Dance Inna Babylon

di prettystoned
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** c a p i t o l o 1 ***
Capitolo 2: *** c a p i t o l o 2 ***
Capitolo 3: *** c a p i t o l o 3 ***
Capitolo 4: *** c a p i t o l o 4 ***
Capitolo 5: *** c a p i t o l o 5 ***



Capitolo 1
*** c a p i t o l o 1 ***


E passano gli anni, ma non cambia la testa
Non cambia la voglia di scappare da ‘sti palazzi
Metà gli viene un tumore
Metà diventano pazzi.
Sfera Ebbasta

Che dire di Beverly Wharton? Beh, in realtà non molto, nell’anonimato della sua esistenza in una città come Los Angeles.
Quella mattina il sole inondava le strade della città, il rumore delle onde del mare frastagliava piacevolmente l’aria secca ma fresca, e Beverly se ne stava seduta sulla sabbia bianca, ad occhi chiusi, godendosi la pace di quel frammento di spiaggia apparentemente dimenticato dai bagnanti. Il suo posto preferito in tutta Los Angeles. Quel luogo condivideva con lei le immagini di un’adolescenza dedicata quasi esclusivamente al divertimento, alla trasgressione e alla soddisfazione di piaceri personali, una giovinezza egoista e sconsiderata. Stranamente la Beverly adulta non rimpiangeva nulla, non riponderava insistentemente sui suoi vecchi sbagli, come aveva visto fare da qualcuno, sorrideva con un accenno di malinconia, che impediva a quel sorriso di raggiungere i suoi occhi. Quanto le mancavano quei giorni. Purtroppo ne era rimasto poco: i ricordi nella sua mente, la consapevolezza della presenza dei suoi amici in quella zona della città, quelli che avevano messo la testa a posto e si erano dedicati alla costruzione di una vita che come fondamenta aveva responsabilità, sani principi e obbiettivi comuni – un bel lavoro, una bella casa, una bella famiglia – tutte cose che a Beverly sembravano lontane, così tanto da non considerare la possibilità di raggiungerle. Ma, al di sotto di quelle fondamenta composte da nobili propositi, si trovava la terra sporca, quella in cui era sepolto il loro passato, le vecchie abitudini. E a Beverly cos’era rimasto?
Ben poco. Un amico, bei ricordi e tanti brutti vizi.
Si alzò, camminando con attenzione sulla sabbia per raggiungere la strada asfaltata in cui le auto sfrecciavano, incuranti di chiunque volesse attraversare, si fermò lì, a guardare ogni singola macchina passarle davanti agli occhi.
Grigia, grigia, bianca, nera, grigia di nuovo… verde pistacchio.
L’auto verde rallentò fino a fermarsi davanti a lei, il finestrino si abbassò, mostrando un ragazzo moro dagli occhi verdi, che le sorrise, “Che fai, sali?” la incitò con un movimento della testa, Beverly sorrise, “Come se avessi altra scelta…” gli rispose con un finto tono acido, aprendo la portiera ed infilandosi nei sedili posteriori dell’auto, per poi passare davanti, scavalcando i due sedili anteriori.
Lo guardò un attimo, poi aprì la borsetta, ne tirò fuori degli occhiali da sole pagati tre dollari ad un mercatino dell’usato, e un pacchetto di sigarette Marlboro quasi finito. Inforcò gli occhiali e prese una sigaretta, mentre il ragazzo alla guida metteva in moto, “Hai da accendere?”
“Mh… sì. Guarda nel cruscotto.” Disse, per poi partire, ignorando la coda di automobilisti che imprecavano contro di lui, quella che doveva essere una cosa veloce aveva preso troppo tempo secondo i cittadini impazienti di Los Angeles.
“Stasera sono fuori città quindi non posso portarti nulla.” Affermò lui a metà strada, Beverly sputò il fumo e lo guardò perplessa, “Che ci fai fuori città?”
“Affari grossi, non le solite cose. Torno domani mattina, ti affido ad un tipo che conosco.”
“Ah ed è affidabile questo tipo che conosci?”
“Mh…” schioccò la lingua “Non molto, ma per te avrà un occhio di riguardo.” Concluse. Beverly non si scomodò neanche a rispondere, il suo fastidio era palese ma Hayden – questo era il nome del ragazzo – non se ne curò, consapevole che qualunque cruccio facesse tenere il broncio alla sua amica sarebbe sparito il giorno seguente.

