L'eco di una melodia scomparsa

di Selena Leroy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Premier Partition – E, all’improvviso, le lancette segnarono la mezzanotte ***
Capitolo 3: *** Deuxième Partition – Combatterono, inermi di fronte alle rispettive verità ***
Capitolo 4: *** Troisième Partition – Sfibrata dai venti di bufera, l’angelo cercò rifugio ***
Capitolo 5: *** Quatrième Partition – Nello stagnarsi dell’uomo, l’angelo tentò la sua fuga ***
Capitolo 6: *** Cinquième Partition – Al pallido chiarore della luce lunare, l’angelo tentò di scorgere il suo sentiero ***
Capitolo 7: *** Sixiéme Score – Nel suo acconsentire, l’angelo cercò consapevolezza ***
Capitolo 8: *** Septiéme Score – In sprazzi di luce, le ali dell’angelo si spiegarono ***
Capitolo 9: *** Huitième Score - Al gelo della notte, l'angelo ebbe una visione ***
Capitolo 10: *** Neuvième Score - All'angelo venne regalato un sorriso ***
Capitolo 11: *** Dixième Score - Colpito nel profondo, l'angelo cadde vittima di Flegias ***
Capitolo 12: *** Onzième Score - Non conobbe più la paura, l'angelo, ma solo la vendetta ***
Capitolo 13: *** Douzième Score - E l'angelo ancora non lo sapeva, ma la trappola era ormai pronta per lei ***
Capitolo 14: *** Treizième Score - E l'angelo iniziò a cadere ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Jack Vessalius, nel suo perire, avrebbe forse rivisto la sua Lacie. Questo pensava Oswald, mentre osservava l’inerte suo amico ammanettato dinanzi a lui. Era tutto un rosseggiare, intorno a loro, un mondo dalle tinte fosche che ancora ricordava il dolore infertogli da Jack, e che attendeva una fine prossima e tempestiva. Lui, il nuovo Glen, non aveva neppure mai supposto che, nel mondo, un male tanto grave potesse infettare la mente degli uomini, che dal semplice amore si generasse un odio tanto cancerogeno da anestetizzare la pura ragion d’essere. Si chiese, mentre evocava il suo chain, il chain che aveva personalmente scelto per quell’ingrato compito, quale delle mille maschere indossate dal ragazzo lì dinanzi potesse definirsi autentica. Non quella del migliore amico, certamente, non quella del disgraziato che tenta di risollevare il suo spirito nella compagnia di un fratello rimasto solo. Non c’era stato alcun senso di affetto, nel  muoversi dei suoi gesti, e per Oswald l’essersene avveduto solo così tardi era segno di un profondo rancore che tentava parzialmente di dissimulare.

Lui stava per ottenere la sua vendetta, alla fine; per il vile tradimento subito, avrebbe gettato Jack Vessalius nel luogo più cupo di Abyss, nell’estremo confine che debilitava l’anima al punto da negarle la reincarnazione, e l’unico neo che avrebbe dovuto ostacolare la sua mano doveva venire solo dal pensiero di una morte troppo rapida e, forse, voluta dallo stesso condannato. Comodo morire nelle stesse condizioni della povera Lacie, richiamare il suo nome per la scelleratezza consumatasi dinanzi ai suoi occhi, per la follia che ormai albergava nel corpo del giovane...

Ma Oswald soffriva. Nella rabbia, nel tradimento, nel rancore, egli soffriva. Nel dover infliggere una simile e disgraziata pena, nel dover condannare alla morte definitiva Jack, nel privarsi per sempre della sua vista... egli continuava stupidamente a soffrirne. Quella gioia selvaggia che l’aveva investito i pochi attimi precedenti la cattura era già cenere, fugace in un sentimento che non gli apparteneva e fin troppo fievole nel poterlo rappresentare. Nel suo cuore, egli non riusciva a dettare la giustizia del suo operato, l’obbligo di quanto costretto a fare; quel suo organo pulsante, prossimo al suo primo sfiorire, già singhiozzava penosamente per una perdita non ancora prossima. Ne soffriva e, per questo, si detestava in maggior  misura di quanto odiava Jack.

Ma come convincersi che quell’uomo non aveva fatto null’altro se non una recita, dinanzi a lui? Come portarsi nella semplice ragione delle azioni illusorie, quelle che lo avevano creduto compreso e accettato da chi invece già meditava come imbrogliarlo?

Non aveva voluto crederci, all’inizio, quando le guardie gli avevano comunicato l’aprirsi involuto dei cancelli per Abyss. Il sangue che loro portavano come prova avrebbe dovuto essere uno sgradevole scherzo, meglio ancora una farsa da guitti organizzata da terzi, e certamente nel momento peggiore che si potesse scegliere.

Ma poi alle grida si erano sovrapposte le urla disumane della bestia, e la deflagrazione udita in lontananza pochi dubbi aveva lasciato sull’identificare degli invasori all’interno del castello.

Jack dominava l’inferno, e ne guidava l’emissario procuratosi col mistero. Ghignava del dolore che lo circondava, del sangue gocciolante dalla sua spada, delle catene che il suo chain riduceva a brandelli; nelle iridi così inquietanti per il loro non riflettere altro che il nulla, lui aveva tremato per il lucore sinistro che le aveva bagnate; non seppe identificarla, l’origine di quell’emozione, ma ne ebbe timore perché esso, così innaturale su un viso tanto allegro quanto spento, vedeva la sua origine proprio nella morte, nella follia e nelle urla del massacro. Morivano, le persone, si vedevano prossime al crollo del proprio mondo, e chiamavano a gran voce lui, il nuovo Glen, affinché ripristinasse l’antico e sicuro ordine.

Cosa che lui aveva fatto.

Nel rito di condanna appena apertosi nella disfatta di Jack lui avrebbe dovuto parlare di pentimento, di colpe che macchiano l'anima senza precise obiezioni di coscienza, e della giustizia quindi insita all'interno del suo gesto. In altre parole, una sorta di beneplacito da dichiarare nell'ucciderlo.

Gryfon fece il suo ingresso, ammantato di lucenti piume nerastre che ben presto invasero l'intero aere della stanza. Si cullavano nell'inesistenza di una forza capace di farle sfuggire alla gravità, conferivano all'ambiente la ricercatezza del male che stava per compiersi. Perché Oswald, in tutta franchezza, non riusciva a vedere, in simile e mortale rituale, un bene all'anima sua e del condannato. Una tortura lenta e definitiva che impediva perfino il miracolo dei cento giri poteva davvero chiamarsi giustizia, in fondo? Il titolo di Glen avrebbe dovuto cancellare, spazzar via come le foglie nella carezza del vento, simili elucubrazioni. Quale guadagno avrebbe ottenuto nel dubitare di se, delle sue azioni, del suo operato e del suo ruolo? Il semplice porsi di una simile domanda avrebbe certamente meritato la più incline delle avversioni da parte di quella Jury tanto crudele quanto lieta nell'ordinare la condanna a morte della sua amata sorella.

Rifletteva sul passato, Oswald, ripensava a quella sottile tentazione avvertita quando Jack, presentatosi alla sua porta nella vigilia della cerimonia, si era in qualche modo identificato quale suo salvatore, il tramite perfetto nella garanzia di una vita lunga e felice che Lacie meritava più di chiunque altro, più di coloro che, della vita, non sapevano apprezzare nulla sebbene nati con più doni di lei. Cosa sarebbe accaduto, pensava Oswald, se avesse deciso di dir tutto a Jack, di affidarle la ragazza, di disobbedire al suo naturale ruolo e di rispondere solo a quanto suggerito dalla sua anima?

"Questo poteva forse evitarsi?"

Non si rese nemmeno conto, lui, di aver pronunciato simile pensiero in un modo tale da rendersi udibile. Il suo pensiero ormai galoppava nel sentore di un cuore preso a battergli con una frenesia pari a quella avvertita nella battaglia appena conclusa e, forse per la prima volta nella vita, mostrò deliberatamente se stesso a discapito del suo ruolo, del suo titolo e degli sguardi di tutti.

"Dimmi, Jack, poteva evitarsi, simile tragedia?"

Il biondo non accennò nemmeno a fissarlo, perso in un fiume di pensieri di cui non voleva rendere partecipe nessuno. Lo sguardo smeraldo esplorava i delicati mosaici del pavimento quasi vi fosse lì inciso la risposta alla domanda appena posta, eppure quella voce, calda e suadente, che tante volte aveva sentito risuonare all'interno della sua magione, non venne a lui incontro, non ribatté alla richiesta fattagli, non interruppe il silenzio venutosi a creare. Oswald comprese - o almeno pensò di farlo - che la disfatta ricevuta dovevano ormai aver compromesso in modo indelebile il raziocinio del ragazzo, e che dalla sua follia egli non ne sarebbe mai più venuto fuori.

"Il mondo potrà anche essere un'infinità di se, ma proprio per questo non ci è dato conoscere del nostro destino nel caso di decisioni opposte"

E, sospirando, Oswald... Glen emise il suo verdetto.

"Jack Vessalius... con la catena della condanna, ora è metterò il tuo giudizio"

"Per il mio peccato?"

La platea generale, tutti gli astanti di Baskerville – gli unici rimasti vivi dopo il massacro brutale ma necessario - rimasero a bocca aperta, nel sentirlo parlare. Chi piangeva i morti appena subiti non gli perdonava quel tono canzonatorio sfumato nella punta delle sue parole; chi lo aveva combattuto si sentì quasi deriso dalla sua strafottenza. Oswald, invece, ne rimase totalmente indifferente. Era l'ultima volta che avrebbe udito la voce del suo amico, e non avrebbe permesso ai sentimenti iniqui - per quanto fosse sbagliato pensarla così - di incrinare i suoi ultimi istanti.

"Sì, Jack. Il tuo peccato... è l'aver tentato la distruzione delle catene, e aver condannato l’intera Sablier a precipitare in un oblio che nemmeno io posso evitare. Per questo, verrai condannato nel luogo del non ritorno. Nell'angolo di Abyss dove la tua anima non conoscerà il beneficio dei 100 giri"

Sollevò la mano.

"Addio, Jack"

Il rumore delle catene si fece insopportabile. Un frastuono unitosi al canto del chain, un verso straziante che rievocava il dolore ardente nel cuore di Oswald.

L'istante successivo vide il corpo di Jack divorato dalle catene, avvolto dal nero del mondo oscuro e trascinato dabbasso.

 

"Addio, Oswald"

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Capitolo 2
*** Premier Partition – E, all’improvviso, le lancette segnarono la mezzanotte ***


"Oz, tesoro... ti prego, le mie medicine!"

Il ricamo floreale non conobbe la sua fine, la mano delicata che lo stava lavorando interruppe nell'immediato i suoi gesti rapidi per dirigersi celermente verso la piccola ampolla di vetro ricolma di pallide sferette, posta per l'occorrenza su uno dei pochi mobiletti della stanza, e da lì la giovane si diresse verso la camera da letto, dove Martha stringeva con affanno la serica stoffa del suo vestito, all’altezza del petto, nel tentativo – vano - di controllare quel violento attacco tachicardico che minacciava di essere l'ultimo.

"Figlia mia... grazie" disse la donna, con voce flebile, dopo aver assunto ciò che aveva il dono di farla stare meglio.

"Di nulla, madre. Pensate solo a riposarvi, dovete recuperare le vostre forze"

La figura delicata di lei rimase lì, al fianco della donna stesa nel letto, e la scrutò con amorevole cura fino a quando non la vide richiudere le palpebre.

Oz vestiva di rimpianti, e quelle erano le vesti che il destino aveva a lei riservato per un compiacimento che ella non sapeva apprezzare. Con statico torpore tornò nella rozza stanza utile in tutto quanto in niente, e in quel momento adibito come studio per i suoi lavori manuali. Il cucito era sempre stato l'unico loro mezzo di sostentamento, un duro lavoro che Martha aveva condotto con coraggio senza minimamente dar conto dell'astio raggrumato per la sua condizione di madre e non di moglie, dedita a quella figlia che amava con una forza e una tenerezza travalicanti il debole suo corpo, sempre facilmente esposto a malattie che ne contaminavano la gioia delle quotidiane inezie.

Il cuore di lei, per quel tanto amore che era in grado di donare, si debilitava senza lasciarle scampo. Aveva avuto tre anni, Oz, tra le mani il primo ricamo che l'avrebbe iniziata alla carriera di sarta; i confusi lillá che prendevano forma sul ruvido tessuto appassivano al confronto delle splendide rose della madre, pronte a regalarle la parvenza di un aroma gentile sulla seta pregiata dell'abito nuziale da lei confezionato. Oz, che a quel tempo nemmeno conosceva la grazia di un'unione eterna, già si vedeva donna, a danzare al ritmo del vento primaverile nei veli che abbracciavano il suo corpo, e persa nei suoi sogni nemmeno contemplava il pallore della madre, il suo tossire costante, l’affanno sempre più inquieto. Il suo emergere dalla bruma di un miraggio avvenne quando tutto lo splendore sul quale poggiava la fantasticheria cadde al suolo, assieme a quella donna dal cuore stanco, e nelle rose non vide più la magia a discapito del ricordo.

Da allora erano passati molti anni, ma Martha non aveva mai conosciuto quel miglioramento che concedeva la speranza. I medici, da quel punto di vista, nemmeno contemplavano come possibile il suo ostinarsi alla vita, certi delle carte che pronosticavano defunte pene già da consumarsi nei meandri di un cimitero. Era una continua lotta il trascinarli ancora nella loro modestissima casa, il pagarli con gli obbligati ritardi, l'ottenimento delle medicine corrette, il placarsi di animi tanto infervorati da minacciare la distruzione della loro casa, il loro unico bene. E Oz, in tutto questo, continuava a guardare dinanzi a se ignorando il marciume che tentava di infangarla, spostandosi dai commenti iniqui sulla lei portatrice di disgrazie, sulla lei incapace di eguagliare il talento della madre, sulla lei che avrebbe solo dovuto sposare il primo disposto ad accoglierla. Aveva giurato il suicidio, lei, se davvero le cose si fossero spinte a tanto, ma per sua somma fortuna anche la madre vedeva tanto di cattivo occhio eventuali unioni coniugali. Non bastava la bellezza di un abito nuziale per farle meditare con serietà un altare pregno di fragranze floreali; lei viveva per un'ideale, una promessa lasciata alla madre quando ella non aveva più avuto le forze per reggere un ago, che era la possibilità di rendersi lei stessa la creatrice del suo futuro, con i sogni ricevuti da quella donna che era il principio della sua esistenza. Divenire sarta, magari con un negozio tutto suo, e ottener tanto denaro da donare alla sua signora il sufficiente per vivere una vecchiaia serena e tranquilla; lottava ogni giorno per tutto questo, sacrificava il suo orgoglio per supplicare eventuali commissioni, faceva appello alle poche occasioni carpite con fortuna per dimostrare la sua determinazione. Gli insegnamenti di Martha terminarono il giorno in cui ella non era stata più in grado di lasciare il letto ma, nella sua fantasia di giovane fanciulla, Oz supplì all'ignoranza con la creatività, e puntava con questo alla nascita di un nuovo stile di ricamo, un intreccio di viticci e petali che trascinassero tutti in un mondo onirico di sua personale invenzione.

Questa, almeno, era la storia di Oz, prima della catastrofe, prima dei rintocchi del destino. Prima dell'arrivo dei due.



Nel silenzio, il suo lavoro procedeva con attenta discrezione. Oz nemmeno lo pronosticava, quel bussare delicato sul ruvido legno della sua porta, e quando il suono secco si sparse per la vecchia stanza usata come laboratorio, il suo primo pensiero andò a quei medici tanto solerti nel richiedere denaro quanto ritrosi al fornirle nuove medicine. Abbandonò con malagrazia l'ago sottile, sistemò lo stinto abito giallastro che aveva indosso al fine da non sconvolgerli con la trascuratezza dedicata soltanto alla sua persona, e i fili d'oro della sua chioma conobbero velocemente una restrizione in quella retina che la ragazza odiava tanto portare - e in effetti il suo utilizzo si limitava solo quando l'occhio estraneo si scandalizzava per una libertà che le fanciulle di modesta origine non potevano permettersi.

Il bussare si fece di nuovo sentire, una lieve punta di impazienza a rendere più frenetici i colpi assestati.

"Sto arrivando, sto arrivando!"

Nella fisionomia dell'uomo a lei di fronte non c'era nulla che potesse definirsi familiare, nulla che lo presentasse come un medico o un'aspirante tale, un qualcuno dunque atteso. Oz, che nel riconoscerlo come un mistero lasciò alle sue iridi smeraldine il colpito do scrutarlo con più attenzione, riconobbe in lui l'eleganza nobiliare da lei soltanto sognata, nascosta forse da uno sbrigativo modo di presentarsi e di porsi, e tuttavia evidente per... quell'aura, avrebbe detto lei, quel clima nivale che captava nell'aere a lui intorno.

Era forse oggetto anche lei di pensieri intuitivi, pensò, lo sguardo dorato di lui sembrava vagliare la stanchezza del suo viso e le pieghe del suo abito in un mentre di elucubrazioni che non volle sforzarsi di definire. Dal canto di lei, simile soggetto non poteva certo essere un prossimo cliente, visto che avevano la garanzia di poter fare affidamento ad un esperienza più costosa ma certamente più indicata, né passanti giunti per pura distrazione o smarrimento; la delicatezza che avrebbe riservato in altre occasioni si sciolse dunque in uno sguardo sospetto, nel quale il nero di lui - lucente nella chioma sbarazzina e negli abiti simili ad un evento a lutto - apparve nella nefasta percezione di una futura sventura.

"Posso trovare qui la signora Martha Ashton?"

Già, nessun inganno di perdizione; nella minaccia che vide insita in quell'uomo, scorse la ricercatezza di una sicurezza chiara e definita nel luogo da lui voluto.

"Spiacente, ma mia madre in questo momento non sta bene. Vi pregherei quindi di passare..."

Nel congedarli, la porta che aveva sempre sorretto con forza iniziò la sua lenta discesa alla chiusura. Nella galanteria di un uomo, nulla avrebbe dovuto opporsi ad un netto rifiuto, eppure c'era solo risoluzione e nessun garbo, nel bastone che fermò con malagrazia il suo inelegante gesto.

"Mi creda quando le dico che ciò che abbiamo da riferirle è davvero urgente"

Il nero aveva fatto posto ad un nuovo colore. Le iridi bicromate del nuovo arrivato sembravano rilucere di divertimento, quasi l'esser saltato fuori all'improvviso non fosse altro che un desiderio di lui improvvisamente avveratosi per causa di lei. La zazzera bionda le si avvicinò con un'indelicatezza incapace di essere contraddetta, e nel suo ritirarsi indietro ella offrì, pur se non in modo intenzionale, l'opportunità di un ingresso e di un'udienza che la loro insistenza rendeva decisamente sgradevole.

Oz era a dir poco indignata.

"Forse non sono stata chiara, ma mia madre non è in salute, e ha bisogno di molto riposo"

Vi era una velata minaccia, nel suo tono, volutamente tenuto basso per non destare proprio colei che i due uomini minacciavano, ma nemmeno l'aggrottare delle sopracciglia e il palese invito ad andarsene fu accolto dai due. Tanta maleducazione, Oz, non l'aveva mai rinvenuta nemmeno quando i medici che avevano in cura sua madre, infuriati dalle continue proroghe di pagamento, pretendevano un compenso che nessuno era in grado di dargli.

"Mi creda, signorina, se le cose oggi si sistemeranno per il meglio, la sua vita cambierà radicalmente"

Era ancora l'uomo dalle iridi bicromate, ancora con quel tono irritante che sembrava essere usato per il solo scopo di infastidirla.

"Oz, tesoro, cosa succede?"

In barba a tutte le raccomandazioni e contro la logica che la voleva lontana da ogni avvisaglia per la sua psiche, la pallida figura di Martha si stagliava nella spoglia stanzetta come l'ombra di un fantasma prossimo ad infestarne le mura. Lo sguardo spento, segnato da profonde occhiaie,  indugiava sui nuovi venuti con interrogativi che apparivano evidenti nella sua espressione sorpresa. Non fece caso allo sguardo di Oz, greve di colpa per aver permesso all'amata madre di abbandonare le calde lenzuola, e nel suo avvicinarsi si dipingeva un sorriso sghembo carico di aspettative.

"Oz cara, non è educazione far aspettare gli ospiti alla porta. Prego signori" disse poi, accennando al tavolo ingombro di tessuti "accomodatevi. Mi spiace, ma la mia modesta dimora non è molto accogliente. Tuttavia, perdonate il carattere brusco della mia Oz, e fate come se fosse a casa vostra"

Forse vedeva in loro dei clienti, forse dei committenti, forse dei fornitori pronti con un nuovo affare. Non ebbe modo, Oz, di rivelare all'ingenua madre tutti i suoi timori, e nel vedersi contraddetta in quel modo tutto ciò che poté fare fu di lasciare che le cose proseguissero come Martha desiderava. Dunque contro lo sfacelo totale.

 

Ai due uomini, Oz fu presto in grado di dargli un nome e un titolo nobiliare degno del più profondo dei rispetti. O almeno questo era quello che affermava chi si era presentato alla sua porta come Gilbert della famiglia Baskerville. I Baskerville vantavano una ricchezza, un potere e un’influenza tali che non diveniva erroneo chiamarli i padroni dell’intera Leveille. Si ammantavano di mistero e solitudine, ma al posto dell’inquietudine che sarebbe dovuta sorgere spontanea, al concepirli nel loro invalicabile maniero, emergeva invero una divertita attrazione, quindi i maggiori interessati alle grazie e ai favori dei nobili, quando questi si rendevano conto di voler un qualcosa che meritava uno scambio equivalente. Nel loro presentarsi con simile nome, dunque, l’ipotesi più probabile era il desiderio di un timore che, magari, risistemasse correttamente i giusti ruoli all’interno di una società iniqua fin dai suoi albori. Forse, addirittura, puntavano a scuse cocenti che la ragazza avrebbe dovuto servire in ginocchio, ma che ella non si avvide di dover fare, indisciplinata nel suo desiderio di non svilire in tal modo un orgoglio comunque molto prepotente, nella sua persona, e anche se vi era stata l’esplicita richiesta, da parte della madre, di fare ammenda delle sue colpe, tutto quello che ne venne fuori fu un conciliabolo di sbuffi e sospiri che non condussero a nulla se non a un patetico silenzio dal quale emerse il desiderio di venirne fuori.

“Signora...” continuò dunque Gilbert, quando la penosa storia del perdono venne inevitabilmente archiviata “prima di venire qui, avevo delle reticenze, riguardo a quello che fosse più giusto fare. Eppure, fin dal primo istante, ho compreso che non potevano esserci errori”

“Mi scusi, ma così mi confonde” rispose Martha, un sorriso tremulo tenuto solo per cortesia – una cortesia che portava avanti solo per il rispetto che, a suo dire, si conveniva ai nobili.

“Mio fratello non è mai molto chiaro, quando si tratta di queste cose. Quello che vuole dire è che noi siamo qui per conto del visconte Zai Vessalius, il quale vorrebbe riconoscere la figlia illegittima che voi avete cresciuto per tutti questi anni... in altre parole, la Oz qui presente”

Vincent della famiglia Baskerville, nei suoi modi più diretti eppur più sibillini, puntava forse ad un destabilizzare che altro scopo non avrebbe avuto se non quello di divertirlo. O forse era solo la mancanza di una dovuta pazienza nello spiegare simili dettagli; ciò che contava, però, era la reazione che le sue parole avevano suscitato in Martha, il respiro mozzo e il pallore ad accentuarsi sul viso scarno e già esangue. Oz temette che un nuovo attacco stesse per ripresentarsi sul suo povero cuore.

“Nella ragazza si intravedono tutte le caratteristiche che i Vessalius si trasmettono da generazioni” continuò Vincent, il tono che rimaneva imperturbabile ai tratti distorti di colei a cui stava rivolgendosi “E non può certo dire che le abbia ereditate da lei”
Nel panico che precedeva un nuovo malore della madre, Oz fu però capace di captare il significato delle parole dello straniero. E di rinvenirvi le dovute ragioni. La chioma sbiadita dal malanno e dai vari affanni della vita non riuscivano a ingannare sul loro colore originario, e il  nero che rievocavano si riversava anche nell’iride arrossata e che nulla aveva a che vedere con lo smeraldo brillante della figlia. Lo sapeva, Oz, che nel loro essere unite non ci sarebbe mai stato un divario tanto grande, ma anche col passare degli anni quel cruccio di non somigliarle, di non essere esattamente come lei, non aveva mai minato una fiducia e un amore che chiamava incondizionati.

Quando ella era piccola, e si rese evidente quella grande differenza vigente tra gli altri bambini e lei, era stata premura di Martha spiegarle che, all’arrivo della cicogna, non c’era mai stato un padre pronto ad attenderla, preso dalla guerra – inesistente, ma a quell’epoca sicuramente propinabile ad una bambina che del mondo non sapeva nulla – e dai doveri che lo avevano tenuto lontano dalla sua dimora e sua figlia. Crescendo, quando le giuste verità avevano smascherato le antiche menzogne, l’idea stessa di essere stata rifiutata, gettata indietro assieme a sua madre dall’arroganza di un vile nobile influente, infierì di meno proprio perché, in una simile situazione, il suo cuore sussultava di gioia nello scorgere, con maggior evidenza, l’amore di sua madre per una piccola a cui non doveva nulla, e che pure aveva cresciuto contando solo sulle sue forze.

Fu per questi suoi sentimenti che, in Vincent, continuò a vedere un nemico, e fu per questo che la sua convinzione venne a rafforzarsi per lo scrutare, nelle sue parole, il chiaro intento di distruggere una quotidianità e un ordine che già sussistevano in un bilico affacciato sul vuoto di un baratro.

“Oz,cara...” disse la donna, stringendo tra le mani la boccetta dal quale aveva prelevato l’ennesima pillola della giornata “perdonami se sono stata sgarbata nei tuoi confronti, poco fa. Non immaginavo certo che questi nobili volessero un tale sacrilegio, un tale sacrificio... ma adesso va tutto bene; accompagnali alla porta, e assicurati che non tornino indietro”

Le mani della donna sussultavano, nello stringersi alla ragazza rimasta al suo fianco, ma quel tremore, Oz lo vide bene, non si poteva confondere con del semplice male. Il suo corpo era debole, e forse per questo sembrava incapace di tener a freno l’immensa rabbia che le si leggeva in viso, negli occhi lucidi e pronti ad un pianto isterico, al sorriso sghembo che non nascondeva il digrignare dei suoi denti. Sua madre, così, Oz non l’aveva mai vista.

“D’accordo, madre, provvedo immediatamente”
“Aspettate un attimo!”
Forse perché, in quelle parole, non vi avevano letto la dovuta serietà, forse perché non immaginavano che simile richiesta potesse conoscere davvero un rifiuto, forse perché credevano che il nome dei Baskerville li avrebbe protetti da ogni delusione... solo quando videro la decisione a splendere negli occhi della ragazza, i due si avvidero che davvero il loro negoziato stava per aver termine. E nel peggiore dei modi.

Gilbert, saltato in piedi quasi la punta acuminata dell’ago poco distante fosse riuscito a ledergli la diafana pelle, fu il primo a parlare, e il primo che Oz tentò di incenerire col proprio sguardo.

“Forse mio fratello si è espresso male, ma quello che voleva dire è...”
“Quello che voleva dire è che quel bastardo vuole prendersi l’unica cosa bella che possiedo nella mia vita!” esclamò Martha, il tono così acuto da far sobbalzare la giovane poco distante “Dovrete passare sul mio cadavere, prima che questo possa accadere! Ha già una figlia, già in età da matrimonio! Che cosa vuole allora?”

“A quanto pare non gli basta legarsi alla famiglia Baskerville usando il mio matrimonio con Ada, la ragazza di cui stavate parlando. Elliot della famiglia Nightray ha ormai l’età per prendere moglie e... beh, immagino che...”

“Immagino che gli serva una cavalla da accoppiare al primo stallone nobile che trova!”

La mano di Oz stringeva con paura il flacone delle medicine che la madre gli aveva dato in consegna. Nel parere dei medici, l’effetto che contenevano le sostanze miscelate all’interno delle pillole non era abbastanza forte da permetterle una guarigione completa, ma al tempo stesso non erano nemmeno così blande da poter essere prese con noncuranza. Si chiedevano diverse ore di attesa, tra una somministrazione ed un’altra, e il timore che simile contravvenzione lei sarebbe stata costretta ad eseguirla per via del furore crescente della madre divenne un tarlo che le mandava il petto in fiamme.

E comprese che doveva intervenire. Mettere un freno a un litigare comunque inutile.

“Per favore, Vince, non peggiorare le cose!” stava dicendo Gilbert, lo sguardo dorato a squadrare il fratello in malo modo “Non siamo qui con cattive intenzioni...”

“Perciò potete benissimo andarvene, no?”

La porta venne nuovamente aperta, e il freddo dicembrino che tratteneva a fatica venne a irrompere con violenza all’interno della stanza già gelida. Oz, la mano sulla maniglia arrugginita, squadrava i due nobili con una fierezza che, in altre occasioni, mai avrebbe dato conto delle sue origini plebee.

“In fondo state discutendo del mio futuro, ed è bene che sia io la prima a mettervi parola, non credete? E visto che ho il benestare di mia madre, posso rifiutarmi categoricamente ad entrare nella rete di un uomo che disprezzo. Ha vissuto senza di me per sedici lunghi anni; lì dov’era fino a quel momento può benissimo rimanerci!”
La risata di Vince disperse la determinazione che la giovane voleva mostrare al pari di uno stendardo di fierezza; lo sguardo stupito di lei incontrò quello di lui, rallegrato, quasi il suo fosse stata il più affettuoso dei consensi.

“Cavolo, questa ragazza ha carattere!” disse, la  mano a ravvivare la chioma scarmigliata illuminata dal sole pallido di mezza giornata “E anche le idee chiare su ciò che vuole. Non sta a me decidere se questo sia un bene o un male, ma... è corretto affermare che non c’è più alcun motivo per intrattenerci. Giusto Gil?”
“Giusto un corno!” gli rispose di rimando il moro “Hai forse dimenticato il perché siamo qui?”

