo che ancora ti delizi con la compagnia dei villani" ridacchiò. "Dovresti stare attento a ciò che senti uscire dalle loro bocche. Ogni anno vogliono sempre di più, pretendono sempre di più e a quel punto verrano a chiedere la tua, di pellaccia. Smettila di prestare favori a chi lavora per te. Non sei loro amico." 
"È vero o no, allora?" s'impuntò Alfredo, come se non avesse udito neanche una parola pronunciata dal padre. Quando sarebbe arrivato il momento, ci avrebbe pensato lui a come gestire le cose. 
Finalmente, Giovanni sollevò il mento. Padre e figlio si scambiarono uno sguardo penetrante, ma nei loro occhi così simili si poteva leggere un'aria di sfida. 
"Sì, le tue orecchie da cane pastore hanno udito bene" ammise Giovanni. Si chinò leggermente in avanti, posando i palmi delle mani sul ripiano della lunga scrivania in legno di quercia. "È stato un anno disgraziato, questo. Bisogna andare sul risparmio. Grosse macchine che lavorano al doppio della velocità, braccia giovani e vigorose che inseriscono l'olio nei stantuffi." 
"Braccia come il tuo amico Dalcò" sogghignò Attila. "Scommetto i miei testicoli che è stato lui a metterti questa pulce nell'orecchio. Magari proprio per farti venire a piagnucolare da tuo padre." 
Gli occhi di Alfredo si mossero truci a incontrare quelli freddi del Melanchini. Doveva prenderla come una provocazione? 
"Olmo non è uno che manda gli altri a farsela dire" ringhiò. "Qualcuno non ha avuto il suo osso da rosicchiare stamane, Attila?" 
Le labbra del fattore si serrarono come se avesse inghiottito un limone. 
Dentro di sé, Alfredo gongolò, tornando a rivolgersi a suo padre. Giovanni si sistemò la fascia con le cartucce sul petto e indossò la sua lunga e pesante pelliccia, ricavata da una volpe che aveva abbattuto lui stesso. La pelliccia del padrone, così la chiamava austeramente lui. 
"Non puoi farlo!" protestò il giovane. "Il suo contratto scade tra un anno! Gli stai rubando un anno di lavoro!" 
"E tu da quando ti interessi di come funzionano i contratti?" 
Adesso Giovanni lo fissava in cagnesco, stringendo saldamente uno dei fucili da caccia tra le mani. Alfredo digrignò i denti, mentre suo padre si piazzava a pochi centimetri dal suo viso. Da quella distanza ravvicinata, Alfredo era in grado di contare ogni ruga che solcava la fronte e gli zigomi dell'uomo: cominciava ad invecchiare. 
"Non ficcarti in mezzo a questa faccenda" sibilò Giovanni. "Guarda come si fa il padrone, una volta tanto. Impara a liberarti dei pesi morti. Pugno saldo e testa alta. È così che si comanda." 
Alfredo abbassò gli occhi quando sentì la lunga canna del fucile premere contro il suo petto. L'afferrò, avvertendo tra le dita l'adrenalina nello stringere un tale strumento di morte. Non era mai stato un grande amante della caccia. Suo zio Ottavio gli aveva insegnato ad avere rispetto per chiunque e per tutto ciò che lo circondava, animali compresi. Baggianate, così lo aveva liquidato Giovanni, prima di trascinarsi appresso il figlio nei boschi dietro i campi e insegnargli a sparare alle quaglie. La prima volta che ne aveva uccisa una, Alfredo aveva pianto. 
Avvertì la mano di Giovanni riservargli un buffetto sul bicipite e, per un attimo, il giovane Berlinghieri si illuse di aver appena assistito a una dimostrazione d'affetto da parte di suo padre. 
Illusione che svanì rapidamente quando lui afferrò la propri doppietta e si diresse alla porta. 
"Fatti trovare al molo sul fiume tra un quarto d'ora. Abbiamo ospiti, quest'oggi." 
Così dicendo, si dileguò nel corridoio, con Attila che gli zampettava alle calcagna. 