L’appartamento era vuoto e disordinato. Il disordine non era voluto, ma Beverly – disordinata per natura – aveva deciso che il caos degli oggetti sparsi per la casa copriva bene il silenzio causato dall’assenza di qualcuno che non fosse lei lì dentro, sapeva che un ordine innaturale le avrebbe dato alla testa, sapeva che sarebbe impazzita.
Lei sentiva poco la solitudine, ma c’erano giorni in cui quella piccola lucciola, che rappresentava la tristezza conseguente alla mancanza di una persona con lei, diventava di dimensioni colossali e non era più una piccola ed insignificante lucciola, era un mostro che minacciava di divorarla. Il disordine era il suo scudo, la sua unica arma e protezione per tenere salda la sua mente danneggiata.
Contò le ore e i minuti, muovendo distrattamente il piede destro al ritmo della musica che usciva dalla cassa del suo cellulare, mentre stava sdraiata sul divano, in attesa di qualche segno di vita da parte del tipo che conosceva Hayden.
“Sono qua sotto.”
Un solo messaggio, niente di più niente di meno, non un’informazione su chi fosse, neanche un ciao, niente di niente. Beverly non si fece troppe domande, e rispose poco dopo aver aperto il cancello dal suo appartamento.
“Sali.”
Qualcuno bussò alla porta, la ragazza aprì e si trovò davanti il misterioso tipo, sembrava un bravo ragazzo, ad essere sinceri. I capelli biondi leggermente scompigliati, gli occhi castani contornati da lievi occhiaie, la barba non molto lunga e un sorriso di plastica a completare il quadro. Un bravo ragazzo.
Come poteva un tipo così avere ciò che serviva a lei?
Ma Beverly non aveva pregiudizi. Si spostò per farlo entrare e chiuse la porta, “Sei l’amico di Hayden?”
“Amico è un parolone, lui-”
“Non m’importa. Hai quello che mi serve?” tagliò corto lei, poggiandosi con i fianchi al tavolo e guardandolo con attenzione, mentre lui ricambiava il suo sguardo con le sopracciglia aggrottate, sembrava offeso dai modi della ragazza. “Sì, certo,” borbottò dopo essersi accorto di essere rimasto in silenzio troppo a lungo, aprendo il marsupio che portava attorno ai fianchi e tirando fuori una bustina di plastica, al suo interno delle cime verdi. Beverly sorrise, “Oh grazie,” con un gesto fluido prese i soldi dal tavolo e glieli mise in mano, prendendo la bustina con lo stesso movimento. “Prima che tu te ne vada… non andartene. Non so se hai di meglio da fare, magari sì, ma ti andrebbe di stare qui con me?”
“Ehm… io…” Era chiaro che non si aspettasse una proposta del genere, la sua espressione diceva tutto. Squadrò per bene la ragazza davanti a lui, cosa che non aveva ancora fatto da quando era entrato; notò i capelli rossi legati in uno chignon disordinato con parecchie ciocche sfuggite all’elastico che le contornavano il viso, gli occhi verdi spenti da molto tempo ma era chiaro che per un certo periodo avessero brillato come pochi altri, contornati da folte ciglia ancora più marcate da un accenno di mascara, il septum al naso e il fisico di una ragazza nella norma.
“Okay.” Fu la sua unica risposta. La ragazza alzò un angolo della bocca, soddisfatta.

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Capitolo 2
*** c a p i t o l o 2 ***


Lo so dentro sono complesso, un po’ staccato dal resto, scusa è vietato l’accesso.
Gemitaiz