“Se Zai Vessalius voleva davvero tutto questo, che si fosse presentato di persona, non avrebbe mandato degli emissari pure esterni alla sua famiglia. Per quanto mi riguarda, credo che ciò che abbiamo fatto ora sia già più che sufficiente”

“Ma...”

“Gil, lasciamo stare... per il momento”

L’ultima frase suonò al pari di una minaccia, alle orecchie di Oz, l’occhio a cercare le iridi bicromate per leggervi le sue intenzioni, e il nulla a risponderle per un altrove che l’altro si ostinava a fissare.

I passi leggeri risuonarono fin vicino a lei, lì ferma nelle vicinanze dell’uscita, prossima al congelamento per quel freddo nivale che minacciava tempesta; il biondo non fece null’altro se non un breve inchino, eppure anche così Oz se ne sentì intimorita, e doveva essere, quello, un effetto voluto dal suo stesso autore.

“Sei una stupida”

Quelle parole, fioriere di un sentimento che travalicava la galanteria, provenivano invece dal nobile Gilbert, prossimo all’uscita pure lui, eppure meno lieto e meno soddisfatto. La squadrava con arroganza, pensò Oz, forse anche con disgusto, ma il come su cui le iridi dorate andarono a incatenarsi alle sue lasciò ad intendere dell’altro, incapace di essere coscientemente interpretato.

“Mi preferisco stupida, piuttosto che odiosa nei miei stessi confronti. Credetemi, l’avidità non può concedere il privilegio di amarsi”
Doveva essere il vessillo dell’orgoglio, della sua personale decisione all’indipendenza, ma il risultato che ottenne fu una maggiore ira da parte di un lui incapace di trattenersi.

“Siete sommerse nei debiti, i vostri medici minacciano di prendersi la vostra casa pietra per pietra, tua madre è sempre più debole... come credi di uscirne fuori!?”
“Posso farcela!” gli rispose Oz, con decisione “Ho solo bisogno di tempo, e rimetterò in sesto la nostra condizione economica”
“Per questo dico che sei stupida!” ribatté Gilbert, il tono tenuto basso solo per acuirne il sentimento di acredine insito nelle sue parole “Pensi forse che i sogni debbano avere l’obbligo di realizzarsi? Pensi davvero che tu possa farcela, completamente da sola, a far ciò che tua madre non ha potuto?”
“Ma che ne vuoi sapere tu?!” disse Oz, ricambiando quel tono ostile con uno maggiormente rancoroso “Non punto a vette inimmaginabili; viviamo già nella povertà più spaventosa, non possiamo scendere più in basso di così. Per questo ci stringiamo al petto tutto quello che ci rimane, l’orgoglio!”
“L’orgoglio” ripeté lui, con scherno “e ci mangiate, forse, con l’orgoglio? Dici che siete già nella povertà più nera, ma a questo punto sono io a chiederti ‘cosa ne vuoi sapere tu?’ Cosa ne sai di una vita trascorsa nelle strade, senza un soldo per mangiare, senza un tetto per ripararsi dalle intemperie, senza una sola speranza di sopravvivere? Parli con tanta arroganza, Oz, e sai perché? Perché credi di non avere nulla da perdere, ma la verità è che tutto il tuo mondo può crollare da un momento all’altro. Però sei testarda, e non riesci nemmeno ad ammetterla, una simile evidenza. Ecco perché ti mostri tanto cieca a questo sviluppo”

Fu lui a strapparle di mano la maniglia, lui a sbatterle in faccia la porta, lui a sfuggire uno sguardo divenuto insostenibile, lui a interrompere un discorso che li vedeva alieni in uno stesso suolo.

Oz, quelle ultime parole, le aveva avvertite affilate come lame, mortali come coltellate al costato, e le sfilacciava nella sua mente senza trovarvi una risposta abbastanza convincente per smentirle. Coceva, il non poterlo fare, eppure nemmeno per un secondo le venne il dubbio che il suo modo di fare potesse essere erroneo. Agiva per il meglio, e agiva per sua madre. Poteva davvero finire per strada, la sua vita a consumarsi in bettole dove la sua virtù si sarebbe cancellata come neve al sole, ma nel suo cuore non si sarebbe mai perdonata, se non avesse garantito alla madre le stesse cure che un tempo lei aveva dedicato alla propria bambina. Avrebbe accettato le conseguenze, il male che si era auto inflitta. Gilbert poteva parlare con grande saggezza, ma nemmeno il suo disquisire sulla povertà avrebbe mai contestato l’amore immenso che Oz riservava alla figura di sua madre.



Doveva essere notte fonda, ma Martha non riusciva ad esserne sicura. La cupa ombra che volgeva su di lei non aveva una naturalezza spiegabile con le notti di luna nuova, eppure niente ricordava Oz, in quel suo prendersi spazi nuovi.

“Si è finalmente svegliata, Martha Ashton?”
E la donna per poco non svenne dallo spavento. Ritto innanzi a lei, con la grazia di un felino pronto ad agguantare la sua preda, sostava l’elegante figura di Vincent Baskerville.

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Capitolo 3
*** Deuxième Partition – Combatterono, inermi di fronte alle rispettive verità ***


«Per quale motivo siete qui?»

«Mi pare ovvio; per portare a termine il discorso lasciato in sospeso questa mattina. Spero che sarete d’accordo»

Sul cosa avesse avuto da concordare, Martha nutriva serie preoccupazioni. Certamente l’apparire dell’uomo sforava ogni limite zonale che il campo penale segnalava per la sicurezza delle persone, ma era fuori discussione che l’importanza di Vincent della famiglia Baskerville cancellasse ogni diritto recante la sua persona. Malata, debole o provata che fosse, non avrebbe avuto importanza; se un Baskerville aveva deciso di prendere la sua vita, lei non aveva alcun diniego ammissibile da porre. L’effige degli Shinigami, da tempo legata alla loro millenaria storia, si muoveva esattamente sulla minaccia che il loro dominio era in grado di controllare.

«Devo dunque dedurre che il vostro intento è quello di portar via mia figlia con la forza?»
«Direi di no» e l’ignaro disinteresse con cui condì quella risposta si avvallò del vero delle parole seguenti «Non dico che disprezzi simile soluzione, ma ne vedo i numerosi svantaggi, quindi opto per una mossa che non comporti una spesa eccessiva di forze»

Osservare non portava alcun risultato se non lo sconcerto. Cosa egli volesse ottenere da lei, con parole sibilline che non congiungevano alcun punto, ella lo ignorava. Eppure, nel suo ingresso trionfale in quella che era la sua camera da letto, l’istante in cui si era tradito era corrisposto alla baldanza con cui aveva reso noti i suoi obiettivi. Oz restava il suo bersaglio e la luce della notte favoriva gli eventuali illeciti con cui portare a termine l’impresa presosi a carico.

«Legarla ad un mulo e portarla a suon di sberle nel maniero dei Vessalius... è quella l’unica maniera per convincere Oz ad abbandonare questa casa. Non c’è alcuna moneta che valga per lei, perché sono stata io ad educarla»
«E... quando, se posso chiedere? Prima o dopo aver tentato ogni tipo di intermediazione con la famiglia Vessalius, al solo scopo di ottenere il giusto denaro per mantenere vostra figlia?»
L’occhio cremisi divampò di bagliori enigmatici, nell’accostare maggiormente il volto a quello dell’anziana donna. Non c’era traccia di un singolo dubbio, in lui, quella anche minima esitazione che avrebbe reso la più tracotante delle offese nella più azzardata mossa che egli avesse avuto modo di mettere in piedi. Era certamente innegabile che, nonostante egli fosse totalmente estraneo ai suoi precedenti trascorsi, pure mostrava l’arroganza di conoscerli a fondo.

«Voi credete a quanto detto da Zai Vessalius, dunque?»
«Io credo a ciò che ritengo più veritiero» spiegò l’uomo «E la vita è stata un’ottima maestra, insegnandomi che la virtù esiste solo per conoscere meglio l’inganno e la menzogna. Tra la sua adorabile filippica sulle vere motivazioni che spingono a vivere e... beh, una versione molto più misera e magra, a quale dovrei credere, secondo lei? E poi, diciamocelo, Oz rimane pur sempre la figlia di un’amante. Non è difficile pensare che tutti questi alti ideali siano spuntati in un secondo momento»

Il putrido della menzogna suscitò indignazione in Vincent, o quanto meno il suo atteggiarsi mostrò simile movenza nell’allontanarsi brusco dalla persona di Martha, ancora incerta se metabolizzare adeguatamente l’infame informazione o lasciare alle sue urla il compito di richiamare la figlia con le mani strette ad una qualunque arma. L’omicidio era senza dubbio la strada dell’irrazionale, ma irrazionale era lei che, nell’improvviso di una notte insonne, doveva affrontare vecchi disonori.

Negare era sciocco e Vincent aveva palesemente mostrato come qualunque sua argomentazione avesse da alimentare l’altro versante. Ma Martha non avrebbe concesso le soddisfazioni di una doverosa spiegazione, limitarsi ad ammetterlo era già di per se una sconfitta.

« Non ha mai commesso un errore nella sua gioventù, signor Vincent Baskerville?»
«Parecchi, ma ho la forza di mostrarli a nudo, senza mascherarli» chiosò lui, serafico

«E fa bene, sa? Evita, in tal modo, che diventino un’arma»

Di Zai Vessalius non ricordava nulla. Non il volto, la voce, il suo muoversi, il suo pensare. Era una vittima, all’epoca delle  giuste strategie facili, e per tale obiettivo egli era solo l’uomo da conquistare. Il misero lavoro di sarta, che le era stato affidato dopo molte titubanze, non le avrebbe concesso un doveroso stile di vita e, all’epoca dei misfatti, l’aria nobile che respirava alla magione lasciava ai sogni beati la forza di mostrarsi come desideri. Un’ella potente, ricca e con un tono di voce in grado di mietere terrore; con simile ardore aveva offeso la sua stessa dignità permettendo al peccato di divenir successo. E quello che aveva voluto un tempo si stava quasi per concretizzare; il grembo gravido prometteva promesse, quelle promesse che la moglie Rachel, con la sua bimba nata prematura, non sembrava in grado di tenere in piedi. E quando fu lei, madre di una bambina, l’odio che ne seguì fu forte solo per la perdita che una natalità non maschile comportava; niente capitali, niente gioielli, niente matrimonio. Solo una mocciosa urlante che chiedeva continuamente il suo latte e il desiderio di lasciarla al suo destino sulla cima di una rupe.

«Non nego di essere caduta in basso, un tempo, credendo a quell’uomo e alle mie aspettative... ma sono cambiata. E su questo, glielo posso giurare, non mento»
Forse era stato al suo primo vagito; forse quando una violenta febbre minacciava di ucciderla, forse quando l’aveva chiamata per nome la sua prima volta. Non ricordava il giorno in cui alle maledizioni avevano preso posto i sorrisi e in fondo nemmeno aveva importanza. Ricordava che, nel suo accettarla come benedizione, ella aveva finalmente posto fine ad un triste capitolo della sua esistenza e, con esso, anche al disonore che aveva continuamente gettato contro se stessa e contro sua figlia. Era un amore che non si macchiava delle sue colpe precedenti e che diveniva forte solo nel mezzo del tempo, quando vedeva la sua bambina sbocciare e in lei sorgere quel desiderio di conoscerla, imitarla, ammirarla. Di Oz amava la sincerità e quel suo esserle riconoscente anche senza che lei facesse nulla. Era divenuta il suo tesoro col tempo, ma proprio perché di tempo era intessuto il suo legame, esso diveniva d’oro e difficile da spezzare.

«Forse posso crederla, su questo. Caduta un tempo nella cupidigia, ma adesso pronta ad affrontare i suoi peccati. Però non capisco come questo si colleghi al rifiuto secco che abbiamo ricevuto oggi; lei è cosciente che qualunque altra persona dotata di buon senso avrebbe accettato senza alcuna esitazione?»

«Il buon senso non suggerisce orgoglio» rispose precipitosamente Marta «Sarà ricca, certo, avrà sempre da mangiare... ma sa benissimo che la felicità non si costruisce su questo. Sarà ipocrita da parte mia, dirlo in questi termini, ma le ho insegnato che il denaro non dona la felicità»

Il sorriso mefistofelico di Vincent non preannunciava alcuna sua resa. Quasi le sue parole avessero invece alimentato i suoi propositi.

«E allora da dove viene, la felicità? Da una povertà ai limiti della disperazione che però ti fa dire ‘Ah, almeno quei debiti sono miei’?»
«Non sia sciocco, viene dalla libertà!»
Derisione; solo questo condiva il suo ragionamento. Forse contorto era una parola poco idonea da aggettivare al resto del suo pensiero, data la facoltà di raziocinio nel scegliersi le sue verità, ma era senza dubbio machiavellica nel metabolizzare quanto solo a lui idoneo.

«Non c’è gioia nell’essere pieni di debiti, lo riconosco da me» continuò la donna, vedendolo sulle sue «e forse, infine, la felicità nella sua pienezza è un concetto che non può avere ragione di esistere. Ma almeno, dico io, che la persona abbia la facoltà di scegliersi il suo destino»
«Quindi lei perché è ancora qui?»

Rinnovò i suoi passi, Vincent, venendole nuovamente incontro col suo sguardo magnetico. Paragonarlo ad un felino, nei primi istanti in cui se lo era ritrovato a pochi passi dal letto, infine non era stato un errore. Quel suo giocare con domande retoriche e incomprensibili ricordava davvero l’arte diabolica di un gatto, colui che si dilettava col cibo prima di ingurgitarlo.

«Sono dove posso proteggere mia figlia!»
«Errore, lei è dove può portar danno a sua figlia!» e rise, quasi fosse una battuta di poco conto «Insomma, tutto ciò che non concretizza la sua felicità non è però suo scorno; i debiti non li ha contratti Oz, la malattia non è la sua, il negozio non le appartiene; il carico enorme che gestisce alla sola età di sedici anni lo deve tutto a lei, e ha il coraggio di battersi per la sua felicità?»
Adesso fu il turno di Marta, nel lasciar riecheggiare lievi risate. La divertiva l’incapacità dell’uomo concernente la comprensione del loro contesto, della loro storia. Avanzava pretese e opinioni, lui, ma in fondo chi era se non un nobile dal fine palato e incapace di sottostare alle leggi del mondo comune?

Certamente la verità era in parte sua; nessuno avrebbe mai negato che su Oz gravavano le colpe dei suoi impegni monetari. Ma il prenderseli o  meno non era una decisione che aveva imposto, o che le aveva appioppato senza consensi.

«Lei ha accettato tutto questo e lei si prende cura di me perché è suo desiderio farlo. Ricambia ciò che ho fatto io per tanti anni, ed è questo scambio equivalente che non mi permette di sentirmi in colpa per quello che sono e per quello che faccio»
«In altre parole, lei mi sta dicendo che Oz deve fare quello che fa solo perché è... sua figlia?»
Sedutosi alla sponda del letto, Martha vi vide in volto la delusione. O forse un sentimento di rammarico che la notte rendeva maggiormente indecifrabile. Macchinava ancora, l’uomo, e non nella direzione dei suoi pensieri; cosa ardisse a tanta testardaggine ella non lo comprendeva. Ricordava la minaccia menzionata anzitempo, ossia quella di individuare la miglior maniera per condurre a se Oz senza ricorrere alla violenza... ma nel loro disquisire, l’unico risultato da lei pervenuto risaltava nelle opposte fazioni che mai avrebbero trovato congiunzione.

«Lei non ha parenti, signor Vincent?» continuò allora la donna, nemmeno lei sapendo il perché «Non farebbe di tutto per aiutarli, se fossero in difficoltà?»
«Se loro fossero in difficoltà... certo, mi offrirei di aiutarli. Ma, conoscendoli, cercherebbero di risolvere da soli il proprio problema, fosse solo per vantarsi dell’idea brillante che hanno trovato per uscirne dai guai. È un modus operandi molto comune, nella famiglia Baskerville, e che mi ha però insegnato una cosa importante»

Violento, ciò che era il sostegno del viso della donna venne a mancare. Nuovi centimetri segnarono la distanza dal volto del nobile e la violenza con cui essi si registrarono arrivò a mozzarle il fiato in modo drastico. Colpi di tosse frastornati sconquassarono una gola infiammata e secca, ma la sorpresa impedì di rendere a voce ciò che l’aveva oltremodo indignata; la paura, emozione successiva, impedì l’esplicarsi di nuove parole quando intravide, tra le mani del ragazzo, la forma grezza del suo cuscino, stretto con forza.

«Vede, signora Martha, un genitore non è colui che dipende dal figlio, ma colui che costruisce il suo futuro. Lei rimescola il passato chiamandosi migliore della sua io precedente, ma alla fine non è altro che la stessa ignobile egoista di un tempo. Ha solo cambiato le sue pretese e le sue aspirazioni»

«Cosa diavolo dice?!»

Alzando la voce, ella sperò che Oz la sentisse. La ragazza viveva di un sonno leggero, nato quasi come il naturale desiderio di rendersi disponibile ai suoi nuovi bisogni; ciò che si augurava, dunque, era nel suo repentino presentarsi e nella sua successiva liberazione.

«Vede? Lei lo fa ancora. Va ancora dipendendo da sua figlia. Ah, se spera che si svegli, credo che dovrà ricevere una delusione; l’infuso che ho mescolato nel suo the non le permetterà di aprire gli occhi se non in tarda mattinata. E lei, a quell’ora, sarà già cadavere»

Arrivò tardi alla conclusione predetta dall’uomo, ma alla fine comprese quanto stava per accadere. La forza centrava sempre ed egli l’avrebbe messa in pratica, ma non contro sua figlia. Da sola e con un mucchio di debiti da pagare, Oz diveniva una facile preda anche se non volente. La sua unica barriera contro quel mondo di menzogne e inganni stava per perire nella notte senza stelle che stentava a mostrarsi tra le tende immobili della topaia.

«Davvero poco nobile ammazzare una donna che non può difendersi»
«Tanto quanto costringere una ragazza a servirla in tutto punto solo perché lei l’ha messa al mondo. Il nostro potrà essere, per lei, un mondo di schiavitù, ma non sarà diverso da quello che lei le potrà darle»

E il mondo stesso scomparve, assieme all’aere vitale che avrebbe dovuto tenerla in vita. Compressa da una forza ferrea che le toglieva il respiro, le falangi rachitiche delle sue mani nemmeno tentavano di spostarla lontano, giacché incapaci perfino di stringersi al suo polso. I polmoni bruciavano, di quel desiderio non espresso; quanto dal suo corpo anelato non trovava la sua consistenza nella sofficità di un cuscino di dura lana. Soffriva, Marta, di quei dolori atroci che il soffocamento prometteva e, sebbene la disperazione rinnovasse i suoi sforzi, nulla sembrò opporsi al fato che aveva tracciato per lei il suo dio della morte.

«Era una prova, questa, signora Martha. Una prova per comprendere se in lei vi era un vero interesse per la salvezza di sua figlia. E l’ha appena persa»

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Capitolo 4
*** Troisième Partition – Sfibrata dai venti di bufera, l’angelo cercò rifugio ***


Onorare un morto non è che l’autocompiacimento dei disgraziati rimasti a compiangerlo. Lo aveva pensato, Oz, nel frangente in cui il corpo ormai inerme della madre fu portato lontano dalla sua dimora, in una misera chiesa in cui l’eco di un salmodiare, consunto dal suo continuo ripetersi, aveva tentato di consolarla laddove solo il vuoto restituiva la consapevolezza del lutto. Cosa avvenisse in lei, cosa ci fosse di salvabile in un’anima priva del suo porto franco, ella non lo avrebbe saputo dire. Moriva nei secondi che scorrevano e viveva nella consapevolezza che il dolore non avrebbe potuto ucciderla.

I sogni sono armi taglienti; il suo continuo lavoro era stata la preghiera di un futuro più sereno da offrire all’anziana donna che l’aveva accudita per molti anni, ma a saperlo ora inutile tramutava in grigio ciò che dava colore alle sue giornate.

Oz  non vedeva redenzione nella morte, non conosceva il significato di un Dio misericordioso nelle sue privazioni, e nel beneficio dei cento giri l’unica elucubrazione che aveva da fare stava nei suoi restanti anni di vita, insufficienti per colmare una simile distanza e dunque incapaci di ricreare un legame ormai definitivo nel suo essere eternamente rotto.

Perché i legami stessi avevano una filamentosità intessuta di tempo e dovevano, allo scorrere delle lancette, il silenzioso accrescersi o sfilacciarsi deciso dal destino. Scorrevano come acqua stagnante su falangi irrigidite da gelide spine, e dell’inafferrabilità ne facevano un mantra capace di cospargerle di sottili lamine d’oro che ne accrescevano il valore, grato all’unicità che splendeva laddove lo sguardo desideroso sapeva di poter scorgere quanto altri ignoravano nell’occultata ignoranza dell’invisibile sapienza.

Era, lei, una fanciulla abbandonata su coltri di rammarico, un involucro vuoto a cui avrebbe volentieri spezzato tutti i fili che ancora la connettevano al mondo per tramutare in vero le sciocchezze di leggende lontane di eoni; conosceva il dolore, vigeva nella realtà sostituendosi a quell’unico sentimento di pulsante sofferenza, col sangue a carezzare le membra rigide di una compostezza che si vedeva obbligata da circostanze odiose nella loro esteriorità.

Nemmeno al dolore ella ebbe modo di abbandonarsi; gli shinigami che avevano già accolto Martha sostavano con indolenza nelle vie retrostanti della chiesa, seduti su scomode panche di frassino lucido in pose che suggerivano maggiormente uno spettacolo teatrale, che non un inutile farneticare di cose più alte di loro. Non ebbe modo di intravederli se non di sfuggita, quando la lieve  brezza di un gelido inverno investì la guancia libera da ogni filamento dorato, solitamente libero di esporsi, e l’eco di un portone socchiuso con violenza le fece sobbalzare d’istinto, quasi la minaccia vibrasse nei cardini smossi con tale impeto da renderli ancor più cigolanti di quanto non si abbia a conoscerli. I Baskerville erravano sulla terra con dedizione eccessiva, per il suo povero cuore stanco, ma i volti camuffati da un velo di lacrime incapace di essere strappato le tolsero l’obbligo di prestar loro attenzione.

Voleva solitudine, lei, non pantomime che deridevano la sua anima straziata. La voce che sapeva di antico cullava solo altri pensieri, per Oz, e a quello dei suoi nemici presto ebbe luogo un nuovo scenario, uno degli ultimi condivisi, e uno dei più preziosi perché, in esso, ella vi aveva scorto l’amore profondo che l’amata madre gli aveva sempre riservato.

Erano i ricordi l’arma con cui il cielo si rivaleva di lei; scenari amorevoli conditi di quotidiane essenze, tutti irradiati da un sole mai morente e che al centro vedevano il bel volto della donna, ancora nel fiore della sua vita e con sorrisi unicamente dedicati a lei, felice di aver potuto renderla partecipe di una sua passione, di una sua conoscenza, di un suo personale aneddoto.

Non c’erano difficoltà sufficienti a colmare il loro amore - etereo per l’incapacità di macchiarsi del reale empirico e dunque marcio - e nel sublime con il quale andava celebrato si rinverdiva il catramoso cuore che faticava nei suoi battiti, ostracizzato da un peso d’ottone che lo rivestiva con abilità mordace. Il respiro stesso si annullava in vapori di bianca condensa, troppo lievi per essere avvertiti in quella chiesa tanto ampia quanto spoglia, tanto fredda quanto desolante, nel disinteresse generale che aveva accolto la morte di una donna ovunque disprezzata per un passato che non si era saputo perdonare.

Certo ella aveva preferito così, perché l’odio già cancerogeno nato dallo spuntare di viticci affilati dietro la sua persona non avrebbe fatto altro che accrescersi, col rischio di condurla all’errare mai abbastanza perdonabile che solitamente si accosta ad una lingua incapace di essere ingabbiata.

Non conosceva i pochi altri disgraziati presenti nella dimora del Signore, forse qualche cliente dimentico dei suoi doveri e che, nella sua coscienza, aveva tentato di sentirsi perdonato con la semplice fatica di una preghiera, ma la loro decenza si spingeva nella considerazione che ella mai li avrebbe voluti al suo fianco, in una vicinanza pregna di rancore incontrollato, e sebbene non si sentisse in obbligo di ringraziarli per tale accortezza, almeno ebbe da apprezzarla.

Un apprezzare che ebbe termine quando, al concludersi dell’inconcludente salmodiare, le uniche persone che mai avrebbe voluto vedere ebbero la sfacciataggine di farsi a lei innanzi, quasi il cordoglio avesse da farsi a persone con un grado di interesse per la tragedia inerente allo zero cosmico.



La chiesa non si abbelliva che di vuoti ampiamente studiati, l’inutile ritenuto degradante per l’Altissimo e dunque lasciato alle cure di radi cespugli floreali messi casualmente in vasi minaccianti un tracollo improvviso. L’angelo della bellissima Saint Brigitte, in un simile contesto, prendeva tutti gli sguardi ricevuti dall’unica navata ivi presente, e l’altare stesso si tramutava in una banalissima lastra di marmo da cui pendevano pochi fronzoli di un tessuto liso dall’uso e sporcato in più punti dalla disattenzione. Era stato questo il teatro dell’ultimo saluto a Martha e simile teatro ora riecheggiava degli unici passi volti nella sua direzione, frastornanti al punto da soffocare quelli di coloro che avevano da andarsene o di coloro che attendevano le parole di un prete sonnolento per proseguire nel viaggio di sola andata che la sua amata madre avrebbe compiuto per il riposo eterno.

Erano istanti inconcepibili di una degna spiegazione, ma in essi Oz vi vide l’incapacità di sostenere un doveroso discorso. Non si trattava di acredine trattenuta a stento, men che mai di un coraggio che appassiva al freddo di una paura ignominiosa; semplicemente, avvertì nel suo intero essere l’incapacità di sopportare altro essere vivente che non fosse uno sconosciuto da liquidare in pochi istanti. Era forse la preghiera di un io timoroso nei confronti di pensieri che richiedevano la sua costante attenzione, forse l’inconcepibile idea che le celebrazioni funebri, per quanto fallaci e vuote, fossero comunque obbligate ad un silenzio che tramutava l’anima stessa in preghiera. Ella stessa avrebbe ripetuto a se stessa che ciò che è irrazionale non aveva il dovuto bisogno di un chiarimento logico, eppure nemmeno nelle riflessioni più ombrose mancava mai di sorvolare su quel particolare attimo di quella giornata lugubre, quando la sua voce venne a mancare e i suoi occhi ricercarono con forza il prete, avvicinandolo con uno sguardo che suggeriva urgenza.

Tutto ciò che avrebbe dovuto affrontare sarebbe venuto dopo la marcia solenne e desolante che si adornava di pochi e sporadici esseri umani. Se davvero era il funerale, il nucleo nel quale si intravedeva l’impossibilità di affrontare nuove sfide, allora ella lo avrebbe sostenuto, a testa alta e senza le lacrime a rovinare il viso fiero.



‘Madre in terra, figlia in cielo; che la sua anima possa sorvegliare i suoi amati cari dal cielo di Saint Brigitte’

Chi altri avesse da sorvegliare, la madre, Oz non avrebbe saputo dirlo; chi aveva sfiorato la sua esistenza vi aveva pernottato il tempo sufficiente per rovinargliela e del concetto stesso di famiglia, questo ella glielo diceva a più riprese, rimaneva solo lei, la figlia che tutte le madri avrebbero desiderato e che era capitata proprio alla più disperata delle donne. Non per questo pretendeva un encomio da celebrare nella pietra; solo non voleva inganni che perdurassero in eterno e che coinvolgessero colei che aveva amato di più al mondo.

Della madre, in fondo, non le sarebbe rimasto altro. Non si illudeva di continuare la sua esistenza in una quotidianità che concedesse speranze, fosse solo per il fatto che – almeno a quanto aveva sentito dire  - la sua stessa esistenza si considerava fioriera di grande sventura e dunque da rinnegare nelle profondità. Un credito che certamente le avrebbe fatto perdere i pochi clienti faticosamente conquistati - certamente convinti che i propri lavori provenissero dalle abili mani della sua Martha - e che invece non avrebbe mai scoraggiato a sufficienza i suoi creditori, sempre un passo innanzi ai suoi guadagni. Casa, vestiti, e i loro pochi averi sarebbero scomparsi nel giro di una manciata di giorni; avrebbe conosciuto, infine, quella povertà tanto disperante di cui le aveva parlato il nero dei Baskerville. Forse quella era una previsione?

Nonostante simile riflessione, pure non le venne da piangere dinanzi alla lapide tanto rapidamente – e rozzamente – forgiata. Non c’era sentimento nelle parole ascritte con precisione dallo scalpello di un dilettante, non c’era amore nella croce lasciata a pendere dalla cima di una fossa fresca della sua creazione, non c’era anima nei fiori che erano stati recisi dalla stessa terra nella quale lei riposava. Non comunicava nulla, così come le stesse cose terrene erano inabili a restituirle qualcosa che nessuno si sarebbe scomodato a ridarle.

Forse, in fondo, ella aveva definitivamente rinunciato alla propria vita. Non lo comprendeva, ma avvertiva nel profondo l’indifferenza a quanto il domani aveva da prospettarle, trovando invece più invitante il mistero dell’infinito e di ciò che si cela nell’altrove. Come scoprirlo ella non si azzardava a formularlo, nella sua mente, ma negare che ciò suscitava il fascino del macabro avrebbe equivalso a mentire. Vi vedeva, in simili elucubrazioni, il risultato di una ricerca al minor dolore, e dunque all’unico problema che affliggeva la sua stanca spiritualità. Ciò che le mancava non era un qualcosa che poteva davvero esistere nel suo stesso luogo; e forse, allora, avrebbe dovuto cercarlo in un qualcosa che non era percepibile dal mondo inferiore.