Alfredo avvertiva uno sgradevole tremare dei propri arti, lo stomaco contratto. Istintivamente, volse la testa alla parete dietro la scrivania, incontrando gli occhi di suo nonno che indugiavano senza vita su di lui dal ritratto lì appeso. Il vecchio Alfredo si sarebbe rigirato nella tomba se avesse visto con quale pugno di ferro suo figlio portava avanti l'attività di famiglia. Il ragazzo rimembrò una sera di quando era piccolo, quando era rimasto chiuso dentro gli appartamenti dei Dalcò perché Giovanni si premurava, ogni notte, di serrare a doppia mandata le porte delle loro abitazioni, alla stregua di tanti animali in gabbia. 
Dentro di sé, Alfredo avvertiva crescere quel familiare bisogno di fuggire a gambe levate dalla villa e trovare conforto tra le braccia di Olmo. Di arrampicarsi con lui fino alla soffitta della cascina, sdraiarsi nel loro angolino e parlare con gli occhi rivolti alle travi adornate di ragnatele. E poi quel desiderio più maturo, più adolescenziale di sfiorarsi le dita, di incrociare le gambe, di rubarsi baci proibiti. 
Scosse la testa, riscuotendosi dai propri pensieri: Olmo avrebbe avuto una bella gatta da pelare, quel giorno. Oreste Dalcò era stato come un padre, per lui, quasi quanto nonno Leo. E se conosceva Olmo almeno la metà di quanto credesse, era certo che si sarebbe opposto con tutte le sue forze alla cacciata di quel buon uomo. 
Alfredo uscì dallo studio, attraverso la porta che si affacciava sull'atrio. Una folata di vento novembrino gli giunse dal portone spalancato, spingendo foglie rinsecchite contro le punte dei propri stivali e facendo svolazzare il suo mantello intorno ai suoi polpacci. Sostò per qualche attimo sull'uscio, cercando i guanti nella bisaccia che portava al collo e contemplando il grigiore in cui era immerso il vialetto d'accesso. Di fronte a lui, si ergevano alberi quasi ormai del tutto spogli, esausti e pronti al lungo sonno prima del risveglio di primavera. Non vi sarebbe stata alcuna estate di San Martino, quell'anno: ormai l'inverno pareva sempre più deciso ad avanzare tra le steppe della Pianura Padana. 
Ad Alfredo tornò in mente quella poesia che gli aveva insegnato il suo tutore quando era ragazzino. La nebbia a gl'irti colli -non diceva qualcosa anche a proposito di un cacciatore? 
Regina sbucò da dietro un angolo dell'abitazione, indossando stivali poco consoni a una signora, che calpestavano il manto di foglie rossastre sotto i suoi piedi. Anche lei portava un mantello, di color verdognolo, un ridicolo copricapo in pelliccia ed era a sua volta armata di fucile. "Che guardi, cugino?" 
"Lo spiedo scoppiettando!" esclamò Alfredo, colto alla sprovvista. 
"Ma cosa blateri?" 
"La poesia, ricordi? Quella su San Martino. Ce l'avevano insegnata da piccoli." 
Indossati i guanti, Alfredo riprese in mano il fucile che aveva appoggiato contro il muro e scese gli scalini d'ingresso. Regina gli trotterellò a fianco. 
"Gira su' ceppi accesi lo spiedo scoppiettando" recitò "sta il cacciator fischiando, su l'uscio a rimirar..." 
A rimirar cosa? Alfredo non riusciva a ricordarsi cosa venisse dopo. 
Sbuffò, infastidito, quando Regina si attaccò al suo braccio mentre camminavano. 
Procedendo sul sentiero in mezzo ai campi, sui quali era stata da poco completata la semina, i due cugini si ritrovarono presto a camminare dietro i carri di mezzadri costretti a trasferirsi presso nuove cascine. 
Regina trovava la cosa apparentemente esilarante. 
"Ah! Guardali!" esclamò, puntando il dito in direzione di un carro. "Fèr Sàn Martèin! Fèr Sàn Martèin!
"Chiudi la bocca, disgraziata!" la rimproverò Alfredo. 
Si tolse dal sentiero sterrato, trascinandosi dietro Regina giù per il pendio. Si mossero parallelamente alla strada, incespicando tra gli arbusti del fossato. Alfredo udiva le proteste e gli sbuffi di sua cugina alle proprie spalle. Ignorandola, continuò a procedere senza perdere d'occhio i carri quando, più in lontananza, scorse una diramazione della strada che scendeva verso il fiume. Al bivio, dove sorgeva un'abitazione in pietra, vide Olmo che cercava di far calmare Oreste. Il contadino stava urlando qualcosa in lingua emiliana, spogliandosi dei propri vestiti e gettandoli a terra, un capo per volta. Dietro di lui, Olmo li raccoglieva e gli strattonava il braccio nel tentativo di tirarlo indietro. 