“Ci conosciamo dai tempi del liceo, ma non siamo mai stati grandi amici…” spiegò meccanicamente, concentrata nel girare una delle sue sigarette speciali. Quando Artem aveva tirato fuori la questione di Hayden, Beverly si era chiesta se in qualche modo gli importasse o se volesse semplicemente fare conversazione per non far sembrare quella cosa troppo imbarazzante. “C’era una sorta di competizione, tra noi, entrambi vendevamo erba e ci litigavamo i clienti,” ridacchiò, per poi leccare la cartina sotto lo sguardo attento del ragazzo, che seguì il suo movimento come ipnotizzato, squadrando il suo profilo.
I due erano seduti ai piedi del divano, a terra, l’uno accanto all’altra, e ormai Beverly per Artem era diventata come un quadro in una galleria d’arte, avrebbe potuto passare ore intere solo a studiare i suoi movimenti, il suo battito di ciglia e le ciocche di capelli davanti al viso che si spostavano al ritmo del suo respiro lento e rilassato. Era affascinato da lei; non era solo il suo aspetto, non era molto diversa da tante altre ragazze, ma già dal momento in cui gli aveva chiesto di restare – tanto l’aveva stupito la piega che aveva preso la situazione – non aveva potuto fare a meno di restarne incantato.
“Ed era divertente?”
“Perché lo chiedi?”
“Perché stai ridendo.”
“Mh…” le sfuggì un’altra risatina, mentre portava il joint alla bocca e lo accendeva con vecchio clipper mezzo scarico, sputò il fumo e gettò all’indietro la testa, “A quei tempi non lo era, ma ripensandoci mi fa ridere quanto tempo abbiamo sprecato a farci la guerra mentre potevamo unirci e fare un sacco di soldi.” Rispose tenendo gli occhi chiusi, Artem la imitò, vedendola fare un altro tiro per poi passargli il joint. “Solo per i soldi?”
C’era una sfumatura che alla ragazza non era piaciuta in quella domanda. Le stava dando della materialista? O voleva arrivare a qualcos’altro? Sicuramente voleva sapere di più sul suo rapporto con Hayden, altrimenti che cosa?
“Beh sì. Se si parla di rapporto, ora come ora non mi pento del tutto di non essere stata sua amica dal liceo, forse avrei evitato qualche amicizia superficiale ma non mi sarei divertita abbastanza, in ogni caso non c’è nessun altro motivo. Siamo amici.”
Preferì essere chiara, Artem la stava guardando con gli occhi di chi ha a che fare con una traditrice e sta prendendo parte al tradimento, ma la risposta lo fece impercettibilmente rilassare, Hayden non era il ragazzo di Beverly e dunque lui – qualunque cosa fosse accaduta – non avrebbe fatto un torto a nessuno. Era sempre stata quella una delle principali preoccupazioni di Artem: non invischiarsi in affari pericolosi; lo spaccio di droga non era compreso, del resto chi mai avrebbe potuto contestargli una piccola dose di Mary Jane?
Non era rischioso perché lui non aveva a che fare con i giri più importanti, e lui voleva questo, non correre rischi, o almeno non più del necessario.
“Credevo che fosse il tuo ragazzo, o qualcosa del genere.” Fece un lungo tiro, assaporando quell’aroma inebriante. Beverly rise di gusto, prendendo il joint che lui le stava porgendo, “Nah, non mi piace Hayden in quel senso.” Aspirò a pieni polmoni, evitando lo sguardo del ragazzo, che stava cercando il suo freneticamente, come se in quel momento guardarla negli occhi fosse di vitale importanza. Beverly non credeva che lo fosse, e non le andava di far svoltare quella conversazione nella via di qualcosa di più profondo, accettare che i loro sguardi si incrociassero equivaleva a dare ad Artem il permesso di frugare nella sua anima, di scavare un po’ più a fondo, di cercare di infilarsi nella sua mente complessa e di cacciarne fuori qualunque dettaglio personale che potesse interessargli. Non le andava, mettersi a nudo in quel modo con una conoscenza di Hayden era un suicidio, non voleva che i due parlassero di lei mentre non c’era, non voleva che Artem si prendesse degli spazi che non gli appartenevano e soprattutto che non gli spettavano.

“Tu piuttosto hai un nome strano… Artem.” Esordì ad un tratto, il suddetto scrollò le spalle distrattamente, “Non è strano, è russo.”
“Tu sei russo, Artem?”
“Beh sì, Beverly.”
“Non mi avevi ancora chiamata per nome.” Sorrise quasi dolcemente, con gli occhi semichiusi e la testa pesante per via dell’erba che iniziava a fare effetto.
Il filtro iniziò a bruciare e Beverly spense il joint schiacciandone la punta contro il pavimento, “Ne faccio altri due.” Sentenziò dopo aver fissato il vuoto per qualche istante, prendendo il tabacco che aveva lasciato sopra il divano insieme alle cartine lunghe, alla carta filtro e al vecchio posacenere che era diventato il contenitore dove impastava. Artem la guardò attentamente, “Non c’è bisogno che la dividi con me, la tua erba, io ho la mia.”
Beverly non rispose mentre armeggiava col grinder per tritare l’erba. Artem pensò che non l’avesse sentito ma non era così, lui non lo sapeva ma il fatto di dividere con lui la sua sostanza preferita non era perché pensava che lui non ne avesse o per gentilezza, ma semplicemente perché voleva che rimanesse, voleva che il ragazzo avesse un buon motivo per restare con lei. Quell’affermazione infatti la spiazzò, possibile che per lui andasse bene restare con lei anche se fumava la sua roba? Non voleva niente in cambio della sua compagnia? Magari ambiva a qualcos’altro, qualcosa che Bev non gli avrebbe certo dato, non dopo averlo visto quel giorno per la prima volta. Decise però di non esternare quel pensiero, non voleva sembrare presuntuosa né tantomeno lasciargli un vero motivo per andarsene, si limitò a sorridere e ad alzare le spalle, “Fai come vuoi, per me comunque è un piacere.”