«Per quanto ancora resterete alla debita distanza del mio cordoglio? Temo di sentirmi insultata solo con la vostra funerea presenza, ma mi incute l’idea che io possa essere tanto esposta al vostro sguardo»
Non parlava nell’altisonante eco dell’eleganza per via di un grado nobiliare che chiedesse in lei un simile sforzo. Agiva e comunicava ciò che i pochi libri della madre erano stati in grado di trasmetterle e riecheggiava nei loro insegnamenti per intravedere la forza necessaria ad un qualcosa che, lo doveva ammettere solo con se stessa, non aveva ancora del tutto accettato di fare.

Perché avrebbe mai dovuto rimandare qualcosa che si poteva evitare? Perché il limbo dell’incertezza verteva sulla sua povera figura al pari di una spada di Damocle pronta a colpire. Perché l’ancorarsi sospeso dei loro sguardi sfioriva la sua pazienza in tanti petali ingrigiti di morte. E perché agognava un riposo che non era eterno ma comunque ristoratore, perché bramava il letto della sua adorata madre e cercare lì la consapevolezza di quanto accaduto e di quanto sarebbe poi capitato nei giorni a venire. Perché aveva bisogno di comprendere che, nell’entrare in casa, non ci sarebbe stato nessuno ad attenderla e perché, a simile vuoto, ella potesse sostituire la straziante abitudine.

Volse a loro smeraldi spenti di ogni iridescenza, vacui di un mondo privo di una qualche luce nel quale bagnarsi lieti e comunicanti tutto ciò che avrebbe volentieri sotterrato assieme al cadavere di Martha. E solo quando lo fece, però, ella vi vide la stranezza di una terza figura, occultata per quel suo essere minuta e fine e bardata ad un lutto che ne celava il viso e l’aspetto. Dell’elegante nero che l’avvolgeva, ella avrebbe solo descritto la luminosità di una seta finemente lavorata, e dei ricami che parlavano di mille rose spinose -un impegno che parlava di ricchezza. Un terzo Baskerville non avrebbe giustificato la sua presenza nel trascinarla laddove ella mai avrebbe messo piede, eppure nessuna spiegazione avrebbe mai potuto appurare in quei secondi, lì dove la domanda distorceva – e questo accadde per la prima volta all’interno di tutta una giornata afona di altra emozione – i suoi bei lineamenti in una confusione che comunque non aveva la benché minima intenzione di celare.

«Le mie più sentite condoglianze per questo lutto, signorina Oz» disse proprio colei che era al centro del suo desiderio di conoscere. Sportasi leggermente dai due uomini che imprigionavano i suoi movimenti nella loro mole, con dita delicate smosse leggermente il velo nero che sembrava aver messo per pura prudenza, e lì Oz vi intravide solo pelle di candore pari alla porcellana e labbra incapaci di sorridere.

«La ringrazio, ma non sono una signorina, milady»

«Eppure io vorrei che lo diventaste. Ma non voglio parlarle qui... potrei chiederle l’onore di seguirmi fin dentro la mia carrozza? Lì saremo al sicuro da occhi e orecchie indiscrete»
Il suo iniziale sospetto divenne dunque certezza, pensava Oz, mentre comunque le fece cenno di assenso e mosse i primi passi per dimostrarsi predisposta ad un qualsiasi incontro promossole. Sapeva che dar credito di consenso per mostrarsi poi irremovibile era indice di un contrasto che non rendeva fermo e irremovibile il suo pensiero, ma aveva fiducia che, almeno con una donna – e anche graziosa nella sua gentilezza – forse ella non avrebbe avuto modo di ricorrere alla scortesia per ingannare altrui persone in merito alla sua forza.

La carrozza in questione parve bardata a lutto solo per il suo personale cordoglio; gli intarsi neri non lasciavano presagire alcun titolo nobiliare, così come i ronzini a guidarla davano prova solo di un noleggio scadente e non di altro, che parlasse di ville e balli a cui nessun povero disgraziato avrebbe mai potuto partecipare. Salirvi fu dunque un atto che non lasciava alla soggezione libero campo di muoversi.

La scomodità dei sedili fu palpabile al solo sguardo, ma divenne tangibile quando la donna seduta a lei innanzi diede prova di irrequietezza nell’appoggiarsi mollemente ai cuscini di un tessuto consunto e dunque impossibile da identificare. Erano solo neri, e di quel nero avevano perso la maggior parte della loro pigmentazione originaria parlando di uno svariato numero di grigi che la scala dei colori mai avrebbe preso nota.

«Io non vorrei farle perdere più tempo del dovuto, milady, ma non credo che possa davvero convincermi di una decisione che ritengo incrollabile»

«Lo so bene» e, nel dirlo, le mani iniziarono a smuovere con delicatezza i vari nastri posti a guardia del suo cappello «E mi rendo conto che parlo solo per un mio egoistico desiderio. Eppure questa mia debolezza non mi permette di demordere a questi primi istanti»

Cadde il velo nero, sempre smosso dalle sue parole gentili, e cadde con esso anche quel raffinato cappello che sapeva, Oz, essere l’ultima ricercata prelibatezza delle mode, ma la sorpresa lei la rinvenne nello scorgere colei che vi si era asserragliata per tutto quel tempo.

Se Oz avesse votato se stessa ad un diverso destino, se il mondo stesso gliene avesse ascritto un altro, se il lusso fosse stato prerogativa predominante della sua vita, allora forse la sua stessa corporatura avrebbe mostrato la beltà e la genuina abbondanza che leggeva invece nel volto della sconosciuta, pure degna posseditrice dei suoi stessi smeraldi – non adombrati come i suoi – e di quei luminescenti capelli d’oro che in molti le avevano sempre invidiato perché di una sfumatura rara quanto richiamante il prezioso. E non ebbe bisogno di alcuna presentazione per capire chi avesse dinanzi.

«Voi siete Ada Vessalius... ma perché...? Perdonatemi, ma perché siete...»

Balbettava nel mentre di una ricostruzione maggiormente illuminante. Della sua intelligenza ella aveva il pregio di dar pratica in atti di consueto ascolto che traduceva in conoscenza. Non una sillaba era andata perduta, di quel discorso ora apparsole tanto distante, e d’istinto aveva ricostruito quei frammenti che avevano di fatto dichiarato l’esistenza di una sua sorella in una realtà a lei ben più lontana. L’idea stessa di incontrarla, però, non aveva mai sfiorato le sue più pie idee ingenue.

«Comprendo bene che la mia presenza, qui, risulti essere un profondo azzardo, e che forse vi sarà enormemente sgradita...»
«No, non è così!» si premurò di dire Oz, precipitosamente.

Dei nobili, ella conosceva la boria e l’errata convinzione di essere superiori perfino al livello di una naturale selezione. Non intravedevano le loro debolezze perché dediti ad elogiare le loro vittorie, e di quell’infamia che era la loro stessa esistenza, creata ad artificio e per mezzo di altri poveri disgraziati che di simile ricchezza non vedevano nemmeno le briciole, neanche se ne facevano pensiero. Non ne aveva mai visti nel suo negozio, perché una topaia tanto distante dalla corte non aveva nessun credito e certamente nessuna nomea. Eppure, per una ragione che ella non riusciva a pronunciare, sentì in Ada una diversità che portava a consuetudini più mansuete. E di gran lunga più predisposte alla comprensione.

«Ne sono felice» il sorriso della ragazza ebbe modo di illuminare perfino un posto stantio come quello in cui erano rinchiuse «Perché vede... io volevo che tra noi non ci fossero inimicizie»

Forse, si disse Oz, quell’innata simpatia che vedeva in lei la si poteva scorgere nella sua insicurezza. La boria di cui prima aveva avuto pensiero nemmeno osava avvicinarsi ad un candore che suggeriva soltanto l’immagini di delicatezze abili a distruggersi alla più lieve brezza, e nessuna caratteristica di orgoglio nobile venne a turbare l’immagine che ella stava pian piano costruendo della lady.

«Io... mi ripeterò, posso essere considerata una grande egoista» continuava Ada, forse incoraggiata dallo sguardo limpido di Oz «Ma volevo conoscerla ad ogni costo. Non so da molto della vostra esistenza, forse posso contare un paio di settimane... però fin da subito la mia curiosità mi ha spinto a chiedermi chi foste, e come foste fatta. Vedete, io... per tutta la vita avevo sempre desiderato una sorella con cui poter condividere ogni cosa, e non sapevo che il destino me l’aveva già donata»

Le mani della sarta, segnate da un lavoro che non conosceva scampo o tregua, quasi scomparvero in quelle di lei, che il freddo nemmeno ebbero a conoscerlo nei guanti di fine seta che li ridisegnava con precisione e cura. Un impeto che la prima non seppe nemmeno come catalogare, ma che la spinse nello specchio di un prato nel quale quasi rischiò di perdervisi. Forse, quella di Ada, era solo una mossa azzardata per catturare meglio l’attenzione di lei. In esso, invece, Oz ebbe modo di scorgere con sicurezza la verità che le sue parole racchiudevano.

Sorrise per un istante, lei, quando nella sua mente rinvenne il pensiero divertito di una madre poco collaborativa a narrarle del suo vero padre, e che di questo inventava le scuse più inverosimili per giustificare la sua assenza. Era forse un innato talento che nessuno avrebbe avuto modo di spiegare, ma che poteva giustificare con l’esatto affermare di una menzogna quando questa aveva l’ardire di presentarsi dinanzi ai suoi occhi. La nobile, fin dal suo primo istante, non avrebbe mai sfuggito l’attenta indagine dell’orfana, eppure la sua ignoranza non aveva mai compromesso nulla perché nulla era la verità da compromettere. C’era un sincero che disarmava per il suo modo di porsi così invasivo e che spiazzava nell’assenza di adeguate risposte da darle.

«Signorina Oz... io non posso obbligarla a seguirmi solo per un mio capriccio. Se riuscissi a convincerla quando la sua volontà suggerisce altrimenti, mi considererei ugualmente sconfitta. Però... vorrei davvero che lei prendesse in considerazione la mia proposta. Vorrei conoscerla, signorina Oz, sentire della sua vita, del modo in cui è cresciuta, cosa ha appreso, e di contro narrarle tutto ciò che ho appreso io. Vorrei che delle nostre esistenze, per anni mosse su piani totalmente paralleli, non ci fosse alcun segreto, e arrivare a comprenderla al punto da prevedere i suoi pensieri. Vorrei un’amica del quale fidarmi con cieca fiducia, e offrirle la mia totale benedizione ad ogni sua decisione. Vorrei che lei mi vedesse come una sua alleata, sia se arrivasse ad accettare di vivere con me sotto lo stesso tetto sia se continuasse la sua vita precedente. Io... vorrei non esserle più estranea, signorina Oz. Vorrei che non ci fosse più quella distanza che ci impone di comunicare in modo così freddo, e vorrei poterla chiamare per nome senza sentirmi di mancarle il dovuto rispetto, in modo che lei possa fare lo stesso con me. Sono troppo ambiziosa, signorina Oz, se le chiedo tutto questo?»

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Capitolo 5
*** Quatrième Partition – Nello stagnarsi dell’uomo, l’angelo tentò la sua fuga ***


Nella stessa gentilezza che incarnava il candore delle stelle, Ada non volle che la fretta suggerisse falso consiglio a quello che doveva essere il suo unico volere. Il viaggio, svolto in quello che poteva definirsi come silenzio surreale, condito comunque da sguardi d’affetto da ambedue le parti, si adornò delle più meditabonde riflessioni Oz avesse mai fatto nella sua vita.
Ovviamente l’accettare avrebbe comportato il rinnegare netto di quanto affermato da sua madre, ma con Ada davvero si doveva dipingere tutto quel male precedentemente pronosticato?
Oz non avrebbe saputo dirlo. Ada, in fondo, non era mai stata la sola a voler scacciare la solitudine; lei stessa, che dell’infanzia conosceva le più errabonde privazioni, avrebbe volentieri accettato una presenza amica in un’esistenza che l’aveva tacciata con etichette immeritevoli per le sue orecchie di bimba, ingenua nel non riuscire nemmeno a comprendere quale vile inganno si perpetrasse ai suoi danni. Erano, però, solo fantasiose idee che sapeva concrete solo nella sua immaginazione, perché certa che mai in altro luogo esse avrebbero avuto vita; all’età di sedici anni, quando della vita aveva già visto un marcio sufficiente a disgustarla, nemmeno le aveva più riprese, quelle vecchie chimere condite di miele ormai rancido, perché la sola felicità che essi avevano da prometterle le rendeva insopportabile il vero per quello che era. La madre, in tal senso, era certamente l’unica medicina che alleviasse la consapevolezza di essere sola, e che forniva quella ragione in più per continuare i suoi passi all’interno di un mondo che aveva fatto della delusione un suo mantra.
La presenza di Ada, in tal senso, rappresentava quella bilancia necessaria al suo equilibrio, quel peso necessario da assurgere per non veleggiare in un vuoto privo di consistenza, in un mondo privo di beltà. Non un mero surrogato della madre – fare simile pensiero avrebbe posto un pesante insulto su entrambe – ma piuttosto un diverso oggetto d’interesse, una nuova matrice con la quale decifrare la sua vita.
Ma rimanevano ad ancorarla al suolo il suo orgoglio e le sue idee. Non erano meri scatoloni carichi di ricordi, capaci di scomparire con ingenuo disinteresse; erano parte di lei, intessute nella sua stessa anima, nella sua mente, plagiata al punto da connettere alla nobiltà il male stesso che la sua società era costretta a subire. Voltare le spalle alle sue convinzioni avrebbe significato disperdere un frammento di se, con la consapevolezza che esso non sarebbe mai tornato indietro. E che, in esso, parte dei ricordi di sua madre si sarebbe dissolto nel contempo.
E lei non era pronta ad un simile sacrificio. Se improvvisa era la morte, doveva essere altrettanto subitanea la sua ripresa, eppure ella non si considerava pronta ad un simile passo, ad una simile forza da ricercare in se stessa. Non voleva ripiegare su se stessa, non divenire un’ameba incapace di badare a se stessa; ma voleva tempo, quello sufficiente a raccogliere il poco rimasto di lei e della sua anima per costruirci qualcosa che riuscisse a stare in piedi, pure in modo traballante. Era questo suo desiderio, questa sua necessità che le aveva reso invisi i Baskerville e con essa, almeno per i primi istanti, la donna velata che si era poi rivelata essere sua sorella. Il cambiamento era certamente necessario, ma esso doveva almeno attendere le sue risolutezze.
Scese dalla carrozza con la consapevolezza che, forse, un nuovo viaggio assieme ad Ada si sarebbe ben presto ripresentato.
“Ma... cosa...”
Un lieve rumore segnò l’anomalia del suo rientro. Era la sua dimora, e vi era tornata per convincersi che mai nessun’altro, oltre a lei, l’avrebbe potuta abitare. Eppure il lieve smuoversi di un qualche mobile, per una ragione che di certo non si giustificava negli spifferi pur numerosi della catapecchia, metteva seriamente in discussione quello che era una legge di fatto.
La aprì lentamente, quella porta che non aveva possibilità di restar chiusa con un adeguato lucchetto – i soldi a mancare perfino quando la loro sicurezza era a rischio – e lo smeraldo ora offuscato da neri timori scandagliò le ombre alla ricerca di un nemico in agguato.
La minaccia si rese reale nella forma di una mano demoniaca. Rapida, letale, di mosse su di lei e sul suo corpo, afferrandolo col solo scopo di trascinarlo in quella che si sarebbe ben presto rivelata una trappola.
Oz non comprese nulla fin quando la terra non le venne a mancare sotto i piedi, e il suolo accolse con pesantezza l’interezza del suo corpo. Il figuro che la sovrastava – perché la mole le diede ad intendere che di uomo si trattasse – ebbe premura di soffocare i suoi gemiti con una mano callosa dall’odore sgradevole, e l’altra sua mano artigliò la gola nel tentativo di risultare minacciosa.
“Maledette cerimonie popolane... terminano sempre troppo presto!”
Un altro clangore attirò la sua attenzione. Non veniva dall’uomo che l’aveva resa sua prigioniera, che la sovrastava col suo corpo, ma dalla stanza di sua madre, lì dove Oz vedeva le coperte smosse malamente da mani frettolose e indisponenti.
“Richard, vedi di sbrigarti! Me la vedo io con questa!”
Non udì una risposta, la ragazza, e non seppe nemmeno dire se ci fu. Tutto quello che le sue orecchie furono in grado di comprendere si fermavano alla grossolana risata dell’uomo, e i suoi sensi non ebbero altro luogo se non la mano che aveva iniziato pericolosamente a scendere sulla scollatura del suo vestito.
“Me l’avevano detto, che la figlia della prostituta era molto bella... sono contento che avessero ragione”
Fu l’istante in cui Oz comprese quale sarebbe stato il suo destino.

Parli con tanta arroganza, Oz, e sai perché? Perché credi di non avere nulla da perdere, ma la verità è che tutto il tuo mondo può crollare da un momento all’altro.

Non diceva questo, Gilbert Baskerville? Non le parlava di una vita indegna di essere vissuta? Quando aveva ancora tanto e nemmeno si rendeva conto?
Divincolarsi fu l’unico atto di amore che rivolse nei confronti di se stessa. Una mente razionale, come la sua era e agiva, avrebbe ammesso l’inevitabile, l’incapacità di sfuggire ad un essere abominevole che di stazza occultava la sua stessa ombra, eppure nemmeno questo ebbe la meglio su un silenzio che non volle in alcun modo imporsi. Non c’entrava nulla il disonore, le chiacchiere maligne, men che meno un’esperienza che avrebbe riservato per più felici occasioni; erano cretinate che le fantasie romantiche potevano permettersi solo quando la fame non rappresentava una costanza. Era il dolore, la violenza che adesso uno schiaffo repentino sul suo volto promettevano, la soddisfazione che si sarebbe preso quell’uomo su di lei... continuò a scalciare, incurante delle articolazioni che protestavano contro la contrazione a cui l’uomo la sottoponeva, dell’ulteriore schiaffo che l’uomo le diede, del sangue che iniziò a sgorgarle dalle labbra; era l’altra mano, che slacciava con brama ributtante il suo corsetto, il suo reale centro di attenzione. Fu quella su cui le sue mani si avventarono, quella che tentarono di fermare a tutti i costi, sebbene le sue dita eburnee nemmeno arrivavano a stringergli la pienezza del suo polso.
“Sta buona... vedrai che piacerà anche a te”
Nemmeno per un istante ci rimuginò, lei, su quella volgare promessa sibillina e, anzi, raddoppiò i suoi sforzi, pure se erano consapevolmente vani, pure se le arrecavano più dolore. La paura dettata nuove forse ai muscoli esili che ella possedeva, e il gelo che annebbiava la vista e irrigidiva la pelle iniziò a renderla insensibile ai nuovi colpi che l’uomo le affibbiò, perché era suo diletto colpirla quando i mugugni di lei divenivano più rumorosi.
“Vedi di stare...”
Uno sparo.
Fu il rumore di uno sparo a porre fine a tutto. Il corpo del nemico, improvvisamente rigido di una morte improvvisa, si riversò su di lei, si chinò laddove ella voleva scappare, e il peso che le venne a gravare le mozzò il fiato in uno sforzo che non riusciva a reggere.
Gilbert fu lesto a toglierle di dosso simile ingombro. Tra le mani la pistola ancora fumante, volgeva su di lei quelle splendidi iridi dorate che un tempo non aveva avuto timore di disprezzare.
“Ora è tutto finito” diceva, la voce resa roca da un’adrenalina ancora incapace di essere del tutto eliminata “Stai bene?”
Se stava bene? La mente di Oz non avrebbe saputo elaborare una risposta abbastanza adeguata. Sapeva solo comandare alle mani tremanti di porre fine alla nudità prossima, stringendo a se il poco rimasto del suo abito, oppure a non fissare null’altro capace di metterla in soggezione.
Oz stessa divenne incapace di elaborare altro che non fosse l’enorme terrore che si dimostrava restio a lasciarla, quasi non avesse alcun modo di immagazzinare l’informazione secondo cui ella era salva ed era in mani sicure. Ebbe solo cura di stringersi in un mondo reso nero dagli occhi socchiusi, e di chiudere se stessa e il suo corpo tremulo in un abbraccio insensato per qualsiasi tipo di protezione. Cosa accadde dopo, ella nemmeno seppe più dirlo.

Vincent comprese che pianificare comportava il rischio di un’incognita incapace di essere ingabbiata. L’ingaggio preso con alcuni mercenari, ormai dediti solo allo svaligiare illegale, non doveva avere molto credito se non la cura di un timore che avvicinasse maggiormente Ada e Oz, l’arma definitiva che avrebbe fatto caracollare la ragazza verso punti di vista più mitigati e meno inerenti all’egoismo della madre. Eppure, quanto si era appena consumato andava al di là di quanto previsto. Mentre freddava l’altro uomo, venuto in soccorso del primo appena ucciso, meditò al coefficiente di rischio a cui non aveva mai posto attenzione, e lo misurò in un calcolo che aveva dalla sua l’incolumità di chi era un suo interesse.
Oz, certamente, non avrebbe dovuto subire quanto le era appena accaduto. La vide inabile di ogni mossa, irrazionale nel suo continuo tremolio, e negli occhi lesse l’enorme orrore appena vissuto anche quando le braccia robuste di Gil la sollevarono dal freddo suolo per condurla alla carrozza, la giacca di nera seta ad avvolgerla per coprire tutto ciò che lei tentava pateticamente di dissimulare con il poco rimastole addosso.
Non che avesse qualche rimorso sulle sue decisioni. Solo, avrebbe preferito meno danni, meno rischi e meno morti. Tre ne pesavano sulla sua coscienza, indifferenti al rimorso eppure incapaci di dargli la soddisfazione solitamente naturale per un successo ottenuto con vile strategia.
“Nobile Vincent... c’è qualcosa che posso fare?”
Indifferenza era anche ciò che lo legava alla maggiore delle Vessalius. Non che questo costituisse davvero un male; un sentimento che non parlava di amore non parlava nemmeno di odio, e ciò era il presupposto perfetto per la menzogna del perfetto gentiluomo. Almeno fino a quando lo avrebbe richiesto l’occasione.
“Prendetevi cura di vostra sorella, miss Ada. Ora come non mai ha bisogno del vostro supporto”
Un sorriso accompagnò i suoi passi celeri, mentre lo lasciava indietro per raggiungere Gil all’interno della modesta carrozza – una sua personale idea per passare inosservati. Candore; era fatto di quello, Ada, e c’era di che stupirsi se simile gentilezza si conduceva proprio ad una nobile, cresciuta inoltre con un padre che della morale aveva fatto solo uno stuoino col quale pulirsi i piedi.
Ma simili elucubrazioni le avrebbe lasciate per dopo; preso il suo posto a cassetta, diede un rapido strattone alle redini e, con decisione, i cavalli arrancarono nella direzione da lui suggerita, ossia la via più breve che conduceva al maniero dei Baskerville.

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Capitolo 6
*** Cinquième Partition – Al pallido chiarore della luce lunare, l’angelo tentò di scorgere il suo sentiero ***


Non meravigli che Baskerville’s Manor fosse tutto fuorché regale. La costruzione, di recente origine, altro scopo non aveva se non ospitare i numerosi membri investiti del titolo di Baskerville, un luogo che lasciasse alle loro spalle le preoccupazioni passate. Non vi avvenivano ricevimenti, balli, serate di gala, concerti di musica, eventi di festa; era loro opinione che la distanza nuocesse solo alla loro immagine, a cui per’altro non davano alcun valore, e si impreziosivano, invece, del mistero che seduceva coloro che  venivano tentati dal loro potere. Come la famiglia Vessalius.

In verità, nel suo potere, Baskerville non vantava centenari domini. A seguito della tragedia di Sablier - a cui erano mancate le dovute spiegazioni razionali a dar credito dell’enorme vuoto che aveva lasciato alle sue spalle il nulla - fu convinzione di tutti, a quel tempo, che nessuno di quel mirabile rango avesse avuto una fine diversamente ingloriosa e infelice; si erano andati a ricostruire nuovi ordini, tutti retti da famiglie ducali e da potenti pronti ad arricchirsi sulla pelle di chi non c’era più, ma nella loro sostanza non si era trattato che di pesci piccoli messi precedentemente sotto il dominio di Pandora e di seguito sotto quello della neonata famiglia Baskerville stessa. Apparsa dalle stesse tenebre nel quale la si credeva definitivamente defunta, aveva impiegato uno spazio di tempo relativamente molto breve per accaparrarsi ciò che le era sempre spettato di diritto, e l’arrendevolezza che si era riscontrata in simile circostanza tanto si era giustificata quando, attorno alla loro nomea già pietra di leggenda, aveva visto il circolare di notizie sensazionalistiche circa l’uso legale dei loro chain e dell’immenso dono che avevano coloro che non dipendevano da uno stupido carcer. Non era nota la causa preminente che aveva dato origine al miracolo, ma quando la coscienza di Leveille si era risvegliata al suono della loro venuta, tutto ciò era loro, in prima istanza il regale rispetto, era stato reso senza alcun singulto a dar prova della pena che comportava simile sacrificio. D’altronde, che la loro forza fosse sufficiente a massacrare un intero esercito con poche, esigue forze, apriva la mente a scenari e percezioni che ponevano l’immediata conclusione di qualsiasi superficiale bega. Era la notte dei tempi ad aver eletto a supremazia i Baskerville, e non era nel potere degli uomini comuni opporsi alle decisioni del fato.



Le scelte di Vincent non erano solitamente teatro di discordia, e non lo erano poiché era il soggetto stesso dell’affermazione appena consumata a non dare adito ad alcun commento che nuocesse l’aura di fredda alterigia che il mondo doveva vedergli indosso. In simile circostanza, tuttavia, il fare di testa propria non fu considerato come atto ribelle, di certo in primo luogo perché la mente di chi avrebbe avuto di che protestare albergava altrove, su un nulla resosi tale grazie alla maestria di Gilbert di prevenire il danno prima che esso avesse modo di compiersi. Si cercava un letto, pezzuole calde, conforti udibili dalla terrorizzata vittima e riparo; che la villa a cui erano appena giunti avesse tutto ciò bastava a porre fine a qualsiasi diatriba movibile nei suoi confronti, e la carrozza non aveva nemmeno avuto il suo moto d’arresto che i tre – sì, anche quella Ada solitamente tanto fragile nel suo muoversi alla graziosità dei petali di un fiore scosso dal vento, manifestandone l’identica fragilità – avevano già guadagnato un numero considerevole di passi verso la prima cameriera venuta loro incontro, le braccia pronte ad accogliere l’involucro di stoffa che solo Vince avrebbe ancora identificato come Oz e lo sguardo colmo di apprensione al viso sconvolto degli arrivati.

«Ottimo lavoro, Vincent»

Oswald della famiglia Baskerville, attuale capostipite e uomo ormai prossimo alla fine dei suoi giorni, muoveva i suoi passi solo per circoscrivere i suoi domini segnati dal cemento e dalla polvere. Il viso pallido denunciava quanto la luce del sole gli fosse divenuta odiosa, e le labbra tremule descrivevano quanto destabilizzante fosse rinunciare in modo definitivo alla sua carica tanto corrosa dal sangue. Nessuno aveva motivo di avere delle rimostranze, per quel suo isolarsi tanto recidivo – era opinione di molti che anche i precedenti capostipiti avessero manifestato gli stessi malesseri e le stesse necessità – e sarebbe stato tacciato di stolta menzogna colui che avrebbe affermato quanto lavativo fosse il loro master; eppure innegabile rimaneva la sua debolezza, alla quale si sposava solo la comprensione unanime e la commossa preghiera di vedere simili pene spegnersi al più presto. Anche con tutto ciò che simile invocazione comportava.

Questo era il nocciolo di una spiegazione che andava a profilarsi nell’ipotetica risposta da dare a chi chiedeva il motivo di tanto sbigottimento da parte del biondo. Non l’essersi lasciato sorprendere in modo tanto banale – sebbene la figura del suo maestro aveva assunto il silenzio dei morti, e aveva compreso di averlo alle spalle solo quando la sua voce si era fatta udibile – quanto il concepirlo in un luogo tanto distante dai corridoi del suo palazzo.

In un sospiro, riguadagnò quella flemma che lo contraddistingueva, e riacquisì gli sguardi persi nella contemplazione della novità.

«Ci sono stati parecchi ostacoli, ma alla fine è andato tutto per il meglio» fu tutto ciò che disse.

«Gil sospetta qualcosa?»

«Mi stupirebbe il contrario. Mio fratello non è stupido»

Non c’era minaccia o timore, in un’affermazione che andava comunque a minare quella che doveva essere una sicurezza inappellabile. D’altronde, il biondo ne ebbe certezza, lo sguardo scrutatore del fratello, poco prima di varcare l’imponente portone d’ingresso, aveva avuto un solo soggetto, e di certo non indagava l’uomo colmo di dignità quanto di bende a cui doveva prestar servizio.

Lo aveva capito, Gilbert, che il suo zampino aveva mosso le fila di eventi troppo coincidenti, troppo previdenti, troppo puntuali per chiamarsi semplicemente sotto il nome di concausa. Si atteggiava a testardo privo di malizia, ma era arguzia ciò che illuminava il suo viso quando veniva a patti con un dubbio, il desiderio di rendergli chiarezza a tramutarlo in un fastidioso segugio. Un tempo, forse troppo lontano, quel loro dare e avere di sospettosità si consumava nell’infinita mole di giocattoli che il giovane dagli occhi bicromatici gestiva con eccessiva violenza, le forbici a dar forma della sua frustrazione anche quando essa non era necessaria o, ancora di più, utile. Ma le cose avevano il potere di cambiare, con l’età. E con le decisioni prese con cognizione di causa.

La sua prima volontà, in quanto adulto, la diede a Glen, affermando che qualsiasi ostacolo allo strapotere dei Baskerville lo avrebbe rimosso lui; Gilbert aveva conosciuto il fango e il sangue, prima del loro avvento nella prestigiosa famiglia ora loro nel cuore e nello spirito, e tanto erano penetrati nella sua pelle da insudiciargli l’anima e da tenerlo sveglio fino a tarda notte, mentre gli incubi lo smuovevano fino ad allarmare Vince.