Alfredo volse lo sguardo in direzione del fiume, scorgendo una fila di imbarcazioni. I padroni, che quella mattina avevano completato il rinnovo dei contratti, avevano ufficialmente dato inizio alla battuta di caccia all'anitra. Su una delle barche, Alfredo vide suo padre insieme ad Attila e al signor Pioppi, il proprietario dell'azienda vinicola vicino ai Berlinghieri. Su un'altra imbarcazione, scorse il signor Campanini che agitava le braccia, brandendo il proprio fucile. Giovanni ghignava, come a sfidare le imprecazioni di Oreste. 
Alfredo si fermò al limitare del fosso, dove il pendio risaliva verso il selciato, e si sistemò la bisaccia al collo. Insieme a Olmo e alla famiglia di Oreste, scorse Anita, una mondina dai boccoli biondi, rifugiata di guerra, la cui compagnia aveva allietato fin troppo spesso il suo amico, nell'ultimo anno. Alfredo sentì crescere in lui una vampata di gelosia sciocca e travolgente: odiava come si sentisse trascurato da Olmo da quando lui aveva conosciuto la ragazza. La detestava in quel momento che si appiccicava al suo braccio robusto, così come l'aveva detestata tutte le volte in cui Olmo aveva cominciato a parlargli di lei con lo sguardo sognante, smarrito in chissà quali fantasie. 
"È intelligente" continuava a ripetere la settimana prima, "una maestra. È la prima volta che c'ho una morosa istruita." 
"E io che cosa sono, un tonno ignorante?" avrebbe voluto commentare Alfredo, invece si era limitato a grugnire e ficcarsi in bocca l'ennesima caldarrosta, procurandosi, oltre al malumore, pure una spiacevole dissenteria. 
Dietro di lui, Regina prese a scuoterlo per le spalle, facendolo sussultare: si era quasi dimenticato della sua presenza. 
"Che c'è?" sbottò, voltandosi verso di lei. 
Sua cugina indicò la strada principale. "Alfredo, guarda!" 
Allungando il collo oltre Regina, Alfredo scorse uno squadrone di uomini in divisa che avanzava a cavallo verso l'abitazione. 
Alle sue spalle, in lontananza, udì suo padre gridare: "Adesso ci pensano le Guardie Regie a fargli fare un bel San Martino! Vedrai come corrono!" 
Il ragazzo trattenne il respiro, mentre osservava il Capitano e un'altra Guardia distaccarsi dallo squadrone e trotterellare fino al bivio. 
"In nome della legge" esclamò, fronteggiando Olmo, Anita, Oreste e tutti gli altri suoi famigliari, donne e alcuni bambini. "Via dalla casa!" 
Oreste, che si era rivestito, non si lasciò intimidire. 
"Dove li faccio dormire i miei figli, sotto i ponti?" protestò, avanzando di qualche passo. 
"Dormiranno in galera, se non fai fagotto." 
"Buttaci i padroni, in galera, che non rispettano i contratti!" 
Alfredo avvertì un brivido corrergli lungo la spina dorsale nell'udire Olmo così virile e risoluto di fronte alle autorità. 
Udì il Capitano delle Guardie ripetere "In nome della legge..." 
"Legge, legge, quale legge?!" urlò Olmo, infuriato, prima che anche Anita prendesse la parola. 
"La legge è con noi! Il contratto di Oreste scade tra un anno! I padroni vogliono rubargli un anno di lavoro!" 
Ecco, finita la magia pensò Alfredo, sbuffando dalle narici. Non aveva idea di quanto si sbagliasse. 
Il Capitano e il suo compagno fecero dietrofront, tornando in direzione dello squadrone per prepararsi all'attacco. Olmo e Anita non se ne rimasero con le mani in mano e, approfittando del viavai di carri, cominciarono a correre avanti e indietro, rivolgendosi ai contadini, invitandoli a resistere e aiutare il loro compagno. 
Alfredo non staccò gli occhi da Olmo nemmeno per un attimo. Lo guardò correre lungo il sentiero, gridando a squarciagola: "Questa legge vigliacca che protegge sempre i padroni! Sempre loro, protegge! Avanti, compagni, scendete! Basta con San Martino, questo è l'ultimo che facciamo!" 