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Capitolo 3
*** c a p i t o l o 3 ***


Un tornado nella testa, e ci sei soltanto tu.
Tedua

Artem era una delle persone più tranquille che Bev avesse mai conosciuto. Era pacato, gentile ma a volte distaccato, non era un tipo timido ma gli piaceva stare sulle sue, una cosa che lei apprezzava anche se in passato si era circondata di amicizie frivole a causa del suo amore per la compagnia. Artem non avrebbe mai fatto nulla del genere.
Bev stava sul balcone del suo appartamento, fissando il sole che tramontava lentamente, lasciando spazio ad un cielo scuro e ricoperto di stelle; aveva una sigaretta tra le dita e lo sguardo perso. Pensò che sarebbe stato molto poetico fissare il tramonto con aria assente mentre l’immagine di Artem sfiorava dolcemente i suoi pensieri, ma quello era un atteggiamento da persona innamorata e Bev non si riteneva innamorata di Artem, un piccolo sorriso le increspò le labbra, non era certamente innamorata ma non era neanche detto che non pensasse mai a lui. Erano diventati buoni amici, ormai, e non ne aveva ancora parlato con Hayden… era un bel po’ che non sentiva il suo migliore amico, quell’affare che l’aveva costretta a comprare dal suo nuovo amico era andato alla grande e da quel giorno Hayden aveva iniziato lentamente a sparire, stava lontano dal centro e non passava mai da Bev, neanche per salutare.
Ehi… non so che stai facendo o come stai, potresti anche farti sentire, ogni tanto. Vorrei parlare con il mio migliore amico, credo di averne bisogno. Se puoi passa domani sera, ci vediamo.
Beverly ebbe l’impressione che quel messaggio sarebbe rimasto nella segreteria di Hayden senza essere ascoltato molto a lungo, lo sentiva allontanarsi ma non capiva bene se il vuoto all’altezza dello stomaco fosse dolore o semplicemente la sensazione di solitudine mista ad un’apatia che aveva iniziato ad appartenerle sempre di più, da qualche anno a quella parte.
Hayden non rispose, quella sera. Non lo fece neanche il giorno dopo né quello dopo ancora, era completamente sparito e lei non sapeva più cosa fare. Avrebbe dovuto cercarlo di più? Pressarlo affinché le rispondesse? Ma poi a cosa sarebbe servito? Avrebbe ottenuto un Hayden infastidito e ancora meno motivato a risponderle, in effetti tutto ciò che poteva fare era aspettare, non pensarci e sperare che lui stesse bene e che non fosse nei guai, perché cos’altro le importava? Non voleva che le desse attenzione solo per l’egoista motivazione di volere qualcuno con cui parlare, voleva anche che lui la rassicurasse perché nel campo in cui lavorava non c’era nessun tipo di sicurezza, se non quella di finire dietro le sbarre al minimo sentore di colpevolezza. Bev questo lo sapeva molto bene.
Spense la sigaretta e la lanciò giù dal balcone, osservandola mentre precipitava per poi colpire il marciapiede. Girò sui talloni e si diresse all’interno dell’appartamento, cadendo sul divano, il cellulare era ancora nella veranda del balcone – l’aveva lasciato lì in modalità silenziosa, per far sì che il suo migliore amico capisse cosa intendeva lei per preoccupazione – e non aveva intenzione di alzarsi per andare a prenderlo. Accese la tv e diede uno sguardo superfluo al telegiornale, non le importava più di tanto di ciò che accadeva intorno a lei, consapevole che nell’inutilità della sua esistenza non avrebbe potuto fare niente per cambiare le cose. Preferiva non sapere. Lasciò perdere la tv, non c’era nulla di interessante e comunque non le piaceva stare a fissare uno schermo.