La sua seconda volontà la donò a se stesso, e al coraggio che gli sarebbe occorso per mentire a colui che amava più di qualunque altra persona al mondo – certamente più della ingenua Ada – e che aveva deciso di servire fino a quando il tempo gli sarebbe stato propizio. Conosceva il destino dei Glen e di coloro che si  marchiavano dell’effige di Figlio del Diavolo; l’abominio non avrebbe conosciuto i cento giri, e la sua condanna definitiva sarebbe avvenuta nell’esatto momento in cui il passaggio avrebbe avuto la sua conclusione. Lo sapeva Gil nel modo in cui lo sapeva lui, eppure non c’era alcuna rimostranza al suo destino, come certamente non ve ne era al fratello che avrebbe mosso la mano della sua sentenza. Ciò che avvertiva di negativo, a simile situazione, era il tempo mascherato da tiranno, sempre minaccioso a rendergli quanto aveva gettato via e a rimembrare alla sua povera anima stanca quanto ancora gli mancasse da compiere in attesa della sua fine prossima.

Quattro dei cinque chain avevano già raggiunto il cuore e l’anima di Gilbert; un ultimo, e sarebbe avvenuto il suo addio definitivo.

«Non gioverà a nessuno...» disse il ragazzo, gli occhi a ricercare l’ingresso ormai sgombro «...farglielo sapere. Chi sia la signorina Oz, cosa rappresenta... sarebbe solo un fardello in più da portare. Io, che tra non molto conoscerò la vera libertà, posso sopportarlo... ma lui no. No, lui non deve sapere. Almeno per il momento, non deve venirne a conoscenza»



Sebbene non principesca, sebbene non sfarzosa, Baskerville’s Manor non mancava di offrire gentile premura al rovinoso degrado dell’anima. Non ne aveva idea, Oz, del dove in cui ella fosse, quando gli occhi di smeraldo andarono a scrutare la superficie damascata del suo baldacchino, ma non negò a se stessa che l’eventualità di mentire sul suo ritorno dall’oblio, al fine di non dichiarare quanto la mente di lei fosse invece presente nel mondo degli uomini - e dunque proseguire nel suo pernottare tra morbidi guanciali - fosse un’idea sbarazzina di stuzzicante interesse.

Non era ignara a quanto accaduto, a quanto successole. Le mani dell’uomo che aveva osato disonorarla ancora pervadevano il suo corpo in un acceso e confuso miasma mnemonico incapace di abbandonarla, e le sentiva sulla sua pelle senza aver la più pallida idea di come sostituirsi ad un presente in cui la seta messa alla di lei cura avesse invece l’unica prerogativa. Eppure, anche se sconfitta nel corpo, vi era nel suo spirito una leggera fiammella che le donava calore; la riparava dal freddo pungente in simil maniera della piccola fiammiferaia, e volgeva ad esso le sue attenzioni per sorridere della sua insperata fortuna, la stessa che l’aveva raccolta dal freddo pavimento di legno per condurla fuori dal suo agghiacciante mostro.

Perché lei, in cuor suo, doveva già dare alimento ai suoi precedenti demoni. Coloro che vi avevano posto fissa dimora dallo spirare della madre e che aggravavano il peso del suo spirito con macigni colmi di ricordi impronunciabili nella loro impossibilità di replicarsi.

E dunque, benché l’affermare una sua ritirata nelle calde coltri – il solo pensarlo – dava credito alle voci popolane su di lei, affermanti che ella, del coraggio, faceva miraggio di vigliaccheria, gradiva maggiormente inoltrarsi in maggior misura nelle coperte dense del suo stesso calore, e cercare nel torpore una sorta di soluzione al buco che le stringeva il petto fino a renderla l’involucro di quella fanciulla che un tempo era, piuttosto che offrirsi in pasto all’essere inconsistente che bramava le sue membra e ne auspicava un lento e minuzioso pasto.

Ebbe però timore dei suoi incubi, che sconfinassero anche dove la loro potenza doveva risultare minima e irrisoria. Chiuse gli occhi nella preghiera che ciò non comportasse l’aprirsi di un portale verso il mondo di Morfeo, e lasciò alle sue elucubrazioni, quel denso nucleo di preoccupazioni, il compito di darle un qualche incentivo a guardare innanzi, a non scrutare l’ombra nera annidata  nel suo petto e pronta ad arraffarla con maggior violenza di quella già subita.

«Prima di riaddormentarti, dovresti pensare a mangiare qualcosa»

Non doveva sollevarsi, per comprendere l’autore di simili parole, una gentilezza che quasi apparve come una minaccia. Gilbert della famiglia Baskerville dava l’idea di una cupa intimidazione anche quando il suo era il più benefico dei consigli.

«Scusatemi... è che non ho molta fame»

E, anche con quelle parole, la testa di lei, con la chioma scarmigliata dal desiderio di una morbidezza maggiore da ricercare nel cuscino, fece capolino con timidezza, gli occhi rossi di un sonno non utile alla sua energia, una candida vestaglia a prendere il posto di quello che rimaneva del suo abito. Non dubitava che, per simile sostituzione, ella avesse da ringraziare in prima istanza la sua sorellastra; Ada aveva vegliato sul suo sonno fin quando le forze l’avevano sostenuta, e successivamente aveva ceduto alle lusinghe del torpore su di un divano di velluto rosso posto ad angolo dell’enorme armadio che capeggiava nella stanza, occupante tutta la parete a lei di fronte e quasi inquietante, per quella mole gigantesca di mogano postale così nell’immediato alla vista. Forse – ma questa era solo un’ipotesi nata dal suo essere sentimentale – gli occhi della giovane sorella avevano conosciuto il loro chiudersi su una delle poltrone che si affiancavano al suo letto, anch’esse di carminio colore, e colui che ancora non aveva conosciuto la sua resa nel vegliare il suo sonno, quel cavaliere che del sorriso non sembrava conoscere nemmeno la corretta definizione, aveva avuto premura di regalarle un giaciglio migliore, un luogo provvisorio nel quale lasciarla tranquilla in attesa di colei che rendeva quel pernottare necessario.

In un certo senso tutto, in quella stanza, godeva delle tinte del rosso e del bianco, un altalenarsi che si paragonava ad una danza amorosa e che non aveva alcun vincitore, ma solo la scelta posta ad un confine tale in cui una delle due sfumature rendeva merito all’altra, in un’eterna girandola di contraddizioni che la mente non aveva da registrarne la dominante.

«Vi sono molto grata, nobile Gilbert» continuò ella, gli occhi ancora a scandagliare la stanza nel quale aveva avuto il piacere di svegliarsi e scorgere, dunque, quella mobilia scarna adibita ad ospitare il nulla – senza dubbio una stanza degli ospiti che aveva ricevuto l’occasione di essere utile al suo primario scopo – «Se non fosse stato per il vostro intervento... temo che la mia vita avrebbe conosciuto una drastica conclusione»

Non negava che, nel baluginio dei suoi primi istanti, la tentazione di porre ella stessa un deciso fine alla sua esistenza fosse stato certamente gradevole e quasi irridente nell’essere tanto facile da carpire. Un gesto estremo, da commettere quasi con noncuranza, e tutto ciò che aveva il potere di angustiarla non avrebbe più avuto il potere di raggiungerla.

Ma non nelle mani di un bruto, di un assassino, di un ladro irrispettoso perfino del luttuoso clima nivale che vigeva nella sua casa; doveva essere un’azione mossa dalle sue stesse mani, e dalle linee di un dolore che non superasse ciò che ella era in grado di sopportare. Quanto stava per subire l’avrebbe sfregiata fino al limite e togliendole tutto, perfino la forza stessa di compiere un simile sforzo. E, per questo, non vi era la minima traccia di menzogna, nei suoi rispettosi ringraziamenti – forse i primi versi di lei che rendevano merito al suo stato nobiliare, da quando si erano conosciuti.

«Non avrei mai permesso che una simile infamia potesse abbattersi su di voi. E non perché siete la figlia illegittima di Zai Vessalius» aggiunse, prevedendo le parole di lei «ma perché una barbarie simile non deve essere perpetrata su alcuna donna, di qualsiasi lignaggio e di qualunque età»

«Un pensiero molto nobile, il vostro» e anche in quel caso, le parole della giovane non nascondevano alcun acredine – forse, lo spirare lento della sua energia vitale le impediva di indossare qualsiasi maschera in grado di renderla capace di un gioco di sotterfugi.

«Un pensiero che dovrebbe essere di tutti. Anche se purtroppo, come lei ha avuto modo di vedere, non è cosi»

Un breve silenzio avvolse la stanza dopo quelle ultime parole, quel genere di quiete colma dell’imbarazzo di chi non sa come proseguire una conversazione. Anche Oz l’avvertiva, sebbene non ne avesse a male un disagio che non era nulla, rispetto a quello che aveva ancora da indossare nella sua mente. Di più, era suo desiderio rincorrere una nuova solitudine, lasciarsi albergare da essa e ripercorre un filo capace di connettere la scia delle sue scelte future.

«Avevate ragione, nobile Gilbert» disse dunque, nella speranza che quello fosse l’ultima fase di un discorrere breve «Nella mia vita ho sempre avuto poco e, vedendo gli altri, coloro che disponevano di doni maggiori e migliori dei miei, ero convinta di non possedere nulla. Ero solo molto cieca, e ho capito di esserlo quando stavo per perdere tutto»

Fu penetrante, lo sguardo di quelle iridi color dell’oro, quando le labbra di lei si chiusero nuovamente, ma non ebbe timore, questa volta, di rispondere al suo sguardo. Questa volta, Oz lo aveva compreso, nessuna minaccia l’avrebbe travolta.

«Avrei di gran lunga preferito che non arrivaste a comprenderlo in questo modo» soggiunse poi, un sospiro stanco ad accompagnare quella che era senza dubbio un’affermazione sincera.

«Non potevate fare molto, il destino non è sotto il vostro controllo» chiosò lei, una calma non sua «Avete già impedito che le cose precipitassero verso il peggio, e per me è molto, credetemi»

Gilbert, probabilmente, non seppe cosa rispondere. Forse non ne aveva voglia, forse il controbattere avrebbe portato avanti un’inutile diatriba. Forse, come lei, non aveva desiderio di continuare quella conversazione.

«Cosa farai, allora?»
Una domanda che aspettava, sebbene l’avversione a rendere noti piani non ancora certi gliela avesse resa ostile.

«Non ne ho idea» dichiarò franca «Accettare la vostra proposta, comprenderete, significherebbe dare un colpo di spugna a tutto quello in cui ho creduto»
«Ossia della cattiveria insita nella nobiltà?»
«No, a quella insita in mio padre» rispose lei, un sorriso divertito a colorarle le labbra pallide «Non potrei odiare la nobiltà nel suo insieme, perché – seppure pochi – erano i soli che permettevano a me e mia madre di sopravvivere. Lo avete visto anche voi, assieme a vostro fratello, la gentilezza con cui vi ha accolti la mia defunta madre”
Seppur di circostanza, nessuno avrebbe mai negato che il sorriso di Marta non fosse benevolo. Il solo rimembrarlo, in Oz, provocò una dolorosa fitta al petto, accompagnata da lacrime galeotte che ebbe il coraggio di trattenere nelle ciglia.

«Di quell’uomo, mia madre non mi ha mai raccontato nulla. Si è limitata a dirmi il modo con cui ci ha sbattute in mezzo ad una strada alla scoperta che non ero il maschio in grado di ereditare tutto il suo patrimonio. Cosa può pensare lei, di un tale individuo? Anzi, qual è la sua idea su Zai Vessalius?»
Il pane, il mezzo con cui sostenersi, erano senza dubbio argomenti che irretivano i deboli incapaci di procacciarsi ciò che era indispensabile. Era il mezzo con cui Gilbert aveva avuto l’ardire di darle della stupida, e che gli aveva permesso di rivolgerle quelle frasi apparentemente prive di senso, e che solo in un secondo momento erano divenute sagge, ma colme di irrisione nel loro presentarsi al momento sbagliato.

Oz possedeva quell’innato istinto di comprensione che la rendeva partecipe di una menzogna. Non comprendeva nemmeno lei quale meccanismo scattasse nella sua testa, ma era conscia di chi le aveva messo a disposizione una frottola semplicemente ad un attento sguardo. O, meglio ancora, di una cura particolare alle varie gradazioni che la voce assumeva nel raggiungerla.

E capì perfettamente, Oz, dallo sguardo leggermente confuso e accigliato del Baskerville, che una qualsiasi descrizione rosea e delicata di Zai Vessalius avrebbe incontrato solo la sua amarezza e la sua delusione.

Forse lo comprese anche Gilbert

«Non credo che, in quell’uomo, vi sia un sentimento differente dall’ambizione» affermò, infatti «A seguito della morte della di lui moglie, sono in molti a sostenere quanto lui sia cambiato, chiudendosi in un atteggiamento freddo e distaccato. Anche Ada, che viene alla nostra villa di quando in quando, non nega di aver perduto col padre quel precedente rapporto che prima li vedeva così uniti. Per questo, signorina Oz, lei dovrebbe prendere in considerazione tale proposta per lei stessa e per sua sorella, non per Zai Vessalius»
Cadde inevitabile su Ada, nel richiamo del loro discorso, lo sguardo di chi cercava ancora delle risposte. Nascosta nella morbida pelliccia di una candida coperta, ella vagava lieta in mondi onirici che – Oz poteva intuirlo dallo stendersi sereno del suo viso – le regalavano quanto a ella precluso. Una gaiezza che, in quei frangenti, le sembrò pura fantasia.

«Potrà sembrarvi incredibile, ma la signorina Ada non ha nulla che può renderla un paragone con le altre nobildonne della società» stava continuando l’uomo, forse convinto di aver fatto breccia nelle sue convinzioni «Non c’è mai menzogna in quello che dice, e la sua ingenuità è tanto solida da renderla facile bersaglio dei raggiri altrui. So che potrà sembrarle assurdo, ma le assicurò che quanto detto corrisponde a verità»
E Oz, invero, non dubitava affatto delle sue parole. Quando avevano discorso nel loro primo incontro l’aveva visto; l’incertezza di lei, il timore di sbagliare una qualche affermazione, la paura di ferire un animo già provato... non erano caratteristiche capaci di adattarsi alla boria e alla superiorità.

«Ormai la signorina Ada non ha nessuno, tanto meno quel padre che trascorre tutto il suo tempo alla ricerca del migliore affare e della possibilità di poter espandere i suoi possedimenti e il suo potere. Come voi, ha perso la madre, e cresce nella sola compagnia delle domestiche. Perché non ritrovarvi, a questo punto? Cosa avreste da perdere? La dignità, forse?»
Calcò su quel termine e dimostrò come, in un certo senso, una qualche soddisfazione dall’averla condotta alla sua ragione un po’ la provasse. Forse era davvero onesto, quando parlava di non volerla rendere partecipe della sua verità con metodi tanto brutali, ma il risultato era senza dubbio di suo gusto.

Ma cosa doveva pensare lei, a quel punto? No, la dignità e l’onore non avevano voce, in simile dubbio; era Zai Vessalius, nell’ombra senza volto che rappresentava, a nascondere l’incognita decisiva alle sue rimostranze. Vero era che dirgli di sì e gettarsi tra le braccia di Ada, divenire quella sorella che lei desiderava e che, in un certo senso, avrebbe certamente soccorso lei stessa, era senza dubbio una tentazione capace di scacciare quell’istinto all’autodistruzione che aveva pulsato sordamente nella sua mente, paralizzando ogni sua ricerca di lontani progetti... ma poteva davvero stravolgere in quel modo la sua intera esistenza, dimenticandosi di quello che era per affrontare le nuove difficoltà che il nuovo mondo le poneva? In quel momento, col letto che la richiamava alle sue dolci promesse, sentì le forze venir meno.

«La nobile Ada, nella sua gentilezza, mi ha concesso del tempo per ponderare la sua offerta. Può offrirmi la stessa benevolenza?»

E, così dicendo, gli offrì l’immagine di quello che era, un povero relitto in attesa di arenarsi sugli scogli. Le mani a gravare sull’orlo della seta, cercò tacitamente di fargli comprendere quali fossero le sue necessità.

Ma Gilbert della famiglia Baskerville era senza dubbio un uomo testardo.

«Certamente, avete bisogno di riposo per ristorarvi, lo comprendo bene... ma tra non molto ho dato disposizione che vi venga consegnato qualcosa con cui rifocillarvi. Anche se non ve la sentite, mandate giù qualcosa. Il vostro corpo ha subito una orribile prova, quest’oggi; ora come ora ha bisogno delle dovute forze,per riprendersi»
E se ne avvide solo in quel momento, Oz, che le tende di damasco lasciavano uno spiraglio alla fredda luce lunare, forse lieve nel suo risvegliarsi e dunque tanto flebile da non essere percepita. Le numerose lampade a illuminare la stanza erano state, per lei, solo la gentilezza offerta a chi voleva porla in una cupola lontana perfino dallo sguardo del sole e nemmeno per un attimo aveva ponderato che il suo sentirsi tanto pigra e indisposta ad ogni sforzo venisse da un qualcosa che andasse al di là del dolore. Sorrise, ancora in quel modo tremulo che non dichiarava gioia, e con rassegnazione accettò quanto offertole.

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Capitolo 7
*** Sixiéme Score – Nel suo acconsentire, l’angelo cercò consapevolezza ***


Ada Vessalius sciorinava la saggezza del pazientare ad ogni suo lieve respiro; non era un paragone grossolano quello dei petali, fragili eppur delicati anche nella violenza di un vento ingeneroso e aggressivo; arricchivano invece di beltà ciò che avrebbe dovuto inquietare, e permeavano l’aere del loro dolce profumo al fine di rendere meno acclivi i pensieri altrui.

Oz la pensò così, quando il lungo meditare la portò alla sua decisione definitiva. Ella, che nella sua grazia aveva evitato l’argomento spinoso, aveva facilmente esposto l’impossibilità di un padre sempre assente solo quando le domande di Oz si erano fatte più insistenti, e sebbene il suo doveva anche apparire come un tentativo atta a rassicurarla di un suo eventuale timore, pure non era menzogna ciò che si delineava nel suo sorriso, e proprio nella virtù del suo candore aveva anche aggiunto quanto ella temesse che, almeno per conoscere quella figlia chiamata in così tarde tempistiche, una sua visita sarebbe comunque stata d’obbligo.

Oz, dunque, anche se nell’animo nutriva ancora delle incertezze date dall’ignoto, arrivò a temere maggiormente il rimanere da sola – ancor più senza difese – piuttosto che lasciare ad un uomo – di cui, per altro, ignorava perfino il volto – la capacità di atterrire fino al punto da lasciar andare l’unica persona al mondo col quale ricostruire il suo concetto di famiglia.

Cosa fosse il matrimonio Oz non lo sapeva. Chi fosse lo sventurato con cui Zai Vessalius l’aveva impegnata era essa stessa un’incognita – e il nome di lui, anche se udito, non aveva cementificato in modo esaustivo nei suoi pensieri – ma la promessa che un simile – e per lei nefasto – avvenimento aveva da programmarsi tra un diverso numero di anni, le prometteva dunque di ritrovare una nuova dimora, una sorella e nuovi legami da instaurare senza temere di perderli con cruda celerità. Avrebbe sofferto, e forse nemmeno il prevederlo l’avrebbe davvero aiutata in ciò che si apprestava a compiere... ma ormai era certa di non avere altre soluzioni. O di non voler scrutare quelle ricche di insidie quali la vita solitaria alla quale precedentemente voleva aggrapparsi. Certo non era il sotterrarsi di un’ideale, o ancor peggio di una parte di lei; Oz era particolarmente convinta di non aver perduto nulla di sé, quando aveva affermato ad Ada di volerla seguire per la loro nuova vita insieme. Semplicemente, aveva maggiormente riconosciuto i limiti della sua persona, e lo aveva fatto nell’esatto istante in cui aveva rischiato di perdere tutto – forse perfino la sua vita. Non era, il suo, un orgoglio tanto masochista da cedere alla tentazione di un ammissione comminabile nella ragione di Gilbert della famiglia Baskerville; avrebbe, in caso di deleterie discussioni, ritrattato tutto e confermato la sua possibilità più rischiosa, solo per il capriccio di non vedersi nel difetto dell’errore; per questo, quando aveva confidato ad egli la sua prossima destinazione – in una delle tante occasioni in cui era venuto a trovarla – aveva giustificato il tutto nel bene che aveva iniziato a provare per la sorella, per quel legame che ormai era già sbocciato – e in effetti non era falso, tutto ciò – e nella sua decisione a non volerlo vedere reciso. 

Cosa avesse pensato lui, di tutto questo, non lo diede a vedere. Il lieto sorriso non comunicava nulla se non la giusta circostanza dell’evento, e la mano che le aveva smosso la chioma dorata – un gesto premuroso che le aveva ricordato l’affetto di un fratello a lei mancato – aveva tremato al contatto in un sentimento che però ella non era stata in grado di decifrare.

Tutto questo, ovviamente, non l’aveva portata a dimenticare chi stava lasciando indietro, chi dall’alto la osservava e attendeva il suo ritorno sulla terra. Certo Martha avrebbe giudicato negativamente, questa sua decisione, ma nel tempo del suo più completo rifiuto, ella non aveva mai conosciuto colei con il quale avrebbe trascorso i suoi futuri giorni; anche lei, si ripeteva nei momenti di maggior sconforto, avrebbe accettato Ada con il suo stesso trasporto, e ne rimaneva convinta perché feriva il pensarla altrimenti, quasi avesse ormai da rispondere a qualcuno in caso di decisioni avverse. Il paradosso diveniva evidente quando indagava il suo desiderio di rivederla, di convenire davvero con il suo spirito, e l’impossibilità di farlo era ciò che gravava sul suo petto in pianti struggenti che però aveva cuore di tenere solo per se. D’altronde, nessuno avrebbe davvero compreso l’anima che rimpiangeva, e nessuno le avrebbe mai potuto offrire il giusto ristoro di cui ella abbisognava.



“Ada ha chiesto il mio aiuto, e personalmente sono del parere che abbia fatto la scelta migliore”

La richiamò cosi, da uno di quei momenti di stasi nel quale ella si perdeva tra le sue memorie passate, l’unico mondo nel quale non le era concesso soffrire. Era ancora tabù nominare la sua genitrice, e fiamma di penosa sofferenza il rivederla con gli occhi della mente, ma lo sfilacciarsi dei suoi pensieri in frammenti passati era divenuto ciò che ella chiamava il male necessario.

Erano passati altri due giorni, in quella dimora dove il tempo era fine solo a se stesso, e il cambiamento diveniva un lemma impronunciabile; Ada, nella sua bontà, aveva deciso di dedicarle la maggior parte dei suoi sorrisi, ma vi erano poi quei momenti in cui era la stessa Oz a chiedere solitudine, e la possibilità di non rendere la sorella partecipe del suo decadimento. Erano attimi in cui il semplice constatare della morte di sua madre rendeva l’aria un miasma irrespirabile, e in cui le lacrime erano l’unico mezzo a sua disposizione per comunicare; le erano apparse inevitabili, quelle sue stasi ombrose nel quale era solita rinchiudersi; un suo rapido riprendersi avrebbe denunciato quanto stepposo fosse l’amore che invece vedeva come rigoglioso anche adesso che non aveva più un destinatario, e lo sopportava sulla sua pelle quasi ad aver conferma che quanto inflitto dal suo cuore non fosse altro che una pena più che doverosa.

E forse Ada lo aveva compreso, sebbene lei non glielo avesse minimamente fatto recepire. Ora stava da farlo intendere anche alla nuova arrivata, la quale si permetteva di scrutarla con la tipica arroganza dei nobili da lei conosciuti.

Il rosso era il dominio del suo colore; la veste di indiscusso fascino - ma di una liceità che mai lo avrebbero reso un suo desiderio – era il centro di una gradazione scelta con studiata cura per sposarsi con il resto di lei, che nella sua femminea floridezza lasciava brillare il biondo rosato della sua chioma, e con essa lo sguardo ardente delle sue iridi, ingannevoli nel rimembrarle le rose che tanto amava accostare ad Ada.

Non notò, almeno non subito, l’enorme ingombro che essa stringeva tra le mani – senza l’aiuto di una qualche cameriera nei paraggi, il che doveva essere strano, per ciò che ella supponeva sugli aristocratici – e il metro che da lì penzolava per inerzia. Oz fissava solo la donna, e cercava di comprendere quale miglior approccio fosse indicato per non apparire scorbutica.

Non ne ebbe nemmeno il tempo.

“Cielo, quanto sei magra! E io che speravo di poterti prestare qualche abito dei miei!”

Le braccia minute furono sue prigioniere, poche falcate e il suo corpo ebbe l’obbligo di alzarsi e di offrirsi allo sguardo invadente della donna. La camicia che aveva indosso, gentile dono di Ada, penzolava con sconforto su di lei, e almeno doveva riconoscere il vero, alla sconosciuta, quando affermava che mai sarebbe entrata in vestiti che potevano accogliere altre due lei senza nemmeno colmare tutto il tessuto. Avrebbe risposto piccata, Oz, a simile maleducazione, e le avrebbe ricordato che in un mondo fatto di centesimi da contare e di medicine sempre troppo costose non era nemmeno raro saltare i dovuti pasti, magari anche per concedere quanto necessario a chi ne aveva più bisogno...

Altri sacrifici, che le rendevano l’ingiustizia di un agire incapace di compensarla adeguatamente e dal potere di angustiarla ulteriormente, al punto da eliminare le ultime tracce di acredine sulla lingua. E, forse, se anche avesse pronunciato la sua, probabilmente non sarebbe stata minimamente presa in considerazione.

“Ah, se non ricordo male dovrebbero esserci gli abiti smessi di madame Rosalie... ma quella donna aveva un pessimo gusto nel vestire... sembra proprio che, con te, si debba partire dalle basi, tesoro. Si si, dobbiamo farli confezionare su misura”

“Con... fezionare?”

“Certo!” esclamò la donna, il viso leggermente ombroso per via del suo chinarsi scrutatore “Una lady non ha mai abbastanza abiti, e tu ne sei l’esempio perfetto!”

Abiti... ma certo. Oz doveva iniziare una vita in cui, per la prima volta, l’aspetto estetico avrebbe avuto maggior rilievo rispetto alla sostanza.

“Non deve preoccuparsi per me” disse dunque, il tono lieve “Realizzo da anni molti vestiti, per le mie clienti. Posso...”

“Certamente, cara, so che tu eri una sarta, prima di venire qui” la interruppe bruscamente l’altra “ma hai la possibilità di vestirti col mio buon gusto, non dovresti fartela scappare!”

“In altre parole, quello che Lottie sta tentando di dirti è che ama tanto l’idea di vestirti da capo a piedi, e ti chiede di non rovinarle il divertimento”

Alto, bruno, l’uomo che entrò nella sua stanza la scrutava con ametiste cariche di affetto, gentili eppur severe nel rivolgersi a lei. Era ignoto il suo nome, così come la ragione della naturalezza con cui era entrato da una porta apparentemente inaccessibile, per un gentiluomo, ma neanche l’idea di lasciarsi vedere in una veste indecorosa fece sorgere in lei un sentimento che non fosse innata simpatia, e l’apatica confusione con la quale accolse un simile slancio – da lei certamente inaspettato – non le permise di rispondere al commento con la dovuta accortezza.

E, certamente, dall’impaccio del silenzio se ne uscì grazie alla sua ipotetica benefattrice, che non apparve affatto irata di una simile insinuazione, ma semplicemente imbarazzata per colui che dedicava i suoi sguardi anche a lei.

“Nobile Glen! Vi chiedo perdono, non vi ho sentito entrare”

“No, sono stato un villano, a non farmi annunciare” ma simile ammissione non lo smosse dal luogo nel quale aveva deciso di sostare. Anzi, contro ogni logica, decise di dedicare alla giovane in silenzio ancor più attenzioni.

“Voi dovete essere la nostra ospite, Oz Vessalius” disse, la voce tenue per una ragione che l’altra non seppe individuare.

“Io... si, mio signore”

Poteva essere stupita, affranta, sciocca o ignorante; nemmeno sommando simili difetti, però, avrebbe mancato il rispetto dovuto al capofamiglia di quella dimora, che sapeva importante quanto tutti gli uomini influenti Reveille aveva da offrire. L’inchino deferente, lo sguardo tenuto basso, le mani intrecciate sul grembo... gesti che aveva visto altrove, e che mai come in quel momento le parvero confortanti per il loro grado di utilità.

“Non dovete essere così intimorita da me, signorina Oz”

La mano di lui, guantata in una seta di pregiato valore, carpì quella di lei, minuta, gelida e segnata dal tempo e dalle fatiche, e ad essa dedicò la gentile carezza di un bacio, una referenza che colorò di rosso le sue guancie, e che la spinse a cercare lui, il suo sguardo e il suo viso, per una qualunque spiegazione che rendesse merito di un simile atto di cavalleria ad una popolana come lei. Che ovviamente non venne.

“Elisabeth, sono convinto che la tua compagnia gioverà alla nostra ospite. Trattala con tutti gli onori, e rendile tutto ciò che ella vorrà”

“Certamente, nobile Glen. Può contare su di me” rispose immediatamente Lottie, arrossendo delle sue stesse parole.

“Sì, so di poterlo fare”

E, con un ultimo inchino, lasciò nuovamente le ragazze alla loro solitudine.

“Ah... ha detto che conta su di me! L’hai sentito anche tu, Oz?”