Alfredo sobbalzò quando avvertì il dorso della mano di Regina sull'angolo della bocca. 
"Scusa" ghignò lei "Stavi un po' sbavando! Ti piace quel bolscevico, eh?" 
"Ah, va' al diavolo!" 
Alfredo si rimise in spalla il fucile e si arrampicò su per il pendio. Attraversò velocemente il sentiero, cercando di non farsi notare dai Dalcò, e scivolò in fretta in direzione del fiume. A metà strada, si voltò e continuò a guardare lo spettacolo che gli si presentava davanti. 
Olmo e Anita avevano fatto scendere più persone possibili dai carri. La ragazza stava raggruppando le donne, incitandole a resistere ed essere coraggiose. Olmo guidò gli uomini dietro la casa ad afferrare dei lunghi pali di legno. 
Nel frattempo, le Guardie Regie, con le spade già sguainate, erano sempre più vicine, sempre più imponenti. 
Fu allora che accadde. Le mondine, serrando i ranghi, presero a cantare. 
"Sebben che siamo donne, paura non abbiamo! Per amor dei nostri figli, in lega ci mettiamo!
Cantavano a più non posso, le loro voci concitate che si facevano sempre più alte fino a soffocare il rumore degli zoccoli di tutti quei cavalli. 
"A oilì oilì oilà, e la lega crescerà! E noialtri socialisti vogliam la libertà! 
La libertà non viene perché non c'è l'unione! 
Crumiri col padrone 
Son tutti da ammazzar!
Alfredo batté le palpebre più volte, incredulo. Non aveva mai assistito a uno spettacolo del genere. Per un attimo, un brevissimo istante, provò addirittura ammirazione per quella gallinaccia di Anita. La vide inspirare profondamente, portarsi le mani ai lati della bocca e sbraitare: "Dovrete ammazzarci tutte! Di qui non passerete!" 
Le Guardie a cavallo tentennarono. 
Le mondine si sedettero. Si sdraiarono per terra. 
Dietro di loro, gli uomini, con Olmo in prima linea, cominciarono a fischiettare lo stesso motivetto popolare, colpendo il selciato con i lunghi bastoni di cui erano armati. 
Le donne ripresero a cantare. 
Allorché il Capitano, con il proprio cavallo che impennava, riposò la la propria spada nel fodero e diede l'ordine di ritirarsi. 
Ancora, Alfredo non riusciva a credere ai propri occhi. Eppure, era tutto davanti a lui. I rappresentanti di una legge dura e a volte ingiusta che se la davano a gambe e i contadini morti di fame che esultavano per quella battaglia appena vinta. Si portò una mano al cuore, avvertendo un eccesso di felicità ghermirgli il petto e si domandò se fosse una sensazione sua o di Olmo. Gli piaceva pensare che potesse provare anche la sua allegria, non solamente il suo dolore. 
Gli altri padroni, evidentemente, non erano dello stesso avviso. 
Alfredo si ritrovò malamente spintonato di lato. Era stato Campanini che, ringhiando, si arrampicava su per il sentiero con passo goffo e infuriato. Giovanni lo seguiva. Mentre passava accanto ad Alfredo, suo padre gli riservò un'occhiata colma di astio. 
"Codardi!" si sgolò Campanini, rivolto alle Guardie Regie che trottavano via. "È così che ci difendete? Ma adesso gli faccio vedere io, gli faccio vedere!" 
Brandì il fucile e la canna della doppietta si puntò in direzione dei contadini. In direzione di Olmo. 
"No! NO!" 
Alfredo si mosse in avanti, correndo, ma perse l'equilibrio e cadde lungo disteso sul terreno. Chiuse gli occhi e si preparò ad avvertire il dolore lancinante di un proiettile che lo trapassava da parte a parte.  
Il colpo sordo partì ma il male non venne. La pallottola era andata a vuoto, troppo in alto, spaventando solamente uno stormo di uccelli. 
Uccelli neri
Alfredo ricordò improvvisamente la fine della poesia. 
Prima che Campanini potesse fare ulteriori danni, Giovanni gli afferrò il fucile e lo strattonò. 
"Ti ha dato di volta il cervello?" sbottò. "Vieni via. Vieni via, non fare lo stolto! E tu! Alzati, per Dio!" 