Un piccolo autogrill nel bel mezzo del nulla illuminava la strada, i lampioni non servivano a molto e l’enorme insegna a neon decisamente sproporzionata rispetto alla struttura semplice e di modeste dimensioni svolgeva perfettamente il loro lavoro. Beverly scese dall’autobus, facendo il suo solito tratto a piedi con una sigaretta tra le dita e una bustina di plastica contenente un pezzo di fumo infilata nel reggiseno, la cosa migliore di fare la notte era proprio che non c’era quasi nessuno in giro e lei poteva tranquillamente fumare. Entrò dal retro e s’infilò il più velocemente possibile nel bagno per mettere l’uniforme.
“Buonasera.” Salutò il suo capo con un tono piatto, un tono che faceva chiaramente capire quanto non lo sopportasse ma quanto tenesse a quel lavoro – non avrebbe avuto un soldo, altrimenti. “Buonasera, Beverly.” L’uomo pelato e sulla cinquantina la squadrò da capo a piedi con un sorrisetto malizioso, e poi puntò gli occhi sui suoi, era inutile negarlo: si sentiva costantemente in pericolo, da sola nel locale con quell’uomo, le lasciava sempre occhiate lascive prima di andarsene per tornare a casa dalla sua famiglia, sua moglie non sarebbe stata felice di ciò che suo marito pensava della giovane dipendente.
Il suo turno andava in questo modo tutte le sere: aspettava che il capo si allontanasse con la macchina, controllava che non avesse dimenticato nulla – in caso tornasse per prendere qualcosa – e poi andava nel bagno, approntava il joint con le orecchie ben tese per evitare di far aspettare troppo i possibili clienti, dopodiché usciva dalla porta sul retro e accendeva la prima della nottata, sempre con attenzione ai rumori delle macchine che si parcheggiavano di fronte all’autogrill.
Quella sera non era molto diversa dalle altre, stava pulendo il bancone con un vecchio straccio e la musica della piccola radio a farle da sottofondo, come al solito la pace della notte regnava e Bev sperava che non giungesse nessuno come di consueto, ma il rumore di un’auto che si parcheggiava là vicino la fece sospirare rassegnata, avrebbe dovuto servire chiunque fosse appena giunto lì. Dalle vetrate poté vedere una jeep nera, da essa scesero cinque ragazzi – probabilmente della sua età – distolse lo sguardo, anche se le era parso di notare dei capelli biondi che conosceva bene.
I suddetti entrarono facendo un gran fracasso, spalancarono la porta e uno di loro fece cadere uno degli sgabelli posizionati davanti al bancone, nel tentativo di sedersi. Beverly lo guardò ma fece finta di nulla, “Buonasera, cosa posso servirvi?” chiese con il suo finto tono cordiale, quello riservato ai clienti. Finalmente, nell’attesa della risposta, scrutò i ragazzi e quasi non sobbalzò. Gli occhi castani, i capelli biondi, non si era sbagliata, quello era proprio Artem e i ragazzi con lui dovevano essere suoi amici. “Ciao…” lo salutò in un mormorio, sorridendo, lui si avvicinò al bancone e la guardò per qualche istante, “Ehi. Non sapevo lavorassi qui.”
“E io non sapevo che tu avessi degli amici così poco sobri.”
“Hanno solo bevuto un po’ troppo, ci prepari un caffè e qualcosa da mangiare?”
“Sì, certo. Mentre i tuoi amici mangiano possiamo… parlare.” Propose assottigliando le labbra, il ragazzo annuì subito, “Certo.”
Artem la perseguitava in un modo stranamente piacevole. Era in ogni suo pensiero, in ogni sua parola ed ora anche nel suo lavoro. Non avrebbe potuto passare un’altra nottata nell’autogrill senza covare, nel più piccolo angolo del suo cuore, la speranza che lui e i suoi amici ubriachi arrivassero e quegli occhi castani le migliorassero l’intera notte.
Bev si spostò nel retro del locale, aveva acceso un’altra sigaretta dopo aver servito i ragazzi ed era finita lì, attendendo e sperando che il ragazzo avesse capito l’antifona e che la stesse raggiungendo a breve.
“Ehi Artie! Che fai? Ci lasci?” la voce strascicata ma visibilmente divertita di Cory lo bloccò nei suoi passi, Artem si voltò per guardarlo ridendo, “Sta’ zitto, sei ubriaco.” Fu la sua risposta, e l’amico rise subito dopo: “Meglio ubriaco che come te!”
Ma Artem lo ignorò, o almeno fece finta, la sua allusione lo accompagnò in ogni passo verso il retro dell’autogrill, era davvero meglio essere ubriachi piuttosto che innamorati? Beh, quello lo stava pensando Cory, ma lui non era innamorato della ragazza che, di fronte a lui, stava gettando a terra un mozzicone di sigaretta per spegnerla, il ragazzo pensò che in quel gesto c’era un accenno sconsolato, come se sperasse che prima dell’ultimo tiro lui arrivasse lì, ma il suo presunto ritardo non lo preoccupò, fu veloce a raggiungerla da dove stava in piedi, a qualche passo dalla porta. “Eccomi.” La affiancò e lei alzò lo sguardo, sorridendogli, “Eccoti. Come va?”
“Forse sono troppo sobrio, ma ho una marea di pensieri per la testa. Tu?”
“Ah sì? E perché non hai bevuto abbastanza?”
Scrollò le spalle, “Non lo so, non mi andava, forse. Forse non volevo smettere di pensare.”
“Dipende tutto da cosa stavi pensando.”
“A te. Stavo pensando a te.”
I loro sguardi si incontrarono immediatamente, quello di Artem si era alzato perché voleva leggere l’espressione nel volto di Bev dopo la sua affermazione e quello di lei aveva fatto lo stesso per puro stupore, di fatto i suoi occhi verdi erano spalancati. Ma quella non era una dichiarazione d’amore, Artem non avrebbe iniziato a dirle che lei riempiva le sue giornate, che si incastrava perfettamente anche negli spazi più piccoli tra un pensiero ed un altro, che la sua voce era il ricordo più vivo che si ripresentava ogni giorno. Lui non faceva quelle cose, non aveva mai voluto farle e sapeva che comunque lei avrebbe capito.
Beverly lo guardò quasi come se non lo vedesse, per poi tornare alla realtà, doveva trovare qualcosa da dire, una risposta ben pensata che gli facesse intendere che anche lei pensava spesso a lui ma senza doverlo dire esplicitamente. “Ah…” mormorò, “Anche io.”
“Anche tu, cosa?”
“Anche io stavo pensando a te.”