Se la ragazza non fosse rimasta ammutolita da simile cambiamento, si sarebbe chiesta che fine avesse fatto la donna altera e sicura di sé che fino a pochi istanti prima vantava il suo eccellente buongusto. Lo sfavillio dei suoi occhi, il rossore del viso che gareggiava con le fiamme del suo vestito, le mani incapaci di star ferme... tutto, di lei, suggeriva l’indecisione degli innamorati, di quegli esseri arsi di sentimenti che ancora non si spiegano come abbiano fatto a resistere alla vicinanza con l’oggetto del loro desiderio. E Oz, che pure dell’amore era parecchio ignorante, quasi rise per l’evidenza di un simile affetto, e si chiese con dolcezza quanto di esso fosse trapelato agli occhi dell’uomo in questione. Ella non aveva esperienza, ma aveva sempre sentito dire che gli amati sono gli ultimi ad accorgersi di ciò che è noto a tutti.

“Il nobile Glen è un uomo molto gentile, e anche molto generoso. Mi ha davvero sorpresa questa sua visita” disse dunque, con fare accondiscendente.

“Oh, ma lui è sempre così, anche se sembra quel classico uomo a cui non gli importa mai nulla di nessuno”

“Capisco, allora, perché tu lo tenga così tanto di buon conto” e la guardò, lei, con uno sguardo divertito e ironico, uno sbeffeggiarla che però non minacciava nella mancanza di rispetto e che, solo, avanzava in una familiarità che superava i rigidi confini del lei. E, comunque, Lottie non sembrò nemmeno avvedersene.

“Comunque sia” stava infatti dicendo “Ora non posso non fare del mio meglio per renderti la più bella dama del castello – dopo di me, ovviamente.” e al setaccio delle sue mani passò il suo esile busto “Ti renderò irriconoscibile, vedrai”

“Ecco, io...”

“Oh, per Saint Brigitte! Ma quei poveri capelli li hai mai pettinati?” e adesso le sua mani scandagliarono la sua povera chioma, per individuare il grado di calamità del danno.

Invero, Oz aveva gran cura dei suoi capelli. Non era vanesia, non amava abbellirsi, ma la sensazione del vento che le smuoveva i fili di oro in volute imprevedibili era una sensazione alla quale non sapeva rinunciare, perché in essa vedeva una libertà che altrove non sapeva trovare, e che le dava alimento per la forza che ogni giorno richiedeva per le sue numerose difficoltà. La madre ne era ben conscia, e per questo motivo, rinunciando ai suoi risparmi, le aveva regalato, anni addietro, un bellissimo pettine d’avorio, che lei teneva in gran cura. Nella fretta di cambiar aria, e di lasciare alle spalle ciò che la addolorava, non aveva preso nulla della sua vecchia vita, e in un certo senso si rammaricò di non aver almeno preteso quell’unico oggetto che, nel suo piccolo, costituiva una grande dimostrazione d’amore.

Non era difficile, dunque, credere che, in quei giorni trascorsi nel silenzio di una magione che le era estranea, lei avesse completamente dimenticato quella sua chioma ora tanto sbarazzina. Abbandonandola all’incuria.

“Sarà un po’ doloroso, ma con le giuste attenzioni diverranno bellissimi. Così fini, immagino che non impieghino nulla a intrecciarsi tra loro. Promettimi che ne avrai cura, quando avrò finito di risistemarteli”

“Certo” sospirò lei, con la mente però a immaginare l’essere a cui chiedere quel favore che, adesso, tanto gli stava a cuore.

“A quanto pare non te l’ha detto di persona, il nobile Glen. Forse vuole che sia io a farlo”

“Fare cosa?”

“Dirti dell’ospite che verrà a farci visita tra pochi giorni” soggiunse lei, il sorriso sibillino sulle morbide labbra “L’uomo che un giorno dovrai sposare: Elliot Nightray”

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Capitolo 8
*** Septiéme Score – In sprazzi di luce, le ali dell’angelo si spiegarono ***


L’idea che aveva iniziato a prendere forma su Elliot Nightray, in fondo, la ragazza la basava sul poco che aveva avuto modo di conoscere degli uomini. Non ne aveva visti tanti, nella sua vita, e non sperava di avere la fortuna di un chissà quale galante uomo di distinta natura, ma come volgeva i suoi pensieri a quello che doveva essere il suo futuro marito – e che ancora si ostinava a non pensare come tale – lo vedeva trionfante nella luce che scompigliava una chioma dalle sue stesse tonalità, ravvivata però dal brillio di due splendidi zaffiri che riluceva della preziosità del raro e del pregiato. Non voleva questo, non si confacevano in simile maniera i suoi desideri, ma era un modo abbastanza divertente – almeno a suo dire – per lasciar da parte quei pensieri nefasti che comunque non aveva cuore di abbandonare.

Quando il giorno venne, dunque, e conobbe il vero Elliot Nightray, ne rimase a dir poco stupefatta.

L’iride zaffirina che aveva predetto si dilatava su un espressione accigliata, quasi il semplice camminare – forse l’atto più comune del respirare – provocasse in lui un qualche strano ascesso di ira sempiterna, e il nervosismo della sua persona scompigliava quei capelli sì dorati, ma tanto elettrici da non ricordare il sole, e opachi in tal maniera da non rimembrarle la preziosità dell’aureo metallo. Nel resto era eleganza, perché la splendida giacca nera, abbottonata al fine di rendere quasi celato il panciotto di pelle dalle stesse tonalità, si confaceva alla sua persona in una precisione che lasciava stupefatti, e sembrava quasi egli fosse nato per calcare il suolo mortale con indosso simili abiti – ed era, quello, un particolare che l’occhio allenato della sarta non avrebbe certamente fatto a meno di notare.

Cosa poteva pensare, di lui, al vedere una sua idea plagiata dal vero in simil modo? Era chi si aspettava che fosse, ma avvolto da venti di burrasca che lo rendevano più selvaggio, più esile e meno avvenente. E avanzava in gran passo fino ad arrivare dinanzi a loro, un inchino sbrigativo per salutarle tutte.

Oz Vessalius, smeraldi nella chioma dorata e perle e diamanti ad adornarle il niveo collo, lo accolse dando sfoggio della splendida seta del suo candido abito, adorno di tutti quei pizzi e merletti che Lottie le aveva costretto ad indossare, e con un corsetto tanto stretto da rendere il movimento del suo dorso una strana e rigida danza, che sperò ardentemente non fosse visibile ad occhi altrui. Nel lieve inchino che riservò al suo ospite, il mettere in pratica quei numerosi insegnamenti ricevuti e che mai ella aveva avuto modo di conoscere furono tenuti sotto lo stretto controllo di Elisabeth, la quale aveva deciso di assistere al loro incontro – sconfiggendo in modo subdolo tutte le argomentazioni romantica di Ada su una loro privacy da rispettare – per, a suo dire, evitare eventuali atteggiamenti sconvenienti.

La sala nella quale erano venuti ad accogliere l’uomo non discostava dal tipico contrasto di colori che Oz aveva già potuto osservare altrove, e se quella villa rimembrava il sangue passato, ne rendeva partecipi anche gli altri ospiti con i vari tendaggi e i numerosi tessuti con cui avevano colorato il  bianco presente, rendendo perfino i caldi colori del mogano un qualcosa di rado, da ricercare, e da aspettarsi in mobili comunque laccati di bianco, e adorni di quei pizzi vermigli che la sbalordivano tanto per la loro semplicità quanto per l’insolita scelta che essi avevano deciso di rappresentare – una geometria di croci religiose.

Andarci con la prospettiva di vedersi analizzare, pezzo per pezzo, al solo fine di rinvenirne il giusto difetto, era stato un sacrificio che ella aveva preteso equamente condiviso con sua sorella – e solo al patto di vedersi tirata fuori dall’impaccio con la più idonea scusa potesse venirle in mente.

E adesso era lì, un sorriso nervoso sul viso, le mani intrecciate sul grembo e la convinzione che, nel suo sbagliare ad accettare simile teatrino di imbarazzi, avrebbe almeno dovuto accorgersi che anche pochi secondi di presentazione dovevano comunque essere più che sufficienti.

“Mi avevano detto che quel pazzo di Zai aveva intenzione di darmi una popolana in moglie” esclamò lui, improvviso come un tuono in una notte senza stelle “Perché, invece, mi ritrovo la solita bambola finta, dinanzi a me?”

“Come, scusi?”
Esterrefatta era l’unico modo col quale descrivere la ragazza.

“Dico che non voglio l’ennesima mummia che pensa solo a vestirsi e alla bellezza, e che avevo perfino osato sperare in un qualcosa di diverso, in te. Ma a quanto pare le donne sono tutte uguali, specialmente se hanno il marchio Vessalius”

Oz rise nervosamente, di quelle parole, perché sperò vivamente che ciò fosse uno scherzo di cattivo gusto.

“Lo posso picchiare, vero?” sussurrò ad Ada, ben attenta a non farsi sentire.

Ma ci pensò Lottie ad accogliere questo suo desiderio.

Le orecchie di Elliot ci misero davvero poco a divenir cremisi come le unghie che le torturavano, eppure il ragazzo non sembrò capire che, nella minaccia della donna, non doveva esserci null’altro che la pretesa alle dovute scuse, perché ebbe solo l’ardire di lamentarsi con fastidio, aumentando l’acredine ricevuta e già di per se incontrollata.

“Hai idea di quanto tempo mi ci sia voluto, per renderla tanto affascinante?” esclamava lei, la forza calamitata ad una minaccia che tentava – almeno dal punto di vista delle spettatrici – di staccargli i lobi “Come osi disprezzare il mio lavoro, razza di un bifolco Nightray?”
“Io... dico solo quello che penso!” gli rispose quello, schiettamente “Ho il diritto di farlo, e adesso lasciami!”

“Lottie, penso che Elliot abbia davvero compreso il suo sbaglio”

Chi venne fu colui che ruppe l’incanto di  una benefica medicina preparata con spontaneità. Le risate di Oz – divertite e lusingate, per quel grande affetto che spingeva l’amica a difenderne l’onore – dovevano conoscere la loro brusca fine quando la scena conobbe un nuovo arrivato.

“Leo, dovresti educare meglio  il tuo amico” fu il commento della donna, ora composta nel ruolo di lady precedentemente abbandonato.

“Forse ti sei dimenticata che sono un essere umano, non un cane” fu il piccato commento del ragazzo, le mani a ricercare un flusso sanguigno bloccato sui lembi di pelle prima torturati.

“Non sei un essere umano, sei un nobile” gli rispose invece Leo, che come deus ex machina sembrava agire da una realtà estemporanea, dove i mortali avevano tutti uguali colpe da dispensare e da cui ricevere ammenda “Dire certe cose a colei che dovrai incontrare sull’altare...”

“Appunto perché deve diventare mia moglie, non è bene che sappia con chi abbia a che fare?”

“Ossia con un cafone?” fu lo sgraziato intervenire di Lottie, le mani a sorreggere le spalle di Oz, quasi il trauma di tanta villania – a cui lei aveva grandemente contribuito, sebbene ciò evitasse di rammentarlo – andasse compensato con un contatto fisico fragile e gentile.

“Mostrarti per quello che sei è un conto” disse ancora Leo della famiglia Baskerville “Ma se ti rendi odioso, finirai per essere mollato prima ancora di convolare...”

“Oh, stia tranquillo” esclamò Oz, un lampo di ironia a dardeggiare negli occhi di smeraldo “Stia tranquillo, Leo Baskerville, le mie intenzioni in merito a quest’uomo rimangono immutate. Voglio che sia mio marito. Solo così potrò rendergli la vita un inferno in Terra!”

Ancora con quella grazia fiera che nemmeno ella sapeva di possedere, marciò subitaneamente verso la porta, gli occhi a fulminare gli uomini nella stanza in un ultimo assalto, e subito le porte annunciarono il suo allontanarsi, seguito a ruota dalle due donne che l’avevano scortata.



“Posso dirti che hai esagerato?”

Elliot della famiglia Nightray non aveva grandi aspettative dall’ospitalità dei Baskerville. La famiglia che andava a trovare così di frequente, in fondo, non godeva di quel prestigio che permetteva cordiali amicizie, ma era anche vero che, per i membri stessi della famiglia Baskerville, il concetto stesso di amicizia andava da ascriversi tutto ad un loro personale privilegio di conoscenza. Gilbert era il solo, a tal proposito, ad avere in obbligo il piacersi la nobiltà e il farsi a sua volta accettare – sebbene, in un lontano giorno, quello stesso problema sarebbe stato proprio di Leo –; ai restanti membri della famiglia, a tal proposito, si concedeva la grazia di scegliersi coloro con il quale disquisire amorevolmente, e con il quale stringersi fortuiti legami. Leo, che nella sua natura quieta aveva anche il vizio di chi ama solo ciò che gli va a genio, non aveva trovato altri migliori partiti ad eccezione di Elliot, perché l’onesta che sembrava essersi dissolta, in quei cento anni, a suo avviso aveva scelto un’ultima persona come sua onerosa rappresentante, e tale individuo aveva tanto a cuore accettato simil causa da non riuscire nemmeno a concepire l’idea di mascherare i suoi dissensi e le sue opinioni. I disastrosi risultati che così otteneva si concretizzavano in scene patetiche come quella appena consumatasi in quello stesso salotto nel quale bevevano il loro prezioso the.

“Forse... ma hai visto quella, come mi ha risposto?” gli rispose di rimando l’amico, azzannando con voracità uno sfortunato tramezzino “Voglio che sia mio marito, solo così potrò rendergli la vita un inferno in Terra” ripeté acuendo la voce per renderla simile ad un’intonazione femminile “... ma chi si crede di essere?”

“Una povera ragazza che ancora deve orientarsi nel nostro mondo. Sii clemente con lei”

Leo aveva molte carte da giocare, in un senso che lo voleva partecipe del disagio di Elliot, e sicuramente la morte recente della di lei madre avrebbe sicuramente scosso le corde di quel buon cuore che tanto faticosamente sapeva mostrarsi agli altri; poteva parlargli di molti dettagli, tutti appresi da fonti sicure e alcuni accertati osservandola da lontano, mentre chiacchierava in giardino con colei che era divenuta appieno la sua sorella adottiva, ma decise che, in uno stato tanto adirato come quello in cui si trovava Elliot in quel momento, tutte le sue manovre sarebbero di seguito cadute nel vuoto.

Era forse uno sciocco, a preoccuparsi in modo tanto eccessivo per lui, ma l’idea che il giovane intraprendesse un matrimonio con una donna che non aveva modo di sopportare lo rattristava. Sapeva dell’animo gentile dell’amico, della sua fedeltà, dell’umiltà anche – quella che lo voleva comunque come discepolo della sua famiglia e fedele alla famiglia Baskerville – ed era certo che, se Oz avesse visto in lui le stesse qualità che egli vi vedeva, lo avrebbe certamente amato come egli meritava di essere amato. O, almeno, di ricevere quel rispetto che è alla base di tutti i rapporti coniugali. Se ella lo avesse fatto, ne avrebbe ricevuto un premio equivalente ad un tesoro forse immensamente più prezioso, anche più raro e certamente inottenibile, senza le giuste qualità. Il cuore di Elliot.

“Leo, non pensarci nemmeno a difenderla, per come si è comportata”

Al tramezzino si era succeduta nuovamente la sua tazza da te, oramai completamente vuota. Il secco tintinnio che provocò il suo poggiarsi al piattino ebbe modo di denunciare tutto il suo nervosismo. Un nervosismo certamente eccessivo, per quel semplice alterco per lui, tra l’altro, anche molto divertente – una natura che nascondeva il suo intervenire in modo tanto intempestivo. Leo lo sapeva, che quel suo amico era certamente molto sincero, ma anche molto testardo nello sbottonarsi. Doveva essere lui, nella sua fine osservazione, a comprendere ciò che si celava nel suo animo.

“Ti spaventa a tal punto, il matrimonio? Se ne parlerai con tuo padre, sono convinto che...”

“E questo il punto!” esclamò il ragazzo, sobbalzando leggermente sulla sua poltrona “Il vecchio è inamovibile, su questo. Vuole il matrimonio a tutti i costi, forse addirittura più di Zai Vessalius, e... Leo?”
Lo vide, il nobile, che nel suo parlare – forse anche un po’ a vanvera, ma dinamico per quel suo desiderio di svuotare l’animo dall’astio raggrumato – aveva sollevato corde in grado di agitare il suo amico. Lo sguardo di lui, freddo nel valutare le nuove informazioni, adesso scrutavano il fondo della fine porcellana ancorata alle sue dita quasi vi dovesse leggere un futuro incapace di essere previsto.

“Quale uomo, proveniente da una facoltosa famiglia, farebbe tante pressioni per sposare la figlia bastarda di un nobile minore?”

La tazzina ridiscese lentamente, lieve eppur in contrasto con quanto l’animo provava, agitato da pensieri che si rincorrevano come folli, alla ricerca di una giusta ricostruzione capace di chiarire il loro contesto.

“In effetti...” aggiunse Elliot, ora meditabondo anche lui “Ora che ci penso, non ci sono mai stati buoni rapporti, tra la nostra famiglia e quella dei Vessalius. Dopo la tragedia di Sablier, e il conseguente vuoto di potere, solo noi e altre due famiglie di duchi siamo riusciti ad imporci sulla successiva Pandora, mentre loro... beh, loro hanno continuato la loro vita di Visconti”
“Successivamente, quando i Baskerville rientrarono in scena” continuò Leo “furono i Nightray a offrirci il loro appoggio, e siete sempre stati invisi dai Vessalius per il potere che siete stati in grado di costruire”

“Ma allora perché ti impensierisce tanto il matrimonio?” domandò il  biondo “I due capofamiglia hanno raggiunto un accordo, e lo celebrano col nostro matrimonio...”
“Se un lord ricevesse come offerta di matrimonio la mano di una bastarda – non vorrei mai descrivere la signorina Oz con simili epiteti, ma immagino che in molti la vedranno così – non ci sarebbe alcun accordo, ma solo il dichiarato insulto per una così ignominiosa offesa arrecata” lo interruppe l’altro “Nessuno sano di mente, e con una discendenza tanto importante, avrebbe accettato”

“Sì, ma i matrimoni di interesse li hanno già fatti i miei fratelli” borbottò Elliot, che di quelle congetture non ci stava capendo più nulla.

“Anche il tuo è un matrimonio di interesse, amico mio” lo contraddisse il Baskerville “Ma un matrimonio di interesse, per essere definito tale, deve offrire un privilegio ad entrambe le famiglie. Quello dei Vessalius è anche fin troppo chiaro. Dov’è il vostro?”

Alzatosi, lo sguardo a indagare gli angoli della stanza, Leo lasciò l’amico con i suoi interrogativi. La finestra si offrì come paesaggio per le sue congetture, eppure già sapeva che l’esito sarebbe stato  nefasto.

Ancora poche nozioni di quanto in atto, pochi indizi per comprendere i moventi, poche carte con le quali giocare le sue mosse. Gli uomini di potere giocavano con la vita del suo amico, e lui, in quel momento, l’unica cosa che poteva fare era rimanere a guardare. Ma per quanto sarebbe durato, simile supplizio?



“Posso dirti che hai esagerato?”

Ada non aveva esitazioni, quando un pensiero l’attanagliava. Lasciava alle parole il compito di scorrere con i suoi quesiti, e l’obbligo di quietarli spettava alle altrui persone che li avrebbero ascoltati. In quel momento Oz, un diavolo per capello dopo la recente sfuriata, sperò vivamente di aver compreso male.

Erano nuovamente nelle sue stanze, l’abito rimosso quasi con forza dal suo esile corpo per ricercare le vecchie comodità della sua larga camiciola. I passi a calcare il suolo – i piedi nudi a non lasciar suggerire alcun suono di simile iniziativa – quasi inciamparono su se stessi, quando la sorella si pronunciò, e mancò poco che la fulminasse per aver anche solo distrutto il clima di tensione che si era creato.

“Io sarò anche una popolana, Ada, ma nessuno mi aveva mai parlata in questo modo!” esclamò lei “Beh... in verità molte persone mi hanno sempre giudicata male, e i medici non erano certamente dei galantuomini, quando facevano certe proposte... ma darmi della bambola vuota?! Chi è il cerebroleso che dà della bambola vuota alla donna che deve sposare? È lui che si è fatto odiare, sorella, non di certo io!”

“Allora posso dire che hai ingigantito un incendio già molto fiammeggiante?” continuò ella, e nascose in un colpo di tosse discreto il sorriso che tentava di rischiararle le labbra.

Nel torpore del lutto, la sua Oz non aveva  mai manifestato altro sentimento che non fosse la gratitudine e l’infelicità. Si sorridevano, si confidavano, si narravano di loro e del loro passato, delle loro esperienze e delle loro certezze, ma che in tutto quel lasso di tempo Oz avesse nascosto un lato di se – o che fosse semplicemente obliato dall’incuria che ella riservava solo nei confronti di se stessa – aveva acceso, in Ada, la mestizia per il non essere quel moto sufficiente a dare ristoro all’anima della sua povera sorella. Era molto, ma non abbastanza da darle speranza, un motivo per indurla a credere che, nella vita, per cento sofferenze vi sarebbe nata una gaia contentezza in grado di illuminare il precedente oscurantismo nel quale ella aveva prima sostato. E, soprattutto, che per quanto angustiante fosse simile prospettiva, la vita andava amato proprio per la ricerca di quell’uno nel mare dell’anonimo dolore.

E adesso era lì, fuori dai suoi precedenti schematismi, libera dai vecchi orpelli della buona educazione, vincitrice contro quel mostro luttuoso che aveva tentato di nascondere il suo lume. E Ada la trovò bellissima, come bellissimi erano quegli occhi di lei, lucenti sì di ira, ma talmente vividi – talmente vivi – da darle l’impressione di aver di fronte una persona completamente diversa.

“Non so se devo ringraziare Lottie o prendermela per avermi tolto una soddisfazione” stava intanto dicendo lei, ancora la furia a dominarle la mente “A costo di andare in ginocchio da quel padre che odio, giuro sull’universo che conosco che mai andrò a nozze con un... simile individuo! Piuttosto mi faccio suora!”

Per Ada, che la vedeva camminare nei suoi movimenti scattanti, con il tessuto di raso a seguire inutilmente ciò che era imprendibile perfino dal vento, diveniva sempre più difficile nascondere la sua ilarità.

“Ma hai detto che lo volevi... per rovinargli la vita, ma lo volevi...”

E non resistette. Il solo ricordarsi di quella lei altera, che lasciava la stanza solo dopo averla gelata con la sua ironia fu eccessivo per quella serietà autoimposta e sgradevole. Rise, di quella risata cristallina che Vince – l’uomo che mai avrebbe ammesso simile sdolcinatezza – amava udire nei suoi momenti  bui, perché il suo squillante timbro sembrava l’eco di una campana in un anonimo giorno.

Vincent della famiglia Baskerville, in quel mentre, aveva bussato alla porta e aveva visto il suo invito soffocato dalle risate di lei. Era rimasto incantato, l’uomo, e non aveva accennato a rompere l’incanto – lui, lui che era morituro e l’amore non avrebbe nemmeno dovuto conoscerlo, lui che affermava con coraggio di vederla come indifferente e che a tratti sibilava malignamente della sua ingenuità – perché unico gli parve quel frangente, come uniche furono le urla di Oz, che le intimava di comprendere meglio il suo stato angustiato.

Aveva un fagotto, Vincent, un qualcosa da dare alla ragazza a cui aveva tolto tutto solo per ordini superiori – sebbene nel finale lui non aveva avuto rimostranza alcuna del suo gesto, così come la mano non tremava del sangue di cui si era macchiata.

Ma quell’involucro avrebbe atteso. Era di piacevole gentilezza, ma anche foriero di tristezza. Lo avrebbe custodito fino al termine di tale sodalizio, o quando avrebbe rivisto nei meccanismi del tempo il giusto attimo in cui consegnarlo. Non poteva dare gioia, uno come Vincent Baskerville, nato per rappresentare chi era il diavolo una volta, ma almeno poteva fare in modo di sentirsi meno vigliacco. E meno solo.

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Capitolo 9
*** Huitième Score - Al gelo della notte, l'angelo ebbe una visione ***


Venne il giorno in cui Ada le chiese di tornare a casa; nella loro vera casa, villa Vessalius. Insieme.

Il suo sì era stato il pregio di una menzogna narrata a fin di bene. Oz, che si era vestita di sorrisi gentili per non dar pensiero ad una sorella ancora in ansia sulla sua sorte, non aveva dimenticato chi ella fosse, da dove venisse, e il disprezzo era l’acido sapore che aveva assaporato fin da quando aveva avuto la possibilità di recepirlo dalle persone che aveva intorno. Lei, che era cresciuta nella viltà di uomini capaci di affermare chiaramente quando disdicevole fosse la sua stessa esistenza, non aveva nemmeno afferrato l’illusione luminosa della sorella, e aveva compreso che, nel suo desiderio di ricostruirsi in un luogo di appartenenza che le facesse amare nuovamente la vita, quello stesso disgusto mai dimenticato lo avrebbe nuovamente rivisto, rivissuto, assaporato nelle labbra di chi, forse, le avrebbe mostrato candore avvelenandola alle sue spalle. Era infido, quel mondo, e non servivano i raccapriccianti racconti di sua madre per comprendere quanto in fondo si sarebbe spinta, la sua valutazione, per intravedere tutti i lati negativi di quella che stava per diventare casa sua. D’altronde, anche Lottie, che aveva deciso di essere per lei la schiettezza di indubbia fiducia, aveva espresso chiaramente quanto quello che, comunque, quasi si palesava come un suo obbligo, aveva l’onere di complicarle ulteriormente la vita.

“L’importante è che tu non dimentichi chi è dalla tua parte. Hai l’appoggio della famiglia Baskerville, e questo ti permetterà di affacciarti all’alta società a testa alta”

Aveva anche aggiunto succulenti dettagli sull’arte dello spettegolare, lei, sperando di indottrinarla nella via della sopravvivenza, ma Oz aveva elegantemente evitato la sua lingua tagliente vantando i doveri che la volevano nelle sue stanze a imbrigliare i suoi pochi averi.

Perché sì, era finalmente arrivato il giorno che ella aveva più temuto, quello nel quale non aveva più offerto giustificazioni alla sua presenza nella dimora dei Baskerville, quello nel quale l’algida figura del padre andava ad attenderla per conoscerla, e dove le uniche figure che aveva riconosciuto come amiche – ad eccezione della sorella – sarebbero state a leghe di distanza troppo considerevoli per venirle incontro.

Lo aveva accettato, lei, ne era venuta a patti, e ingoiava groppi di saliva colmi d’ansia cercando di palesare una sicurezza che non possedeva - ma il suo martirio divenne veritiero e consapevole quando la carrozza decise di lasciarla nella dimora che avrebbe imparato a chiamare sua e a giungerle incontro furono le domestiche del palazzo che recava inciso lo stemma di famiglia.

Oz aveva conosciuto il disprezzo, ma in un mondo di pari, dove l’unica mano che le veniva mossa era quella della superstizione, ella aveva aggirato i  numerosi ostacoli ostentando sicurezza e cercando, nel sorriso della madre, la ragione per vedere la menzogna nelle loro affermazioni. Ma dove avrebbe trovato, ella, il suo coraggio? Non c’erano parole, nella figura austera di Miss Kate, ma la derisione che la volevano come semplice figlia di una sarta, e per giunta riconosciuta solo in tarda età dal padre, vi si leggevano negli occhi spenti come coltellate pronte a ferire il suo orgoglio e a squarciarlo. Le parole di miele che descrivevano la gioia comune nel conoscerla erano quasi ironiche, quando bagnate da quello sguardo, e sebbene quello delle serve che le venivano dietro non aveva tanta acredine nei suoi confronti, pure vi leggeva una natura non distante dal medesimo pensiero.

Era giunta nella sua dimora, Oz della famiglia Vessalius. Ma quella casa stava per diventare il suo inferno.



In quanto famiglia di Visconti, la dimora dei Vessalius non distava molto dalla semplicità nel quale gli eredi dei Baskerville avevano deciso di soggiornare. Era certamente il lusso più sfrenato, per una come Oz, però c’era sempre un qualcosa di troppo vacuo, di semplice, che se nella dimora dei Baskerville si era esemplificato nei vuoti cromati, lì si identificava nel tentativo pallido e mal riuscito di imitare un’eleganza altrove esibita con più coerenza. L’oro avrebbe abbagliato, se nella sua falsità non avesse mostrato alcune incongruenze, e se le tende di seta avevano il compito di parlare di orientali paradisi di ricchezza, i quadri che avevano iniziato il loro processo di deperimento avevano smascherato ciò che c’era veramente da vedere, quello che nemmeno i numerosi tappeti persiani, i divani di broccato e gli intarsi di mogano del ricco – apparente – mobilio avevano potuto ingannare.

La stanza che le era stata riservata mostrava gli stessi sintomi. Il letto a baldacchino nemmeno si avvicinava, alla bellezza lasciata dai Baskerville, e nemmeno il comune cotone era stato sprecato per concederle un lieto soggiorno. Forse era stata deliberata la decisione di accoglierla in un semplice che ricordasse le sue origini, ma tentare di ingannarla su una lana mal trattata dimostrava, a detta della giovane, l’ignoranza nel quale vergavano le loro menti, che nemmeno erano consapevoli di quello che lei era un tempo, e che di certo le avrebbe dovute comunque mettere più in allarme. Era oro, quello che le luccicava tra le mani, ma nemmeno il lavorio del sole poteva aiutare a mostrare con più ragionevolezza lo scadente lavoro che aveva tra le sue mani. E Oz temette anche il ricevere di qualche malanno, visto quanto fredda e spoglia era la stanza nella quale avevano deciso di lasciarla, e glielo diceva l’umido che intravedeva agli angoli delle bianche mura, così come le finestre libere dall’ingombro delle tende. Il tappeto liso ai suoi piedi era forse l’oggetto più prezioso che poteva vantare di possedere, perché il grande cassettone nel quale avrebbe dovuto mettere i suoi abiti – quelli che sua sorella aveva promesso di farle trovare una volta arrivata, e che invece ancora si facevano attendere – appariva errabondo alla vista, nel suo essere colmo di graffi e di segni che il tempo, inclemente, aveva lasciato sul suo dorso.

“Cos’è, temono forse che mi metta a rubare a casa mia?”