Per una volta, Alfredo ubbidì al padre. Se ne pentì quando lui lo costrinse verso il fiume insieme a Campanini. 
"Ti avevo detto di farti trovare alle barche" ringhiò Giovanni, mentre camminavano con passo quasi militare. "Perché non mi stai mai a sentire?" 
Alfredo girò la testa all'indietro, verso i contadini che ancora cantavano e sbeffeggiavano i padroni. Incontrò per qualche attimo lo sguardo di Olmo, prima che lui si voltasse verso Anita per sorriderle. 
Anche Alfredo distolse gli occhi. 
"Stormi d'uccelli neri" recitò a bassa voce, mentre lui, Giovanni e Campanini, che ancora bestemmiava sottovoce, raggiungevano le barche. "Com'esuli pensieri, nel vespero migrar."

Anche il cielo l'hanno chiuso, è riservato 
L'ingresso è per i soci, è un circolo privato 



🌹 ANGOLO AUTRICE 🌹 
 

* si ringrazia Shilyss per avermi ricordato l'esistenza di questa meravigliosa canzone. 

Ma salve, salvino! Questo capitolo sta su Wattpad già da parecchio, ma qui su EFP ho voluto aspettare di pubblicarlo esattamente il giorno di San Martino, come se oggi fosse una specie di centenario di quanto accaduto in questa parte, eheheh. 
Dunque, come avete visto ci sono state delle piccole modifiche. Anzitutto, la prima parte dell'Atto I è stata quasi del tutto riscritta. Inoltre, ho deciso di dare suddividere in due parti gli atti che mi vengono più lunghi (come questo), in modo da non appesantire troppo la lettura. Tra l'altro, se avessi aspettato di completare anche la seconda parte, saremmo ancora in alto mare. Lo so, mi faccio odiare per tutte le store che inizio e poi mi incasino! Comunque, sono praticamente a metà della seconda parte... che sarà
moooolto romantica *-*

PRECISAZIONI, come sempre:

- sì, c'è stato un salto temporale di esattamente un anno. Non è né il primo né l'ultimo, perciò tra le varie modifiche ho voluto inserire anche le date in cui si svolge ogni parte. 
- inizialmente, il personaggio di Anita non avrebbe dovuto esserci, ma mi sono detta che, alla fine, le donne di Olmo e Alfredo fossero comunque importanti nella storia (oddio, Anita un po' meno...) e pure funzionali al loro rapporto. Per questo, nelle modifiche al primo capitolo, ho voluto specificare che Alfredo avesse una moglie (che incontreremo più avanti). 
- avrei voluto inserire un'altra scena, in cui i padroni si riuniscono in una chiesa e mettono fondi per finanziare un corpo di sicurezza (che sarebbero poi diventate camicie nere), nella speranza di ristabilire l'ordine. Ma sono pigra e volevo aggiornare. Perciò, la scena verrà citata nella seconda parte. Inoltre, adoravo l'idea di concludere con la poesia di Carducci 💓 
- a proposito di San Martino! La scelta della festività non è casuale. San Martino è il periodo in cui un tempo, dopo alla semina, venivano rinnovati i contratti ai contadini. Se il padrone non assumeva i braccianti per un altro anno di lavoro, questi erano costretti ad andarsene e cercare occupazione in un'altra cascina. Da qui deriva appunto l'espressione Fare San Martino (che avete letto più volte in queste righe) ovvero traslocare. 
- la canzone che cantano le donne è "La Lega", un inno popolare delle mondine 
- La Regia guardia per la pubblica sicurezza (detta anche Guardie Regie) è stato il corpo di pubblica sicurezza che aveva sostituito il Corpo delle Guardie di Città. È stato poi smantellato nel 1922 quando Mussolini lo ha sostituito con la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e l'Arma dei Carabinieri reali

Spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo, io ne sono stranamente entusiasta anche proprio a livello stilistico. 
Continuo, ovviamente, a incoraggiare chiunque legga a darmi un parere e volevo ringraziare sentitamente tutte le persone che seguono gli aggiornamenti di questa storia con gli scambi del Giardino <3 So che c'è qualcuno che apprezza particolarmente questa mia storia e la cosa non può che riempirmi di gioia, grazie per tutte le meravigliose parole che avete sempre da darle, grazie!! 
Vi mando un baciones grande grande e ci vediamo presto (spero) con qualche aggiornamento ❣

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