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Capitolo 4
*** c a p i t o l o 4 ***


Respiriamo ancora
Che ne sa ‘sta gente di come funziona?
Mi porto appresso i miei problemi
Il peso dei miei gesti estremi.
Noyz Narcos

Due giorni erano passati e, da quella fatidica conversazione, Artem e Beverly non si erano scambiati neanche una parola. Bev non poteva far altro che chiedersi se fosse stata lei a rompere quel qualcosa che si stava creando tra loro o fosse stato Artem.
Aveva vissuto da sola per molto tempo, non le capitava raramente di sentire il bisogno di compagnia, e quando voleva qualcuno con cui confidarsi sceglieva Hayden, che era sempre pronto ad ascoltare ogni sua lamentela o confidenza, ma anche a condividere semplici momenti in cui il silenzio prendeva il posto delle loro voci e gli sguardi complici quello delle parole. Hayden era come un fratello, per lei, era uno dei tanti pezzi del suo puzzle e sembrava combaciare incredibilmente bene con gli altri.
Ma la delusione, dopo qualche giorno dall'ultimo messaggio che lei gli aveva inviato, stava sovrastando l’apatia e il senso di vuoto, li stava eliminando. Era delusa perché non si capacitava di non essere più nei pensieri del suo amico, tanto dal non volerle rispondere neanche ad un semplice messaggio.
Beverly era sul divano, a gambe incrociate, i capelli più scompigliati che mai e un joint acceso in mano. Le occhiaie che le solcavano il viso erano il segno evidente di un’altra notte senza sonno, il viso pallido rappresentava il nulla che aveva mangiato in quei due giorni e il joint voleva dire solo una cosa: porre rimedio a quei problemi fisici con lo speciale bonus di dare pace anche alla sua mente, costretta a lavorare incessantemente dalla paranoia. Il cellulare, posato accanto a lei, squillò, il mittente della chiamata era Hayden, la ragazza osservò lo schermo per un po’ prima di decidersi a rispondere.
“Pronto?”
Ehi… Come va?” la voce di Hayden sembrava quasi imbarazzata, e Bev non ricordava di averlo mai sentito così. “Bene, suppongo. Tu?” chiese, ma il tono della sua voce era quello di una persona poco interessata alla risposta. Con la mano libera si portò il joint alle labbra e lo accese, facendo un lungo tiro. “Bene. Mi dispiace molto per questi giorni, ma non potevo proprio cercarti. Le cose si sono fatte serie.
“In che senso?”
Non ne posso parlare al telefono. Ci vediamo?
“Ah… sì, certo. Se puoi passare stasera va bene.”
Okay. Poi se vuoi ti accompagno a lavoro.
“Va bene, ci vediamo dopo.”