E, pure a dirselo, nemmeno lei riuscì a convincersi che quella doveva essere davvero il posto nel quale avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni.

 

Non era, la sua, una caparbietà in grado di smuoversi alla prima difficoltà; ad Ada, col suo sorriso più sincero, si dichiarò soddisfatta della sua nuova sistemazione, e affermando di non rimpiangere quella che aveva lasciato ai Baskerville, si disse quasi pentita di aver impiegato tanto a lasciare la sua precedente sistemazione per cercare quella definitiva, concludendo su quanto assurde e infondate fossero state le sue paure circa quel drastico cambiamento.

Ada ne sembrò lieta, o quantomeno si ritenne soddisfatta di quella reazione. Forse, si disse Oz, il loro era un mentire congiunto; aveva compreso, della sorella, quanto ella sapesse individuare il falso nelle parole affermate con sicurezza – una dote che, se non era ereditaria, almeno potevano vantare di condividere dai doni che il destino aveva loro elargito – e sapeva che, a tali circostanze, ella agisse fingendo fatua ingenuità, programmando il suo agire nel seguito delle sue mosse. O forse, più semplicemente, aspettava quello che era il momento propizio per esternare le sue indecisioni e i suoi dubbi.

Quanto meno, alla giovane Oz fu privato l’onere di conoscere Zai Vessalius. L’uomo, affermò la sorella, era ancora in viaggio per un importante affare, e il suo ritorno sembrava addirittura non avere una precisa data di definizione. All’allarmarsi di Oz, che quasi aveva da chiedersi sotto quale tutela sarebbero cresciute – o almeno a chi poter chiedere il necessario di cui sfamarsi – la giovane rispose tranquillamente che, della gestione del maniero come delle numerose aziende della famiglia, la responsabilità era tutta nelle mani di un loro zio, un tale di nome Oscar, che non aveva potuto conoscere solo per alcuni problemi di chissà quale natura in una lontana zona di Leveille, a cui nemmeno Ada sapeva dare un nome e a cui non aveva prestato la dovuta importanza. La tranquillizzò sulla sua presenza in serata, magari in loro compagnia nella cena che stava per sopraggiungere, e raggiante aggiunse quanto egli fosse simpatico e a modo, affermando che sarebbero sicuramente andati d’accordo perché era, Oscar, un uomo che delle convenzioni faceva libero arbitrio, e prediligeva le persone secondo criteri che della nobiltà non tenevano minimamente conto. Inutile fu aggiungere che Oz, mentendo per l’ennesima volta, si dichiarò assolutamente concorde e che certamente sarebbe stata onorata di conoscerlo.

Non negò, Oz, di provare ripudio per se stessa, al profilarsi di così tante bugie. Non che ella non avesse mai avuto modo di dirle – ai  medici di sua madre ne aveva dette anche troppe – solo non amava mentire a chi amava, e certamente non a colei che rappresentava l’unica ancora alla quale aveva deciso di aggrapparsi.



La notte venne senza che nessuno, ad eccezione dei domestici di turno, venisse a interrompere il loro allegro sodalizio. Lo zio, e tanto meno il padre, non furono altro che un argomento di cui sparlare, e per tutta la sera Ada fu quello che Oz avrebbe descritto come un vulcano, perché nella sua allegria, forse invogliata dal vino che aveva sorseggiato, tratteneva a stento il silenzio per metterla sull’attenti circa quel distinto signore dongiovanni o quella civetta di nobildonna che aspettava il momento giusto per marcare quanto privi di dignità fossero i gesti delle sue vittime. Oz, che non faceva carenza nel mostrarsi interessata ad una narrazione comunque brillante e affascinante – un mondo del tutto nuovo dischiuso nelle parole divertite della sorella, che aspettava la sua approvazione in una risata o in un commento salace tipico delle pettegole aristocratiche su cui gettavano ombre – non ebbe la facoltà di memorizzare tutti quei nomi, e quando lo ammise con parole imbarazzate – perché comunque non vedeva, in quel segreto, qualcosa che potesse davvero essere taciuto o che avrebbe suscitato dei vantaggi nel farlo – l’altra le rispose con una risata, affermando che avevano, loro, tutto il tempo di un mondo mondano e noioso per divertirsi alle spalle di persone sgradevoli, le cui circostanze per accostarli a volti e voci non sarebbero purtroppo venuti a mancare. Da come lo dipingeva, quel quadro, Ada raffigurò lei e la sorella su una nave prossima allo colare a picco, con le acque a figura degli uomini di sangue blu e le burrasche gli eventuali scandali da evitare. Era una nave che doveva, nonostante l’impossibile sicurezza del legno, tornare alle sicure rive della loro vita domestica, e affermava che solo col suo aiuto, con quello della sorella che già sentiva di amare, ella avrebbe ottenuto finalmente dei risultati.

Erano, dunque, loro due contro il mondo. Non seppe se le intenzioni di Ada erano studiate o comunque spontanee, ma era evidente quanto ella ci tenesse a dimostrarsi sua amica e sempre a lei vicina. Poteva essere un luogo infido, quello nel quale aveva deciso di portarla, ma la sua mano sarebbe stata sempre lì dove poteva raggiungerla, e la sua voce non si sarebbe mai persa nel vento e nello spazio.

Fu ciò che le disse poco prima di lasciarla alle sue stanze, fu ciò che ella continuò a ripetere nella sua mente, e fu tutto ciò che poté promettere ad una creatura infelice, che al lutto della madre doveva aggiungere quello della sua personalità.



Oz spense il lume, sebbene quello fosse l’unica fonte di calore che la stanza avesse, e tremante decise di lasciarsi alle ruvide coperte che aveva a disposizione, pregando che il freddo dicembrino non le gelasse le membra al punto da renderle inamovibili gli arti già sofferenti. Il sangue sembrava volerla passare a fil di spada, nel suo tenerla in vita, e più volte ella dovette ravvivare la pelle rigida delle gambe, tanto tesa da farle male.

Andava chiedendosi quando avrebbe potuto addormentarsi, e si convinse di essere quasi entrata nel dormiveglia... quando udì una flebile melodia. Un canto di infinita dolcezza, spezzato dai venti gelidi che sconquassavano le vetrate della stanza, e che pure riuscivano a raggiungerla quasi fosse un richiamo delle sirene, pronto a sconfiggere le avversità di un clima nivale per venirle incontro e strapparla alla sua coscienza.

E Oz si convinse che, della sua persona, non doveva davvero essere rimasto più nulla, perché non sentì nessun obiezione – benché ve ne fossero molte da fare, e tutte talmente evidenti che si poteva benissimo evitare di elencarle – all’inseguimento della natura di quel dolce suono.

Tutto ciò ella lo rivide nelle dinamiche di un sogno.

La neve disparve, perché l’erba rigogliosa abbisognò dei raggi di un astro gentile e splendente. Il verde del fogliame feriva le iridi colme del loro stesso colore, e nel loro muoversi lieve, scosse da una carezzevole brezza che le solleticava il viso, la divertivano per il rincorrere quella stessa melodia che ella seguiva con spassionato interesse, senza indugiare sulla fretta, eppure avvertendo in tale missione l’urgenza che non vi fosse altro. Rideva, lei, correndo con gaudio nella primaverile rinascita, e nel suo cuore fu certa che, proseguendo nella direzione indicata dai salici, coordinati nell’indicare la via da seguire, ella avrebbe rivisto lui... non sapeva quale nome attribuire, a questo individuo che già sentiva di scorgere nell’albagia di un sole ora libero dalle fronde ingombre di profumate essenze, però lo vide come l’artefice della magia a cui stava assistendo, e lo rincorse perché le concedesse le chiavi di una gioia ulteriore, perché potesse concretizzare, con un egli senza volto e senza spirito, il sogno di una notte interrotta con dolore, spentasi nel sorriso triste dei rassegnati...



“Si può sapere cosa diavolo stai facendo!?”

Falangi di dura prepotenza si ancorarono al suo avambraccio e trascinarono via lei dal selciato e da quel lui ancora immaginario. E allora ritornò la neve, il gelo, la sensazione di un aere irrespirabile per la sua artica temperatura. Il dolore che accompagno il nuovo reale fu tale da farla sobbalzare.

Alla sua destra, padrone di quella violenza che l’aveva sottratta dal mondo onirico, un uomo possente, dallo sguardo intenso e brillante in quelle iridi smeraldo a lei tanto simili, la strattonava quasi con ira, la voce burbera e austera che tentava di richiamare la sua attenzione con parole che però lei, almeno inizialmente, non ebbe potere di comprendere.

Fissava lui, il mento volitivo che si muoveva concitatamente, la pelle arrossata delle guancie – il freddo che cedeva il posto ad una furia tanto evidente quanto minacciosa – le spalle larghe che ancora strattonavano l’esile braccio di lei, la camicia esile che risultava inadeguata all’esterno bianco tanto quanto la sua vestaglia di seta.

Fu nel tentativo di un nuovo passo che ella avvertì l’irruenza – concreta e tattile – di lui. Fu la percezione di una pelle, quella delle gambe e dei piedi, che stentava a reggerla in piedi, che tendeva se stessa in un limite insopportabile al movimento, che lasciava ai primi tremolii discreti il monito di un probabile cedimento prossimo allo svolgersi. Solo in quel frangente ella tornò totalmente in se, e solo allora scoprì che quell’uomo, che aveva visto minaccioso nella sua aggressività, mostrava malamente una preoccupazione che sfociava nell’irrazionale.

“Potevi morire, te ne rendi conto? Cosa sarebbe accaduto, se non ti avessi visto dalla finestra?”

Avrebbe voluto chiedere, a quell’essere tanto indiscreto, chi fosse e con quale ardire le parlava quasi la conoscesse da sempre. Le ricordava Gilbert, per quel suo prendersi spazi non concessi, e libertà che certamente non aveva mai dato prova di lasciare ad altri, e nello stesso esito avrebbe voluto condurre il discorso, quando affermò il suo orgoglio di figlia nel guadare le stesse acque malandate che la madre aveva già tracciato per la sua sopravvivenza. Ma la voce venne a mancarle, per quel suo fremere che sembrò adesso avvolgerla, e ciò che la sorreggeva, una forza di volontà di cui ignorava perfino la fonte, si chiamava miracolo per l’operare un qualcosa che ella stessa credeva impossibile.

“Puoi ancora camminare?”

La ragazza annuì, benché le ginocchia avessero a dire il loro dissenso con scricchiolii improvvisi. Aggrappata adesso a quella stessa mano che prima l’aveva tanto spaventata, tentò di articolare i primi passi, scoprendosi capace di comandare quel corpo per un tempo sufficiente il rientro nella sua dimora.

“Chiamerò subito un medico, dobbiamo prevenire un qualsiasi malanno” diceva l’uomo, e le faceva strada prestandole quel braccio nerboruto su cui lei, per un obbligo che non avrebbe mai ammesso a voce, si doveva aggrappare “Spero solo che non sia nulla di grave”

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Capitolo 10
*** Neuvième Score - All'angelo venne regalato un sorriso ***


Oz Vessalius avrebbe volentieri imitato l’agonia delle bambole, di quella porcellana che franava al suolo nella consapevolezza della sua morte, se il farlo avrebbe equivalso al togliersi di torno quella stretta e serrata sorveglianza. Lei, che un tempo abbracciava la libertà come sua unica consolazione, che sapeva ridere di tutte le sue preoccupazioni per la semplice idea che, in qualsiasi frangente da lei desiderato, avrebbe percorso allegra i verdeggianti campi di Leveille senza alcuna nuvola di tedio a imporle un controllo mediato dei suoi atteggiamenti, adesso viveva nell’abbandono di un sonno vaporoso a lambirle i sensi fino a rendere opachi i suoi confini, uggiosi al punto da rendere meno luminosa la presenza di colei che, pur nella sua genuina bontà, adesso rivestiva il ruolo di carceriera e, nella coscienza di esserlo, non la lasciava a se stessa nemmeno per un minuto e singolo frangente. Lei, che per quella sorella aveva lanciato per aria tutte le sue idee e le sue aspirazioni, sentì di essere ben presto sull’orlo di una crisi nervosa dal grado di pericolosità incalcolabile, di quelle che avrebbero ben presto minato un rapporto così solidale e sereno.

Il medico, viceré di tutta la sua disperante situazione, aveva lasciato alla giovane poche speranze di vita. Quella che, per lei, non andava catalogata in nessun’altro dannato contesto se non in quello di un’infreddatura da niente, vedeva la minaccia di una orribile febbre a gravare sulla sua esistenza, minante al punto da fendere già diversi anni della sua vecchiaia, e tanto devastante da comportare la vigilanza costante che, se non uccideva lei, mandava certamente ai martiri la sua povera pazienza. E Ada, che stupida non era, si muoveva nel bilico di una decisione non sua, che però le dava solo danno e pensiero.

Per i lunghi silenzi regalati, Oz tentava la mediazione di un sorriso anche quando le labbra minacciavano di prorompere in lamentele certamente sgradite; non aveva colpa, lei, della testardaggine di un vecchiaccio dalla incolta barba, che mandando in malora la splendida descrizione fornitagli dalla nipote, cercava di dar peggior mostra di se bistrattandola in quell’angusto locale nel quale l’aveva rinchiusa.

Che chiamava angusto solo perché vi ci doveva trascorrere più tempo di quello da lei voluto. Nel vero, era di una beltà che avrebbe lasciato in lacrime la defunta madre, amante del lusso che non aveva mai potuto possedere. L’oro splendeva negli intarsi di un’antica e nobile mobilia, riecheggiante negli aloni delle rose che Ada tanto amava e che si rispecchiava nella morbida seta dei suoi guanciali. Di un verde smeraldo erano le tende di broccato che la tenevano al riparo dal vento – e che inacidivano il ricordo del sole da lei mal visto negli ultimi giorni – così come di smeraldo erano le numerose gemme che decoravano il letto a baldacchino di lei, vogliosa di vederli splendere anche nell’opaca luce delle torce, e sempre delusa dalla vivida realtà che mai sapeva specchiarsi nei sogni.

Che il male si celasse nell’azzardo della scorsa notte, era qualcosa di tanto noto da non meritare menzione. A detta del medico, quel gran sapiente che tutti ascoltavano come il messia appena risorto, il sonnambulismo di cui era affetta si era aggravata nel gelo di metà dicembre e nella stolta avventatezza del signor Oscar, tanto solerte nel venirla a prendere quanto agile nel non ricordarsi l’unica avvertenza in casi di simile disturbo. Secondo l’uomo canuto che l’aveva visitata, quelle concause inanellate sul suo male erano state devastanti, per il suo fragile corpo, e ne doveva accettare le conseguenze assumendo tutto ciò che lui le commissionava. Ordini che Oscar, colpevole di essere partecipe di simile condizione, aveva seguito senza dar menzione di un pensiero proprio che ascoltasse i suoi dubbi. E, infine, aveva certamente aggravato le condizioni della nipote acquisita... ignorando totalmente i suoi stringenti limiti che le causavano accessi di tosse sempre puntualmente equivocati.

Se solo il suo corpo non fosse stato tanto traditore, nel concordare con una diagnosi tanto strampalata... Oz sapeva cosa fosse il veleno febbrile che risucchiava, lentamente e crudelmente, tutto ciò che avrebbe dovuto incoraggiare il corpo a muoversi e a reagire. Il fiato della morte aveva numerosamente raggelato la nuca di lei, sempre pronta a prendersi un malanno ad ogni caduta di stagione, e sempre si era ripresa perché il desiderio di vivere, condito da sogni e speranze un tempo tanto vividi quanto rigogliosi, le dava quel coraggio necessario a guardare avanti senza lasciare allo scoramento il compito di lasciar proseguire la malattia.

In quel letto, pure con tutto il desiderio di possedere un paio d’ali che le donassero tutto ciò a cui aspirava, pure non aveva il sentore di lasciarci la pelle da un momento all’altro. La pelle non era rigida di brividi gelidi, gli occhi non trasognavano di cose oniriche, le labbra non anelavano ad un liquido prezioso quanto dannoso per quei frangenti. Non sentiva quel desiderio di ricoprirsi di braci per un calore che non sapeva trovare,  e le sue notti avevano sempre il suo completo compimento con un sonno ristoratore che, tuttavia, diveniva insoddisfacente nell’immobilità incapace di darle qualcosa per cui stancarsi.

In altre parole, lei era serenamente sana. Con una tosse infingarda, con un respiro più stringente nel lasciar le sue labbra, con un lieve alone di stanchezza – per lei accentuato da un fisico totalmente ingabbiato in coltri troppo comode per garantire la sua solita gaiezza spigliata -  ma pur sempre in salute. Era l’aria pulita di prima mattina, quello che l’avrebbe totalmente rimessa in sesto – magari con indosso abiti abbastanza decenti da non lasciarla scoperta al diretto contatto con la neve caduta nelle recenti notti – o magari delle passeggiate che restituissero al suo corpo la tonicità perduta, ma riferirlo sembrava divenuta la nuova missione millenaria che il secolo appena scoccato prometteva a Leveille. Non lo avrebbe definito ottuso, Oscar, solo perché farlo avrebbe significato denigrare chi poteva davvero ascriversi sotto questa nomea. Secondo Ada – sicuramente condizionata dal grande amore che provava per lui – tutto ciò che ella era costretta a subire non era che una brutale manifestazione di affetto, ma Oz, in alternativa, avrebbe preferito la totale estraneità della sua persona, piuttosto che un simile e inefficace attaccamento.

Sprecar fiato – con ambedue i suoi familiari – sembrava totalmente privo di senso. Così come privo di senso appariva il sogno che l’aveva condannata ad una simile inattività.

L’uomo, il lui che le aveva chiesto di raggiungerla... era un uomo senza volto, una voce senza suono, una mano senza contorno. Eppure, per qualche incognita ragione, ella ne desiderava l’incontro. Percepiva un vago senso di vissuto, nello scenario che si era srotolato dinanzi ai suoi occhi, come di una scena già passatale innanzi nella forma di una foto sbiadita dal tempo, ma pure con simile sentimento, pure non le era riuscito di spiegarsi ne il luogo vissuto né il nome del suo misterioso cavaliere. E, se in qualsiasi altro contesto venereo lo avrebbe denunciato come il principale artefice della sua condizione di reclusa, in quel frangente sentiva di non riuscire a coltivare altro interesse, nei suoi confronti, se non la curiosità. Sfruttava il tempo obbligato con la sorella per ricucire l’eventuale ricordo mancato – e, invero, il tempo trascorreva anche in effettive dimostrazioni di cucito, visto quanto la sorella era negata in simile arte – ma le numerose costruzioni promosse da entrambe si erano sempre viste distruggere come castelli di carta prossimi al tracollo di un vento scosceso su di loro con ferocia.



“Mi spiace disturbare... è permesso?”

Il trascorrere del tempo, racchiusa come un uccellino in gabbia tra mura venutele a noia, era divenuto ancor più sfuggente che nei giorni trascorsi a Baskerville Manor. Quella che le venne incontro, rude e graffiante in una severità che sembrava amare, tanto da esibirla come suo biglietto di invito, le apparve così lontana, nella sua dimensione spaziale, da sembrarle quasi irriconoscibile. Quasi, invero; quando l’elegante figura di Gilbert della famiglia Baskerville fece il suo ingresso, lei aveva già l’ardire di aspettarlo con un aspetto quasi compiaciuto. Di certo, nonostante il loro fosse un legame abbastanza sfilacciato nel suo intessere, pure vantava una solidità intessuta di dolore. La vicenda che li aveva visti come vittima e salvatore non aveva cancellato totalmente quella primigenia acredine nata da diverse angolazioni di pensiero sulla vita, ma ne aveva smussato di molto le loro reciproche avversioni. Dal canto di Oz, poi, l’averlo lì dinanzi, tanto innovativo nel quotidiano grigiore, acuiva il gradevole brivido che spinse le labbra ad arcuarsi in uno spontaneo sorriso.

“Siete molto pallida, Oz. Le vostre condizioni sono molto gravi?”

All’ardire compiaciuto sostituì quello stupito, quando quella domanda si vide accompagnata da un viso tanto greve di compianta preoccupazione. Le iridi dorate, tanto sottili da essere inafferrabili, inespugnabili mura del loro padrone... la scrutavano al pari di un oggetto a ridosso di un muricciolo esposto solo dinanzi all’oblio, ed ella si sentì esattamente come quel cristallo che attendeva lo scendere violento del vento per decidere della sua sorte.

E, al compiangere di simile destino, l’avvisaglia di un malessere – tutto riconducibile ad una sua linea di pensiero travisata – le fece desistere dal vedere come lieta quella nuova visita.

Perché, ancora una volta, qualcuno le avrebbe ricordato il suo stato di salute, le avrebbe premurato di aver cura di se, e le avrebbe imposto un’attenzione che ella aveva compreso, solo in quei minuti istanti, di non riuscire davvero a sopportare. Non comprese il lume di quel discorso avente lei come soggetto e narratore, privato e dunque totalmente suo, e meno ancora ne afferrò le origini dal quale si dipanava. Comprese soltanto che, all’essere tanto esposta all’altrui commossa indulgenza, avrebbe grandemente preferito restare nella stanza dai gelidi spifferi, a soffrire in silenzio un male che nemmeno la graffiava come nella sua precedente povertà.

Oscar Vessalius, in fondo, aveva lesinato le visite soltanto per mostrarsi come il carnefice del suo supplizio; Ada sembrava aver il semplice ruolo di ancella, che di medico supervisore, e assumeva l’aspetto di un’infermiera solo quando i capricci di lei la spingevano lontano dalle calde lenzuola, magari a cercare un refolo di vento che le ricordasse l’esistenza di un mondo ulteriore alle quattro mura domestiche. Ma Gilbert Baskerville... lui era quello dalla lingua mordace, che aveva tramutato la schiettezza in una lama per colpo ferire, e che non concedeva udienza quando diveniva l’anima buona che salvava la di lei misera esistenza. Gilbert Baskerville doveva essere colui che, entrato nella sua stanza, avrebbe tirato già dal cielo tutti i suoi predecessori per farle comprendere quanto cretina fosse, e come ingiustificabile fosse la sua follia, nemmeno a onta del suo attacco di sonnambula. Non era qualcosa da Gilbert, esporsi alla grazia di un sorriso contenuto, o lasciar fiorire una domanda di crescente pena nei confronti del suo male. Non era qualcosa che avrebbe dovuto aspettarsi, ed era un qualcosa che non voleva. Lo avrebbe accettato dai suoi parenti, che nemmeno gli facevano pesare la degenza – tanto meno quello che lei doveva chiamare zio, che alternava attacchi di isteria a passi concitati nel quale andava recriminandosi quanto incosciente fosse stato a non riconoscere i suoi sintomi – o che non le davano quella patina di imbarazzante cura alle cose che le elargivano... ma quella vicinanza, quello sguardo, le ricordavano chi ella era, cosa rappresentava per gli altri; le dava a pensare che, al suo immaginarla, ella ricordava la fragilità dei cristalli sospesi nel vuoto, che la sua venuta era ricondotta alla impellente necessità di saperla ancora integra, capace di rivolgersi nei suoi confronti con la coscienza di chi egli fosse, e che gli promettesse di avere maggiori riguardi di se stessa, al fine di una pronta guarigione.

Sapersi al centro dei suoi pensieri, cuore pulsante di una viva preoccupazione... fu quella la cagione di un dolore sordo che non sapeva spiegarsi. Un dolore che le fece provare rabbia nei confronti di se stessa, e che la spinse a rinnovare il sorriso con maggiore ardimento.

“Temo che, se sarò costretta a rimanere in questo posto, mi vedrete con un colorito che nulla avrà da invidiare al candore della lana. Vi prego, potete dire a questa mia povera sorella che la Oz qui presente non tirerà le cuoia solo per un’infreddatura?”

Desiderò vederlo ridere, spegnere quel mare di interrogativi che lo sguardo ancora le rivolgeva, destreggiarsi da quell’abbraccio metaforico per rinvenire un sorriso neutro, sereno, magari angustiato – forse per l’inutilità della visita – ma certamente dal cuore più leggero. E rise maggiormente della sua stessa battuta, Oz, perché in cuor suo voleva dar prova di essere in ottima salute.

“Dovresti essere lieta, Oz, che io mi preoccupi in questo modo per te. Perché fai tanto la scontrosa?”
Evidentemente, Ada non aveva preso bene simile commento. Certamente, doveva ritenerlo degradante al suo ruolo di ancella tuttofare, e anche per questo, Oz tentò di provvedere al meglio.

“Io sarei lieta di concederti la libertà da questo oneroso obbligo, amica mia. A restare in questa stanza, senza un grammo della luce del sole, finirai per ammalarti esattamente come me. Vostro zio è un’egoista, a schiavizzarvi in questo modo”

“Non lo faccio perché me lo ha chiesto lui... io voglio solo che stiate bene”
“E io sto bene... ma peggiorerò, se continueremo a respirare quest’aria di chiuso!”
Un colpo di tosse e il nascente battibecco cessò di esistere. Gilbert, nelle mani un involucro di carta bianca, riottenne la loro attenzione e lo sguardo di entrambe.

Ada intervenne “Scusateci, nobile Baskerville, per questa scene decisamente discutibile”

“L’essere così irritate, temo, è l’ennesima conseguenza di questa reclusione forzata”

Prima che la sorella potesse nuovamente richiamarla all’ordine – o almeno ad una qualunque norma civile che non comportasse l’imbarazzo per colui che non doveva essere partecipe di simile quotidianità – le mani della degente furono colmate da ciò che prima apparteneva al loro ospite, e lo sguardo – che cercava forse di indurre il dovuto silenzio – incatenò le sue iridi di smeraldo ad un broncio scontento che pretendeva il termine di simile bega.

“Da parte di Vincent” disse soltanto.

Oz non aveva mai goduto del piacere delle sorprese. Per lei, l’inaspettato era solo sinonimo di pericolo, ed equivaleva alle visite impreviste dei loro creditori, o dei medici, o di chi pretendeva indietro la caparra per un vestito che non era di suo gusto. Era dunque nel candore delle cose certe, lei, che preferiva restare, in quelle dove l’orizzonte era facilmente perscrutabile e percorribile. Per questo, quasi involontariamente, si ritrovò a rabbrividire interiormente, quasi stringesse non un comune regalo, ma un involucro colmo di polvere da sparo in procinto di esplodere.

“Oz, non lo apri?” le chiese la sorella, distogliendola dalle sue elucubrazioni. Annuendo mestamente, obbedì alle sue aspettative e, lentamente, disciolse la scricchiolante carta che teneva celato ciò che aveva la rigidità del legno.

Oz trattenne il fiato. Lo fece per un istinto che le avrebbe suggerito di urlare, per invitare le lacrime a non uscire, per non dare al suo turbamento un volto nel quale rendersi evidenti. La serica setola della spazzola di legno d’acero sostava con pigrizia nella sua mano destra, l’incisione di una rosa come unica decorazione dell’accessorio femminile. Un accessorio terribilmente familiare.

Martha amava i capelli di Oz; lei, che fin da fanciulla aveva chiaramente espresso il desiderio di essere simile alla di lei madre, quasi avrebbe gettato la sua testa  nel carbone, pur di intessere nell’onice le mani che avrebbero accarezzato la sua testa, ma la donna le aveva sempre detto che, se mai qualcuno le avesse chiesto cosa avesse di prezioso, lei avrebbe vantato l’oro che la sua adorata bambina lasciava schioccare al vento nelle sue corse sfrenate. E, quando Oz vide nelle sue parole l’armonia della verità, cominciò a vedersi più graziosa soltanto perché la chioma di puro oro aveva le fattezze corrette per scintillare alla luce delle candele. Iniziò a prendersene cura con i suoi pochi  mezzi, a preferirli liberi per lasciarli alla vista del mondo a loro indifferente, ad accarezzarli quando era sovrappensiero, a lasciarli scivolare sulle spalle per accertarsi della loro luminescenza. E fu al suo ottavo compleanno che Martha, per tentare di renderla ancora più felice, le aveva dato in dono quel piccolo pezzo di sontuosità. Non avevano risparmi da vantare, né la possibilità di spenderlo per simili chincaglierie, ma in quel semplice giorno, al calore di una singola candelina che aveva già esaudito i suoi desideri, si permisero il lusso di essere felici. E quel misero oggetto, in fondo, era davvero l’unica cosa che le sarebbe rimasta di sua madre. 

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Capitolo 11
*** Dixième Score - Colpito nel profondo, l'angelo cadde vittima di Flegias ***


Le parole di Gilbert apparvero lontani echi di una stanza magicamente tenuta segreta allo sguardo. Era cosciente di quanto descritto, della gravità della situazione, ma per ogni suo nuovo anelito di disperazione, Oz aveva uno sguardo maggiore da dedicare a quel piccolo pezzo di storia – della sua storia – per convincersi che, in fin dei conti, a desiderare di cambiare l’inevitabile si rischiava solo un maggior avvelenamento del proprio spirito.

Per questo rimase neutrale, o cercò di essere tale, quando il Baskerville la mise a parte del momento in cui il fratello minore di lui aveva deciso di cedergli quel prezioso ricordo, affermando che non vi trovava una ragione sufficiente  per essere il principale mittente di quello che si vedeva come un unico e insostituibile tesoro. Concisa, la sua narrazione proseguiva sui binari di un viaggio breve, di passi concitati in una casetta di legno, paglia e pietra ormai tristemente vuota, derubata dei suoi pochi averi e strappata fin dalle sue fondamenta nel gran caos che era stato risvegliato al fine di renderle schiave di una povertà ancora più cieca. Non avevano provato pietà, quei boriosi cittadini, a mettere sia lei che sua madre allo stello livello delle prostitute, affermando che il loro unico mestiere era stato sottratto alle case di piacere che avrebbero volentieri accolto la più giovane delle due; eppure, quando si trattava dell’illecito del furto, perpetrato sulle loro fini spalle e voluto da molte menti, allora la bontà caritatevole diveniva un ricordo del quale non bisognava farne cenno. Un disgusto che certamente non avrebbe mancato di sottolineare il giorno in cui avrebbe deciso di tornare nuovamente, pure solo in veste di ospite della sua stessa casa, bella degli abiti nuovi ricevuti e spietata nella direzione dei pazzi che avevano avuto la faccia tosta di banchettare sul suo cadavere e su quello della madre, senza nemmeno assicurarsi che entrambe fossero davvero morte.

Era una vendetta che avrebbe volentieri degustato, Oz... ma che meritava, almeno per quei minuti secondi, di essere accantonata.

Perché le parole che Gilbert sceglieva con maestria avevano avuto il pregio di ricondurla a quella notte, al gelo di una morte che aveva fatto loro visita senza bussare, che aveva preso quanto chiesto e aveva levato le tende prima che ella se ne rendesse cosciente, e che di fatto aveva nuovamente affermato se stessa come regina della notte.

Non conduceva mai lì i suoi pensieri, Oz, solo perché temeva che il senso di colpa, in altre circostanze, le avrebbe occluso le vie respiratorie condannandola ad un triste e disperato destino. Avvertiva il brivido che le scorreva lungo la pelle, quando ripensava a colei che gemeva nel suo letto, che forse chiamava a gran voce sua figlia, che forse chiedeva il suo intervento, il suo aiuto... forse solo la sua ultima visita, di modo che fosse il viso di lei l’ultima cosa da rimirare nel mondo dei vivi.

E invece aveva tirato le cuoia da sola, in una stanza gelida e piena di muffa, coperta di stracci e dimenticata da tutti coloro che non l’etichettavano come volgare meretrice.

Era l’equivalente di una ferita lasciata a imputridire, di cui si conosceva l’esistenza ma la si lasciava al suo posto, guardando l’infezione progredire e ripetendosi mentalmente che le cose, in fondo, dovevano andare esattamente in quella tragica e orrida maniera. Nella sua esistenza, una così funesta ricostruzione riusciva a succhiarle via la linfa vitale senza nemmeno avere l’onere di specchiarsi nelle sue iridi smeraldine.

Eppure, nonostante tutto questo, avvertiva, in quei secondi innaturalmente tristi, una patina di sospetto che ne raggelava maggiormente la pelle accaldata.

Perché, quella notte, Oz ricevette una visita. Perché ricordava di aver parlato con qualcuno, una voce maschile di zuccherosa gentilezza, che le offriva qualcosa in pegno delle sue umili scuse... era un bagliore sinistro che aveva fatto capolino proprio nel preannunciarsi di un nome che avrebbe quasi dimenticato, se non fosse stato per la tragicità dell’evento che glielo aveva inculcato nella mente.

Era un dubbio che sarebbe dovuto venirle prima, ma che in effetti non obbediva ad una natura che la voleva pronta all’azione e vigile ad ogni minaccia.

Non era un notturno animale, lei, di quelli che riusciva a captare ogni vibrazione anche a decine di chilometri di distanza, ma era abbastanza cosciente di avere un udito fine e di essere sempre stata al fianco della madre quando ella la chiamava nel fragore dei suoi spasmi cardiaci. Ella c’era, in tutte le sue volte passate, e avrebbe dovuto esserci anche lì, anche quella funesta notte, quella che si era poi tradotta nell’ultima trascorsa da Martha. E invece, per colpa di quella voce zuccherina, lei aveva totalmente ceduto il passo al sonno, rendendosi cosciente solo in tarda mattinata, quando il cadavere della di lei madre aveva già perso il suo calore e i suoi colori.

Era sfocato, quel ricordo, quasi il ricavarlo non era che il frutto di un insubordinazione imposta al suo stesso cervello. Immersa in una scala di grigi che non davano consistenza nemmeno al dettaglio delle sfumature, rammentava solo un rosso cremisi, un luccichio selvaggio che l’aveva tramortita ancor di più di quello che aveva ingurgitato.

The... doveva essere del the. O forse del caffè. Sì, era certamente quest’ultima la colpevole del suo martirio inutile. L’odore amaro che le aveva inebriato la gola prima dello spegnimento di ogni senso adesso risorgeva sibillino, quasi deridendola di aver impiegato così tanto tempo a ricostruire il quadro della situazione.

Un quadro che, se adeguatamente studiato, avrebbe rivelato come la semplice morte per malattia era in realtà...

“Oz, c’è qualcosa che non va?”
... omicidio.

Colui che aveva appena posto la domanda, che la fissava tanto impunemente, che sembrava perfino preoccupato per lei, era consapevole di questo? Era forse il principale responsabile di tutto ciò che aveva preso direzioni completamente imprevedibili nella sua tetra esistenza? O forse copriva soltanto chi aveva le mani macchiate di sangue?

Rosso. C’era del rosso nei suoi ricordi. Il colore che aveva sempre distinto la famiglia millenaria portatrice di sventura, gli Shinigami di ogni secolo. Era Vincent? Era Gilbert?

Certamente qualcuno che conosceva. Che l’aveva indotta ad abbassare la guardia, e a prendersi gioco della sua ingenuità.

“Temo di essermi persa nei miei ricordi, nobile Gilbert” rispose Oz, sorridendo gentilmente “Vi chiedo perdono per la mia mancata cortesia”

E ascoltò i suoi patetici dinieghi, mentre in cuor suo sentiva minacce senza perdono invaderle la gola e premere per aver utilizzo esclusivo della sua voce.

Perché ella, che aveva preso coscienza di quanto successo solo in quei frangenti, che solo in quei minuti preziosi aveva compreso cosa davvero le stava attorno, che avvertiva solo in quegli istanti il pericolo corso e che ancora pendeva sulla sua testa, non avrebbe più dato a simile peccato la possibilità di ricordarsi il suo  nome. Lei, che conosceva l’arte della menzogna abbastanza da saperla riprodurre e da saperla riconoscere, avrebbe eretto barriere di false verità per scavare maggiormente in coloro che avevano avuto l’ardire di sconvolgere il suo ordinario mondo fatto di piccole gioie. Creato attorno a piccoli ricordi fragili come quello che teneva stretto tra le mani, ma talmente preziosi da sfidare lo scintillio del diamante.

Oz, nel suo eco selvaggio di dolore, avrebbe mostrato tutta la sua carineria affinché i suoi nemici si convincessero di quanto ella fosse stupida, ignorante e felice. Dovevano vedere soltanto quello che lei avrebbe voluto, e avrebbe vinto nell’averli sciocchi e disarmati.



“Il nobile Gilbert è stato davvero gentile, non trovi?”

Ada accettava l’ordine di un refolo maggiore di vento senza nemmeno rendersi conto che colei che lo aveva impartito non dava più adito a quelle sciocchezze. Liberarsi, fuggire dalle dorati reti di quella gabbia, diveniva il futile divertimenti di chi altro non aveva da fare se non compiangere la madre in un luogo che non ricordasse costantemente il vuoto dei pensieri nel quale simile lutto aveva da riflettersi. La fiamma della determinazione che rendeva maggiormente lucidi la giada dei suoi occhi trapassavano il suo mondo non più come il limite che le veniva imposto, ma come lo scudo che gli era stato concesso per difendersi dai nuovi attacchi.

“Certamente. Ammetto che non mi aspettavo una sua visita, ma il dono che mi ha fatto è stato certamente gradito. Mi ha reso molto felice”

Ada era troppo pura, troppo ingenua per scorgere davvero la rete di inganni che le era appena saltata in viso. Forse – e in realtà quello era un dubbio che non avrebbe mai voluto sfiorare – vi era invischiato perfino quel vecchio barbuto sempre pronto con delle nuove lamentele, e magari aveva fatto perno sulla sua adorabile nipote comprendendo che lei sola avrebbe avuto la facoltà di smuoverla dalle sue ferree convinzioni.

La morte della madre, i ladri che l’aggredivano... le erano parse coincidenze, o concause perfettamente allineate. E forse, invece, erano solo il perfetto schema messo in atto da un marionettista.

Un marionettista che probabilmente aveva a che vedere proprio con Gilbert. Forse Vincent stesso.

Veniva da chiederselo, il perché un simile accostamento l’avesse scossa solo i quell’esatto istante, quasi avesse una preziosità che gli altri non avevano potere di vantare. Il nome di lui, della sua nobile famiglia e del suo altrettanto prezioso fratello erano saltati fuori in un numero di occasioni sfioranti il ridicolo, quando era stata loro ospite e si erasentiva accolta, ospitata, perfino curata delle piaghe dell’anima che minacciavano di ucciderla. Ada parlava di questo suo futuro sposo con occhi sognanti, le parole scandagliate dalla sua personale conoscenza per renderla meno profana di quanto la galanteria di lui l’avesse tanto colpita, al punto da chiamarsi innamorata senza però eccedere di gaia contentezza per non sfidare il destino e le convenzioni sociali. Nemmeno Lottie – e pregò tutti gli angeli, dalla bella Saint Brigitte al più anonimo essere alato, che lei non c’entrasse nulla – si era mai risparmiata di pronunciarlo, anche solo per lamentarsi dei suoi discutibili passatempi con le forbici e i pupazzi di pezza, trovati orrendamente sbrindellati in angoli del castello dove la sua furia non era che un ricordo da celare ad occhi altrui.

Vincent, benché totalmente assente, nella sua permanenza a Baskerville Manor, c’era stato. Lo aveva avvertito nei discorsi condotti, nei silenzi che lo riguardavano, nelle chiacchiere di corridoio che traeva dalle cameriere, perfino da un cadavere di peluche trovato da lei stessa in una delle sue rade passeggiate nel castello. Lo percepiva, il suo sguardo lo andava perfino a ricercare con letizia – perché era uno dei soggetti a cui mancavano i dovuti ringraziamenti per averla salvata – lo concepiva come esistente in un suo stesso universo... e in tutto quel tempo non aveva minimamente preso coscienza che egli le fosse ostile.

Oz arrivò alla conclusione, nelle sue meditazioni, che l’origine di quel suo flash subitaneo andasse ricercato al suo primo vero pensiero che collegava Vincent alla madre, un pezzo del puzzle che lei pensava di possedere ma che le mancava, e suggeriva a se stessa che l’accostarsi di due persone apparentemente tanto distanti fosse stato talmente irrazionale, per la sua mente, da renderlo impercettibile sia nell’ambito dei sospetti sia nella logica dei fatti. La nebbia che aveva avvolto i suoi ultimi istanti di figlia si riconduceva alla tranquillità con cui aveva accolto il nemico venutole a farle una visita cordiale, e nella sua stolta accondiscendenza la ragazza aveva totalmente dismesso i panni della guerriera per accettare le vesti di borghese senza pensiero e senza pena altra che non fosse la fatalità di un mondo che l’odiava.

Doveva chiederselo, Oz, se un tanto forsennato ragionare non la stesse conducendo alla follia. Per quel singolo frammento venutole nel palmo della mano proprio quando era meno richiesto, adesso si trovava a vedere le ombre come fioriere di nuove minacce, di verità non ancora svelate, di motivazioni che dovevano certamente illustrare l’efficienza di un omicidio avvenuto a sangue freddo e con tanto studiato calcolo.

Oz, che dubitava perfino di chi l’aveva accolta, di Gilbert... e costava ammetterlo, anche di Lottie, per la prima volta si chiese quale ragione ci fosse a spiegare il suo immediato allontanamento dalla sua dimora, quasi fosse un espediente vitale dal quale non doveva sottrarsi. Per quale fine ultimo lei, che non aveva nulla a che spartire con il mondo dei nobili, ci era stata trascinata di piedi senza nemmeno avere la forza di protestare.

Aveva quasi subito violenza, Oz, ma il dover vivere nella costante paura che ogni cosa concessale fosse in realtà la trappola finemente studiata da menti superiori logorò la sua anima, la sua pazienza e il suo pensiero fino a renderla nuovamente sorda alle parole della sorella.

Un bussare scontroso pose fine all’ennesimo ricapitolare dei suoi pensieri, la logica nuovamente persa in una matassa che aveva perso il suo inizio e non lasciava scorgere la sua fine.

“Gil mi ha detto che ti ha restituito... cara, come mai sei così pallida?”
Oz trattenne l’impulso di fissarlo in tralice, studiarlo come la pedina che doveva essere, o come il burattinaio che saldava al meglio i fili delle sue marionette. Focalizzò la sua mente nel ricordo che aveva di colui che si ostinava a non chiamare zio sebbene pretendesse soltanto quello, e soffocò il sospetto in uno sbadiglio che suggerisse stanchezza.

“Perdonatemi, nobile Oscar... non credo di sentirmi molto bene. Credo che le notizie riportatemi dal nobile Baskerville mi abbiano... destabilizzata”

Lui si permise di fare quello che Oz tentava di dissimulare, scandagliando la sua persona alla ricerca delle dovute bugie. E, purtroppo per lui, quanto detto dalla nipote assomigliava quanto più possibile al vero che le affannava il cuore.

“Forse hai bisogno di ulteriore riposo... Ada, lasciamo tua sorella al suo riposo pomeridiano”

La lasciarono così, sola nel suo mare di scheletri, seduta in modo composto a scegliersi chi meritava di primeggiare nel suo elenco di assassini, e la mente ora lucida, ora libera di assumere le forme dell’odio, segnavano Vincent Baskerville come l’uomo che le aveva strappato la felicità. Restava da capire il perché, e chi coinvolgeva la sua deliberata decisione di morte.

Per la prima volta, nei suoi sedici anni, Oz della famiglia Vessalius si concesse il benessere dell’odio, e il cipiglio malvagio che mosse il suo viso spaventò perfino le ombre di un sole prossimo a scomparire dietro le sue nubi.

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Capitolo 12
*** Onzième Score - Non conobbe più la paura, l'angelo, ma solo la vendetta ***


Della musica, Elliot Nightray amava la quiete che le note realizzavano nella loro magistrale movenza. La segreta chiave alla sua anima inquieta, alla burrasca che agitava il suo petto, al mondo che sembrava sempre a lui inadatto in un muoversi discreto verso valori che non sapeva riconoscere. La amava perché, nell’angolo in cui lo sapeva rilegare con discrezione, era capace di renderlo dimentico di ciò angustiava i suoi pensieri mai sereni, quel lato di lui incapace di essere positivo alle vicissitudini della vita; fermava lo sguardo di zaffiro dal cercare ciò che doveva essere criticato, ciò che lo avrebbe fatto inalberare, quello che lo avrebbe afflitto maggiormente. Viveva per essere parte di una società che guardava con diffidenza, ma che meditava di poterla cambiare semplicemente con la sua influenza nobile; era però in quei momenti di scoramento, quelli che lo vedevano disperato della sua stessa iniziativa, che cercava la musica, un piano in grado di saperla riprodurre e uno spartito capace di ingabbiare la sua mente al solo dominio delle partiture. Lo aveva fatto anche quella volta, lì dove aveva scorto l’ennesimo colpo preparato dal di lui padre alla prossima vittima ignara perfino della trappola nel quale sarebbe successivamente incappato. Il piano era lì, e la tastiera disponibile alla sua sete di svago; ed erano quei momenti più inquieti che vedevano il desiderio di spendersi in quei brani che aveva la facoltà di riconoscere senza alcun registro a chiamare il suo sguardo altrove delle cromie del nero e del bianco, le note a riprodursi su un pentagramma mentale e la maestria a non renderlo nemmeno conscio di saperlo leggere.

L’aria si interruppe al contatto col reale, le mani a sospendersi nel vuoto e l’occhio a cercare la melodia bellissima che aveva accompagnato le sue ultime note. Meravigliosa perché era il canto di una sirena; limpida perché la voce ricordava la cristallinità dei ruscelli che lentamente proseguivano nei loro sentieri senza l’avvertirsi del tempo e della fisicità del mondo; soave perché, catturando tutto del mondo, lo sfidava nella tiepida brezze di un sospiro. Enigmatica perché ritrovò, alle sue spalle, solo la figura sorniona della sua futura moglie, curiosa perché lei, che tutto era fuorché conosciuta, non avrebbe mai arguito le note ascoltandole per la prima volta, sospetta perché, ignara di averlo interrotto, avanzava lieta nella stanza senza staccargli gli occhi di dosso. Il verde che gli rivolgeva aveva perso ogni sfavillio di lucentezza, non denunciava né la prevedibile rabbia con cui l’aveva lasciata né il divertimento per averlo scorto in un suo momento di debolezza.
E decise, lui, che avrebbe seguito il suo gioco solo in parte, solo nell’accondiscendenza della sua presenza in stanze che non le erano comunque precluse, ma soltanto nella ragione di un suo tornaconto personale, e solo per scorgere davvero cosa avesse in mente vendendo ogni sua sensibilità dell’animo a quel diavolo interiore che la stava divorando dall’interno. Perché, Elliot se ne avvide, l’artigliare inconsulto delle mani sul tessuto pregiato della veste e la pelle diafana tesa del suo stesso nervosismo minacciavano domande della cui insidia intuiva solo lo scavare nell’anima che procuravano a chi doveva porle.
Era lui il nobile che per primo si era sentito raggirato dalla sua persona, ma non dimenticò, non in quegli istanti, le parole del suo caro amico Leo, e delle possibili insidie che quella giovane portava sulle sue spalle.
“Vi trovo in ottima forma, nobile Elliot” incominciò lei, gli occhi a ricercare l’unica finestra della stanza, quella che doveva illuminare il suo amato strumento musicale e una delle poche che volgeva nel retro della sua dimora, puntante su una pineta ormai inquieta nell’inverno che la divorava col suo gelo.
“Avete di che dispiacervene, allora. Mi era parso che voleste assicurarmi all’inferno personalmente, l’ultima volta che ci siamo visti”
Oz Vessalius rise, perché riconosceva il vero e non provava alcuna tentazione di ritrattarlo.
La stanza nella quale era capitata non aveva nulla di riaffacciabile con le precedenti, non con quella nobiltà arguita nel pizzo, nella seta e in ogni genere di orpello immaginabile. Perfino la villa dei Baskerville aveva tenuto conto di quel minimo di eleganza che doveva denunciarli come nobile famiglia, nell’alternanza di candida neve e cupo sangue; lì dove lei si trovava, invece, tutto ciò di cui si avvide fu del lucido pianoforte, che troneggiava nella stanza prendendosi ogni sguardo e ogni attenzione. Nulla distruggeva l’armonia della musica, e solo il violino poggiato in un angolo, nel suo personale luogo nato dal legno, dava adito al sospetto che a suonare, ivi, non fosse solo Elliot. Nella sua mente, l’idea di un Leo preso nella magia degli archetti non le apparve affatto sbagliata.
Era stata forse una follia, quella di precipitarsi in quella villa circondata da gelida natura, letargica in quel sonno che avrebbe perdurato fino a primavera, ma la risoluzione nel quale aveva ormai deciso di muoversi non accettava il semplice trascorrere degli eventi, con i pezzi del puzzle a ricomporsi per inerzia - esattamente come avevano fatto fino a quel momento. A spingere Oz, la sua essenza e la sua anima, a smuoverla da quel letto che aveva assunto la sua fragranza e una familiarità pericolosa, era stata la decisione di conquistare con solerzia le sue nuove verità, giungere a conclusioni incontestabili e capaci di darle comprensione sui perché che avevano stravolto la sua vita.
Aveva speso il suo prezioso tempo rimpiangendo il semplice destino; non si sarebbe mai lasciata scappare la possibilità di vedere la propria colpa e quella del suo Dio su un essere umano condannabile. Non avrebbe lasciato correre l’oltraggio subito per codardia e, anzi, l’avere quell’obiettivo fisso nella sua memoria aveva restituito al suo corpo la forza necessaria a sconfiggere il male che la stava lentamente debilitando di tutte le sue energie. Forse chiamarla vendetta era il madornale errore dei folli vanagloriosi, ma il semplice bisogno dell’indagine non si era spenta nemmeno quando il vigere costante di Ada aveva richiesto maggiori attenzioni, quando Oscar Vessalius, abbandonate le arie da orso ferito, aveva dedicato a lei più ragguardevoli e più delicate considerazioni; perfino la minaccia – perché così ella la vedeva – di una futura visita del padre, giunta per le scarne parole di una lettera glaciale, non aveva più sradicato quell’immane pensiero ormai centro di tutti le sue elucubrazioni. Vedeva il mondo per la trappola nella quale si era esso stesso dipinto, e per cercarne una fuga, o una chiave che le permette di raggiungere l’uscita, avrebbe messo da parte l’orgoglio, la prudenza, finanche il dolore per giungere ad un porto che ponesse almeno un argine alle sue pene.
E il suo primo passo era stata il giungere al maniero dei Nightray, le parole della sua richiesta scandagliate con la dovuta cura per non sembrare sospetta – “Devo conoscere meglio mio marito per comprendere quanto io mi debba trattenere dallo sputargli in un occhio” – la disattenzione a nascondere l’attesa dei secondi che la separavano dal ragazzo e i sorrisi – sempre radi, perché quegli autentici erano racchiusi da una patina di vera gioia che ella non riusciva a provare – distribuiti senza cognizione di causa a chiunque richiamasse la sua attenzione. Perfino Miss Kate, che comunque vedeva come l’acerrima nemica a cui si attribuiva parte del suo malanno, e se ne era stupita ella stessa, perché fu in quei frangenti che ebbe timore di un suo divenire totale in una persona ulteriore, che cancellasse ciò che sua madre aveva adeguatamente custodito sotto la sua ala protettrice.
‘Eppure mia madre dove sarà a dar scorno delle mie decisioni?’ si diceva, quando il pensiero di questo suo cambiare iniziava a terrorizzarla. Perché, in fondo, ella non poteva essere la Oz di Martha se la principale artefice della sua persona veniva a mancare.
E dunque che la nuova lei arrangiasse le prime note di una nuova melodia. Se essa fosse risultata l’eco di quella precedente, l’avrebbe solo udita fino al termine del canto.
“Non sapevo della vostra maestria al piano” disse, con voce serena, l’occhio ancora a scrutare le ombre dipinte sulla neve “Ammetto però che non ho avuto premura di conoscervi, nei giorni che ci hanno visti distanti, quindi voi rimanete un’accurata incognita. Sono qui principalmente per questo”
“E ditemi, allora, quanti punti ulteriori ho perso, per avervi mostrato questo lato di me totalmente atipico di ciò che vi aspettavate?”
Non amava, Elliot, il disquisire sospetto senza l’ombra di uno sguardo a disvelare le vere intenzioni dell’altro. Le schiene comunicavano solo la ritrosia di colui che non vuole davvero mostrarsi, erano la codardia di chi non accenna a dare voce alla sua vera essenza limitandosi ad ascoltare quella altrui, magari anche pretendendo paradossalmente la verità. Un atteggiamento che aveva sempre irritato il nobile, il quale non ebbe modo di frenarsi in quel frangente. La trovò a specchiarlo nella finestra, e ciò lo indusse a prenderla come sua prigioniera ingabbiando un suo braccio per ruotarla nella sua direzione. Che sciocchezza, pensava, affermare di volerlo conoscere senza però tendersi ella stessa in un campo che rendesse davvero possibile la vera consapevolezza di entrambi.
Non sarebbe andato solo, in quel campo colmo di trappole. Lei doveva seguirlo, se davvero teneva ad arrivare al cuore di una questione che sfiorava con domande sciocche.
“Siete sempre il solito irruento!” fu il suo rispondergli, divincolandosi alla presa mordace del braccio ma non sfuggendo a quella dello sguardo. Il brillio che vi aveva scorto nel loro primo incontro era tornato, e sfavillava della stessa rabbia che aveva un tempo generato, e con lo stesso irascibile comportamento.
“Volete saperlo? Credevo che il vostro amore per la musica vi rendesse meno zotico di quanto siete. Beh, è stupefacente come possa apparire così ingenua anche quando mi avete mostrato il peggio di voi!”
“E io vi facevo una ragazza più diretta, Oz Vessalius” replicò l’altro, rendendosi adeguato all’acredine di lei “Non vi siete risparmiata, l’ultima volta che ci siamo visti. Dov’è finita la vostra franchezza?”
“Mi pare di essere anche eccessivamente franca, con voi!” le rispose, una lieve risata a rendere tremula la voce, incrinandola nel suono ma non nella sua sicurezza.
“Ma per favore” esclamò l’altro “Pensate davvero che mi beva la storiella del conoscerci meglio? Si vede lontano un miglio che siete qui per dirmi qualcosa di ben più importante delle mie abilità musicali. Per questo vi invito a parlare. E, badate, ogni vostro tentativo di prolungare questo inutile discorso avrà solo l’effetto di irritarmi maggiormente; se davvero doveste superare la soglia della mia pazienza, che di per se non ha livelli encomiabili, non sarò più un soggetto con cui conversare”
La vide sbiancare, di fronte alla sua sfuriata, quella pazienza quasi elogiata con sforzo totalmente assente nel suo tono di voce accalorato. Gli occhi andarono nuovamente altrove, il collo a spingere il viso nuovamente alla scintillante finestra senza offrirsi spontaneamente con tutto il corpo, le mani a divenire improvvisamente tremule dinanzi ad un atteggiamento ovviamente inaspettato. Elliot attese, perché sapeva di aver fatto breccia nella sua corazza di perdizione oratoria, cercando il punto per cui tutto quel panegirico aveva avuto inizio.
“Sono giorni che mi pongo questo interrogativo, nobile Elliot... come mai vostro padre desidera che il suo amato figlio sposi una bastarda come me, al punto da chiedere a Zai Vessalius di raccogliermi dalla strada e portarmi a forza nella sua dimora?”
Folgorato, Elliot ebbe almeno la pregevole delicatezza di non replicare, di non rispondere avventatamente, di lasciar trascorrere i dovuti silenzi per meditare le nuove e accorate risposte.
Leo aveva ragione. Il primo pensiero formulato quando ella aveva concluso, con voce sottile e addolorata, la sua domanda pregna di ulteriori interrogativi, di quelli che non poteva porre ma che lasciava intuire.
Di Oz Vessalius, all’inizio Elliot non pensava nulla. Nemmeno il saperla come sua futura moglie aveva spinto il ragazzo a dipingersela in un’idea che lo aiutasse a riconoscerla più facilmente, così come la sua tragedia lo aveva lasciato indifferente. Incontrarla quel giorno alla villa dei Baskerville, per una casualità nemmeno voluta e tantomeno ricercata, lo aveva portato sulla soglia dell’esasperazione più che l’idea stessa del matrimonio avesse mai fatto, e le rimostranze che aveva mosso nei suoi confronti all’amico di sempre dovevano essere la ragione per cui avrebbe battagliato al fine di averne solo la sua felicità. Ma poi Leo aveva messo in lui quel lieve sussurro, che sospirando con costanza aveva generato una tempesta, e che infine era divenuta uragano.
La sapeva al corrente dei sospetti dell’altro, al centro di un vortice voluto da altri, conseguenza di macchinazioni sconosciute, violenza di una realtà che l’aveva inglobata senza consenso. Oz Vessalius, apparsa fin da subito la guerriera che avrebbe dovuto essere per la sua origine – e che lo era anche a dispetto della sua armatura di pizzo e seta – adesso diveniva anche vittima, uccello ingabbiato da altrui decisioni, e pezzo mancante di un puzzle di cui non sapeva ricostruire nulla. Non che avesse davvero ripreso quelle elucubrazioni lasciate assieme all’amico e ai suoi saporiti dolci, ma anche al pensarci non aveva mai pensato che la stessa Oz avesse arguito il pericolo nel quale l’avevano sospinta con prepotenza. Lei non sapeva, ma era consapevole che i leoni erano in agguato all’interno delle sbarre che le precludevano la possibilità di volare.
E, nel suo essere vigile, aveva cercato le sue prime risposte al primo a cui poteva davvero estrapolare qualcosa, un ragazzo tanto agile a infiammarsi da non lasciare alcuno scampo ad una qualsiasi arma di difesa contro eventuali intrusioni nei suoi pensieri. Oz si era rivolto a lui perché tra i più deboli in quella catena che l’avvolgeva, e contava di rigirarsi quell’anello per trovare il nesso necessario a renderla libera almeno dagli interrogativi che l’angustiavano.
E lui, che avrebbe forse dovuto disprezzarla per le sue origini e che di fatto l’aveva disprezzata per una ferocia che non aveva risparmiato nemmeno lui, adesso si ritrovò ad ammirarla, fiera anche nello sguardo timido che cercava l’altrove, coraggiosa nella fermezza che la spingeva ad andare avanti, serena nonostante le insidie che si protendevano innanzi a lei.
Oz le apparve bella non perché lo fosse veramente, ma perché mostrava un fuoco incapace di marcire nelle sue ceneri, che rassomigliava al calore delle fenici e che la faceva risorgere con ancor più fulgore di quando si era spenta.
E decise di doverle almeno sincerità, anche solo per lode a tanto ardimento.
“Il mio vecchio non è di quelli che parlano ai propri figli dei suoi piani, se è questo quello che speravi”
“La famiglia Vessalius e quella Nightray non sono mai andate d’accordo, quindi dubito di essere un palliativo abbastanza gradevole per porre fine ai vostri dissapori” e questa volta Oz lo cercò senza alcuna mano a richiamarla all’ordine, la sfida a far brillare le iridi smeraldine di maggiore passione.
“Questo lo so bene anche io, ma credimi se ti dico che non ho la più pallida idea del perché di questo piano improvvisato”
“Almeno sai se c’era stata Ada, un tempo, tra le tue future proposte?”
“Tu sei la prima della famiglia Vessalius che mi viene proposta” rispose lui con sicurezza, elargendo verità senza ripensamenti “e colei che ha vinto tutte le altre richieste. So che la famiglia Vessalius sborserà soldi ad alambicchi, per questo, ma non credo che la tua dote sia l’elemento princeps della tua vittoria”
“Quindi... anche tu credi che ci sia qualcosa di strano, sotto?” chiese lei, cauta.
“Si” rispose l’altro, senza esitazioni “Ma perche, Oz, tu credi che qualcuno ti abbia forzata a divenire una Vessalius?”
“Perché io credo che mia madre sia stata uccisa” fu la schietta risposta della donna, non accompagnata da insolenza o imprudenza, ma dal desiderio di conoscere una sua reazione. Reazione che trovò il suo pieno consenso nell’espressione sbalordita di lui, le iridi incapaci di mentire a scrutare quello di lei per scorgere altrettanta onestà.
“Ma chi è stato?”
“Io credo che...”
Il resto della risposta, se mai ci fu, non ebbe modo di sentirsi. La deflagrazione che si udì in lontananza coprì ogni altro suono, e ad entrambi non rimase che far ancora su se stessi per resistere all’improvviso tremore della terra dinanzi ad inusitata e improvvisa violenza.