Il joint era spento, fermo nel posacenere. Beverly stava mangiando da un pacchetto di patatine, fissando il vuoto, non sapeva con precisione quando sarebbe arrivato Hayden, quindi le sue orecchie erano comunque tese per percepire il suono del campanello.
Bev ci mise un po’ a processare cosa stava per accadere, il suo migliore amico era sparito da un pezzo e si era preoccupata talmente tanto da credere di non vederlo mai più, dunque l’idea che stesse per arrivare e che avrebbero parlato era difficile da razionalizzare in quel momento, sotto l’effetto confusionale di quel joint, che Hayden avrebbe sicuramente preso dal posacenere, acceso e finito in pochi tiri.
Il campanello suonò, la prima volta Bev fece finta di niente, continuando ad osservare la parete davanti a lei, la seconda volta si alzò in piedi, la terza era ormai vicino alla porta e stava premendo il pulsante che avrebbe aperto il cancello che dava alla strada. Contò meticolosamente il tempo che l’amico avrebbe impiegato per salire le scale – il solito minuto e mezzo, Hayden non era allenato e per di più fumava – e al primo rumore di passi sul pianerottolo aprì la porta dell’appartamento. “Ciao.” salutò con un sorriso, il ragazzo la strinse in un forte abbraccio senza alcun preavviso, alzandola leggermente da terra e minacciando di romperle una o due costole, “Ciao sorellina,” le diede un’ultima vigorosa stretta e poi la lasciò andare, ricambiando il sorriso, che ormai si era allargato nel volto di Beverly.
Hayden si fece spazio nel disordine della casa dell’amica andandosi a sedere comodamente sul divano, vide il posacenere con il joint e fece esattamente come previsto dalla migliore amica: accennò un sorriso, lo prese, tirò fuori un clipper nuovo di zecca dalla tasca dei pantaloni della tuta che indossava e lo accese, lasciandosi andare sul divano in modo che le spalle aderissero perfettamente allo schienale.
“Possiamo parlare di queste cose serie?” chiese, prendendo posto accanto a lui. Il ragazzo chiuse gli occhi e sospirò, “Ho incontrato Jerry, quel giorno in cui ho fatto venire qui Artem.”
“Hai incontrato Jeremy Morris? Credevo che fosse partito a New York…”
“Infatti è tornato due mesi fa. Comunque ha iniziato a vendere altro per le persone ai piani alti, non so come ma è riuscito a farsi un nome e ora tutti lo cercano.” sputò il fumo, lo sguardo interrogativo di Beverly diceva tutto, era chiaro che non capiva cosa potesse c’entrare Hayden in quella storia, aveva giurato che non avrebbe mai venduto morte, così erano soliti definire le droghe sintetiche e pesanti.
“Lo so che ho rotto il giuramento ma mi hanno pagato un sacco di soldi, Bev. Lo sai come se la sta passando mia sorella, devo aiutarla e l’unico modo è stato chiudere con quello là, non so come avrei fatto se Jerry non mi avesse mandato da lui. Adesso posso pagare l’intervento, forse Harlow guarirà…”
Beverly non disse una parola, neanche un fiato. Hayden aveva rotto il giuramento, stava vendendo morte alle persone, ciò che faceva non curava più l’interesse suo e del cliente ma solo ed esclusivamente il suo. Poi pensò ad Harlow, a soli sedici anni la sua vita rischiava di essere spezzata da un momento all’altro se non si fosse sottoposta al più presto a quell’intervento. La mente di Beverly venne affollata dalle domande: vale la pena rinunciare ai propri principi per qualcuno che si ama? È importante quando una scelta ha degli effetti negativi su delle persone se può salvare qualcuno che si ama?
Ad un tratto lei annuì, “Hai fatto la cosa giusta, Hayden. Se puoi salvare tua sorella fallo.”

 

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Capitolo 5
*** c a p i t o l o 5 ***


Delle volte parlo, delle volte meno
Altre volte piango, altre volte tremo
Il silenzio è oro, ma se lo sprechi è zero.
Lazza

La decisione di Hayden arrivò più velocemente del previsto, e questo portò Beverly a pensare che forse il suo parere non gli interessava sul serio, in effetti aveva capito che non le stava chiedendo il permesso, la stava informando su ciò che avrebbe fatto e che al momento stava facendo. Forse il patto tra lei e Hayden non era rilevante nella stessa quantità per entrambi, il principio dietro al patto era uno dei passi fondamentali della bibbia personale di Bev, mentre per Hayden era più un modo per farla contenta, un contentino presentato come una promessa, una delle tante promesse non mantenute.
Bev ci aveva riflettuto su meglio quando il suo turno all’autogrill era iniziato e Hayden era tornato a casa, con la promessa di tornare dopo un’ora. Di cosa si stava preoccupando? Il suo migliore amico non faceva uso di quella robaccia, la vendeva e basta, ormai le regole del patto erano andate a farsi benedire: anche la regola sulla vendita era andata, persa ed ignorata, tutto per un motivo, ovvero Harlow.
Mentre lui non c’era era riuscita a mettere da parte il suo pensiero egoista, la possibilità di salvare la sorellina di Hayden era più importante del patto.