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Capitolo 13
*** Douzième Score - E l'angelo ancora non lo sapeva, ma la trappola era ormai pronta per lei ***


Oz Vessalius aveva intessuto le sue risolutezze in un abito battagliero. Amava, lei, dipingersi di questa metafora, per il ricordo di quello che era e per l'immagina stessa che le infondeva coraggio.
Ella non peccava della presunzione di poter agire senza alcuna precauzione; muoversi significava abbandonare il guscio di certezze nel quale si sarebbe volentieri rinchiusa un tempo per avventurarsi in un dove che altri le avevano precluso, per ottenere risposte che alcuni avrebbero gradito non darle. Vero, puntare a chi non faceva alcuna mostra di inganno era certamente il miglior mezzo per proseguire su un sentiero che avrebbe visto le sue difficoltà solo cammin facendo, ma era anche conscia che, sbugiardando la sua ingenuità ella non faceva altro che gettare sassi in un lago, agitandone la superficie. Risvegliava i demoni che l'avevano abilmente imprigionata senza suo consenso ma senza sua ribellione, e il farlo avrebbe anche comportato pericoli per se e per la sua famiglia.
Eppure, quando all'orizzonte si era affacciata l'opportunità di essere effettivamente disinteressata a quanto avvenuto, a lasciar invendicata la morte della madre, a trascorrere le sue giornate nella tranquillità che Ada le aveva promesso... lei faticava solo a mantenersi calma nei confronti di se stessa, raccogliendo quasi i primi semi di odio che le avrebbero rovinato l'esistenza.
Forse il suo pericolo l'avrebbe condotta nelle fiamme dell'inferno senza offrirle la possibilità di tornare addietro, forse con se avrebbe trascinato degli innocenti; ma era comunque un diverso tipo di inferno quello di perdurare nell'ignoranza.
Elliot quindi divenne, quasi con spontaneità, la prima vittima che il suo io più oscuro aveva scelto per svelarsi. Lo aveva scorto nella magia di una musica che ella amava, che non aveva mai udito ma che, stranamente, sentiva di conoscere. Non seppe bene, in quegli istanti, cosa passò per la sua testa, era solo l'evidenza di note poste solo per il suo diletto e il suo ingegno musicale - genio che sapeva di avere ma che mai, in una vita di stenti, aveva avuto modo di sfruttare.
In verità, la discussione era avvenuta su binari totalmente inesplorati dalle sue mappe mentali. Di Elliot aveva sottovalutato l'ingegno, forse anche quella comune forma di sospetto che porta a vedere con accortezza visite insolite e ingiustificate - o, come nel suo caso, male argomentate. Si era ritrovata già prigioniera di un nemico che aveva perfino ammirato per il suo essere schietto, e nulla le aveva permesso di sfuggire a quell'inquietudine nata quando il suo sottile occhio di zaffiro aveva penetrato i suoi in una girandola di furia lontanamente comprensibile.
Non si era aspettata, d'altro canto, di vedersi nuda dinanzi a lui, spoglia di tutte le sue difese e corporeità di tutti quei dubbi che l'avevano afflitta. Così come non aveva alcun presentimento di trovare - proprio in lui - la comprensione voluta e mai richiesta.
Oz Vessalius, in tutto questo, non ebbe nemmeno la possibilità di mostrarsi sorpresa. Perchè, di tutti gli eventi che avrebbe mai ricostruito con la sua intelligenza, uno dei più devastanti aveva deciso di agire proprio con lei al centro di un contesto sconosciuto.

Aggrappata al corpo di Elliot, aveva atteso l'esaurirsi delle violente scosse, prima di aver fiducia nel suo equilibrio e di affidarsi alla forza del suo stesso corpo per reggersi in piedi. Elliot.
Avrebbe supposto, lei, l'imminenza di un cataclisma interno alla terra, mossa a tremori incontrollati da lei e non voluti dall'uomo; giustificava così l'imminenza di un lampadario in procinto di crollare, di un violino caracollato al suolo per inerzia e il suo stesso destabilizzarsi improvviso. Nel vero, nulla le ricordò le origini di un terremoto. Non la polvere che si intuiva dalle tende damascate della finestra, non il silenzio improvviso, rotto solo da lontani lamenti a cui ella preferì non dare eccessiva attenzione - il terrore di udire invocazioni d'aiuto ad alimentare quel panico capace di stordirla.
"Oz, va tutto bene?"
Non notò, la ragazza, non in quel frangente, la familiarità con cui egli si aggrappava al suo nome, quasi fosse consuetudine sul quale non dover porre la dovuta attenzione. Nemmeno lo sguardo della fanciulla, quasi basito dinanzi a quella sua confortevole gentilezza, lo smosse dalla stranezza appena commessa e di cui, evidentemente, non provava risentimento.
"Non so cosa sia successo, per cui andrò a controllare. Devo assicurarmi che tutti stiano bene"
Fu a quelle parole che il sorriso di Ada fece capolino nella sua mente. Il pensiero della sua incolumità divenne pressante in una stasi adesso non più giustificata.
"Devo andare da mia sorella, devo sapere se sta bene!"
"No, non posso permettertelo!"
Le impose nuova rigidità, Elliot, le mani ad ancorarsi alle braccia tremule di una paura che superava la sicurezza personale per ancorarsi a coloro di cui non poteva assolutamente accettare la scomparsa. Solo il pensiero le impose di divinvolarsi da simile vincolo per cercare nuovamente la fuga da quella stanza, divenuta improvvisamente troppo claustrofobica.
"Ti ho detto di aspettare!"
C'era qualcosa, nei movimenti di Elliot, che suggeriva un timore di indescrivibile natura. Un qualcosa che sembrava suggerire la nascita di un motivo ulteriore per sentirsi in pericolo. Un motivo in più per cercare la salvezza in un luogo apparentemente appartato, forse, ma non per lei. Non per le sue nuove priorità.
"Penserò io ad Ada e Oscar Vessalius" disse però il ragazzo, arguto nell'intuire quanto fosse ella incaponita a iniziare la sua cerca "Tu, per favore, resta qui. Potrebbe essere pericoloso arrischiarsi fuori"
"Perchè?"
L'idea che il giovane le nascondesse qualcosa divenne palese quando lo vide perdere ogni altra espressione a onta di un semplice stupore basito, incontrollato perchè lui troppo cristallino per fingere una qualunque arte in merito alla menzogna - il motivo per cui lo aveva cercato in quel preciso giorno, d'altro canto.
"Dimmelo, Elliot... che cosa sta succedendo?"
La risposta non la udì. Nell'improvviso di un silenzio innaturale, ella vide la porta divelta da una forza superiore, sferrazzante nel chiasso di catene che sibilavano i loro canti in un coro che ella trovò all'immediato insopportabile. Chiuse gli occhi, per quell'aria improvvisamente colma di polvere e detriti, e nascosto il viso sotto braccia rivestite da tessuto troppo pregiato per agire come suo scudo, sentì l'aria fischiare di nuove devastazioni indotte da una risata ora palese, tanto chiara da renderla sciocca nel non averlo supposto prima una simile eventualità.
Un attacco condotto da mani consapevoli del loro crimine.
"Ma guarda qui che bella fanciulla che abbiamo!" esclamò l'essere, ora tanto a lei vicino da apparire anche nelle fattezze di un'ombra grossolana. Nel discostare di braccia che lei attuò al fine di rendere comprensibile cosa stesse avvenendo, sentì una mano agguatare malamente la sua spalla, accompagnata da un sorriso sghembo che faceva capolino dalla bruma di polvere e detriti.
"Oz, scappa!"
Un ulteriore strattone, ed Elliot prese il posto prima occupato da lei. Libero da ogni impedimento deciso dal suo avversario, ella notò la mirabile lama di nero pece che il giovane stringeva tra le mani quasi con inquietudine, gli intarsi preziosi nascosti dalla stoffa di seta di cui erano ricoperte le mani nervose.
"Non so chi tu sia" disse ancora Elliot, rivolto questa volta al suo aggressore "Ma ti pentirai amaramente di aver sfidato noi Nightray!"
"E chi dovrebbe farmene pentire? Tu, forse?"
L'aria fu ancora vittima di un fischio atroce, il dolore a concentrarsi su timpani mai esposti ad un simile sforzo. Nella coltre di nubi candide mosse dalla distruzione, la ragazza si avvide di un'ombra, a cui però non seppe dare nè origine nè nome, limitandosi alla mera - e terrificata - constatazione della sua inusuale stazza.
"Attento, Elliot, lui non è solo!"
E avrebbe voluto dargli più indizi, ma una seconda mano, questa volta anche più aggressiva della precedente, ebbe l'ardire di interromperla per posarsi di malagrazia sul viso, soffocare i suoi gemiti in un qualche pezzo di stoffa imbevuto di qualche sostanza e trascinarla lontana dalla lotta.
Atto vile di cui Oz non volle essere vittima. Non ancora una volta.
Ringraziando quei tacchetti che per giorni le avevano torturato i piedi per amore di un insegnamento che aveva al centro la sopportazione - sua, nei confronti dei capricci dei nobili e delle mode sempre più eccessive nell'imporre qualsiasi disgrazia confermabile sulle donne - e l'eleganza, pose tutta la sua forza sul piede del nemico, e gioì di un trionfo selvaggio quando lo sentì uggiolare di dolore al pari di un animale, mollare la presa e liberarla senza suo volere.
L'attimo seguente fu quello che la ragazza scelse per eseguire ciò che Elliot le aveva espressamente chiesto, ovvero la fuga. Rischiando quasi un diretto contatto col muro, gli occhi ciechi dinanzi a una coltre che non sembrava minimamente intenzionata a diminuire - ma anzi, si alimentava dei secondi in cui l'eco dei fischi osceni continuava ad espandersi nella sala - ella infine imboccò la strada corretta, e lasciò perdere ogni altro pensiero che non fosse quello di mettere distanza tra se e il suo personale aggressore.
Certo era anche vero che le idee su un possibile rifugio ella non le trovò. Meditò sulla possibilità di fuggire dalla finestra, scartando immediatamente simile incoscienza nella semplice previsione di una sua rigidità di movimento; l'abito era troppo ingombrante per gestire un'azione che invece chiedeva destrezza e forza, e se in altri panni - in quelli suoi precedenti di povera sarta - avrebbe anche abbandonato la villa in modo tanto rozzo, in quel frangente si vide costretta a continuare la sua fuga nell'elegante corridoio che non aveva mai altri svincoli se non porte di cedro chiuse con decisione, a lei precluse e quindi fonte di unica disperazione.
Nella migliore delle sue possibilità, la ragazza non avrebbe certamente disdegnato un passante a cui chiedere aiuto. Pur nell'indifferenza di un sentimento che nemmeno si accostava all'amicizia, sentiva morse dolorose al petto, al pensiero di aver abbandonato il suo promesso sposo al suo destino, e in un certo senso voleva riscattare la sua coscienza rendendo un altro disgraziato partecipe di quanto visto. Mai come in quel momento desiderò la presenza di Gilbert Baskerville al suo fianco, con la rivoltella in pugno e l'aria di chi ha sempre la facoltà di risolvere ogni problema.
La fortuna, in quel caso, non le fu di conforto; le mostrò continui svincoli e corridoi privi di alcuna presenza umana, e tutto ciò che le offrì fu la possibilità di ulteriori percorsi da conoscere in assenza di vitali nascondigli. Alle sue spalle, sentì l'eco di grida mostruose farsi sempre più vicine, gridare il suo nome e invocare la sua immediata mobilità.
Loro sapevano di lei. Fu una consapevolezza che, per alcuni secondi, ebbe il potere di annullare il terrore, ponendole in un antro di memoria che non offriva altra risposta se non il medesimo sconcerto con il quale ci era entrata. Perchè tutto questo accadeva in quanto bersaglio di quegli individui.
Lei, una sarta strappata da una crisi profonda, orfana forse per volere altrui, adesso rischiava la vita per decisioni di cui ancora ignorava la natura. Ancora una volta, qualcuno le imponeva un destino scelto appositamente per lei e, in questo triste caso, per lei era stata richiesta una morte immediata, finanche dolorosa.
Era forse per le domande poste al giovane Elliot? Possibile che quella mano assassina si fosse mossa solo per accusarla delle sue intenzioni?
"Da questa parte"
Una voce di cui non seppe la provenienza, nè il volto, nè la familiarità. Una voce che, all'apparenza, voleva indicarle qualcosa e lei, stranamente, sentiva non tanto una fiducia nei suoi confronti, quanto la perfetta intesa per una strada che adesso sapeva di dover prendere.
Era una scala stretta, umida e scivolosa; nascosta da una porta apparentemente banale, uguale alle altre che l'avevano preceduta, divenne sua salvezza quando questa sembrò quasi spalancarsi con il semplice appello del suo sguardo. Oz la vide, in quel momento, come la forma di miracolo richiesta, e nella convinzione che lì si nascondesse qualche domestico misericordioso, entrò con coraggio, chiudendo l'uscio alle sue spalle e immergendosi in un'oscurità brutale che le tolse ogni orientamento.
"Sei qui?" chiese, nella speranza che quella voce, dal tono così gentile, continuasse il ruolo di guida che in quel momento le sembrò tanto indispensabile.
"Da questa parte"
Eco del richiamo precedente, la voce si ripeté con convinzione, e ancora una volta Oz, pur con sospetto nei richiami di se stessa, ebbe la coscienza di dire esattamente dove l'altro - senza alcun dubbio un giovane uomo - sarebbe andato a parare. Scese pochi scalini per volta, con la consapevolezza che ogni mossa falsa poteva farla cadere - ed ella non temeva tanto il dolore quanto il tramestio che l'avrebbe resa consapevole ai suoi nemici - affidandosi unicamente al tatto e pregando Saint Brigitte che, dall'altro lato, ci fosse un'uscita.
Quello che vide la lasciò a bocca aperta.

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Capitolo 14
*** Treizième Score - E l'angelo iniziò a cadere ***


Accesesi quasi per volontà propria, numerose torcie illuminarono la fine della sua fuga. Un pesante cancello stanziava stranamente in fondamenta che non avrebbero dovuto portarla da nessuna parte, e catene dagli anelli consunti ma robusti invitavano ulteriormente a prendere le distanze da qualsiasi speranza di una possibile apertura. Dall'altro lato, solo il nero più oscuro.
"Ma che razza di scherzo è mai questo?!" si chiese Oz, e il terrore che sentì nelle viscere le impedì di dare al suo tono una nota più irritata. Si guardava intorno, cercando chi l'aveva condotta in quel posto, e sorprendendosi di trovarlo stranamente vuoto.
Doveva essere vuoto. Forse, in cuor suo, sperò anche di vederlo come un comodo rifugio, in attesa di una quiete che calmasse le acque.
Ma i suoi desideri furono nuovamente disattesi.
"Ecco la principessa!"
Alle sue spalle, dalla stessa scala che aveva visto il suo confuso ingresso, fecero capolino due figuri. Alti - eccessivamente - con visi sporchi di un incuria che segnava una vita trascorsa negli stenti. I capelli troppo unti per suggerire un colore differente dal nero e le vesti lacere a coprire corpi smagriti eppure agili nel circondarla.
Oz non si sentì mai in trappola come in quel momento. Il semplice desiderio di raggiungere la scala per riprendere la sua fuga divenne pura utopia, perchè entrambi assunsero posizioni di strategica malizia, capaci di renderla vittima delle loro grinfie ad ogni passo falso.
"Adesso, bambolina, starai zitta, buona e ferma, mentre noi ti prendiamo"
Dei due, solo il figuro di destra sembrava interessato ad intimidirla col mezzo della parola. L'altro la fissava con silenzio sbilenco, limitandosi a torvi sguardi e ad espressioni minacciose.
"Se..." Soffocò le unghie nei palmi, per sconfiggere il balbettio che minacciava di distruggere le sue corde vocali "Se oppongo resistenza... voi che farete?"
"Sarebbe una situazione spiacevole, non credi?" fece sempre il primo suo nemico, con sguardo divertito.
Divertito, sì, perchè ormai il lupo aveva messo all'angolo il coniglio cacciato con tanta fatica.
"I-Io non voglio v-venire con voi" disse, e lei stessa si sentì patetica per quella sua puerile invocazione. Ma era l'unica arma rimastale, quella della pietà.
"E noi non vogliamo che tu subisca alcun danno, bambolina, credimi!" fece l'altro, con tono stucchevole "Per questo ci piacerebbe vederti collaborativa. Vieni con noi e nessuno si farà male. Nemmeno il fesso che abbiamo preso al piano di sopra"
'Elliot' fu il suo primo pensiero.
Catturato per aver tentato di difenderla. Ferito per sua colpa, per mano di chi voleva lei, e non lui.
"Se davvero nemmeno questo ti spinge a più miti consigli... beh..."
Un'occhiata al suo degno compare, e poi, al loro congiunto annuire, Oz risentì nuovamente lo stridio confuso di catene lasciate al loro libero agire. Nuovamente coprì il viso, il timore per nuove ondate di polvere ad abbattersi sugli occhi e i timpani a sanguinare per il fracasso, ma quando percepì l'aria sporca solo dell'umido del posto, si scoprì alla sorpresa che i suoi nemici le avevano riservato.
Per poco, Oz non ebbe un mancamento. Le sue labbra quasi ebbero lesioni, per quello spalancarsi improvviso, e l'urlo che avrebbero dovuto cacciar fuori fu fermato dallo stesso terrore che lo aveva generato.
Oz, per la prima volta nella sua vita, fu costretta a rivedere le forme di un universo che credeva di conoscere. Di una realtà che non avrebbe dovuto più stupirla. Di una fantasia che si rivelò non essere più tale.
Dinanzi a lei, avvolti da fasce di lucide catene sottili, due esseri mostruosi la guardavano con desiderio, pregustando quasi il suo minuto corpo come se fosse già nell'incavo delle loro gole. Abbietti, enormi, vagamente umanoidi in quelle vesti verdi che ricordavano le forme di una carta, e pallidi come la morte che promettevano. Occhi che non erano davvero ciò che si presupponeva, neri come l'inferno che li aveva sputati, e labbra già scucite dal legame che non aveva mai retto per rivelare un desiderio mangereccio che paralizzò ogni sua razionalità.
Agghiacciata, corse con ferocia nella direzione contraria a quella dei suoi nemici, consapevole di avere alle spalle solo un inutile cancello colmo di ruggine e impossibilitato ad offrirle vie di fuga, ma non le restò altro, a lei, se non aggrapparsi a quelle grate e sperare in un miracolo, in una qualunque forma divina che la strappasse a quel luogo e la riconducesse al sicuro, da Ada, da Oscar Vessalius, da Elliot... da Gilbert della famiglia Baskerville.
Il resto fu nera oscurità

“Sei al sicuro, adesso”
Cosa fosse il mondo, ella lo dimenticò; il suo centro divenne quella voce, la stessa che l’aveva condotta su quel crinale e che aveva ritenuto erroneamente crudele. Il cuore tremava, al pensiero dei mostri che aveva lasciato alle sue spalle; sentiva il gelo della morte, sua compagna di giochi in quei fatidici istanti, irradiarle la pelle fino a frantumarla in ogni suo diafano filamento, ma cosa fosse l’orrore ella lo dimenticò nell’istante in cui lo scorse, e sentì un tepore sconosciuto avvolgerle l’anima.
Non ebbe coscienza di cosa fosse giusto dire. Il razionale aveva smesso di inseguire i suoi pensieri quando essi si erano diramati nella follia di un terrore incontrollato, ma seppure la quiete dominava il nero di quello che era il circondario, nessun desiderio di conoscenza ebbe l’ardire di rompere il silenzio, quasi si concretizzasse, il conoscerlo, nello sguardo vacuo al quale aveva deciso di incatenare i suoi occhi, nel quale si perdea senza avvertire il desiderio di essere ritrovata.
Sorrise, lui, e lieve porse sul suo viso una mano di bianco rivestita, celere nel cogliere una di quelle lacrime gelide nate da un sentimento che, senza abbandonarla, divenne a lei inviso e domato. Lasciò che egli la accogliesse nel suo elegante abbraccio, che la cingesse in un mondo dove l’aere non sapeva di morte, dove lo stridio di mostri dalla disumana forza e dall’ignominiosa bellezza devastavano il suo spirito, dove le risate sghembe dei loro padroni non ripetevano la sua esecuzione; lasciò che egli la cullasse, che sussurrasse parole di conforto, che parlasse di una vicinanza che ella non avrebbe dovuto concedere o credere, ma che riconosceva nella piacevole fantasia che fosse un angelo, lui, perché di quella beltà beava i suoi occhi, perché d’oro erano i filamenti della sua lunga chioma, perché al mondo ella non avrebbe mai visto, pure nella sua certamente modesta esperienza, qualcuno che ne eguagliasse l’incantevole fisionomia al fine da farle dimenticare cosa egli fosse se non un uomo di carne e di ossa.
Confusa; poteva chiamarsi così Oz. E avrebbe accettato la confusione perché, se solo l’irrazionale avrebbe concesso la sua visione, allora lei lo avrebbe abbracciato tutto.
“Oz, il tempo è per noi tiranno” calda, suadente nel cullarla maggiormente in quel suo periglioso indugiare, la voce di lui accarezzo quella chioma di lei tanto scarmigliata quanto a lui simile della stessa luminosità, e non negò un vago senso di vertigine, quando la consapevolezza piena di tale vicinanza le afferrò di malagrazia lo stomaco con uno sfarfallio titillante.
“Conosci il mio nome... dovrei chiedere il perché?” e se egli avesse risposto di no, le labbra di lei, inarcate in un sorriso, avrebbero accettato la sua decisione.
La piacevole brezza del suo respiro divenne ancor più soave, nel tendersi al suo orecchio, smuovendole fili selvaggi nella risata carezzevole che le donò.
“Ti darei il mondo, se solo tu osassi chiederlo, mia Oz” e le falangi di lui, lisce nel tessuto prezioso che le avvolgeva, cercarono ancora la pelle del suo viso, scorgendo ora nient’altro che un tedio piacevole ombrato da una confusione tanto distante quanto impercettibile per la sua stessa padrona.
“Io non voglio il mondo... milord”
“Per te sarò solo Jack, mia adorata Oz. E accetterò tutto ciò che vorrai. L’unica cosa che ti chiedo... è quella di accettarmi al tuo fianco. Di farmi tuo, e di usarmi come tu desideri. Chiamami per nome, e coloro che minacciano la tua vita periranno senza alcun indugio”
Lo cercò ancora, Oz, ancora avvolta dalle di lui braccia, ancora cinta in quello che era ormai diventato il suo pertugio, il suo porto franco. Scrutò quel viso stranamente familiare, affascinante nel suo catturare ogni sua capillare attenzione, sereno ad onta di ogni suo dilemma... e, sebbene nemmeno lo ebbe da cercare, una valida testimonianza al vero delle sue affermazioni, le trovò tutte lì, nella fiducia eterna che dipingeva il suo volto, nel battito lieve e costante che avvertiva sotto le tremule mani strette sul suo petto, fagocitate dal desiderio di lui nell’averla tutta per se.
“Perché... io? Cosa ho, io?”
“Tu, Oz, hai quanto io più bramo, possiedi nelle tue mani la ragione che mi spinge ad essere vivo, a chiamarmi Jack, a cercarmi in un universo che non sia l’indifferenza. Accettami, Oz, e permettimi di restarti affianco. Per favore...”
E fu, quell’ultima supplica, il supplizio di un morituro che ella non avrebbe mai potuto ignorare. Non seppe nemmeno lei il perché di quel pianto che andò a segnarle le guancie, e non domandò nulla alla sua anima, ignara di quella gioia selvaggia che aveva preso a tempestarle il petto.
“Io... lo voglio, Jack”
E al seguito non ci fu null’altro se non il bacio che travolse le sue labbra. Sapeva del ferroso sapore del sangue, la pelle di lui, sgradevole nel rovinare ciò che aveva le magie e le fattezze di un sogno, ma quanto descrivibile in ardimentosi rifiuti non si colmò che in un niente dalle striature di vuoto. Erano le di lei labbra prigioniere in quelle di Jack, il cuore a palpitare di un gioioso incontro che non aveva nemmeno mai prospettato, e la mente a obliarsi nel piacevole brivido che la investì quando la mano di lui rese quel bacio un legame inscindibile.
Il nero la rapì totalmente.

Duncan non conosceva la parola cambiamento. La sua vita era stata restia a mostrargliene il significato, e col tempo le aveva solo dimostrato che, se un reietto nasce per essere uno scarto della società, per quel verme non potrà null’altro accadere se non un motivo ulteriore che lo faccia sprofondare nella polvere. Era stata la debolezza di una speranza mai sopita a lasciarlo nelle mani di quel Card, così a lui restio nel mostrare le sue vere intenzioni ma così pronto ad accogliere i suoi desideri chiedendo, per compenso, solo il necessario numero di anime che avrebbe dovuto sfamarlo. E lui, di quello che doveva chiamare lavoro, vi aveva visto la soglia di un divertimento inumano, proibito.
Ecco quello che doveva essere la caccia alla strega, la stupida bastarda dei Vessalius che Card aveva tassativamente ordinato di uccidere. Non aveva mai avuto, fino a quel momento, un ordine specifico di assassinio, ma quel cambio di programma lo aveva preoccupato solo per il fatto che il tempo richiesto, per l’uccisione di una persona specifica, avrebbe sfiorato quelle che lui solitamente dedicava ai suoi macabri divertimenti. E, soprattutto, che avrebbe dovuto spartire tutto il bottino con gli altri assoldati in quella puerile ricerca, nata per scopi certamente nefandi ma altrettanto oscuri, la cui importanza rasentavano uno zero tanto oscuro da imitare la morte stessa, quella che lui alimentava nei suoi insani gesti.
Eppure, il percepire di un qualcosa di strano, di diverso, inquietò, pure di poco, il ladro di anime. La sensazione che un particolare stonante non andasse a combaciare con quello che prima aveva reso tutto una landa di smodato divertimento, e che questo costituisse un pericolo dal quale scappare con la dovuta cautela.
Oz Vessalius, i vestiti lerci e distrutti da quella caccia priva di senso, lasciava le sbarre di quel bislacco cancello senza una venatura di rimpianto a rendere la loro risata più isterica. Compostezza, eleganza, alterigia... Dancan nemmeno li conosceva, quei tratti distintivi, troppo nobili per illuminare la sua vita sciagurata, ma che fossero ivi presenti, a lui dispiegati come candidi veli di morbida seta, non fu qualcosa di inopinabile, di denigrabile, di ignorabile. Era beltà pura, di quelli che induceva il silenzio in un sospiro, uno sguardo di sfuggita, un battito in meno in un petto troppo colmo di rancore per scoprire cosa fosse l’amore.
Deliziosa... e non come cibo per il suo adorato mostro, non come sollazzo ad un passatempo ora decisamente tedioso nel suo essersi consumato in breve tempo; era una purezza che meravigliava per il suo essere disarmante e disarmato, uno spiraglio di luce che attendeva le giuste tenebre per divenire lei stessa oscurità, cedevole al male pure bianca come la vergine purezza.
Sì, era quello il nuovo svago che avrebbe prediletto, Dancan. Quell’uomo indegno perfino di un nome che ne riconoscesse l’esistenza, di una ragione che lo condannasse a vivere, di un motivo che lo rendesse meno mediocre di quanto si sentisse, aveva appena visto ciò che la sua infamia poteva rendere peggiore. Uccidere la luce, renderla del suo stesso livello e godere del sangue nero che sarebbe scorso all’uccisione della limpidezza.
E la giovane, delicata nel muoversi sullo specchio d’acqua venutole a bagnare i piedi scalzi, avanzava nel candore angelico perdendo le sue piume, nel luccichio malevolo che bagnava le iridi di smeraldo e nelle labbra che invitavano alla cessione più completa nelle mani della lussuria. Tra le mani l’oro asceso per la sua rovina, tutto ciò che l’uomo seppe fare fu gettarsi su di lei, famelico.
E, nel vero, tutto ciò che accadde a Dancan fu quella di spegnersi al compiersi del suo desiderio
Come la morte delle stelle.

Marco non si avvide del cadere inerme del suo compagno. Solitario nell’irrealizzabile, tremava di pietà nello scorgere la sua deliziosa bambina, quella giovane fanciulla uccisa da mani irrispettose, stretta nell’abbraccio che Oz Vessalius, di estatica bellezza in quella sicumera che trasfigurava i suoi lineamenti, le dedicava con l’amorevole cura di una sorella. Una voce qualunque, anche la più irrazionale, avrebbe urlato, allo stupido felice, quanto davvero impossibile fosse una simile visione, cantata dalla cristallina melodia delle catene, ma il deambulare lento nella direzione di lei non gli lasciava in viso altro segno se non quello della più nera follia.
E la piccola, diafana come il giorno in cui il suo corpo abbandonò per sempre la luce del sole, lasciò il collo di lei, le sorrise in un ultimo bacio affettuoso e si lasciò andare ad una corsa che avrebbe ricongiunto, nello straziante sogno di lui, un padre alla sua amata bambina.
Il suo chain avrebbe dovuto rigirare le lancette dell’orologio per consentirgli di salvarla, per portarlo lì dove la sua mano si sarebbe frapposta tra la sua piccina e il pazzo che le aveva strappato la sua infanzia, ma anche nella promessa a ronzargli nella testa ormai vuota, tutto quello che riuscì a fare fu abbassarsi nel giusto tempo in cui ella saltò tra le sue braccia, la voce squillante a chiamarlo per nome e gli occhi di giada a brillare festanti.
Chinatosi al suolo, tutto quello che Marco fece fu lasciare il mondo dei vivi, il sorriso sul volto e lo sguardo spento.

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