Hayden tornò dopo un’ora come promesso, prese una birra e girò tre joint tra un sorso e l’altro, bevendo l’alcolico come fosse un leggero drink da bar e non una squallida birra annacquata. Si prospettava una serata davvero povera di clienti, per Bev.
Era già previsto che non sarebbe venuto nessuno, Bev non diede neanche il tempo all’amico di alzarsi dallo sgabello che prese un joint e camminò velocemente verso l’uscita sul retro.
Posta davanti al muro bianco sporco c’era una vecchia panchina di plastica, anch’essa della stessa tonalità della parete, accanto si trovava un tavolino circolare in ferro battuto, sopra un piccolo portacenere in vetro, annerito sul fondo dai mozziconi di sigaretta. Su quella panchina prese posto Beverly, proprio all’estremità per la conveniente vicinanza con il posacenere, Hayden la raggiunse poco dopo, un joint nella mano sinistra e uno tra l’indice e il medio della mano destra, pronto per essere acceso.
Blaze, blaze up the fire! And look down the road. Blaze, blaze up the fire! For them who never bow.” canticchiò Bev, accendendo il joint con il ritmo e le parole del bridge di “Dance Inna Babylon” nella testa. Hayden sorrise, e canticchiò la seconda parte della prima strofa, le parole che più rappresentavano i due amici in quella canzone rappresentavano anche il patto, in qualche modo, e rappresentavano alla perfezione il loro rapporto.
With you here, with no fear, I know it could be better.” disse, il ragazzo si sedette accanto a lei e le mise un braccio attorno alle spalle, fece un lungo tiro e sputò il fumo, poi volse teatralmente lo sguardo al panorama davanti al loro, il retro di un autogrill malandato e il cielo coperto di stelle, “Pensandoci bene, ma come l’ho trovata una come te?”
“Siamo anime affini, caro, era destino trovarci.” affermò con un’aria quasi seria, la risatina che lasciò andare poco dopo fece cadere completamente la facciata. “Ma ti rendi conto che ti sopporto fin dal liceo? Prendiamoci una pausa, questa relazione mi opprime!” cinguettò nella pessima imitazione di una ragazzina arrabbiata, Bev scoppiò a ridere e lo guardò inarcando un sopracciglio, “Che idiota…” sussurrò, assicurandosi che il ragazzo avesse sentito comunque.

A Los Angeles non ci sono i presupposti per uno scenario triste. Bev quel giorno avrebbe voluto che piovesse, avrebbe apprezzato un temporale di quelli che ti costringono a chiuderti dentro casa, quelli con i fulmini che illuminano il cielo per una frazione di secondo e i tuoni che squarciano l’aria, ma no, il sole brillava anche quel giorno, quel giorno in cui era accaduto il peggio.
La notizia era giunta come un fulmine a ciel sereno, ma Bev meditò sul fatto che la cosa più stupida fosse stata pensare che, in primo luogo, ci fosse un cielo sereno nell’ambiente in cui lavorava Hayden. Il cielo non era mai sereno, c’erano sempre grosse e nere nuvole ma non pioveva quasi mai, e quando succedeva la pioggia inondava e distruggeva tutto.
“Beverly, perché non mangi qualcosa?” era la voce di Artem, in genere il suo tono pacato celava qualunque sua emozione ma la preoccupazione nelle sue parole era facilmente percettibile. Erano giorni che Bev non mangiava quasi nulla e Artem, che dopo il fattaccio aveva deciso di farle compagnia a casa sua, continuava a pressarla per far sì che non si lasciasse completamente andare, anche se ormai era sulla buona strada. “Non le voglio le tue insalate.” Rispose. Certo, Artem non aveva fatto i conti con il fatto che Bev detestava il cibo sano e non lo trovava appetitoso neanche dopo giorni passati quasi a digiuno.
Il ragazzo, che non aveva più la minima idea di come aiutarla, si passò una mano tra i capelli e sospirò, “Ti faccio un joint e ordino la pizza, va bene?”
“Non lo so…” farfugliò.

 



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